LE ALI DELL’ANIMA Dal neurone al pensiero Guido Brunetti Le Ali dell’Anima. Dal Neurone al Pensiero © 2015 Guido Brunetti, Roma Edito da Neuroscienze. net www. neuroscienze. net Il presente libro è stato scritto per essere distribuito gratuitamente online attraverso la rivista Neuroscienze.net e non è in vendita. 2 Prefazione di Vincenzo Rapisarda docente di psichiatria, Università di Catania Il titolo del libro, “Le ali dell’anima. Dal neurone al pensiero”, è interessante e poetico, a conferma della capacità dell’autore di combinare sapere umanistico con sapere scientifico. In virtù di questo paradigma euristico, Brunetti è stato definito da neuroscienziati di fama mondiale, come Raffaello Vizioli ed Edoardo Boncinelli, un “umanista-scienziato” e “uno dei pochi autori in grado di scrivere un libro sul cervello, la mente e la coscienza”. Presentare il suo nuovo volume è per me cosa assai gradita, tenendo conto per l’appunto delle sue non comuni competenze scientifiche, filosofiche, etiche e, come è stato sostenuto da altri, della sua “cultura universale”. Cervello e mente possono essere studiati scientificamente? Il tema è un argomento di ricerca di primissimo piano nelle neuroscienze e nella presente 3 opera, e ripropone il problema ancora misterioso e non risolto del rapporto tra cervello e mente. Le concezioni di tanti filosofi e scienziati dell’antichità e di oggi vengono esposte e commentate con straordinaria abilità. La divisione poi tra cultura scientifica ed umanistica, sostenuta da molti, non è accettata da Brunetti, il quale auspica un necessario superamento della diatriba e la nascita di “una terza cultura”, come aveva già sostenuto C. P. Snow, per la mediazione tra scienziati ed umanisti e la ricerca di nuove interazioni per unificare la conoscenza. L’autore difatti anche in questo testo riesce a fondere con grande perizia le due culture e sostiene, d’accordo con G. S. Gould ed Edelman, che letteratura, arte, musica, poesia, psicanalisi, antropologia, linguistica possono coesistere con le neuroscienze. Infatti, rileva l’autore, di recente sono nate molteplici discipline, quali neuroetica, neuroestetica, neuroteologia, neuroeconomia, neurogiurisprudenza e neuropolitica. Questo volume spiega anche le recenti, brillanti scoperte sugli effetti di sostanze, quali ossitocina, dopamina, serotonina e oppioidi endogeni, sull’evoluzione del cervello, e su altri importanti ambiti, come stati d’animo positivi, forme sociali e morali, legame madre-bambino, attaccamento, empatia, altruismo, cura dei piccoli e cura degli altri, benessere, stati d’ansia e panico. Tali sostanze inoltre riducono la 4 stimolazione stressogena, il sistema della paura e il dolore, e producono vari benefici immunitari. Di qui, l’apprezzamento di Brunetti nei confronti del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” (DSM-5), definendolo la Bibbia degli psichiatri. Il cervello dell’uomo di 1500 centimetri cubici ha cento miliardi di neuroni, che si collegano tra di loro in modo diverso da un momento all’altro e produce un numero straordinario di stati mentali superiori a tutto il creato. A sua volta, il genoma umano con 30. 000 geni, composti da quasi tre miliardi di basi di DNA, si modifica con l’esperienza e l’apprendimento, pertanto anche i gemelli omozigoti sono diversi. Brunetti a questo proposito tra gli altri cita opportunamente Darwin ed Edelman. Alcol, cocaina, piombo, antiepilettici durante la gravidanza possono determinare nei bambini disturbi dell’apprendimento, depressione, schizofrenia, autismo, disturbi sessuali e morte nella culla per alterazioni biochimiche come sostenuto da Swaab. Mediante il brain imaging si è potuto stabilire poi che le esperienze spirituali, religiose e mistiche attivano aree cerebrali diverse ed in particolare l’area di gratificazione che contiene la dopamina. Lo sviluppo delle neuroscienze secondo Brunetti produrrà effetti benefici non soltanto in medicina e psichiatria, ma sull’umanità, sullo sviluppo mentale e 5 sociale del bambino e in specie sulle persone con malattie cerebrali. L’uso dell’alcol e delle droghe si è esteso anche nei giovani e nei ragazzi (un milione di ragazzi e ragazze tra 14 e 18 anni). È nata una generazione, figlia di una cultura permissiva, che si trasmette in Internet e occupa molto tempo. Sono i “nativi digitali” interconnessi, multitasking che usano il computer, il telefono da tasca e strumenti di nuova generazione. Vi è distacco profondo, sostiene Brunetti, tra la vita digitale (virtuale), dove tutto è permesso, e la vita reale, fatta di senso di responsabilità, partecipazione, norme e doveri. Tamatki Saito nel 1998 ha introdotto il termine “hikikomori” per indicare “uno stato di evitamento del contatto sociale”. Si tratta di una nuova categoria diagnostica chiamata “nevrosi da ritiro sociale” descritta per la prima volta nel 1978 da Kashara. Sono situazioni che possono produrre dipendenza patologica, compulsioni, ansia, depressione e scarso profitto scolastico. In Italia, vi sono due milioni di soggetti connessi ad Internet e non si sono formulate riforme, come negli USA, per proteggere bambini e ragazzi dei due sessi dalla aggressività, sessualità e pornografia. Andreoli afferma che il bambino televisivo e il ragazzo del web diventano obesi, impacciati nei movimenti e hanno difficoltà a comunicare in famiglia, a scuola e con gli amici. La scuola, afferma Brunetti, deve avviare un nuovo modello pedagogico e 6 introdurre nuovi sistemi didattici fondati sull’empatia, la generosità, l’altruismo e la ricerca. Nell’ultimo capitolo del volume, l’autore si occupa delle recenti e future ricerche sul cervello con la “sinfonia” dei neuroni che realizza una moltitudine di comportamenti: atti di creazione, di distruzione, scoperte, riflessioni, seduzioni, amore, odio, gioia, tristezza, egoismo, solidarietà. Nelle neuroscienze vi sono infine “localizzazionisti”, secondo cui le distinte funzioni cerebrali dipendono da aree del sistema nervoso specializzate e separate e i “distribuzionisti”, per i quali il cervello umano fa affidamento su “popolazioni” di neuroni multitasking, in grado di svolgere molti incarichi contemporaneamente e distribuiti in molti punti diversi, per effettuare ognuna differenti funzioni cerebrali. Le recenti scoperte delle neuroscienze sono a favore del modello “distribuzionista” per realizzare la “vera anima del cervello”. Leggere e riflettere su questo ricco, aggiornato e appassionante libro di Brunetti, è veramente un giusto consiglio, non solo per i medici e gli psichiatri, ma anche per il lettore non specializzato, i genitori e gli insegnanti, i quali vorranno conoscere e comprendere queste nuove acquisizioni per seguire e valutare responsabilmente lo sviluppo normale o anormale dei 7 ragazzi, ed espandere la loro visione del mondo, dell’essere umano e della società. Si tratta di un’opera che ci offre, con stile gradevole, rigoroso e sintetico mai disgiunto da tensione etica, una panoramica sui formidabili sviluppi della nuova, affascinante scienza del cervello e della mente. Sono argomenti che hanno una forte attrazione e rappresentano un meraviglioso campo di ricerca sempre alla scoperta di insolite, illuminanti frontiere. Vincenzo Rapisarda 8 SOMMARIO PREFAZIONE INTRODUZIONE DALL’ANIMA AL CERVELLO ALLA MENTE ALLA SPIRITUALITÀ L’ANIMA E I SUOI TORMENTI L’ARTE E IL MONDO DELL’INCONSCIO COME, QUANDO E PERCHÉ LA MENTE EMERGE DAL NEURONE ALLA MORALE LA BIBBIA DEGLI PSICHIATRI C’È UN ALTRO CERVELLO? LA DONNA NEL TEMPO: LETTERATURA, ARTE, CINEMA, PSICOANALISI E NEUROSCIENZE COME SI EVOLVE LA MENTE AMBIENTE, GENI, CERVELLO BASI NEURO SCIENTIFICHE DELLA POESIA E DELLA MUSICA PERCHÉ SI SUCCHIA IL SENO? CAPIRE IL CERVELLO PER CAPIRE LA MENTE OCCHIO-OCCHIO, VOCE-VOCE, PELLE-PELLE 9 LA CAPACITÀ DI CAPIRE SE STESSI E GLI ALTRI LA DEPRESSIONE DELLA DONNA ALLA CONQUISTA DELLA FELICITÀ L’UNICITÀ DELLA PERSONA, SPLIT BRAIN, MORALE E RELIGIONE ALLA RICERCA DELL’ANIMA NEL CERVELLO GLI STATI SOGGETTIVI POSSONO ESSERE CONOSCIUTI SPERIMENTALMENTE ALLE ORIGINI DELLE EMOZIONI E DEGLI AFFETTI PER UNA EPISTEMOLOGIA BASATA SUL CERVELLO NUOVE PROSPETTIVE NEL CAMPO DELLE NEUROSCIENZE IL PIACERE E LA GIOIA, IL DOLORE E LA TRISTEZZA: TUTTO DAL CERVELLO IL CERVELLO, UNO E TRINO LA PROSPETTIVA INTERPERSONALE IN NEUROSCIENZA DOVE VA L’ADOLESCENZA? IL FENOMENO DELLA DIPENDENZA DA COMPUTER UNA NUOVA FRONTIERA RIVOLUZIONARIA BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 10 Introduzione Dal dualismo filosofico al monismo neuroscientifico. Le ali dell’anima. Gli uccelli come metafora dell’anima. Nel solco di altri nostri lavori, questo libro vuole essere un viaggio nel mondo affascinante del cervello, della mente e della coscienza, per analizzare e raccontare gli ultimi, formidabili progressi compiuti dalla scienza in questo campo. Sin da quando divenne autoconsapevole, l’uomo mosso dall’irrefrenabile sete di sapere cominciò- come concorda Rita Levi Montalcini- a esplorare la realtà, il globo terrestre, gli spazi arcani del cielo e delle stelle, e il suo cervello. Un cervello “sconfinato”, che non ha “Colonne d’Ercole”. Le facoltà umane, mentali e psichiche, sono infatti “il coronamento di circa cinquecento milioni di anni evolutivi” (Sperry), la risultante cioè di un lungo processo di sviluppo avvenuto in “quattro milioni di anni”, ovvero da quando il primo ominide ha messo piede nel Sahara. Gli straordinari sviluppi delle qualità intellettive hanno 11 conferito all’essere umano un potere quasi assoluto nel controllo del mondo. Oggi, l’ardua e meravigliosa impresa di conoscere la mente umana può essere vista come il simbolo della conquista del “vello d’oro” da parte degli audaci navigatori nella leggenda di Giasone. Attraverso gli eccezionali metodi di brain imaging, abbiamo la possibilità di “penetrare nei più reconditi recessi del cervello”, e di studiare e visualizzare le attività mentali, come la percezione, la memoria e il controllo motorio I nuovi strumenti di ricerca poi permettono sia l’identificazione di aree cerebrali dove si realizzano le funzioni mentali che la possibilità di “verificare in tempo reale” la dinamica dei processi anche di ordine superiore della mente nel corso di attività, quali il pensiero filosofico, il calcolo matematico e “ogni espressione di capacità creativa”. Queste scoperte sono di fondamentale rilievo per conoscere il mistero della mente, questione ritenuta la “grande sfida” della nuova scienza del cervello del terzo millennio. Oggetto sino al Novecento di speculazioni filosofiche, il sogno di penetrare nell’enigma del binomio mente-cervello è stato assunto dai neuro scienziati, con entusiasmo non senza una venatura di pessimismo. Un tema definito dal fondatore delle nuove neuroscienze, C. S. Sherrington, al di là della nostra portata. Risolvere questo mistero, per il neuroscienziato D. Hubel, è come il desiderio di chi 12 “ambisce di potersi sollevare da terra e librarsi in aria, facendo leva sulle proprie bretelle”. In realtà, le formidabili scoperte compiute in questi ultimi anni in materia, mostrano che il percorso è fecondo di notevoli prospettive. Evocando la bella immagine di Galilei, è da sperare che con il progresso neuroscientifico “ si sia per arrivare a veder cose a noi per ora inimmaginabili”. Come abbiamo detto, sino al secolo scorso, l’anima, la mente e il cervello sono stati al centro della riflessione filosofica, impegnata da sempre a indagare la natura umana, fornendo spiegazioni diverse. Dall’analisi delle molteplici teorie, emergono al riguardo due filoni ontologici: il primo è il dualismo, la credenza nell’esistenza di una realtà immateriale, l’anima, e di una realtà materiale costituita dal corpo. Il dualismo è alla base già del pensiero degli antichi Greci. L’altro principio è il monismo, teoria secondo la quale tutto ciò che nasce nella mente è “radicato nel cervello” (Panksepp). Come diremo nelle prossime pagine, la speculazione filosofica sulla mente nasce con la teoria di Platone sull’esistenza di un’anima, indipendente dal corpo e dunque immortale. L’anima è considerata il principio della vita, espressione delle attività spirituali umane, cognitive, affettive ed emotive, la realtà più alta e ultima. Nel pensiero moderno, il dualismo si ripresenta con Cartesio, il quale distingue in maniera radicale anima 13 (mente) e corpo (cervello). A partire da Cartesio e dal Positivismo, il concetto di mente e di coscienza intesa come mondo delle esperienze interiori comincia a prevalere sul concetto tradizionale di anima. Con l’avvento dirompente delle nuove neuroscienze alla fine del Novecento si verifica l’eliminazione dal campo della ricerca della nozione di anima. La scienza del cervello e della mente rifiuta un’impostazione metafisica e diventa una disciplina autonoma dagli ambiti che l’avevano in precedenza inglobata. La rivoluzione scientifica moderna in questo campo ha inizio circa quaranta anni fa con lo sviluppo delle straordinarie metodiche di brain imaging, della genetica e della biologia molecolare. La ricerca neuroscientifica si basa sull’idea che mente e cervello non siano due realtà distinte (dualismo), ma “identiche”. Rappresentano cioè una unica realtà, poiché ad ogni evento mentale corrisponde un evento neuronale (cerebrale). La grande sfida della nuova scienza del cervello e della mente è quella di scoprire come avviene questo prodigio, il mistero di come da un’entità materiale, il cervello, possa scaturire un’entità immateriale, la mente. Tutto ciò rende la ricerca sulla mente un’impresa sempre più affascinante. Una sfida ritenuta dai neuroscienziati la più grande e meravigliosa avventura mai tentata dalla specie umana. Conoscere il 14 cervello e la mente infatti è l’ultimo e più avvincente avvenimento riservato all’uomo. Riteniamo, d’accordo con autorevoli neuroscienziati, che nell’ampia e feconda varietà delle ricerche filosofiche e scientifiche non ci sia argomento più avvincente e intrigante di quello che indaga sul cervello e la mente. Tutto infatti nasce dal cervello, come giù aveva intuito il padre della medicina, Ippocrate. “È dal cervello e solo dal cervello- afferma- che nasce ogni nostro sorriso, gioia e piacere, tristezza e dolore, paure e preoccupazioni”. È il cervello che ci consente di pensare, sentire, percepire, distinguere il bello dal brutto, il bene dal male. È nel cervello che hanno dimora la follia e il delirio, e gli orrori che da sempre tormentano l’essere umano. Siamo ancora all’inizio, ma finora le scoperte sono meravigliose. Negli ultimi anni abbiamo appreso sul cervello e la mente più che nei 5. 000 anni precedenti. È in atto una “rivoluzione scientifica” destinata a “sconvolgere” non soltanto i metodi di diagnosi e cura in medicina e psichiatria, ma la nostra stessa visione del mondo, dell’uomo e della società, e le nostre millenarie concezioni, a partire dai sistemi filosofici. Il nostro dunque si presenta come un percorso stupefacente in una terra ancora sconosciuta, ma ricca 15 di sbalorditive frontiere e sorprendenti prospettive. Un viaggio, una Wilderness dell’anima. Abbiamo intitolato il nostro libro “Le ali dell’anima” a significare, usando un’immagine poetica, che l’anima si leva e quasi il cielo attinge. “Se usi la terra- dice Dio al profeta Levehòr – per creare un angelo, egli non sarà una creatura celeste, ma un uomo. Egli salirà sul monte della vita e guarderà lontano, oltre l’orizzonte e mai ricorderà la sua origine, ma una cosa sola lo renderà elevato e al di sopra di ogni altra creatura: le ali dell’animo”. Tutti i figli di Diorecita un canto afro-americano- hanno le ali, che si librano verso il mistero e l’immensità del creato. Nell’antichità, gli uccelli rappresentavano la metafora dell’anima che sale nel cielo, e sono presenti nel simbolismo, nell’arte e nella cultura di ogni tempo (Dehaene). Nell’antico Egitto, un uccello dalla testa umana simboleggiava l’anima immateriale e immortale, la quale dopo la morte s’involava verso l’oltretomba. Anche nelle opere dell’Induismo, l’anima è rappresentata come una colomba che vola nel cielo. Colombe dalle bianche ali raffigurano nel Cristianesimo l’anima, lo Spirito Santo e gli angeli. Dante nel Purgatorio paragona l’anima all’angelica farfalla. Gli uccelli come anima, in sostanza, appaiono come una “metafora universale” dello Spirito. Nel corso del sonno, il pensiero è attivo e continuaafferma Jouvet- una intensa attività, “quasi come 16 durante la veglia”. Durante i sogni, l’anima sembra volare “ verso luoghi e tempi lontani”, cioè libera come un passero. Platone parla della “bellezza dell’anima”, espressione che ricorre in Plotino, nella letteratura mistica e in Rousseau. “Anima bella” è poi l’immagine usata da Schiller per indicare l’ideale di un’anima non solo “virtuosa”, ma “graziosa” e in sintonia con la norma etica. L’anima- sottolinea Goethe- è un impulso che “mi conduce e mi guida”. Kant, Hegel e il Romanticismo danno molto rilievo all’anima intesa come coscienza che vive “nell’ansia di macchiare con l’azione e con l’esserci l’onestà del suo interno”. Delicata è inoltre la raffigurazione dell’anima espressa dal filosofo Adriano: animula vagula blandula (piccola anima, dolce e vagabonda), ospite e compagna del corpo, dalla quale partono, per Melville, “tutte le vie dello spirito”. L’anima come essenza della natura umana è teorizzata da Socrate. Secondo il filosofo greco, l’uomo deve occuparsi soprattutto della sua anima, perché essa diventi “migliore il più possibile”. Il bene più grande è quello di entrare nella propria interiorità, in quanto una vita “senza ricerche- aggiunge- non è degna per l’uomo di essere vissuta”. Tutta la ricerca della vita interiore è legata- secondo Platone- all’Idea del Bene, dalla quale derivano non solo la conoscenza, ma anche l’essere e l’esistenza. Per rendere l’anima la migliore possibile, occorre compiere, per il discepolo di Socrate, “la 17 seconda navigazione”, un avventuroso viaggio intellettuale e morale alla scoperta del mondo spirituale, come esigenza di un bisogno di purificazione. Le ali dell’anima in tal modo si sollevano in cielo, verso l’idea di bellezza e l’idea del bene, le quali rappresentano il vertice del mondo ideale, in un incessante processo di liberazione. Noi siamo- ha scritto Francis Crick- “nient’altro che un fascio di neuroni”. Certamente, ma noi siamo anche esseri umani con agentività, termine introdotto da Bandura per indicare la capacità dell’anima (mente) di generare pensieri, idee, emozioni, progettualità. Il nostro cervello è un’armonia di miliardi di neuroni, ma la nostra mente, la nostra individualità, crea continuamente l’imprevedibile e il non codificabile, opera scelte e adotta strategie sulla base di eventi che non sono per l’appunto “codificabili” nei neuroni e nei geni. Per questa via, perveniamo al concetto di spirito (anima), che comprende il pensiero e dunque la mente. È un’entità che ha acquisito una tale rilevanza che ha indotto alcuni autori a parlare di una sostanza primaria. È lo spirito che “pone e sostiene il mondo”. Un mondo che è l’edificazione dello spirito. È una impostazione che coincide con le nostre concezioni, che sono alla base delle nostre opere e della nostra vita. Noi avvertiamo continuamente la seduzione di un’anima trascendentale, immateriale ed immortale. 18 Il tentativo dunque di spiegare la natura umana in base ad una concezione esclusivamente neurale, biologica, conduce inevitabilmente alla “negazione” della persona umana e del suo carattere spirituale. Fatto che riduce l’essere umano alla sua irriducibilità di soli fenomeni neuronali e di soli meccanismi cerebrali. Ci confortano le scoperte delle stesse nuove neuroscienze. Esperimenti condotti di recente mostrano che l’idea di Dio attiva alcune regioni del cervello (Dehaene). Altre ricerche fanno ipotizzare di poter individuare un “centro divino, un centro di Dio” nel cervello umano. Studi recenti dimostrano che la nostra mente costruisce “credenze e convinzioni” (Churchland). Possiamo dunque parlare dell’esistenza di “una scintilla divina e morale” profondamente impiantata nella mente (Green). La credenza in Dio ha una lunga storia, perdura secondo alcuni neuroscienziati da quando gli esseri umani abitano la Terra (Gazzaniga) e può aver avuto origine da “una reazione istintiva comune a tutti gli esseri umani”. Concetti come “Dio”, “Spirito”, sono dunque “compatibili, per lo scienziato Boyer, con “le innate capacità” della nostra anima (mente). Anche per queste ragioni, ci è sempre cara l’immagine tradizionale dell’anima considerata come entità immateriale ed immortale. Sono concetti che coincidono con il pensiero di Cicerone. “Se la mia ferma persuasione- scrive il 19 filosofo e scrittore latino- che l’anima è immortale dovesse rivelarsi un’illusione, è un’illusione piacevole, e me la terrò cara fino all’ultimo respiro”. Nel solco di questa concezione si pone anche Dostoevskij, il quale afferma: “Se distruggessi nell’uomo la fede nella immortalità, non solo l’amore, ma tutte le forze vive che mantengono in vita il mondo inaridirebbero. Nulla più sarebbe immorale, tutto sarebbe permesso, anche il cannibalismo”. Perché dunque non immaginare un’anima che si sospinga negli azzurri cieli, sfiorando la pallida luna e gli astri celesti più brillanti, là dove sfavilla la celeste volta, alla ricerca della sua dimora eterna. Sostenere che l’unica realtà è quella empirica, che i fatti sono più importanti delle credenze, è “negare all’umanità- afferma il neuroscienziato de Waal –le sue speranze e i suoi sogni”. Ci soccorre l’immagine della “Scuola di Atene” di Raffaello, il dito di Platone a indicare il cielo. 20 Dall’anima al cervello alla mente alla spiritualità Fin dall’antichità, l’uomo ha cercato di indagare la natura umana, il cervello, la mente, il bene e il male. Temi che hanno affascinato e attirato l’attenzione di filosofi e teologi, poi quella di antropologi, biologi, sociologi, genetisti, neurologi, farmacologi, ingeneri e di recente anche esperti di analisi di mercato ed economisti. All’alba della civiltà, in assenza della scienza, il compito di valutare il posto dell’uomo nel mondo viene assunta dalla filosofia, in un cosmo dominato dal senso del soprannaturale e da una mente popolata di Dio, divinità, demoni, fantasmi, angoscia e paure ancestrali. La riflessione filosofica sull’uomo, sul bene e sul male ha fornito spiegazioni diverse come la volontà divina, l’ordine del cosmo, la libertà soggettiva, i principi utilitaristici, la ragione, la cultura, i sentimenti morali. Soltanto oggi però possiamo legare questi fenomeni al processo dell’evoluzione e ai meccanismi neurali del cervello. Condizioni che-scrive de Waal- 21 “hanno contribuito a plasmare forme e modi del nostro dover essere morale. Le straordinarie scoperte delle neuroscienze stanno facendo luce per orientarci nell’intricata selva del cervello, della mente e della coscienza. Oggi, i neuro scienziati stanno tentando di “tradurre”- scrive Kandel- astratte questioni filosofiche e psicologiche sulla mente nel linguaggio empirico della biologia e dunque della scienza. Le neuroscienze sono impegnate a studiare come e perché il cervello, la mente e la coscienza siano emersi nel corso dell’evoluzione e come i cervelli si sviluppino, maturino e invecchino. Il principio guida è che la mente è un insieme di operazioni effettuate dal cervello. Gli etnologi hanno riscontrato il concetto di anima o di spirito all’origine di tutte le civiltà. In seguito, i greci usarono il termine mente (in greco psychè) in luogo di anima. L’uomo dalla doppia natura fatto di carne e di spirito. Nell’antichità, il cuore era considerato l’organo dello spirito mentre il cervello era fonte dello slancio vitale. Ippocrate considera il cervello e l’organo centrale delle sensazioni e della coscienza. L’atto di nascita della speculazione filosofica sulla mente è la teoria di Platone sull’immortalità dell’anima e sulla trascendenza, cioè sull’esistenza di un aldilà metafisico. I primi studiosi della mente (in greco psychè) attribuiscono all’anima diversi significati. Anzitutto, il 22 concetto di anima indica “l’oggetto metafisico per eccellenza” (Abbagnano) della riflessione filosoficoreligiosa e viene assunto come il principio della vita e delle attività spirituali. Così, l’anima è aria per Anassimene, armonia per Pitagora, fuoco per Eraclito, atomi per Democrito, il quale sostiene che il cervello è il “guardiano” dell’intelligenza. Tradizionalmente, la mente è stata considerata come una trilogia composta da cognizione, affetto (emozione) e conazione (motivazione), e viene identificata con l’anima (soffio, aria), lo spirito, la psiche. Infatti, Platone, il fondatore della filosofia occidentale e l’inventore dell’anima, indipendente dal corpo, opera una tripartizione tra anima irascibile, concupiscibile e razionale. Anche Aristotele, la cui concezione rimane il modello di buona parte delle dottrine sulla mente, propone una tripartizione dell’anima: vegetativa, sensitiva, intellettiva. Ad accentuare i suoi caratteri “divini” dell’anima è Plotino, il quale evidenzia l’”interiorità spirituale” dell’anima. Di qui, l’emergere, per la prima volta, della nozione di coscienza intesa come “introspezione”, analisi della propria interiorità. Un ruolo centrale assume l’idea di anima in Cartesio, la cui concezione comprende anche l’idea di coscienza. Egli concepisce l’anima come una sostanza immateriale, immortale e autonoma rispetto al corpo. Il suo è un dualismo ontologico fra res cogitans (mente) e res extensa 23 (corpo). È una teoria che viene rifiutata dall’empirismo, dall’idealismo e dal materialismo. Sta di fatto che a partire da Cartesio, il concetto di coscienza comincia a prevalere su quello tradizionale di anima. L’anima viene così “ridotta” alla coscienza. Una svolta significativa si ha con il positivismo, il quale riducendo l’anima alla coscienza pone le basi per la fondazione della scienza del cervello, della mente e degli stati di coscienza. La coscienza comprende il mondo dell’esperienza interna, la sfera dell’interiorità e riguarda “il dialogo dell’anima con se stessa”. Tutto ciò che è per me- dice Jaspers- deve entrare nella coscienza. L’”esserci è la coscienza”. Nel campo della ricerca sulla mente, è trinitario anche il modello proposto da Freud (Es, Io e Super-Io) e dal neuro scienziato americano Paul Mac Lean, il quale concepisce il cervello come una struttura formata da tre elementi sovrapposti: il cervello rettiliano, il cervello limbico o mammaliano e il neocervello. Ad escludere ogni ricorso agli stati soggettivi (coscienza) e agli stati mentali (mente) è il comportamentismo, il quale accetta come soli dati i comportamenti osservabili dei soggetti. Teoria che viene negata dal cognitivismo, che asserisce che la mente esiste, ha suoi contenuti e sue proprietà, che devono essere studiati dalle neuroscienze. Le quali radicano la filosofia della mente nei suoi fondamenti essenzialmente biologici. 24 A questo punto, sorge una domanda fondamentale: è possibile studiare scientificamente la mente? Alcuni autori rispondono di sì, altri dicono che non è possibile analizzare la mente. È impossibile- dichiara Thomas Nagel- conoscere la mente e la coscienza, in quanto non avendo esse proprietà fisiche (materiali) sono “inaccessibili” alla sperimentazione scientifica, che invece si basa su leggi fisiche, su realtà materiali. Allo stato attuale delle nostre conoscenza- aggiunge- la mente rimane “al di fuori di qualsiasi comprensione”. Non solo non può essere spiegata, ma forse maiconcorda Vizioli- essa sarà “spiegabile”. Diverso è il discorso sul cervello, il quale essendo un oggetto fisico, fa parte del mondo fisico e perciò può essere studiato scientificamente, cioè secondo le leggi della scienza. La mente invece non è un oggetto fisico e pertanto è assurdo- dicono questi autori- fare altrettanto. Ciò che è mentale quindi non può essere “identificato” con ciò che è fisico. “Non sapremo maiscrive Chomsky- come il cervello dia origine a pensieri e sentimenti. Abbiamo a che fare con un mistero insolubile”. Anche Chalmers parla di “mistero troppo profondo”: studiando il cervello, la natura della mente non può essere chiarita e capita. Addirittura, Patricia Churchland afferma che “non esiste alcuna anima, alcuna mente”. Gli stati mentali pertanto, secondo questi autori, non sono “accessibili” alle operazioni di “misura”, sono solo “accessibili” al loro proprietario. 25 Finora, per spiegare il concetto di mente è stata formulata una serie di definizioni. L’esame della letteratura al riguardo mostra come le diverse descrizioni non abbiano una base comune. Non abbiamo ancora trovato cioè una definizione operativa di mente (Siegel). Una posizione scientifica e filosofica corretta è dunque affermare che semplicemente “non sappiamo davvero cosa sia la mente”. Invero, il termine mente si rivela un concetto generico per riferirsi a “qualcosa di ignoto”, a un’entità che ancora non conosciamo bene e che forse, come abbiamo sostenuto in precedenza, “non riusciremo a conoscere”. Definire la mente non è perciò ancora possibile, poiché - dicono alcuni autori- “non ancora conosciamo la sua natura”. Ma proprio per questa ragione- dichiara LeDoux- dobbiamo impegnarci a studiarla e scoprire- aggiungiamo noi- i suoi abissi di mistero. Contrariamente al parere di alcuni, molti neuro scienziati, come ad esempio Crick, Heric S. Kandel e Gerald Edelman, pensano invece che saremo in grado di studiare scientificamente ogni aspetto della nostra vita, poiché le neuroscienze “giungeranno a studiare anche la mente e la coscienza”. Così, mentre i filosofi cercano soluzioni filosofiche ai problemi, incluso quello sul cervello e la mente, i neuroscienziati partono dal principio che la concezione materialistica del problema mente- cervello sia giusta. Si parte dalla teoria della 26 mente come “prodotto” del cervello e si perviene alla comprensione di come il cervello renda la mente possibile (LeDoux). La sfida fondamentale delle neuroscienze del XXI secolo è pertanto capire la mente in termini neurobiologici, come impariamo, ricordiamo e percepiamo. Capire qual è la natura del pensiero, delle cose, dell’emozione, dell’empatia e quali sono i limiti del libero arbitrio. La nuova scienza del cervello e della mente ci viene fornendo sempre più spesso nuovi elementi per una comprensione più profonda di quello che ci rende ciò che siamo, e ci consente di indagare anche i meccanismi cerebrali che rendono possibile la creatività nell’arte, nelle scienze, nella letteratura e nella vita quotidiana. Contro forme di pessimismo, dobbiamo dire che la storia della scienza è piena di fenomeni ritenuti “misteriosi”, che però hanno poi trovato spiegazione. Non possiamo perciò dire che “qualcosa” è inconoscibile per il semplice fatto che “non è conosciuto” (Siegel). In questo campo, siamo ai primi passi. Ci troviamo di fronte a questioni che creano davvero soggezione e sgomento. E tuttavia, i risultati sono definiti “straordinari”. È disponibile, infatti, una “grande quantità” di informazioni su come funziona il cervello. È stato dimostrato, per esempio, che la vita mentalel’essere umano- non è per nulla influenzata dalla sola 27 coscienza, ma anche dai processi inconsci. I quali non sono le memorie rimosse di Freud, ma le moltissime cose (pensieri, sentimenti, ecc. ) che il cervello fa e che non sono accessibili alla coscienza. Pensiamo, prendiamo decisioni e risolviamo problemi. Possiamo dire che l’attività inconscia del cervello è –sostengono Damasio e Gazzaniga- “al vertice” di tutti i processi mentali. La coscienza si rivela dunque solo “una parte”, ma “non del tutto” della nostra mente. “La maggior parte della vita mentale è inconscia” (Freud). Le ricerche poi hanno mostrato che tutti i mammiferi hanno un cuore “molto simile” al nostro e possiedono cervelli che hanno in buona parte “la stessa struttura e anatomia” del cervello umano (Robbins). Sappiamo inoltre che non esiste “alcuna regione del cervello” che sia la sede della coscienza e della mente (Churchland). Appare possibile anche che la coscienza sia “una caratteristica” del cervello di tutti i mammiferi e degli uccelli. Oggi, possiamo dire che la mente- come concordano i maggiori neuro scienziati- si riferisce all’esperienza soggettiva interiore, privata, personale, individuale di pensieri, emozioni, memoria, sogni, speranze, convinzioni, intenzioni, ragionamenti, intuizioni, immagini, umore, e al processo della coscienza o consapevolezza. Questo processo è all’origine delle attività mentali, come il pensiero, l’emozione e la memoria. 28 Ciascuno di questi processi mentali ha dunque un carattere soggettivo, cui ci si riferisce con il termine “qualia”. La qualità soggettiva dell’esperienza tuttavia non è né “quantificabile” né “osservabile” direttamente, e dunque non può fornire la “misurazione rigorosa dal punto di vista scientifico”. Noi non possiamo conoscere e fare esperienza degli stati soggettivi di altre persone, sono inaccessibili. Possiamo solo “supporre” ciò che gli altri pensano o provano. La stessa descrizione dell’esperienza soggettiva fornita direttamente da coloro che l’hanno compiuta sono utili, ma queste descrizioni non sono equivalenti all’esperienza stessa (Kandel). Non è dimostrabile la “rossità” del rosso o il profumo di una rosa: che ciò che io percepisco come rosso corrisponda a ciò che tu chiami rosso. Anche la coscienza, che è l’esperienza soggettiva di essere consapevoli, è un altro aspetto della vita mentale difficile da studiare in modo “misurabile” e “controllato”, in quanto essendo priva di estensione spaziale, diversamente dal cervello, non può essere oggetto di indagine sperimentale. Sulla coscienza, è emersa un’altra questione sorprendente: noi veniamo a conoscenza delle nostre scelte a “cose fatte”. Gli esperimenti di Libet e poi di Platt e Glimscher hanno mostrato infatti che il cervello “esegue” il suo lavoro tra i 500 e i 1000 millisecondi prima che diventiamo consapevoli delle sue azioni. Il neuro scienziato Ramachandran ha concluso che la 29 nostra mente cosciente non sarebbe dotata di libero arbitrio. L’esperimento dimostra che il libero arbitrio è “illusorio”, poiché non può causare gli eventi mentali perché questi si verificano un secondo prima che esso si esprima. La coscienza è “the big one”, il problema “numero uno” delle neuroscienze (LeDoux). Per molti versi conosciamo (ma non sempre, aggiungiamo noi) precisa Siegel- la nostra esperienza soggettiva attraverso la coscienza. Ma cosa significa effettivamente essere consapevoli? Di fatto, non sappiamo veramente cosa sia un pensiero o un’emozione. Ed allora- come concorda Edelman- dobbiamo accettare questa situazione e lasciare il terreno della mente e della coscienza ai filosofi e alle discipline umanistiche? No davvero. A “dispetto degli stati mentali soggettivi” (qualia), le scoperte sul cervello realizzate negli ultimi anni ci consentono di studiare la mente e la coscienza. Come tutte le scienze empiriche, le neuroscienze procedono con il metodo “riduttivo” - altrimentiprecisa Kim- esse non fornirebbero fatti e dati obiettivi, ma fantasie. Per questo motivo- aggiunge Kandel- le neuroscienze non sono una filosofia sulla quale discettare, ma un metodo scientifico. Di conseguenza, l’attività della mente, cioè degli stati soggettivi, può essere analizzata, partendo necessariamente dai neuroni e dai meccanismi fisico-chimici. 30 Attualmente disponiamo di teorie scientifiche della mente e della coscienza- evidenzia Edelman- le quali, basandosi sull’attività del cervello, tentano di chiarire la “relazione” tra eventi mentali ed eventi neurali, fisici, e di “riferire” i propri stati fenomenici interni mentre misuriamo l’attività neurale e corporea. Punto di partenza- sostengono i neuro scienziati- è allora concepire anima e cervello come “una unica e stessa cosa”, ovvero “ridurre” la mente a cervello. (Churchland). Ciò che pensiamo come anima è il cervello e ciò che pensiamo come cervello è l’anima. La mente è “un prodotto” del cervello. La grande sfida poi sarà quella di risolvere il mistero di come il cervello renda la mente possibile. Coscienza, autocoscienza, mente, linguaggio, ecc. vanno studiati perciò come qualsiasi caratteristica della natura vivente. Il loro studio consiste nella “riduzione” degli eventi mentali a eventi della materia del cervello. È il metodo scientifico denominato “riduzionismo” o “fisicalismo”. Il “riduzionismo” è un sistema scientifico che consente di ridurre la totalità dei fenomeni naturali da livelli più complessi a quelli meno complessi. È scoprire e spiegare la natura delle cose attraverso evidenze sperimentali. Oggi sappiamo che dalle ricerche neuro scientifiche è emerso il principio secondo cui mente e coscienza sono “inesorabilmente” connesse al cervello (Kandel). Di conseguenza, i neuroscienziati credono in un’anima 31 pressoché “identica” alla mente e al cervello, cioè parte del mondo fisico, che per sua natura deve rispondere e rispettare le leggi della scienza, le leggi della fisica (fisicalismo). Questa “corrispondenza” tra evento neurale ed evento mentale viene definita da Edelman con l’espressione “correlati neurali della coscienza” (NCC, “Neural Correlates of Consciousness), vale a dire l’attività nervosa funzionalmente correlata con stati coscienti. La correlazione neurale è un concetto per descrivere la “contemporaneità” fra l’attività del cervello e l’esperienza soggettiva del pensiero e della coscienza. Le basi della concezione sulla natura interconnessa di cervello e mente sono state avviate a partire dal secolo scorso, quando le scienze del sistema nervoso hanno cominciato a considerare “prodotto” del cervello ciò che veniva compreso nel concetto di anima, spirito, mente, pensiero (Hagner). I neuroscienziati sono concordi nel sostenere che mente e cervello sono due facce di “un’unica realtà”. L’equivalenza mente-cervello è un metodo di ricerca, il quale- come nota Damasio- parte dal fatto che gli eventi mentali sono correlati a quelli cerebrali, cosa che “nessuno pone in discussione”, dal momento che l’attività mentale ha luogo all’interno del cervello. Dobbiamo poi aggiungere che i processi cerebrali e mentali sono il “prodotto” di una lunga storia di evoluzione biologica. 