LE ALI DELL’ANIMA
Dal neurone al pensiero
Guido Brunetti
Le Ali dell’Anima. Dal Neurone al Pensiero
© 2015 Guido Brunetti, Roma
Edito da Neuroscienze. net
www. neuroscienze. net
Il presente libro è stato scritto per essere distribuito gratuitamente online attraverso la rivista Neuroscienze.net e non è in vendita.
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Prefazione
di Vincenzo Rapisarda
docente di psichiatria, Università di Catania
Il titolo del libro, “Le ali dell’anima. Dal neurone al
pensiero”, è interessante e poetico, a conferma della
capacità dell’autore di combinare sapere umanistico
con sapere scientifico. In virtù di questo paradigma
euristico, Brunetti è stato definito da neuroscienziati di
fama mondiale, come Raffaello Vizioli ed Edoardo
Boncinelli, un “umanista-scienziato” e “uno dei pochi
autori in grado di scrivere un libro sul cervello, la mente
e la coscienza”. Presentare il suo nuovo volume è per
me cosa assai gradita, tenendo conto per l’appunto delle
sue non comuni competenze scientifiche, filosofiche,
etiche e, come è stato sostenuto da altri, della sua
“cultura universale”.
Cervello e mente possono essere studiati
scientificamente? Il tema è un argomento di ricerca di
primissimo piano nelle neuroscienze e nella presente
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opera, e ripropone il problema ancora misterioso e non
risolto del rapporto tra cervello e mente. Le concezioni
di tanti filosofi e scienziati dell’antichità e di oggi
vengono esposte e commentate con straordinaria
abilità.
La divisione poi tra cultura scientifica ed umanistica,
sostenuta da molti, non è accettata da Brunetti, il quale
auspica un necessario superamento della diatriba e la
nascita di “una terza cultura”, come aveva già sostenuto
C. P. Snow, per la mediazione tra scienziati ed umanisti
e la ricerca di nuove interazioni per unificare la
conoscenza. L’autore difatti anche in questo testo riesce
a fondere con grande perizia le due culture e sostiene,
d’accordo con G. S. Gould ed Edelman, che letteratura,
arte, musica, poesia, psicanalisi, antropologia,
linguistica possono coesistere con le neuroscienze.
Infatti, rileva l’autore, di recente sono nate molteplici
discipline, quali neuroetica, neuroestetica, neuroteologia, neuroeconomia, neurogiurisprudenza e
neuropolitica.
Questo volume spiega anche le recenti, brillanti
scoperte sugli effetti di sostanze, quali ossitocina,
dopamina,
serotonina
e
oppioidi
endogeni,
sull’evoluzione del cervello, e su altri importanti ambiti,
come stati d’animo positivi, forme sociali e morali,
legame madre-bambino, attaccamento, empatia,
altruismo, cura dei piccoli e cura degli altri, benessere,
stati d’ansia e panico. Tali sostanze inoltre riducono la
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stimolazione stressogena, il sistema della paura e il
dolore, e producono vari benefici immunitari. Di qui,
l’apprezzamento di Brunetti nei confronti del “Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali” (DSM-5),
definendolo la Bibbia degli psichiatri.
Il cervello dell’uomo di 1500 centimetri cubici ha
cento miliardi di neuroni, che si collegano tra di loro in
modo diverso da un momento all’altro e produce un
numero straordinario di stati mentali superiori a tutto il
creato.
A sua volta, il genoma umano con 30. 000 geni,
composti da quasi tre miliardi di basi di DNA, si
modifica con l’esperienza e l’apprendimento, pertanto
anche i gemelli omozigoti sono diversi. Brunetti a
questo proposito tra gli altri cita opportunamente
Darwin ed Edelman.
Alcol, cocaina, piombo, antiepilettici durante la
gravidanza possono determinare nei bambini disturbi
dell’apprendimento,
depressione,
schizofrenia,
autismo, disturbi sessuali e morte nella culla per
alterazioni biochimiche come sostenuto da Swaab.
Mediante il brain imaging si è potuto stabilire poi che
le esperienze spirituali, religiose e mistiche attivano
aree cerebrali diverse ed in particolare l’area di
gratificazione che contiene la dopamina.
Lo sviluppo delle neuroscienze secondo Brunetti
produrrà effetti benefici non soltanto in medicina e
psichiatria, ma sull’umanità, sullo sviluppo mentale e
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sociale del bambino e in specie sulle persone con
malattie cerebrali.
L’uso dell’alcol e delle droghe si è esteso anche nei
giovani e nei ragazzi (un milione di ragazzi e ragazze
tra 14 e 18 anni). È nata una generazione, figlia di una
cultura permissiva, che si trasmette in Internet e occupa
molto tempo. Sono i “nativi digitali” interconnessi,
multitasking che usano il computer, il telefono da tasca
e strumenti di nuova generazione.
Vi è distacco profondo, sostiene Brunetti, tra la vita
digitale (virtuale), dove tutto è permesso, e la vita reale,
fatta di senso di responsabilità, partecipazione, norme e
doveri. Tamatki Saito nel 1998 ha introdotto il termine
“hikikomori” per indicare “uno stato di evitamento del
contatto sociale”. Si tratta di una nuova categoria
diagnostica chiamata “nevrosi da ritiro sociale”
descritta per la prima volta nel 1978 da Kashara.
Sono situazioni che possono produrre dipendenza
patologica, compulsioni, ansia, depressione e scarso
profitto scolastico. In Italia, vi sono due milioni di
soggetti connessi ad Internet e non si sono formulate
riforme, come negli USA, per proteggere bambini e
ragazzi dei due sessi dalla aggressività, sessualità e
pornografia. Andreoli afferma che il bambino televisivo
e il ragazzo del web diventano obesi, impacciati nei
movimenti e hanno difficoltà a comunicare in famiglia,
a scuola e con gli amici. La scuola, afferma Brunetti,
deve avviare un nuovo modello pedagogico e
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introdurre nuovi sistemi didattici fondati sull’empatia,
la generosità, l’altruismo e la ricerca.
Nell’ultimo capitolo del volume, l’autore si occupa
delle recenti e future ricerche sul cervello con la
“sinfonia” dei neuroni che realizza una moltitudine di
comportamenti: atti di creazione, di distruzione,
scoperte, riflessioni, seduzioni, amore, odio, gioia,
tristezza, egoismo, solidarietà.
Nelle neuroscienze vi sono infine “localizzazionisti”,
secondo cui le distinte funzioni cerebrali dipendono da
aree del sistema nervoso specializzate e separate e i
“distribuzionisti”, per i quali il cervello umano fa
affidamento su “popolazioni” di neuroni multitasking,
in
grado
di
svolgere
molti
incarichi
contemporaneamente e distribuiti in molti punti
diversi, per effettuare ognuna differenti funzioni
cerebrali. Le recenti scoperte delle neuroscienze sono a
favore del modello “distribuzionista” per realizzare la
“vera anima del cervello”.
Leggere e riflettere su questo ricco, aggiornato e
appassionante libro di Brunetti, è veramente un giusto
consiglio, non solo per i medici e gli psichiatri, ma anche
per il lettore non specializzato, i genitori e gli
insegnanti, i quali vorranno conoscere e comprendere
queste nuove acquisizioni per seguire e valutare
responsabilmente lo sviluppo normale o anormale dei
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ragazzi, ed espandere la loro visione del mondo,
dell’essere umano e della società.
Si tratta di un’opera che ci offre, con stile gradevole,
rigoroso e sintetico mai disgiunto da tensione etica, una
panoramica sui formidabili sviluppi della nuova,
affascinante scienza del cervello e della mente. Sono
argomenti che hanno una forte attrazione e
rappresentano un meraviglioso campo di ricerca
sempre alla scoperta di insolite, illuminanti frontiere.
Vincenzo Rapisarda
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SOMMARIO
PREFAZIONE
INTRODUZIONE
DALL’ANIMA AL CERVELLO ALLA MENTE ALLA
SPIRITUALITÀ
L’ANIMA E I SUOI TORMENTI
L’ARTE E IL MONDO DELL’INCONSCIO
COME, QUANDO E PERCHÉ LA MENTE EMERGE
DAL NEURONE ALLA MORALE
LA BIBBIA DEGLI PSICHIATRI
C’È UN ALTRO CERVELLO?
LA DONNA NEL TEMPO: LETTERATURA, ARTE,
CINEMA, PSICOANALISI E NEUROSCIENZE
COME SI EVOLVE LA MENTE
AMBIENTE, GENI, CERVELLO
BASI NEURO SCIENTIFICHE DELLA POESIA E DELLA
MUSICA
PERCHÉ SI SUCCHIA IL SENO?
CAPIRE IL CERVELLO PER CAPIRE LA MENTE
OCCHIO-OCCHIO, VOCE-VOCE, PELLE-PELLE
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LA CAPACITÀ DI CAPIRE SE STESSI E GLI ALTRI
LA DEPRESSIONE DELLA DONNA
ALLA CONQUISTA DELLA FELICITÀ
L’UNICITÀ DELLA PERSONA, SPLIT BRAIN, MORALE E
RELIGIONE
ALLA RICERCA DELL’ANIMA NEL CERVELLO
GLI STATI SOGGETTIVI POSSONO ESSERE
CONOSCIUTI SPERIMENTALMENTE
ALLE ORIGINI DELLE EMOZIONI E DEGLI AFFETTI
PER UNA EPISTEMOLOGIA BASATA SUL CERVELLO
NUOVE PROSPETTIVE NEL CAMPO DELLE
NEUROSCIENZE
IL PIACERE E LA GIOIA, IL DOLORE E LA TRISTEZZA:
TUTTO DAL CERVELLO
IL CERVELLO, UNO E TRINO
LA PROSPETTIVA INTERPERSONALE IN
NEUROSCIENZA
DOVE VA L’ADOLESCENZA?
IL FENOMENO DELLA DIPENDENZA DA COMPUTER
UNA NUOVA FRONTIERA RIVOLUZIONARIA
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Introduzione
Dal dualismo filosofico al monismo neuroscientifico.
Le ali dell’anima. Gli uccelli come metafora dell’anima.
Nel solco di altri nostri lavori, questo libro vuole
essere un viaggio nel mondo affascinante del cervello,
della mente e della coscienza, per analizzare e
raccontare gli ultimi, formidabili progressi compiuti
dalla scienza in questo campo.
Sin da quando divenne autoconsapevole, l’uomo
mosso dall’irrefrenabile sete di sapere cominciò- come
concorda Rita Levi Montalcini- a esplorare la realtà, il
globo terrestre, gli spazi arcani del cielo e delle stelle, e
il suo cervello. Un cervello “sconfinato”, che non ha
“Colonne d’Ercole”. Le facoltà umane, mentali e
psichiche, sono infatti “il coronamento di circa
cinquecento milioni di anni evolutivi” (Sperry), la
risultante cioè di un lungo processo di sviluppo
avvenuto in “quattro milioni di anni”, ovvero da
quando il primo ominide ha messo piede nel Sahara. Gli
straordinari sviluppi delle qualità intellettive hanno
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conferito all’essere umano un potere quasi assoluto nel
controllo del mondo.
Oggi, l’ardua e meravigliosa impresa di conoscere la
mente umana può essere vista come il simbolo della
conquista del “vello d’oro” da parte degli audaci
navigatori nella leggenda di Giasone. Attraverso gli
eccezionali metodi di brain imaging, abbiamo la
possibilità di “penetrare nei più reconditi recessi del
cervello”, e di studiare e visualizzare le attività mentali,
come la percezione, la memoria e il controllo motorio
I nuovi strumenti di ricerca poi permettono sia
l’identificazione di aree cerebrali dove si realizzano le
funzioni mentali che la possibilità di “verificare in
tempo reale” la dinamica dei processi anche di ordine
superiore della mente nel corso di attività, quali il
pensiero filosofico, il calcolo matematico e “ogni
espressione di capacità creativa”. Queste scoperte sono
di fondamentale rilievo per conoscere il mistero della
mente, questione ritenuta la “grande sfida” della nuova
scienza del cervello del terzo millennio.
Oggetto sino al Novecento di speculazioni
filosofiche, il sogno di penetrare nell’enigma del
binomio mente-cervello è stato assunto dai neuro
scienziati, con entusiasmo non senza una venatura di
pessimismo. Un tema definito dal fondatore delle
nuove neuroscienze, C. S. Sherrington, al di là della
nostra portata. Risolvere questo mistero, per il
neuroscienziato D. Hubel, è come il desiderio di chi
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“ambisce di potersi sollevare da terra e librarsi in aria,
facendo leva sulle proprie bretelle”. In realtà, le
formidabili scoperte compiute in questi ultimi anni in
materia, mostrano che il percorso è fecondo di notevoli
prospettive. Evocando la bella immagine di Galilei, è da
sperare che con il progresso neuroscientifico “ si sia per
arrivare a veder cose a noi per ora inimmaginabili”.
Come abbiamo detto, sino al secolo scorso, l’anima,
la mente e il cervello sono stati al centro della riflessione
filosofica, impegnata da sempre a indagare la natura
umana, fornendo spiegazioni diverse. Dall’analisi delle
molteplici teorie, emergono al riguardo due filoni
ontologici: il primo è il dualismo, la credenza
nell’esistenza di una realtà immateriale, l’anima, e di
una realtà materiale costituita dal corpo. Il dualismo è
alla base già del pensiero degli antichi Greci. L’altro
principio è il monismo, teoria secondo la quale tutto ciò
che nasce nella mente è “radicato nel cervello”
(Panksepp).
Come diremo nelle prossime pagine, la speculazione
filosofica sulla mente nasce con la teoria di Platone
sull’esistenza di un’anima, indipendente dal corpo e
dunque immortale. L’anima è considerata il principio
della vita, espressione delle attività spirituali umane,
cognitive, affettive ed emotive, la realtà più alta e
ultima.
Nel pensiero moderno, il dualismo si ripresenta con
Cartesio, il quale distingue in maniera radicale anima
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(mente) e corpo (cervello). A partire da Cartesio e dal
Positivismo, il concetto di mente e di coscienza intesa
come mondo delle esperienze interiori comincia a
prevalere sul concetto tradizionale di anima.
Con l’avvento dirompente delle nuove neuroscienze
alla fine del Novecento si verifica l’eliminazione dal
campo della ricerca della nozione di anima. La scienza
del cervello e della mente rifiuta un’impostazione
metafisica e diventa una disciplina autonoma dagli
ambiti che l’avevano in precedenza inglobata.
La rivoluzione scientifica moderna in questo campo
ha inizio circa quaranta anni fa con lo sviluppo delle
straordinarie metodiche di brain imaging, della genetica
e della biologia molecolare.
La ricerca neuroscientifica si basa sull’idea che mente
e cervello non siano due realtà distinte (dualismo), ma
“identiche”. Rappresentano cioè una unica realtà,
poiché ad ogni evento mentale corrisponde un evento
neuronale (cerebrale).
La grande sfida della nuova scienza del cervello e
della mente è quella di scoprire come avviene questo
prodigio, il mistero di come da un’entità materiale, il
cervello, possa scaturire un’entità immateriale, la
mente. Tutto ciò rende la ricerca sulla mente
un’impresa sempre più affascinante. Una sfida ritenuta
dai neuroscienziati la più grande e meravigliosa
avventura mai tentata dalla specie umana. Conoscere il
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cervello e la mente infatti è l’ultimo e più avvincente
avvenimento riservato all’uomo.
Riteniamo, d’accordo con autorevoli neuroscienziati,
che nell’ampia e feconda varietà delle ricerche
filosofiche e scientifiche non ci sia argomento più
avvincente e intrigante di quello che indaga sul cervello
e la mente.
Tutto infatti nasce dal cervello, come giù aveva
intuito il padre della medicina, Ippocrate. “È dal
cervello e solo dal cervello- afferma- che nasce ogni
nostro sorriso, gioia e piacere, tristezza e dolore, paure
e preoccupazioni”. È il cervello che ci consente di
pensare, sentire, percepire, distinguere il bello dal
brutto, il bene dal male. È nel cervello che hanno dimora
la follia e il delirio, e gli orrori che da sempre
tormentano l’essere umano.
Siamo ancora all’inizio, ma finora le scoperte sono
meravigliose. Negli ultimi anni abbiamo appreso sul
cervello e la mente più che nei 5. 000 anni precedenti. È
in atto una “rivoluzione scientifica” destinata a
“sconvolgere” non soltanto i metodi di diagnosi e cura
in medicina e psichiatria, ma la nostra stessa visione del
mondo, dell’uomo e della società, e le nostre millenarie
concezioni, a partire dai sistemi filosofici.
Il nostro dunque si presenta come un percorso
stupefacente in una terra ancora sconosciuta, ma ricca
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di sbalorditive frontiere e sorprendenti prospettive. Un
viaggio, una Wilderness dell’anima.
Abbiamo intitolato il nostro libro “Le ali dell’anima” a
significare, usando un’immagine poetica, che l’anima si
leva e quasi il cielo attinge.
“Se usi la terra- dice Dio al profeta Levehòr – per creare
un angelo, egli non sarà una creatura celeste, ma un
uomo. Egli salirà sul monte della vita e guarderà
lontano, oltre l’orizzonte e mai ricorderà la sua origine,
ma una cosa sola lo renderà elevato e al di sopra di ogni
altra creatura: le ali dell’animo”. Tutti i figli di Diorecita un canto afro-americano- hanno le ali, che si
librano verso il mistero e l’immensità del creato.
Nell’antichità, gli uccelli rappresentavano la metafora
dell’anima che sale nel cielo, e sono presenti nel
simbolismo, nell’arte e nella cultura di ogni tempo
(Dehaene). Nell’antico Egitto, un uccello dalla testa
umana simboleggiava l’anima immateriale e
immortale, la quale dopo la morte s’involava verso
l’oltretomba. Anche nelle opere dell’Induismo, l’anima
è rappresentata come una colomba che vola nel cielo.
Colombe dalle bianche ali raffigurano nel Cristianesimo
l’anima, lo Spirito Santo e gli angeli. Dante nel
Purgatorio paragona l’anima all’angelica farfalla. Gli
uccelli come anima, in sostanza, appaiono come una
“metafora universale” dello Spirito.
Nel corso del sonno, il pensiero è attivo e continuaafferma Jouvet- una intensa attività, “quasi come
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durante la veglia”. Durante i sogni, l’anima sembra
volare “ verso luoghi e tempi lontani”, cioè libera come
un passero.
Platone parla della “bellezza dell’anima”, espressione
che ricorre in Plotino, nella letteratura mistica e in
Rousseau. “Anima bella” è poi l’immagine usata da
Schiller per indicare l’ideale di un’anima non solo
“virtuosa”, ma “graziosa” e in sintonia con la norma
etica. L’anima- sottolinea Goethe- è un impulso che “mi
conduce e mi guida”. Kant, Hegel e il Romanticismo
danno molto rilievo all’anima intesa come coscienza
che vive “nell’ansia di macchiare con l’azione e con
l’esserci l’onestà del suo interno”. Delicata è inoltre la
raffigurazione dell’anima espressa dal filosofo Adriano:
animula vagula blandula (piccola anima, dolce e
vagabonda), ospite e compagna del corpo, dalla quale
partono, per Melville, “tutte le vie dello spirito”.
L’anima come essenza della natura umana è
teorizzata da Socrate. Secondo il filosofo greco, l’uomo
deve occuparsi soprattutto della sua anima, perché essa
diventi “migliore il più possibile”. Il bene più grande è
quello di entrare nella propria interiorità, in quanto una
vita “senza ricerche- aggiunge- non è degna per l’uomo
di essere vissuta”. Tutta la ricerca della vita interiore è
legata- secondo Platone- all’Idea del Bene, dalla quale
derivano non solo la conoscenza, ma anche l’essere e
l’esistenza. Per rendere l’anima la migliore possibile,
occorre compiere, per il discepolo di Socrate, “la
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seconda navigazione”, un avventuroso viaggio
intellettuale e morale alla scoperta del mondo
spirituale, come esigenza di un bisogno di purificazione.
Le ali dell’anima in tal modo si sollevano in cielo, verso
l’idea di bellezza e l’idea del bene, le quali
rappresentano il vertice del mondo ideale, in un
incessante processo di liberazione.