32 L’identità mente-cervello infine si basa sull’assunto che i neuroni creano le mappe di oggetti e che queste sono eventi mentali. La mano è un buon esempio per chiarire questo concetto. Essa è fatta di ossa, muscoli, nervi, ecc. . Quando essa si muove per indicare un oggetto o una persona esegue un’azione. Sia l’oggetto, la mano, sia l’azione- movimento sono fatti fisici chedice Damasio- hanno luogo nello spazio e nel tempo. Vogliamo dire che sono i neuroni a creare una “configurazione”, la quale costituisce una “mappa” di qualcos’altro: una mappa di quell’azione e di quell’oggetto. Tali configurazioni sono per l’appunto immagini della mente. La teoria dell’identità mente-cervello secondo cui ogni evento mentale è identico a un evento fisico ha portato i neuro scienziati a formulare la prima legge dell’attuale concezione sul rapporto tra anima e cervello. Essa stabilisce che “tutti i processi mentali, perfino i processi psichici più complessi, “derivano” da operazioni del cervello” (Kandel). L’assunto cardine è che ciò che chiamiamo mente rappresenta “un insieme di funzioni svolte dal cervello”, come il pensiero, il linguaggio, la creazione della letteratura, di opere artistiche e musicali. Di conseguenza, anche i disturbi mentali hanno “una base biologica”. Questo principio è accettato tra i neuroscienziati e si pone come “assunto fondamentale” delle neuroscienze in quanto presenta “un forte sostegno empirico”. 33 Gli approcci riduzionistici al pensiero umanosostengono gli studiosi- sono fondamentali per la scienza, anche se molti, soprattutto persone estranee alle neuroscienze, ritengono che il riduzionismo sminuisca il fascino dell’attività mentale oppure che il tale fenomeno in realtà non esiste. “È vero il contrario”, rispondono gli scienziati. Se si capisce- precisa Patricia Churchland- che, ad esempio, l’epilessia è dovuta all’improvvisa scarica di un gruppo di neuroni, che a sua volta innesca un’analoga scarica in altre aree della corteccia, questa è una “spiegazione” di un fenomeno e non la negazione dell’esistenza di un fenomeno. Si tratta- precisa l’autrice- di una “riduzione”. Che costituisce dunque una base empirica (scientifica) contro le spiegazioni precedenti in termini di “origini soprannaturali” dell’epilessia. Se apprendere, sognare, ricordare ed essere coscienti sono attività del cervello “non ne segue che esse non siano reali”. Se inoltre il riduzionismo è essenzialmente “comprendere” e “spiegare”, “lamenti e critiche sarcastiche- aggiunge Tallis- mancano il bersaglio”. Sono evidenze sperimentali, perciò è sbagliato valutarle con l’etichetta di “scientismo”. La comprensione della neurobiologia del cervello e della mente pertanto “non nega in alcun modo” il fascino, la ricchezza e la complessità del pensiero e non diminuisce neppure il godimento, lo stupore e il piacere procurati dagli stati soggettivi (qualia) legati 34 all’emozione, alle esperienze personali, alle opere d’arte e alla creatività. Come dimostrano le ricerche di E. Kris e E. Gombrich sulla neuroestetica, una delle sfide della nuova scienza del cervello e della mente, consiste nel comprendere come noi elaboriamo l’emozione, l’empatia e la percezione conscia e inconscia, aprendo in tal modo una fase nuova nella storia del pensiero umano. È da precisare inoltre che le neuroscienze (il riduzionismo) non si pongono come “fine filosofico” o come “visione del mondo” o come “risposta” alle domande fondamentali (Hyman). Esse si collocano come mezzo per acquisire conoscenze (scientifiche) che ci porteranno a una “comprensione” più profonda e certa dell’essere umano. I pregi dell’approccio riduzionista- dichiara Kandelsono emersi solo in questi ultimi anni con lo sviluppo delle fantastiche metodiche di brain imaging. La maggior parte degli studiosi, come concordano M. Solms e O. Turnbull, sostiene infatti che le ultime teorie fornite dalle neuroscienze siano di fatto “teorie scientifiche”, cioè rappresentino attualmente “il tipo più affidabile” di conoscenza a nostra disposizione a proposito delle leggi che governano l’apparato mentale. Non si può dire altrettanto delle teorie di altre discipline, come ad esempio delle teorie psicoanalitiche o filosofiche. 35 Si ritiene cioè che le proposizioni psicoanalitiche o filosofiche non possano essere dichiarate vere o false in base ad un criterio di fatto e quindi “oggettivo”. Si tratta di un sapere quasi “intimistico”, di tipo affettivo, poetico, fondamentalmente “espressivo”, anziché “esplicativo”. Di qui, l’insufficienza teoretica della psicoanalisi e della filosofia, le quali sono pertanto “inverificabili e inconclusive”. La scienza invece è “verificabile”. I dati raccolti dalla ricerca neuro scientifica sono per loro natura “oggettivi”, poiché riguardano “cose” fisiche. La psicoanalisi produce invece dati di tipo “estemporaneo” difficili da trattenere. L’esperienza per definizione è soggettiva. Descrivere l’esperienza soggettiva appare impresa quasi impossibile perché essa non può essere fermata e dunque non può essere “misurata”. Con il metodo scientifico non solo è possibile “catturare” e “misurare” i dati, ma anche analizzarli. Le conclusioni della scienza riguardano i fatti: si può accertarne la verità o la falsità in termini oggettivi, matematici. Nel caso dei rapporti tra scienza e filosofia si era ritenuto di poter giungere a una “distinzione” basata sulla differenza dei rispettivi oggetti di indagine: la natura per le scienze, e l’uomo come ente spirituale per la filosofia. Pensiamo alla distinzione proposta da Wilhelm diete tra le “scienze spirituali” e le “scienze 36 naturali”. Successivamente, tale distinzione è apparsa insoddisfacente, considerando possibile, e anzi fruttuoso, non solo “una pacifica coesistenza” tra scienza e filosofia, ma anche una loro feconda connessione dinamica in un “continuo” di approfondimento della comprensione del destino umano (Cotta). Oggi, c’è una tendenza a imprimere un carattere scientifico anche alle humanae litterae nella convinzione che queste siano suscettibili di uno studio scientifico, ossia verificabile, o falsificabile, empiricamente. È tuttavia un grave errore concludere che la scienza della mente possa fare a meno della psicoanalisi, della filosofia o di altre discipline. Gli stati soggettivi, le emozioni, i sentimenti “esistono”, sono “reali”. Le altre discipline, lo ribadiamo con forza, sono una fonte di arricchimento per la scienza e per l’uomo, un metodo alternativo di conoscere la realtà. Le neuroscienze e le discipline umane hanno molto da guadagnare dalla loro reciproca collaborazione e integrazione. È giunto il momento, secondo noi, di trovare punti di contatto, superando le antiche ostilità. In questa prospettiva, come nota Sergio Cotta, si perviene a “rovesciare” il tipo di rapporto tra scienza e filosofia. Secondo l’idealismo, l’unica forma di conoscenza valida in termini di “verità” era quella filosofica, mentre la conoscenza scientifica aveva un carattere “pragmatico”, concerneva la pratica. Oggi 37 invece “solo la scienza” si presenta con “una effettiva capacità conoscitiva del mondo della realtà”. E tuttavia, dobbiamo precisare che la conoscenza scientifica “non copre” tutta l’esperienza umana. Le scienze umane aggiungono ai dati oggettivi offerti dalle scienze naturali l’attenzione per “l’esperienza interiore” (la dimensione dell’inconscio e del profondo) dell’individuo e per “ l’esperienza storica” dell’umanità. Certamente, la scienza non è “l’unica cosa importante nella vita”. Nulla se non la scienza. La scienza non è tutto, anche se per Einstein essa è la cosa “più preziosa che abbiamo”. Quello che per noi è importante è realizzare un modello integrato e armonico tra le due culture, tra scienza e discipline umanistiche, cioè fra tutti i differenti domini della conoscenza. Uno dei primi autori a descrivere lo iato di reciproca incomprensione e ostilità tra scienziati e umanisti è stato C. P. Snow, il quale nel suo libro “Le due culture” deplora la divisione esistente fra cultura scientifica e cultura umanistica, auspicando la possibilità di una “terza cultura” che mediasse il dialogo fra scienziati e umanisti. In questa direzione si pone anche il neuro scienziato S. J. Gould, il quale riconosce “una parentela profonda e una necessaria connessione e interazione fra scienze e discipline umanistiche. Oggi, assistiamo ad un evento straordinario, quello del pensiero che ha condotto alla 38 rivoluzione scientifica, dimostrando come la ricerca sulla mente possa comprendere sia la scienza che altri saperi (Edelman). Noi sosteniamo, d’accordo con la maggioranza dei neuroscienziati, che la letteratura, l’arte, la musica, la poesia, la psicoanalisi, l’antropologia, la linguistica possano coesistere con le neuroscienze in un fecondo processo d’integrazione. I filosofi possono essere d’aiuto nel campo del cervello e della mente. Come rileva Kandel, intuizioni e contributi sono venuti anche da scrittori e poeti- pensiamo a Shakespeare, Beethoven, Klint, Kadoschka e Schiele-, oltre che da filosofi e studiosi cognitivi. Noi- ha affermato Francis Crik- non siamo che “un fascio di neuroni”. Ma siamo- aggiungiamo noi- anche esseri umani con “agentività” (Rose), capaci di creare e ricreare i nostri mondi. Eccles, al riguardo, ha invocato una regione speciale del cervello come il punto in cui l’anima e la divinità potevano intervenire e interagire con i neuroni. Così, tra dimensione naturale e dimensione spirituale e soprannaturale, tra anima, mente e corpo, l’uomo, come sostiene Popper, è “un essere spirituale”, un Io, una mente, la quale è legata ad un corpo che soggiace alle leggi della fisica. Non dovrebbero quindi “escludersi a vicenda”(LeDoux) una visione spirituale degli individui e una prospettiva neurale. 39 Un’importante testimonianza ci viene resa dalla letteratura attraverso autori, come, ad esempio, Dostoevskij, Tolstoi e Turgenev, che sono i grandi indagatori dell’anima. Questi autori danno molta importanza alla sfera spirituale e ai processi inconsci della vita mentale, fornendo la possibilità all’essere umano di trascendere se stesso. E proponendo idee che si rivelano utili alla comprensione dei modi in cui l’anima (la mente) attraverso il cervello “ci rende quelli che siamo” (LeDoux). Si tratta di un contributo decisivo allo studio della mente che anticipa le successive scoperte delle neuroscienze. In questo contesto, come osserva G. Chini, Turgenev pone in risalto la conquista della “irripetibile interiorità” della persona e del suo senso morale. A sua volta, Tolstoi esalta la dimensione dell’Io, della sua unità bio-psichica e il sentimento spirituale, mentre Dostoevskij indaga un livello spirituale più profondo della mente, evidenziando l’emergere della coscienza morale come espressione ordinata di “un’autorità esterna e superiore”. Dostoevskij, Tolstoi e Turgenev si pongono lungo la linea vettoriale della concezione trinitaria di Platone, Freud, Luria e Mac Lean, recuperando un’antropologia tripartita, dove accanto alla sfera fisica (cervello) e a quella psichica (mente) emerge una sfera spirituale (anima). 40 Concludiamo questa panoramica sulle nuove neuroscienze, dicendo che siamo partiti dall’anima attraversando i neuroni, il cervello, la mente e la coscienza per approdare sulle sponde meravigliose dello spirito (noùs) e dell’anima. Una spiritualità che non si oppone al metodo scientifico, poiché entrambi possono convivere in una creativa, fertile e armonica collaborazione. È l’assolutezza dello spirito che si manifesta hegelianamente in molteplici versi: 1. soggettivo attraverso l’anima, l’intelletto, la ragione; 2. oggettivo con il diritto, la moralità, l’eticità; 3. assoluto per mezzo dell’arte, della religione, della filosofia. Tutto ciò mostra che c’è in ognuno di noi la seduzione e il fascino del trascendentale con la nostalgia dell’anima. 41 42 L’anima e i suoi tormenti Le questioni relative ai disturbi psichiatrici si ramificano in molteplici snodi caratterizzati da diversi equivoci scientifici e culturali insorti soprattutto negli anni Settanta e dal difficile rapporto tra scienza e umanesimo nei nostro Paese. Rispetto agli altri Paesi, l'Italia ha scontato un notevole ritardo di elaborazione concettuale. Se altrove si è cominciato già nell'Ottocento a emancipare i malati con leggi come quella francese del 1838 o il “Lunacy Act” inglese del 1845, da noi la “180” ha dovuto suturare un gap risalente a una legge del 1904, in cui la malattia mentale coincideva con il comportamento criminale. Gli studi rimarcano anzitutto la centralità di un sapere psichiatrico di cui l'antipsichiatria, sorta come reazione agli “eccessi” di una psichiatria biologica, costituisce un elemento composito contrassegnato da sociologismi ambigui, come le vaghezze metaforiche di un Foucault, da una psicoanalisi para-freudiana, come l'esoterismo oscuro e inconsistente di un Lacan e da un misticismo new-age. Tutti fattori che si sono saldati in 43 un linguaggio astratto, vacuo e antiscientifico e teso a vedere nel disagio mentale solo il sintomo del “controllo sociale” e di un “ambiente castrante”. Viene contestato il concetto di malattia mentale, la schizofrenia non è ritenuta una malattia se non in senso metaforico, la “follia” è valutata come variante della norma o addirittura come forma di “saggezza”, predomina una ideologia anti-modernista, antirazionalista e anti-scientifica. Di qui, una opposizione alle scienze medico-biologiche e dunque alla psichiatria. Tra ritardi ed errori, oggi la psichiatria è “obbligata” -scrive Kandel- a confrontarsi con le neuroscienze avuto riguardo al crescente interesse per la biologia dei disturbi mentali e in particolar modo per la genetica della schizofrenia e della depressione. Stiamo assistendo a straordinari progressi nel campo delle neuroscienze, in particolare nell'analisi del modo in cui diversi aspetti del funzionamento mentale sono rappresentati in varie aree del cervello. Alla psichiatria dunque si presenta una nuova, irripetibile opportunità. Le prospettive si rivelano entusiasmanti: esiste la possibilità di pervenire a una visione avanzata dei processi mentali sia normali che patologici. Alla base della nuova scienza del cervello c'è il principio che “tutti i processi mentali sono biologici”. Qualsiasi disordine o alterazione di questi processi deve avere perciò anche “una base biologica” (Kandel), 44 nonostante finora non siamo riusciti a svelare lesioni chiare e localizzate come quelle riscontrate nelle malattie neurologiche. Anche-se quasi tutte le patologie mentali hanno una componente genetica, esse non mostrano modelli di ereditarietà diretta, perché non sono causate dalla “mutazione di un singolo gene”. Non esiste quindi il gene della schizofrenia, come non esiste il gene della depressione, dei disordini dell'ansia o della maggior parte delle altre malattie mentali. Le componenti genetiche di queste malattie si originano nell'interazione di parecchi geni con l'ambiente o con altri fattori. Con lo studio degli stati d'ansia, innata o acquisita, nelle persone e negli animali da esperimento, oggi sappiamo che le emozioni sono il risultato di un’esperienza inconscia, che implica l'attività del sistema nervoso autonomo e dell'ipotalamo, e di un’esperienza conscia, la quale coinvolge le funzioni della corteccia cerebrale. Essenziale per entrambe le componenti è il ruolo dell'amigdala, un nucleo situato in profondità negli emisferi cerebrali che coordina l'esperienza delle sensazioni e delle emozioni, soprattutto l'ansia e la paura. La scoperta da parte di Kandel di un circuito neurale che tiene sotto controllo l'ansia potrebbe portare inoltre allo sviluppo di farmaci che contrastino la paura associata a sindromi psichiatriche come i disordini da stress post-traumatici e le fobie. 45 Un’indicazione importante sulla depressione deriva dal lavoro di due neuroscienziati, R. Duman e R. Henn, i quali hanno scoperto che i farmaci antidepressivi aumentano anche la capacità di una regione dell'ipotalamo, il giro dentato, di generare nuove cellule nervose. Sono scoperte notevoli in quanto lasciano emergere la possibilità che gli antidepressivi stimolano la produzione di neuroni nell'ipotalamo. Ulteriori esperimenti poi dimostrano che i topi geneticamente, modificati possono servire come modelli nello studio di complessi disturbi psichiatrici. Nei topi mutanti possiamo indagare gli apporti genetici alla schizofrenia e manipolare l'ambiente dei topi, in utero e durante il primo sviluppo, per valutare quali interazioni geneticoambientali potrebbero innescare l'avvio della malattia. I modelli genetici delle principali malattie mentali ottenuti con i topi potranno rivelarsi fondamentali sia per comprendere le origini e lo sviluppo di determinate malattie che per analizzare le complesse vie alla base dei disturbi molecolari, rafforzando le nostre capacità di diagnostica e classificare i disordini mentali e fornendo una base per lo sviluppo di nuove terapie molecolari. I meravigliosi progressi di questi anni stanno dando origine al “decennio delle terapie per il cervello”, con la conseguenza che la psichiatria e la neurologia si rivelano due discipline che vanno concettualmente avvicinandosi sempre più. Le prospettive sono 46 affascinanti: possiamo - commenta Kandel - sondare i misteri del cervello e studiare nuovi trattamenti per le disfunzioni cerebrali. 47 L’arte e il mondo dell’inconscio In questi ultimi anni si è sviluppato un processo d’interazione tra cervello, mente, inconscio e arte, che ha portato alla nascita di una “neuroestetica emotiva”. Una comprensione cioè delle nostre risposte, emozionali, empatiche e percettive, alle opere d’arte. La neuroestetica è una nuova disciplina che tenta di coniugare lo studio dell’arte con le neuroscienze. La sfida fondamentale delle neuroscienze del XXI secolo è “capire la mente umana in termini neurobiologici”. Come impariamo, ricordiamo e percepiamo? Qual è la natura del pensiero, della coscienza, dell’emozione, dell’empatia? Quali sono i limiti del libero arbitrio? La nuova scienza del cervello e della mente non solo ci fornisce una comprensione più profonda di quello che ci rende ciò che siamo. Ma ci consente di indagare i meccanismi cerebrali che rendono possibili la percezione e la creatività nell’arte, nelle scienze, nella letteratura e nella vita quotidiana. Le neuroscienze e l’arte rappresentano due importanti prospettive della mente. Gli straordinari progressi neuro scientifici ci 48 mostrano che la nostra vita mentale “prende origine dal cervello” (Kandel). Una delle sfide più notevoli della neurobiologia è dunque capire come il cervello divenga “consapevole” dell’emozione, della percezione e dell’esperienza. Nel periodo compreso tra il 1890 e il 1918, le intuizioni di Freud, gli scritti di Schnitzler e i dipinti di Klimt avevano in comune - afferma E. R. Kandel in L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello (Raffaello Cortina) la capacità di penetrare nella natura della vita istintuale dell’essere umano. L’opera poi di Darwin “L’origine della specie” (1859) introduce il concetto che gli esseri umani “non sono creati da un Dio onnipotente, ma sono creature biologiche evolutesi da antenati più semplici”. Questi nuovi orientamenti portano a un “riesame” della natura biologica dell’esistenza umana. Si scopre così che gli individui non solo “ospitano” sentimenti erotici inconsci, ma anche pulsioni aggressive altrettanto inconsce dirette sia contro se stessi sia contro gli altri. Freud chiamerà “pulsione di morte” (Thanatos) questi impulsi oscuri. È la scoperta dell’inconscio, cioè della natura largamente irrazionale della mente. È la grande rivoluzione freudiana. La quale evidenzia che non controlliamo consciamente le nostre azioni, ma siamo guidati da motivazioni inconsce. Questa rivoluzione suggerisce più tardi l’idea che la creatività trae origine nell’accesso conscio dalle forze inconsce sottostanti. 49 In verità, molti filosofi nel corso dei secoli hanno dibattuto sul ruolo dei processi mentali inconsci nella vita psichica. Prima Platone, poi Schopenhauer e Nietzsche scrivono dell’inconscio e delle spinte inconsce. Freud rileva che la maggior parte della vita mentale è “inconscia”. Antonio Damasio (“Il sé viene alla mente”, Adelphi Edizioni) definisce “inconscio genomico” la “colossale quantità di istruzioni contenute nel nostro genoma”. Sono disposizioni che toccano un’ampia gamma di temi, come il formarsi delle arti, la sessualità umana, la religione, il comportamento umano. Queste nuove idee e le nuove scoperte delle neurosciernze mandano così in crisi il concetto di libero arbitrio. Il principio che “tutti i processi mentali hanno una base biologica nel cervello” porta poi a sostenere che tutte le malattie mentali hanno “una base biologica”. Se dunque la maggior parte della nostra vita mentale è inconscia, qual è la funzione della coscienza? La coscienza - rispondono i neuro scienziati - è ciò che ci consente di sperimentare pensieri, emozioni e stati di piacere e dolore. L’arte, in questo contesto, rappresenta un complesso insieme di impulsi inconsci e ci dà alcune tra le esperienze “più profonde ed emotivamente coinvolgenti accessibili agli esseri umani” (Dutton). Le 50 arti sono pertanto “adattamenti”, tratti istintuali, che ci aiutano a “sopravvivere”. L’arte può dare origine a sensazioni di benessere. Una grande opera d’arte- come confermano i moderni studi neuro scientifici- ci permette di sperimentare “un piacere profondo”. I circuiti del piacere del cervello si attivano anche quando godiamo di un’opera d’arte, quando abbiamo esperienza di un bel tramonto, un buon pasto o un rapporto sessuale appagante. La gioia che ricaviamo dall’arte alza il volume del piacere attraverso il rilascio di neurotrasmettitori noti come endorfine. Sono sostanze simili alla morfina nelle loro capacità di bloccare gli stimoli dolorosi. Dal momento che la creazione dell’opera d’arte e la risposta dello spettatore all’arte sono “prodotti” del cervello, una delle sfide più affascinanti per la nuova scienza del cervello è costituita dalla natura dell’arte. Semir Zeki, pioniere della neuroestetica afferma che la funzione principale del cervello è “acquisire nuove conoscenze sul mondo e che l’arte visiva è “un’espressione” di tale funzione. A partire da Riegl e continuando con Ramachandran, Kris e Gombrich, oggi sappiamo che le immagini create dall’artista vengono “ricreate” nel nostro cervello. La percezione poi delle emozioni nell’opera d’arte è in parte empatica ed imitativa e comprende i sistemi cerebrali che si occupano del movimento biologico, i neuroni specchio e la teoria della mente. L’emozione è 51 determinata dall’amigdala, dalla corteccia prefrontale, dallo striato e dai differenti sistemi di modulazione del cervello. Un dipinto dunque ci può trasportare attraverso un “continuum” di emozioni diverse, che si estendono dal piacere erotico al dolore, dal terrore all’angoscia, dalla paura della morte alla speranza della nascita. Invero, l’analisi della creatività richiede studi che procedano in parallelo da una varietà di prospettive diverse. La creatività infatti è qualcosa di molto complesso, che assume una “varietà” di forme differenti e che stiamo appena iniziando a capire. Storicamente, le persone creative sono spesso viste come “toccate” da un’ispirazione divina. Agli inizi del XX secolo sono stati fatti diversi tentativi per misurare la creatività, analoghi al quoziente di intelligenza (QI) utilizzato per misurare l’intelligenza. Essi hanno portato alla conclusione che la creatività si basa sull’intelligenza ed è dotata di una molteplicità di forme. Sta di fatto che i tipi di personalità sono numerosi e sono incentrati su una varietà di caratteristiche, tra cui intelligenza, stupore, indipendenza, flessibilità, anticonformismo, capacità di rilassamento. Tutte caratteristiche che favoriscono l’accesso all’inconscio. Grazie agli esperimenti di brain imaging, oggi i neuro scienziati stanno iniziando a “identificare” alcune delle regioni del cervello che contribuiscono alla creatività. 52 L’idea che processi mentali inconsci possano contribuire alla creatività è stata introdotta da Ernst Kris, il quale sostiene che l’artista accede all’inconscio attraverso un processo di “regressione al servizio dell’Io”. La regressione è di giovamento ai processi creativi poiché l’artista è in grado di portare in primo piano la forza delle pulsioni sessuali, dei desideri inconsci, dei pensieri, delle azioni rimosse e dei conflitti. Concludiamo, dicendo che il cervello è una “macchina” della creatività, che siamo ancora in una fase precoce di una concezione neurale della creatività e che la mente è un insieme di operazioni effettuate dal cervello. Tutto parte dal cervello, la struttura più complessa e misteriosa dell’universo conosciuto. 53 Come, quando e perché la mente emerge Le caratteristiche “uniche” dell'essere umano comprendono la coscienza di sé e degli altri, il linguaggio e la vita sociale. Su tutte queste capacità emerge uno speciale attributo umano che chiamiamo il possesso di una mente (Rose). Come, quando e perché la mente emerge? A cominciare dagli anni Novanta del secolo scorso, i neuroscienziati hanno mostrato che la mente non sia altro che il “prodotto” del nostro cervello. L'essere umano - ha scritto Francis Crick –è “un fascio di neuroni”. La mente - ha sostenuto Damasio - è “una proprietà” del cervello”, il collegamento di insiemi di neuroni. Tutti i processi mentali, perfino i processi psichici più complessi, «derivano- ha precisato Kandel- da “operazioni del cervello”. L'assunto cardine- ha aggiunto il premio Nobel per la medicina- è che ciò che comunemente chiamiamo mente rappresenta “un insieme di funzioni svolte dal cervello”. 54 Le neuroscienze, identificando mente e coscienza con la materia e il funzionamento del cervello, evitano, di fatto, 1’intricato e ancora misterioso rapporto mentecervello e cercano di capire mente e coscienza in un mondo fisico. Una volta che la mente sia stata ammessa fra gli eventi del mondo naturale, «dobbiamo trovarle ha sostenuto Colin McGinn - un posto nello schema delle cose laboriosamente costruite a partire dal XVIII secolo”. Il problema principale tuttavia è se ciò sia possibile senza sacrificare la peculiarità della mente e della coscienza. Il problema irrisolto e forse irrisolvibile verte su come la mente (immateriale) sorga dal cervello (materia). Se le decisioni sono prese dal cervello, che è un oggetto fisico, sottoposto dunque alle leggi della fisica, la volontà non è libera. La mente, divenendo un meccanismo neurale elettrochimico, non è “libera” di scegliere fra opzioni diverse. Sta di fatto che in realtà non è ancora dimostrato che noi- come ha detto Crick- siamo “un fascio di neuroni: dall'attività dei neuroni e delle aree cerebrali non è infatti possibile “dedurre” quali siano i contenuti della mente e della coscienza. Inoltre, Crick tralascia di chiedersi chi siano i “noi” che dovrebbero capire come funziona il “pacco di neuroni” che “noi” siamo, se non cellule nervose, altri pacchi cioè di neuroni, in una regressione all'infinito. 55 Per Cartesio, esistono due ragioni ontologiche: la “res extensa” (la materia, il cervello) e la “res cogitans”, cioè l’anima che pensa, riflette ed è consapevole di se stessa (coscienza). Questa entra in contatto con la “res extensa”, cioè con il cervello, attraverso gli organi di senso e non è soggetta alle leggi fisiche ed è immortale. Invero, l'assunzione dei neuroscienziati che la mente non è “nient’altro che un prodotto del cervello” ci appare un concetto piuttosto “grossolano”, come concorda anche Steven Rose. È limitato considerare la mente soltanto come un prodotto del cervello. Ciò che definiamo come mente non discende unicamente dalle attività di un sistema nervoso isolato, ma ha origine sia da funzioni neurali sia da processi esperienziali. Noi siamo un “fascio di neuroni” e di altre cellule, ma siamo anche essere umani. Abbiamo una mente che si costituisce attraverso 1’interazione evolutiva, ontogenetica e storica dei nostri cervelli e dei nostri corpi con gli ambienti sociali e naturali che ci circondano. Abbiamo la capacità di creare e ricreare i nostri mondi. La nostra conoscenza etica può essere arricchita dal sapere neuroscientifico, ma non sostituita. Il cervello- ha scritto la poetessa americana Emily Dickinson- “è più grande del cielo”. Ma la mente - per noi - è più grande del cervello. La mente perciò non può essere “riducibile” ai neuroni e non può essere “abbassata” al livello delle sinapsi o dei neuroni. La mente è qualcosa di più. 56 Certamente, la mente e la coscienza sono passibili di investigazione scientifica, ma esse non si prestano ad essere “ingabbiate” dai metodi neuroscientifici con te tecniche di brain imaging, dai i nostri elettrodi e dai nostri “armadietti dei medicinali” (Rose). La prospettiva più congruente a noi sembra essere quella bio- sociale integrata, un modello fondamentale per qualsiasi tentativo di comprensione del cervello, della mente e dunque della natura umana. Siamo infatti gli eredi non solo dei geni, ma anche degli ambienti, dell'educazione, delle dinamiche interpersonali e delle culture dei nostri antenati. Le nostre menti quindi sono attivate dai nostri cervelli, ma non sono “riducibili” ad essi. Attualmente, il pensiero dominante tra i neuroscienziati è decisamente “riduzionista” nella sua insistenza sulle spiegazioni neurali. La nascita delle nuove neuroscienze in realtà “strappa” il controllo dell'anima e della mente dalle mani dei filosofi e dei teologi. Si ammette cioè l'esistenza di una “identità” di mente e coscienza con il cervello. Il problema irrisolto e forse irrisolvibile - lo ribadiamo - è il seguente: come la mente sorge dal cervello? La domanda in che modo da una serie di meccanismi neuronali un evento acquisti significato, diventi cioè coscienza, è finora 'senza risposta. L’emozione che si prova di fronte ad un tramonto o sentendo un brano musicale, la gioia allo sguardo di una persona che amiamo, lo struggimento 57 che si avverte per tanti eventi della vita, lo stato soggettivo che si sperimenta per la rossità del rosso, per l'aroma del caffè o per un buon bicchiere di vino, che per Thomas Mann, è un dono di Dio, sono tutte esperienze personali che vengono sentite come diverse da un evento fisico, anche se per ognuna di esse s'individuano aree cerebrali attive. Non è possibile dunque, secondo alcuni neuroscienziati, spiegare gli stati soggettivi. 58 Dal neurone alla morale Oggi possiamo affrontare le questioni sulla “nostra natura” in base ai dati reali e rilevanti provenienti dalle neuroscienze, dalla biologia evoluzionistica e dalla genetica. Sono i processi del cervello - afferma Churchland - a “plasmare” ciò che noi chiamiamo etica (o morale). Che è caratterizzata dai seguenti elementi: . “prendersi cura”, capacità basata sul fondamentale concetto di “attaccamento” a parenti e ad altre persone; . riconoscimento degli stati mentali altrui (teoria della mente); . soluzione di problemi nel contesto sociale; . apprendimento delle pratiche sociali e morali. Le neuroscienze hanno scoperto che in tutti gli animali vi sono intricati circuiti neurali che presiedono alla cura di “sé”, alla cura degli “altri”, alla neurochimica dell'attaccamento e al comportamento affettivo tra mammiferi. Sono questi i valori che fondano la morale. Lo stile di cura dell'altro, l’altruismo, la generosità, la socialità e la cooperazione sono tutti fattori che confluiscono nel concetto di 59 moralità e sono dovuti a “trasformazioni evolutive specifiche del cervello” (Carter). Anche i mammiferi non umani possiedono valori sociali e capacità morali. Essi si prendono cura dei piccoli, dei compagni, dei parenti e dei soci, cooperano, possono punire e si riconciliano dopo un conflitto (Palagi). Come possono i neuroni valutare qualcosa? Tutti i sistemi nervosi- rileva Craig- sono organizzati per prendersi cura dell'autoconservazione. Secondo la prospettiva evoluzionistica, la cura di sé è selezionata al posto della “non-cura di sé”. Ma come può un topo sapere che deve trovare cibo, scappare dalla tana o costruire un rifugio? La risposta è che sono i neuroni a “monitorare” lo stato interno del topo. Allorché si riscontra un bisogno viene di fatto generata una emozione motivante e attraverso l'uso di indizi percettivi, come odori e suoni, le regioni sottocorticali del cervello valutano i rischi e le opportunità nel mondo esterno. Avere “cura di sé” e degli “altri” pertanto è una funzione fondamentale del cervello. I cervelli sono “organizzati” per «ricercare” il benessere e per trovare sollievo dalla sofferenza e dal malessere. Al centro di questo complesso e delicato insieme di cura e attaccamento si trova l’ossitocina, un potente ormone che assolve specifiche funzioni nella cura dei piccoli e nelle forme più ampie di altruismo, cooperazione, socialità e moralità. Sono tutti elementi che hanno una base genetica e legati a eventi 60 dell'ambiente. Nel cervello, il rilascio di ossitocina innesca il comportamento materno. In tutti i mammiferi in stato di gravidanza, la placenta del feto rilascia una varietà di ormoni (ossitocina, vasopressina, oppiacei endogeni, dopamina, serotonina, estrogeno e progesterone), i quali hanno l'effetto di “maternalizzare” il cervello (Keverne). Quando si realizza un sicuro e sereno rapporto vengono rilasciati sia nei cervello del piccolo che in quello della madre ossitocina e oppiacei, i quali riducono anche i livelli di ansia e di paura. La cura del manto, leccare i piccoli e lo spulciamento forniscono sensazioni di piacere alla madre e ai piccoli (Zhang). Si determina in sostanza un processo circolare tra cervello, ossitocina, cura genitoriale e competenze sociali e morali. Ricerche in materia hanno scoperto che le madri ratto con alti livelli di comportamento materno hanno alti livelli di ossitocina, fenomeno che si riscontra anche nei loro piccoli. L'ossitocina è associata alla fiducia, alta tolleranza, all'affetto reciproco e al sostegno, e “velocizza” la guarigione di ferite com’è stato documentato sia nei roditori sia negli esseri umani. A sua volta, la dopamina risulta importante per l'espressione del comportamento sociale, nell'apprendimento, nell'accoppiamento, nei legami di coppia e nel comportamento genitoriale. Il rilascio poi di oppiacei endogeni segue al ricongiungimento di 61 individui separati o alla risposta positiva rispetto alle lamentele dei piccoli (Panksepp), come può essere osservato, ad esempio, nella gioia del cane quando si ricongiunge al suo compagno o al suo padrone. Nonostante la complessità delle interazioni genicervello-comportamento, l'idea che la morale sia innata resta irresistibile. Gli esseri umani, per Hauser, possiedono un “organo morale” che fissa i principi universali della moralità e che prendono il nome di “coscienza” e sono presenti in tutte le società. Nasciamo con regole e principi etici, mentre l'educazione ci fornisce poi i mezzi e una guida verso l'acquisizione di “sistemi morali particolari”. Anche la religione rientra in questo quadro. Esiste una inclinazione innataaffermano Haidt e Sosis- all'adesione religiosa, una propensione che fu selezionata per i benefici che recano l'avere vincoli forti all’interno dei gruppo e una salute migliore. Sta di fatto tuttavia che pazienti coinvolti in uno “sforzo” religioso possono essere in realtà “più cagionevoli” di salute (Pergament). L'attribuzione di stati mentali ad altri ha incoraggiato poi l'introduzione del nome “teoria della mente”. I cani addestrati ad essere sensibili agli scopi umani possono sembrare straordinariamente esperti nel “predire”, “leggere”, cosa desiderano i loro padroni o cosa faranno. La scoperta dei neuroni specchio rhesus riportata per la prima volta nel 1992 da Rizzolatti, ha incoraggiato 62 l’attribuzione di stati mentali a se stessi e ad altri. I neuroni specchio sono un sottoinsieme di neuroni che rispondono sia quando la scimmia vede un individuo compiere un'azione (portare il cibo alla bocca) sia quando esegue lei stessa quell’azione. L'esistenza dei neuroni specchio come capacità di attribuire agli altri intenzioni e scopi nasce dall'idea che il cervello umano è organizzato in maniera simile a quello delle scimmie. Alcuni neuroscienziati hanno sostenuto che i soggetti autistici presentano un'anomalia cerebrale nel sistema dei neuroni specchio, poiché mostrano insufficiente comprensione dei comportamenti altrui, mancanza di empatia e difficoltà nell'imitazione. Un ruolo importante è rivestito anche dall'empatia per la sua capacità di identificare gli stati mentali altrui (Goldman). Vedere la sofferenza altrui spesso rende infelici noi stessi, così come osservare la gioia di qualcun altro rende il nostro animo sollevato. Concludendo, la morale appare come un fenomeno naturale radicato nella neurobiologia e modificato dall'ambiente. È la coscienza a guidare le decisioni morali. A sua volta, la religione è ritenuta da alcuni neuroscienziati la “fonte” dei principi morali per le nostre vite. Invero, nelle tradizioni metafisicamente significative, la relazione tra Dio e la moralità è stata spesso considerata assiomatica. Il genetista Francis 63 Collins ha sostenuto che Dio «ha fatto dono all'umanità della conoscenza del bene e del male, espressa dalla legge morale). La moralità è qualcosa di reale perché essa è fondata sulla “nostra biologia”, sulla nostra capacità di avere compassione e di manifestare empatia. A costituire la radice della moralità è il passaggio dalla “cura del sé” alla “cura dell'altro” (prole, partner e individui extraparentali). L'ossitocina, in sintonia con la dopamina e gli oppiacei endogeni, riveste poi un peso rilevante nella moralità. Alti livelli di ossitocina sono implicati nei processi della crescita, nei processi sociali e morali, nella generosità, nella cooperazione, nell'apprendimento e nella ricompensa Un suo deficit invece interferisce con lo sviluppo, con la socialità e la moralità e implica una predisposizione a disturbi psichiatrici, a sindromi psicopatiche e autistiche, anaffettività e rapporto di coppia. Dobbiamo inoltre sottolineare l'efficacia di una delle facoltà cognitivo- morali più importanti di cui siamo dotati, la capacità, chiamata empatia, di “leggere” nella mente dell'altro per interpretarne emozioni, intenzioni, scopi e credenze, e quindi “predirne” il comportamento. Una capacità strettamente legata al sistema dei “neuroni specchio”, quei neuroni che si attivano - come abbiamo detto - sia quando un individuo esegue un'azione sia quando vede la stessa azione svolta da un suo simile. 64 Storicamente, il saggista tedesco Paul Rée fu un pioniere nello studio dei meccanismi neurobiologici alla base dell'etica. Influenzato dalle ricerche di Darwin, pubblicò nel 1877 “L'origine dei sentimenti morali”. 65 La bibbia degli psichiatri La psichiatria, come concorda Binswnger, è essenzialmente “una scienza dell’uomo, dell’esistenza umana”. L’attività dello psichiatra, ma così di tutti gli operatori della salute mentale, deve essere orientata all’incontro con l’altro, diretto cioè a “comprendere” l’essere umano nella sua globalità. Come nota Callieri, il grande merito della psichiatria della seconda metà dell’Ottocento fu quello di “identificare” raggruppamenti costanti di sintomi. Di qui, la classificazione, l’ordinamento tassonomico e quindi la configurazione di vere e proprie entità di malattie. Siamo dunque arrivati alla “ Bibbia degli psichiatri”? Diciamo che il DSM-5 rappresenta un prezioso e indispensabile strumento di riferimento per psichiatri, medici e per tutti gli operatori della salute mentale. Una disciplina che ha per oggetto lo studio clinico e la terapia dei disturbi mentali e dei comportamenti patologici. Un campo- rileva Karl Jaspers- situato fra “Naturwissenschaften”, e cioè scienze della natura, e 66 “Geisteswissenschaften”, scienze umane, come per l’appunto è la psichiatria. Nella quale non è possibileprecisa Vizioli- adottare il metodo riduzionistico o per lo meno non è possibile far proprio il modello biologico delle altre discipline mediche. Infatti quello che manca in psichiatria è proprio il modello medico, costituito di etiologia (sconosciuta), patogenesi (ignota), fisiopatologia (non verificabile), anatomia patologica (assente), diagnosi (affidata alla soggettività dell’osservatore), prognosi (impossibile), terapia, fondata solo su ipotesi e “fortemente generatrice di effetti iatrogeni molto gravi, come ad esempio, il parkinsonismo da neurolettici nella schizofrenia”. I disturbi psichiatrici vengono classificati in base a tre tipi di indirizzo. Il primo prevede l’individuazione clinica di insiemi di comportamenti stabili. Il secondo tipo comporta la “ricostruzione” di una storia vissuta della sofferenza umana. Il terzo tipo riguarda la “definizione” dell’ambito neurobiologico in cui la patologia si forma. Gli orientamenti principali della psichiatria concernono una concezione di tipo “fenomenologico”. Il quale considera la malattia mentale una “rottura” della comunicazione e delle relazioni interpersonali. Secondo un’altra dottrina, la malattia mentale è più “implicita” nell’organizzazione della psiche. L’approccio clinico sostiene che le malattie mentali 67 (psicosi e nevrosi) sono aspetti di differenti livelli di “dissoluzione” psichica. L’impostazione eziopatogenetica invece afferma che la malattia mentale “dipende” da processi organici. Nell’attività psichiatrica, l’intuito clinico e l’esperienza non costituiscono di per sé un paradigma assoluto, in mancanza di punti specifici di riferimento concettuali, che hanno la funzione di “provare” o “confutare” la loro validità. Ove l’individuazione e la descrizione dei sintomi non siano state condotte con sistematicità su tutte le aree psicopatologiche è difficile pervenire a diagnosi certe. Vogliamo asserire che per ottenere una diagnosi secondo i parametri del DSM, il metodo psichiatrico deve essere strutturato secondo canoni irrinunciabili, ovvero secondo i principi guida sottesi alla valutazione e al trattamento. Un obiettivo fondamentale è poi quello di individuare e svelare i conflitti inconsci del paziente, identificando le sue difese e analizzando le sue resistenze. La prerogativa è quella di realizzare il duplice obiettivo della diagnosi e della terapia. Dobbiamo poi precisare che i disturbi psichiatrici rivelano un insieme di segni, sintomi e comportamenti. Si tratta allora di classificare i disturbi del paziente e le disfunzioni in accordo con le categorie diagnostiche stabilite dai criteri del DSM-5. La diagnosi così formulata aiuta a emettere la prognosi e a individuare 68 il trattamento più efficace. Per riconoscere inoltre tutti i fattori eziologici che concorrono alla comparsa della patologia psichiatrica, il clinico deve far riferimento a un sistema diagnostico multiassiale. Occorre in sostanza riconoscere, inquadrare e approfondire i criteri del DSM, allo scopo di sviluppare una piena comprensione dei molteplici, delicati e complessi aspetti, riguardanti la diagnosi, la cura e la prognosi. La realizzazione della quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) è il risultato di un’impresa enorme nell’intento di accrescere la sua validità ed efficacia clinica come guida e modello nella diagnosi delle patologie mentali. Risale al 1844 la prima classificazione statistica che precede il DSM, elaborata dall’”American psychiatric association” (APA). Dopo la seconda guerra mondiale, il DSM ha subito positive evoluzioni attraverso quattro edizioni. Il più recente è il DSM-IV. L’attuale edizione, il DSM-5, si basa sulle precedenti pubblicazioni ed è finalizzata a fornire le linee guida per orientare le decisioni circa la diagnosi, il trattamento e la gestione dei soggetti. Sono stati apportati molti cambiamenti nel DSM-5 rispetto al DSM-IV. Nel precedente testo veniva utilizzato il termine “ritardo mentale”. Negli ultimi anni, la nozione di “disabilità intellettiva” (disturbo dello sviluppo intellettivo) è divenuta di uso comune. I “disturbi della comunicazione” comprendono il 69 “disturbo del linguaggio”, il “disturbo foneticofonologico” e il “disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia” (in precedenza balbuzie). Il “disturbo dello spettro dell’autismo” è un nuovo disturbo introdotto nel DSM-5, sindrome che ingloba il disturbo autistico, il disturbo di Asperger, il disturbo disintegrativo dell’infanzia, il disturbo di Rett e il disturbo dello sviluppo. Anche i criteri diagnostici del “disturbo da deficit di attenzione/iperattività” (DDAI) hanno subito importanti cambiamenti. A sua volta, il “disturbo specifico dell’apprendimento” comprende la diagnosi del DSM-IV di disturbo della lettura, disturbo del calcolo, disturbo dell’espressione scritta e disturbo dell’apprendimento non altrimenti specificato. Per la “schizofrenia” sono stati effettuati due cambiamenti: 1) l’eliminazione della nozione di deliri bizzarri e allucinazioni uditive, e 2) l’aggiunta della richiesta che almeno uno dei sintomi del Criterio A faccia riferimento a deliri, allucinazioni o eloquio disorganizzato. Cambiamenti sono poi stati operati ai “Disturbi bipolari e disturbi correlati”, ai “Disturbi depressivi”, ai “Disturbi d’ansia”, al “Disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati”, ai “Disturbi dissociativi”, ai “Disturbi da sintomi somatici e disturbi correlati”, ai “Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione”, ai “Disturbi del sonno-veglia”, alle “Disfunzioni sessuali”, ai “Disturbi neuro cognitivi”, ai “Disturbi di personalità” e ai “Disturbi parafilici”. 70 C’è un altro cervello? L’altro cervello è la storia delle cellule gliali, che costituiscono l’per cento delle cellule presenti nel cervello. Le scoperte del loro funzionamento stanno provocando una “rivoluzione” nelle neuroscienze. Il termine glia, o neuroglia, viene introdotto a metà del 19° sec. per indicare la sostanza o “cemento nervoso” (dal greco glia, “colla”) che circondava e sosteneva i neuroni. La cui sopravvivenza e funzionalità dipendono dalle interazioni reciproche che si stabiliscono fra glia e neuroni. Nello sviluppo e nel funzionamento del sistema nervoso, la glia riveste un ruolo fondamentale, testimoniato dal suo coinvolgimento in molte neuropatologie, fra le quali il meccanismo di neuro degenerazione, ischemia cerebrale, malattia di Alzheimer, morbo di Parkinson, epilessia, autismo, ecc. Il cancro al cervello e la sclerosi multipla sono il prodotto di cellule gliali malate. Esse poi occupano una funzione importante anche in malattie psichiatriche come la schizofrenia, la depressione e i disturbi d’ansia. La ricerca ha inoltre scoperto che le glia “riparano” il cervello e il midollo spinale in seguito a lesioni o ictus. 71 Queste cellule operano lentamente e influenzano in sostanza grandi settori del cervello. I neuro scienziati hanno scoperto che quando una donna rimane incinta, le glia intorno alle sinapsi che controllano l’allattamento cambiano la struttura fisica di questa regione cerebrale. Partendo da questa base, i ricercatori stanno cominciando a comprendere molti altri processi cerebrali, come i circuiti che regolano la coordinazione fisica e la memoria muscolare. Le più importanti funzioni cerebrali delle cellule glia sembrano essere quelle di “agganciare” gruppi di neuroni che non sono collegati fra loro e di “guidare” l’attività neuronale nei ritmi veglia-sonno. Invero, i neuro scienziati hanno cominciato a esplorare l’altro cervello solo negli ultimi anni. Sappiamo ancora poco sulle cellule gliali. E tuttavia, le ultime scoperte, riguardanti la loro influenza su grandi territori del cervello fanno ritenere che le glia possono partecipare ad attività mentali molto diverse come indirizzare i nostri desideri inconsci, partecipare allo stimolo della sete, alla nascita, alla maternità, all’amore, al controllo del sonno, alla scelta del partner, ai comportamenti sessuali e ai processi dell’apprendimento e della memoria. Le neuroscienze hanno scoperto poi che quando una donna rimane incinta, le glia intorno alle sinapsi che controllano l’allattamento “cambiano” la struttura fisica di questa regione del cervello. Partendo da tale 72 presupposto, i ricercatori stanno cominciando a comprendere molti altri processi mentali, aprendo in tal modo una nuova prospettiva su come le glia possano “alterare” la struttura del cervello e quindi la sua funzione, in relazione anche ai processi mentali inconsci. Le funzioni dell’altro cervello svolgono una posizione significativa anche nel cervello cosciente, nell’apprendimento, nel pensiero e nella memoria. Le gliali insomma ci “abbagliano” con la loro moltitudine di canali di comunicazione. L’altro cervello infatti coordina gruppi neurali, regola l’eccitabilità delle reti neurali, migliora o inibisce la forza sinaptica. Durante lo sviluppo e nell’apprendimento, le glia sembrano essere le “attrici principali”. Oggi, i neuro scienziati stanno cominciando a scoprire i segnali scambiati da neuroni e cellule gliali. Queste appaiono le “principali regolatrici” della mente, hanno la capacità di aumentare di numero con l’esperienza, sono in grado di “costruire” il cervello di un feto, di “guidare” la connessione dei suoi assoni, di “riparare” il sistema nervoso dopo una lesione, di “collegare” le sinapsi e di dare vita a nuovi neuroni. 73 La donna nel tempo: letteratura, arte, cinema, psicoanalisi e neuroscienze Si parla poco e si conosce poco o nulla della donna, delle capacità del suo cervello e della sua evoluzione nel tempo. Finora, soltanto le fantastiche scoperte della nuova scienza del cervello e della mente, come diremo appresso, stanno facendo luce sul pianeta ancora sconosciuto e misterioso della donna. Occorre un salto di qualità, un cambiamento soprattutto culturale e aprire un serio e approfondito dibattito sulla figura della donna così come è stata considerata nelle diverse società e culture, allo scopo di creare forme di convivenza per il progresso dell’umanità. Solo acquisendo la conoscenza si possono eliminare infatti le ingiustizie, i pregiudizi e gli stereotipi di cui le donne sono state vittime nel corso dei secoli. L’analisi della ricerca in materia mostra infatti che la condizione femminile è stata quasi sempre caratterizzata da assenza, esclusione e da uno stato di inferiorità sia sul piano sociale che politico e giuridico. 74 La giustificazione è stata legata principalmente ad una presunta inferiorità fisica. Emerge l’immagine di una donna che via via è una presenza priva di rilievo, oggetto, schiava, domestica, casalinga, regina, eroina. E comunque sempre avvolta in un alone di mistero. Nell’oscurantismo socio- culturale del mondo antico, non mancano tuttavia elementi che offrono un ritratto diverso della donna, vista come creatura dotata di un intelletto, di un cuore e virtù pari a quelli degli uomini. Soprattutto in alcuni scrittori cristiani dei primi secoli, acquista luce e spessore storico una variegata presenza femminile, che può essere ricondotta ad una quadruplice categoria: sono vergini, spose, madri, vedove. Ognuna con una propria dignità e personalità inalienabile. Madre ed educatrice premurosa e insostituibile dei figli, sposa laboriosa e sostegno forte e discreto del marito, amministratrice saggia della casa. Insomma un dono generoso, una presenza preziosa. In tutte le civiltà esiste una distinzione tra ruolo femminile (la sfera dell’interno, la casa, i figli) e ruolo maschile (la sfera dell’esterno, la conquista del mondo). Molti antropologi ipotizzano che nella preistoria vi fosse una sostanziale situazione di parità tra i sessi. È indubbio tuttavia che la maggior parte del mondo ha vissuto in un regime patriarcale. L’ipotesi del matriarcato è stata negata da autorevoli antropologi, come Lévi- Strauss, Fox e Morin. Anche Simon de Beauvoir, la scrittrice francese considerata 75 un’antesignana del femminismo, condivide questa concezione. La società - scrive - “è sempre stata maschile; il potere è sempre appartenuto agli uomini”. Invero, a partire dai poemi omerici, la donna è sottoposta all’autorità del marito, anche se gode di una certa considerazione e libertà. L’Iliade infatti è un’opera piena di figure femminili, che esercitano una funzione di pacificazione e di equilibrio. La Bibbia presenta come immagine costante il ruolo subalterno e dipendente della donna. Nel testo poi è assente la parola “uguaglianza”. Nel libro della Genesi (3, 16) sta scritto: “Sarai sotto la potestà del marito ed egli dominerà su di te”. Nella lettera ai Corinti, san Paolo afferma: “Il capo della donna è l’uomo, capo dell’uomo è Cristo, capo di Cristo è Dio”. La donna della civiltà greca, soprattutto la donna ateniese, vive isolata. La sua capacità giuridica è praticamente nulla. La società etrusca invece tiene in grande considerazione la donna. Rispetto a quella greca, la donna a Roma gode di maggiore libertà. I romani affidavano alle loro spose il dominio della casa. La parola donna infatti deriva dal latino “domina”, che significa padrona. Con il Cristianesimo e il Medioevo, la condizione femminile assume una nuova immagine, un’immagine più spirituale. Nascono movimenti femminili e molte istituzioni monastiche. 76 È con il XVIII e il XIX secolo che emergono nuove idee e le prime conquiste sociali con il riconoscimento dei diritti civili. Sull’esempio degli Stati Uniti anche in Italia viene promulgata una legge nel 1919 che dava alla donna sposata la disponibilità dei suoi beni personali. Il diritto di voto alla donna in Italia avverrà nel 1945, mentre nel 1962 si avrà la parità giuridica nel lavoro. In sostanza, dal dopoguerra ad oggi, la condizione femminile appare profondamente mutata. La donna di fatto ha raggiunto un riconoscimento giuridico, politico e sociale, dopo decenni di battaglie per l’affermazione dei propri diritti. La partecipazione al lavoro in Italia della donna è la più bassa in Europa. Uno studio recente mostra poi che le ragazze italiane sono più brave dei ragazzi in tutte le materie (fonte Ocse). La questione femminile deve dunque essere posta al centro sia del programma di governo che dell’attenzione della scuola. Oggi, la sconvolgente evoluzione della società e il progresso tecnologico hanno posto in evidenza la crisi della famiglia, della scuola e della società. La donna risulta assoggettata a un doppio lavoro: quello in casa e quello che presta all’esterno. È soprattutto una crisi di codici etici, che sempre devono dirigere le azioni umane. Siamo perciò di fronte a una società caratterizzata da anomia, assenza di valori. Una grave desertificazione e desacralizzazione. Crescono dunque i disturbi psichiatrici, ansia, depressione fino a lambire bambini di 2 anni d’età. È in atto nella società 77 un processo di violentizzazione, un processo strisciante, subdolo, ambiguo, che via via cresce sempre di più. È una condizione che in Italia abbiamo rivelato per primi sin dagli anni Novanta in una pubblicazione con il professor Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile. La donna nella letteratura e nelle arti Nel corso dei secoli, la donna è stata oggetto di diverse analisi e interpretazioni. Diciamo anzitutto che in tutte le culture è riconosciuto il ruolo della donna che crea cultura. Mentre in Occidente è stata vista per lungo tempo come soggetto dedito alla riproduzione, nella letteratura e nelle arti ha sempre svolto un ruolo importante. Una connotazione positiva assume nel Medioevo, un periodo dominato da una concezione rigida dell’etica, e nei più grandi poeti italiani. Pensiamo alla donna stilnovista, alla donna angelicata rappresentata dalla Beatrice di Dante. Da parte sua, la letteratura cortese (1100) è fondata sulla sublimazione della donna, esaltata come la più bella e la più nobile, un essere dotato di qualità interiori e di principi morali. Diversa invece la donna del Boccaccio non più divina, ma più naturale e umana. Il Romanticismo esalta la figura femminile, mentre nel Novecento i poeti assistono alla battaglia per i pari diritti femminili fino ad arrivare all’emancipazione giuridica. 78 La donna è la profonda ispiratrice di quasi tutte le arti. Volti, sguardi, espressioni scandiscono e descrivono l’universo femminile attraverso la magia pittorica nel corso dei secoli, a partire dalla civiltà egizia e cretese, quando si comincia a scoprire il fascino e l’armonia della donna. Sono poi gli autori greci a fornirci i canoni estetici e filosofici della donna modernamente intesa. Essi passano dalla donna madre, generatrice di vita, alla vergine vestita e al nudo dell’Afrodite. Vesti fluenti ed espressione dignitosa raffigurano la donna nell’arte romana, mentre quella bizantina la ritrae raffinata. Oggetto di piacere negli affreschi pompeiani, si passa a una rappresentazione ieratica e mistica dell’immagine femminile, svuotata di ogni connotato sensuale ed erotico. Vengono infatti dipinte Madonne e Sante, tutte legate al loro ruolo salvifico. Il Cristianesimo e il Medioevo esprimono la bellezza nelle immagini sacre. La donna per eccellenza, Maria, è protagonista indiscussa in tutti i campi dell’arte fino ai tempi odierni. Emerge una figura femminile concepita nella sua dimensione sacrale e nel suo essere pensante, artefice della storia, con pari e talvolta superiore dignità rispetto all’uomo. La bellezza femminile risplende soprattutto dal Rinascimento al cubismo con le opere meravigliose di artisti, quali Leonardo da Vinci, Raffaello, Tiziano, 79 Botticelli, Perugino, El Greco, Manet, Renoir, Paul Gauguin, Dalì, Modigliani, Picasso. Sono opere di intensa e raffinata suggestione, che esaltano i canoni estetici, i sogni, le aspirazioni, la dimensione psicologica, inconscia ed onirica della donna e ne documentano l’evoluzione. La donna nel cinema Si avverte una chiara evoluzione del personaggio femminile nel cinema. All’inizio, mogli, madri, amanti. Che storicamente diventano una costante. Una donna seduttiva e compiacente. All’alba di questo secolo, la donna è rappresentata attraverso storie di maternità e femminilità negate, spesso scelte per poter competere in un mondo maschilista che costringe a comportarsi come gli uomini. Affiora una figura di donna crudele, sbagliata, ignorata. Una donna cattiva, sessualmente perversa e genitorialmente inadeguata. Fa da contrasto, una figura di donna assunta come agnello sacrificale di una società in cui la regola è la sopraffazione sulla gentilezza. Di qui, la donna oggetto di abusi sessuali e di prepotenza sino alla tragedia della sua uccisione. In questa rappresentazione drammatica appare anche una dimensione positiva: una nota di speranza per il futuro in forza di quella pulsione materna che porta con sé il sentimento dell’altruismo e dell’empatia. È una donna che sa guardare più lontano degli uomini. Un motore nell’evoluzione della specie, la raffigurazione di figure 80 di donna e di madre “eroiche”. È il riscatto da una condizione di frustrazione e sottomissione millenaria. La donna nella psicoanalisi Freud definisce la donna il “dark continent” della psicoanalisi, un mondo misterioso, oscuro. “La grande domanda alla quale non sono riuscito a rispondere, nonostante trent’anni di ricerca sull’anima femminile èscrive Freud-: che cosa vuole una donna?”. Su questa linea si pongono anche autorevoli scrittori, come Dostoevkij- “Io non ci capisco niente”-; Erasmo da Rotterdam- “un essere misterioso, incostante, un paese straniero”-; Guido Gozzano- “un mistero senza fine”; Karl Kraus - “un essere insondabile”; Kierkegaard odio le chiacchiere sulla donna. Tra gli autori, si distingue Goethe, il quale afferma: “Le donne sono tutte più avanti”. Freud propone due tipi di femminilità: 1. La donna oblativa, masochista, tutta realizzata nella sua funzione; 2. L’amante narcisista, autoerotica, incapace di amare, ma tesa soltanto ad essere amata. Emerge una concezione che vede la femminilità coincidere con la passività non solo sul piano sessuale, ma in tutte le aree della vita psichica. Completano questo quadro la sua struttura anatomica, la gracilità fisica e l’influenza dell’ambiente socio-culturale. L’analisi della psicoanalisi complessivamente presenta tre modelli fondamentali: a) tipo erotico, che si lascia facilmente conquistare; b) donna difficile da conquistare; c) donna 81 materna, che rappresenta la fase evolutiva più avanzata della femminilità. Scorgiamo l’eco di temi importanti nella cultura occidentale, come la concezione aristotelica che attribuisce alla natura femminile l’eccesso del desiderio e l’dea platonica della opposizione tra anima razionale ed anima concupiscibile e infine l’antifemminismo della tradizione giudaica e della patristica, concezioni sublimate nella cultura ottocentesca dall’ideale dell’eterno femminino di Goethe. Le caratteristiche attribuite di volta in volta alla femminilitàirrazionalità, fantasia, creatività, emotività, sessualità- sono le stesse che Freud riprenderà nel modello di inconscio sul quale costruirà il suo edificio teorico e la sua base terapeutica. La madre Freud presenta un’immagine di madre capace di creare con il bambino una “unione indissolubile”. Successivi studi evidenziano che la diade madrebambino costituisce un’imprinting, ed ha una importanza “vitale” per la personalità e lo sviluppo cognitivo. La rottura di questo legame, la separazione dalla madre, la sua perdita- afferma Anna Freud - è “una situazione devastante”. Un’abbondante letteratura ha analizzato il ruolo della madre da diverse prospettive e ha descritto gli effetti disastrosi della carenza di cure materne sulla personalità. Ci sono stati 82 periodi storici caratterizzati da una frequenza all’infanticidio. Sono stati descritti modelli “patogeni” della relazione madre-bambino, quali l’iperprotettività, la sindrome del bambino “vulnerabile”, la madre “schizofrenogena”, le madri “a rischio”, la madre psicotica, la madre ambivalente, la madre “frigorifero”. Nei secoli, la cultura ci trasmette poi immagini di donne che esercitano una violenza assassina sui loro figli, a cominciare dalla tragedia greca di Medea, che uccide i suoi figli e li dà in pasto al marito che l’ha tradito. Tutto mostra –secondo molti autori- che l’amore materno non è privo di ambivalenza (Winnicott). La donna nelle neuroscienze Non è molto lontano il tempo in cui si riteneva che la differenza tra uomini e donne consistesse in una fondamentale superiorità degli uomini. All’inizio del ‘, un noto autore, Gustave Le Bon, commise l’errore di concludere che la cosiddetta inferiorità femminile è “talmente ovvia che nessuno perderebbe tempo a contestarla”. Oggi, possiamo contestarla con dati neuroscientifici, cioè sicuri, obbiettivi. Recenti ricerche dimostrano infatti che vi sono campi in cui eccellono le donne e campi in cui eccellono gli uomini. L’intelligenza non è prevalente in uno o nell’altro sesso, ma i profili (le inclinazioni) sono diversi. Gli individui sono per l’appunto individui, diversi l’uno dall’altro. Non esistono due cervelli uguali. 83 Una delle più affascinanti e recenti scoperte delle neuroscienze è che non esiste un cervello unisex. Il cervello di uomini e donne è diverso fin dal momento della nascita, quando il cervello femminile si presenta più maturo di quello maschile e si sviluppa più rapidamente, con un anticipo di circa due anni. A partire dal primo giorno dopo la nascita, le femmine guardano di preferenza i volti, mentre i maschi sono attratti dagli oggetti. Il cervello femminile è programmato per l’empatia e la comunicazione, e mostra una maggiore abilità verbale. Il cervello maschile è programmato per i sistemi, per le cose, e mostra una superiorità nella capacità visivo- spaziale. Un’altra recente, straordinaria e rivoluzionaria scoperta è che il cervello della donna possiede più neuroni specchio, fatto che le permette di interpretare i segnali verbali e non verbali dei più nascosti sentimenti delle altre persone; di capire cioè quello che gli altri pensano, fanno e provano. Per questi motivi, le donne piangono quattro volte più degli uomini, mentre il numero di donne che soffrono di depressione stagionale è tre volte maggiore rispetto agli uomini. La peculiarità biologica della donna- il ciclo mestruale, la gravidanza, il parto, l’allattamento, la cura dei figli- ha una grande influenza sullo sviluppo intellettivo, emotivo e sociale del suo cervello. Le prime differenze del cervello si manifestano già dall’ottava settimana di sviluppo fetale. La donna svilupperà 84 qualità uniche: una maggiore scioltezza verbale, l’empatia, la capacità di stabilire profondi legami affettivi, la capacità di sedare conflitti psicologici e il pregio quasi medianico di decifrare stati d’animo ed emozioni dalle espressioni facciali e dal tono della voce. Le donne svolgono meglio le prove di calcolo matematico. Le più recenti scoperte delle neuroscienze, la nostra pluridecennale attività clinica nella cura delle malattie mentali e i nostri libri dimostrano in sostanza che la donna possiede un cervello “unico e differente”. Le capacità mentali dell’uomo e della donnaconcludono i neuro scienziati- sono le stesse. Abbiamo cioè uguali possibilità. Il corpo, il padre, la sublimazione Il rifiuto del corpo e del modello di donna - moglie e madre - proposto da molte culture, richiama questioni fondamentali della psicoanalisi quali l’Edipo femminile, il complesso di Elettra, la sublimazione e la rimozione. La negazione del proprio corpo e il conflitto con il padre o la madre mostrano l’esistenza di un processo di rimozione, un meccanismo che consiste nell’atto di allontanare una pulsione che la coscienza non accetta perché contraria ai principi morali. Avviene che la pulsione, che è una forza biologica, istintuale, sessuale, come ad esempio la pulsione sessuale o quella dell’aggressività, possa essere sublimata, cioè deviata verso una nuova meta 85 desessualizzata, sublimata e carica di valori scientifici, culturali o artistici. Il meccanismo della sublimazione è una tendenza a ripristinare e riparare l’oggetto d’amore (come il padre o la madre), frantumato dalle pulsioni distruttive, ostili, di odio, invidia, gelosia, aggressività. Tutti sentimenti che possono manifestarsi nel difficile e complesso rapporto madre- bambino, padre- figlio, mogliemarito, alunno- insegnante. In pratica, cosa succede nello sviluppo della bambina? Nella bambina si sviluppa una inclinazione per il padre e un corrispondente comportamento di gelosia verso la madre. Questo complesso è definito complesso di Elettra. È sinonimo del complesso edipico maschile, l’amore per uno dei genitori e l’odio per l’altro in quanto rivale. L’opposizione della bambina al modello di moglie e madre può creare stati di ansia, di frustrazione e un processo inconscio di rimozione. Tutti fattori che possono condurre una bambina a non accettare il proprio corpo. In un sistema repressivo, ogni pensiero (o azione) si può tradurre in un forte senso di colpa. La ragazza così si mostra insofferente dei vecchi vincoli e della repressione dominante ed è tutta tesa alla ricerca di una crescita verso l’autonomia, la libertà e l’indipendenza. 86 Il senso di una crisi Invero, viviamo una profonda crisi, soprattutto culturale e morale; una desertificazione delle coscienze; un vuoto e un’assenza di norme e principi condivisi (valori) e il prevalere, come scrive George Bernanos, di arroganza, maleducazione e mancanza di rispetto. Lo ha detto di recente anche un grande teologo, il Papa Benedetto XVI: “Occorre- ha dichiarato - l’educazione al rispetto”. Come superare questa situazione di crisi? Autorevoli studiosi, d’accordo con autori come Socrate e Platone, ripongono la loro fiducia nella fede verso la scienza, il cervello umano e la morale. L’essenza della persona, uomo e donna, sta nella sua anima, nel suo cervello. Occorre allora che l’essere umano si impegni nel rendere l’anima la migliore possibile. Una vita senza ricerche (ricerca del bene, della virtù, del rispetto, dell’empatia, dell’educazione) - scrive Platone - “non è degna per l’uomo di essere vissuta”. 87 Come si evolve la mente La nuova scienza del cervello e della mente è alla ricerca di una propria, autonoma epistemologia in grado di fornire finalmente i primi, sicuri riscontri oggettivi su un problema fortemente complesso, scivoloso e misterioso qual è quello della coscienza. Vi sono stati notevoli progressi, ma le teorie al riguardo appaiono insufficienti, talora ingenue e velleitarie. Dal punto di vista strettamente scientifico siamo agli albori di una vera scienza del cervello e della coscienza. Se poi cominciamo a definire la coscienza- alla maniera di Metzinger- come “l’apparire di un mondo” ci troviamo più nell’universo filosofico di Platone che in quello neuroscientifico di Kandel o Edelman. Invero, nella storia del pensiero si assiste ad un perenne tentativo umano di comprendere la mente cosciente. Una delle ipotesi è che la coscienza sia una forma di conoscenza superiore che accompagna i pensieri e gli altri stati mentali. Nel pensiero classico, nella letteratura e nella filosofia scolastica medievale, conscientia si riferiva alla “coscienza morale”. La coscienza qui è intesa come spazio interiore. Un’altra ipotesi riguarda il concetto di coscienza interpretato come “integrazione”: la 88 coscienza è ciò che “lega” le cose insieme. In questa accezione, si parla di “unità di coscienza”, che è la capacità della coscienza di legare sia le differenti parti della nostra esperienza cosciente, che quelle del mondo in cui ci troviamo a vivere, in una singola realtà. L’idea dell’unità della coscienza è una delle maggiori conquiste ottenute nello studio del nostro cervello. L’unità della coscienza viene così vista come una proprietà dinamica del cervello umano. Esistono convergenti prove che “tutti i vertebrati” hanno esperienze fenomeniche (Metzinger). Possono anche non possedere pensiero e linguaggio, ma sicuramente essi provano “sensazioni ed emozioni”, e sono in condizione di soffrire. L’idea di molti neuroscienziati è che uccelli, rettili e pesci abbiano avuto “qualche forma di coscienza”. Le prove empiriche a favore della coscienza animale sono ormai “al di là di ogni ragionevole dubbio” (Botvinick, Cohen). È notevole poi l’evidenza dell’esistenza di molte strutture cerebrali che sottendono la coscienza. Questa è anzitutto un processo interno, legato cioè a una prospettiva individuale in prima persona. È un fenomeno soggettivo. Il tuo mondo interiore non è il mondo interore di qualcuno, è il tuo mondo interiore, un dominio privato di esperienza a cui solo tu hai accesso diretto. Questa è la ragione fondamentale che rende la coscienza un fenomeno elusivo. 89 Sappiamo che è possibile condurre ricerca scientifica solo su oggetti dotati di proprietà che sono “osservabili da tutti”. L’esperienza cosciente invece ha un carattere soggettivo, intimo; è accessibile soltanto a una singola persona: il soggetto dell’esperienza. Molti autori ritengono pertanto che la coscienza sia, come dicono i filosofi, ontologicamente irriducibile, poiché i fatti in prima persona “non possono essere ridotti a fatti in terza persona”. Diciamo di più. Gli elementi soggettivi della coscienza sono talmente evasivi che neppure il soggetto che fa esperienza possiede alcun criterio interno per identificarli tramite introspezione. Il tentativo di comprendere la soggettività è il “rompicapo” più problematico che si possa trovare nelle ricerche in questo campo. Gli stati cerebrali sono osservabili. Vi sono i campi recettoriali per i vari stimoli sensoriali. Sappiamo dove hanno origine i contenuti emotivi. Conoscere gli stati del cervello o sapere dove hanno origine la memoria o le emozioni non ci permetterà però mai di capire come questi stati soggettivi vengano vissuti dalla persona in questione. Come i correlati neurali della coscienza, cioè come queste configurazioni di attivazione neurale riescano poi a dare vita a pensieri, sensazioni, emozioni e così via rimarrà un enigma forse per molto tempo ancora. E allora se i contenuti della coscienza sono ineffabili e sfuggenti (non si può spiegare a un non vedente 90 l’essere rosso di una rosa) come potremo fare ricerca scientifica su di essi? Per risolvere il problema, il modo migliore, secondo alcuni autori, è quello di negare l’esistenza delle esperienze soggettive coscienti (Churchland). In questo modo la nostra non sarebbe un’esperienza soggettiva, ma qualcosa di fisico, uno stato neurale, cerebrale. Dobbiamo pertanto usare concetti neurobiologici, i quali ci permettono di “scoprire” molte più cose e “arricchire” le nostre vite interiori. L’avvento di una concezione neuroscientifica, che Churchland chiama “ materialismo eliminativista”, riguardante gli stati psicologici costituirà non un “tramonto”, bensì “un’alba” in cui la meravigliosa complessità del cervello e della mente viene finalmente rivelata. La coscienza dunque viene concepita come “un nuovo tipo di organo”, un fenomeno inerentemente biologico. Gli organismi biologici- afferma Metzingersviluppano due tipi di organi. Il primo riguarda, ad esempio il cuore o il fegato. Il secondo tipo è costituito da organi “virtuali” come i sentimenti (coraggio, rabbia, gioia, desiderio, ecc. ), l’esperienza di vedere oggetti colorati, di ascoltare musica o di avere una certa memoria. All’interno di questa coscienza biologica inizia a dispiegarsi la vita soggettiva. In realtà, l’enfasi sul primato della ragione prima e le neuroscienze ora stanno irrevocabilmente dissolvendo l’immagine giudaico-cristiana delle società occidentali 91 che da sempre è stata una delle componenti di coesione sociale e morale. L’immagine cioè di un essere umano che conterrebbe il segno immortale del divino. Il pericolo è che “spazzando” via la religione e le credenze oggi l’uomo possa vivere quella condizione che Max Weber chiamava “disincanto del mondo”. Un ulteriore pericolo è rappresentato dalle scoperte delle neuroscienze, le quali possono essere seguite da un “vuoto” antropologico ed etico in assenza di un terreno comune per i valori e le esperienze morali condivise. Distruggendo qualunque cosa in cui l’umanità ha creduto negli ultimi venticinque secoli, lo scenario, per Metzinger, è quello del primato di un “volgare materialismo”. Disponiamo di cervelli, ma non di anime immortali. Non ci sarà mai una vita dopo la morte. Ognuno di noi è solo e vive su un pianeta desolato, in un universo fisico freddo, vuoto e triste. In questa drammatica svolta materialistica l’immagine dell’uomo è avvolta quindi da un “vuoto etico”. E in una realtà in cui l’attuale esplosione di conoscenze nelle neuroscienze è “fuori controllo” guidata da “interessi individuali di carriera” e sotto l’influenza di “egoismi”. E tuttavia l’aspetto positivo della nuova immagine dell’essere umano è che le neuroscienze hanno svelato, pur nella profondità ancora imperscrutabile degli stati soggettivi, l’enorme numero di configurazioni neurali 92 possibili nei nostri cervelli e la vastità dei diversi tipi di esperienza soggettiva. La consapevolezza di avere a disposizione una quantità immensa di stati fenomenici e la possibilità di farne sistematicamente uso sono elementi di notevole significato umano, scientifico e sociale. La cosa nuova e straordinaria oggi è che stiamo iniziando a scoprire le basi neurali di tutti questi stati soggettivi. I progressi delle neuroscienze renderanno accessibili alla scienza l’esperienza soggettiva e ci consentiranno di superare i limiti delle nostre conoscenze sul nostro cervello e sulla nostra mente. Le sfide maggiori riguardano il “modo” in cui le sensazioni soggettive, i cosiddetti qualia, emergano dall’attività dei neuroni. Dobbiamo però trovare il sistema di avere a che fare con queste stupefacenti possibilità in maniera intelligente e responsabile, altrimenti andremo incontro a una serie di rischi. È per questo motivo che abbiamo bisogno di una nuova branca dell’etica applicata, ovvero dell’etica della coscienza. Dobbiamo cominciare a pensare- sottolinea Metzinger- a cosa vogliamo fare di tutta questa nuova conoscenza. Le nuove potenzialità includono addirittura la capacità di “alterare” sia le proprietà funzionali del cervello sia quelle fenomeniche che esse realizzano. Possono cioè essere “manipolate” non solo le esperienze sensoriali e quelle emotive, ma anche le 93 proprietà di livello superiore della mente, come l’esperienza della volontà e quella dell’agentività. Presto saremo in grado di alterare la nostra chimica neuronale, il nostro cervello, e attivare specifiche forme di contenuto fenomenico. Di qui, l’avvertita e seria esigenza di un’etica della coscienza. Nell’etica tradizionale ci si chiede: “Che cosa è una buona azione?”