Noi siamo- ha scritto Francis Crick- “nient’altro che
un fascio di neuroni”. Certamente, ma noi siamo anche
esseri umani con agentività, termine introdotto da
Bandura per indicare la capacità dell’anima (mente) di
generare pensieri, idee, emozioni, progettualità. Il
nostro cervello è un’armonia di miliardi di neuroni, ma
la nostra mente, la nostra individualità, crea
continuamente l’imprevedibile e il non codificabile,
opera scelte e adotta strategie sulla base di eventi che
non sono per l’appunto “codificabili” nei neuroni e nei
geni. Per questa via, perveniamo al concetto di spirito
(anima), che comprende il pensiero e dunque la mente.
È un’entità che ha acquisito una tale rilevanza che ha
indotto alcuni autori a parlare di una sostanza primaria.
È lo spirito che “pone e sostiene il mondo”. Un mondo
che è l’edificazione dello spirito. È una impostazione
che coincide con le nostre concezioni, che sono alla base
delle nostre opere e della nostra vita. Noi avvertiamo
continuamente
la
seduzione
di
un’anima
trascendentale, immateriale ed immortale.
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Il tentativo dunque di spiegare la natura umana in
base ad una concezione esclusivamente neurale,
biologica, conduce inevitabilmente alla “negazione”
della persona umana e del suo carattere spirituale. Fatto
che riduce l’essere umano alla sua irriducibilità di soli
fenomeni neuronali e di soli meccanismi cerebrali.
Ci confortano le scoperte delle stesse nuove
neuroscienze. Esperimenti condotti di recente mostrano
che l’idea di Dio attiva alcune regioni del cervello
(Dehaene). Altre ricerche fanno ipotizzare di poter
individuare un “centro divino, un centro di Dio” nel
cervello umano. Studi recenti dimostrano che la nostra
mente
costruisce
“credenze
e
convinzioni”
(Churchland). Possiamo dunque parlare dell’esistenza
di “una scintilla divina e morale” profondamente
impiantata nella mente (Green).
La credenza in Dio ha una lunga storia, perdura
secondo alcuni neuroscienziati da quando gli esseri
umani abitano la Terra (Gazzaniga) e può aver avuto
origine da “una reazione istintiva comune a tutti gli
esseri umani”. Concetti come “Dio”, “Spirito”, sono
dunque “compatibili, per lo scienziato Boyer, con “le
innate capacità” della nostra anima (mente). Anche per
queste ragioni, ci è sempre cara l’immagine tradizionale
dell’anima considerata come entità immateriale ed
immortale.
Sono concetti che coincidono con il pensiero di
Cicerone. “Se la mia ferma persuasione- scrive il
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filosofo e scrittore latino- che l’anima è immortale
dovesse rivelarsi un’illusione, è un’illusione piacevole,
e me la terrò cara fino all’ultimo respiro”. Nel solco di
questa concezione si pone anche Dostoevskij, il quale
afferma: “Se distruggessi nell’uomo la fede nella
immortalità, non solo l’amore, ma tutte le forze vive che
mantengono in vita il mondo inaridirebbero. Nulla più
sarebbe immorale, tutto sarebbe permesso, anche il
cannibalismo”. Perché dunque non immaginare
un’anima che si sospinga negli azzurri cieli, sfiorando
la pallida luna e gli astri celesti più brillanti, là dove
sfavilla la celeste volta, alla ricerca della sua dimora
eterna.
Sostenere che l’unica realtà è quella empirica, che i fatti
sono più importanti delle credenze, è “negare
all’umanità- afferma il neuroscienziato de Waal –le sue
speranze e i suoi sogni”. Ci soccorre l’immagine della
“Scuola di Atene” di Raffaello, il dito di Platone a
indicare il cielo.
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Dall’anima al cervello
alla mente
alla spiritualità
Fin dall’antichità, l’uomo ha cercato di indagare la
natura umana, il cervello, la mente, il bene e il male.
Temi che hanno affascinato e attirato l’attenzione di
filosofi e teologi, poi quella di antropologi, biologi,
sociologi, genetisti, neurologi, farmacologi, ingeneri e
di recente anche esperti di analisi di mercato ed
economisti. All’alba della civiltà, in assenza della
scienza, il compito di valutare il posto dell’uomo nel
mondo viene assunta dalla filosofia, in un cosmo
dominato dal senso del soprannaturale e da una mente
popolata di Dio, divinità, demoni, fantasmi, angoscia e
paure ancestrali.
La riflessione filosofica sull’uomo, sul bene e sul
male ha fornito spiegazioni diverse come la volontà
divina, l’ordine del cosmo, la libertà soggettiva, i
principi utilitaristici, la ragione, la cultura, i sentimenti
morali. Soltanto oggi però possiamo legare questi
fenomeni al processo dell’evoluzione e ai meccanismi
neurali del cervello. Condizioni che-scrive de Waal-
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“hanno contribuito a plasmare forme e modi del nostro
dover essere morale. Le straordinarie scoperte delle
neuroscienze stanno facendo luce per orientarci
nell’intricata selva del cervello, della mente e della
coscienza.
Oggi, i neuro scienziati stanno tentando di
“tradurre”- scrive Kandel- astratte questioni filosofiche
e psicologiche sulla mente nel linguaggio empirico
della biologia e dunque della scienza. Le neuroscienze
sono impegnate a studiare come e perché il cervello, la
mente e la coscienza siano emersi nel corso
dell’evoluzione e come i cervelli si sviluppino,
maturino e invecchino. Il principio guida è che la mente
è un insieme di operazioni effettuate dal cervello.
Gli etnologi hanno riscontrato il concetto di anima o
di spirito all’origine di tutte le civiltà. In seguito, i greci
usarono il termine mente (in greco psychè) in luogo di
anima. L’uomo dalla doppia natura fatto di carne e di
spirito. Nell’antichità, il cuore era considerato l’organo
dello spirito mentre il cervello era fonte dello slancio
vitale. Ippocrate considera il cervello e l’organo centrale
delle sensazioni e della coscienza.
L’atto di nascita della speculazione filosofica sulla
mente è la teoria di Platone sull’immortalità dell’anima
e sulla trascendenza, cioè sull’esistenza di un aldilà
metafisico.
I primi studiosi della mente (in greco psychè)
attribuiscono all’anima diversi significati. Anzitutto, il
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concetto di anima indica “l’oggetto metafisico per
eccellenza” (Abbagnano) della riflessione filosoficoreligiosa e viene assunto come il principio della vita e
delle attività spirituali. Così, l’anima è aria per
Anassimene, armonia per Pitagora, fuoco per Eraclito,
atomi per Democrito, il quale sostiene che il cervello è il
“guardiano” dell’intelligenza.
Tradizionalmente, la mente è stata considerata come
una trilogia composta da cognizione, affetto (emozione)
e conazione (motivazione), e viene identificata con
l’anima (soffio, aria), lo spirito, la psiche. Infatti,
Platone, il fondatore della filosofia occidentale e
l’inventore dell’anima, indipendente dal corpo, opera
una tripartizione tra anima irascibile, concupiscibile e
razionale. Anche Aristotele, la cui concezione rimane il
modello di buona parte delle dottrine sulla mente,
propone una tripartizione dell’anima: vegetativa,
sensitiva, intellettiva.
Ad accentuare i suoi caratteri “divini” dell’anima è
Plotino, il quale evidenzia l’”interiorità spirituale”
dell’anima. Di qui, l’emergere, per la prima volta, della
nozione di coscienza intesa come “introspezione”,
analisi della propria interiorità.
Un ruolo centrale assume l’idea di anima in Cartesio,
la cui concezione comprende anche l’idea di coscienza.
Egli concepisce l’anima come una sostanza immateriale,
immortale e autonoma rispetto al corpo. Il suo è un
dualismo ontologico fra res cogitans (mente) e res extensa
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(corpo). È una teoria che viene rifiutata dall’empirismo,
dall’idealismo e dal materialismo. Sta di fatto che a
partire da Cartesio, il concetto di coscienza comincia a
prevalere su quello tradizionale di anima. L’anima
viene così “ridotta” alla coscienza.
Una svolta significativa si ha con il positivismo, il
quale riducendo l’anima alla coscienza pone le basi per
la fondazione della scienza del cervello, della mente e
degli stati di coscienza. La coscienza comprende il
mondo dell’esperienza interna, la sfera dell’interiorità e
riguarda “il dialogo dell’anima con se stessa”. Tutto ciò
che è per me- dice Jaspers- deve entrare nella coscienza.
L’”esserci è la coscienza”.
Nel campo della ricerca sulla mente, è trinitario
anche il modello proposto da Freud (Es, Io e Super-Io)
e dal neuro scienziato americano Paul Mac Lean, il
quale concepisce il cervello come una struttura formata
da tre elementi sovrapposti: il cervello rettiliano, il
cervello limbico o mammaliano e il neocervello.
Ad escludere ogni ricorso agli stati soggettivi
(coscienza) e agli stati mentali (mente) è il
comportamentismo, il quale accetta come soli dati i
comportamenti osservabili dei soggetti. Teoria che
viene negata dal cognitivismo, che asserisce che la mente
esiste, ha suoi contenuti e sue proprietà, che devono
essere studiati dalle neuroscienze. Le quali radicano la
filosofia
della
mente
nei
suoi
fondamenti
essenzialmente biologici.
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A questo punto, sorge una domanda fondamentale:
è possibile studiare scientificamente la mente? Alcuni
autori rispondono di sì, altri dicono che non è possibile
analizzare la mente. È impossibile- dichiara Thomas
Nagel- conoscere la mente e la coscienza, in quanto non
avendo esse proprietà fisiche (materiali) sono
“inaccessibili” alla sperimentazione scientifica, che
invece si basa su leggi fisiche, su realtà materiali. Allo
stato attuale delle nostre conoscenza- aggiunge- la
mente rimane “al di fuori di qualsiasi comprensione”.
Non solo non può essere spiegata, ma forse maiconcorda Vizioli- essa sarà “spiegabile”.
Diverso è il discorso sul cervello, il quale essendo un
oggetto fisico, fa parte del mondo fisico e perciò può
essere studiato scientificamente, cioè secondo le leggi
della scienza. La mente invece non è un oggetto fisico e
pertanto è assurdo- dicono questi autori- fare
altrettanto. Ciò che è mentale quindi non può essere
“identificato” con ciò che è fisico. “Non sapremo maiscrive Chomsky- come il cervello dia origine a pensieri
e sentimenti. Abbiamo a che fare con un mistero
insolubile”. Anche Chalmers parla di “mistero troppo
profondo”: studiando il cervello, la natura della mente
non può essere chiarita e capita. Addirittura, Patricia
Churchland afferma che “non esiste alcuna anima,
alcuna mente”. Gli stati mentali pertanto, secondo
questi autori, non sono “accessibili” alle operazioni di
“misura”, sono solo “accessibili” al loro proprietario.
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Finora, per spiegare il concetto di mente è stata
formulata una serie di definizioni. L’esame della
letteratura al riguardo mostra come le diverse
descrizioni non abbiano una base comune. Non
abbiamo ancora trovato cioè una definizione operativa
di mente (Siegel). Una posizione scientifica e filosofica
corretta è dunque affermare che semplicemente “non
sappiamo davvero cosa sia la mente”.
Invero, il termine mente si rivela un concetto
generico per riferirsi a “qualcosa di ignoto”, a un’entità
che ancora non conosciamo bene e che forse, come
abbiamo sostenuto in precedenza, “non riusciremo a
conoscere”. Definire la mente non è perciò ancora
possibile, poiché - dicono alcuni autori- “non ancora
conosciamo la sua natura”. Ma proprio per questa
ragione- dichiara LeDoux- dobbiamo impegnarci a
studiarla e scoprire- aggiungiamo noi- i suoi abissi di
mistero.
Contrariamente al parere di alcuni, molti neuro
scienziati, come ad esempio Crick, Heric S. Kandel e
Gerald Edelman, pensano invece che saremo in grado
di studiare scientificamente ogni aspetto della nostra
vita, poiché le neuroscienze “giungeranno a studiare
anche la mente e la coscienza”. Così, mentre i filosofi
cercano soluzioni filosofiche ai problemi, incluso quello
sul cervello e la mente, i neuroscienziati partono dal
principio che la concezione materialistica del problema
mente- cervello sia giusta. Si parte dalla teoria della
26
mente come “prodotto” del cervello e si perviene alla
comprensione di come il cervello renda la mente
possibile (LeDoux).
La sfida fondamentale delle neuroscienze del XXI
secolo è pertanto capire la mente in termini
neurobiologici, come impariamo, ricordiamo e
percepiamo. Capire qual è la natura del pensiero, delle
cose, dell’emozione, dell’empatia e quali sono i limiti
del libero arbitrio.
La nuova scienza del cervello e della mente ci viene
fornendo sempre più spesso nuovi elementi per una
comprensione più profonda di quello che ci rende ciò
che siamo, e ci consente di indagare anche i meccanismi
cerebrali che rendono possibile la creatività nell’arte,
nelle scienze, nella letteratura e nella vita quotidiana.
Contro forme di pessimismo, dobbiamo dire che la
storia della scienza è piena di fenomeni ritenuti
“misteriosi”, che però hanno poi trovato spiegazione.
Non possiamo perciò dire che “qualcosa” è
inconoscibile per il semplice fatto che “non è
conosciuto” (Siegel).
In questo campo, siamo ai primi passi. Ci troviamo
di fronte a questioni che creano davvero soggezione e
sgomento. E tuttavia, i risultati sono definiti
“straordinari”. È disponibile, infatti, una “grande
quantità” di informazioni su come funziona il cervello.
È stato dimostrato, per esempio, che la vita mentalel’essere umano- non è per nulla influenzata dalla sola
27
coscienza, ma anche dai processi inconsci. I quali non
sono le memorie rimosse di Freud, ma le moltissime
cose (pensieri, sentimenti, ecc. ) che il cervello fa e che
non sono accessibili alla coscienza. Pensiamo,
prendiamo decisioni e risolviamo problemi. Possiamo
dire che l’attività inconscia del cervello è –sostengono
Damasio e Gazzaniga- “al vertice” di tutti i processi
mentali. La coscienza si rivela dunque solo “una parte”,
ma “non del tutto” della nostra mente. “La maggior
parte della vita mentale è inconscia” (Freud).
Le ricerche poi hanno mostrato che tutti i mammiferi
hanno un cuore “molto simile” al nostro e possiedono
cervelli che hanno in buona parte “la stessa struttura e
anatomia” del cervello umano (Robbins). Sappiamo
inoltre che non esiste “alcuna regione del cervello” che
sia la sede della coscienza e della mente (Churchland).
Appare possibile anche che la coscienza sia “una
caratteristica” del cervello di tutti i mammiferi e degli
uccelli.
Oggi, possiamo dire che la mente- come concordano
i maggiori neuro scienziati- si riferisce all’esperienza
soggettiva interiore, privata, personale, individuale di
pensieri, emozioni, memoria, sogni, speranze,
convinzioni, intenzioni, ragionamenti, intuizioni,
immagini, umore, e al processo della coscienza o
consapevolezza. Questo processo è all’origine delle
attività mentali, come il pensiero, l’emozione e la
memoria.
28
Ciascuno di questi processi mentali ha dunque un
carattere soggettivo, cui ci si riferisce con il termine
“qualia”. La qualità soggettiva dell’esperienza tuttavia
non è né “quantificabile” né “osservabile” direttamente,
e dunque non può fornire la “misurazione rigorosa dal
punto di vista scientifico”. Noi non possiamo conoscere
e fare esperienza degli stati soggettivi di altre persone,
sono inaccessibili. Possiamo solo “supporre” ciò che gli
altri pensano o provano. La stessa descrizione
dell’esperienza soggettiva fornita direttamente da
coloro che l’hanno compiuta sono utili, ma queste
descrizioni non sono equivalenti all’esperienza stessa
(Kandel). Non è dimostrabile la “rossità” del rosso o il
profumo di una rosa: che ciò che io percepisco come
rosso corrisponda a ciò che tu chiami rosso.
Anche la coscienza, che è l’esperienza soggettiva di
essere consapevoli, è un altro aspetto della vita mentale
difficile da studiare in modo “misurabile” e
“controllato”, in quanto essendo priva di estensione
spaziale, diversamente dal cervello, non può essere
oggetto di indagine sperimentale.
Sulla coscienza, è emersa un’altra questione
sorprendente: noi veniamo a conoscenza delle nostre
scelte a “cose fatte”. Gli esperimenti di Libet e poi di
Platt e Glimscher hanno mostrato infatti che il cervello
“esegue” il suo lavoro tra i 500 e i 1000 millisecondi
prima che diventiamo consapevoli delle sue azioni. Il
neuro scienziato Ramachandran ha concluso che la
29
nostra mente cosciente non sarebbe dotata di libero
arbitrio. L’esperimento dimostra che il libero arbitrio è
“illusorio”, poiché non può causare gli eventi mentali
perché questi si verificano un secondo prima che esso si
esprima.
La coscienza è “the big one”, il problema “numero
uno” delle neuroscienze (LeDoux). Per molti versi
conosciamo (ma non sempre, aggiungiamo noi) precisa Siegel- la nostra esperienza soggettiva
attraverso la coscienza. Ma cosa significa effettivamente
essere consapevoli? Di fatto, non sappiamo veramente
cosa sia un pensiero o un’emozione.
Ed allora- come concorda Edelman- dobbiamo
accettare questa situazione e lasciare il terreno della
mente e della coscienza ai filosofi e alle discipline
umanistiche? No davvero. A “dispetto degli stati
mentali soggettivi” (qualia), le scoperte sul cervello
realizzate negli ultimi anni ci consentono di studiare la
mente e la coscienza.
Come tutte le scienze empiriche, le neuroscienze
procedono con il metodo “riduttivo” - altrimentiprecisa Kim- esse non fornirebbero fatti e dati obiettivi,
ma fantasie. Per questo motivo- aggiunge Kandel- le
neuroscienze non sono una filosofia sulla quale
discettare, ma un metodo scientifico. Di conseguenza,
l’attività della mente, cioè degli stati soggettivi, può
essere analizzata, partendo necessariamente dai
neuroni e dai meccanismi fisico-chimici.
30
Attualmente disponiamo di teorie scientifiche della
mente e della coscienza- evidenzia Edelman- le quali,
basandosi sull’attività del cervello, tentano di chiarire la
“relazione” tra eventi mentali ed eventi neurali, fisici, e
di “riferire” i propri stati fenomenici interni mentre
misuriamo l’attività neurale e corporea.
Punto di partenza- sostengono i neuro scienziati- è
allora concepire anima e cervello come “una unica e
stessa cosa”, ovvero “ridurre” la mente a cervello.
(Churchland). Ciò che pensiamo come anima è il
cervello e ciò che pensiamo come cervello è l’anima. La
mente è “un prodotto” del cervello. La grande sfida poi
sarà quella di risolvere il mistero di come il cervello
renda la mente possibile.
Coscienza, autocoscienza, mente, linguaggio, ecc.
vanno studiati perciò come qualsiasi caratteristica della
natura vivente. Il loro studio consiste nella “riduzione”
degli eventi mentali a eventi della materia del cervello.
È il metodo scientifico denominato “riduzionismo” o
“fisicalismo”. Il “riduzionismo” è un sistema scientifico
che consente di ridurre la totalità dei fenomeni naturali
da livelli più complessi a quelli meno complessi. È
scoprire e spiegare la natura delle cose attraverso
evidenze sperimentali.
Oggi sappiamo che dalle ricerche neuro scientifiche
è emerso il principio secondo cui mente e coscienza
sono “inesorabilmente” connesse al cervello (Kandel).
Di conseguenza, i neuroscienziati credono in un’anima
31
pressoché “identica” alla mente e al cervello, cioè parte
del mondo fisico, che per sua natura deve rispondere e
rispettare le leggi della scienza, le leggi della fisica
(fisicalismo). Questa “corrispondenza” tra evento
neurale ed evento mentale viene definita da Edelman
con l’espressione “correlati neurali della coscienza”
(NCC, “Neural Correlates of Consciousness), vale a dire
l’attività nervosa funzionalmente correlata con stati
coscienti. La correlazione neurale è un concetto per
descrivere la “contemporaneità” fra l’attività del
cervello e l’esperienza soggettiva del pensiero e della
coscienza.
Le basi della concezione sulla natura interconnessa
di cervello e mente sono state avviate a partire dal
secolo scorso, quando le scienze del sistema nervoso
hanno cominciato a considerare “prodotto” del cervello
ciò che veniva compreso nel concetto di anima, spirito,
mente, pensiero (Hagner).