. Ora dobbiamo chiederci anche: “Che cosa è un buono stato di coscienza?” La nuova cultura della coscienza potrebbe così riempire quel vuoto di cui innanzi abbiamo parlato. C’è allora il bisogno pressante di promuovere un nuovo umanesimo nelle neuroscienze, un umanesimo scientifico. 94 Ambiente, geni, cervello Il nostro cervello e la nostra mente sono il “risultato” di una lunga storia evolutiva. Per studiare il comportamento umano e gli eventi mentali, abbiamo pertanto bisogno di una spiegazione evoluzionista, in quanto essa ci permette di esaminarli attraverso una teoria unificata: la teoria evolutiva di Darwin della selezione naturale. La soluzione evolutiva agisce, infatti, sull’organismo nel suo complesso. La linea di discendenza umana, secondo questa teoria, “incomincia con una famiglia di scimmie” che si è “diversificata in una gamma di specie ominidi”. L’insieme delle caratteristiche bio- psichiche dei moderni esseri umani si è strutturata lentamente lungo il tempo evolutivo. Per comprendere il modo con cui l’evoluzione opera, dobbiamo considerare il fatto che tutti gli organismi e il loro comportamento sono “espressioni” dell’interazione tra geni e ambiente. Cercare come finora è stato fatto di separare questi due elementi non è solo un errore, è proprio impossibile. In base a questa concezione, la capacità del bambino di comprendere il mondo sociale in cui vive richiede 95 una relazione tra adattamenti evolutivi antichi ereditati e la cultura all’interno della quale egli vive. Gli studi poi sulle decisioni di investimenti genitoriali e sulla scelta del partner rispecchiano considerazioni di natura evolutiva e socio- ambientale. Nella prospettiva evoluzionista, l’ipotesi del cervello sociale si riferisce al fatto che i primati possiedono cervelli di dimensioni grandi rispetto agli altri individui e che le maggiori capacità cognitive sono correlate alla circostanza che hanno una vita sociale più complessa. La narrazione di storie e la religione nascono dalla necessità di rafforzare la coesione di gruppo. Molti rituali religiosi inoltre sembrano produrre flussi di endorfine. La ricerca al riguardo mostra che il senso di calore e di appagamento generati dalle endorfine rende le scimmie antropomorfe e no, più fiduciose e affezionate agli individui con cui effettuano il “grooming”. Il contatto fisico dello stesso tipo (carezze, massaggi, sfregamenti) ha esattamente lo stesso effetto sugli esseri umani. Un tocco vale, in senso letterale, mille parole perché ci permette di capire parecchio sulla sincerità, sui desideri e sulle intenzioni di una persona. Da questo punto di vista, la religione si “regge” nella società anche grazie all’apporto delle endorfine, le quali sono provocate dal prendere parte ai rituali e al canto. Studi recenti infine mostrano che gli esseri umani hanno un forte senso di moralità e si impegnano in una intensa reciprocità. I comportamenti morali si sono 96 formati attraverso un processo di evoluzione genicultura che ha selezionato l’abilità di interiorizzare le norme. Nell’ambito delle neuroscienze- come nota Gazzaniga-, alcuni studi hanno fatto luce sui “correlati neurali” dell’esperienza religiosa e di quella morale. È stato scoperto che alcune regioni del cervello sono attive durante un certo tipo di giudizio morale, ma non durante un altro. I nuovi dati emersi per mezzo delle tecniche di imaging cerebrale mostrano che quando un individuo decide di agire in base a una credenza morale, è perché le aree cerebrali coinvolte nelle emozioni si attivano durante la valutazione del quesito morale in questione. Analogamente, quando viene presentato un problema morale sul quale l’individuo decide di non agire, è perché non si attivano le aree emotive del cervello. Si può parlare di “una struttura morale profonda”, cioè di una “scintilla morale” comune a tutti gli esseri (R. M. Green). 97 Basi neuro scientifiche della poesia e della musica La creatività - il libro, la poesia, la musica, la pittura - costituisce un fenomeno carico di connotazioni arcane, elusive e ambigue. Che accompagna l'essere umano nel dolore e nella gioia dall'infanzia al calar dell'età. L'arte nasce negli spazi profondi, aggrovigliati e ancora indecifrabili del cervello. È soltanto dalla conoscenza degli infiniti e meravigliosi meccanismi neuronali che noi possiamo trovare le risposte alle inesauribili domande che la creatività ci pone continuamente. Il crescente interesse in questo settore della nuova scienza del cervello e della mente ha dato origine alla nascita di una nuova disciplina chiamata “neuroestetica”. Da sempre i filosofi hanno cercato di capire la genesi e la natura dell'arte e le motivazioni profonde che spingono l'uomo a creare poesia, pittura, musica. Oggi, diversamente dai filosofi, i neuroscienziati sono 98 interessati a comprendere la creatività in maniera diretta ed empirica. Finora, gli esperimenti condotti attraverso i fantastici metodi di brain imaging dimostrano che la creazione artistica è un “prodotto” di un meraviglioso e complesso processo di elaborazione cerebrale e mentale. Essa è l'esito di un processo unico e irripetibile. Questo perché il cervello, definito come la struttura più complessa e prodigiosa del creato conosciuto, è “unico” e “differente” da tutti gli altri. Non esistono al mondo due cervelli identici. Sull'arte e il bello abbiamo una grande varietà di definizioni. Si va dalla più antica concezione dell'arte come imitazione alle idee moderne di arte come creazione e costruzione, per passare attraverso i concetti di educazione (Platone, Aristotele, Hegel); espressione contemplativa, desessualizzata e sublimata; raggiungimento delle profondità dello spirito e dell'inconscio (Freud); e infine come catarsi nella pietà, nella paura e nei desideri nel modo che cogliamo nell'opera di Goya e Van Gogh. Per alcuni autori, l'artista è considerato un soggetto fragile, infantile, ipersensibile, diverso, posseduto, maledetto. È l'idea platonica dell'invasamento dell'artista. Ricreare il mondo è una “pazzia”. Il poeta non sa poetare se prima non sia stato ispirato da un dio e se non sia uscito di “senno”. 99 “Non esiste - ha scritto Aristotele - un grande ingegno in cui non vi sia un pò di pazzia”. E Orazio: “Aut insanit homo, aut versus facit”. Nel “Fedro” Platone descrive una forma di esaltazione e di delirio in cui ritiene siano autrici le Muse, e aggiunge che la sola abilità senza il delirio delle Muse non può che dare luogo a un artista incompleto. La poesia in sostanza assume i connotati di una “malattia dell'uomo, così come la perla è la malattia dell'ostrica” (Heine). L'idea che l'origine dell’arte sia da scorgere nella malattia è tuttavia da ricercare in epoca romantica, quando la riflessione filosofica tedesca, l'idealismo, aveva portato alla scoperta dell'io, e come conseguenza all'esaltazione dell'irrazionale. Tutto ciò che è grande nel mondo- diceva Proust“lo dobbiamo ai nevrotici”. La malattia è in un certo qual modo “degna di venerazione” (Mann), poiché serve ad “affinare l'uomo, e renderlo intelligente cd eccezionale”. Invero, il poeta, lo scrittore, il musicista, il pittore, attingono alle sorgenti limpide e pure, ma anche oscure, tortuose e ambigue dell'anima e ai segreti del cuore per illuminare la strada che ogni essere umano ha deciso di percorrere. La spaventosa esperienza poi del dolore, del malessere esistenziale e della depressione rende l'arte (o la bellezza del verso) l'inizio del pauroso. Il dolore infatti risuona nelle cadenze cosmiche di Beethoven e 100 giunge sino a noi da quasi tutte le pagine di autentica poesia. Questa conduce la parola a protendere, per Luzi, verso “l'ineffabile, il soprumano”. L'immagine poetica trascende l'esperienza e assurge a musica silenziosa, canto, melodia, suggestione, fascinazione. La poesia è “arte-creazione”, “pensiero poetante e poesia pensante”, ovvero effusione evocativa, intelletto trascendente e inenarrabile, riflesso del pensiero assoluto. La verità dell’arte, secondo Valery e Baudelaire, è resa vera dalla Bellezza, la più sottile qualità del pensiero. La vera, autentica poesia - pensiamo per tutti ai versi di Leopardi- si pone come pura essenza verbale, che segna la lontananza esistente- scrive Carlo Bo- “tra la dimensione immanente delle cose e gli eventi terreni e quella assoluta della creazione artistica e del godimento estetico”. In ciò sta la dimensione eterna e universale della creazione artistica, che è emanazione sia dello spirito umano che dell'anima del mondo. Le influenze di Freud Carattere magico e sublimazione in Leonardo e René Magritte Le influenze di Freud sono state “dilaganti” (Kris) non solo sulle forme artistiche, ma anche sull'artista e l'osservatore, consentendoci di guardare in modo 101 nuovo alla creatività. Fa da sfondo all'opera del padre della psicoanalisi, l'idea romantica della poesia e della pittura intese come “lo spontaneo traboccare di forti sentimenti”. Se il mondo esterno è rappresentato nelle arti visive o descritto dalla poesia, questo deve essere considerato “una proiezione dello stato mentale dell'artista”. Il concetto dell'arte come “espressione” di stati psichici favorisce la comparsa del simbolismo, dell'espressionismo e del surrealismo. L'attività artistica- afferma Freud- si rifà alle primitive pulsioni psichiche ed esprime momenti di intensa emozione, il senso della sofferenza, della malattia o del sentimento e degli stati alterati della coscienza. Questa visione porta a considerare il valore terapeutico che può avere per l’artista realizzare un prodotto d'arte. L'espressione “terapia artistica” denota dunque il lato positivo circa la possibile “risoluzione” del conflitto psichico. L’artista- per la psicoanalisi- attinge alle sorgenti più profonde e ai segreti più nascosti del cuore dell’uomo, fonti che non sono ancora state aperte alla scienza. Nell'esame della “Madonna, il Bambino e Sant'Anna” e della “Monna Lisa”, l'indagine psicoanalitica ha rivelato che Leonardo aveva “un conflitto aggressivo preedipico con la madre”, un disturbo che si è risolto nel meccanismo di difesa dell'omosessualità (Bergler). Le sue Madonne non esprimono il prolungamento dell'amore materno, come 102 ingenuamente si potrebbe pensare, ma piuttosto la negazione difensiva della “mancanza d'amore” della madre. Il processo di sublimazione, inteso come “desessualizzazione” e trasformazione dei desideri libidici, non esprime tanto la madre “amorevole” quanto un meccanismo di difesa contro una madre “odiosa e dannosa”, alla quale Leonardo era masochisticamente legato. Egli così realizza l'odio per sua madre nella omosessualità, e protegge il narcisismo mortificato nelle sue amorevoli Madonne con il Bambino. In questo modo, l'artista “schiva” l'odio della madre e nega il suo legame masochistico con essa. Anche la ricerca sull'immaginario artistico del pittore surrealista René Magritte ci porta a connettere il suo carattere magico ed enigmatico all'esperienza dolente della perdita della madre, la quale si era suicidata annegandosi quando egli aveva tredici anni. I suoi dipinti creano nello spettatore violente e contrastanti emozioni: attrazione e repulsione, fascino e paura. Molte immagini dipinte esprimono l'incapacità del bambino a provare ed elaborare il lutto, poiché la loro funzione, per Magritte, è conservare il ricordo doloroso come “una ferita che non si sana mai” (Wolfenstein). Di qui, la presenza di significati simbolici nei suoi dipinti, un elemento invero da lui fortemente negato. 103 La mano del pittore finisce con il “riepilogare” (Rose), nei suoi momenti avanti e indietro sulla teta, gli stimoli di amore e di cura corporea un tempo offerti al neonato dalla madre, nonché le “tensioni” di amore e odio. Fra l'arte e il corpo umano c'è un intimo rapporto. Il grande pittore, per Berenson, è “soprattutto un artista con un grande senso dei valori tattili. La realtà del proprio corpo diventa nel pittore una condizione fondamentale. A cominciare dall'infanzia, quando il bambino proietta le proprie sensazioni corporee nel processo del fare artistico, creando immagini di “potenza impressionante e di distorsione espressiva” (E. H. Spitz). Invero, la creatività incarna anche il desiderio di “trascendere” (Otto Rank) i fattori biologici e rivela il tentativo di ottenere il “controllo” di fattori ambientali, cosi da raggiungere un senso di indipendenza. Un altro autorevole rappresentante della psicoanalisi, H. Sachs, mette in evidenza il ruolo della percezione, che è un concetto chiave nell'estetica contemporanea. La creazione della forma, cioè della linea, della figura, del colore e della dinamica nei dipinti di Newman, Motherwel o Rothko, è caratterizzata principalmente da elementi percettivi, i quali ci trasmettono un senso di piacere e di godimento, che non necessariamente si identifica con il piacere istintuale originario. 104 Perché un'opera d'arte sia grande - osserva E. H. Spitz - deve esservi anche il raggiungimento delle profondità dell'inconscio, che hanno a che fare con la regressione, l'ambiguità e la dialettica tra fusione e separazione, ma anche con la tensione e la distensione, il pensiero e il sentimento. Aristotele aveva già compreso questo aspetto, quando parlava di “catarsi” della paura e della pietà. Le opere di Van Gogh, Rembrandt o Goya “sopravvivono” perché esse raffigurano le paure, i desideri e le pulsioni dell’umanità. Spesso poi il contenuto dell'opera sfugge alla conoscenza dello stesso autore. L'esperienza artistica, secondo la concezione psicoanalitica, ha il mandato dunque di “sublimare” la libido, impegnare le funzioni superiori dell’Io e “riattivare” la nostra consapevolezza del Sé come corpo, del Sé come ricevitore e del Sé come agente in un mondo in cui la figura umana nell'arte si è gradualmente “frammentata” (Kutash) fino a “scomparire” in un periodo di ansia e di tensione universale. La bellezza- si sostiene- è negli occhi di chi la guarda: in una mostra di pittura, un osservatore può rimanere affascinato dai dipinti, mentre un altro può considerarli un lavoro pessimo. Ad un concerto della mia amica Giovanna, ad esempio, uno spettatore riterrà sublime il 105 componimento sinfonico, un altro invece avrà l'ansia di andarsene. Una poesia può creare in un soggetto una forte emozione, in un altro indifferenza o fastidio. Questo per dire che l'arte è un fenomeno soggettivo, per cui risulta quasi impossibile definire l'arte, nonostante il numero elevato di pubblicazioni in materia, a cominciare da Platone. Il bello, per Kant, “è ciò che piace universalmente senza concetto”. Alcuni studiosi pensano che la bellezza è la manifestazione dell'essere, per altri invece la rivelazione delle connessioni sinaptiche o neurali. La bellezza poi è ovunque. Non è lei a “mancare ai nostri occhi, sono i nostri occhi- afferma Rodin- che non riescono a coglierla”. L'arte è dunque una sensazione, che può risultare negativa o positiva, ovvero inspiegabile: “Mi piace il concerto della mia amica Donatella, è gradevole l’opera della pittrice Emilyn, ma non so dire perché”. Gli esperimenti condotti con i sorprendenti metodi di brain imaging dalla nuova scienza del cervello ci dicono che le nostre reazioni all'arte e alla bellezza sono di natura biologica, sono ereditarie. Anche nei bambini, infatti, c’è l’arte. La quale è molto simile nelle diverse epoche e nelle diverse culture. Gli insegnanti, assillati dal programma e da un sistema educativo superato scientificamente e culturalmente, non sempre dedicano il dovuto spazio alle attività artistiche degli alunni. Eppure, un disegno 106 eseguito da un bambino può rivestire un ruolo decisivo per scoprire le sue nascoste capacità, la sua personalità e rappresentare un valido mezzo diagnostico e terapeutico nell'illuminare i suoi conflitti, i suoi traumi, le sue ansie, ma anche i suoi interessi e le sue motivazioni. La poesia, la musica, la pittura ci permettono di entrare in mondi immaginari, fantastici e oscuri, poiché ci danno emozioni uniche e quindi ci fanno stare bene con noi stessi e con gli altri. Gli studi dunque rilevano che i bambini vivono una vita scandita da una sensibilità artistica, condizione che costituisce una forte spinta al loro sviluppo intellettuale, sociale ed etico. Il bello esiste anche nella natura: un tramonto, una notte stellata, il suono della pioggia, un paesaggio naturale, il mormorio di un ruscello, il passaggio stupefacente dal buio della notte alle luci dell'alba, quando il riverbero del sole illumina il mondo e crea il miracolo dell'essere umano, il quale sembra sospeso in una sorta d'incantamento tra cielo e terra. La bellezza, come mostrano alcune ricerche, nasce da un senso innato: i neonati, ad esempio, fin dai sei mesi di vita preferiscono guardare volti attraenti. Studi in materia hanno svelato poi che un neonato di soli 41 minuti di vita riusciva ad imitare i gesti del ricercatore. Successivi esperimenti hanno provato che già alla decima settimana, il bambino imita- e dunque 107 apprende- espressioni di felicità o di rabbia della madre, a dimostrazione che il nostro impulso ad apprendere e imitare è presente fin dalla nascita. Un'altra grande scoperta è che di fronte all'arte capace di suscitare emozioni e brividi noi produciamo la dopamina, che è la sostanza dell'ebbrezza e del piacere, la quale geneta uno stato di distensione neuromotoria, tranquillità interiore, serenità, e un grande senso di benessere. Una recente ricerca effettuata nell'Università di Montreal ha mostrato in particolare che la musica, come vedremo ampiamente di seguito, dà piacere al cervello, come il cibo, il sesso o le droghe, in quanto induce per l'appunto una scarica di dopamina, il “neurotrasmettitore del piacere”, nelle aree neurali che elaborano le sensazioni di piacere e appagamento. Per produrre questo effetto, la musica deve essere di nostro gradimento. Gli scienziati poi hanno rilevato che la propria musica preferita scatena una serie di sensazioni fisiche, modificando il battito cardiaco, il ritmo del respiro, la temperatura corporea, e dando letteralmente i brividi. Realizzare a scuola questa condizione significa accrescere di gran lunga i processi di sviluppo, di apprendimento e di creatività nel bambino. Il libro, la poesia, la pittura, la musica creano un engramma nel nostro cervello, ci possiedono e ci consentono di incrementare le nostre capacità di 108 pensiero, attenzione, memoria. Originano soprattutto uno stato d'animo di godimento psico-fisico e spirituale, che ci aiuta a vivere bene, vivere meglio e vivere più a lungo. Alcune scoperte delle neuroscienze dimostrano, con buona pace di concezioni pedagogiche obsolete, che il cervello del bambino è geneticamente “programmato” per la fantasia, la facoltà di creare, l'avventura, la libertà, il “movimento”. I bambini che hanno la possibilità di “muoversi”, che non sono “inchiodati all'immobilismo” sui banchi e con “le braccia al sen conserte” (Manzoni), imparano di più di quelli che restano “fermi”. Le nuove acquisizioni scientifiche inoltre hanno rivelato, ad esempio, che prima di un compito impegnativo o di una gara i livelli delle sostanze neurochimiche s'innalzano. Una gara vinta produce, infatti, una scarica di dopamina, che agisce sul cervello dell'individuo come fosse una droga. Ricerche effettuate nelle Università di Toronto e dell'Oregon con bambini dai tre ai sei anni hanno accertato che attraverso l'attività artistica essi ottenevano risultati migliori riguardo allo sviluppo delle capacità cognitive, dell'attenzione e del linguaggio rispetto a bambini che non svolgevano tale attività. 109 Migliorare il potere attentivo nel bambino significa metterlo in grado di potenziare la conoscenza e l'emozione, la concentrazione, il controllo degli impulsi e dell'aggressività. Raggiungere questa condizione di controllo e di equilibrio interiore può salvarci la vita in situazioni di pericolo, di panico o di grande paura. La musica e il cervello Come la poesia, la pittura e ogni altra opera artistica, anche i suoni e la musica rappresentano ancora un mondo misterioso. La musica sfugge al linguaggio, perché esprime ciò che l'essere sente senza poterlo dire con parole. Essa è l'espressione più diretta dell'interiorità, coinvolge le emozioni e i sentimenti e ha un notevole influsso, anche temibile, sulla ragione e sui neuroni fino a provocare, come vedremo, ansia, sintomi dissociativi e attacchi epilettici (epilessia musicogena). I neuroscienziati cercano di capire perché, assente nei primari non umani, fa la sua comparsa nella specie umana. L'aspetto peculiare è l'essenziale “scossa” emotiva che la musica riesce ad imprimere nel nostro cervello e nella nostra coscienza, andando a smuovere le zone più profonde e inesplorate dell'animo umano, in una sorta di “sogno a occhi aperti” (Meulders). Insorge un perturbamento che genera un “senso” inquietante, arcano e misterico tra esaltazione e depressione, piacere e dispiacere, malessere o serenità interiore. Ascoltiamo 110 la musica ed entriamo- scrive V. Hugo- “in un dedalo inestricabile di vicoli, incroci e strade senza uscita che somiglia a un gomitolo di lana con cui ha giocato un gatto”. La musica, per Claude Lévi-Strauss, è un linguaggio atto ad elaborare “messaggi”. Fra tutti i linguaggi quello musicale, invero di difficile comprensione e definizione, “riunisce” gli elementi contraddittori di essere “intelligibile e intraducibile”. E fa del creatore di musica, al pari dello scritture, del poeta e del pittore, “un essere simile agli dei”, e della musica il “supremo mistero” della scienza del cervello e della mente. La facoltà creativa è “singolare” e “non comune”, ma sembra che tutti i bambini siano geneticamente capaci di cantare (Peretz), in virtù della presenza nel cervello umano di neuroni specifici. I circuiti neurali destinati alla musica comincerebbero ad organizzarsi fin dalle prime relazioni vocali tra madre e bambino. Ricerche sulle origini della musica nei bambini hanno scoperto che fin dai sei mesi di età essi presentano attitudini musicali: riconoscono una melodia anche se viene suonata in modo diverso. Anche i feti rispondono alla musica con cambiamenti nel battito cardiaco. Il cervello umano dunque possiede percorsi neurali capaci di elaborare la comunicazione musicale. Le neuroscienze provano che noi abbiamo un “cervello musicale”. Che sarebbe relativamente 111 autonomo. Questo spiega il perché si possa essere competenti in espressione linguistica, ma totalmente indifferenti alla musica o viceversa, come è il caso di molti bambini autistici (Meulders). È stato altresì scoperto che quando ascoltiamo la musica che ci piace, il corpo rilascia alcune sostanze, gli oppiacei, che creano uno stato di ebbrezza. Che cosa percepiamo quando ascoltiamo la musica? Per gli autori che privilegiano la sola forma, la musica è “un'arte insignificante” e “non può esprimere nulla”. Altri studiosi invece sostengono che la musica è un elemento “immerso” nel vissuto umano e possiede diversi livelli dì significato: emotivi, linguistici o addirittura religiosi. Già Pitagora aveva sostenuto che l'elemento essenziale è il “calcolo degli intervalli armonici”, che non permette tuttavia di “riconoscere” una melodia. A sua volta, un discepolo di Aristotele, Aristoxene, pensava che l'intelligenza musicale sia dovuta a due elementi: la sensazione e la memoria. Il godimento provocato dall'ascolto della musica, secondo William James, ha due livelli d'intensità: il livello inferiore, che è di ordine prettamente cognitivo e il livello superiore al quale si affiancano manifestazioni emotive dovute al “riverberarsi” dei cambiamenti di ordine viscerale al livello della coscienza. 112 Una consistente difficoltà nella ricerca neuroscientifica è rappresentata dal fatto che il livello di emozione musicale- ma questo vale per qualsiasi emozione- è “variabile” a seconda degli individui. Gli stati d'animo- chiamati “qualia” dai neuroscienziati sono, infatti, soggettivi, personali, unici. Le esperienze soggettive (gioia, dolore, ira, ecc. ) non sono direttamente osservabili e misurabili da strumenti scientifici, poiché queste sono accessibili solamente all'individuo che le esperisce. Come gli stati d'animo emergano dal cervello è ancora un mistero. Finora, gli esperimenti di brain imaging hanno cercato di “localizzare” la sede in cui si situano certe funzioni cerebrali. Esistono buone ragioni per ritenere che il lobo temporale svolga un ruolo fondamentale nella percezione musicale. Sappiamo altresì che l’attività musicale coinvolge numerose altre strutture cerebrali. Studi condotti con i metodi di brain imaging mostrano poi che c'è una differenza tra il cervello di un musicista e quello di un non musicista, a causa dell'apporto sanguigno che attiva i neuroni delle regioni coinvolte nell'espressione musicale. Altre ricerche in questo campo hanno evidenziato che la superficie dell'area motoria collegata a ogni dito della mano “può aumentare notevolmente dopo 113 qualche giorno di esercizio al pianoforte” (PasqualLeone). Una delle più affascinanti scoperte delle neuroscienze riguarda la dominanza emisferica, la quale risulta “differente” a seconda che l'ascoltatore sia un profano o una persona competente. Ancora più sorprendente- come ha scritto il mio compianto maestro, Raffaello Vìzioli, docente alla facoltà di Medicina dell'Università “La Sapienza” di Roma e neuroscienziato di fama mondiale- è la scoperta che la dominanza si “trasferisce” da un emisfero all'altro quando il profano diventa un musicista. In un altro studio, è emerso che i musicisti esperti hanno un cervello con un'organizzazione speciale. In che cosa consiste il fenomeno musicale? L'autore che forse più di ogni altro ha capito l'essenza del fenomeno musicale, Nietzsche, opera una netta distinzione tra arte apollinea e arte dionisiaca. La prima sarebbe l'arte plastica e figurativa, quella che ha per oggetto il mondo delle apparenze, mentre la musica sarebbe arte dionisiaca e la sua differenza dalle altre arti sarebbe radicale, nei senso che mentre queste trasfigurano le forme dell'apparenza, la musica si riferisce all'essenza. La sua voce - aggiunge il filosofo tedesco- proviene dal cuore delle cose, dalla misteriosa unità originaria. 114 Essa viene cioè prima delle cose, è l'universale “anterem”. Il linguaggio musicale- spiega Vizioli- non ha, a differenza del linguaggio verbale, alcun riferimento immediato con la realtà. Non è “significante” di un “significato”, non traduce cose o relazioni tra cose né è al servizio di nessuna condotta o codice di comportamento. È il linguaggio delle emozioni, e il suo potere simbolico è strettamente legato alla vita emotiva ed affettiva. La musica viene dunque a porsi come la lingua primordiale, che esprime la verità essenziale della vita e la terribilità del mondo notturno simboleggiato da Dioniso, cui le belle forme dell'arte apollinea dovevano fare- chiarisce Vizioli- da schermo e difesa. La olimpicità dell'arte apollinea non era per i greci il segno di un popolo sereno, ma l'espressione di un popolo che aveva il senso tragico dell'abisso e cercava di salvarsi sia pure nell'illusione delle forme. A sua volta, Freud riteneva che la musica appartenesse alle strutture arcaiche del nostro cervello, là dove nasce l'Es, cioè il cervello rettiliano, da cui si diramano le manifestazioni della vita istintiva. Il problema se esista realmente “un linguaggio della musica” è stato lungamente dibattuto. Alcuni autori hanno sostenuto che la musica si situa laddove il “linguaggio termina” (Critchley). La musica, per 115 Westrup, esprime quello che ha da dire, usando propri elementi che non possono essere tradotti in linguaggio, così come non è possibile tradurre un quadro. Musica e linguaggio sono lingue differenti che impiegano simboli differenti. In questo senso, la musica arriva quasi ad esprimere “l’inesprimibile” (Huxley). Come dire che noi non possiamo esprimere in parole - come concordano Weber e Newman - “un'idea musicale”. La musica esprime in sostanza quel sottile complesso di sensazioni che il linguaggio non può nemmeno “nominare e tantomeno esprimere” (Lauger). La sua essenza è l’ineffabilità, un “simbolo non consumato”. È l’espressività, non espressione. Sono stati analizzati inoltre gli stati di estasi in relazione alta musica. Le ricerche mostrano che negli stati di estasi si sviluppa un senso di “fusione” che porta il soggetto a identificarsi con la realtà esterna. Stati estatici possono dunque verificarsi anche sotto l'impatto di forti stimoli musicali e delle loro intense proprietà evocative. La sensazione estetica può comprendere anche la perdita del senso del tempo, la derealizzazione, la depersonalizzazione, nonché alterazioni soggettive dello schema corporeo. Alcuni individui poi hanno la capacità di associare i suoni con immagini visive di colori e forme. La musica, per Heine, finisce dunque con l'apparire “una cosa strana”. Essa appare “un miracolo” perché 116 sta a metà strada fra “pensiero e fenomeno, fra spirito e materia”. In verità, noi “non sappiamo” cosa sia la musica”. In questa visione, assume notevole interesse il rilievo neuroscientifico dell'esistenza di un legame che accomuna musica e poesia e musica e pittura. Su che cosa la musica comunichi, molte riflessioni ci vengono dai Greci. Per Isidoro di Siviglia, la creazione musicale “muove i sentimenti e modula le emozioni, consola la mente nel sopportare le tribolazioni, e acquieta le menti sconvolte, come si legge a proposito di David che liberò Saul dallo spirito immondo con l'arte della melodia”. Questa analisi anticipa le ipotesi sugli effetti emozionali e terapeutici della musica. Nel Medioevo, essa era considerata in maniera simbolica. L'artista cercava di stabilire legami fra musica divina e quella terrena o umana. Proust ha parlato di “tasti esprimenti tenerezza, passione, coraggio, serenità”. La musica -secondo Addison- è “il bene più grande che i mortali conoscono ed è tutto quanto di celeste abbiamo in terra”. Alcuni studi hanno poi osservato la presenza di “notevoli alterazioni” del sistema circolatorio e respiratorio dovute a “concomitanti affettive” della musica più che alle “proprietà fisiche” (Harrer). Definita come un “insieme di suoni in combinazione melodica o armonica”, la musica, secondo ricerche condotte da Diesserens e Schoeu, può causare: 1. un 117 aumento del metabolismo corporeo; 2. un'alterazione dell'energia muscolare; 3. un'accelerazione o irregolarità della frequenza respiratoria; 4. un aumento della percezione negli altri sensi; 5. un abbassamento della soglia per vari stimoli; 6. un effetto marcato sulla pressione sanguigna e sulla circolazione centrale e periferica. A questa ampia sintomatologia erano associate chiare manifestazioni psico-emozionali, come agitazione e facilità di pianto, rabbia, paura, ansia o panico. Sono stati presentati casi in cui qualsiasi tipo di musica poteva “scatenare” crisi emotive e agitazione psico-motoria; in altri casi, il fenomeno era determinato solo da un singolo strumento o una singola melodia. Sono stati descritti inoltre svariati casi di “epilessia musicogena”, quella rara forma di epilessia in cui le crisi sembrano scatenate da stimoli musicali (Critchley). L'epilessia musicogena comprende fattori emozionali e fattori fisici che comportano “un aumentato flusso ematico cerebrale e un'accelerazione del battito cardiaco”. Attacchi ripetuti di epilessia musicogena possono condurre ad uno stato di ansia e depressione e sviluppare altresì un vero e proprio “terrore della musica” (Nikonov). A1 riguardo, ricordiamo i casi di isteria di massa con manifestazioni epilettiche riscontrati in tutta Europa nel Medioevo. Era un fenomeno caratterizzato da un delirio orgiastico nel 118 quale i protagonisti danzavano, emettendo grida sconnesse o cadevano a terra in preda a convulsioni. La musica infine ha anche una capacità profilattica e terapeutica. Gli scrittori antichi erano interessati agli aspetti “curativi” della musica. Plinio racconta che Catone ricordava un motivo musicale specifico per il trattamento dei dolori muscolari e che Varrone usava un altro brano per alleviare i dolori della gotta. Un altro autore, G. Aurelianus, rammenta l'uso della musica per il trattamento della follia e per la terapia della sciatica. Cornelio Agrippa cercò di collegare le quattro parti vocali agli elementi cosmici: il basso con la terra, il tenore con l'acqua, il contralto con l’aria e il soprano con il fuoco. Fin dall'antichità, i guaritori ricorrevano alla musica nel dare consigli circa le pratiche curative, ritenendo che la melodia avesse un'origine divina. La terapia musicale raggiunge un posto di rilievo nell'opera di Orfeo (1350 a. C. ), che anticipa le idee medicoscientifiche della cultura greca. Le origini della tragedia greca vanno ricercate nelle feste dionisiache. Nella sua pratica di cantante-guaritore, Orfeo cercava di “addomesticare le bestie feroci”, cioè le passioni umane, con la musica incantatrice. La quale aveva anche la funzione di riportare l'armonia fra il Cosmo e l'uomo. La concezione dell'Orfismo esercitò una notevole 119 influenza sulle teorie di Platone, Aristotele e degli altri filosofi dell'antica Grecia. La musica aveva una funzione anche nel campo dell'educazione, dell'arte, della vita pubblica, delle relazioni interpersonali e delle cerimonie religiose. Era considerata essenziale per la salute mentale e fisica dell'individuo e per il trattamento di malattie psicosomatiche ed organiche. Nell'antica Grecia e nell'antica Roma, i casi psichiatrici venivano trattati con il canto. Asclepiade e Celso raccomandavano la musica nel trattamento dei disturbi mentali. Queste idee influenzarono anche la medicina araba, che con Avicenna e Averroé introdusse la musica negli ospedali psichiatrici. In realtà, la cosiddetta “terapia musicale” appartiene al settore delle influenze culturali- teatro, pittura, scultura, prosa e poesia, ecc. -, le quali si combinano in una condizione “liberatoria”. Questa dimensione “liberatoria” è stata sottolineata da molti scrittori e artisti per i quali il lavoro creativo procura “sollievo” e può agire come mezzo per alleviare la sofferenza, il dolore e la disperazione. Lo scrittore Graham Greene, soggetto a lunghi periodi di depressioni suicide, disse che scrivere è “una forma di terapia”. “Mi chiedo come possano sfuggire dalla follia e dalla melanconia tutti coloro che non scrivono, non dipingono o non compongono”. L'arte, per James, è la 120 ricerca di una qualche via d'uscita dal “labirinto del suo sé, imprigionato e in preda alla disperazione”. Nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non di fatto “per uscire - aggiunge Artaud- dall'inferno”. L'arte “prima cura l'artista e successivamente aiuta a curare gli altri”. L'azione salvifica sulla mente esercitata dall'arte è stata sostenuta anche da Byron per il quale la poesia è “la leva dell'immaginazione” e da Berliot, il quale ha affermato: “senza la musica sono certo che non potrei continuare a vivere”. Gli umori, l'attività artistica, la depressione, le allucinazioni, l'epilessia, l’alcool e i disturbi schizofrenici che affliggevano Van Gogh lo portarono ad affermare che” queste emozioni sono così forti che le pennellate vengono giù una dopo l'altra”. “Più divento dissipato, malato, vaso rotto più io divento artista, creatore, entro quel grande rinascimento dell'arte. . . quest'arte eternamente viva, questo germoglio verde che spunta dalle radici del vecchio tronco tagliato, sono così spirituali, che ci assale una certa malinconia”. Non sapremo mai- rileva Jamison- cosa Van Gogh avrebbe potuto dipingere o Virginia Woolf potrebbe aver scritto se fossero vissuti più a lungo e non avessero commesso suicidio. I quadri del pittore olandese esprimono una bellezza e una lucidità elevatissima. 121 Perché si succhia il seno? Perché i bambini e i piccoli di tutti i mammiferi succhiano il seno? Certamente per nutrirsi. Ma anche per stabilire un “contatto” con la madre, per ricevere quegli stimoli emozionali che sono il necessario sostentamento al suo sviluppo bio-psichico. Chi può resistere- afferma il neuroscienziato Panksepp“all’incantevole danza di emozioni” tra una madre e il suo piccolo? Basta un sorriso, o una carezza, a provocare un’esplosione di gioia nel neonato. La maturazione è un processo di progressiva autoindividuazione e distacco. È soprattutto un processo di crescita e di scambio in circolare sintonia prima con la madre e il caregiver, poi con le altre figure del proprio ambiente. La ricerca sperimentale mostra che le cure di accudimento e i comportamenti di contatto pelle-pelle sono indispensabili nello sviluppo dell’individuo. Conferme in tal senso provengono dalla sperimentazione sugli animali. Sono stati studiati gli effetti della separazione precoce delle scimmie dalla madre. I dati rilevano che la separazione dalla madre, 122 soprattutto nel contatto pelo-a- pelo, provoca “disordini” nel comportamento degli animali. È stato accertato che quando il piccolo viene “privato” del contatto tanto più il suo sviluppo adulto risulta “disorganizzato”. Le conclusioni di una ricerca realizzata dal neuroscienziato Swaab rivelano che per uno svolgimento rapido e senza problemi del parto è necessaria una buona interazione tra il cervello della madre e quello del nascituro. Il cervello di entrambi, infatti, rilascia un ormone nel sangue, l’ossitocina, una sostanza che fa contrarre l’utero, accelera lo svolgimento del parto e stimola la produzione di latte. Quando il neonato succhia il seno stimola il rilascio di questo ormone da parte del cervello materno. Il pianto del bambino, ad esempio, è in grado di attivare il riflesso, producendo l’ossitocina, la quale svolge un’azione positiva nel cervello di entrambi, generando uno stato di calma e un forte legame tra madre e bambino. Alcuni esperimenti hanno poi dimostrato che una riduzione di ossitocina si verifica nel caso di bambini ricoverati, trascurati, maltrattati e privati di affetto. Una mancata interazione tra il cervello materno e quello del bambino può essere legata poi a molti disturbi psichiatrici, come la schizofrenia e l’autismo, patologie che hanno tuttavia cause diverse. Altre ricerche hanno scoperto che problemi durante il parto 123 sono all’origine di disturbi alimentari, anoressia e bulimia nervosa. Il cervello produce inoltre la vasopressina, una sostanza che svolge come l’ossitocina e un’azione importante sul comportamento materno, sul comportamento sociale, sullo stress, e nella comprensione dello stato emotivo altrui. In molti casi di autismo, sono stati riscontrati bassi livelli di vasopressina e ossitocina (Grandin). C’è un rapporto circolare tra vasopressina e ossitocina- la vasotonina- e la cura genitoriale sia negli esseri umani che nei piccoli non umani (Feldman). Il senso di gioia dimostrato da un cane al suo padrone è l’espressione del rilascio di oppiacei endogeni (Gonin). Affetto e sostegno reciproco nel rapporto madrepiccolo tanto negli animali quanto negli umani sono associati ad alti livelli di ossitocina e vasopressina. Ricerche recenti mostrano che addirittura anche i topi maschi hanno “un comportamento genitoriale spontaneo” (Bales). Tutti i mammiferi e gli uccelli in pratica “curano i loro piccoli” (de Waal). Esperimenti effettuati in materia hanno scoperto che gli impulsi all’accudimento provengono da circuiti cerebrali innati. Aver cura di sé e degli altri, comportamento tipico dei mammiferi, è una funzione evolutiva fondamentale dei meccanismi neurali e corporei, i quali “maternalizzano” il cervello delle femmine (Kaverne). I cuccioli di ratto che sono 124 leccati abbondantemente crescono meno ansiosi, sono più resistenti allo stress, mostrano assenza di paura e apprendimento migliore (Meaney). Molti animali, inclusi quasi tutti i rettili, non mostrano forti impulsi materni. La mancanza di legami sicuri ha un impatto negativo sullo sviluppo della mente e del cervello dei piccoli. L’amore materno è dunque essenziale per la salute emotiva e fisica del figlio. I benefici emotivi di cure amorevoli durano per il resto della sua vita (Panksepp). Le cure materne- affermano i neuroscienziati- sono “le cure più autogratificanti”. L’altruismo “ci fa sentire bene”. Il nostro cervello, secondo una linea evolutiva, è stato in sostanza “programmato” per “offuscare” il tratto che separa il sé dall’altro, in base a una continuità fra prendersi cura del proprio corpo, dei propri bambini e di coloro che ci sono vicini (Churchland). Si tratta di una funzione svolta soprattutto da un “antico sistema neurale” che contraddistingue ogni mammifero, dal topo all’elefante (Aknin). È un impulso genuino, benevolo, gratificante. Esperimenti di neuroimaging realizzati dal neuroscienziato Rilling hanno evidenziato che noi abbiamo “propensioni emozionali alla cooperazione”. La cura dei piccoli è un bisogno “insopprimibile” ed è presente in tutti i mammiferi, è la forma archetipa dell’altruismo, un modello comportamentale per tutto 125 il resto. La morale umana è - precisa P. Churchland- uno sviluppo della tendenza alle cure materne, le quali sono associate ai sistemi cerebrali che regolano le funzioni biologiche dell’organismo. Questi sistemi neurali operano in modo da considerare i nostri figli “parti” di noi nello stesso modo in cui curiamo il nostro corpo. Non siamo gli unici a praticare l’altruismo e le cure materne. Esistono prove recenti sull’esistenza dell’altruismo negli animali. Questi spesso manifestano “tendenze morali”, come risulta da esperimenti effettuati sulle scimmie e su altri animali. L’empatia, ad esempio, è presente non solo nei primati, ma anche nei canidi, negli elefanti e nei roditori, come dimostrano migliaia di casi studiati dall’etologo e primatologo Frans de Waal. Essa fa parte della nostra biologia. La psicoanalisi ha fornito un contributo fondamentale alla diade madre-bambino. Le prime manifestazioni psichiche sono interpretate dagli psicoanalisti proprio a partire dalla dimensione della “cellula diadica”. La madre- sostiene Winnicottcostituisce per il bambino un “Io ausiliario”, una forma di “osmosi psicologica”. Questo autore usa la nozione di holding per definire le cure materne. Il concetto di holding indica il comportamento della madre come risposta sia alle esigenze fisiologiche del neonato che a quelle affettive ed emotive. Anticipando le scoperte delle neuroscienze, Winnicott dichiara che trattasi di un’attitudine innata, una sorta di “pelle psichica” del 126 bambino. Di qui, il rilievo che assume la funzione materna nello sviluppo mentale, normale e patologico, del soggetto. Le opere di Freud, padre e figlia, di Winnicott, Klein, Hartman, Mahler, Bowlby e di tanti altri autori, sono basate sulla rilevanza attribuita alla coppia madrebambino, al sistema di comunicazione preverbale, al linguaggio del corpo, all’esigenza che la madre favorisca lo sviluppo integrale del bambino. Una positiva relazione affettiva con la madre e con le altre figure parentali crea la salute mentale nel bambino. Quando egli subisce deprivazione affettiva, abbandoni, separazioni, traumi, ricoveri prolungati ecc., si producono forme di ansia, distacco emotivo, depressioni, aggressività, devianza, disadattamento con tendenza al suicidio. 127 Capire il cervello per capire la mente La condizione necessaria per studiare la mente e la coscienza secondo la metodologia delle scienze è la loro “riduzione” a eventi fisici, neurali, cioè a fatti elettrochimici. Vita mentale, pensieri, idee, fatti consci e inconsci sono “prodotti” dal cervello. Che cosa sono io? Sono ciò che il cervello mi fa essere. Per le neuroscienze dunque mente e coscienza “coincidono” con il cervello (Hagner). Il mondo appare alla nostra mente non nella sua realtà, ma in ciò che il cervello “trasmette” al nostro io, elaborando i dati degli organi di senso e coinvolgendoli dentro le aree cerebrali. Coscienza, autocoscienza, mente, conoscenza, emozioni, affettività, memoria, volontà, linguaggio sono tutti eventi dell'attività cerebrale. L'uomo è homo cerebralis (Hagner). Niente “senza il mio cervello hanno dichiarato di recente in un Manifesto undici neuroscienz iati tedeschi, aggiungendo - non senza un moto di ingenuità che fra 20-30 anni sarà possibile chiarire ciò che ora '‘ 128 è oscuro: mente, coscienza, libero arbitrio (H. Monyer et al. ). Finora le neuroscienze hanno fornito un'imponente quantità di dati di notevole interesse senza tuttavia essersi avvicinate alla comprensione di come dalla materia emerga l'immaterialità della coscienza e della mente, cioè dello spirito. Sarà possibile alla mente - prodotto del cervello “capirsi” fino in fondo? Punto di partenza è che per capire la mente, cioè noi stessi, “dobbiamo capire - scrive Francis Crick – il cervello”, ovvero come si comportano le cellule nervose e le loro molecole, e come interagiscono. Noi, dice, non siamo altro che “un involucro di neuroni”. La domanda di fondo, che secondo noi accompagnerà per sempre la ricerca in materia, è se la mente che studia sé stessa sia capace di comprendere come “emerga” dal cervello, dal momento che essa stessa conduce 1’indagine. Autorevoli neuroscienziati sono consapevoli dei limiti dello studio della coscienza e ritengono che il cervello umano, la “scatola nera”, non potrà mai spiegare completamente le sue stesse operazioni (F. A. von Hayek). Le neuroscienze descrivono e identificano quali aree del cervello sono attive quando, ad esempio, 129 agiamo, pensiamo o ascoltiamo un brano musicale. Ma la realtà di quegli stati d'animo, chiamati qualia, e la loro causa rimangono ancora oscure. Come sorga la coscienza dall'attività neurale permane ancora un mistero. In ciò secondo noi sta il grande fascino della ricerca neuroscientifica: il cervello proteso all’esplorazione di se stesso e della mente indotto dalla sua inesauribile e irrefrenabile sete di sapere. ”Non ha colonne d'Ercole il pensiero” ha scritto Maria Luisa Spaziani. Dentro il cervello “dormono interi continenti”, il mondo “è da creare”. Per Kandel, il riduzionismo o fisicalismo delle neuroscienze non è una filosofia sulla quale discettare, ma un metodo. Che serve a chiarire il rapporto fra la materia del cervello e la vita mentale. Idee, stati d'animo, valori, progettualità, sensazioni, qualia: tutto è riportato a meccanismi fisico-chimici. Presupposto, infatti, delle neuroscienze, per Kim, è che “ci deve essere un'esplicita corrispondenza fra ogni evento mentale e i suoi correlati neurali” (NCC). La riduzione degli eventi mentali a eventi della materia cerebrale comporta quindi 1’identità fra mente e cervello. I correlati neurali della coscienza e della mente (Neural Correlates of Consciousness) sono eventinota Gary - in parte generici, in parte ambientali e 130 in parte stocastici. Ogni esperienza modifica il cervello e la mente (Steiner). Il nostro io è un “divenire in perpetuo cambiamento”. Anche la visione del mondo che abbiamo cambia. “L'uomo rileva Plessner - vive l'immediatezza di quanto fa l'impulsività dei suoi stimoli, tutti gli aspetti primordiali della sua presenza vivente, la possibilità di scelta, ma anche l'irragionevolezza dell'affetto e dell'istinto”. Un meccanismo cerebrale “determina” una scelta, un altro “fa sentire” il rimpianto per l'errore o la gioia della conferma. Il cervello umano finora risulta l'oggetto “più problematico che esista al mondo” (James) e fa di noi quello che siamo. Tutti possediamo –scrive LeDoux - i medesimi sistemi cerebrali e anche il numero di neuroni è pressoché lo stesso in ognuno di noi. Ciononostante, il particolare modo in cui quei neuroni sono connessi è diverso. E questa “unicità” è in sintesi ciò che ci rende quello che siamo. Un errore nella distribuzione dei neuroni può portare a ritardi mentali, epilessia, paralisi. Stati d'ansia, uso di farmaci e droghe, malattie infettive o metaboliche della madre possono poi influire sulla neurogenesi e sulla migrazione dei neuroni nel cervello del feto. Progressi importanti si sono fatti attraverso il metodo della visualizzazione di aree cerebrali, che 131 consente di “localizzare” la coscienza dentro il cervello, ovvero permette di studiare il cervello nel momento in cui è attivo. Il limite della tecnica è quello di non rivelare ciò che nelle aree attive avviene. Le neuroscienze sono concordi nel ritenere che il cervello è strutturato già al momento della nascita e che con le strutture cerebrali è trasmessa geneticamente la conoscenza innata. Fu una scoperta interessante rilevare che le scimmie hanno paura dei serpenti già la prima volta che li vedono. La percezione tuttavia è più un processo di “creazione” che di conoscenza, perché - chiarisce Edelman - “seleziona” e “rinforza” le strutture nervose congruenti con l'ambiente. Il quale, come abbiamo detto “modifica” la struttura del cervello (plasticità del sistema nervoso). Uno dei meccanismi dell'interazione con il mondo esterno e con la nostra vita interiore è costituito dai neuroni specchio (neuroni che si attivano sia quando osserviamo un'azione che quando siamo noi a compiere la stessa cosa) e dall'empatia, che è partecipazione emotiva a quello che accade attorno a noi, come ad esempio gioire o soffrire. Si ritiene poi che un'insufficienza dei meccanismi dei neuroni specchio sia all'origine dell'insorgenza dell'autismo. 132 Il cervello perciò crea il mondo in cui viviamo. Vita mentale e coscienza sono “accessibili” alla nostra introspezione nella forma dell'autocoscienza, ma della maggior parte dell'attività cerebrale non siamo consapevoli. Giunti a questo punto, ci troviamo di fronte a sfide incredibili. Qual è la natura del cervello che pensa? Come può la materia (il cervello) “generare” individualità diverse le une dalle altre? È possibile chiarire in termini neurali fisico-chimici che cosa significhi essere “coscienti”? A quali meccanismi è dovuta l'autocoscienza? E di che natura è la mente? Diciamo anzitutto che le neuroscienze, identificando mente e coscienza con il cervello, evitano di affrontare e portare a definitiva soluzione l'antico, fastidioso problema del rapporto mente-cervello, cercando di capire mente e coscienza in una realtà fisica. Una volta che la mente sia stata inclusa fra gli eventi del mondo naturale, ”dobbiamo - sostiene McGinn - trovarle un posto”. Ma se la mente è un meccanismo elettrochimico non è libera di “scegliere” tra opzioni diverse. E se le decisioni sono prese dal cervello, che è per l'appunto, un oggetto fisico che obbedisce pertanto a leggi fisiche, la volontà non è libera. E allora in che senso si è responsabili? Come si può dedurre, ricadiamo nell'annoso, complesso dilemma della causalità mentale e del 133 libero arbitrio. Il problema- commenta Nozick- “è così intrattabile, così refrattario a una soluzione chiara che dobbiamo affrontarlo da molte direzioni diverse”. E tuttavia, nessuno degli approcci e nemmeno l'insieme di tutti gli approcci possibili aggiunge - “si dimostrerà del tutto soddisfacente”. Secondo Gazzaniga, le basi su ciò che è lecito e ciò che non è lecito sono “innate” e trasmesse dal cervello che ha una struttura “preformata”, ma che tuttavia è anche capace di modificarsi con l’esperienza. Su questo modello euristico è nato un fecondo campo di studio, che ha come fondamento il concetto di “neurotihics”, termine introdotto nel 2003 da W. Safire. La sua concezione si basa su questi presupposti: 1. Il senso morale è “legato” alla fisiologia dei centri cerebrali ed è “regolato” da una “moralità universale” connessa con strutture cerebrali comuni a tutto il genere umano; 2. Con l’evoluzione del cervello è emerso il senso del bene e del male. Studi recenti effettuati con la visualizzazione cerebrale hanno mostrato che nell’eseguire decisioni di carattere etico sono attive aree non solo frontali e orbito-frontali, ma anche temporali e parietali. Queste decisioni poi sono influenzate più dall’area emotivo- affettiva che da quella logica. La moralità –scrive Hauser –sarebbe perciò un insieme di istinti morali, “una grammatica morale 134 universale” comune a tutti gli uomini. Concetto che corrisponde al Daimonion di Socrate e Platone, alla conoscenza innata della morale e della matematica di Leibniz, alla legge morale dentro di noi di Kant e al linguaggio universale di Chomsky. Sennonché l'uomo - rileva Gazzaniga - è anche capace di “immoralità orribili”, in quanto intrinsecamente violento, amorale e dissennato, fornito com'è di un “cervello rettiliano” (Mac Lean), una pulsione distruttiva e di morte (Tanathos) come corrispondente anatomo-fisiologico dell'Es di Freud, cioè degli istinti primordiali. Una realtà che Paul Mac Lean, uno dei maggiori studiosi della neurofisiologia moderna, ha scientificamente verificato e che Platone aveva intuito. Un'altra testimonianza - scrive Raffaello Vizioli- che “la vicenda umana (il cervello) è diacronica e sincronica”. Le attuali conoscenze non hanno ancora dimostrato che dall’attività elettrochimica dei neuroni e delle aree cerebrali sia possibile dedurre quali sono i contenuti della mente e della coscienza. “Voi non siete che un pacco di neuroni” ha scritto Crick. Ma egli tralascia di chiedersi - osserva Benini - chi siano i noi che dovrebbero capire come funziona il “pacco di neuroni che noi siamo, se non cellule nervose, altri pacchi di neuroni, in una regressione all'infinito”. Di qui, l'impossibilità di 135 chiarire la “contraddizione fra la natura rigidamente “determinata” della volontà secondo la concezione naturalistica delle neuroscienze, ii nostro sentirci liberi e il sentirci costretti se la scelta ci è imposta. Il libero arbitrio, come aspetto della causalità mentale, è un evento che “sfugge alla mente che indaga” (de Caro). Il problema, irrisolto e verosimilmente irrisolvibile, verte insomma su come la mente sorga dalla materia del cervello. Ridurre la spiritualità alla materia è una questione per noi senza tempo destinato a impegnare duramente neuroscienziati, scrittori e poeti. Nonostante la scoperta dei neuroni mirror, alcuni neuroscienziati sostengono che non è possibile raggiungere l’Io di un altro, così come è impossibile raggiungere il proprio Io. La ricerca sulla mente infatti è basata sull’introspezione e dunque non potremo mai “ comprendere” e “penetrare” la nostra coscienza e quella degli altri, e cioè i qualia, gli stati d'animo, con i loro correlati neurali, fisici. Misteri destinati a restare finora nascosti a noi stessi. Chi è la persona, anche la più cara, che ci sta di fronte forse non lo sapremo mai. In realtà, proprio perché la soglia della mente e della coscienza è ben lontana dall'essere stata “sfondata” è crescente l’interesse dei neuroscienziati nel superare quegli ostacoli che 136 appaiono ora insormontabili. Neuroscienziati americani di recente hanno sottoscritto un documento per far seguire al Decennio del cervello, chiusosi nel 1999, un Decennio della mente, poiché si sarebbe vicini a “capire” come la mente pensa, percepisce e agisce. Le neuroscienze hanno di fronte sfide incredibili e meravigliose. Sostenute dall'inesauribile sete di sapere del cervello, il quale dà vigore al fascino della ricerca. Il cervello non ha confini, è illimitato, non ha colonne d'Ercole il pensiero 137 Occhio-occhio, voce-voce, pelle-pelle “De li occhi suoi, come ch’ella li mova, escono spiriti d’amore infiammati, che feron li occhi a qual che allor la guati, e passan sì che ‘l cor ciascun retrova. ” (Dante) La straordinaria potenza del contagio emotivo con lo sguardo, la voce e il contatto fisico. La realizzazione di una condizione mentale, psicologica e biologica capace di lasciare una traccia, un engramma, nel cervello e di creare le basi dello sviluppo umano, sia normale che patologico. Come si formano le connessioni neuronali e le relazioni umane e sociali? E quale impatto ha su di noi il cervello sociale? L’esame approfondito delle infinite sottigliezze di queste interazioni mostra come le persone svolgano un ruolo rilevante nel regolare il nostro comportamento emotivo e sociale. Intanto, è possibile comprendere la complessità e l’importanza delle relazioni emotive e 138 sociali attraverso l’evoluzione e il funzionamento del cervello (Cozolino). Cosa intendono i neuroscienziati quando parlano di “cervello sociale”? L’idea che il cervello sia composto di aree separate, ognuna con un particolare ruolo appare superata. I circuiti utilizzati per una funzione non sono localizzati in una singola zona, ma sono distribuiti in tutto il cervello. Nel mappare il cervello sociale, pertanto, non si deve parlare di un singolo sistema neurale unitario, ma piuttosto di “circuiti interdipendenti” (Blair, Perschardt). Anzitutto, precisiamo che con il nome di “cervello sociale”, le neuroscienze indicano che il cervello è “un organo sociale” intersecato da reti destinate a “ricevere, elaborare e comunicare” messaggi attraverso le sinapsi e costruito nell’interazione tra l’attività dei geni e le condizioni ambientali, per creare ciò che siamo, in un rapporto dove “natura e cultura diventano una cosa sola” (LeDoux). Senza interazioni stimolanti, i neuroni e le persone “languono e muoiono”. Nei neuroni, questo processo viene chiamato apoptosi. Negli esseri umani viene detto depressione, ansia, angoscia, suicidio. La teoria che i primati possiedano reti neurali dedicate alla “percezione sociale” è stata proposta da Kling e Steklis con la scoperta che il danneggiamento di strutture cerebrali causava aberrazioni del “comportamento sociale”. A sua volta, il termine 139 “neuroscienza sociale” è stato usato per la prima volta all’inizio degli anni Novanta da J. Cacioppo e G. Berntson per designare lo studio di come noi stabiliamo sistemi di “attaccamento” e creiamo connessioni reciproche. Le ricerche mostrano che noi siamo “programmati” per connetterci. La struttura stessa del cervello lo rende “socievole”, cioè soggetto a un profondo legame “cervello-cervello” ogni volta che stabiliamo un contatto “viso-viso”, “voce-voce” o “pelle-pelle” con un’altra persona. Così, il viso della madre ha un forte impatto sul cervello del bambino, poiché innesca alti livelli di oppioidi, i quali sono responsabili degli aspetti piacevoli nelle interazioni sociali e agiscono sui centri di ricompensa sottocorticali. La stimolazione positiva ed eccitante da parte della madre favorisce anche la produzione del “fattore di rilascio di corticotropina (CRF) nell’ipotalamo del bambino, attiva il sistema nervoso simpatico, controlla la produzione di endorfina e stimola la creazione di dopamina. La cascata biochimica attivata dalla interazione bambino-madre innesca poi la crescita di nuovi neuroni e la sintesi proteica. Il contatto occhio-occhio nei primi momenti della vita è così importante che l’evoluzione non ha lasciato nulla al caso. Fissare il viso della madre assicura “l’imprinting” di una vitale informazione emotiva e sociale. Essere poi guardata dal proprio bambino calma la madre e ne stimola i 140 comportamenti di accudimento. I bambini e i genitori s’impegnano in periodi di sguardo o sorriso reciproco che calmano e rilassano entrambi. Sia nella madre che nel bambino i livelli di endorfina e dopamina si innalzano e si abbassano quando essi sono vicini, si separano e si riavvicinano, creando una danza di flussi alternati di benessere e disagio, per cui la vicinanza fisica ed emotiva produce benessere e la separazione dolore. Poche ore dopo la nascita, il neonato è già in grado di riconoscere facce familiari, di imitare la madre che apre la bocca e tira fuori la lingua, e di discriminare espressioni facciali di felicità, tristezza o meraviglia. Importanti indicazioni sul meccanismo di questi processi provengono dalla scoperta dei neuroni specchio (Pellegrino, Rizzolatti), i quali si attivano sia quando stiamo osservando sia quando stiamo compiendo una particolare azione. I neuroni specchio non solo collegano reti all’interno del nostro cervello, ma ci permettono di sintonizzarci con gli stati emozionali degli altri. Siamo esposti al “contagio emotivo” e cioè a essere “infettati” (Ogan) da ciò che vediamo fare da altre persone. Sperimentiamo in sostanza la vita interna di un altro, fenomeno che si chiama empatia. Il collegamento tra il cervello del bambino e il cervello della madre si realizza attraverso il contatto occhio-occhio, espressioni facciali, vocalizzazioni, carezze e scambi emozionali. La connessione tra madre 141 e figlio è un importante fattore determinante dello sviluppo del cervello. L’impatto della madre sul cervello del proprio figlio è intenso e molto esteso; le interazioni precoci costruiscono reti neurali e segnano parametri biologici decisivi che possono durare per tutta la vita. Abbiamo imparato molto della neurobiologia delle interazioni madre-bambino studiando nel ratto la relazione fra madre e cuccioli. Grazie alle analogie fra la biologia e il comportamento dei roditori e dell’uomo, il ratto rappresenta una preziosa fonte di informazione, soprattutto rispetto alla base biologica dell’accudimento. Un ratto madre risponde ai richiami dei suoi cuccioli. Li lecca mentre sono nel nido e sdraiandosi sopra di loro inarca la schiena, permettendo ai piccoli di attaccarsi ai suoi capezzoli (Fleming). Attraverso il contatto fisico con i suoi cuccioli, i comportamenti materni vengono rafforzati per mezzo di ricompensa della dopamina (Deller). Questi livelli di dopamina stimolano i processi neuroplastici nel cervello della madre per aiutarla a comprendere e a curare i suoi piccoli (Shingo). Anche se il nostro aspetto è molto diverso da quello del ratto, il nostro cervello e il suo rappresentano sorprendenti somiglianze. I due cervelli hanno neuroni e cellule gliali che comunicano, organizzano e funzionano allo stesso modo (Cozolino). Diversi studi mostrano che le basi neuroanatomiche del comportamento materno del ratto 142 e dell’uomo “sono pressoché sovrapponibili” (Lorberbaum). Le madri nelle due specie imparano velocemente a identificare la propria prole e lavorano sodo per nutrirla e proteggerla (Stern). I ratti che hanno ricevuto un positivo accudimento mostrano nell’amigdala un maggior numero di ricettori delle benzodiazepine che contribuiscono a diminuire i livelli d’ansia. Questi ratti sono meno ansiosi, esplorano di più, sono meno impauriti e imparano meglio (Caldji). I cuccioli esposti a deprivazione materna rivelano un’accresciuta mortalità di neuroni, minor velocità di sinapsogenesie diminuzione dell’espressione dei fattori di crescita neurale nell’ippocampo, nonché prestazioni scadenti anche in compiti di memoria e di apprendimento (Zhareg). Nel ratto il contatto tattile precoce è così importante che perfino la manipolazione dei cuccioli di topo da parte dei ricercatori comporta un’aumentata densità dei recettori di cortisolo e livelli più bassi di cortisolo nella circolazione sanguigna (Smythe). Una recente ricerca ha dimostrato che toccare i propri figli non solo attivava il sorriso e le espressioni positive nel bambino, ma faceva anche star meglio le madri (Onozawa). I vantaggi del contatto non sono limitati alle relazioni umane. Gli scambi di strofinii, fusa, sfregamenti, amoreggiamenti fra i gatti e i loro padroni sottolineano il valore di “regolatori emotivi” che tutto ciò ha per noi. Nel nostro cervello vengono attivati gli 143 stessi centri neurali sia che coccoliamo un gatto sia che un gatto ci strofini addosso (Brothers). Il contatto pelle-pelle rappresenta dunque un fondamentale canale di comunicazione e un meccanismo vitale di legame umano. Quando una persona cara ci tocca, diventiamo più calmi e sereni, mentre il nostro stress diminuisce. Un contatto leggero induce sensazioni di benessere e un confortevole calore, che portano a un aumento di ossitocina e di endorfine, sostanze che intensificano i legami affettivi e sociali. Il contatto fisico esercita anche un’azione sedativa, produce un abbassamento della pressione sanguigna, favorisce la regolazione autonoma e la salute cardiovascolare (Feldman), attiva lo sviluppo dei bambini, abbassa i livelli degli ormoni di stress nei bambini e negli adulti (Weiss), mentre diminuiscono i sintomi nell’ansia, nella depressione e nell’aggressività (Field). In pazienti affetti da cancro e altre malattie sottoposti a massaggio terapeutico, si è verificato un accrescimento dei livelli di dopamina, serotonina, ossitocina ed endorfine. Tutto ciò sottolinea il valore di “regolatori emotivi” svolto dal toccare. Pazienti sperimentano un sollievo sintomatico dopo aver preso un cucciolo e molti terapeuti ora impiegano i cani nella stanza di consultazione per aiutare i loro pazienti a rilassarsi. 144 I bambini prematuri tenuti vicino alla pelle della madre o massaggiati regolarmente piangono di meno, si sviluppano più velocemente, acquistano più peso e vengono dimessi prima di quelli che hanno meno contatto (Bergman) . L’importanza fondamentale della diade madre-figlio è rispecchiata nell’antica massima sapienziale : “Dio non poteva essere ovunque e perciò ha creato la madre”. Questi legami precoci infine modulano i livelli dei neurotrasmettitori nel cervello, facendoci sperimentare l’intera gamma delle sensazioni, dalla disperazione all’estasi (Panksepp). 145 La capacità di capire se stessi e gli altri Lo sviluppo del concetto di mente, vale a dire il modo in cui si perviene a riconoscere di avere una mente unica e separata da quella degli altri, è tra i temi di ricerca che hanno suscitato maggiore interesse. Il concetto di mente è essenziale allo sviluppo della capacità di mentalizzazione, la capacità cioè di riflettere su pensieri e sentimenti propri e altrui, e di riconoscerli come stati mentali che motivano il comportamento nel corso della vita. Studiare lo sviluppo del cervello può aiutarci a progredire in questo campo. In realtà, il rapporto fra mente e cervello continua a suscitare accese discussioni nelle neuroscienze e nell’ambito della filosofia della mente. In generale, il modello dell’evoluzione umana maggiormente condiviso è quello proposto da Richard Alexander (AA. VV., “Da mente a mente”, Raffaello Cortina), il quale ritiene che il nostro cervello si sia evoluto non tanto per affrontare le forze ostili della natura, ma per sostenere la competizione con altri individui. Tutte le specie affrontano una competizione al loro interno, ma in quella umana il ruolo svolto dai 146 gruppi sociali in questo tipo di competizione è particolare. Comprendere gli altri ci permette di superarli in intelligenza e astuzia (Ward); di sviluppare competenze cognitive, emotive, sociali e anticipatorie; di formarsi obiettivi ed eseguire piani di azione. In questo quadro, emerge il concetto di mentalizzazione, originariamente introdotto in psicoanalisi da autori francesi, che si rivela un tema di grande prospettiva euristica e in continua evoluzione. Peter Fonagy e collaboratori hanno definito la mentalizzazione come il processo che permette di interpretare se stessi e gli altri come “dotati di una mente”, cioè come persone che agiscono in base a “sentimenti, credenze, desideri e intenzioni”. Le importanti scoperte compiute dalle ricerche condotte negli ultimi anni mostrano che la capacità di mentalizzazione sugli altri non sarebbe acquisita con lo sviluppo, ma costituirebbe una forma di adattamento evoluzionistico innata, implementata da un meccanismo cerebrale prestabilito che nell’uomo appare attivo e funzionante “già all’età di dodici mesi e forse anche prima”. Questo meccanismo sembra poi essersi evoluto in diverse specie sociali non umane che vivono anch’esse in nicchie altamente competitive. La mentalizzazione è dunque una capacità o un processo di ordine cognitivo che, tuttavia è profondamente influenzata da esperienze di natura affettiva; e specificamente dalla precocissima relazione 147 affettiva e regolativa fra il bambino e la figura di attaccamento. Le attuali ricerche sulla mentalizzazione comprendono diverse aree di ricerca: 1. le ricerche neuro scientifiche sul cervello e sul legame fra mente e cervello; 2. la teoria e la ricerca sull’attaccamento e sulle relazioni precoci che promuovono o inibiscono la capacità di mentalizzazione; 3. gli studi sulla teoria della mente. I costrutti di mentalizzazione attribuiscono un ruolo centrale alla mente. L’attuale interesse per la mente impone alla psicoanalisi la ricerca di un linguaggio comune con altre discipline. Naturalmente, la mente non è un concetto nuovo in psicoanalisi, tuttavia, la concezione psicoanalitica della mente resta “problematica” e “irrisolta”. Il modello classico, composto da Es, Io e Super-io, non rappresenta più una guida come in passato, nemmeno per i freudiani. Le teorie psicoanalitiche dello sviluppo oggi sono sempre più interessate al tema dell’intersoggettività. Il cervello diventa mente solo per effetto di una “stimolazione adatta” da parte delle persone che si prendono cura del bambino (Jurist). Un attaccamento sicuro promuove nel bambino la capacità di “regolare” gli affetti, la crescita del Sé e la comprensione della propria mente. Inizialmente, il bambino dipende dal caregiver, il quale contiene le emozioni negative più intense e promuove la tolleranza degli affetti positivi. Con lo sviluppo della capacità di regolazione affettiva, nella seconda metà del 148 primo anno di vita emerge il senso del Sé. La regolazione affettiva è dunque alla base della mentalizzazione che si sviluppa intorno ai quattro anni. La teoria dell’attaccamento è così andata oltre il concetto iniziale di Bowlby di un attaccamento orientato a mantenere la vicinanza del caregiver, con la successiva introduzione dell’obiettivo della “sicurezza percepita” (Stroufe). Si è superato quindi il “realismo ingenuo” di Bowlby, termine per indicare la credenza che le nostre menti riflettano il mondo in maniera “diretta e immediata”, attraverso i “modelli operativi interni”. Il concetto di mentalizzazione poi comprende sia la funzione cognitiva che quella emotiva. Il possesso della capacità di mentalizzazione è, per Allen, più di un’abilità, è “una virtù”, un “atto d’amore”; mentre per Fonagy è ricondotto alla “competizione sociale”: mentalizziamo per finalità strategiche e per prevalere sugli altri. Si tratta in sostanza di una capacità che non garantisce che essa venga usata a fini pro sociali. È ragionevole pertanto ipotizzare che uno psicopatico possa essere in grado di mentalizzare e possa usare questa capacità per fini malvagi e perversi. Un caregiver con un attaccamento sicuro trasmette al bambino tale sicurezza, la capacità di mentalizzare e di crearsi modelli operativi interni. Diversi studi hanno stabilito una connessione fra disturbo borderline (BPD) e attaccamento insicuro (Allen). Un’esperienza 149 traumatica vissuta nella prima infanzia determina un ritiro definitivo del soggetto dalla dimensione mentale. Dalla qualità della genitorialità dipendono lo sviluppo dell’attaccamento, della mentalizzazione e delle capacità di interiorizzazione e rappresentazione del bambino. Sono stati compiuti progressi nella comprensione dei substrati genetici, epigenetici e neurobiologici del comportamento materno in modelli di mammiferi. Da diversi studi risulta che alcune caratteristiche del comportamento materno si trasmetterebbero da una generazione all’altra non attraverso i geni, e che la qualità delle cure materne ricevute nella prima infanzia potrebbe programmare le risposte del bambino allo stress nelle fasi successive, influenzando il suo approccio al mondo (Ladd). Gli studi empirici poi hanno rilevato la natura altamente specializzata dei comportamenti verbali e non verbali dei genitori di bambini molto piccoli e l’importanza di una precoce sincronia e reciprocità nelle interazioni genitore-bambino; dimostrando la decisiva influenza delle prime esperienze sui successivi comportamenti di attaccamento del bambino nei confronti dei genitori e sullo sviluppo di relazioni intime nelle fasi di vita seguenti (Leckman). Questi studi sottolineano le conseguenze negative di una precoce deprivazione o negligenza genitoriale sullo sviluppo mentale, affettivo e sociale del bambino, ed 150 evidenziano l’importanza dell’adattamento coniugale dei genitori, della loro autostima, nonché del supporto sociale di cui possono beneficiare nel loro adattamento al ruolo di genitori. Conseguenze dannose possono poi derivare tanto da una carente preoccupazione primaria da parte dei genitori, che può preludere a una forma di abbandono o di abuso, quanto da un’eccessiva preoccupazione, la quale può indurre una condizione assimilabile a uno stato ossessivo-compulsivo (Eckenrode). Una condizione spesso associata a un disturbo dell’attaccamento fra madre e bambino, che pone a rischio lo sviluppo di quest’ultimo anche in anni successivi, è la depressione post-partum (Goodman). Molti studi riportano che l’ossitocina facilita il comportamento materno in femmine di ratti esposte all’effetto di estrogeni. La somministrazione di ossitocina in femmine di ratto vergini determina la comparsa di un comportamento materno a tutti gli effetti entro pochi minuti. Anche i sistemi dopaminergico e noradrenergico sembrano avere un ruolo di primo piano nel facilitare il comportamento materno (Koob). L’ossitocina, gli estrogeni e la prolattina possono agire sull’area mediana dell’ipotalamo, (area coinvolta nella regolazione del comportamento materno), favorendo il comportamento materno. 