I neuroscienziati sono concordi nel sostenere che
mente e cervello sono due facce di “un’unica realtà”.
L’equivalenza mente-cervello è un metodo di ricerca, il
quale- come nota Damasio- parte dal fatto che gli eventi
mentali sono correlati a quelli cerebrali, cosa che
“nessuno pone in discussione”, dal momento che
l’attività mentale ha luogo all’interno del cervello.
Dobbiamo poi aggiungere che i processi cerebrali e
mentali sono il “prodotto” di una lunga storia di
evoluzione biologica.
32
L’identità mente-cervello infine si basa sull’assunto
che i neuroni creano le mappe di oggetti e che queste
sono eventi mentali. La mano è un buon esempio per
chiarire questo concetto. Essa è fatta di ossa, muscoli,
nervi, ecc. . Quando essa si muove per indicare un
oggetto o una persona esegue un’azione. Sia l’oggetto,
la mano, sia l’azione- movimento sono fatti fisici chedice Damasio- hanno luogo nello spazio e nel tempo.
Vogliamo dire che sono i neuroni a creare una
“configurazione”, la quale costituisce una “mappa” di
qualcos’altro: una mappa di quell’azione e di
quell’oggetto. Tali configurazioni sono per l’appunto
immagini della mente.
La teoria dell’identità mente-cervello secondo cui
ogni evento mentale è identico a un evento fisico ha
portato i neuro scienziati a formulare la prima legge
dell’attuale concezione sul rapporto tra anima e
cervello. Essa stabilisce che “tutti i processi mentali,
perfino i processi psichici più complessi, “derivano” da
operazioni del cervello” (Kandel). L’assunto cardine è
che ciò che chiamiamo mente rappresenta “un insieme
di funzioni svolte dal cervello”, come il pensiero, il
linguaggio, la creazione della letteratura, di opere
artistiche e musicali. Di conseguenza, anche i disturbi
mentali hanno “una base biologica”. Questo principio è
accettato tra i neuroscienziati e si pone come “assunto
fondamentale” delle neuroscienze in quanto presenta
“un forte sostegno empirico”.
33
Gli approcci riduzionistici al pensiero umanosostengono gli studiosi- sono fondamentali per la
scienza, anche se molti, soprattutto persone estranee
alle neuroscienze, ritengono che il riduzionismo
sminuisca il fascino dell’attività mentale oppure che il
tale fenomeno in realtà non esiste.
“È vero il contrario”, rispondono gli scienziati. Se si
capisce- precisa Patricia Churchland- che, ad esempio,
l’epilessia è dovuta all’improvvisa scarica di un gruppo
di neuroni, che a sua volta innesca un’analoga scarica in
altre aree della corteccia, questa è una “spiegazione” di
un fenomeno e non la negazione dell’esistenza di un
fenomeno. Si tratta- precisa l’autrice- di una
“riduzione”. Che costituisce dunque una base empirica
(scientifica) contro le spiegazioni precedenti in termini
di “origini soprannaturali” dell’epilessia.
Se apprendere, sognare, ricordare ed essere coscienti
sono attività del cervello “non ne segue che esse non
siano reali”. Se inoltre il riduzionismo è essenzialmente
“comprendere” e “spiegare”, “lamenti e critiche
sarcastiche- aggiunge Tallis- mancano il bersaglio”.
Sono evidenze sperimentali, perciò è sbagliato valutarle
con l’etichetta di “scientismo”.
La comprensione della neurobiologia del cervello e
della mente pertanto “non nega in alcun modo” il
fascino, la ricchezza e la complessità del pensiero e non
diminuisce neppure il godimento, lo stupore e il piacere
procurati dagli stati soggettivi (qualia) legati
34
all’emozione, alle esperienze personali, alle opere d’arte
e alla creatività. Come dimostrano le ricerche di E. Kris
e E. Gombrich sulla neuroestetica, una delle sfide della
nuova scienza del cervello e della mente, consiste nel
comprendere come noi elaboriamo l’emozione,
l’empatia e la percezione conscia e inconscia, aprendo
in tal modo una fase nuova nella storia del pensiero
umano.
È da precisare inoltre che le neuroscienze (il
riduzionismo) non si pongono come “fine filosofico” o
come “visione del mondo” o come “risposta” alle
domande fondamentali (Hyman). Esse si collocano
come mezzo per acquisire conoscenze (scientifiche) che
ci porteranno a una “comprensione” più profonda e
certa dell’essere umano.
I pregi dell’approccio riduzionista- dichiara Kandelsono emersi solo in questi ultimi anni con lo sviluppo
delle fantastiche metodiche di brain imaging.
La maggior parte degli studiosi, come concordano
M. Solms e O. Turnbull, sostiene infatti che le ultime
teorie fornite dalle neuroscienze siano di fatto “teorie
scientifiche”, cioè rappresentino attualmente “il tipo
più affidabile” di conoscenza a nostra disposizione a
proposito delle leggi che governano l’apparato mentale.
Non si può dire altrettanto delle teorie di altre
discipline, come ad esempio delle teorie psicoanalitiche
o filosofiche.
35
Si ritiene cioè che le proposizioni psicoanalitiche o
filosofiche non possano essere dichiarate vere o false in
base ad un criterio di fatto e quindi “oggettivo”. Si tratta
di un sapere quasi “intimistico”, di tipo affettivo,
poetico, fondamentalmente “espressivo”, anziché
“esplicativo”. Di qui, l’insufficienza teoretica della
psicoanalisi e della filosofia, le quali sono pertanto
“inverificabili e inconclusive”.
La scienza invece è “verificabile”. I dati raccolti dalla
ricerca neuro scientifica sono per loro natura
“oggettivi”, poiché riguardano “cose” fisiche. La
psicoanalisi
produce
invece
dati
di
tipo
“estemporaneo” difficili da trattenere. L’esperienza per
definizione è soggettiva. Descrivere l’esperienza
soggettiva appare impresa quasi impossibile perché
essa non può essere fermata e dunque non può essere
“misurata”. Con il metodo scientifico non solo è
possibile “catturare” e “misurare” i dati, ma anche
analizzarli.
Le conclusioni della scienza riguardano i fatti: si può
accertarne la verità o la falsità in termini oggettivi,
matematici.
Nel caso dei rapporti tra scienza e filosofia si era
ritenuto di poter giungere a una “distinzione” basata
sulla differenza dei rispettivi oggetti di indagine: la
natura per le scienze, e l’uomo come ente spirituale per
la filosofia. Pensiamo alla distinzione proposta da
Wilhelm diete tra le “scienze spirituali” e le “scienze
36
naturali”. Successivamente, tale distinzione è apparsa
insoddisfacente, considerando possibile, e anzi
fruttuoso, non solo “una pacifica coesistenza” tra
scienza e filosofia, ma anche una loro feconda
connessione dinamica in un “continuo” di
approfondimento della comprensione del destino
umano (Cotta).
Oggi, c’è una tendenza a imprimere un carattere
scientifico anche alle humanae litterae nella convinzione
che queste siano suscettibili di uno studio scientifico,
ossia verificabile, o falsificabile, empiricamente.
È tuttavia un grave errore concludere che la scienza
della mente possa fare a meno della psicoanalisi, della
filosofia o di altre discipline. Gli stati soggettivi, le
emozioni, i sentimenti “esistono”, sono “reali”.
Le altre discipline, lo ribadiamo con forza, sono una
fonte di arricchimento per la scienza e per l’uomo, un
metodo alternativo di conoscere la realtà. Le
neuroscienze e le discipline umane hanno molto da
guadagnare dalla loro reciproca collaborazione e
integrazione. È giunto il momento, secondo noi, di
trovare punti di contatto, superando le antiche ostilità.
In questa prospettiva, come nota Sergio Cotta, si
perviene a “rovesciare” il tipo di rapporto tra scienza e
filosofia. Secondo l’idealismo, l’unica forma di
conoscenza valida in termini di “verità” era quella
filosofica, mentre la conoscenza scientifica aveva un
carattere “pragmatico”, concerneva la pratica. Oggi
37
invece “solo la scienza” si presenta con “una effettiva
capacità conoscitiva del mondo della realtà”. E tuttavia,
dobbiamo precisare che la conoscenza scientifica “non
copre” tutta l’esperienza umana. Le scienze umane
aggiungono ai dati oggettivi offerti dalle scienze
naturali l’attenzione per “l’esperienza interiore” (la
dimensione
dell’inconscio
e
del
profondo)
dell’individuo e per “ l’esperienza storica”
dell’umanità.
Certamente, la scienza non è “l’unica cosa
importante nella vita”. Nulla se non la scienza. La
scienza non è tutto, anche se per Einstein essa è la cosa
“più preziosa che abbiamo”. Quello che per noi è
importante è realizzare un modello integrato e armonico
tra le due culture, tra scienza e discipline umanistiche,
cioè fra tutti i differenti domini della conoscenza.
Uno dei primi autori a descrivere lo iato di reciproca
incomprensione e ostilità tra scienziati e umanisti è
stato C. P. Snow, il quale nel suo libro “Le due culture”
deplora la divisione esistente fra cultura scientifica e
cultura umanistica, auspicando la possibilità di una
“terza cultura” che mediasse il dialogo fra scienziati e
umanisti.
In questa direzione si pone anche il neuro scienziato
S. J. Gould, il quale riconosce “una parentela profonda
e una necessaria connessione e interazione fra scienze e
discipline umanistiche. Oggi, assistiamo ad un evento
straordinario, quello del pensiero che ha condotto alla
38
rivoluzione scientifica, dimostrando come la ricerca
sulla mente possa comprendere sia la scienza che altri
saperi (Edelman).
Noi sosteniamo, d’accordo con la maggioranza dei
neuroscienziati, che la letteratura, l’arte, la musica, la
poesia, la psicoanalisi, l’antropologia, la linguistica
possano coesistere con le neuroscienze in un fecondo
processo d’integrazione. I filosofi possono essere
d’aiuto nel campo del cervello e della mente. Come
rileva Kandel, intuizioni e contributi sono venuti anche
da scrittori e poeti- pensiamo a Shakespeare,
Beethoven, Klint, Kadoschka e Schiele-, oltre che da
filosofi e studiosi cognitivi.
Noi- ha affermato Francis Crik- non siamo che “un
fascio di neuroni”. Ma siamo- aggiungiamo noi- anche
esseri umani con “agentività” (Rose), capaci di creare e
ricreare i nostri mondi. Eccles, al riguardo, ha invocato
una regione speciale del cervello come il punto in cui
l’anima e la divinità potevano intervenire e interagire
con i neuroni.
Così, tra dimensione naturale e dimensione
spirituale e soprannaturale, tra anima, mente e corpo,
l’uomo, come sostiene Popper, è “un essere spirituale”,
un Io, una mente, la quale è legata ad un corpo che
soggiace alle leggi della fisica. Non dovrebbero quindi
“escludersi a vicenda”(LeDoux) una visione spirituale
degli individui e una prospettiva neurale.
39
Un’importante testimonianza ci viene resa dalla
letteratura attraverso autori, come, ad esempio,
Dostoevskij, Tolstoi e Turgenev, che sono i grandi
indagatori dell’anima. Questi autori danno molta
importanza alla sfera spirituale e ai processi inconsci
della vita mentale, fornendo la possibilità all’essere
umano di trascendere se stesso. E proponendo idee che
si rivelano utili alla comprensione dei modi in cui
l’anima (la mente) attraverso il cervello “ci rende quelli
che siamo” (LeDoux).
Si tratta di un contributo decisivo allo studio della
mente che anticipa le successive scoperte delle
neuroscienze. In questo contesto, come osserva G.
Chini, Turgenev pone in risalto la conquista della
“irripetibile interiorità” della persona e del suo senso
morale. A sua volta, Tolstoi esalta la dimensione dell’Io,
della sua unità bio-psichica e il sentimento spirituale,
mentre Dostoevskij indaga un livello spirituale più
profondo della mente, evidenziando l’emergere della
coscienza morale come espressione ordinata di
“un’autorità esterna e superiore”.
Dostoevskij, Tolstoi e Turgenev si pongono lungo la
linea vettoriale della concezione trinitaria di Platone,
Freud, Luria e Mac Lean, recuperando un’antropologia
tripartita, dove accanto alla sfera fisica (cervello) e a
quella psichica (mente) emerge una sfera spirituale
(anima).
40
Concludiamo questa panoramica sulle nuove
neuroscienze, dicendo che siamo partiti dall’anima
attraversando i neuroni, il cervello, la mente e la
coscienza per approdare sulle sponde meravigliose
dello spirito (noùs) e dell’anima.
Una spiritualità che non si oppone al metodo
scientifico, poiché entrambi possono convivere in una
creativa, fertile e armonica collaborazione.
È l’assolutezza dello spirito che si manifesta
hegelianamente in molteplici versi: 1. soggettivo
attraverso l’anima, l’intelletto, la ragione; 2. oggettivo
con il diritto, la moralità, l’eticità; 3. assoluto per mezzo
dell’arte, della religione, della filosofia.
Tutto ciò mostra che c’è in ognuno di noi la
seduzione e il fascino del trascendentale con la
nostalgia dell’anima.
41
42
L’anima e i suoi
tormenti
Le questioni relative ai disturbi psichiatrici si
ramificano in molteplici snodi caratterizzati da diversi
equivoci scientifici e culturali insorti soprattutto negli
anni Settanta e dal difficile rapporto tra scienza e
umanesimo nei nostro Paese. Rispetto agli altri Paesi,
l'Italia ha scontato un notevole ritardo di elaborazione
concettuale. Se altrove si è cominciato già nell'Ottocento
a emancipare i malati con leggi come quella francese del
1838 o il “Lunacy Act” inglese del 1845, da noi la “180”
ha dovuto suturare un gap risalente a una legge del
1904, in cui la malattia mentale coincideva con il
comportamento criminale.
Gli studi rimarcano anzitutto la centralità di un
sapere psichiatrico di cui l'antipsichiatria, sorta come
reazione agli “eccessi” di una psichiatria biologica,
costituisce un elemento composito contrassegnato da
sociologismi ambigui, come le vaghezze metaforiche di
un Foucault, da una psicoanalisi para-freudiana, come
l'esoterismo oscuro e inconsistente di un Lacan e da un
misticismo new-age. Tutti fattori che si sono saldati in
43
un linguaggio astratto, vacuo e antiscientifico e teso a
vedere nel disagio mentale solo il sintomo del
“controllo sociale” e di un “ambiente castrante”. Viene
contestato il concetto di malattia mentale, la
schizofrenia non è ritenuta una malattia se non in senso
metaforico, la “follia” è valutata come variante della
norma o addirittura come forma di “saggezza”,
predomina una ideologia anti-modernista, antirazionalista e anti-scientifica. Di qui, una opposizione
alle scienze medico-biologiche e dunque alla
psichiatria.
Tra ritardi ed errori, oggi la psichiatria è “obbligata”
-scrive Kandel- a confrontarsi con le neuroscienze avuto
riguardo al crescente interesse per la biologia dei
disturbi mentali e in particolar modo per la genetica
della schizofrenia e della depressione. Stiamo
assistendo a straordinari progressi nel campo delle
neuroscienze, in particolare nell'analisi del modo in cui
diversi aspetti del funzionamento mentale sono
rappresentati in varie aree del cervello. Alla psichiatria
dunque si presenta una nuova, irripetibile opportunità.
Le prospettive si rivelano entusiasmanti: esiste la
possibilità di pervenire a una visione avanzata dei
processi mentali sia normali che patologici.
Alla base della nuova scienza del cervello c'è il
principio che “tutti i processi mentali sono biologici”.
Qualsiasi disordine o alterazione di questi processi
deve avere perciò anche “una base biologica” (Kandel),
44
nonostante finora non siamo riusciti a svelare lesioni
chiare e localizzate come quelle riscontrate nelle
malattie neurologiche. Anche-se quasi tutte le patologie
mentali hanno una componente genetica, esse non
mostrano modelli di ereditarietà diretta, perché non
sono causate dalla “mutazione di un singolo gene”.
Non esiste quindi il gene della schizofrenia, come non
esiste il gene della depressione, dei disordini dell'ansia
o della maggior parte delle altre malattie mentali.
Le componenti genetiche di queste malattie si
originano nell'interazione di parecchi geni con
l'ambiente o con altri fattori. Con lo studio degli stati
d'ansia, innata o acquisita, nelle persone e negli animali
da esperimento, oggi sappiamo che le emozioni sono il
risultato di un’esperienza inconscia, che implica
l'attività del sistema nervoso autonomo e
dell'ipotalamo, e di un’esperienza conscia, la quale
coinvolge le funzioni della corteccia cerebrale.
Essenziale per entrambe le componenti è il ruolo
dell'amigdala, un nucleo situato in profondità negli
emisferi cerebrali che coordina l'esperienza delle
sensazioni e delle emozioni, soprattutto l'ansia e la
paura. La scoperta da parte di Kandel di un circuito
neurale che tiene sotto controllo l'ansia potrebbe
portare inoltre allo sviluppo di farmaci che contrastino
la paura associata a sindromi psichiatriche come i
disordini da stress post-traumatici e le fobie.
45
Un’indicazione importante sulla depressione deriva
dal lavoro di due neuroscienziati, R. Duman e R. Henn,
i quali hanno scoperto che i farmaci antidepressivi
aumentano anche la capacità di una regione
dell'ipotalamo, il giro dentato, di generare nuove cellule
nervose. Sono scoperte notevoli in quanto lasciano
emergere la possibilità che gli antidepressivi stimolano
la produzione di neuroni nell'ipotalamo. Ulteriori
esperimenti poi dimostrano che i topi geneticamente,
modificati possono servire come modelli nello studio di
complessi disturbi psichiatrici. Nei topi mutanti
possiamo indagare gli apporti genetici alla schizofrenia
e manipolare l'ambiente dei topi, in utero e durante il
primo sviluppo, per valutare quali interazioni geneticoambientali potrebbero innescare l'avvio della malattia.
I modelli genetici delle principali malattie mentali
ottenuti con i topi potranno rivelarsi fondamentali sia
per comprendere le origini e lo sviluppo di determinate
malattie che per analizzare le complesse vie alla base
dei disturbi molecolari, rafforzando le nostre capacità
di diagnostica e classificare i disordini mentali e
fornendo una base per lo sviluppo di nuove terapie
molecolari.
I meravigliosi progressi di questi anni stanno dando
origine al “decennio delle terapie per il cervello”, con la
conseguenza che la psichiatria e la neurologia si
rivelano due discipline che vanno concettualmente
avvicinandosi sempre più. Le prospettive sono
46
affascinanti: possiamo - commenta Kandel - sondare i
misteri del cervello e studiare nuovi trattamenti per le
disfunzioni cerebrali.
47
L’arte e il mondo
dell’inconscio
In questi ultimi anni si è sviluppato un processo
d’interazione tra cervello, mente, inconscio e arte, che
ha portato alla nascita di una “neuroestetica emotiva”.
Una comprensione cioè delle nostre risposte,
emozionali, empatiche e percettive, alle opere d’arte. La
neuroestetica è una nuova disciplina che tenta di
coniugare lo studio dell’arte con le neuroscienze.
La sfida fondamentale delle neuroscienze del XXI
secolo è “capire la mente umana in termini
neurobiologici”. Come impariamo, ricordiamo e
percepiamo? Qual è la natura del pensiero, della
coscienza, dell’emozione, dell’empatia? Quali sono i
limiti del libero arbitrio?
La nuova scienza del cervello e della mente non solo
ci fornisce una comprensione più profonda di quello
che ci rende ciò che siamo. Ma ci consente di indagare i
meccanismi cerebrali che rendono possibili la
percezione e la creatività nell’arte, nelle scienze, nella
letteratura e nella vita quotidiana. Le neuroscienze e
l’arte rappresentano due importanti prospettive della
mente. Gli straordinari progressi neuro scientifici ci
48
mostrano che la nostra vita mentale “prende origine dal
cervello” (Kandel). Una delle sfide più notevoli della
neurobiologia è dunque capire come il cervello divenga
“consapevole” dell’emozione, della percezione e
dell’esperienza.