151 In sostanza, la comparsa e il consolidamento del comportamento materno dipendono da uno specifico circuito neurale. Con la gravidanza o la ripetuta esposizione a cuccioli, si verificano cambiamenti a livello strutturale e molecolare, che riguardano specifiche aree del sistema limbico, dell’ipotalamo e del mesencefalo adatte alle molteplici esigenze della cura materna. Sulla deprivazione delle cure materne, alcune ricerche mostrano che i profili comportamentali delle scimmie maltrattate sono simili alla prime descrizioni di Bowlby di un attaccamento sicuro o insicuro dei bambini umani (Suomi). In uno studio di brain imaging su primati non umani è stato rilevato che la separazione di giovani scimmie dalle madri era associata all’attivazione dei circuiti corticali suscettibili agli ormoni dello stress. Oltre a influenzare il comportamento, la separazione dalla madre può avere una serie di conseguenze negative sulla salute fisica. Anche uno stress indotto nei primi giorni di vita ha effetti su integrità neuronale, metabolismo, funzione gliale e contenuto di glutammato cerebrale. Questi modelli animali sembrano in linea con gli studi condotti su popolazioni umane, dai quali emerge che anche i bambini sottoposti ad abusi mostrano un aumento dei livelli di cortisolo e ormoni dello stress. Una comunicazione con il bambino “costantemente incongruente e contraddittorio” può 152 impedirgli di formare “un proprio senso di identità e di relazione con il mondo esterno” (Bateson). In sintesi, i dati provenienti dagli studi condotti su animali indicano che l’intervallo che circonda la nascita del cucciolo di ratto o di scimmia rhesus rappresenta un periodo critico nella vita dell’animale, condizione che avrà conseguenze durature sul piano neurobiologico e comportamentale. In particolare, la qualità delle prime cure può avere effetti permanenti sulle differenze individuali nel successivo comportamento materno, nella regolazione dell’ansia e negli schemi di risposta allo stress. Esperienze cicliche di incuria dunque possono alterare l’asse HPA e persistere per intere generazioni (Shea). L’esposizione precoce ad un ambiente sfavorevole, disturbi della relazione fra genitore e bambino aumentano la vulnerabilità a sviluppare risposte alterate allo stress, a produrre disturbi d’ansia e dell’umore e a generare una psicopatologia nelle fasi di vita successive. Per assicurare uno sviluppo positivo nell’infanzia e nelle fasi di vita successive è necessaria la combinazione tra geni “sufficientemente buoni” e cure genitoriali “sufficientemente buone” (Winnicott). Interazioni fra geni, cure genitoriali, esperienze positive, condizioni emotive, sistemi neurobiologici e vincoli ambientali contribuiscono alla comprensione della diade madrebambino, e ad assicurare interventi precoci per favorire 153 lo sviluppo del cervello, la capacità di problem solving e la risposta allo stress, riducendo la vulnerabilità allo sviluppo di disturbi psicopatologici nelle fasi di vita successive. Le ricerche mostrano la decisiva importanza non solo a promuovere lo sviluppo di bambini sani, ma anche ad aiutare i genitori e gli adulti a compiere il passaggio verso il loro nuovo ruolo e a comprendere i fattori genetici, neurobiologici e affettivi che contribuiscono a questa fondamentale transizione. 154 La depressione della donna “Qui il sole mi pare così freddo, / i fiori appassiti, la vita scomparsa” (Schubert). “Dopo queste nottate, le giornate portavano le emicranie che le trapassavano l’occipite…e poi seguivano nottate ancora peggiori, rese terribili dal peso crescente dell’ansietà e della depressione” (biografia di Virginia Woolf). Uomini e donne vengono veramente da pianeti diversi ? A che cosa sono dovute le profonde differenze fra i sessi? Sul mistero della differenza, la scienza sta facendo chiarezza. Anzitutto, le splendide scoperte della nuova scienza del cervello e della mente dimostrano, come abbiamo precisato in altre pagine, che non esiste un cervello unisex. Il funzionamento del cervello di uomini e donne è “diverso” fin dalla nascita. Perfino nei neonati di un giorno, il cervello femminile è più empatico e comunicativo, mentre il cervello maschile è più capace di comprendere ed elaborare sistemi. 155 La genesi di questa diversità è il cervello insieme con 1'ambiente e l’educazione. Le caratteristiche biologiche della donna - il ciclo mestruale, la gravidanza, il parto, 1'allattamento, la cura dei figli - influenza lo sviluppo cognitivo, affettivo, comportamentale e sociale del suo cervello. Le ricerche mostrano che le prime differenze si manifestano già dall'ottava settimana di sviluppo fetale. A causa soprattutto dell'attività ormonale che “condiziona” per sempre i meccanismi neurali, di maschi e femmine. Le donne sono più sensibili degli uomini nella sfera delle emozioni, degli affetti e dei sentimenti. Molti studi su questo argomento sono stati condotti sui primati. I neuroscienziati ritengono che nel cervello femminile (umano) possano esserci più neuroni “specchio” che in quello maschile (Oberman). La dimostrazione si trova nelle differenti biologie dei nostri cervelli. Fatto che dà luogo a diverse mentalità e a diversi comportamenti. Il cervello della donna è una struttura emotiva molto efficiente, in grado di “interpretare” i segnali verbali e non verbali dei “più intimi sentimenti altrui” (Brody), e di captare segnali di sofferenza, infelicità, malessere. È la ragione per cui le donne piangono quattro volte più degli uomini (Campbell). Questa maggiore sensibilità è dovuta al numero dei neuroni che il cervello della donna possiede. L’aumento 156 poi degli estrogeni genera sensazioni viscerali e dolore più intensamente dei maschi. Anche i circuiti emotivi per la paura, il dolore e la sicurezza sono differenti per maschi e femmine (Bontler). L’ansia, che nasce quando tensione e paura attivano l'amigdala - il centro cerebrale della paura, dell'aggressività e della rabbia - è quattro volte più diffusa nelle donne (Halbreich). La maggiore probabilità della donna di soffrire di ansia e depressione soprattutto durante l’età produttiva è un fenomeno presente in tutte le culture. Oltre ai fattori socio-culturali, un ruolo importante rivestono stress, geni, estrogeni, progesterone e biologia cerebrale. Gli effetti degli estrogeni spiegano perché il numero di donne che soffrono di “winter blues” o depressione stagionale sia tre volte maggiore rispetto agli uomini. Che cosa è la depressione? Sulla depressione esiste un'immensa letteratura. Chiamiamo depressione una malattia psichiatrica in cui si presenta “alterato” non solo ii tono dell'umore, ma anche le manifestazioni cognitive, affettive e comportamentali, spesso accompagnate da disturbi somatici fino alla compromissione di tutte le funzioni vitali e di relazione. Studi condotti in materia hanno calcolato che la depressione entro il 2020 potrebbe diventare la principale causa di malattia nelle società industrializzate. Esiste poi uno stretto rapporto tra 157 depressione, suicidio e pensieri ricorrenti di morte, ricorrenti propositi di suicidio e tentativi di suicidio. Molti autori hanno indicato la malattia depressiva come la maggiore portatrice di rischio suicidario rispetto a tutte le patologie psichiatriche (Wolfersdor). Il suicidio prevale nel sesso maschile, è più elevato nell'età senile. In molti Paesi, i tassi di suicidio fra i giovani compresi dai 13 ai 20 anni d'età crescono in maniera vertiginosa. Suicidi furono, tra gli altri, Paul Celan, Ernest Hemingway, Majakovskij, Gerard de Nerval, Cesare Pavese, Virginia Woolf, Van Gogh, Gorky. Tra gli artisti e scrittori depressi, citiamo Schumann, Virginia Woolf, Poe, Pound, Thomas Moore, Shelley. La depressione è conosciuta da millenni. Ippocrate (400 a. C. ) la definisce “melancholia”. Risalgono a Kraepelin e a Bleuler i primi tentativi di classificazione delle malattie psichiche. È di Freud con 1'opera “Lutto e melanconia” il contributo più importante dei processi psicodinamici che sottendono la depressione, Egli associa la depressione al lutto. L'idea base è che all’origine di questa patologia vi sia una situazione di “perdita”. L'intuito geniale di Proust così descrive la natura dei lutto: “ Se è vero che i morti non esistono più che in noi, è su noi stessi che infieriamo ostinandoci a ricordare la perfidia con cui li abbiamo colpiti. A questi dolori, per 158 quanto crudeli, m'attaccavo con tutte le mie forze, perché li vivevo come effetto del ricordo”. Nel Rinascimento, nell’Illuminismo e nel Romanticismo, la malinconia assume ii carattere di vera fascinazione. A subirla, sono soprattutto i poeti, gli artisti e i letterati che di essa fanno l’emblema del genio “saturnino”. Nel Romanticismo francese e tedesco, la malinconia “contrassegna” la rovina dell’Io. La metafora del “viaggio”, che designa la condizione esistenziale dell'uomo romantico, assume il ruolo di causa principale della depressione. “Qui il sole –dirà il “viandante” di Schubert - mi pare così freddo, i fiori appassiti, la vita scomparsa”. I disturbi psichici e quelli depressivi vengono raggruppati in una unica entità alla quale viene assegnata il termine di “disturbi affettivi”, e successivamente di “disturbi dell'umore” (DSM). La depressione è un disturbo molto diffuso. Nei paesi occidentali colpisce in media una persona su cinque, almeno una volta nel corso della vita. Preferisce le donne agli uomini. Ogni tre persone depresse due sono donne. Ogni anno, due donne su cento si ammalano, mentre per gli uomini il rapporto è di uno a cento. Molte donne hanno sintomi depressivi in occasione del ciclo mestruale e dopo il parto. Gli studi rilevano 159 inoltre come la percentuale di donne afflitte da depressione sia circa il doppio rispetto agli uomini. Nella distimia e nella depressione maggiore, la categoria femminile risulta due volte più rappresentata nel primo disturbo e circa tre nel secondo rispetto a quella maschile. Le donne tendono ad ingrassare, ad avere problemi di sonno e presentano una maggiore ansia sui problemi del corpo. L'eziopatogenesi fa riferimento al modello biologico, al modello psicologico e come abbiamo detto ai fattori culturali e socio-economici. Gli studi di genetica hanno documentato l’esistenza di una importante componente ereditaria nell’eziologia delle sindromi psichiatriche. Si tratta di una realtà complessa e dinamica, che può essere compresa solo attraverso un approccio multiprofessionale. La terapia della depressione pertanto non può basarsi esclusivamente sugli psicofarmaci, i quali devono essere sostenuti da altri di natura psicoterapeutica e realizzati da professionisti di accertata competenza, formazione e maturità psicologica. Nei casi più gravi e complessi si consiglia una terapia “combinata”: farmaci e psicoterapia. La depressione ha poi ritmi che seguono sia le ore del giorno sia 1’avvicendarsi delle stagioni, anche in relazione al funzionamento degli ormoni e al cambiamento della luce. 160 In uno studio su 113 poeti e artisti, è risultato che il tasso più alto di anormalità psichiatrica è stato riscontrato tra i poeti (50 per cento) e i musicisti (38 per cento, contro il per cento di pittori). In un'altra ricerca, è emerso che il 18 per cento dei poeti aveva commesso suicidio. Un altro studio su poeti e artisti infine ha rivelato che le depressioni maggiori sono due volte più diffuse tra le donne. 161 Alla conquista della felicità Negli ultimi anni, le neuroscienze hanno accumulato una grande quantità di conoscenze, empiricamente fondate, sul cervello ed hanno svelato meccanismi sconosciuti, i quali ci aiutano a comprendere i meandri della nostra mente, a spiegare il comportamento umano e a migliorare la nostra vita. Gli studi mostrano tra l’altro che il cervello è un organo prodigioso, che agisce in base a schemi adattativi complessi e che predilige una condizione di equilibrio stabile, di chiarezza e di coerenza. Il comportamento umano- ci ricorda Di Salvo, è imprevedibile e fatto di mille sfumature. Una delle idee fondamentali emerse dalla ricerca neuro scientifica è che il nostro cervello segue più “automatismi” di quanto crediamo ed è influenzato da “centinaia di preconcetti irrazionali”. Il risultato di numerose ricerche portano alla stessa conclusione, ovvero che la mente umana risente in modo negativo dell’azione di questi preconcetti. La sua capacità è quella di prevedere i rischi, e difendersi dai preconcetti, dall’imprevedibilità e dall’instabilità. Tutti fattori che 162 sono vissuti dal cervello come minaccia alla sua sopravvivenza. Ha la tendenza all’omeostasi, cioè a mantenere un equilibrio interno, stabile e costante (Cannon): insomma uno stato di sedazione neuromotoria e di tranquillità interiore, come già teorizzava Seneca, il più grande filosofo latino, secondo una concezione psicoanalitica ante litteram. Il cervello ha poi come dote innata, per molti neuro scienziati, la capacità di comprendere il mondo. Un mondo che noi riteniamo “abitato da forze ed essenze invisibili, che trascendono la dimensione terrena e si situano nel soprannaturale. Di qui, la disposizione dell’essere umano a distinguere le credenze secondo il loro valore: credere in Dio, ad esempio, diventa per molti “più importante che credere a 2 più 2 eguale a 4”. C’è poi nel cervello un “centro della ricompensa”, che ha la funzione di”rinforzare” i comportamenti più vantaggiosi per l’individuo. Il neurotrasmettitore della ricompensa è la dopamina, una sostanza importante, ma anche un potente nemico di gratificazioni inappropriate, che danno luogo a comportamenti compulsivi e a forme di dipendenza patologica, come ad esempio nel caso delle droghe, del sesso, della rete o del gioco. Viviamo in un mondo dove le situazioni di tipo ossessivo-compulsivo sono sempre più numerose. Nei prossimi anni, il fenomeno è destinato a intensificarsi. L’ansia, la solitudine interiore, che prescinde dalle 163 persone che abbiamo intorno, l’isolamento sociale, i videogiochi, sono tra i principali fattori che alimentano l’uso compulsivo del web (Caplan), i cui protagonisti fanno da “surrogati” nell’appagamento dei bisogni psicologici e nelle situazioni cariche di frustrazioni. In realtà, sono ancora limitate le nostre conoscenze sul cervello e la mente. Negli ultimi decenni tuttavia importanti scoperte ci hanno fornito nozioni fondamentali. Le nostre attuali conoscenze sul cervello mostrano che il dualismo corpo-mente è una dottrina ormai superata. Siamo lontani dal “dualismo animacorpo”, dal concetto cioè che il cervello (entità materiale) e la mente (entità immateriale) siano due sostanze separate, secondo l’impostazione di Cartesio. Per i neuro scienziati, è il cervello a “produrre” quella cosa cui abbiamo dato il nome di “mente”. La mente è qualcosa che il cervello “fa”. Il cervello “è” la nostra anima, la nostra mente. Una conclusione che mette in profonda crisi le nostre millenarie concezioni filosofiche e teologiche, a partire dal pensiero di Platone, il padre della filosofia occidentale e “l’inventore” dell’anima, indipendente dal corpo, e dunque immortale. La mente dunque “non è altro che il cervello” (S. Le Vay), “ridotta” perciò a un processo biologico, non più sostanza immateriale, ma sostanza materiale. 164 È possibile che l’essere umano, creatura che si ritiene eccezionale e di natura superiore, debba restare “attaccato” a una cosa materiale? È questa la sfida che ci viene affidata dalle nuove neuroscienze. Il cervello acquisisce una condizione di felicità se riesce a vivere in uno stato di certezza e di stabilità emotiva. Ciò fa emergere la sua tendenza a cercare prove che confermino le proprie idee e a ignorare quelle che le contraddicano. È una disposizione battezzata dai neuro scienziati “bias di conferma”, una caratteristica quanto lo sono “il sonno, il sesso o le grigliate all’aperto”. Cercare prove o giustificazioni nel convalidare la nostra posizione e contrastare quelle che la confutano è un meccanismo cerebrale chiamato “chiusura cognitiva”. Ma perché impegnarsi tanto per dimostrare l’autenticità di una cosa che invece si è dimostrata essere falsa? Cercare anche in maniera compulsivoossessiva di aver ragione pur di fronte ad evidenti falsità è una condizione emotiva che produce nel cervello una scarica neurochimica di gratificazione. Avere l’ultima parola anche in questioni banali o meschine è una cosa che al nostro cervello “piace tanto”. Perché ogni comportamento di “chiusura”, di “resistenza mentale” rappresenta una “ricompensa” una soddisfazione, un premio psicologico. Una scossa di certezza: “contrasto, nego, rifiuto: dunque sono, esisto”. 165 A guidare il nostro cervello in sostanza sono gli “schemi prestabiliti”. Ogni nuova situazione mette in discussione uno schema mentale consolidato. Il cervello reagisce come se si trattasse di una minaccia, attivando l’amigdala, una struttura sensibile ai pericoli e alle nostre reazioni di ansia o paura. Lo ribadiamo, il cervello ha la tendenza all’omeostasi, ha un bisogno disperato di stabilità, di certezza: ogni nuova informazione costituisce una minaccia, un pericolo. Il libro: David Di Salvo, Cosa rende felice il tuo cervello, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2013, pagine 331, € 22. 166 L’unicità della persona, split brain, morale e religione Negli ultimi anni, le neuroscienze hanno intrapreso un affascinante viaggio lungo un ampio sentiero che comprende i nostri cervelli, le nostre menti, la nostra coscienza, i nostri sentimenti, il nostro mondo sociale fino a includere i nostri sistemi morali e la religione. Da sempre il cervello ha attirato l’attenzione di scienziati e filosofi, i quali hanno riconosciuto alternativamente la nostra “unicità” oppure l’hanno negata. Un tempo, si riteneva che soltanto gli esseri umani avessero la capacità di riflettere sui propri pensieri. Oggi, una serie di dati mostra che questa capacità è presente anche nel mondo animale. Siamo caratterizzati dai medesimi componenti chimici e abbiamo le medesime reazioni fisiologiche degli animali. Condividiamo con questi la maggior parte dei nostri geni e dell’architettura del cervello. Nonostante ciò, le differenze sono abissali. 167 Comprendere il cervello e la mente, significa comprendere anche la condizione umana. La mente, per molti neuroscienziati, non è “un buco nero”, ma “una scatola nera”, che può essere interpretata e compresa, grazie al contributo di straordinari strumenti di recente sviluppo, quali la “neuroimaging” e le tecniche genetiche. La vera domanda del XXI secolo è “come” il cervello possa permettere alla mente di essere e funzionare. I processi mentali fanno parte ancora dell’oscuro mistero del cervello che i neuro scienziati cercano disperatamente di capire. La psicologia da parte sua continua a porsi domande alle quali i suoi mezzi “non consentono risposta”. Di qui, il severo giudizio di Gazzaniga, già espresso in “The Mind’s Past” che “la psicologia in sé è morta”, soppiantata dalle neuroscienze, disciplina in cui ogni giorno vengono fatte incredibili scoperte. Le neuroscienze possono non solo sondare la coscienza, intesa come consapevolezza delle nostre capacità, ma addirittura esplorare la “coscienza umana” (Gazzaniga). Il contributo maggiore alla comprensione più recente del concetto di coscienza è venuto dagli studi condotti su soggetti che vivono con i due emisferi cerebrali separati, a seguito di traumi o di interventi chirurgici, che hanno interrotto le vie di comunicazione fra il loro emisfero sinistro e quello destro. Gli esperimenti condotti da Roger Sperry e 168 Michael Gazzaniga su un cervello diviso, split brain, mostrano che ciascuno dei due emisferi può avere una sua consapevolezza. I due emisferi risultano quindi isolati l’uno dall’altro. Questi soggetti vivono come se avessero due menti separate che presentano proprie caratteristiche e capacità di apprendere, ricordare e provare emozioni. In una persona normale, le due metà del cervello comunicano l’una con l’altra: se la parte destra del cervello vede una mela, passa il messaggio attraverso il “corpus callosum” (corpo calloso) fino all’emisfero sinistro, che può dare un nome a quella mela. Senza i collegamenti che attraversano il corpo calloso, l’emisfero destro non può passare il suo messaggio al sinistro, e i pazienti con emisezione cerebrale sono incapaci di riconoscere gli stessi oggetti se li vedono nella parte sinistra del loro campo visuale (che si collega all’emisfero destro). È come se questi soggetti - osserva Sperry- avessero “due regni distinti di coscienza consapevole, due sistemi di intuito, percezione, pensiero e memoria”. In alcuni casi, infatti, la mano destra e la mano sinistra, guidate dai due emisferi, possono compiere azioni diverse se non discordanti, Gli studi sugli animali sono stati il primo passo per dimostrare il ruolo fondamentale del corpo calloso nella determinazione della condizione mentale. La prima scoperta fu quella di comprendere che una parte del cervello faceva qualcosa di cui l’altra non sapeva nulla. 169 Ciascuno emisfero del cervello aveva le sue specialità e svolgeva funzioni separate. Partendo da questi studi, il neuro scienziato suddetto è giunto a sostenere il concetto di “interprete”, che è il titolo di un volume pubblicato dall’editore Di Renzo. È la capacità dell’emisfero sinistro di “interpretare” i nostri pensieri, i nostri comportamenti e le nostre risposte, sia cognitive che emotive, agli stimoli ambientali, dando così un senso a tutti i processi della coscienza, della mente, e agli eventi della nostra vita. L’interprete ha consapevolezza, ad esempio, del fatto che sanguinare possa essere la conseguenza del “pungere” un dito. Ciascuna specie poi è consapevole delle proprie capacità. Può forse esserci qualche dubbio- si chiede Gazzaniga- sul fatto che un topo, al momento della copula, provi una sensazione di soddisfacimento al pari di un essere umano ? Certamente no. Così come appare chiaro pensare che a un gatto piaccia un pezzo di merluzzo. Anni di ricerca sullo “split brain” mostra che l’emisfero sinistro ha molte più capacità mentali del destro. L’emisfero sinistro parla, pensa e genera ipotesi. È il centro del pensiero, del linguaggio, del discorso e della risoluzione dei problemi. È superiore nei compiti verbali, analitici e sequenziali. Il cervello destro invece è specializzato in compiti di ricognizione spaziale, ed è 170 più portato per i compiti sintetici, globalizzanti e ideativi, compresa la musica, ma non è in grado di “pensare o comunicare”. Può solo risolvere problemi semplici. Sulla strada della comprensione dei meccanismi della coscienza, ci sono autori che sostengono che l’essenza della coscienza non può avere una spiegazione fisica, ossia è tanto “fantastica” da non poter essere spiegata attraverso neuroni, sinapsi e neurotrasmettitori. Ci sono altri che ritengono che possa esserlo. Essere in grado tuttavia di spiegare la coscienza attraverso i neuroni, le sinapsi e i neurotrasmettitori è “un’impresa persino più fantastica e affascinante”. Dobbiamo cercare quel circuito neurale “comune a tutti i vertebrati” che consente di essere consapevoli delle proprie capacità specie-specifiche. Lo stesso circuito che permette a un topo di fare ciò è, con ogni probabilità, “presente” anche nel cervello umano. Da questa prospettiva, il problema della coscienza è “risolvibile”. Se dunque i nostri cervelli hanno infinite capacità e i due emisferi presentano funzioni specifiche, come emerge quella potente sensazione di “unità” della coscienza? La risposta è nella funzione di “interprete” presente nel cervello sinistro e nella sua tendenza a generare teorie, spiegazioni e ipotesi sugli eventi e sui comportamenti. In questa maniera, l’interprete produce 171 in ognuno di noi la sensazione di una mente “unica e integrata”. È un sistema che dà un “senso” a tutte le informazioni che bombardano il cervello, interpretando pensieri, idee, azioni, aspetti cognitivi ed emotivi e collegamenti. Un tale meccanismo non può far altro che “dare origine al concetto di sé”. Intendiamo il concetto di cognizione di sé come il “prodotto” di vari processi e come una “struttura di conoscenze” (Kihlstrom e Klein). È l’interprete che elabora la teoria, la narrazione (passato, presente e futuro) e l’immagine di sé. Questo livello di autocoscienza dimostrato dagli esseri umani è “unico”. Dove si trovano le capacità di analizzare il sé? Studi di brain imaging e l’esame di dozzine di casi mostrano che il senso del sé emerge da una serie di “sistemi distribuiti in entrambi gli emisferi. Sulla base di informazioni provenienti da questi sistemi distribuiti, l’interprete nell’emisfero sinistro “costruisce il senso del sé”. Il sé partecipa anche alla formazione e all’interpretazione del giudizio morale o del comportamento. Problemi filosofici come l’etica, la morale e le esperienze religiose sono, infatti, finiti con il convergere sulle neuroscienze. In termini evolutivi, si tratta di una nuova capacità che gli esseri umani hanno acquisito di recente. Abbiamo scoperto tratti che risultano unici negli esseri umani: l’emozione morale 172 legata al senso di colpa, di vergogna e di imbarazzo; il pianto e la tendenza ad arrossire; l’emozione del disgusto. Abbiamo poi scoperto che abbiamo intuizioni morali fin dalla nascita. Il cervello produce storie e credenze. Questa sua attività è particolarmente evidente nel fenomeno della credenza religiosa, la quale può aver avuto origine da “una reazione istintiva” comune a tutti gli esseri umani. Abbiamo scoperto che la base della religione poggia sulla nozione di “purezza della mente o del corpo”. Alcuni autori asseriscono che la religione sembra “naturale” perché una gran varietà di “sistemi mentali” viene attivata da “norme religiose” (Boyer). Diversi autori, fra i quali Greene e Gazzaniga, hanno esaminato l’associazione esistente tra lobo temporale ed esperienza religiosa: le persone che soffrono di epilessia del lobo temporale sono spesso colpite da attacchi caratterizzati da un potente sentimento religioso, se non addirittura da vere e proprie allucinazioni di carattere religioso. Questa connessione è stata confermata da un esperimento effettuato da Persinger, innescando apposite esplosioni di attività ne lobo temporale, le quali scatenavano nei soggetti sperimentali “esplicite esperienze religiose”. In questo senso, le neuroscienze possono fornire alla neuroetica e alla neuroteologia molteplici, fondamentali contributi. Il più importante contributo è quello relativo al “come” gli esseri umani costruiscano credenze morali e religiose. I meccanismi 173 di “correlazione mentale” o di “empatia” sono accertati. Essi ci aiutano a comprendere le azioni e il significato di ciò che gli altri fanno. Ci aiutano in sostanza a sviluppare una teoria della mente altrui e, di conseguenza, della nostra. Le conclusioni delle ricerche sulla struttura mentale del giudizio morale e delle credenze religiose indicano che essi nascono all’interno del nostro cervello (Greene). 174 Alla ricerca dell’anima nel cervello I progressi delle neuroscienze nella comprensione della struttura e del funzionamento del cervello, della mente e della coscienza sono destinati a riconsiderare in modo nuovo le nostre concezioni millenarie, a partire dai sistemi filosofici, morali e spirituali. Le ricerche condotte attraverso gli straordinari metodi di brain imaging mostrano sempre più che tutto ciò che proviamo e pensiamo sia il risultato non di un’anima immateriale, ma dell’attività del nostro cervello. I neuro scienziati ritengono che i processi mentali siano processi cerebrali. La natura del pensiero e dei sentimenti pertanto può essere analizzata e capita dalla comprensione del cervello. Storicamente, i filosofi sostenevano che gli esseri viventi “contengono” gli “spiriti animali” che “vivicano” nel corpo (Galeno). Platone affermava l’esistenza di un’anima non fisica. Su questa linea si poneva anche Cartesio, il quale asseriva che tutte le funzioni mentali- pensiero, sentimenti, emozioni, sogni, decisioni- fossero opera dell’anima immateriale e non del cervello. Da parte sua, Aristotele appare più incline 175 ad abbracciare la concezione del naturalismo: i pensieri e gli stati emozionali sono in realtà stati del corpo. Da queste diverse ipotesi, sono emerse le due teorie dell’Occidente: il dualismo- sostanza spirituale e sostanza materiale (anima e corpo)- e il naturalismo che ammette l’esistenza solo del cervello. L’anima viene così identificata con il cervello, fatto che fa perdere credibilità alla concezione dualistica, a partire dalla metà del Novecento. Dalla teoria cartesiana non c’è stata in realtà alcun progresso. I dualisti non hanno “neppure tentato di sviluppare” una scienza del’anima. Ripetere ogni volta che l’anima c’è non è una “spiegazione”. Inoltre, non c’è stato “un singolo esperimento” che abbia mostrato in maniera definitiva che il cervello esegua compiti mentali, come “il vedere e il decidere”. C’è stato- precisano i neuro scienziati- un “accumularsi” di dati nella ricerca del sistema nervoso, che “smontano” l’idea di un’anima spirituale. Le prove- scrive Patrizia S. Churchland nel suo documentato e brillante libro L’io come cervello (Raffaello Cortina Editore) derivano da molte fonti. Esperimenti mostrano che cambiamenti fisici nel cervello producono cambiamenti nelle “supposte funzioni spirituali, come il pensiero e la coscienza”. Un soggetto colpito da ictus sarebbe divenuto incapace di riconoscere, ad esempio, visi familiari o di comprendere il linguaggio. Fondamentale al riguardo, la scoperta negli anni Sessanta di Rogers Sperry nello studio di alcuni pazienti 176 i cui emisferi erano stati separati chirurgicamente come tentativo di curare una grave epilessia. Accurati esperimenti effettuati su questi pazienti split brain, ossia dal cervello diviso, mostrarono che i due emisferi diventavano sul piano cognitivo “indipendenti”. Nei soggetti split brain, ogni emisfero può sperimentare in modo separato gli stimoli diretti esclusivamente a esso. L’altro emisfero “non ne sa nulla”. Queste conclusioni rappresentavano una forte base all’ipotesi che gli stati mentali fossero stati fisici del cervello e non stati di un’anima non fisica (LeDoux). L’anima immateriale poi “non si adatta neppure alla fisica”. Se un’anima non fisica- affermano i neuro scienziati- causa eventi in un corpo fisico o viceversa, viene “violata la legge di conservazione di massa ed energia. La concezione dell’anima è in crisi perché- affermano i neuro scienziati- “non c’è alcuna anima”. Questo tuttavia non esclude che non ci sia spazio per un’anima non fisica, come sostenuto da Platone. La mente e la coscienza sono ancora un mistero troppo profondo per poterli capire. Secondi alcuni autorevoli neuro scienziati non sapremo mai come il cervello dia origine a pensieri e sentimenti. Abbiamo a che fare- nota Chomsky- con un mistero insolubile. La natura della coscienza- aggiunge Chalmers- non può 177 essere chiarita, studiando il cervello. Il quale non è un organo facile da studiare sperimentalmente. Invero, la storia della scienza ci dice che molti fenomeni ritenuti misteriosi hanno poi trovato spiegazione. Di qui, il fervore e l’impegno di tutta una schiera di neuro scienziati alla ricerca del funzionamento del cervello e della mente. Oggi, si ammette una sostanziale “identità” di cervello, mente e coscienza. Che rappresenta oltretutto l’unico metodo per sottoporre l’anima (la mente) a indagine scientifica. L’anima infatti, essendo immateriale, non è “misurabile” scientificamente. Dunque, la mente come cervello, un tema che è al centro della nuova opera di Patricia S. Churchland, un’affascinante esplorazione del cervello, della mente e dell’etica. È possibile- scrive l’autrice- che anima e cervello siano “un’unica e stessa cosa”. Ciò che pensiamo come anima è il cervello e ciò che pensiamo come cervello è l’anima. Che cosa sappiamo oggi? La scienza del cervello è ai primi passi. Di fronte alla complessità del cervello, che crea sgomento e soggezione, i risultati sono straordinari. Anzitutto, sappiamo che non esiste alcuna regione del cervello che sia la sede della mente e della coscienza. 178 L’anatomia del cervello è “altamente conservata” tra le specie di mammiferi. Le strutture che regolano le emozioni sono “molto simili”. I principali elementi che stanno alla base della coscienza sono “molto simili in tutti i mammiferi”. Tutto ciò suggerisce ai neuro scienziati che non soltanto gli esseri umani abbiano coscienza, ma che essa, in una qualche forma, sia “una caratteristica del cervello di tutti i mammiferi e degli uccelli”. Quando il cane Kimi di mio figlio Valentino nota che io sto per uscire incomincia a fare festa ed è contento per la passeggiata. Quando comprende che esco da solo mi guarda con aria afflitta perché sente la tristezza della separazione. Sentimenti di gioia e tristezza sono dunque comuni, pur ovviamente con alcune differenze, le quali tuttavia si verificano anche tra gli esseri umani. Gli stati mentali sono infatti soggettivi, unici, personali. Tutti i mammiferi inoltre hanno un cuore “molto simile” al nostro e possiedono cervelli che hanno “in buona parte” la stessa struttura e anatomia del cervello umano. È stato dimostrato, ad esempio, che i processi inconsci hanno un ruolo di primo piano su come prendiamo decisioni e risolviamo i problemi. Le scoperte sul cervello realizzate negli ultimi anni ci consentono- asserisce Edelman- di studiare la mente e la coscienza a “dispetto” della soggettività. Sono allo studio teorie scientifiche della mente e della coscienza 179 che si basano sull’attività del cervello intese a chiarire la relazione tra eventi mentali (mente) ed eventi fisici (cervello), e di “riferire” i propri stati fenomenici interni (soggettivi) mentre misuriamo l’attività neurale e corporea. L’evoluzione biologica dei mammiferi nel corso di settanta milioni di anni ha portato a strutturare il cervello ai fini della sopravvivenza e del benessere in modo da estendere la “cura di sé” alla “cura degli altri”: in primo luogo alla prole, poi al partner, ai parenti, agli amici e perfino agli estranei. Dando in tal modo origine al sistema di “attaccamento”, alla socialità e alla moralità. Alla base della cura di sé, della cura degli e del sistema sociale e morale ci sono tre fattori principali: l’ossitocina, la vasopressina e gli oppiodi. Queste sostanze, che vengono rilasciate sia dal cervello della madre sia da quello del figlio, innescano una cascata di eventi grazie ai quali la madre si sente fortemente “attaccata” ai figli, dando affetto, benessere, protezione, sicurezza emozionale, gratificazione (Cheng). Gli studi sugli effetti della separazione dei neonati di roditore dalla madre hanno rivelato cambiamenti nella produzione di ossitocina e vasopressina e alterazione in specifiche aree del cervello, nonché livelli di ansia, aggressività e stress elevati (Veenema). 180 Sono queste sostanze che portano alla maternalizzazione del cervello e a prendersi cura della prole, laddove una madre tartaruga non lo fa. Le madri mammifere si accollano enormi rischi per accudire la prole, le madri serpente no (Porges). Così, una carezza delicata e amorevole attiva segnali di benessere e di sicurezza. Durante questi momenti di sintonia affettiva ed emozionale, l’ossitocina viene rilasciata sia dal cervello della madre che dal cervello del piccolo, neutralizzando i segnali di ansia e di allerta. Alla base dell’attaccamento e di prendersi cura degli altri c’è soprattutto “una maggiore” produzione di ossitocina e vasopressina (Sue Carter) unita anche ad un sistema di empatia, ai neuroni specchio e all’apprendimento, un processo che avviene specialmente per imitazione. Di fronte a un pericolo, all’isolamento, alla deprivazione socio- affettiva o all’emarginazione, crescono i livelli degli ormoni dello stress e diminuiscono quelli dell’ossitocina. Che, lo ribadiamo, è la molecola dell’amore, del piacere, della fiducia e della sicurezza. Nel corso dell’evoluzione biologica, la nostra vita sociale e morale ha subito continui cambiamenti. L’Homo erectus è apparso circa 1, 6 milioni di anni fa, mentre l’Homo sapiens calca il pianeta da circa 250 mila anni. Secondo i neuro scienziati, le norme morali sono “plasmate” da quattro processi del cervello: 1) la cura 181 per sé, per la prole e per gli altri; 2) il riconoscimento degli stati psicologici altrui, come la sofferenza o la rabbia ; 3) l’apprendimento delle pratiche sociali; 4) la soluzione dei problemi. Concludendo, i valori e le norme di condotta vengono originati dal cervello di “ogni animale” (Hauser). Anche la religione, per molti neuro scienziati, “dipende” dalla base neurobiologica della natura dell’essere umano, e fa parte della cultura, anche se essa associa la fonte della moralità a un legislatore supremo, a Dio. 182 Gli stati soggettivi possono essere conosciuti sperimentalmente Da sempre, c’è la credenza dell’uomo nell’esistenza di un’anima immateriale. A partire dall’antico Egitto, dall’Induismo e da molte altre culture, spesso l’anima immateriale veniva rappresentata dagli uccelli a simboleggiare il suo volo dopo la morte nell’oltretomba. L’idea di un’anima separata dal corpo e dunque immortale è sostenuta da Platone nel IV secolo a. C., poi dalla concezione cristiana e da Tommaso d’Aquino nel 1200. È soprattutto Cartesio a sostenere il concetto del dualismo mente-corpo, cioè che la mente è una sostanza immateriale che si sottrae alle leggi della fisica. Come potrebbe una macchina (il corpo)- si chiedeva il filosofo francese- generare una varietà infinita di pensieri, ide, simboli, emozioni (anima)? Fino al XX secolo, l’anima, la mente, la coscienza, sono rimaste al di fuori della scienza, restando patrimonio esclusivo della filosofia. Tutta cambia183 afferma Stanislas Dehaene in “Coscienza e cervello”negli anni Ottanta del secolo scorso, quando le neuroscienze s’impadroniscono del concetto di coscienza, il quale diventa un tema di ricerca di primo piano per i neuro scienziati. Così, un enigma filosofico viene mutuato in un fenomeno da studiare in laboratorio, trasformando lo studio della mente e della coscienza in una scienza sperimentale. Da oltre venti anni, gli scienziati stanno usando ogni strumento della ricerca- dalle teorie dell’evoluzionismo neodarwiniano alle metodiche di brain imaging, agli elettrodi inseriti nel cervello umano, allo scopo di “identificare” le basi cerebrali della mente e della coscienza. La domanda infatti che filosofi e scienziati si pongono è come potrebbe sorgere un’anima (immateriale) da un cervello (materiale). Alcuni autori sostengono che la mente non può essere conosciuta, poiché i nostri stati soggettivi, (le nostre esperienze interne), sono unici, privati, personali, soggettivi, come il rosso di una rosa o il verde di una foglia. Queste qualità interne non possono mai essere “ridotte” - affermano- a una descrizione scientifica neuronale. Altri autori sostengono invece che la coscienza fenomenica, -cioè la soggettività, l’introspezione- può essere indagata e conosciuta sperimentalmente. È possibile cioè esaminare le basi biologiche della coscienza, gli stati soggettivi, dai neuro scienziati chiamati qualia. 