Nel periodo compreso tra il 1890 e il 1918, le
intuizioni di Freud, gli scritti di Schnitzler e i dipinti di
Klimt avevano in comune - afferma E. R. Kandel in L’età
dell’inconscio. Arte, mente e cervello (Raffaello Cortina) la
capacità di penetrare nella natura della vita istintuale
dell’essere umano. L’opera poi di Darwin “L’origine
della specie” (1859) introduce il concetto che gli esseri
umani “non sono creati da un Dio onnipotente, ma sono
creature biologiche evolutesi da antenati più semplici”.
Questi nuovi orientamenti portano a un “riesame” della
natura biologica dell’esistenza umana. Si scopre così
che gli individui non solo “ospitano” sentimenti erotici
inconsci, ma anche pulsioni aggressive altrettanto
inconsce dirette sia contro se stessi sia contro gli altri.
Freud chiamerà “pulsione di morte” (Thanatos) questi
impulsi oscuri. È la scoperta dell’inconscio, cioè della
natura largamente irrazionale della mente. È la grande
rivoluzione freudiana. La quale evidenzia che non
controlliamo consciamente le nostre azioni, ma siamo
guidati da motivazioni inconsce. Questa rivoluzione
suggerisce più tardi l’idea che la creatività trae origine
nell’accesso conscio dalle forze inconsce sottostanti.
49
In verità, molti filosofi nel corso dei secoli hanno
dibattuto sul ruolo dei processi mentali inconsci nella
vita psichica. Prima Platone, poi Schopenhauer e
Nietzsche scrivono dell’inconscio e delle spinte
inconsce. Freud rileva che la maggior parte della vita
mentale è “inconscia”. Antonio Damasio (“Il sé viene
alla mente”, Adelphi Edizioni) definisce “inconscio
genomico” la “colossale quantità di istruzioni
contenute nel nostro genoma”. Sono disposizioni che
toccano un’ampia gamma di temi, come il formarsi
delle arti, la sessualità umana, la religione, il
comportamento umano.
Queste nuove idee e le nuove scoperte delle
neurosciernze mandano così in crisi il concetto di libero
arbitrio. Il principio che “tutti i processi mentali hanno
una base biologica nel cervello” porta poi a sostenere
che tutte le malattie mentali hanno “una base
biologica”.
Se dunque la maggior parte della nostra vita mentale
è inconscia, qual è la funzione della coscienza? La
coscienza - rispondono i neuro scienziati - è ciò che ci
consente di sperimentare pensieri, emozioni e stati di
piacere e dolore.
L’arte, in questo contesto, rappresenta un complesso
insieme di impulsi inconsci e ci dà alcune tra le
esperienze
“più
profonde
ed
emotivamente
coinvolgenti accessibili agli esseri umani” (Dutton). Le
50
arti sono pertanto “adattamenti”, tratti istintuali, che ci
aiutano a “sopravvivere”. L’arte può dare origine a
sensazioni di benessere. Una grande opera d’arte- come
confermano i moderni studi neuro scientifici- ci
permette di sperimentare “un piacere profondo”. I
circuiti del piacere del cervello si attivano anche quando
godiamo di un’opera d’arte, quando abbiamo
esperienza di un bel tramonto, un buon pasto o un
rapporto sessuale appagante.
La gioia che ricaviamo dall’arte alza il volume del
piacere attraverso il rilascio di neurotrasmettitori noti
come endorfine. Sono sostanze simili alla morfina nelle
loro capacità di bloccare gli stimoli dolorosi. Dal
momento che la creazione dell’opera d’arte e la risposta
dello spettatore all’arte sono “prodotti” del cervello,
una delle sfide più affascinanti per la nuova scienza del
cervello è costituita dalla natura dell’arte. Semir Zeki,
pioniere della neuroestetica afferma che la funzione
principale del cervello è “acquisire nuove conoscenze
sul mondo e che l’arte visiva è “un’espressione” di tale
funzione.
A partire da Riegl e continuando con Ramachandran,
Kris e Gombrich, oggi sappiamo che le immagini create
dall’artista vengono “ricreate” nel nostro cervello. La
percezione poi delle emozioni nell’opera d’arte è in
parte empatica ed imitativa e comprende i sistemi
cerebrali che si occupano del movimento biologico, i
neuroni specchio e la teoria della mente. L’emozione è
51
determinata dall’amigdala, dalla corteccia prefrontale,
dallo striato e dai differenti sistemi di modulazione del
cervello. Un dipinto dunque ci può trasportare
attraverso un “continuum” di emozioni diverse, che si
estendono dal piacere erotico al dolore, dal terrore
all’angoscia, dalla paura della morte alla speranza della
nascita.
Invero, l’analisi della creatività richiede studi che
procedano in parallelo da una varietà di prospettive
diverse. La creatività infatti è qualcosa di molto
complesso, che assume una “varietà” di forme
differenti e che stiamo appena iniziando a capire.
Storicamente, le persone creative sono spesso viste
come “toccate” da un’ispirazione divina. Agli inizi del
XX secolo sono stati fatti diversi tentativi per misurare
la creatività, analoghi al quoziente di intelligenza (QI)
utilizzato per misurare l’intelligenza. Essi hanno
portato alla conclusione che la creatività si basa
sull’intelligenza ed è dotata di una molteplicità di
forme. Sta di fatto che i tipi di personalità sono
numerosi e sono incentrati su una varietà di
caratteristiche,
tra
cui
intelligenza,
stupore,
indipendenza, flessibilità, anticonformismo, capacità di
rilassamento. Tutte caratteristiche che favoriscono
l’accesso all’inconscio.
Grazie agli esperimenti di brain imaging, oggi i neuro
scienziati stanno iniziando a “identificare” alcune delle
regioni del cervello che contribuiscono alla creatività.
52
L’idea che processi mentali inconsci possano
contribuire alla creatività è stata introdotta da Ernst
Kris, il quale sostiene che l’artista accede all’inconscio
attraverso un processo di “regressione al servizio
dell’Io”. La regressione è di giovamento ai processi
creativi poiché l’artista è in grado di portare in primo
piano la forza delle pulsioni sessuali, dei desideri
inconsci, dei pensieri, delle azioni rimosse e dei
conflitti.
Concludiamo, dicendo che il cervello è una
“macchina” della creatività, che siamo ancora in una
fase precoce di una concezione neurale della creatività
e che la mente è un insieme di operazioni effettuate dal
cervello. Tutto parte dal cervello, la struttura più
complessa e misteriosa dell’universo conosciuto.
53
Come, quando e perché
la mente emerge
Le caratteristiche “uniche” dell'essere umano
comprendono la coscienza di sé e degli altri, il
linguaggio e la vita sociale. Su tutte queste capacità
emerge uno speciale attributo umano che chiamiamo il
possesso di una mente (Rose).
Come, quando e perché la mente emerge?
A cominciare dagli anni Novanta del secolo scorso, i
neuroscienziati hanno mostrato che la mente non sia
altro che il “prodotto” del nostro cervello. L'essere
umano - ha scritto Francis Crick –è “un fascio di
neuroni”. La mente - ha sostenuto Damasio - è “una
proprietà” del cervello”, il collegamento di insiemi di
neuroni.
Tutti i processi mentali, perfino i processi psichici più
complessi, «derivano- ha precisato Kandel- da
“operazioni del cervello”. L'assunto cardine- ha
aggiunto il premio Nobel per la medicina- è che ciò che
comunemente chiamiamo mente rappresenta “un
insieme di funzioni svolte dal cervello”.
54
Le neuroscienze, identificando mente e coscienza con
la materia e il funzionamento del cervello, evitano, di
fatto, 1’intricato e ancora misterioso rapporto mentecervello e cercano di capire mente e coscienza in un
mondo fisico. Una volta che la mente sia stata ammessa
fra gli eventi del mondo naturale, «dobbiamo trovarle ha sostenuto Colin McGinn - un posto nello schema
delle cose laboriosamente costruite a partire dal XVIII
secolo”. Il problema principale tuttavia è se ciò sia
possibile senza sacrificare la peculiarità della mente e
della coscienza. Il problema irrisolto e forse irrisolvibile
verte su come la mente (immateriale) sorga dal cervello
(materia).
Se le decisioni sono prese dal cervello, che è un
oggetto fisico, sottoposto dunque alle leggi della fisica,
la volontà non è libera. La mente, divenendo un
meccanismo neurale elettrochimico, non è “libera” di
scegliere fra opzioni diverse.
Sta di fatto che in realtà non è ancora dimostrato che
noi- come ha detto Crick- siamo “un fascio di neuroni:
dall'attività dei neuroni e delle aree cerebrali non è
infatti possibile “dedurre” quali siano i contenuti della
mente e della coscienza. Inoltre, Crick tralascia di
chiedersi chi siano i “noi” che dovrebbero capire come
funziona il “pacco di neuroni” che “noi” siamo, se non
cellule nervose, altri pacchi cioè di neuroni, in una
regressione all'infinito.
55
Per Cartesio, esistono due ragioni ontologiche: la
“res extensa” (la materia, il cervello) e la “res cogitans”,
cioè l’anima che pensa, riflette ed è consapevole di se
stessa (coscienza). Questa entra in contatto con la “res
extensa”, cioè con il cervello, attraverso gli organi di
senso e non è soggetta alle leggi fisiche ed è immortale.
Invero, l'assunzione dei neuroscienziati che la mente
non è “nient’altro che un prodotto del cervello” ci
appare un concetto piuttosto “grossolano”, come
concorda anche Steven Rose. È limitato considerare la
mente soltanto come un prodotto del cervello. Ciò che
definiamo come mente non discende unicamente dalle
attività di un sistema nervoso isolato, ma ha origine sia
da funzioni neurali sia da processi esperienziali. Noi
siamo un “fascio di neuroni” e di altre cellule, ma siamo
anche essere umani. Abbiamo una mente che si
costituisce
attraverso
1’interazione
evolutiva,
ontogenetica e storica dei nostri cervelli e dei nostri
corpi con gli ambienti sociali e naturali che ci
circondano. Abbiamo la capacità di creare e ricreare i
nostri mondi. La nostra conoscenza etica può essere
arricchita dal sapere neuroscientifico, ma non sostituita.
Il cervello- ha scritto la poetessa americana Emily
Dickinson- “è più grande del cielo”. Ma la mente - per
noi - è più grande del cervello. La mente perciò non può
essere “riducibile” ai neuroni e non può essere
“abbassata” al livello delle sinapsi o dei neuroni. La
mente è qualcosa di più.
56
Certamente, la mente e la coscienza sono passibili di
investigazione scientifica, ma esse non si prestano ad
essere “ingabbiate” dai metodi neuroscientifici con te
tecniche di brain imaging, dai i nostri elettrodi e dai
nostri “armadietti dei medicinali” (Rose).
La prospettiva più congruente a noi sembra essere
quella bio- sociale integrata, un modello fondamentale
per qualsiasi tentativo di comprensione del cervello,
della mente e dunque della natura umana. Siamo infatti
gli eredi non solo dei geni, ma anche degli ambienti,
dell'educazione, delle dinamiche interpersonali e delle
culture dei nostri antenati. Le nostre menti quindi sono
attivate dai nostri cervelli, ma non sono “riducibili” ad
essi.
Attualmente, il pensiero dominante tra i
neuroscienziati è decisamente “riduzionista” nella sua
insistenza sulle spiegazioni neurali. La nascita delle
nuove neuroscienze in realtà “strappa” il controllo
dell'anima e della mente dalle mani dei filosofi e dei
teologi. Si ammette cioè l'esistenza di una “identità” di
mente e coscienza con il cervello. Il problema irrisolto e
forse irrisolvibile - lo ribadiamo - è il seguente: come la
mente sorge dal cervello? La domanda in che modo da
una serie di meccanismi neuronali un evento acquisti
significato, diventi cioè coscienza, è finora 'senza
risposta. L’emozione che si prova di fronte ad un
tramonto o sentendo un brano musicale, la gioia allo
sguardo di una persona che amiamo, lo struggimento
57
che si avverte per tanti eventi della vita, lo stato
soggettivo che si sperimenta per la rossità del rosso, per
l'aroma del caffè o per un buon bicchiere di vino, che
per Thomas Mann, è un dono di Dio, sono tutte
esperienze personali che vengono sentite come diverse
da un evento fisico, anche se per ognuna di esse
s'individuano aree cerebrali attive. Non è possibile
dunque, secondo alcuni neuroscienziati, spiegare gli
stati soggettivi.
58
Dal neurone alla morale
Oggi possiamo affrontare le questioni sulla “nostra
natura” in base ai dati reali e rilevanti provenienti dalle
neuroscienze, dalla biologia evoluzionistica e dalla
genetica. Sono i processi del cervello - afferma
Churchland - a “plasmare” ciò che noi chiamiamo etica
(o morale). Che è caratterizzata dai seguenti elementi:
. “prendersi cura”, capacità basata sul fondamentale
concetto di “attaccamento” a parenti e ad altre persone;
. riconoscimento degli stati mentali altrui (teoria
della mente);
. soluzione di problemi nel contesto sociale;
. apprendimento delle pratiche sociali e morali.
Le neuroscienze hanno scoperto che in tutti gli
animali vi sono intricati circuiti neurali che presiedono
alla cura di “sé”, alla cura degli “altri”, alla
neurochimica dell'attaccamento e al comportamento
affettivo tra mammiferi. Sono questi i valori che
fondano la morale. Lo stile di cura dell'altro,
l’altruismo, la generosità, la socialità e la cooperazione
sono tutti fattori che confluiscono nel concetto di
59
moralità e sono dovuti a “trasformazioni evolutive
specifiche del cervello” (Carter).
Anche i mammiferi non umani possiedono valori
sociali e capacità morali. Essi si prendono cura dei
piccoli, dei compagni, dei parenti e dei soci, cooperano,
possono punire e si riconciliano dopo un conflitto
(Palagi). Come possono i neuroni valutare qualcosa?
Tutti i sistemi nervosi- rileva Craig- sono organizzati
per prendersi cura dell'autoconservazione. Secondo la
prospettiva evoluzionistica, la cura di sé è selezionata al
posto della “non-cura di sé”. Ma come può un topo
sapere che deve trovare cibo, scappare dalla tana o
costruire un rifugio? La risposta è che sono i neuroni a
“monitorare” lo stato interno del topo. Allorché si
riscontra un bisogno viene di fatto generata una
emozione motivante e attraverso l'uso di indizi
percettivi, come odori e suoni, le regioni sottocorticali
del cervello valutano i rischi e le opportunità nel mondo
esterno. Avere “cura di sé” e degli “altri” pertanto è una
funzione fondamentale del cervello. I cervelli sono
“organizzati” per «ricercare” il benessere e per trovare
sollievo dalla sofferenza e dal malessere.
Al centro di questo complesso e delicato insieme di
cura e attaccamento si trova l’ossitocina, un potente
ormone che assolve specifiche funzioni nella cura dei
piccoli e nelle forme più ampie di altruismo,
cooperazione, socialità e moralità. Sono tutti elementi
che hanno una base genetica e legati a eventi
60
dell'ambiente. Nel cervello, il rilascio di ossitocina
innesca il comportamento materno. In tutti i mammiferi
in stato di gravidanza, la placenta del feto rilascia una
varietà di ormoni (ossitocina, vasopressina, oppiacei
endogeni, dopamina, serotonina, estrogeno e
progesterone),
i
quali
hanno
l'effetto
di
“maternalizzare” il cervello (Keverne). Quando si
realizza un sicuro e sereno rapporto vengono rilasciati
sia nei cervello del piccolo che in quello della madre
ossitocina e oppiacei, i quali riducono anche i livelli di
ansia e di paura. La cura del manto, leccare i piccoli e lo
spulciamento forniscono sensazioni di piacere alla
madre e ai piccoli (Zhang).
Si determina in sostanza un processo circolare tra
cervello, ossitocina, cura genitoriale e competenze
sociali e morali. Ricerche in materia hanno scoperto che
le madri ratto con alti livelli di comportamento materno
hanno alti livelli di ossitocina, fenomeno che si riscontra
anche nei loro piccoli. L'ossitocina è associata alla
fiducia, alta tolleranza, all'affetto reciproco e al
sostegno, e “velocizza” la guarigione di ferite com’è
stato documentato sia nei roditori sia negli esseri
umani.
A sua volta, la dopamina risulta importante per
l'espressione
del
comportamento
sociale,
nell'apprendimento, nell'accoppiamento, nei legami di
coppia e nel comportamento genitoriale. Il rilascio poi
di oppiacei endogeni segue al ricongiungimento di
61
individui separati o alla risposta positiva rispetto alle
lamentele dei piccoli (Panksepp), come può essere
osservato, ad esempio, nella gioia del cane quando si
ricongiunge al suo compagno o al suo padrone.
Nonostante la complessità delle interazioni genicervello-comportamento, l'idea che la morale sia innata
resta irresistibile. Gli esseri umani, per Hauser,
possiedono un “organo morale” che fissa i principi
universali della moralità e che prendono il nome di
“coscienza” e sono presenti in tutte le società. Nasciamo
con regole e principi etici, mentre l'educazione ci
fornisce poi i mezzi e una guida verso l'acquisizione di
“sistemi morali particolari”. Anche la religione rientra
in questo quadro. Esiste una inclinazione innataaffermano Haidt e Sosis- all'adesione religiosa, una
propensione che fu selezionata per i benefici che recano
l'avere vincoli forti all’interno dei gruppo e una salute
migliore. Sta di fatto tuttavia che pazienti coinvolti in
uno “sforzo” religioso possono essere in realtà “più
cagionevoli” di salute (Pergament).
L'attribuzione di stati mentali ad altri ha incoraggiato
poi l'introduzione del nome “teoria della mente”. I cani
addestrati ad essere sensibili agli scopi umani possono
sembrare straordinariamente esperti nel “predire”,
“leggere”, cosa desiderano i loro padroni o cosa
faranno.
La scoperta dei neuroni specchio rhesus riportata per
la prima volta nel 1992 da Rizzolatti, ha incoraggiato
62
l’attribuzione di stati mentali a se stessi e ad altri. I
neuroni specchio sono un sottoinsieme di neuroni che
rispondono sia quando la scimmia vede un individuo
compiere un'azione (portare il cibo alla bocca) sia
quando esegue lei stessa quell’azione.
L'esistenza dei neuroni specchio come capacità di
attribuire agli altri intenzioni e scopi nasce dall'idea che
il cervello umano è organizzato in maniera simile a
quello delle scimmie. Alcuni neuroscienziati hanno
sostenuto che i soggetti autistici presentano
un'anomalia cerebrale nel sistema dei neuroni specchio,
poiché mostrano insufficiente comprensione dei
comportamenti altrui, mancanza di empatia e difficoltà
nell'imitazione.
Un ruolo importante è rivestito anche dall'empatia
per la sua capacità di identificare gli stati mentali altrui
(Goldman). Vedere la sofferenza altrui spesso rende
infelici noi stessi, così come osservare la gioia di
qualcun altro rende il nostro animo sollevato.
Concludendo, la morale appare come un fenomeno
naturale radicato nella neurobiologia e modificato
dall'ambiente. È la coscienza a guidare le decisioni
morali. A sua volta, la religione è ritenuta da alcuni
neuroscienziati la “fonte” dei principi morali per le
nostre vite.
Invero,
nelle
tradizioni
metafisicamente
significative, la relazione tra Dio e la moralità è stata
spesso considerata assiomatica. Il genetista Francis
63
Collins ha sostenuto che Dio «ha fatto dono all'umanità
della conoscenza del bene e del male, espressa dalla
legge morale). La moralità è qualcosa di reale perché
essa è fondata sulla “nostra biologia”, sulla nostra
capacità di avere compassione e di manifestare empatia.
A costituire la radice della moralità è il passaggio dalla
“cura del sé” alla “cura dell'altro” (prole, partner e
individui extraparentali).
L'ossitocina, in sintonia con la dopamina e gli
oppiacei endogeni, riveste poi un peso rilevante nella
moralità. Alti livelli di ossitocina sono implicati nei
processi della crescita, nei processi sociali e morali, nella
generosità, nella cooperazione, nell'apprendimento e
nella ricompensa Un suo deficit invece interferisce con
lo sviluppo, con la socialità e la moralità e implica una
predisposizione a disturbi psichiatrici, a sindromi
psicopatiche e autistiche, anaffettività e rapporto di
coppia. Dobbiamo inoltre sottolineare l'efficacia di una
delle facoltà cognitivo- morali più importanti di cui
siamo dotati, la capacità, chiamata empatia, di
“leggere” nella mente dell'altro per interpretarne
emozioni, intenzioni, scopi e credenze, e quindi
“predirne”
il
comportamento.
Una
capacità
strettamente legata al sistema dei “neuroni specchio”,
quei neuroni che si attivano - come abbiamo detto - sia
quando un individuo esegue un'azione sia quando vede
la stessa azione svolta da un suo simile.
64
Storicamente, il saggista tedesco Paul Rée fu un
pioniere nello studio dei meccanismi neurobiologici
alla base dell'etica. Influenzato dalle ricerche di Darwin,
pubblicò nel 1877 “L'origine dei sentimenti morali”.
65
La bibbia degli
psichiatri
La psichiatria, come concorda Binswnger, è
essenzialmente “una scienza dell’uomo, dell’esistenza
umana”. L’attività dello psichiatra, ma così di tutti gli
operatori della salute mentale, deve essere orientata
all’incontro con l’altro, diretto cioè a “comprendere”
l’essere umano nella sua globalità.
Come nota Callieri, il grande merito della psichiatria
della seconda metà dell’Ottocento fu quello di
“identificare” raggruppamenti costanti di sintomi. Di
qui, la classificazione, l’ordinamento tassonomico e
quindi la configurazione di vere e proprie entità di
malattie.
Siamo dunque arrivati alla “ Bibbia degli psichiatri”?
Diciamo che il DSM-5 rappresenta un prezioso e
indispensabile strumento di riferimento per psichiatri,
medici e per tutti gli operatori della salute mentale. Una
disciplina che ha per oggetto lo studio clinico e la
terapia dei disturbi mentali e dei comportamenti
patologici.
Un campo- rileva Karl Jaspers- situato fra
“Naturwissenschaften”, e cioè scienze della natura, e
66
“Geisteswissenschaften”, scienze umane, come per
l’appunto è la psichiatria. Nella quale non è possibileprecisa Vizioli- adottare il metodo riduzionistico o per
lo meno non è possibile far proprio il modello biologico
delle altre discipline mediche. Infatti quello che manca
in psichiatria è proprio il modello medico, costituito di
etiologia
(sconosciuta),
patogenesi
(ignota),
fisiopatologia (non verificabile), anatomia patologica
(assente), diagnosi (affidata alla soggettività
dell’osservatore), prognosi (impossibile), terapia,
fondata solo su ipotesi e “fortemente generatrice di
effetti iatrogeni molto gravi, come ad esempio, il
parkinsonismo da neurolettici nella schizofrenia”.
I disturbi psichiatrici vengono classificati in base a tre
tipi di indirizzo. Il primo prevede l’individuazione
clinica di insiemi di comportamenti stabili. Il secondo
tipo comporta la “ricostruzione” di una storia vissuta
della sofferenza umana. Il terzo tipo riguarda la
“definizione” dell’ambito neurobiologico in cui la
patologia si forma.
Gli orientamenti principali della psichiatria
concernono una concezione di tipo “fenomenologico”.
Il quale considera la malattia mentale una “rottura”
della comunicazione e delle relazioni interpersonali.
Secondo un’altra dottrina, la malattia mentale è più
“implicita”
nell’organizzazione
della
psiche.
L’approccio clinico sostiene che le malattie mentali
67
(psicosi e nevrosi) sono aspetti di differenti livelli di
“dissoluzione” psichica.
L’impostazione eziopatogenetica invece afferma che
la malattia mentale “dipende” da processi organici.
Nell’attività psichiatrica, l’intuito clinico e
l’esperienza non costituiscono di per sé un paradigma
assoluto, in mancanza di punti specifici di riferimento
concettuali, che hanno la funzione di “provare” o
“confutare” la loro validità.
Ove l’individuazione e la descrizione dei sintomi
non siano state condotte con sistematicità su tutte le
aree psicopatologiche è difficile pervenire a diagnosi
certe. Vogliamo asserire che per ottenere una diagnosi
secondo i parametri del DSM, il metodo psichiatrico
deve essere strutturato secondo canoni irrinunciabili,
ovvero secondo i principi guida sottesi alla valutazione
e al trattamento.
Un obiettivo fondamentale è poi quello di
individuare e svelare i conflitti inconsci del paziente,
identificando le sue difese e analizzando le sue
resistenze. La prerogativa è quella di realizzare il
duplice obiettivo della diagnosi e della terapia.
Dobbiamo poi precisare che i disturbi psichiatrici
rivelano un insieme di segni, sintomi e comportamenti.
Si tratta allora di classificare i disturbi del paziente e le
disfunzioni in accordo con le categorie diagnostiche
stabilite dai criteri del DSM-5. La diagnosi così
formulata aiuta a emettere la prognosi e a individuare
68
il trattamento più efficace. Per riconoscere inoltre tutti i
fattori eziologici che concorrono alla comparsa della
patologia psichiatrica, il clinico deve far riferimento a
un sistema diagnostico multiassiale. Occorre in
sostanza riconoscere, inquadrare e approfondire i
criteri del DSM, allo scopo di sviluppare una piena
comprensione dei molteplici, delicati e complessi
aspetti, riguardanti la diagnosi, la cura e la prognosi.
La realizzazione della quinta edizione del Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) è il
risultato di un’impresa enorme nell’intento di
accrescere la sua validità ed efficacia clinica come guida
e modello nella diagnosi delle patologie mentali.
Risale al 1844 la prima classificazione statistica che
precede il DSM, elaborata dall’”American psychiatric
association” (APA). Dopo la seconda guerra mondiale,
il DSM ha subito positive evoluzioni attraverso quattro
edizioni. Il più recente è il DSM-IV. L’attuale edizione,
il DSM-5, si basa sulle precedenti pubblicazioni ed è
finalizzata a fornire le linee guida per orientare le
decisioni circa la diagnosi, il trattamento e la gestione
dei soggetti.
Sono stati apportati molti cambiamenti nel DSM-5
rispetto al DSM-IV. Nel precedente testo veniva
utilizzato il termine “ritardo mentale”. Negli ultimi
anni, la nozione di “disabilità intellettiva” (disturbo
dello sviluppo intellettivo) è divenuta di uso comune. I
“disturbi della comunicazione” comprendono il
69
“disturbo del linguaggio”, il “disturbo foneticofonologico” e il “disturbo della fluenza con esordio
nell’infanzia” (in precedenza balbuzie).
Il “disturbo dello spettro dell’autismo” è un nuovo
disturbo introdotto nel DSM-5, sindrome che ingloba il
disturbo autistico, il disturbo di Asperger, il disturbo
disintegrativo dell’infanzia, il disturbo di Rett e il
disturbo dello sviluppo. Anche i criteri diagnostici del
“disturbo da deficit di attenzione/iperattività” (DDAI)
hanno subito importanti cambiamenti. A sua volta, il
“disturbo specifico dell’apprendimento” comprende la
diagnosi del DSM-IV di disturbo della lettura, disturbo
del calcolo, disturbo dell’espressione scritta e disturbo
dell’apprendimento non altrimenti specificato. Per la
“schizofrenia” sono stati effettuati due cambiamenti: 1)
l’eliminazione della nozione di deliri bizzarri e
allucinazioni uditive, e 2) l’aggiunta della richiesta che
almeno uno dei sintomi del Criterio A faccia riferimento
a deliri, allucinazioni o eloquio disorganizzato.
Cambiamenti sono poi stati operati ai “Disturbi
bipolari e disturbi correlati”, ai “Disturbi depressivi”, ai
“Disturbi d’ansia”, al “Disturbo ossessivo-compulsivo
e disturbi correlati”, ai “Disturbi dissociativi”, ai
“Disturbi da sintomi somatici e disturbi correlati”, ai
“Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione”, ai
“Disturbi del sonno-veglia”, alle “Disfunzioni
sessuali”, ai “Disturbi neuro cognitivi”, ai “Disturbi di
personalità” e ai “Disturbi parafilici”.
70
C’è un altro cervello?
L’altro cervello è la storia delle cellule gliali, che
costituiscono l’per cento delle cellule presenti nel
cervello. Le scoperte del loro funzionamento stanno
provocando una “rivoluzione” nelle neuroscienze. Il
termine glia, o neuroglia, viene introdotto a metà del
19° sec. per indicare la sostanza o “cemento nervoso”
(dal greco glia, “colla”) che circondava e sosteneva i
neuroni. La cui sopravvivenza e funzionalità
dipendono dalle interazioni reciproche che si
stabiliscono fra glia e neuroni.
Nello sviluppo e nel funzionamento del sistema
nervoso, la glia riveste un ruolo fondamentale,
testimoniato dal suo coinvolgimento in molte
neuropatologie, fra le quali il meccanismo di neuro
degenerazione, ischemia cerebrale, malattia di
Alzheimer, morbo di Parkinson, epilessia, autismo, ecc.
Il cancro al cervello e la sclerosi multipla sono il
prodotto di cellule gliali malate. Esse poi occupano una
funzione importante anche in malattie psichiatriche
come la schizofrenia, la depressione e i disturbi d’ansia.
La ricerca ha inoltre scoperto che le glia “riparano” il
cervello e il midollo spinale in seguito a lesioni o ictus.
71
Queste cellule operano lentamente e influenzano in
sostanza grandi settori del cervello.
I neuro scienziati hanno scoperto che quando una
donna rimane incinta, le glia intorno alle sinapsi che
controllano l’allattamento cambiano la struttura fisica
di questa regione cerebrale. Partendo da questa base, i
ricercatori stanno cominciando a comprendere molti
altri processi cerebrali, come i circuiti che regolano la
coordinazione fisica e la memoria muscolare. Le più
importanti funzioni cerebrali delle cellule glia
sembrano essere quelle di “agganciare” gruppi di
neuroni che non sono collegati fra loro e di “guidare”
l’attività neuronale nei ritmi veglia-sonno.
Invero, i neuro scienziati hanno cominciato a
esplorare l’altro cervello solo negli ultimi anni.
Sappiamo ancora poco sulle cellule gliali. E tuttavia, le
ultime scoperte, riguardanti la loro influenza su grandi
territori del cervello fanno ritenere che le glia possono
partecipare ad attività mentali molto diverse come
indirizzare i nostri desideri inconsci, partecipare allo
stimolo della sete, alla nascita, alla maternità, all’amore,
al controllo del sonno, alla scelta del partner, ai
comportamenti
sessuali
e
ai
processi
dell’apprendimento e della memoria.
Le neuroscienze hanno scoperto poi che quando una
donna rimane incinta, le glia intorno alle sinapsi che
controllano l’allattamento “cambiano” la struttura
fisica di questa regione del cervello. Partendo da tale
72
presupposto, i ricercatori stanno cominciando a
comprendere molti altri processi mentali, aprendo in tal
modo una nuova prospettiva su come le glia possano
“alterare” la struttura del cervello e quindi la sua
funzione, in relazione anche ai processi mentali
inconsci. Le funzioni dell’altro cervello svolgono una
posizione significativa anche nel cervello cosciente,
nell’apprendimento, nel pensiero e nella memoria. Le
gliali insomma ci “abbagliano” con la loro moltitudine
di canali di comunicazione. L’altro cervello infatti
coordina gruppi neurali, regola l’eccitabilità delle reti
neurali, migliora o inibisce la forza sinaptica. Durante
lo sviluppo e nell’apprendimento, le glia sembrano
essere le “attrici principali”.
Oggi, i neuro scienziati stanno cominciando a
scoprire i segnali scambiati da neuroni e cellule gliali.
Queste appaiono le “principali regolatrici” della mente,
hanno la capacità di aumentare di numero con
l’esperienza, sono in grado di “costruire” il cervello di
un feto, di “guidare” la connessione dei suoi assoni, di
“riparare” il sistema nervoso dopo una lesione, di
“collegare” le sinapsi e di dare vita a nuovi neuroni.
73
La donna nel tempo:
letteratura, arte, cinema,
psicoanalisi e
neuroscienze
Si parla poco e si conosce poco o nulla della donna,
delle capacità del suo cervello e della sua evoluzione nel
tempo. Finora, soltanto le fantastiche scoperte della
nuova scienza del cervello e della mente, come diremo
appresso, stanno facendo luce sul pianeta ancora
sconosciuto e misterioso della donna. Occorre un salto
di qualità, un cambiamento soprattutto culturale e
aprire un serio e approfondito dibattito sulla figura
della donna così come è stata considerata nelle diverse
società e culture, allo scopo di creare forme di
convivenza per il progresso dell’umanità. Solo
acquisendo la conoscenza si possono eliminare infatti le
ingiustizie, i pregiudizi e gli stereotipi di cui le donne
sono state vittime nel corso dei secoli.
L’analisi della ricerca in materia mostra infatti che la
condizione femminile è stata quasi sempre
caratterizzata da assenza, esclusione e da uno stato di
inferiorità sia sul piano sociale che politico e giuridico.
74
La giustificazione è stata legata principalmente ad una
presunta inferiorità fisica. Emerge l’immagine di una
donna che via via è una presenza priva di rilievo,
oggetto, schiava, domestica, casalinga, regina, eroina. E
comunque sempre avvolta in un alone di mistero.
Nell’oscurantismo socio- culturale del mondo antico,
non mancano tuttavia elementi che offrono un ritratto
diverso della donna, vista come creatura dotata di un
intelletto, di un cuore e virtù pari a quelli degli uomini.
Soprattutto in alcuni scrittori cristiani dei primi secoli,
acquista luce e spessore storico una variegata presenza
femminile, che può essere ricondotta ad una
quadruplice categoria: sono vergini, spose, madri,
vedove. Ognuna con una propria dignità e personalità
inalienabile. Madre ed educatrice premurosa e
insostituibile dei figli, sposa laboriosa e sostegno forte e
discreto del marito, amministratrice saggia della casa.
Insomma un dono generoso, una presenza preziosa.
In tutte le civiltà esiste una distinzione tra ruolo
femminile (la sfera dell’interno, la casa, i figli) e ruolo
maschile (la sfera dell’esterno, la conquista del mondo).
Molti antropologi ipotizzano che nella preistoria vi
fosse una sostanziale situazione di parità tra i sessi. È
indubbio tuttavia che la maggior parte del mondo ha
vissuto in un regime patriarcale. L’ipotesi del
matriarcato è stata negata da autorevoli antropologi,
come Lévi- Strauss, Fox e Morin. Anche Simon de
Beauvoir,
la
scrittrice
francese
considerata
75
un’antesignana del femminismo, condivide questa
concezione. La società - scrive - “è sempre stata
maschile; il potere è sempre appartenuto agli uomini”.
Invero, a partire dai poemi omerici, la donna è
sottoposta all’autorità del marito, anche se gode di una
certa considerazione e libertà. L’Iliade infatti è un’opera
piena di figure femminili, che esercitano una funzione
di pacificazione e di equilibrio. La Bibbia presenta come
immagine costante il ruolo subalterno e dipendente
della donna. Nel testo poi è assente la parola
“uguaglianza”. Nel libro della Genesi (3, 16) sta scritto:
“Sarai sotto la potestà del marito ed egli dominerà su di
te”. Nella lettera ai Corinti, san Paolo afferma: “Il capo
della donna è l’uomo, capo dell’uomo è Cristo, capo di
Cristo è Dio”.
La donna della civiltà greca, soprattutto la donna
ateniese, vive isolata. La sua capacità giuridica è
praticamente nulla. La società etrusca invece tiene in
grande considerazione la donna. Rispetto a quella
greca, la donna a Roma gode di maggiore libertà. I
romani affidavano alle loro spose il dominio della casa.
La parola donna infatti deriva dal latino “domina”, che
significa padrona.
Con il Cristianesimo e il Medioevo, la condizione
femminile assume una nuova immagine, un’immagine
più spirituale. Nascono movimenti femminili e molte
istituzioni monastiche.
76
È con il XVIII e il XIX secolo che emergono nuove
idee e le prime conquiste sociali con il riconoscimento
dei diritti civili. Sull’esempio degli Stati Uniti anche in
Italia viene promulgata una legge nel 1919 che dava alla
donna sposata la disponibilità dei suoi beni personali. Il
diritto di voto alla donna in Italia avverrà nel 1945,
mentre nel 1962 si avrà la parità giuridica nel lavoro.
In sostanza, dal dopoguerra ad oggi, la condizione
femminile appare profondamente mutata. La donna di
fatto ha raggiunto un riconoscimento giuridico, politico
e sociale, dopo decenni di battaglie per l’affermazione
dei propri diritti. La partecipazione al lavoro in Italia
della donna è la più bassa in Europa. Uno studio recente
mostra poi che le ragazze italiane sono più brave dei
ragazzi in tutte le materie (fonte Ocse). La questione
femminile deve dunque essere posta al centro sia del
programma di governo che dell’attenzione della scuola.
Oggi, la sconvolgente evoluzione della società e il
progresso tecnologico hanno posto in evidenza la crisi
della famiglia, della scuola e della società.
La donna risulta assoggettata a un doppio lavoro:
quello in casa e quello che presta all’esterno. È
soprattutto una crisi di codici etici, che sempre devono
dirigere le azioni umane. Siamo perciò di fronte a una
società caratterizzata da anomia, assenza di valori. Una
grave desertificazione e desacralizzazione. Crescono
dunque i disturbi psichiatrici, ansia, depressione fino a
lambire bambini di 2 anni d’età. È in atto nella società
77
un processo di violentizzazione, un processo strisciante,
subdolo, ambiguo, che via via cresce sempre di più. È
una condizione che in Italia abbiamo rivelato per primi
sin dagli anni Novanta in una pubblicazione con il
professor
Giovanni
Bollea,
il
padre
della
neuropsichiatria infantile.
La donna nella letteratura e nelle arti
Nel corso dei secoli, la donna è stata oggetto di
diverse analisi e interpretazioni. Diciamo anzitutto che
in tutte le culture è riconosciuto il ruolo della donna che
crea cultura. Mentre in Occidente è stata vista per lungo
tempo come soggetto dedito alla riproduzione, nella
letteratura e nelle arti ha sempre svolto un ruolo
importante.
Una connotazione positiva assume nel Medioevo, un
periodo dominato da una concezione rigida dell’etica, e
nei più grandi poeti italiani. Pensiamo alla donna
stilnovista, alla donna angelicata rappresentata dalla
Beatrice di Dante. Da parte sua, la letteratura cortese
(1100) è fondata sulla sublimazione della donna,
esaltata come la più bella e la più nobile, un essere
dotato di qualità interiori e di principi morali. Diversa
invece la donna del Boccaccio non più divina, ma più
naturale e umana. Il Romanticismo esalta la figura
femminile, mentre nel Novecento i poeti assistono alla
battaglia per i pari diritti femminili fino ad arrivare
all’emancipazione giuridica.
78
La donna è la profonda ispiratrice di quasi tutte le
arti. Volti, sguardi, espressioni scandiscono e
descrivono l’universo femminile attraverso la magia
pittorica nel corso dei secoli, a partire dalla civiltà egizia
e cretese, quando si comincia a scoprire il fascino e
l’armonia della donna. Sono poi gli autori greci a
fornirci i canoni estetici e filosofici della donna
modernamente intesa. Essi passano dalla donna madre,
generatrice di vita, alla vergine vestita e al nudo
dell’Afrodite.
Vesti fluenti ed espressione dignitosa raffigurano la
donna nell’arte romana, mentre quella bizantina la
ritrae raffinata. Oggetto di piacere negli affreschi
pompeiani, si passa a una rappresentazione ieratica e
mistica dell’immagine femminile, svuotata di ogni
connotato sensuale ed erotico. Vengono infatti dipinte
Madonne e Sante, tutte legate al loro ruolo salvifico. Il
Cristianesimo e il Medioevo esprimono la bellezza nelle
immagini sacre. La donna per eccellenza, Maria, è
protagonista indiscussa in tutti i campi dell’arte fino ai
tempi odierni.
Emerge una figura femminile concepita nella sua
dimensione sacrale e nel suo essere pensante, artefice
della storia, con pari e talvolta superiore dignità rispetto
all’uomo.
La bellezza femminile risplende soprattutto dal
Rinascimento al cubismo con le opere meravigliose di
artisti, quali Leonardo da Vinci, Raffaello, Tiziano,
79
Botticelli, Perugino, El Greco, Manet, Renoir, Paul
Gauguin, Dalì, Modigliani, Picasso. Sono opere di
intensa e raffinata suggestione, che esaltano i canoni
estetici, i sogni, le aspirazioni, la dimensione
psicologica, inconscia ed onirica della donna e ne
documentano l’evoluzione.