184 Gli studi sulla coscienza sono diventati una disciplina scientifica attraverso “la ricerca di meccanismi oggettivi degli stati soggettivi”, ovvero il supporto cerebrale della coscienza. Finora, la ricerca mostra che le esperienze coscienti possono essere osservate in una grande varietà di stimolazioni visive, uditive, tattili e cognitive. La coscienza è dunque un’informazione trasmessa all’interno del cervello e scaturisce da una rete neurale. Ogni volta che noi diventiamo coscienti di una informazione, “possiamo poi trattenerla nella mente e conservarla nella memoria”. Ogni stato mentale soggettivo dunque appartiene a uno stato neurale: è un uccello, un cane, una persona, ma non tutto questo nello stesso momento. Il cervello percepisce un singolo stato soggettivo. Diventare, ad esempio, consapevoli di Kimi, il meraviglioso cucciolo di mio figlio Valentino, implica l’attivazione di “miliardi di neuroni”, i quali delineano i contorni di un pensiero cosciente. Sulla base di una grande varietà di prove sperimentali, abbiamo appreso a seguire l’attività dei neuroni che intervengono soltanto quando avviene “l’accesso cosciente” (Dehaene), cioè la consapevolezza. La scoperta di esperienze coscienti è un notevole progresso, ma queste basi neurali degli stati soggettivi non spiegano ancora cosa sia la coscienza e perché essa abbia luogo. 185 La coscienza? “Il concetto- scrive Sutherland nel suo International Dictionary of Psycology- è impossibile da definire, se non intermini inafferrabili, senza una vera comprensione di cosa significhi coscienza. Sull’argomento non è stato scritto nulla che valga la pena di leggere”. Coscienza è in sostanza avere pensieri, sensazioni, consapevolezza. Coscienza è in particolare consapevolezza soltanto di una parte dell’insieme di stimoli che il cervello riceve: un colore, un suono, una forma, un rumore, una fotografia, un ricordo, una sensazione, ecc. Questo per dire che il nostro cervello è “ridotto” ad un pensiero cosciente per volta. Quando emerge la coscienza? I feti, i bambini, i prematuri, i neonati sono coscienti? Scimmie, topi, uccelli o altri animali hanno forme di coscienza? Allo stato delle nostre conoscenze, non sappiamo l’esatto momento nel quale emerge la coscienza. Alcuni autori, come J. P. Changeux, ipotizzano che la coscienza è già presente alla nascita. Ci sono prove del fatto che i bambini di pochi mesi sono coscienti. Per quanto riguarda la situazione dei nostri cugini, gli animali, esperimenti condotti al riguardo mostrano che le scimmie hanno esperienze soggettive. Non dovrebbe sorprendere, sostengono molti neuroscienziati, se scoprissimo forme rudimentali di coscienza in tutti i mammiferi e forse in molte specie di uccelli e di pesci. 186 La ricerca dimostra poi che il comportamento animale- scimmie, delfini, ratti, piccioni- hanno capacità autoriflessive (autocoscienza), ovvero metacognizione. Non siamo gli unici a sapere di sapere e il concetto di sapiens sapiens non dovrebbe essere più collegato esclusivamente al genere Homo. Ovviamente, abbiamo la stessa impalcatura neuronale, ma ciascun individuo ha un codice neurale unico e differente. La coscienza, per i neuroscienziati, è “una proprietà biologica”, emersa nel corso dell’evoluzione e svolge una funzione positiva. Invero, la capacità della coscienza è “limitata” in quanto retta da meccanismi inconsci, come già aveva sostenuto Freud. Esperimenti di brain imaging hanno confermato che la maggior parte della nostra vita mentale avviene al di fuori della nostra coscienza. La coscienza dunque viene considerata come una “parte”, ma non il tutto del sistema mentale (LeDoux). 187 Alle origini delle emozioni e degli affetti La nostra cultura, come mi ripeteva spesso il neuroscienziato Raffaello Vizioli, con il quale ho collaborato per molti anni, è dominato dal concetto di trinità. Già Platone descrive l’anima come una coppia di destrieri guidati da un auriga. Lo scienziato russo, Luria, concepisce il cervello in base a tre unità funzionali. Anche la teoria di Freud propone un modello trinitario (Es, Io e Super-Io). Negli ultimi anni, uno dei più grandi neuroscienziati, Paul Mac Lean, ha mostrato attraverso le sue ricerche che il cervello è “una struttura trinitaria” consta di tre formazioni sovrapposte: il cervello del rettile. Il cervello limbico e il neocervello. Tutti e tre costituiscono- precisa Vizioliun cervello funzionalmente unitario, dunque un cervello “uno e trino”. La trilogia dell’anima in sostanza definisce un insieme di cognizione, emozione e motivazione (Hilgard). La ricerca sull’emozione, intesa come stato dell’organismo caratterizzato da eventi psicologici e fisiologici, ha ricevuto un importante impulso dalla concezione evolutiva di Darwin, che ha assegnato al 188 sistema delle emozioni un rilevante punto di riferimento per lo studio delle specie animali. Freud pone al centro della vita mentale il mondo delle emozioni, degli affetti e dei sentimenti. Finora, le ricerche neuro scientifiche mostrano che in ogni individuo vi sono patterns emozionali di base. Invero, per lungo tempo il tema della mente emotiva è stata ignorato dai neuro scienziati, mentre è considerato essenziale nella filosofia classica ed è presente in tutta la storia della filosofia occidentale. Il comportamentismo ha negato la mente, mentre la rivoluzione cognitivista ha ammesso la mente, enfatizzando però il pensiero e i processi cognitivi a discapito delle emozioni. A prendere in considerazione i processi mentali di base e i comportamenti emotivi sono oggi le neuroscienze emotive. Nel campo della ricerca neurobiologica, James ha proposto una concezione delle emozioni basata sul funzionamento di meccanismi sensoriali e motori. Darwin ha sostenuto che le emozioni servono alla sopravvivenza dell’individuo e della specie ed hanno un carattere universale. Negli ultimi anni, la ricerca neuro scientifica, sulla base dello studio animale, dello studio clinico dei pazienti e di quello sperimentale, ha approfondito l’esame dei meccanismi del cervello, che sono all’origine delle emozioni. Fondamentali sono i 189 contributi di LeDoux sulla paura, di P. Ekman sull’universalità delle emozioni di base, di Damasio sugli aspetti istintuali dei sentimenti e dell’esperienza emotiva, e di J. Panksepp. Nella sua importante opera, scritta insieme con L. Biven, intitolata “Archeologia della mente. Origini neuro evolutive delle emozioni umane” (Raffaello Cortina Editore), Panksepp ha utilizzato il comportamento animale per studiare le emozioni e i sentimenti. La sua teoria è che animali ed esseri umani si comportano in modo simile: i ratti e le persone, ad esempio, esprimono reazioni di paura simili in situazioni di pericolo. È possibile pertanto che essi esprimano anche i medesimi stati soggettivi. Le emozioni di base sono determinate da una serie di meccanismi sottocorticali comuni a tutti i mammiferi. Un aspetto che richiama il mondo istintuale dell’Es di Freud. Le ricerche poi mostrano il ruolo centrale che assumono nel campo delle emozioni il sistema limbico e in particolare l’amigdala. Le emozioni di base, secondo Izard, sono dieci: collera, tristezza, felicità, paura, disgusto, sorpresa, disprezzo, vergogna, colpa, interesse. Queste sono espresse universalmente da tutti gli individui nelle diverse culture. Gli affetti sono il nostro sistema di comunicazione più arcaico. All’interno di questo concetto, troviamo le emozioni e i sentimenti consci e inconsci, che sono manifestazioni somatiche 190 neurosensoriali e metaboliche. Sono tutte componenti dell’apparato mentale che operano in un sistema di integrazione. Finora, le neuroscienze non ci hanno fornito risposte sicure su come è creata un’emozione, su che cosa ci rende felici o ci riempie di desiderio, collera o tenerezza. Questo è dovuto soprattutto al fatto che i sentimentiemozioni, affetti, sensazioni- sono esperiti in modo soggettivo, mentre la scienza deve usare l’osservazione in terza persona (osservazione esterna), per cui non è in grado, secondo alcuni neuroscienziati, di analizzare e conoscere le esperienze vissute in prima persona. Altri autori, come Panksepp, ritengono invece che le nuove neuroscienze sono in grado di chiarire i modi in cui gli antichi circuiti del cervello dei mammiferi generano gli affetti emotivi primitivi, cioè gli stati d’animo e dunque la mente e la coscienza. Le emozioni, gli affetti, sono le fondamenta su cui viene costruita la nostra vita. L’antica divisione tra disturbi fisici ed emotivi non è più accettata, si riduce al punto tale da “estinguersi”. La mente e il cervello non sono entità “distinte”, sono “realmente una e la stessa cosa”. Oggi, facciamo uso di questi due termini, cervello e mente, con la doppia maiuscola e non separati dallo spazio (CervelloMente), per sottolineare- precisa Panksepp- che le neuroscienze sono “moniste”, senza più alcuna prospettiva “dualista”. La teoria del 191 monismo, in opposizione al dualismo, e prevalente nelle nuove neuroscienze, sostiene in sostanza che tutto ciò che avviene nella mente è “radicato” nel cervello fisico. Allo stato attuale della ricerca, sappiamo che i principi biologici di base del cervello di tutti i mammiferi hanno uno stesso piano fondamentale costituito da antichi circuiti affettivi concentrati nelle regioni primitive del cervello dai quali ha origine la coscienza. Questi circuiti affettivi sono presenti sia negli esseri umani che negli altri mammiferi. I sentimenti sono simili, ma non identici, poiché l’evoluzione è caratterizzata da diversità. Non abbiamo ancora una risposta empirica definitiva alla domanda su come i sistemi neuronali siano in grado di produrre le esperienze affettive, cioè la coscienza. La ricerca deve concentrarsi sui meccanismi istintivi ancestrali, che si trovano nei circuiti sottocorticali del cervello dei mammiferi, là dove nascono cioè le emozioni, gli affetti e i sentimenti. Abbiamo prove sicure che tutti mammiferi vivono esperienze emozionali intense. L’attività mentale sia conscia che inconscia è intrinsecamente emotivoaffettiva. I sentimenti hanno basi biologiche (Russell) e sono le radici delle nostre primitive comunicazioni. I progressi in questo campo stanno operando una rivoluzione sia nella psichiatria sia nella psicoanalisi, discipline per lo più costruite su “concetti artificiosi e 192 intuizioni e non sui dati scientifici”. La diagnostica psichiatrica si basa su concetti obsoleti, non sulla conoscenza della nuova scienza del cervello e dei suoi sistemi emotivi. Fatto che ha causato problemi sempre maggiori, passando dal DSM1 al DSM5. 193 Per una epistemologia basata sul cervello Apri la mente a quel ch'io ti paleso e fermarli entro; ché non fa scienza, senza lo ritenere, avere inteso. (Dante, Paradiso, V, 40-42) Le neuroscienze sono state attraversate in questi ultimi anni da “eventi e scoperte epocali”(Insel). Uno degli eventi di maggiore portata storica riguarda la scoperta della sequenza completa dcl genoma umano costituito da circa 30. 000 geni composti da quasi tre miliardi di basi di DNA. Situazione che rappresenta un'opportunità senza precedenti di studiare le differenze tra la nostra specie e i mammiferi non umani, e rivela anche sorprendenti similitudini tra gli esseri umani, con un'analogia del 99, 9 per cento tra gli individui. Un progetto in corso, chiamato International Haplotype Mapping Projet, sta lavorando sulla diversità umana per individuare dove risieda la differenza dello 0, 1 per cento tra gli individui sui tre miliardi di basi di DNA. 194 Oggi sappiamo che le connessioni tra i neuroni non sono stabilite una volta per tutte, ma si possono modificare con l'esperienza e l'apprendimento. Poiché gran parte dello sviluppo cerebrale è “stocastico” ed “epigenetico”, ossia è fortemente influenzato dal fatto che i neuroni che scaricano insieme si cablano insieme, non esistono due cervelli identici. Neanche due gemelli monozigoti hanno lo stesso identico cervello. Ogni cervello è “unico” ed è dotato di “plasticità”. Questi elementi hanno portato- afferma Kandel- alla consapevolezza dell’unicità biologica dell’individuo, fatto che avrà un forte impatto su ogni aspetto della medicina e della psichiatria. La nostra individualità pertanto si riflette nell'unicità della nostra mente, la quale emerge “dall'unicità del nostro cervello”. I dati poi mostrano che il cervello e la mente sono emersi come “prodotto della selezione naturale” (Edelman). Il cervello stesso funziona come “sistema selettivo” con repertori altamente variati di circuiti. Le reti straordinariamente complesse di cui è formato e i segnali provenienti dal mondo esterno sono “incarnati” in un modo che varia da cervello a cervello. Nell'analizzare la struttura e il funzionamento del cervello, di conseguenza, occorre - scrive Romolo Rossi - tenere conto della storia dettagliata, anzitutto nel corso dell'evoluzione e poi nello sviluppo cerebrale del singolo individuo. L’ultimo, grande mistero con il quale è chiamata a confrontarsi la nuova scienza del 195 cervello è la natura della mente umana. La biologia della mente costituisce, per i neuroscienziati, il punto d'arrivo di un percorso iniziato nel 1859, con la teoria di Darwin sull'evoluzione delle forme corporee. Darwin è stato il primo autore ad affermare che l'uomo, al pari di ogni altro animale, si era evoluto da progenitori animali “completamente diversi da lui”. Ha sostenuto poi la tesi ancor più rivoluzionaria che la spinta dell'evoluzione derivasse non da un agente animato - l'Intelligent Design sostenuto dal creazionismo -, ma dalla selezione naturale, un processo basato sull'azione selettiva che l'ambiente esercita sui diversi individui. Sta di fatto tuttavia che in un passo dell’opera “L’origine dell'uomo”, Darwin parla dell'intelletto “quasi divino dell'uomo” e afferma che la vita è stata in origine impressa “dal Creatore in poche forme od anche in una sola”; considerazioni che esprimono, d'accordo con Primo Levi, “una religiosità profonda e seria”. Occorre dunque elaborare - dichiara Edelman, neuroscienziato e premio Nobel per la medicina“un'epistemologia basata sui cervello” e “fondata sull'evoluzione”, poiché “tutti i meccanismi cerebrali sono emersi nel corso dell'evoluzione di Homo Sapiens”. I cambiamenti epigenetici e storici nella formazione delle mappe cerebrali sono “fortemente infiuenzati” dai segnali provenienti dal corpo e dall'ambiente. 196 Nello sviluppo del feto quanto in quello postnatale infatti il sistema propriocettivo è in grado di “distinguere” i movimenti autogenerati da quelli imposti dall'esterno. Dopo la nascita e durante lo sviluppo infantile, nelle popolazioni sinaptiche del sistema nervoso centrale avvengono “enormi cambiamenti” dovuti ad “eventi selettivi”. Questa visione dinamica dello sviluppo del cervello è in accordo con la teoria della selezione dei gruppi neurali e dà rilievo alla natura plastica dello sviluppo cerebrale, il quale si arresta in pratica soltanto “al momento della morte”. Anche la coscienza è comparsa nell'evoluzione dei vertebrati quando sono emerse le connessioni rientranti del sistema talamocorticale che collega i sistemi di memoria anteriori che trattano i valori ai sistemi corticali posteriori dedicati alla percezione. Di conseguenza, si è prodotto un enorme aumento delle capacità discriminatorie per effetto di miriadi di integrazioni tra i circuiti che costituiscono il nucleo dinamico. È vero quindi non solo che un tale cervello è “unico”, ma anche che lo stimolo sensoriale offerto dall'ambiente e la risposta motoria del soggetto non sono mai “identici” da una volta all'altra. Ciò esclude i modelli del cervello e della mente considerati come macchine (il cervello non è un computer), rendendo invece necessario l'assunto secondo cui la memoria è una 197 “proprietà dinamica” basata sulla “ricategorizzazione”, e non un “archivio fisso” di tutte le varianti di una scena. L'evoluzione del cervello è poi accompagnata dall'evoluzione della cultura, la quale fornisce un mezzo di cambiamento relativamente rapido e potente che influenza le basi della conoscenza, della sensazione e del comportamento (Richerson, Boyd). L’epistemologia basata sul cervello tiene necessariamente conto delle ipotesi fornite da un'analisi dei disturbi psichiatrici, i quali portano tutti ad alterazioni della conoscenza. L'esame del funzionamento del cervello e della mente finisce in sostanza nel gettare luce sui problemi degli stati mentali anormali, e viceversa. Quello che emerge dalla ricerca neuroscientifica sui disturbi neuropsichiatrici è la gamma straordinaria delle cause e delle risposte che riguardano differenti livelli della struttura del cervello. Nelle sindromi neuropsicologiche, un danneggiamento di aree cerebrali può provocare deliri. Per quanto concerne la questione delle psicosi, alterazioni genetiche e biochimiche possono arrivare a compromettere l'esame di realtà. Nelle nevrosi, che per Freud derivavano da conflitti interni e spesso le loro cause emergono nella prima infanzia per la frustrazione di pulsioni sessuali infantili, le connessioni funzionali tra pensiero, credenze e risposte del sistema di valori possono 198 generare disturbi del comportamento. Per quanto suggestive, le ipotesi di Freud risultano troppo distanti dai meccanismi strutturali rivelati dagli studi sulle interazioni fra cervello e corpo. Molte idee freudiane poi derivano non da basi scientifiche, ma da intuizioni. Per capire le origini e lo sviluppo delle patologie mentali occorre approfondire la nostra conoscenza dei meccanismi cerebrali specifici a tutti i livelli. Gli studi finora condotti permettono di affermare che “tutti i disturbi psichici riflettono specifiche alterazioni nel funzionamento neurale e sinaptico” (Kandel). Dalle ricerche effettuate da Kandel su Aplasia, una specie di lumaca marina dal cervello molto semplice, emerge la presenza di meccanismi cellulari comuni nell'ansia cronica e nell’ansia anticipatoria. L’ansia e la paura poi esprimono un meccanismo adattivo universale, che si osserva tanto negli animali complessi quanto in quelli più semplici. È necessario infine passare da una neuropatologia basata esclusivamente sulla struttura delle aree cerebrali a una fondata anche sulla loro funzione. 199 Nuove prospettive nel campo delle neuroscienze Da alcuni anni, sono incorso numerose ricerche per orientarsi in quel territorio ancora sconosciuto che è il cervello umano, là dove attraverso una fantastica attività neuronale sono codificati i nostri pensieri. Un cervello che il neuro scienziato S. Seung definisce “una foresta maestosa talmente aggrovigliata nelle ramificazioni dei suoi alberi da non consentire che vi penetri alcun raggio di sole. Tutto nasce da questa foresta: ogni sinfonia, ogni nostro pensiero e ricordo, ogni delitto e ogni atto di pietà. Si prova sgomento di fronte ad un organo così vasto e complesso. Un cervello infinito. Non c’è da stupirsi se quest’organo è ancora un mistero. Potremo mai conoscere la totalità di questa foresta e di questi rami incantati (neuroni)? Finora, i neuroscienziati ne hanno ascoltato i suoni- i segnali elettrici- e le forme fantastiche dei neuroni. L’obiettivo è quello di comprendere come fa il nostro cervello a realizzare l’impresa di pensare e di rievocare 200 il passato, percepire il presente e immaginare il futuro. Al momento nessuno lo sa veramente. Sono in corso molteplici direzioni di ricerca. Una teoria interessante è quella avanzata da Sebastian Seung: ricostruire l’intera rete delle connessioni tra le aree cerebrali. Disegnare in sostanza “una mappa di navigazione”, chiamata “connettoma”, per tentare di comprendere il cervello. Delineare quella mappa e poterne analizzare i tratti, rappresenterà una via di accesso alle basi neurobiologiche del nostro io. Anzitutto, dobbiamo dire che la ricerca mostra che i nostri sistemi di connessione neurale sono molto differenti. Questa scoperta comporta pertanto che ogni essere umano sia “unico”. Perché il cervello funziona in maniera differente in ognuno di noi? Le menti sono differenti perché differenti sono i genomi. I geni hanno un ruolo nella formazione della nostra personalità, nel QI e nei disturbi mentali. I geni da soli non spiegano tutto. Sono le esperienze, gli eventi della vita e l’educazione che insieme ai geni concorrono a forgiare il nostro cervello e dunque i sistemi di connessione neurale. Esiste un sistema di interazione tra i geni (nature) e le esperienze (norture), La nostra mente dunque è forgiata dagli eventi della nostra vita e dai geni. La teoria del connessionismo cerca di spiegare come funzionano le regioni cerebrali, le quali sono considerate come “reti complesse” composte da un 201 numero esorbitante di neuroni. Le connessioni sono organizzate per consentire ai neuroni di generare collettivamente gli “intricati schemi di attività”, da cui “nascono i nostri pensieri”. Impareremo, afferma Seung, a decodificare ciò che c’è scritto nei sistemi di connessione e a capire cosa rende intelligente un cervello. I neuro scienziati non vogliono solo capire il cervello, vogliono anche cambiarlo. Il nostro cervello cambia durante tutta la nostra vita, a causa di nuove conoscenze. Negli anni sessanta Marh Rosenzweig e colleghi hanno scoperto che vivere in una gabbia “arricchita” aumentava l’intelligenza dei topi e accresceva la loro corteccia cerebrale. Era la prima dimostrazione del fatto che l’apprendimento, gli stimoli, l’esperienza e l’esercizio mentale inducono un cambiamento nello sviluppo del cervello, dell’intelligenza e nell’organizzazione dei neuroni. Ciascun neurone esegue un compito, ma insieme cooperano in maniera complicata. Per la bellezza della sua forma il neurone vi toglierà il fiato. I neuro scienziati stanno approfondendo come una vasta rete di neuroni pensa, prova sentimenti, ricorda e percepisce. In sostanza, come il cervello genera gli straordinari fenomeni della mente. Ma davvero la mente - l’anima- è tutta in questi eventi (fisici) neurali? I neuro scienziati lo danno per scontato. Altri autori invece sono convinti che la mente 202 dipenda da un’entità immateriale. Una sorta di anima. Finora, non ci sono prove oggettive, scientifiche sull’esistenza dell’anima. Così come non ci sono prove sperimentali sul connessionismo. Il quale pertanto non è ancora assurto a scienza. Poiché i neuro scienziati non posseggono le tecniche per disegnare la mappa delle connessioni tra neuroni. Occorre perciò che la sua teoria sia valutata sperimentalmente. La strada è quella di individuare i connettomi attraverso nuove tecnologie, le quali ci consentiranno di decodificare cosa c’è scritto nei sistemi di connessione neuronale. “Vivremmo molto meglio nel nostro mondo strano e difficile- scrive Stephen J. Gould nel suo bellissimo libro “Il riccio nella tempesta” - se potessimo credere che la mente umana è il risultato ragionevole e prevedibile di un processo diretto fin dall’inizio verso questo obiettivo. La storia ci insegna “una dura lezione”. L’evoluzione della vita “non conferisce” all’intelligenza umana alcuno status speciale o preordinato. I saggi di Gould hanno come idea centrale la teoria dell’evoluzione. Sono riflessioni illuminanti su argomenti disparati, come la mente, il cervello, il determinismo biologico, la storia della vita, il futuro, la complessità della natura. “C’è bellezza- dice- nel mugghiare del vento e grandiosità nel brontolio della burrasca”, ma la triste storia del piccolo salice piegato dal vento “commuove infine il cuore umano”. 203 Il piacere e la gioia, il dolore e la tristezza: tutto dal cervello Questo secolo - afferma il neuro scienziato Swaab ha di fronte a sé almeno” due giganteschi interrogativi”: come è nato l’universo e come funziona il cervello. Un organo straordinario che ci consente di pensare, vedere e sentire. Tutto proviene dal cervello. Un fantastico cervello costituito da circa 100 miliardi di neuroni e da una rete di connessioni lunga 100 mila chilometri. Ogni neurone stabilisce infatti un contatto con altre diecimila cellule nervose attraverso le sinapsi. Tra le specie, l’affinità chimica è molto elevata. In considerazione delle grandi coincidenze molecolari, il sistema nervoso dei vermi, degli insetti e dei vertebrati, dai pesci all’uomo deve “aver avuto un predecessore comune” esistito 600 milioni di anni fa. Viene poi messo in evidenza che il genoma umano differisce da quello dello scimpanzé solo dell’per cento. Il topo possiede 1200 recettori olfattivi mentre nell’uomo ne restano 350. Veniamo al mondo con un cervello reso unico dalla combinazione del patrimonio genetico e della 204 programmazione che avviene durante lo sviluppo del cervello nell’utero, e nel quale sono “già fissati” in modo rilevante i nostri tratti caratteriali, i nostri talenti e i nostri limiti. I fattori ambientali sono fondamentali per lo sviluppo del cervello, ma l’aspetto più importante- aggiunge Swaab (“Noi siamo il nostro cervello, Elliot Edizioni) “non è l’ambiente sociale”, come si riteneva negli anni Settanta, ma quello biochimico prima della nascita. L’alcol, la cocaina, il piombo, gli antiepilettici, il fumo assunti durante la gravidanza possono determinare nel bambino disturbi dell’apprendimento, depressioni, angoscia e anomalie dello sviluppo come schizofrenia, autismo, morte in culla e disturbi sessuali. Si ammette poi che l’identità di genere e l’orientamento sessuale vengano programmati per il resto della nostra vita nell’utero. Viene smentita così l’idea che l’omosessualità, considerata dalla medicina una malattia fino al 1992, rappresenti una scelta “sbagliata” o sia indotta dall’ambiente. Le conclusioni di molte ricerche indicano che la terapia volta a trasformare gli omosessuali in eterosessuali non funziona e può portare alla depressione e addirittura al suicidio. Oggi, sappiamo che la schizofrenia, l’autismo e tutta una serie di disturbi psichiatrici sono riconducibili a un disturbo precoce dello sviluppo cerebrale con una base genetica. Anche le ragazze 205 colpite da anoressia o bulimia nervosa hanno avuto spesso problemi alla nascita. Un ambiente sicuro, arricchito e stimolante favorisce uno sviluppo normale del cervello. Se il bambino viene trascurato, subisce abusi o resta a lungo senza genitori, può riportare un ritardo mentale permanente e provocare stress e depressione, mentre i livelli di ossitocina si riducono. Gli straordinari metodi di brain imaging ora permettono non solo di “individuare” le malattie cerebrali, ma anche di “vedere” le aree che si attivano quando leggiamo, pensiamo, calcoliamo, ascoltiamo musica, abbiamo esperienze religiose, siamo innamorati o eccitati sessualmente. Attraverso i disturbi del cervello ricaviamo molti insegnamenti sul suo funzionamento. Per molti quadri clinici di questo tipo abbiamo già terapie efficaci. Il morbo di Parkinson viene trattato con L-dopa e una corretta terapia combinata evita l’insorgere della demenza da AIDS. Si individuano inoltre i fattori di rischio genetici e di altro tipo legati alla schizofrenia. Oggi è possibile poi “eliminare” i coaguli che provocano l’infarto cerebrale, “arrestare” le emorragie e “inserire” stent nei vasi cerebrali intasati. Positive le prospettive di nuove scoperte sui processi molecolari che provocano malattie come quella dell’Alzheimer, la schizofrenia, il morbo di Parkinson, la sclerosi multipla e la depressione. Gli elettrodi, impiantati nel cervello, 206 funzionano già efficacemente come mostrano le applicazioni su pazienti affetti da Parkinson. È impressionante - rileva Swaab - veder cessare all’improvviso tremori anche molto forti non appena il paziente aziona il pulsante dello stimolatore. Elettrodi di profondità vengono applicati anche per la cefalea a grappolo, per ridurre gli spasmi muscolari, i disturbi ossessivo-compulsivi, l’obesità e le dipendenze. Si tenta di riparare i danni al cervello, trapiantando tessuti cerebrali del feto nei pazienti colpiti dal morbo di Parkinson o dalla malattia di Huntington. La terapia genica viene già sperimentata sui pazienti che soffrono di Alzheimer. Le conclusioni di molte ricerche mostrano che per un regolare sviluppo e per uno svolgimento rapido del parto occorra una positiva interazione tra il cervello della madre e quello del nascituro. Il cervello di entrambi “accelera” l’andamento del parto, rilasciando l’ossitocina, l’ormone che fa contrarre l’utero e stimola tra l’altro la produzione di latte. Ulteriori, recenti studi indicano che l’ossitocina svolge un ruolo importante in molte interazioni sociali, crea un legame tra la madre e il bambino, genera un effetto calmante e stimola il sistema di “attaccamento”. Questi studi hanno poi rivelato che bambini trascurati o cresciuti in orfanotrofio, e bambine maltrattate o abusate hanno presentato livelli di ossitocina più bassi rispetto a quelli di soggetti cresciuti in famiglia. Oggi, 207 l’ossitocina è considerata come il “trasmettitore” dell’affetto, dell’empatia, della generosità, della calma, della fiducia e dell’”appartenenza reciproca”. Si è scoperto che questo ormone - chiamato ormone dell’amore - “reprime” la paura e l’aggressività, grazie alla sua azione sull’amigdala, ed entra in gioco nelle reazioni allo stress, nell’innamoramento e nei rapporti sessuali. Si è anche scoperto di recente che i disturbi dei sistemi cerebrali legati all’ossitocina e alla vasopressina si presentano con frequenza nei casi di autismo. Nei primi anni di vita, l’ambiente determina la formazione di circuiti cerebrali che hanno a che fare con il linguaggio, l’interpretazione del viso e delle immagini. Sta di fatto che noi veniamo al modo con un cervello “unico”, in cui il nostro carattere, le nostre inclinazioni e i nostri limiti sono già in gran parte stabiliti. Tutte le ricerche recenti indicano che l’attività di enormi quantità di neuroni localizzati in alcune aree del cervello costituisce la base della coscienza, la quale è considerata come “una nuova proprietà emergente”, che scaturisce dal funzionamento di molte aree cerebrali specifiche. Essa presenta, secondo Swaab, due aspetti. In primo luogo, siamo coscienti del nostro ambiente. In secondo luogo, vi è la “coscienza di sé”, che appare “molto sviluppata” anche in tutta una serie di animali. Anche nelle decisioni morali prendono parte 208 non solo la corteccia prefrontale, ma anche molte altre aree del cervello. È presente nel cervello - affermano i neuroscienziati - una “rete morale” i cui componenti neurobiologici si sono sviluppati durante l’evoluzione. Molti esempi di “autentico comportamento morale” sono stati osservati anche negli animali. I neuroni specchio e l’empatia sono alla base dell’azione morale. Ha scritto lo scienziato De Waal: “Dio dovrebbe donare agli uomini un po’più di empatia per gli altri”. Invero, nelle scelte morali noi esercitiamo poca influenza. Il nostro cervello prende continuamente decisioni sulla base di un processo inconscio, per cui non c’è posto per un “libero arbitrio completo e consapevole”. Gli esperimenti di Libet dimostrano che la coscienza tarda circa mezzo secondo a manifestarsi dopo uno stimolo sensoriale. Dan Wegner parla di una “volontà inconscia” anziché di “libero arbitrio”, che in tal modo si rivelerebbe soltanto una “illusione”. Esperimenti provenienti da diverso laboratori sembrano gettare fondati dubbi sull’autonomia delle nostre decisioni e quindi sull’esistenza del cosiddetto libero arbitrio. Dobbiamo al riguardo considerare anzitutto che il cervello è composto di molte parti e consta di diverse regioni e aree funzionali. In secondo luogo, il cervello potrebbe essere “condizionato” dalla biochimica del corpo. Infine, potrebbe essere influenzato dall’assetto genico. 209 Esperimenti di brain imaging infine mostrano come le esperienze spirituali, le esperienze religiose e quelle mistiche, queste ultime caratterizzate dalla sensazione di unione con Dio, attivino aree cerebrali differenti, fra le quali l’area della gratificazione che contiene la dopamina. Dean Hamer ha scoperto un gene, che ha chiamato il “gene di Dio”, le cui variazioni determinano il grado di spiritualità. Neurotrasmettitori come la serotonina contribuiscono a determinare la nostra spiritualità. Anima, spiritualità e religione hanno una componente genetica, sono una caratteristica dell’evoluzione e sono presenti nel corso dei secoli in tutte le culture. Concludiamo: le prospettive sono straordinarie. L’enorme sviluppo che si è verificato nel campo delle neuroscienze comporta sempre nuove scoperte. Che hanno effetti benefici sull’umanità e soprattutto sulle persone con malattie cerebrali. 210 Il cervello, uno e trino In questi ultimi anni, sono stati compiuti stupefacenti progressi sul cervello e la mente. Le ricerche mostrano la meravigliosa e incredibile realtà del cervello umano, una straordinaria struttura unica nell’universo conosciuto. Un cervello diverso da qualsiasi cosa l’uomo abbia mai costruito. E per questo, fonte di continue sorprese per gli stessi neuroscienziati. Il cervello umano può essere paragonato a una casa costruita un po’per volta nel corso di milioni di anni. Sull’architettura di questa casa, Paul MacLean, uno dei più grandi protagonisti delle neuroscienze moderne, ha elaborato un’interessante e affascinante teoria. Il cervello - egli afferma - è una struttura trinitaria “triune brain” -, che consta di tre formazioni sovrapposte: il cervello rettiliano, così chiamato perché il suo aspetto è simile al cervello di un rettile, il cervello limbico o cervello mammaliano e il neocervello o cervello dei mammiferi recenti. Il primo rappresenta la parte più antica e profonda del cervello e si è evoluto- sostengono Ornsteine Thompson- più di 500 milioni di anni fa. Al cervello 211 rettiliano sono legate l’aggressività e la violenza. È una pulsione autodistruttiva e distruttiva. Il secondo cervello avrebbe fatto la sua comparsa da 300 a 200 milioni di anni fa. È la sede delle emozioni. L’ultimo, il neo cervello, apparve circa 200 milioni di anni fa. È la parte più nobile del cervello. È ciò che ci dà la nostra peculiare qualità umana: siamo in grado di capire, pensare, ricordare, comunicare, creare. Queste tre formazioni fondamentali del cervello presentano tra loro grosse differenze strutturali e chimiche. Eppure, riescono a fondersi e funzionare come un cervello “uno e trino”. È proprio vero- osserva il neuroscienziato Vizioliche la trinità domina la nostra cultura. Infatti, se dal campo della fede, passiamo alla scienza del cervello, ritroviamo un’analoga concezione trinitaria. Il cervello dunque è anch’esso una struttura trinitaria. L’analogia con la Santissima Trinità non è solo formale, nel senso che tutti e tre i cervelli costituiscono “un cervello funzionale unitario”, quindi un “cervello uno e trino”. Certamente, deve esserci qualcosa di magico e di affascinante nel numero tre. Platone infatti descrisse il cervello come una coppia di destrieri perigliosamente guidata da un auriga. Anche lo scienziato sovietico, Lurija, ha concepito l’organizzazione del cervello nei termini di tre unità funzionali: la prima deputata a regolare il ritmo sonnoveglia, la seconda a ricevere le informazioni, la terza 212 proposta alla programmazione delle attività motorie e intellettuali. Infine, trinitario è anche il modello della mente proposto da Freud. Secondo il padre della psicoanalisi, la mente è formata da tre istanze. La prima è l’Es, il mondo degli istinti, delle pulsioni e dei desideri. Che ci porta ad agire secondo il principio del piacere immediato, senza pensare agli effetti della nostra azione. La seconda è il Super- Io, che è l'insieme degli obblighi, delle proibizioni, dei tabù tradizionali impressi nel nostro cervello dai nostri genitori. La terza istanza è l’Io, il quale riflette sulle conseguenze delle sue azioni, rinuncia al piacere immediato per quello differito, cioè per il principio di realtà, e trasforma gli impulsi in comportamenti ragionevoli. L’Io è una struttura di mediazione tra l’Es e il Super- Io e quindi guida di entrambe le istanze psichiche. Questo modello, in base alle scoperte delle neuroscienze, ha ricevuto un riconoscimento scientifico, perché considerato fondato su una base biologica. Il cervello rettiliano, infatti, corrisponde sul piano anatomo-fisiologico all’Es, cioè agli istinti primordiali; il cervello mammaliano equivale alla sede dell’Io, mentre il neocervello corrisponde al Super- Io, preposto alla coscienza morale, alla critica e al giudizio. 213 Quando, di fronte al male e a certe efferatezze diciamo che si è liberato il rettile che è nell’uomo, affermiamo una realtà. Che i neuroscienziati hanno verificato scientificamente, che Platone aveva intuito e che Freud ha teorizzato. Freud riteneva che l'Io avrebbe preso la guida dell’intero comportamento dell’essere umano. In realtà, i fatti sono andati in modo diverso. A partire dagli anni Sessanta e Settanta, i ragazzi e i giovani hanno cominciato a contestare e a ribellarsi ai genitori, agli insegnanti, all’autorità e alla società. Si è progressivamente affermata un’educazione e una pedagogia del “laissezfaire”, del permissivismo. Una filosofia basata su una pedagogia che proibisce di dare ordine e punizioni, di dare insomma la direzione e le indicazioni e gli orientamenti di un sano e maturo comportamento. L’Io, cioè l’individuo, il ragazzo, si è sentito libero e indipendente, guidato da pulsioni e da una sorta di delirio di onnipotenza Sono poi crollati i valori che per millenni hanno guidato la coscienza morale degli esseri umani, mentre la società è diventata multiculturale, fatto che ha frantumato il sistema di principi etici valido per tutti. Il risultato è che oggi viviamo una profonda e drammatica crisi morale e spirituale, una crisi politica ed economica. Crisi che ha investito l’individuo e il mondo globale. 