La donna nel cinema
Si avverte una chiara evoluzione del personaggio
femminile nel cinema. All’inizio, mogli, madri, amanti.
Che storicamente diventano una costante. Una donna
seduttiva e compiacente. All’alba di questo secolo, la
donna è rappresentata attraverso storie di maternità e
femminilità negate, spesso scelte per poter competere in
un mondo maschilista che costringe a comportarsi
come gli uomini. Affiora una figura di donna crudele,
sbagliata, ignorata. Una donna cattiva, sessualmente
perversa e genitorialmente inadeguata. Fa da contrasto,
una figura di donna assunta come agnello sacrificale di
una società in cui la regola è la sopraffazione sulla
gentilezza. Di qui, la donna oggetto di abusi sessuali e
di prepotenza sino alla tragedia della sua uccisione. In
questa rappresentazione drammatica appare anche una
dimensione positiva: una nota di speranza per il futuro
in forza di quella pulsione materna che porta con sé il
sentimento dell’altruismo e dell’empatia. È una donna
che sa guardare più lontano degli uomini. Un motore
nell’evoluzione della specie, la raffigurazione di figure
80
di donna e di madre “eroiche”. È il riscatto da una
condizione di frustrazione e sottomissione millenaria.
La donna nella psicoanalisi
Freud definisce la donna il “dark continent” della
psicoanalisi, un mondo misterioso, oscuro. “La grande
domanda alla quale non sono riuscito a rispondere,
nonostante trent’anni di ricerca sull’anima femminile èscrive Freud-: che cosa vuole una donna?”. Su questa
linea si pongono anche autorevoli scrittori, come
Dostoevkij- “Io non ci capisco niente”-; Erasmo da
Rotterdam- “un essere misterioso, incostante, un paese
straniero”-; Guido Gozzano- “un mistero senza fine”;
Karl Kraus - “un essere insondabile”; Kierkegaard odio le chiacchiere sulla donna. Tra gli autori, si
distingue Goethe, il quale afferma: “Le donne sono tutte
più avanti”. Freud propone due tipi di femminilità: 1.
La donna oblativa, masochista, tutta realizzata nella sua
funzione; 2. L’amante narcisista, autoerotica, incapace
di amare, ma tesa soltanto ad essere amata. Emerge una
concezione che vede la femminilità coincidere con la
passività non solo sul piano sessuale, ma in tutte le aree
della vita psichica. Completano questo quadro la sua
struttura anatomica, la gracilità fisica e l’influenza
dell’ambiente
socio-culturale.
L’analisi
della
psicoanalisi complessivamente presenta tre modelli
fondamentali: a) tipo erotico, che si lascia facilmente
conquistare; b) donna difficile da conquistare; c) donna
81
materna, che rappresenta la fase evolutiva più avanzata
della femminilità. Scorgiamo l’eco di temi importanti
nella cultura occidentale, come la concezione
aristotelica che attribuisce alla natura femminile
l’eccesso del desiderio e l’dea platonica della
opposizione tra anima razionale ed anima
concupiscibile e infine l’antifemminismo della
tradizione giudaica e della patristica, concezioni
sublimate nella cultura ottocentesca dall’ideale
dell’eterno femminino di Goethe.
Le caratteristiche attribuite di volta in volta alla
femminilitàirrazionalità,
fantasia,
creatività,
emotività, sessualità- sono le stesse che Freud
riprenderà nel modello di inconscio sul quale costruirà
il suo edificio teorico e la sua base terapeutica.
La madre
Freud presenta un’immagine di madre capace di
creare con il bambino una “unione indissolubile”.
Successivi studi evidenziano che la diade madrebambino costituisce un’imprinting, ed ha una
importanza “vitale” per la personalità e lo sviluppo
cognitivo. La rottura di questo legame, la separazione
dalla madre, la sua perdita- afferma Anna Freud - è
“una
situazione
devastante”.
Un’abbondante
letteratura ha analizzato il ruolo della madre da diverse
prospettive e ha descritto gli effetti disastrosi della
carenza di cure materne sulla personalità. Ci sono stati
82
periodi storici caratterizzati da una frequenza
all’infanticidio. Sono stati descritti modelli “patogeni”
della relazione madre-bambino, quali l’iperprotettività,
la sindrome del bambino “vulnerabile”, la madre
“schizofrenogena”, le madri “a rischio”, la madre
psicotica, la madre ambivalente, la madre “frigorifero”.
Nei secoli, la cultura ci trasmette poi immagini di donne
che esercitano una violenza assassina sui loro figli, a
cominciare dalla tragedia greca di Medea, che uccide i
suoi figli e li dà in pasto al marito che l’ha tradito. Tutto
mostra –secondo molti autori- che l’amore materno non
è privo di ambivalenza (Winnicott).
La donna nelle neuroscienze
Non è molto lontano il tempo in cui si riteneva che la
differenza tra uomini e donne consistesse in una
fondamentale superiorità degli uomini. All’inizio del ‘,
un noto autore, Gustave Le Bon, commise l’errore di
concludere che la cosiddetta inferiorità femminile è
“talmente ovvia che nessuno perderebbe tempo a
contestarla”. Oggi, possiamo contestarla con dati
neuroscientifici, cioè sicuri, obbiettivi. Recenti ricerche
dimostrano infatti che vi sono campi in cui eccellono le
donne e campi in cui eccellono gli uomini.
L’intelligenza non è prevalente in uno o nell’altro sesso,
ma i profili (le inclinazioni) sono diversi. Gli individui
sono per l’appunto individui, diversi l’uno dall’altro.
Non esistono due cervelli uguali.
83
Una delle più affascinanti e recenti scoperte delle
neuroscienze è che non esiste un cervello unisex. Il
cervello di uomini e donne è diverso fin dal momento
della nascita, quando il cervello femminile si presenta
più maturo di quello maschile e si sviluppa più
rapidamente, con un anticipo di circa due anni. A
partire dal primo giorno dopo la nascita, le femmine
guardano di preferenza i volti, mentre i maschi sono
attratti dagli oggetti. Il cervello femminile è
programmato per l’empatia e la comunicazione, e
mostra una maggiore abilità verbale. Il cervello
maschile è programmato per i sistemi, per le cose, e
mostra una superiorità nella capacità visivo- spaziale.
Un’altra recente, straordinaria e rivoluzionaria scoperta
è che il cervello della donna possiede più neuroni
specchio, fatto che le permette di interpretare i segnali
verbali e non verbali dei più nascosti sentimenti delle
altre persone; di capire cioè quello che gli altri pensano,
fanno e provano. Per questi motivi, le donne piangono
quattro volte più degli uomini, mentre il numero di
donne che soffrono di depressione stagionale è tre volte
maggiore rispetto agli uomini.
La peculiarità biologica della donna- il ciclo
mestruale, la gravidanza, il parto, l’allattamento, la cura
dei figli- ha una grande influenza sullo sviluppo
intellettivo, emotivo e sociale del suo cervello. Le prime
differenze del cervello si manifestano già dall’ottava
settimana di sviluppo fetale. La donna svilupperà
84
qualità uniche: una maggiore scioltezza verbale,
l’empatia, la capacità di stabilire profondi legami
affettivi, la capacità di sedare conflitti psicologici e il
pregio quasi medianico di decifrare stati d’animo ed
emozioni dalle espressioni facciali e dal tono della voce.
Le donne svolgono meglio le prove di calcolo
matematico. Le più recenti scoperte delle neuroscienze,
la nostra pluridecennale attività clinica nella cura delle
malattie mentali e i nostri libri dimostrano in sostanza
che la donna possiede un cervello “unico e differente”.
Le capacità mentali dell’uomo e della donnaconcludono i neuro scienziati- sono le stesse. Abbiamo
cioè uguali possibilità.
Il corpo, il padre, la sublimazione
Il rifiuto del corpo e del modello di donna - moglie e
madre - proposto da molte culture, richiama questioni
fondamentali della psicoanalisi quali l’Edipo
femminile, il complesso di Elettra, la sublimazione e la
rimozione. La negazione del proprio corpo e il conflitto
con il padre o la madre mostrano l’esistenza di un
processo di rimozione, un meccanismo che consiste
nell’atto di allontanare una pulsione che la coscienza
non accetta perché contraria ai principi morali.
Avviene che la pulsione, che è una forza biologica,
istintuale, sessuale, come ad esempio la pulsione
sessuale o quella dell’aggressività, possa essere
sublimata, cioè deviata verso una nuova meta
85
desessualizzata, sublimata e carica di valori scientifici,
culturali o artistici.
Il meccanismo della sublimazione è una tendenza a
ripristinare e riparare l’oggetto d’amore (come il padre
o la madre), frantumato dalle pulsioni distruttive, ostili,
di odio, invidia, gelosia, aggressività. Tutti sentimenti
che possono manifestarsi nel difficile e complesso
rapporto madre- bambino, padre- figlio, mogliemarito, alunno- insegnante. In pratica, cosa succede
nello sviluppo della bambina? Nella bambina si
sviluppa una inclinazione per il padre e un
corrispondente comportamento di gelosia verso la
madre. Questo complesso è definito complesso di
Elettra. È sinonimo del complesso edipico maschile,
l’amore per uno dei genitori e l’odio per l’altro in
quanto rivale. L’opposizione della bambina al modello
di moglie e madre può creare stati di ansia, di
frustrazione e un processo inconscio di rimozione. Tutti
fattori che possono condurre una bambina a non
accettare il proprio corpo. In un sistema repressivo,
ogni pensiero (o azione) si può tradurre in un forte
senso di colpa. La ragazza così si mostra insofferente dei
vecchi vincoli e della repressione dominante ed è tutta
tesa alla ricerca di una crescita verso l’autonomia, la
libertà e l’indipendenza.
86
Il senso di una crisi
Invero, viviamo una profonda crisi, soprattutto
culturale e morale; una desertificazione delle coscienze;
un vuoto e un’assenza di norme e principi condivisi
(valori) e il prevalere, come scrive George Bernanos, di
arroganza, maleducazione e mancanza di rispetto. Lo
ha detto di recente anche un grande teologo, il Papa
Benedetto XVI: “Occorre- ha dichiarato - l’educazione
al rispetto”.
Come superare questa situazione di crisi? Autorevoli
studiosi, d’accordo con autori come Socrate e Platone,
ripongono la loro fiducia nella fede verso la scienza, il
cervello umano e la morale. L’essenza della persona,
uomo e donna, sta nella sua anima, nel suo cervello.
Occorre allora che l’essere umano si impegni nel
rendere l’anima la migliore possibile. Una vita senza
ricerche (ricerca del bene, della virtù, del rispetto,
dell’empatia, dell’educazione) - scrive Platone - “non è
degna per l’uomo di essere vissuta”.
87
Come si evolve la mente
La nuova scienza del cervello e della mente è alla
ricerca di una propria, autonoma epistemologia in
grado di fornire finalmente i primi, sicuri riscontri
oggettivi su un problema fortemente complesso,
scivoloso e misterioso qual è quello della coscienza. Vi
sono stati notevoli progressi, ma le teorie al riguardo
appaiono insufficienti, talora ingenue e velleitarie. Dal
punto di vista strettamente scientifico siamo agli albori
di una vera scienza del cervello e della coscienza.
Se poi cominciamo a definire la coscienza- alla
maniera di Metzinger- come “l’apparire di un mondo”
ci troviamo più nell’universo filosofico di Platone che in
quello neuroscientifico di Kandel o Edelman. Invero,
nella storia del pensiero si assiste ad un perenne
tentativo umano di comprendere la mente cosciente.
Una delle ipotesi è che la coscienza sia una forma di
conoscenza superiore che accompagna i pensieri e gli
altri stati mentali.
Nel pensiero classico, nella letteratura e nella
filosofia scolastica medievale, conscientia si riferiva alla
“coscienza morale”. La coscienza qui è intesa come
spazio interiore. Un’altra ipotesi riguarda il concetto di
coscienza interpretato come “integrazione”: la
88
coscienza è ciò che “lega” le cose insieme. In questa
accezione, si parla di “unità di coscienza”, che è la
capacità della coscienza di legare sia le differenti parti
della nostra esperienza cosciente, che quelle del mondo
in cui ci troviamo a vivere, in una singola realtà. L’idea
dell’unità della coscienza è una delle maggiori
conquiste ottenute nello studio del nostro cervello.
L’unità della coscienza viene così vista come una
proprietà dinamica del cervello umano.
Esistono convergenti prove che “tutti i vertebrati”
hanno esperienze fenomeniche (Metzinger). Possono
anche non possedere pensiero e linguaggio, ma
sicuramente essi provano “sensazioni ed emozioni”, e
sono in condizione di soffrire. L’idea di molti
neuroscienziati è che uccelli, rettili e pesci abbiano
avuto “qualche forma di coscienza”. Le prove
empiriche a favore della coscienza animale sono ormai
“al di là di ogni ragionevole dubbio” (Botvinick,
Cohen). È notevole poi l’evidenza dell’esistenza di
molte strutture cerebrali che sottendono la coscienza.
Questa è anzitutto un processo interno, legato cioè a
una prospettiva individuale in prima persona. È un
fenomeno soggettivo. Il tuo mondo interiore non è il
mondo interore di qualcuno, è il tuo mondo interiore,
un dominio privato di esperienza a cui solo tu hai
accesso diretto. Questa è la ragione fondamentale che
rende la coscienza un fenomeno elusivo.
89
Sappiamo che è possibile condurre ricerca scientifica
solo su oggetti dotati di proprietà che sono “osservabili
da tutti”. L’esperienza cosciente invece ha un carattere
soggettivo, intimo; è accessibile soltanto a una singola
persona: il soggetto dell’esperienza. Molti autori
ritengono pertanto che la coscienza sia, come dicono i
filosofi, ontologicamente irriducibile, poiché i fatti in
prima persona “non possono essere ridotti a fatti in
terza persona”. Diciamo di più. Gli elementi soggettivi
della coscienza sono talmente evasivi che neppure il
soggetto che fa esperienza possiede alcun criterio
interno per identificarli tramite introspezione.
Il tentativo di comprendere la soggettività è il
“rompicapo” più problematico che si possa trovare
nelle ricerche in questo campo. Gli stati cerebrali sono
osservabili. Vi sono i campi recettoriali per i vari stimoli
sensoriali. Sappiamo dove hanno origine i contenuti
emotivi. Conoscere gli stati del cervello o sapere dove
hanno origine la memoria o le emozioni non ci
permetterà però mai di capire come questi stati
soggettivi vengano vissuti dalla persona in questione.
Come i correlati neurali della coscienza, cioè come
queste configurazioni di attivazione neurale riescano
poi a dare vita a pensieri, sensazioni, emozioni e così via
rimarrà un enigma forse per molto tempo ancora.
E allora se i contenuti della coscienza sono ineffabili
e sfuggenti (non si può spiegare a un non vedente
90
l’essere rosso di una rosa) come potremo fare ricerca
scientifica su di essi? Per risolvere il problema, il modo
migliore, secondo alcuni autori, è quello di negare
l’esistenza delle esperienze soggettive coscienti
(Churchland). In questo modo la nostra non sarebbe
un’esperienza soggettiva, ma qualcosa di fisico, uno
stato neurale, cerebrale. Dobbiamo pertanto usare
concetti neurobiologici, i quali ci permettono di
“scoprire” molte più cose e “arricchire” le nostre vite
interiori. L’avvento di una concezione neuroscientifica,
che Churchland chiama “ materialismo eliminativista”,
riguardante gli stati psicologici costituirà non un
“tramonto”, bensì “un’alba” in cui la meravigliosa
complessità del cervello e della mente viene finalmente
rivelata.
La coscienza dunque viene concepita come “un
nuovo tipo di organo”, un fenomeno inerentemente
biologico. Gli organismi biologici- afferma Metzingersviluppano due tipi di organi. Il primo riguarda, ad
esempio il cuore o il fegato. Il secondo tipo è costituito
da organi “virtuali” come i sentimenti (coraggio, rabbia,
gioia, desiderio, ecc. ), l’esperienza di vedere oggetti
colorati, di ascoltare musica o di avere una certa
memoria. All’interno di questa coscienza biologica
inizia a dispiegarsi la vita soggettiva.
In realtà, l’enfasi sul primato della ragione prima e le
neuroscienze ora stanno irrevocabilmente dissolvendo
l’immagine giudaico-cristiana delle società occidentali
91
che da sempre è stata una delle componenti di coesione
sociale e morale. L’immagine cioè di un essere umano
che conterrebbe il segno immortale del divino.
Il pericolo è che “spazzando” via la religione e le
credenze oggi l’uomo possa vivere quella condizione
che Max Weber chiamava “disincanto del mondo”. Un
ulteriore pericolo è rappresentato dalle scoperte delle
neuroscienze, le quali possono essere seguite da un
“vuoto” antropologico ed etico in assenza di un terreno
comune per i valori e le esperienze morali condivise.
Distruggendo qualunque cosa in cui l’umanità ha
creduto negli ultimi venticinque secoli, lo scenario, per
Metzinger, è quello del primato di un “volgare
materialismo”. Disponiamo di cervelli, ma non di
anime immortali. Non ci sarà mai una vita dopo la
morte. Ognuno di noi è solo e vive su un pianeta
desolato, in un universo fisico freddo, vuoto e triste.
In questa drammatica svolta materialistica
l’immagine dell’uomo è avvolta quindi da un “vuoto
etico”. E in una realtà in cui l’attuale esplosione di
conoscenze nelle neuroscienze è “fuori controllo”
guidata da “interessi individuali di carriera” e sotto
l’influenza di “egoismi”.
E tuttavia l’aspetto positivo della nuova immagine
dell’essere umano è che le neuroscienze hanno svelato,
pur nella profondità ancora imperscrutabile degli stati
soggettivi, l’enorme numero di configurazioni neurali
92
possibili nei nostri cervelli e la vastità dei diversi tipi di
esperienza soggettiva. La consapevolezza di avere a
disposizione una quantità immensa di stati fenomenici
e la possibilità di farne sistematicamente uso sono
elementi di notevole significato umano, scientifico e
sociale.
La cosa nuova e straordinaria oggi è che stiamo
iniziando a scoprire le basi neurali di tutti questi stati
soggettivi. I progressi delle neuroscienze renderanno
accessibili alla scienza l’esperienza soggettiva e ci
consentiranno di superare i limiti delle nostre
conoscenze sul nostro cervello e sulla nostra mente. Le
sfide maggiori riguardano il “modo” in cui le
sensazioni soggettive, i cosiddetti qualia, emergano
dall’attività dei neuroni.
Dobbiamo però trovare il sistema di avere a che fare
con queste stupefacenti possibilità in maniera
intelligente e responsabile, altrimenti andremo incontro
a una serie di rischi. È per questo motivo che abbiamo
bisogno di una nuova branca dell’etica applicata,
ovvero dell’etica della coscienza. Dobbiamo cominciare
a pensare- sottolinea Metzinger- a cosa vogliamo fare di
tutta questa nuova conoscenza.
Le nuove potenzialità includono addirittura la
capacità di “alterare” sia le proprietà funzionali del
cervello sia quelle fenomeniche che esse realizzano.
Possono cioè essere “manipolate” non solo le
esperienze sensoriali e quelle emotive, ma anche le
93
proprietà di livello superiore della mente, come
l’esperienza della volontà e quella dell’agentività.
Presto saremo in grado di alterare la nostra chimica
neuronale, il nostro cervello, e attivare specifiche forme
di contenuto fenomenico.
Di qui, l’avvertita e seria esigenza di un’etica della
coscienza. Nell’etica tradizionale ci si chiede: “Che cosa
è una buona azione?”. Ora dobbiamo chiederci anche:
“Che cosa è un buono stato di coscienza?” La nuova
cultura della coscienza potrebbe così riempire quel
vuoto di cui innanzi abbiamo parlato. C’è allora il
bisogno pressante di promuovere un nuovo
umanesimo nelle neuroscienze, un umanesimo
scientifico.
94
Ambiente, geni, cervello
Il nostro cervello e la nostra mente sono il “risultato”
di una lunga storia evolutiva. Per studiare il
comportamento umano e gli eventi mentali, abbiamo
pertanto bisogno di una spiegazione evoluzionista, in
quanto essa ci permette di esaminarli attraverso una
teoria unificata: la teoria evolutiva di Darwin della
selezione naturale. La soluzione evolutiva agisce,
infatti, sull’organismo nel suo complesso. La linea di
discendenza
umana,
secondo
questa
teoria,
“incomincia con una famiglia di scimmie” che si è
“diversificata in una gamma di specie ominidi”.
L’insieme delle caratteristiche bio- psichiche dei
moderni esseri umani si è strutturata lentamente lungo
il tempo evolutivo.
Per comprendere il modo con cui l’evoluzione opera,
dobbiamo considerare il fatto che tutti gli organismi e il
loro
comportamento
sono
“espressioni”
dell’interazione tra geni e ambiente. Cercare come
finora è stato fatto di separare questi due elementi non
è solo un errore, è proprio impossibile.
In base a questa concezione, la capacità del bambino
di comprendere il mondo sociale in cui vive richiede
95
una relazione tra adattamenti evolutivi antichi ereditati
e la cultura all’interno della quale egli vive.
Gli studi poi sulle decisioni di investimenti
genitoriali e sulla scelta del partner rispecchiano
considerazioni di natura evolutiva e socio- ambientale.
Nella prospettiva evoluzionista, l’ipotesi del cervello
sociale si riferisce al fatto che i primati possiedono
cervelli di dimensioni grandi rispetto agli altri individui
e che le maggiori capacità cognitive sono correlate alla
circostanza che hanno una vita sociale più complessa.
La narrazione di storie e la religione nascono dalla
necessità di rafforzare la coesione di gruppo. Molti
rituali religiosi inoltre sembrano produrre flussi di
endorfine. La ricerca al riguardo mostra che il senso di
calore e di appagamento generati dalle endorfine rende
le scimmie antropomorfe e no, più fiduciose e
affezionate agli individui con cui effettuano il
“grooming”. Il contatto fisico dello stesso tipo (carezze,
massaggi, sfregamenti) ha esattamente lo stesso effetto
sugli esseri umani. Un tocco vale, in senso letterale,
mille parole perché ci permette di capire parecchio sulla
sincerità, sui desideri e sulle intenzioni di una persona.
Da questo punto di vista, la religione si “regge” nella
società anche grazie all’apporto delle endorfine, le quali
sono provocate dal prendere parte ai rituali e al canto.
Studi recenti infine mostrano che gli esseri umani
hanno un forte senso di moralità e si impegnano in una
intensa reciprocità. I comportamenti morali si sono
96
formati attraverso un processo di evoluzione genicultura che ha selezionato l’abilità di interiorizzare le
norme. Nell’ambito delle neuroscienze- come nota
Gazzaniga-, alcuni studi hanno fatto luce sui “correlati
neurali” dell’esperienza religiosa e di quella morale. È
stato scoperto che alcune regioni del cervello sono
attive durante un certo tipo di giudizio morale, ma non
durante un altro. I nuovi dati emersi per mezzo delle
tecniche di imaging cerebrale mostrano che quando un
individuo decide di agire in base a una credenza
morale, è perché le aree cerebrali coinvolte nelle
emozioni si attivano durante la valutazione del quesito
morale in questione. Analogamente, quando viene
presentato un problema morale sul quale l’individuo
decide di non agire, è perché non si attivano le aree
emotive del cervello. Si può parlare di “una struttura
morale profonda”, cioè di una “scintilla morale”
comune a tutti gli esseri (R. M. Green).
97
Basi neuro scientifiche
della poesia
e della musica
La creatività - il libro, la poesia, la musica, la pittura
- costituisce un fenomeno carico di connotazioni arcane,
elusive e ambigue. Che accompagna l'essere umano nel
dolore e nella gioia dall'infanzia al calar dell'età.
L'arte nasce negli spazi profondi, aggrovigliati e
ancora indecifrabili del cervello. È soltanto dalla
conoscenza degli infiniti e meravigliosi meccanismi
neuronali che noi possiamo trovare le risposte alle
inesauribili domande che la creatività ci pone
continuamente.
Il crescente interesse in questo settore della nuova
scienza del cervello e della mente ha dato origine alla
nascita
di
una
nuova
disciplina
chiamata
“neuroestetica”.
Da sempre i filosofi hanno cercato di capire la genesi
e la natura dell'arte e le motivazioni profonde che
spingono l'uomo a creare poesia, pittura, musica. Oggi,
diversamente dai filosofi, i neuroscienziati sono
98
interessati a comprendere la creatività in maniera
diretta ed empirica.
Finora, gli esperimenti condotti attraverso i fantastici
metodi di brain imaging dimostrano che la creazione
artistica è un “prodotto” di un meraviglioso e
complesso processo di elaborazione cerebrale e
mentale. Essa è l'esito di un processo unico e irripetibile.
Questo perché il cervello, definito come la struttura più
complessa e prodigiosa del creato conosciuto, è “unico”
e “differente” da tutti gli altri. Non esistono al mondo
due cervelli identici.
Sull'arte e il bello abbiamo una grande varietà di
definizioni. Si va dalla più antica concezione dell'arte
come imitazione alle idee moderne di arte come
creazione e costruzione, per passare attraverso i
concetti di educazione (Platone, Aristotele, Hegel);
espressione
contemplativa,
desessualizzata
e
sublimata; raggiungimento delle profondità dello
spirito e dell'inconscio (Freud); e infine come catarsi
nella pietà, nella paura e nei desideri nel modo che
cogliamo nell'opera di Goya e Van Gogh.
Per alcuni autori, l'artista è considerato un soggetto
fragile, infantile, ipersensibile, diverso, posseduto,
maledetto. È l'idea platonica dell'invasamento
dell'artista. Ricreare il mondo è una “pazzia”. Il poeta
non sa poetare se prima non sia stato ispirato da un dio
e se non sia uscito di “senno”.
99
“Non esiste - ha scritto Aristotele - un grande
ingegno in cui non vi sia un pò di pazzia”. E Orazio:
“Aut insanit homo, aut versus facit”. Nel “Fedro”
Platone descrive una forma di esaltazione e di delirio in
cui ritiene siano autrici le Muse, e aggiunge che la sola
abilità senza il delirio delle Muse non può che dare
luogo a un artista incompleto. La poesia in sostanza
assume i connotati di una “malattia dell'uomo, così
come la perla è la malattia dell'ostrica” (Heine). L'idea
che l'origine dell’arte sia da scorgere nella malattia è
tuttavia da ricercare in epoca romantica, quando la
riflessione filosofica tedesca, l'idealismo, aveva portato
alla scoperta dell'io, e come conseguenza all'esaltazione
dell'irrazionale.
Tutto ciò che è grande nel mondo- diceva Proust“lo dobbiamo ai nevrotici”. La malattia è in un certo
qual modo “degna di venerazione” (Mann), poiché
serve ad “affinare l'uomo, e renderlo intelligente cd
eccezionale”.
Invero, il poeta, lo scrittore, il musicista, il pittore,
attingono alle sorgenti limpide e pure, ma anche oscure,
tortuose e ambigue dell'anima e ai segreti del cuore per
illuminare la strada che ogni essere umano ha deciso di
percorrere.
La spaventosa esperienza poi del dolore, del
malessere esistenziale e della depressione rende l'arte (o
la bellezza del verso) l'inizio del pauroso. Il dolore
infatti risuona nelle cadenze cosmiche di Beethoven e
100
giunge sino a noi da quasi tutte le pagine di autentica
poesia. Questa conduce la parola a protendere, per
Luzi, verso “l'ineffabile, il soprumano”. L'immagine
poetica trascende l'esperienza e assurge a musica
silenziosa, canto, melodia, suggestione, fascinazione. La
poesia è “arte-creazione”, “pensiero poetante e poesia
pensante”, ovvero effusione evocativa, intelletto
trascendente e inenarrabile, riflesso del pensiero
assoluto. La verità dell’arte, secondo Valery e
Baudelaire, è resa vera dalla Bellezza, la più sottile
qualità del pensiero.
La vera, autentica poesia - pensiamo per tutti ai versi
di Leopardi- si pone come pura essenza verbale, che
segna la lontananza esistente- scrive Carlo Bo- “tra la
dimensione immanente delle cose e gli eventi terreni e
quella assoluta della creazione artistica e del godimento
estetico”.
In ciò sta la dimensione eterna e universale della
creazione artistica, che è emanazione sia dello spirito
umano che dell'anima del mondo.
Le influenze di Freud
Carattere magico e sublimazione in Leonardo e René
Magritte
Le influenze di Freud sono state “dilaganti” (Kris)
non solo sulle forme artistiche, ma anche sull'artista e
l'osservatore, consentendoci di guardare in modo
101
nuovo alla creatività. Fa da sfondo all'opera del padre
della psicoanalisi, l'idea romantica della poesia e della
pittura intese come “lo spontaneo traboccare di forti
sentimenti”. Se il mondo esterno è rappresentato nelle
arti visive o descritto dalla poesia, questo deve essere
considerato “una proiezione dello stato mentale
dell'artista”.
Il concetto dell'arte come “espressione” di stati
psichici favorisce la comparsa del simbolismo,
dell'espressionismo e del surrealismo. L'attività
artistica- afferma Freud- si rifà alle primitive pulsioni
psichiche ed esprime momenti di intensa emozione, il
senso della sofferenza, della malattia o del sentimento e
degli stati alterati della coscienza. Questa visione porta
a considerare il valore terapeutico che può avere per
l’artista realizzare un prodotto d'arte. L'espressione
“terapia artistica” denota dunque il lato positivo circa
la possibile “risoluzione” del conflitto psichico.
L’artista- per la psicoanalisi- attinge alle sorgenti più
profonde e ai segreti più nascosti del cuore dell’uomo,
fonti che non sono ancora state aperte alla scienza.
Nell'esame della “Madonna, il Bambino e
Sant'Anna” e della “Monna Lisa”, l'indagine
psicoanalitica ha rivelato che Leonardo aveva “un
conflitto aggressivo preedipico con la madre”, un
disturbo che si è risolto nel meccanismo di difesa
dell'omosessualità (Bergler). Le sue Madonne non
esprimono il prolungamento dell'amore materno, come
102
ingenuamente si potrebbe pensare, ma piuttosto la
negazione difensiva della “mancanza d'amore” della
madre.
Il processo di sublimazione, inteso come
“desessualizzazione” e trasformazione dei desideri
libidici, non esprime tanto la madre “amorevole”
quanto un meccanismo di difesa contro una madre
“odiosa e dannosa”, alla quale Leonardo era
masochisticamente legato.
Egli così realizza l'odio per sua madre nella
omosessualità, e protegge il narcisismo mortificato
nelle sue amorevoli Madonne con il Bambino. In questo
modo, l'artista “schiva” l'odio della madre e nega il suo
legame masochistico con essa.
Anche la ricerca sull'immaginario artistico del pittore
surrealista René Magritte ci porta a connettere il suo
carattere magico ed enigmatico all'esperienza dolente
della perdita della madre, la quale si era suicidata
annegandosi quando egli aveva tredici anni.
I suoi dipinti creano nello spettatore violente e
contrastanti emozioni: attrazione e repulsione, fascino e
paura. Molte immagini dipinte esprimono l'incapacità
del bambino a provare ed elaborare il lutto, poiché la
loro funzione, per Magritte, è conservare il ricordo
doloroso come “una ferita che non si sana mai”
(Wolfenstein). Di qui, la presenza di significati simbolici
nei suoi dipinti, un elemento invero da lui fortemente
negato.
103
La mano del pittore finisce con il “riepilogare”
(Rose), nei suoi momenti avanti e indietro sulla teta, gli
stimoli di amore e di cura corporea un tempo offerti al
neonato dalla madre, nonché le “tensioni” di amore e
odio. Fra l'arte e il corpo umano c'è un intimo rapporto.
Il grande pittore, per Berenson, è “soprattutto un
artista con un grande senso dei valori tattili. La realtà
del proprio corpo diventa nel pittore una condizione
fondamentale. A cominciare dall'infanzia, quando il
bambino proietta le proprie sensazioni corporee nel
processo del fare artistico, creando immagini di
“potenza impressionante e di distorsione espressiva”
(E. H. Spitz).
Invero, la creatività incarna anche il desiderio di
“trascendere” (Otto Rank) i fattori biologici e rivela il
tentativo di ottenere il “controllo” di fattori ambientali,
cosi da raggiungere un senso di indipendenza. Un altro
autorevole rappresentante della psicoanalisi, H. Sachs,
mette in evidenza il ruolo della percezione, che è un
concetto chiave nell'estetica contemporanea.
La creazione della forma, cioè della linea, della
figura, del colore e della dinamica nei dipinti di
Newman, Motherwel o Rothko, è caratterizzata
principalmente da elementi percettivi, i quali ci
trasmettono un senso di piacere e di godimento, che
non necessariamente si identifica con il piacere
istintuale originario.
104
Perché un'opera d'arte sia grande - osserva E. H.
Spitz - deve esservi anche il raggiungimento delle
profondità dell'inconscio, che hanno a che fare con la
regressione, l'ambiguità e la dialettica tra fusione e
separazione, ma anche con la tensione e la distensione,
il pensiero e il sentimento. Aristotele aveva già
compreso questo aspetto, quando parlava di “catarsi”
della paura e della pietà.
Le opere di Van Gogh, Rembrandt o Goya
“sopravvivono” perché esse raffigurano le paure, i
desideri e le pulsioni dell’umanità. Spesso poi il
contenuto dell'opera sfugge alla conoscenza dello
stesso autore.
L'esperienza artistica, secondo la concezione
psicoanalitica, ha il mandato dunque di “sublimare” la
libido, impegnare le funzioni superiori dell’Io e
“riattivare” la nostra consapevolezza del Sé come
corpo, del Sé come ricevitore e del Sé come agente in un
mondo in cui la figura umana nell'arte si è
gradualmente “frammentata” (Kutash) fino a
“scomparire” in un periodo di ansia e di tensione
universale.
La bellezza- si sostiene- è negli occhi di chi la guarda:
in una mostra di pittura, un osservatore può rimanere
affascinato dai dipinti, mentre un altro può considerarli
un lavoro pessimo. Ad un concerto della mia amica
Giovanna, ad esempio, uno spettatore riterrà sublime il
105
componimento sinfonico, un altro invece avrà l'ansia di
andarsene. Una poesia può creare in un soggetto una
forte emozione, in un altro indifferenza o fastidio.
Questo per dire che l'arte è un fenomeno soggettivo, per
cui risulta quasi impossibile definire l'arte, nonostante
il numero elevato di pubblicazioni in materia, a
cominciare da Platone.
Il bello, per Kant, “è ciò che piace universalmente
senza concetto”. Alcuni studiosi pensano che la bellezza
è la manifestazione dell'essere, per altri invece la
rivelazione delle connessioni sinaptiche o neurali. La
bellezza poi è ovunque. Non è lei a “mancare ai nostri
occhi, sono i nostri occhi- afferma Rodin- che non
riescono a coglierla”. L'arte è dunque una sensazione,
che può risultare negativa o positiva, ovvero
inspiegabile: “Mi piace il concerto della mia amica
Donatella, è gradevole l’opera della pittrice Emilyn, ma
non so dire perché”.
Gli esperimenti condotti con i sorprendenti metodi
di brain imaging dalla nuova scienza del cervello ci
dicono che le nostre reazioni all'arte e alla bellezza sono
di natura biologica, sono ereditarie. Anche nei bambini,
infatti, c’è l’arte. La quale è molto simile nelle diverse
epoche e nelle diverse culture.
Gli insegnanti, assillati dal programma e da un
sistema educativo superato scientificamente e
culturalmente, non sempre dedicano il dovuto spazio
alle attività artistiche degli alunni. Eppure, un disegno
106
eseguito da un bambino può rivestire un ruolo decisivo
per scoprire le sue nascoste capacità, la sua personalità
e rappresentare un valido mezzo diagnostico e
terapeutico nell'illuminare i suoi conflitti, i suoi traumi,
le sue ansie, ma anche i suoi interessi e le sue
motivazioni. La poesia, la musica, la pittura ci
permettono di entrare in mondi immaginari, fantastici
e oscuri, poiché ci danno emozioni uniche e quindi ci
fanno stare bene con noi stessi e con gli altri.
Gli studi dunque rilevano che i bambini vivono una
vita scandita da una sensibilità artistica, condizione che
costituisce una forte spinta al loro sviluppo
intellettuale, sociale ed etico.
Il bello esiste anche nella natura: un tramonto, una
notte stellata, il suono della pioggia, un paesaggio
naturale, il mormorio di un ruscello, il passaggio
stupefacente dal buio della notte alle luci dell'alba,
quando il riverbero del sole illumina il mondo e crea il
miracolo dell'essere umano, il quale sembra sospeso in
una sorta d'incantamento tra cielo e terra.
La bellezza, come mostrano alcune ricerche, nasce da
un senso innato: i neonati, ad esempio, fin dai sei mesi
di vita preferiscono guardare volti attraenti. Studi in
materia hanno svelato poi che un neonato di soli 41
minuti di vita riusciva ad imitare i gesti del ricercatore.
Successivi esperimenti hanno provato che già alla
decima settimana, il bambino imita- e dunque
107
apprende- espressioni di felicità o di rabbia della
madre, a dimostrazione che il nostro impulso ad
apprendere e imitare è presente fin dalla nascita.
Un'altra grande scoperta è che di fronte all'arte
capace di suscitare emozioni e brividi noi produciamo
la dopamina, che è la sostanza dell'ebbrezza e del
piacere, la quale geneta uno stato di distensione
neuromotoria, tranquillità interiore, serenità, e un
grande senso di benessere. Una recente ricerca
effettuata nell'Università di Montreal ha mostrato in
particolare che la musica, come vedremo ampiamente
di seguito, dà piacere al cervello, come il cibo, il sesso o
le droghe, in quanto induce per l'appunto una scarica di
dopamina, il “neurotrasmettitore del piacere”, nelle
aree neurali che elaborano le sensazioni di piacere e
appagamento. Per produrre questo effetto, la musica
deve essere di nostro gradimento. Gli scienziati poi
hanno rilevato che la propria musica preferita scatena
una serie di sensazioni fisiche, modificando il battito
cardiaco, il ritmo del respiro, la temperatura corporea,
e dando letteralmente i brividi. Realizzare a scuola
questa condizione significa accrescere di gran lunga i
processi di sviluppo, di apprendimento e di creatività
nel bambino.
Il libro, la poesia, la pittura, la musica creano un
engramma nel nostro cervello, ci possiedono e ci
consentono di incrementare le nostre capacità di
108
pensiero, attenzione, memoria. Originano soprattutto
uno stato d'animo di godimento psico-fisico e
spirituale, che ci aiuta a vivere bene, vivere meglio e
vivere più a lungo.
Alcune scoperte delle neuroscienze dimostrano, con
buona pace di concezioni pedagogiche obsolete, che il
cervello del bambino è geneticamente “programmato”
per la fantasia, la facoltà di creare, l'avventura, la
libertà, il “movimento”. I bambini che hanno la
possibilità di “muoversi”, che non sono “inchiodati
all'immobilismo” sui banchi e con “le braccia al sen
conserte” (Manzoni), imparano di più di quelli che
restano “fermi”.
Le nuove acquisizioni scientifiche inoltre hanno
rivelato, ad esempio, che prima di un compito
impegnativo o di una gara i livelli delle sostanze
neurochimiche s'innalzano. Una gara vinta produce,
infatti, una scarica di dopamina, che agisce sul cervello
dell'individuo come fosse una droga.
Ricerche effettuate nelle Università di Toronto e
dell'Oregon con bambini dai tre ai sei anni hanno
accertato che attraverso l'attività artistica essi
ottenevano risultati migliori riguardo allo sviluppo
delle capacità cognitive, dell'attenzione e del linguaggio
rispetto a bambini che non svolgevano tale attività.
109
Migliorare il potere attentivo nel bambino significa
metterlo in grado di potenziare la conoscenza e
l'emozione, la concentrazione, il controllo degli impulsi
e dell'aggressività. Raggiungere questa condizione di
controllo e di equilibrio interiore può salvarci la vita in
situazioni di pericolo, di panico o di grande paura.
La musica e il cervello
Come la poesia, la pittura e ogni altra opera artistica,
anche i suoni e la musica rappresentano ancora un
mondo misterioso. La musica sfugge al linguaggio,
perché esprime ciò che l'essere sente senza poterlo dire
con parole. Essa è l'espressione più diretta
dell'interiorità, coinvolge le emozioni e i sentimenti e ha
un notevole influsso, anche temibile, sulla ragione e sui
neuroni fino a provocare, come vedremo, ansia, sintomi
dissociativi e attacchi epilettici (epilessia musicogena).