214 La stessa famiglia è in profonda crisi. La stessa scuola è in profonda crisi, mentre molti ragazzi sono disorientati e insicuri, in conflitto, immaturi. È allarme sociale. Gli studi hanno dimostrato che cresce il numero di ragazzi e bambini che soffrono di disturbi psichiatrici, ansia e depressione, malessere e insonnia, inquietudine e aggressività fino alle forme di violenza, arroganza, ineducazione. È emergenza educazione. Gli insegnanti sono demotivati, molti vivono la scuola con ansia. Tra i miei pazienti, ci sono anche insegnanti. Ebbene, si svegliano al mattino con l’angoscia di andare a scuola, con l’angoscia di subire forme di aggressività e maltrattamento da alunni. Che non sono universitari, ma ragazzi di scuola media. Andrea Zanzotto, uno dei maggiori poeti del Novecento, scomparso alcuni giorni fa, ha scritto: “viviamo una condizione che coincide con una psicosi vera”, una vera malattia. “Oggi c’è una emergenza umana”. Una società arrogante, priva di umiltà e altruismo, di generosità e di empatia. Tutta orientata all’interesse individuale, all’egoismo, a soddisfare, come un bambino, le proprie pulsioni. C’è una desertificazione della coscienza sia individuale che collettiva. Ci salverà l’arte ?, come ingenuamente ha scritto un poeta. Oppure, la scienza del cervello e della mente? Fintanto che rimarrà un mistero il cervello umano, rimarrà un mistero anche il mondo circostante. 215 Certamente, qualunque terapia al riguardo deve prendere l’avvio anzitutto dal riconoscimento dell’esistenza della malattia. Senza una presa di consapevolezza del proprio disturbo e senza la volontà di iniziare una terapia non esiste alcun presupposto di guarigione. Ma, esistono i terapeuti? Vi lascio con questo importante e drammatico dubbio. Sperando che ognuno con umiltà avvii in primis una propria autoanalisi. Sul piano prettamente scientifico, diciamo che, come ha dimostrato la nuova scienza del cervello e della mente, all'interno dell’uomo “sono sempre presenti come scrive l’autorevole neuroscienziatoMacLean- due animali ben svegli e coscienti, ma irrimediabilmente incapaci di esprimersi con il linguaggio”, cioè in modo verbale, comprensibile. Il compito di controllare questi due cervelli spetta al terzo cervello della trinità, al neocervello. Spesso però, il neocervello è incapace di frenare gli istinti e le pulsioni provenienti dal cervello rettiliano e da quello mammaliano. In questi casi, prevale la pulsione distruttiva e autodistruttiva, prevalgono l’aggressività e la violenza. i disturbi dell’emozione, dell’ansia e della depressione, insicurezza e distorsione della realtà. È sul neocervello che i neuroscienziati fanno affidamento. È un organo incredibile, la struttura più complessa e straordinaria dell’universo conosciuto. Un 216 organo che sta “cambiando” il mondo e la stessa esistenza umana, con la sua creatività, immaginazione, intelligenza, innovazioni e con la sua capacità di far fronte alle risposte sociali. Molte risposte dunque ci possono venire dalle nuove neuroscienze. Si tratta allora di migliorare la conoscenza del nostro cervello, allo scopo di ridurre gli effetti negativi di quel sistema schizofrenico costituito dal cervello rettiliano, riducendo quelle tensioni e quei conflitti interni all’uomo. che altrimenti potrebbero “esplodere”, con conseguenze catastrofiche e provocare malessere individuale e sociale di enorme portata. e di difficile soluzione. La battaglia più difficile da superare, e concludiamo, è quella fra l’uomo e i suoi due cervelli animali. . . Gli incredibili progressi della nuova scienza del cervello ci offrono la base per sperare che il neocervello riuscirà a far fronte ai problemi sempre più circi e drammatici del nostro tempo. 217 La prospettiva interpersonale in neuroscienza Da sempre, filosofi e scienziati cercano di sondare la natura della mente umana. Nonostante la molteplicità delle ipotesi, non si è ancora pervenuti a formulare un quadro concettuale possibilmente unitario intorno a una definizione di “mente”. Su questo fondamentale aspetto della ricerca neuroscientifica Daniel Siegel nella sua nuova opera “Mappe” per la mente. Guida alla neurobiologia interpersonale” (Raffaello Cortina) tenta di riunire in una unica cornice teorica i contributi di una serie di discipline scientifiche. Siegel ha domandato a studiosi appartenenti a differenti branche- scienze cognitive, biologia, antropologia, genetica, linguistica, neuroscienze, psichiatria, fisica- di dare una definizione di mente e di chiarire il rapporto fra mente e cervello. Il risultato della ricerca non ha fornito alcuna base comune sulla definizione di mente. Alcuni ricercatori hanno un atteggiamento di sfiducia sulla possibilità di “comprendere” l’essenza della mente e della coscienza, 218 mentre altri sostengono invece che è possibile conoscere il funzionamento dell’attività mentale. Allo stato della ricerca, possiamo dire - d’accordo con Boncinelli - che i neuro scienziati sanno di non sapere. C’è una posizione comune intorno all’idea che non sappiamo davvero cosa siano la mente e la coscienza. La difficoltà principale consiste nel fatto che mente e coscienza sono entità immateriali e dunque non misurabili scientificamente. Il concetto di mente dunque è sfuggente e addirittura inafferrabile e oscuro. Finora, la mente è stata considerata dagli scienziati “nient’altro che l’attività del cervello”. Siamo soltanto all’inizio della ricerca neuro scientifica, c’è ancora molto da esaminare e scoprire. Secondo alcuni autori, “mente” è un termine generico, un’entità sconosciuta e che forse “mai riusciremo a conoscere”. Punto di partenza è chiarire che i processi mentali hanno un carattere soggettivo, cui ci si riferisce con il termine “qualia”, ossia la “qualità soggettiva dell’esperienza individuale”. La descrizione dell’esperienza soggettiva fornita direttamente da colui che l’ha compiuta è utile, ma non è “equivalente” all’esperienza stessa poiché questa non può essere descritta in modo esaustivo né è facilmente quantificabile, né osservabile direttamente. Gli stati soggettivi pertanto non possono essere studiati in modo 219 oggettivo e quantificabile. Non possiamo quindi ottenere una “misurazione oggettiva”. Un altro aspetto della mente difficile da esaminare in modo “misurabile” è la coscienza, cioè l’esperienza soggettiva di essere consapevoli. Ma cosa significa essere consapevoli, per esempio, del pensiero? Che cosa significa pensare? In realtà, non sappiamo veramente cosa sia un pensiero o un’emozione. I neuro scienziati ritengono che per conoscere la mente, è anzitutto necessario conoscere il cervello. La mente, per Siegel, emerge sia dal cervello sia dalle interazioni all’interno di diadi, famiglie, scuole, comunità e società. La mente è un processo relazionale. Cervello, mente e relazioni sono dunque “parte di una unica realtà”. La persona che siamo noi non è “indipendente” dal nostro cervello né dalle nostre relazioni. Esperienze soggettive e relazioni interpersonali modificano le connessioni neurali e “modellano” il cervello, realizzando così l’integrazione, la salute e la resilienza, la quale è la capacità di adattarsi a fattori di stress. La salute emerge dall’integrazione dei tre vertici di un triangolo formato da cervello, mente e relazioni. Questi concetti neurobiologici si basano sulle scoperte riguardanti la neuroplasticità, che è la capacità del cervello di modificare la propria struttura in risposta all’esperienza. Questa determina una eccitazione dei neuroni e dei geni, la quale comporta il movimento di particelle dotate di carica elettrica che si 220 propaga lungo le cellule nervose. Si tratta di un processo che determina un flusso di energia (elettrochimica) che porta a una modifica della struttura e del funzionamento del cervello. Da questo processo d’integrazione basato sulla “compassione” e “l’empatia” nasce la salute della mente, del cervello e delle relazioni gratificanti. L’integrazione crea l’armonia. La mancanza d’integrazione porta al “caos” alla “rigidità” mentale e ai disturbi mentali. Queste considerazioni hanno trovato conferma in una serie di scoperte scientifiche in base alle quali i principali disturbi psichiatrici, come il disturbo bipolare, la schizofrenia, l’autismo, il trauma, la trascuratezza o la deprivazione affettiva subita nell’infanzia, sembrano essere collegati a deficit di “integrazione neurale”. La teoria dell’integrazione è dunque alla base dello sviluppo mentale e del benessere bio-psichico. L’obiettivo allora è quello di promuovere e scoprire il potenziale di integrazione insito in ciascuno di noi. Dalla rassegna degli studi sulla longevità, sulla felicità e sul benessere mentale e fisico appare come l’elemento fondamentale alla base di queste qualità positive siano le relazioni arricchenti e gratificanti. Le quali fortificano la mente e diventiamo così più sani, felici, saggi e longevi. 221 Dove va l’adolescenza? Districarsi nell’attuale, confuso e complesso momento della società contemporanea, cercare di individuarne gli snodi più importanti e di comprendere la condizione dell’adolescente è davvero un’impresa immane. I temi sono molteplici: progressi e nuove piaghe, eclissi della civiltà occidentale, ansia e depressione, aumento dei disturbi psichiatrici nei bambini, rischi e danni psichici provocati dall’uso e dall’abuso di internet. L’immagine che oggi l’Italia proietta è tra splendore e decadenza, miseria e nobiltà. Un Paese dalla grande bellezza, ricco di fascino, arte, storia e leggende. Ma in forte declino culturale, sociale e morale. Un Paese che alcuni autori definiscono “incolto e volgare”. Una modernità che tutto invecchia: la letteratura, il romanzo, il cinema, persino l’arte contemporanea. Invero, si sono smarrite in famiglia, a scuola e nella società quelle millenarie certezze, che da sempre hanno accompagnato e sorretto la civiltà occidentale e scandito la vita dell’essere umano. Oggi, la vita quotidiana è sempre più attraversata da una realtà ansiogena, 222 indistinta, incerta e conflittuale. Tutto ciò porta a un malessere esistenziale dell’individuo e della comunità. L’unica e importante prospettiva positiva è la qualità della vita. Secondo una ricerca dell’Oms, sono previsti un miglioramento ovunque delle aspettative di vita. La riduzione della mortalità infantile del 50 per cento, mentre nei Paesi ricchi è ipotizzato il calo delle malattie infettive. È prevista, in seguito all’invecchiamento l’espansione delle demenze senili, che saliranno al secondo posto dopo le malattie cardiovascolari. Diventerà poi globale il problema delle depressioni. Emerge una tendenza preoccupante: il livello dell’età circa i disturbi psichiatrici si abbassa sempre più. Già a due anni d’età si possono riscontrare casi di bambini che presentano sintomi di ansia, depressione e disturbi della personalità. C’è inoltre la piaga dell’alcol, della droga e del suicidio. Le ricerche indicano che circa un milione di ragazzi e ragazze fra i 14 e i 18 anni fa uso di queste sostanze. Con il rischio di incorrere nella dipendenza patologica. Crescono anche i tentativi di suicidio e i comportamenti parasuicidari ad alto rischio psicopatologico. Sono circa trentamila i ragazzi che ogni anno tentano di togliersi la vita. Sono molteplici le cause dell’aumento di queste patologie psichiatriche. C’è soprattutto una combinazione di fattori genetici, familiari e socio-culturali. L’analisi deve comprendere i 223 cambiamenti sociali, le mutazioni nel matrimonio, la crisi dei modelli parentali, il lavoro, lo stress dei genitori, i divorzi, la crisi della coppia, lo scontro culturale tra i genitori con formazione, educazione e sensibilità diverse, la mancanza di sicuri punti di riferimento eticamente e spiritualmente congruenti. Nasce una generazione figlia di una cultura permissiva, un modello pedagogico negativo e dannoso, che è presente in famiglia, a scuola e nella società. Sta diventando sempre più acuto il problema dell’autorità morale. “Nessunoscrive il neuroscienziato de Waal- corregge più nessuno, e quindi la gente è diventata progressivamente meno civile”. Esistono poi anche forme di aggressività e di violenza generalizzata. Da tempo, assistiamo a un fenomeno che Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile in Italia, e chi scrive hanno definito in una pubblicazione già negli anni Novanta del secolo scorso “un processo di violentizzazione”, una tendenza individuale e sociale planetaria, la quale purtroppo non è stata ancora percepita in tutta la sua devastante gravità. Il nostro modo di essere e di interagire con la realtà sta subendo notevoli cambiamenti. L’irrompere, ad esempio, della Rete ha prodotto un mutamento antropologico e un processo di omologazione. In pochi 224 anni, siamo diventati “web-dipendenti”. Ansia, nervosismo, aggressività, isterismi. I social netword possono far bene e male. Tutto dipende dall’uso che se nefa. “Ubi commode, ivi incommode”: dove ci sono i vantaggi, ci sono anche gli svantaggi. Sta di fatto che l’esposizione prolungata al computer genera danni al cervello e altri disturbi psichiatrici, comportamentali e cognitivi, determinando forme di dipendenza patologica simili a quelle causate dall’alcolismo e dalla droga. È un problema che riguarda lo sviluppo e la salute dell’intera persona nella sua unità e totalità bio- psichica. Ricerche condotte negli Stati Uniti mostrano che i soggetti che navigano in Rete manifestano sintomi legati ad un nuovo disturbo chiamato “tecno stress”, una forma di “tossicodipendenza” i cui sintomi sono ansia, depressione, irritabilità, cefalea, insonnia, disturbo dell’umore, rabbia e insofferenza (Craig Brod). È la rivoluzione del computer. Un totem straordinario nel bene e nel male. Che sta mutando l’immagine della realtà, le relazioni sociali, le dinamiche interpersonali, e la stessa visione che abbiamo dell’uomo e della società. Le ricerche ipotizzano che vivremo sempre ‘più attaccati’al web e al telefonino, spesso in una condizione di dipendenza patologica e di schizofrenia. Sono i nuovi, grandi feticci del mondo contemporaneo. I quali hanno una notevole influenza sui sistemi neuronali, in molte aree del 225 cervello e dunque sui comportamenti individuali e collettivi. Sta nascendo in sostanza una nuova generazione digitale. Sono i “nativi digitali”, interconnessi e multitasking. Chi sono? Sono i ragazzini nati in piena era web. Connessi alla Rete, internet, telefonino, face book. Chattano, “whatsappano”, videogiocano, pubblicano foto. A confermare questa diagnosi è una recente ricerca condotta nell’Università di Roma e commissionata dal “Movimento Italiano Genitori” (Moige). Sono stati esaminati circa mille ragazzi dai sei ai diciotto anni. Tutti sono connessi a internet. Il 52 per cento del campione dichiara di dedicare alla tv fino a due ore al giorno. Un ragazzo su cinque fino a cinque ore. Il 10 per cento si connette per studiare. Per tutti gli altri è “svago”. Il 24 per cento poi si collega al web per chattare spesso con sconosciuti e uno su cinque ha incontrato le persone che ha conosciuto online. Sei ragazzi su dieci inoltre stanno su face book, dichiarano di divertirsi a fare “sexting”, ricevere o inviare foto delle proprie parti intime. Circa il cyber bullismo, dalla ricerca emerge che sei adolescenti su dieci tra i 14 e i 20 anni almeno una volta hanno usato foto e video per “prendere in giro” qualcuno, mentre uno su cinque dice di farlo spesso. Nel settore videogiochi, uno su cinque trascorre da una a tre ore al giorno, mentre il 57 per cento si dice 226 ‘influenzato’nei comportamenti dai videogiochi e il 56 per cento si “identifica” con il proprio avatar, l’alter ego virtuale. A rendere il quadro più allarmante è il comportamento dei genitori. Appaiono irritabili, stressati, iperattivi o viceversa stanchi e annoiati. Spesso lasciano i figli davanti al computer senza porre alcun limite o verifica, se è vero che il 40 per cento naviga o videogioca “senza limiti di orario”. “Ci troviamo- ha commentato il presidente del Moige, Maria Teresa Munizzi- davanti a una generazione che preferisce il mondo virtuale a quello reale e che non riesce ad avere relazioni autentiche con le persone in carne e ossa”. Gli stessi adulti poi sono “prigionieri” di giovanilistiche e infantili effusioni per questi mezzi e non riescono a “percepire” i pericoli e la “drammaticità” della multiforme e intricata situazione”. Diventa ogni giorno più evidente nelle nuove generazioni la “correlazione” tra un uso “smodato” dei social e alcune incapacità di affrontare emotivamente i problemi della vita “reale”. Un eccessivo appiattimento verso i social network può portare a un “impoverimento” di alcune competenze intellettive importanti per la vita lavorativa e non solo, come la capacità di comprendere la complessità della realtà contemporanea con conseguenze nefaste per i soggetti. 227 Le ricerche mostrano l’esistenza di una crescente mancanza di “intelligenza sociale” che porta a una forma di “smarrimento” nell’affrontare e risolvere i conflitti e le difficoltà che nascono nelle relazioni interpersonali e sociali. Si avverte una “pericolosa tendenza” a vivere nella società entro schemi che non appartengono alla vita reale, con effetti che “impoveriscono” sia i singoli che la società. C’è insomma uno iato profondo tra la vita digitale, dove tutto è permesso e la vita quotidiana, fatta di senso di responsabilità, partecipazione, norme e doveri. Tutti sembrano connessi: ragazzi, fidanzati, coniugi, genitori. È una pulsione compulsiva, un desiderio incontrollabile definito con il termine craving per un comportamento che all’inizio crea un senso di piacere, ma che poi diventa una dipendenza patologica. Subentra una paura irrazionale, una fobia che si accompagna al timore di “perdere il contatto” con la Rete o con il telefonino. Si tratta di una sindrome denominata nomophobia, la quale provoca cefalea, nausea, tremore, sudorazione, sino a determinare tachicardia e dolori al petto. Insomma fanciulli a 50 anni. Sono persone adulte, svolgono un lavoro serissimo. Ma fanno “smorfie” davanti alla fotocamera del cellulare, che poi caricano su Facebook e si “crogiolano” nei commenti. C’è il 50enne che trova il tempo con l’applicazione Bitstrips per realizzare il suo ritratto “come fosse un cartoon” e 228 poi lo dispensa sui social network. C’è anche la 40enne in camera con due figli che si balocca su Google map e le sembra una magia poter vedere con street view il suo palazzo e il suo piccolo mondo. Altre persone poi che si scambiano messaggi sugli smartphone con i sistemi di messaggistica Line o Whatsapp o Messenger di Facebook e fanno a gara su chi inserisce gli emoticon e gli striker (faccette) più brutti. Molto utilizzata la faccetta spaventata parodia dell’urlo di Munch, l’orsetto seduto sul water. Le ricerche conducono gli studiosi a considerare come in queste “sabbie mobili” di “incretinimento” nel territorio magmatico dei social network-tablet-smartphone-pc stanno affondando senza speranza non solo i ragazzini e le ragazzine, ma ‘anche i loro genitori’. È buona cosa riscoprire il fanciullino che è nell’essere umano. Ma non il fanciullino scemo. È possibile cambiare la cultura di questo fenomeno? Allo stato, non è possibile, poiché tutto fa ritenere che questo fenomeno sia destinato a crescere. La rivoluzione culturale della comunicazione di massa infatti mostra sempre più una funzione debordante di internet per la sua forza di attrazione e per i danni che può causare alla salute mentale dell’individuo. Nel 1978 viene descritta una “nevrosi da ritiro sociale” (Kashara), diagnosi che indica un comportamento di “fuga” e un desiderio di “ritiro e isolamento” da un ambiente socio-culturale e familiare 229 ritenuto estremamente rigido. Questa condizione di ansia ha portato alla nascita di questa nuova categoria diagnostica che indica soggetti che si “ritirano” in casa. Sulla base di questa condizione, lo studioso giapponese, Tamatki Saito nel 1998 ha coniato il termine “hikikomori” per designare una sindrome caratterizzata da uno stato di “evitamento del contatto sociale”. La tendenza all’auto-reclusione si sta diffondendo anche in altri Paesi. In particolare, alcuni autori sostengono che tale tendenza sia legata al “modello 2. O”, quello dei social network. Il comportamento hikikomori diventa così una “nicchia globale” e il web si pone come l’unico strumento di comunicazione con il mondo esterno attraverso pseudo-identità vacue e fittizie. In Italia, Massimo Biondi e collaboratori del dipartimento di neurologia e psichiatria dell’Università La Sapienza di Roma hanno esaminato per la prima volta il caso di un paziente di 28 anni che presentava una “nevrosi da ritiro sociale” (hikikomori). All’osservazione, il soggetto mostrava uno stato di “profonda angoscia, disperazione, insonnia e senso di morte imminente”. L’anamnesi mostrava che il paziente manteneva contatti con il mondo esterno “quasi esclusivamente attraverso internet”. Secondo ricerche realizzate negli Stati Uniti, anche il mondo della ludopatia e dei videogiochi si rivela un comportamento compulsivo che può determinare chiari 230 sintomi di ansia, depressione, disturbi della socializzazione, una condizione di dipendenza patologica e disturbi dell’apprendimento e del rendimento scolastico. Un rapporto della Commissione della UE di recente ha sollecitato il Parlamento europeo a stabilire norme precise per la “protezione” sia dei ragazzi che degli adulti. In alcune Regioni sono stati istituiti servizi per la diagnosi e il trattamento dell’attività ludica patologica. La ludopatia o gioco d’azzardo patologico è “un disturbo del comportamento”, il quale, secondo il Manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM), rientra nella categoria diagnostica dei “Disturbi del controllo degli impulsi”. Attraverso internet, chiunque può diventare un soggetto “compulsivo” in un rituale solitario e alienante. Stiamo allevando- afferma lo psichiatra Andreoli- il bambino “televisivo” e il “ragazzo del web”. È una vera e propria “patologia”. Il ragazzo tende all’obesità, è impacciato nei movimenti e ha difficoltà di comunicazione con la famiglia, la scuola, gli amici. È un soggetto che preferisce il mondo virtuale alla realtà. Una pulsione distruttiva e auodistruttiva. Dobbiamo rilevare una contraddizione: i progressi della medicina, dell’igiene e dell’alimentazione oggi “proteggono” i bambini. Eppure, essi non sono mai apparsi tanto in pericolo come in questo momento storico. 231 Invero, l’adolescente vive una condizione di profonde contraddizioni, è attraversato da conflitti di forze e pulsioni interne ed esterne, viene continuamente sollecitato da meccanismi cerebrali e sociali legati al piano sessuale e intellettivo. Il suo cervello inoltre stimola la produzione di ormoni i quali provocano notevoli mutamenti fisici e psichici e lo espongono a forti rischi, come l’abuso di alcol e droga, sostanze che generano- concorda il neuro scienziato Swaab- danni permanenti al cervello. Un autorevole studioso, Zuckermann, ha sostenuto che la ricerca di sensazioni forti. “senzadio seeking” (SS) può essere considerata “un vero e proprio bisogno” ed è associata ad altri comportamenti, come abuso cronico di internet, ludopatia, videogiochi, impulsività, aggressività, ansia. Autorevoli studiosi sostengono al riguardo che la famiglia, la scuola e le istituzioni mostrano di essere “incapaci di dare orizzonte a nuovi valori e di progettare una nuova qualità di vita” (Frabboni). I ragazzi oggi vivono in una società vuota di futuro e di progettualità, e senza paradigmi etico-sociali. In una condizione cioè di estraneazione, emarginazione, sfiducia e disaffezione. Occorre un nuovo umanesimo: postulare l’alfabeto dei valori, il progetto di una personalità integrale e un’educazione etico-sociale. Formare non ragazzi spettatori passivi, inerti e manipolati dalla grammatica di internet, tablet, face 232 book, videogiochi e cellulari, ma persone mature e responsabili del loro destino. La scuola deve “riporre” gli scheletri didattici ossificati e avviare un nuovo modello pedagogico aperto, fondato sull’empatia, la generosità, il rispetto, l’altruismo. Un sistema educativo basato sulla ricerca e sull’uso del laboratorio attraverso una feconda molteplicità di spazi culturali, sociali, esistenziali ed etici. Vale l’esortazione di Kant: sapere aude, avere il coraggio di conoscere e servirsi del proprio cervello, un cervello sconfinato, unico e speciale, che non ha colonne d’Ercole. 233 Il fenomeno della dipendenza da computer Nel quadro della nostra ricerca sull’adolescenza e sui danni provocati alla salute bio-psichica dall'uso eccessivo della rete esaminata in questo libro, assume un forte e primario ruolo il fenomeno della dipendenza. Che è il “cuore” del processo di interazione tra comportamento, disturbi psichiatrici e internet. Secondo diversi autori, 1'uso di internet può indurre dipendenza, una condizione simile a quella causata dalla droga, dall'alcolismo e dal gioco d'azzardo. Le dipendenze comportamentali sono considerate tra i più gravi problemi di salute pubblica. In psichiatria, la dipendenza è un comportamento caratterizzato “dalla continua ricerca” (Vella) di un oggetto o di una persona, considerati una fonte necessaria e non sostituibile per il proprio piacere e la propria sicurezza. È uno stato psichico e talvolta fisico, che origina- secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms)- da fattori biologici, psicologici e 234 ambientali oltre che da esperienze ripetitive contrassegnate da una forte carica emozionale, cui corrisponde una modificazione del cervello. Esperimenti condotti con i metodi di “brain imaging” (visualizzazione del cervello) hanno scoperto che durante lo stato di dipendenza e di “carving” (desiderio) vengono attivati i circuiti cerebrali della gratificazione, della dopamina e quindi del piacere. Si tratta di una condizione cerebrale nella quale vengono “rinforzati” gli stimoli piacevoli, in virtù dei quali “si impara a ripetere il comportamento”, condotta definita “una forma aberrante e patologica’di apprendimento”. In questi ultimi anni, si è sviluppato un crescente interesse scientifico circa la possibilità che 1'uso della rete possa sviluppare forme di dipendenza psicologica e patologica e che esistano quindi patologie psichiatriche “importate” da tecnologie informatiche. Ci riferiamo a una forma di dipendenza conosciuta con il nome di “Intemet addiction disorder” (1AI)). Il termine è stato coniato dallo psichiatra newyorkese, Ivan Goldberg, e indica “un disturbo da discontrollo degli impulsi”. È una nuova categoria di disturbi psichiatrici connessa all'uso compulsivo degli strumenti di rete. Negli Stati Uniti, la dipendenza è considerata nel “Diagnostic and statistical manual of mental disorders” (DSM-5) una malattia come la tossicodipendenza e l'alcol. Le ricerche effettuate in materia di dipendenza da 235 computer mostrano che ci sono soggetti che non possono astenersi dal contatto fisico continuo con facebook, mouse, ecc. Questi comportamenti producono forme di dipendenza psicologica e patologica legate a sintomi psichiatrici di tipo ossessivo- compulsivo. Il comportamento del soggetto con personalità di questo tipo esprime il suo desiderio infantile di onnipotenza; deve difendersi dalla minaccia di impulsi urgenti; appare ansioso, diffidente e cauto; non è spontaneo ed è coartato sul piano affettivo dalla propria “corazza” di protezione (Reich). Circa 1'uso di internet, le ricerche rilevano poi che gli uomini sono più indirizzati verso attività interattive di tipo aggressivo, spazi chat sessualmente espliciti e cyber pornografia. Le donne invece preferiscono le chat room per allacciare amicizie, costruire avventure romantiche o per recriminare contro i mariti. I rischi legati a questa sindrome riguardano: dipendenza da sesso virtuale, disturbi sociali, alterazione del tono dell'umore, malessere psichico e fisico, sentimenti di onnipotenza, incontri pericolosi. Altri sintomi accertati sono: ansia, depressione, agitazione, tremori, perdita del contatto con la realtà, danni al cervello, scarsa capacità di provare emozione ed empatia, trascurare la famiglia, il lavoro e i doveri, disforia, irritabilità, disturbi di apprendimento, isolamento fino a crisi di epilessia. Successivi studi 236 hanno indicato la presenza di questa sintomatologia: obesità, dolori articolati, vertigini, alienazione, difficoltà nei rapporti familiari e sociali. È stato infine rivelato che il 10 per cento dei ragazzi americani sottoposti al test diagnostico presentava aspetti patologici della dipendenza. Sono state individuate forme particolari di dipendenza. Una è la “Cybersexual Addiction”. Questa categoria comprende sia il materiale disponibile nella rete vietato ai minori di 18 anni che le relazioni erotiche tra due o più soggetti. Il cybersex può diventare in tal modo la fonte principale di gratificazione sessuale. Una seconda forma di dipendenza è il “Compulsive online gambling”, che concerne 1'accesso ai siti per scommettitori e facilita lo sviluppo del gioco d'azzardo. La terza forma riguarda i “MUDs Addiction”: sono giochi di ruolo in cui il soggetto può decidere quali caratteristiche psico-fisiche assumerà durante il loro svolgimento. Il rischio più grande è quello della depersonalizzazione. Abbiamo infine il “Cyber Relationship Addìctìon”, che ha lo scopo dì mantenere un’immagine virtuale idealizzata di sé. Che cosa si sta facendo per il trattamento del “ Disturbo di dipendenza da Internet”? Negli Stati Uniti sono stati compiuti i primi passi a livello legislativo per creare spazi protetti nei quali i bambini possano navigare senza correre troppi rischi. In Italia, sono oltre due milioni i soggetti connessi a 237 internet, mentre negli USA 1’86 per cento dei bambini fino a 5 anni usa internet almeno una volta a settimana. Anche in Italia questo disturbo, che può essere diagnosticato solo da specialisti attraverso la somministrazione del Test di Young, desta preoccupazione. Nel 2010, lo psichiatra Vittorino Andreoli apri la prima clinica in Valle d'Aosta per curare i soggetti affetti da questa sindrome nuova. Dal 2009 è attivo al Policlinico Gemelli di Roma il primo ambulatorio ospedaliero italiano specializzato nella dipendenza da internet. Servono programmi di prevenzione e di terapia. Che chiamano soprattutto in causa genitori e insegnanti. Spiegare che non è un link o un commento confuso e sgangherato su Facebook a determinare il valore intellettuale, umano e sociale di una persona. Sono luoghi dove emergono frustrazioni, esibizionismo e complessi di inferiorità. Luoghi spesso scelti per inventare una propria identità e personalità. Il trattamento degli stati di dipendenza deve poter conseguire questi obiettivi: migliorare la salute mentale e fisica; consolidate idonee relazioni socio- familiari; ridurre i comportamenti a rischio; diminuire i comportamenti di disadattamento e di devianza; curare 1’attività educativa o lavorativa in modo continuativo. Il tema dello studio dei comportamenti e dei disturbi psichiatrici online è destinato a rivestire sempre più un ruolo fondamentale, in relazione alla diffusione di 238 questi mezzi. Occorre una comprensione profonda di una realtà complessa, delicata e difficile tra mondo reale e mondo virtuale. Due mondi, che se indagati con competenza e passione, possono fornirci utili indicazioni e preziose conoscenze sul funzionamento del cervello e della mente, che costituisce la grande e meravigliosa sfida delle nuove neuroscienze. 239 Una nuova frontiera rivoluzionaria Negli ultimi anni, abbiamo appreso sul cervello e la mente più che nei precedenti cinquemila anni. Tuttavia, conosciamo soltanto una minima parte dei loro meccanismi. Sta di fatto che con la comparsa dell'uomo, l'evoluzione biologica ha raggiunto il suo massimo e ha prodotto in alcuni esseri viventi un alto grado di coscienza di sé. L'evoluzione biologica ha portato a sviluppare una potente evoluzione culturale, che a sua volta potrebbe indirizzare, come afferma Edoardo Boncinelli, la propria evoluzione biologica. Si parla infatti spesso di modificare il nostro genoma. Che può essere trasformato dentro le cellule del corpo o direttamente nella linea germinale, ovvero nelle cellule che portano alla produzione dei gameti. II cervello, per Miguel Nicolelis, è una “sinfonia di neuroni’composta dai moltissimi insiemi di cellule. Le quali comunicano tra loro attraverso messaggi elettrochimici e punti di contatto chiamati sinapsi. Per mezzo di queste reti neurali, il cervello svolge la propria attività principale: la realizzazione di una moltitudine 240 di comportamenti, mettendo cioè in pratica ogni atto di creazione, distruzione, scoperta, riflessione, seduzione, amore, odio, gioia, tristezza, egoismo, solidarietà. Le meraviglie che i circuiti cerebrali possono generare ogni giorno fanno dire ai neuro scienziati trattarsi di un “miracolo”. 11 cervello - aggiunge Rodney Douglas funziona come “un'orchestra', ma di un tipo unico, in cui la musica prodotta “può quasi istantaneamente modificare la configurazione degli esecutori e degli strumenti”. E grazie a questo processo “autocomporre” una melodia del tutto nuova”. La sfida delle nuove neuroscienze è allora quella di “decifrare” e comprendere i meccanismi neurofisiologici che permettono a queste “vampate di elettricità neurologica” di dare vita a quell'insieme di attività e comportamenti che costituiscono quella che definiamo “natura umana”. Finora, le neuroscienze sono state coinvolte in una disputa circa quali aree specifiche del cervello svolgono una particolare funzione. Da una parte, ci sono i “localizzazionisti”, i quali credono che le distinte funzioni cerebrali siano generate da aree del sistema nervoso altamente specializzate e separate. Dall'altra, c'è un gruppo di neuro scienziati - i “distribuzionisti” per i quali il cervello umano fa affidamento su “popolazioni” di neuroni multitasking, in grado di svolgere molti incarichi contemporaneamente, e distribuite in molti punti diversi per svolgere ognuna 241 differenti funzioni cerebrali. Questa seconda concezione sostiene in sostanza che vaste popolazioni di cellule localizzate in molte regioni diverse del cervello contribuiscono a realizzare un comportamento finale. All'inizio, fu Ramon y Cajal ad affermare che un singolo neurone costituisce l'unità fondamentale del cervello. Successivamente, Sherrington mostrò invece che le funzioni cerebrali dipendono dalla collaborazione di molti neuroni e da distinti circuiti neurali che operano insieme. Negli ultimi anni, le scoperte delle neuroscienze stanno mettendo in crisi il modello chiamato Iocalizzazionista in favore di quello distribuzionista per realizzare quella che è stata denominata “la vera anima del cervello”. Le ricerche condotte in laboratori di diverse parti del mondo dimostrano che un singolo neurone non può essere considerato come la fondamentale unità funzionale del cervello. Ad essere responsabili delle “sinfonie del pensiero” sono infatti le popolazioni interconnesse di neuroni. Oggi, è possibile “riprodurre” una piccola parte in forma di comportamenti motori concreti e volontari di questi insiemi neurali. Ascoltando appena qualche centinaio di neuroni possiamo già iniziare a replicare il processo grazie al quale pensieri complessi diventano “azioni corporee immediate”. Gli esperimenti indicano che il cervello umano si presenta sempre più come uno 242 “scultore” che “fonde” spazio e tempo neurale per ottenere un continuum organico responsabile della creazione di tutto ciò che vediamo e percepiamo come realtà, incluso il nostro senso dell'essere. Autorevoli neuro scienziati ritengono poi che nei prossimi decenni combinando questa visione del cervello con la nostra crescente capacità tecnologica di ascoltare e decodificare sinfonie neurali più grandi e complesse, le neuroscienze finiranno per spingere la portata umana “ben oltre i limiti correnti imposti dai nostri fragili corpi”. L'équipe del neuro scienziato Nicolelis, ad esempio, sta lavorando per insegnare alle scimmie il modo di adottare un paradigma neurofisiologico rivoluzionario chiamato “interfaccia cervello-macchina” (BMI, brain- machine interface). Le interfacce cervello-macchina sono oggetti progettati e realizzati per permettere al cervello di connettersi a un computer e muovere oggetti con un atto del pensiero. 11 pioniere di questa tecnica è Miguel Nicolelis, docente di neuroscienze presso la Duke University (Carotina del Nord) e autore di un fondamentale e splendido volume dal titolo “TI cervello universale” (Bollati Boringhieri). Usando queste BMT, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che le scimmie possono imparare a controllare volontariamente i movimenti di dispositivi artificiali, come braccia e arti robotici posti sia vicino che lontano da loro, utilizzando esclusivamente la loro attività elettrica cerebrale grezza. Questa scoperta dà 243 origine a una vasta gamma di possibilità per il cervello e per il corpo che, a lungo andare, possono cambiare completamente il nostro modo di comportarci e vivere. in questa prospettiva, tornando a casa dalle vacanze, un giorno precisa Nicolelis - potete chiacchierare con una delle moltissime persone del mondo, usando internet, senza però premere i pulsanti della tastiera o pronunciare una singola parola. Nessuna contrazione muscolare sarà richiesta. Basterà il pensiero. Simili meraviglie non saranno più temi di fantascienza, ma concreta realtà. 244 245 Bibliografia essenziale BEKOFF, M., “La vita emozionale degli animali”. Airplane-Alberto Perdisa, Bologna 2010. BRUNETTI, G., “I colori della mente” Edizioni Associate, Roma 2004. BRUNETTI, G., “Più grande del cielo più profondo del mare”. Edizioni Universitarie Romane, Roma 2006. BRUNETTI, G., “Le misteriose finestre dell’anima”. Editore Campanotto, Pasian di Prato 2011. 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