I neuroscienziati cercano di capire perché, assente nei
primari non umani, fa la sua comparsa nella specie
umana.
L'aspetto peculiare è l'essenziale “scossa” emotiva
che la musica riesce ad imprimere nel nostro cervello e
nella nostra coscienza, andando a smuovere le zone più
profonde e inesplorate dell'animo umano, in una sorta
di “sogno a occhi aperti” (Meulders). Insorge un
perturbamento che genera un “senso” inquietante,
arcano e misterico tra esaltazione e depressione, piacere
e dispiacere, malessere o serenità interiore. Ascoltiamo
110
la musica ed entriamo- scrive V. Hugo- “in un dedalo
inestricabile di vicoli, incroci e strade senza uscita che
somiglia a un gomitolo di lana con cui ha giocato un
gatto”. La musica, per Claude Lévi-Strauss, è un
linguaggio atto ad elaborare “messaggi”. Fra tutti i
linguaggi quello musicale, invero di difficile
comprensione e definizione, “riunisce” gli elementi
contraddittori di essere “intelligibile e intraducibile”. E
fa del creatore di musica, al pari dello scritture, del
poeta e del pittore, “un essere simile agli dei”, e della
musica il “supremo mistero” della scienza del cervello
e della mente.
La facoltà creativa è “singolare” e “non comune”, ma
sembra che tutti i bambini siano geneticamente capaci
di cantare (Peretz), in virtù della presenza nel cervello
umano di neuroni specifici. I circuiti neurali destinati
alla musica comincerebbero ad organizzarsi fin dalle
prime relazioni vocali tra madre e bambino.
Ricerche sulle origini della musica nei bambini
hanno scoperto che fin dai sei mesi di età essi
presentano attitudini musicali: riconoscono una
melodia anche se viene suonata in modo diverso. Anche
i feti rispondono alla musica con cambiamenti nel
battito cardiaco. Il cervello umano dunque possiede
percorsi neurali capaci di elaborare la comunicazione
musicale. Le neuroscienze provano che noi abbiamo un
“cervello musicale”. Che sarebbe relativamente
111
autonomo. Questo spiega il perché si possa essere
competenti in espressione linguistica, ma totalmente
indifferenti alla musica o viceversa, come è il caso di
molti bambini autistici (Meulders).
È stato altresì scoperto che quando ascoltiamo la
musica che ci piace, il corpo rilascia alcune sostanze, gli
oppiacei, che creano uno stato di ebbrezza.
Che cosa percepiamo quando ascoltiamo la musica?
Per gli autori che privilegiano la sola forma, la
musica è “un'arte insignificante” e “non può esprimere
nulla”. Altri studiosi invece sostengono che la musica è
un elemento “immerso” nel vissuto umano e possiede
diversi livelli dì significato: emotivi, linguistici o
addirittura religiosi.
Già Pitagora aveva sostenuto che l'elemento
essenziale è il “calcolo degli intervalli armonici”, che
non permette tuttavia di “riconoscere” una melodia. A
sua volta, un discepolo di Aristotele, Aristoxene,
pensava che l'intelligenza musicale sia dovuta a due
elementi: la sensazione e la memoria.
Il godimento provocato dall'ascolto della musica,
secondo William James, ha due livelli d'intensità: il
livello inferiore, che è di ordine prettamente cognitivo e
il livello superiore al quale si affiancano manifestazioni
emotive dovute al “riverberarsi” dei cambiamenti di
ordine viscerale al livello della coscienza.
112
Una
consistente
difficoltà
nella
ricerca
neuroscientifica è rappresentata dal fatto che il livello di
emozione musicale- ma questo vale per qualsiasi
emozione- è “variabile” a seconda degli individui. Gli
stati d'animo- chiamati “qualia” dai neuroscienziati sono, infatti, soggettivi, personali, unici. Le esperienze
soggettive (gioia, dolore, ira, ecc. ) non sono
direttamente osservabili e misurabili da strumenti
scientifici, poiché queste sono accessibili solamente
all'individuo che le esperisce.
Come gli stati d'animo emergano dal cervello è
ancora un mistero. Finora, gli esperimenti di brain
imaging hanno cercato di “localizzare” la sede in cui si
situano certe funzioni cerebrali. Esistono buone ragioni
per ritenere che il lobo temporale svolga un ruolo
fondamentale nella percezione musicale. Sappiamo
altresì che l’attività musicale coinvolge numerose altre
strutture cerebrali.
Studi condotti con i metodi di brain imaging
mostrano poi che c'è una differenza tra il cervello di un
musicista e quello di un non musicista, a causa
dell'apporto sanguigno che attiva i neuroni delle
regioni coinvolte nell'espressione musicale.
Altre ricerche in questo campo hanno evidenziato
che la superficie dell'area motoria collegata a ogni dito
della mano “può aumentare notevolmente dopo
113
qualche giorno di esercizio al pianoforte” (PasqualLeone).
Una delle più affascinanti scoperte delle
neuroscienze riguarda la dominanza emisferica, la
quale risulta “differente” a seconda che l'ascoltatore sia
un profano o una persona competente. Ancora più
sorprendente- come ha scritto il mio compianto
maestro, Raffaello Vìzioli, docente alla facoltà di
Medicina dell'Università “La Sapienza” di Roma e
neuroscienziato di fama mondiale- è la scoperta che la
dominanza si “trasferisce” da un emisfero all'altro
quando il profano diventa un musicista. In un altro
studio, è emerso che i musicisti esperti hanno un
cervello con un'organizzazione speciale.
In che cosa consiste il fenomeno musicale?
L'autore che forse più di ogni altro ha capito l'essenza
del fenomeno musicale, Nietzsche, opera una netta
distinzione tra arte apollinea e arte dionisiaca. La prima
sarebbe l'arte plastica e figurativa, quella che ha per
oggetto il mondo delle apparenze, mentre la musica
sarebbe arte dionisiaca e la sua differenza dalle altre arti
sarebbe radicale, nei senso che mentre queste
trasfigurano le forme dell'apparenza, la musica si
riferisce all'essenza.
La sua voce - aggiunge il filosofo tedesco- proviene
dal cuore delle cose, dalla misteriosa unità originaria.
114
Essa viene cioè prima delle cose, è l'universale “anterem”.
Il linguaggio musicale- spiega Vizioli- non ha, a
differenza del linguaggio verbale, alcun riferimento
immediato con la realtà. Non è “significante” di un
“significato”, non traduce cose o relazioni tra cose né è
al servizio di nessuna condotta o codice di
comportamento. È il linguaggio delle emozioni, e il suo
potere simbolico è strettamente legato alla vita emotiva
ed affettiva. La musica viene dunque a porsi come la
lingua primordiale, che esprime la verità essenziale
della vita e la terribilità del mondo notturno
simboleggiato da Dioniso, cui le belle forme dell'arte
apollinea dovevano fare- chiarisce Vizioli- da schermo
e difesa.
La olimpicità dell'arte apollinea non era per i greci il
segno di un popolo sereno, ma l'espressione di un
popolo che aveva il senso tragico dell'abisso e cercava
di salvarsi sia pure nell'illusione delle forme.
A sua volta, Freud riteneva che la musica
appartenesse alle strutture arcaiche del nostro cervello,
là dove nasce l'Es, cioè il cervello rettiliano, da cui si
diramano le manifestazioni della vita istintiva.
Il problema se esista realmente “un linguaggio della
musica” è stato lungamente dibattuto. Alcuni autori
hanno sostenuto che la musica si situa laddove il
“linguaggio termina” (Critchley). La musica, per
115
Westrup, esprime quello che ha da dire, usando propri
elementi che non possono essere tradotti in linguaggio,
così come non è possibile tradurre un quadro. Musica e
linguaggio sono lingue differenti che impiegano
simboli differenti. In questo senso, la musica arriva
quasi ad esprimere “l’inesprimibile” (Huxley). Come
dire che noi non possiamo esprimere in parole - come
concordano Weber e Newman - “un'idea musicale”.
La musica esprime in sostanza quel sottile complesso
di sensazioni che il linguaggio non può nemmeno
“nominare e tantomeno esprimere” (Lauger). La sua
essenza è l’ineffabilità, un “simbolo non consumato”. È
l’espressività, non espressione.
Sono stati analizzati inoltre gli stati di estasi in
relazione alta musica. Le ricerche mostrano che negli
stati di estasi si sviluppa un senso di “fusione” che porta
il soggetto a identificarsi con la realtà esterna. Stati
estatici possono dunque verificarsi anche sotto
l'impatto di forti stimoli musicali e delle loro intense
proprietà evocative.
La sensazione estetica può comprendere anche la
perdita del senso del tempo, la derealizzazione, la
depersonalizzazione, nonché alterazioni soggettive
dello schema corporeo. Alcuni individui poi hanno la
capacità di associare i suoni con immagini visive di
colori e forme.
La musica, per Heine, finisce dunque con l'apparire
“una cosa strana”. Essa appare “un miracolo” perché
116
sta a metà strada fra “pensiero e fenomeno, fra spirito e
materia”. In verità, noi “non sappiamo” cosa sia la
musica”.
In questa visione, assume notevole interesse il rilievo
neuroscientifico dell'esistenza di un legame che
accomuna musica e poesia e musica e pittura.
Su che cosa la musica comunichi, molte riflessioni ci
vengono dai Greci. Per Isidoro di Siviglia, la creazione
musicale “muove i sentimenti e modula le emozioni,
consola la mente nel sopportare le tribolazioni, e
acquieta le menti sconvolte, come si legge a proposito
di David che liberò Saul dallo spirito immondo con
l'arte della melodia”. Questa analisi anticipa le ipotesi
sugli effetti emozionali e terapeutici della musica.
Nel Medioevo, essa era considerata in maniera
simbolica. L'artista cercava di stabilire legami fra
musica divina e quella terrena o umana.
Proust ha parlato di “tasti esprimenti tenerezza,
passione, coraggio, serenità”. La musica -secondo
Addison- è “il bene più grande che i mortali conoscono
ed è tutto quanto di celeste abbiamo in terra”.
Alcuni studi hanno poi osservato la presenza di
“notevoli alterazioni” del sistema circolatorio e
respiratorio dovute a “concomitanti affettive” della
musica più che alle “proprietà fisiche” (Harrer).
Definita come un “insieme di suoni in combinazione
melodica o armonica”, la musica, secondo ricerche
condotte da Diesserens e Schoeu, può causare: 1. un
117
aumento del metabolismo corporeo; 2. un'alterazione
dell'energia muscolare; 3. un'accelerazione o
irregolarità della frequenza respiratoria; 4. un aumento
della percezione negli altri sensi; 5. un abbassamento
della soglia per vari stimoli; 6. un effetto marcato sulla
pressione sanguigna e sulla circolazione centrale e
periferica. A questa ampia sintomatologia erano
associate chiare manifestazioni psico-emozionali, come
agitazione e facilità di pianto, rabbia, paura, ansia o
panico.
Sono stati presentati casi in cui qualsiasi tipo di
musica poteva “scatenare” crisi emotive e agitazione
psico-motoria; in altri casi, il fenomeno era determinato
solo da un singolo strumento o una singola melodia.
Sono stati descritti inoltre svariati casi di “epilessia
musicogena”, quella rara forma di epilessia in cui le
crisi sembrano scatenate da stimoli musicali (Critchley).
L'epilessia musicogena comprende fattori emozionali e
fattori fisici che comportano “un aumentato flusso
ematico cerebrale e un'accelerazione del battito
cardiaco”.
Attacchi ripetuti di epilessia musicogena possono
condurre ad uno stato di ansia e depressione e
sviluppare altresì un vero e proprio “terrore della
musica” (Nikonov). A1 riguardo, ricordiamo i casi di
isteria di massa con manifestazioni epilettiche
riscontrati in tutta Europa nel Medioevo. Era un
fenomeno caratterizzato da un delirio orgiastico nel
118
quale i protagonisti danzavano, emettendo grida
sconnesse o cadevano a terra in preda a convulsioni.
La musica infine ha anche una capacità profilattica e
terapeutica. Gli scrittori antichi erano interessati agli
aspetti “curativi” della musica. Plinio racconta che
Catone ricordava un motivo musicale specifico per il
trattamento dei dolori muscolari e che Varrone usava
un altro brano per alleviare i dolori della gotta. Un altro
autore, G. Aurelianus, rammenta l'uso della musica per
il trattamento della follia e per la terapia della sciatica.
Cornelio Agrippa cercò di collegare le quattro parti
vocali agli elementi cosmici: il basso con la terra, il
tenore con l'acqua, il contralto con l’aria e il soprano con
il fuoco.
Fin dall'antichità, i guaritori ricorrevano alla musica
nel dare consigli circa le pratiche curative, ritenendo
che la melodia avesse un'origine divina. La terapia
musicale raggiunge un posto di rilievo nell'opera di
Orfeo (1350 a. C. ), che anticipa le idee medicoscientifiche della cultura greca. Le origini della tragedia
greca vanno ricercate nelle feste dionisiache. Nella sua
pratica di cantante-guaritore, Orfeo cercava di
“addomesticare le bestie feroci”, cioè le passioni umane,
con la musica incantatrice. La quale aveva anche la
funzione di riportare l'armonia fra il Cosmo e l'uomo.
La concezione dell'Orfismo esercitò una notevole
119
influenza sulle teorie di Platone, Aristotele e degli altri
filosofi dell'antica Grecia.
La musica aveva una funzione anche nel campo
dell'educazione, dell'arte, della vita pubblica, delle
relazioni interpersonali e delle cerimonie religiose. Era
considerata essenziale per la salute mentale e fisica
dell'individuo e per il trattamento di malattie
psicosomatiche ed organiche.
Nell'antica Grecia e nell'antica Roma, i casi
psichiatrici venivano trattati con il canto. Asclepiade e
Celso raccomandavano la musica nel trattamento dei
disturbi mentali. Queste idee influenzarono anche la
medicina araba, che con Avicenna e Averroé introdusse
la musica negli ospedali psichiatrici.
In realtà, la cosiddetta “terapia musicale” appartiene
al settore delle influenze culturali- teatro, pittura,
scultura, prosa e poesia, ecc. -, le quali si combinano in
una condizione “liberatoria”.
Questa dimensione “liberatoria” è stata sottolineata
da molti scrittori e artisti per i quali il lavoro creativo
procura “sollievo” e può agire come mezzo per
alleviare la sofferenza, il dolore e la disperazione. Lo
scrittore Graham Greene, soggetto a lunghi periodi di
depressioni suicide, disse che scrivere è “una forma di
terapia”. “Mi chiedo come possano sfuggire dalla follia
e dalla melanconia tutti coloro che non scrivono, non
dipingono o non compongono”. L'arte, per James, è la
120
ricerca di una qualche via d'uscita dal “labirinto del suo
sé, imprigionato e in preda alla disperazione”.
Nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito,
modellato, costruito, inventato, se non di fatto “per
uscire - aggiunge Artaud- dall'inferno”. L'arte “prima
cura l'artista e successivamente aiuta a curare gli altri”.
L'azione salvifica sulla mente esercitata dall'arte è stata
sostenuta anche da Byron per il quale la poesia è “la
leva dell'immaginazione” e da Berliot, il quale ha
affermato: “senza la musica sono certo che non potrei
continuare a vivere”.
Gli umori, l'attività artistica, la depressione, le
allucinazioni, l'epilessia, l’alcool e i disturbi
schizofrenici che affliggevano Van Gogh lo portarono
ad affermare che” queste emozioni sono così forti che le
pennellate vengono giù una dopo l'altra”. “Più divento
dissipato, malato, vaso rotto più io divento artista,
creatore, entro quel grande rinascimento dell'arte. . .
quest'arte eternamente viva, questo germoglio verde
che spunta dalle radici del vecchio tronco tagliato, sono
così spirituali, che ci assale una certa malinconia”. Non
sapremo mai- rileva Jamison- cosa Van Gogh avrebbe
potuto dipingere o Virginia Woolf potrebbe aver scritto
se fossero vissuti più a lungo e non avessero commesso
suicidio. I quadri del pittore olandese esprimono una
bellezza e una lucidità elevatissima.
121
Perché si succhia
il seno?
Perché i bambini e i piccoli di tutti i mammiferi
succhiano il seno? Certamente per nutrirsi. Ma anche
per stabilire un “contatto” con la madre, per ricevere
quegli stimoli emozionali che sono il necessario
sostentamento al suo sviluppo bio-psichico. Chi può
resistere- afferma il neuroscienziato Panksepp“all’incantevole danza di emozioni” tra una madre e il
suo piccolo? Basta un sorriso, o una carezza, a
provocare un’esplosione di gioia nel neonato.
La maturazione è un processo di progressiva
autoindividuazione e distacco. È soprattutto un
processo di crescita e di scambio in circolare sintonia
prima con la madre e il caregiver, poi con le altre figure
del proprio ambiente.
La ricerca sperimentale mostra che le cure di
accudimento e i comportamenti di contatto pelle-pelle
sono indispensabili nello sviluppo dell’individuo.
Conferme
in
tal
senso
provengono
dalla
sperimentazione sugli animali. Sono stati studiati gli
effetti della separazione precoce delle scimmie dalla
madre. I dati rilevano che la separazione dalla madre,
122
soprattutto nel contatto pelo-a- pelo, provoca “disordini”
nel comportamento degli animali. È stato accertato che
quando il piccolo viene “privato” del contatto tanto più
il suo sviluppo adulto risulta “disorganizzato”.
Le conclusioni di una ricerca realizzata dal
neuroscienziato Swaab rivelano che per uno
svolgimento rapido e senza problemi del parto è
necessaria una buona interazione tra il cervello della
madre e quello del nascituro. Il cervello di entrambi,
infatti, rilascia un ormone nel sangue, l’ossitocina, una
sostanza che fa contrarre l’utero, accelera lo
svolgimento del parto e stimola la produzione di latte.
Quando il neonato succhia il seno stimola il rilascio
di questo ormone da parte del cervello materno. Il
pianto del bambino, ad esempio, è in grado di attivare
il riflesso, producendo l’ossitocina, la quale svolge
un’azione positiva nel cervello di entrambi, generando
uno stato di calma e un forte legame tra madre e
bambino. Alcuni esperimenti hanno poi dimostrato che
una riduzione di ossitocina si verifica nel caso di
bambini ricoverati, trascurati, maltrattati e privati di
affetto.
Una mancata interazione tra il cervello materno e
quello del bambino può essere legata poi a molti
disturbi psichiatrici, come la schizofrenia e l’autismo,
patologie che hanno tuttavia cause diverse. Altre
ricerche hanno scoperto che problemi durante il parto
123
sono all’origine di disturbi alimentari, anoressia e
bulimia nervosa.
Il cervello produce inoltre la vasopressina, una
sostanza che svolge come l’ossitocina e un’azione
importante sul comportamento materno, sul
comportamento sociale, sullo stress, e nella
comprensione dello stato emotivo altrui. In molti casi di
autismo, sono stati riscontrati bassi livelli di
vasopressina e ossitocina (Grandin).
C’è un rapporto circolare tra vasopressina e
ossitocina- la vasotonina- e la cura genitoriale sia negli
esseri umani che nei piccoli non umani (Feldman). Il
senso di gioia dimostrato da un cane al suo padrone è
l’espressione del rilascio di oppiacei endogeni (Gonin).
Affetto e sostegno reciproco nel rapporto madrepiccolo tanto negli animali quanto negli umani sono
associati ad alti livelli di ossitocina e vasopressina.
Ricerche recenti mostrano che addirittura anche i topi
maschi hanno “un comportamento genitoriale
spontaneo” (Bales).
Tutti i mammiferi e gli uccelli in pratica “curano i
loro piccoli” (de Waal). Esperimenti effettuati in
materia hanno scoperto che gli impulsi all’accudimento
provengono da circuiti cerebrali innati. Aver cura di sé
e degli altri, comportamento tipico dei mammiferi, è
una funzione evolutiva fondamentale dei meccanismi
neurali e corporei, i quali “maternalizzano” il cervello
delle femmine (Kaverne). I cuccioli di ratto che sono
124
leccati abbondantemente crescono meno ansiosi, sono
più resistenti allo stress, mostrano assenza di paura e
apprendimento migliore (Meaney). Molti animali,
inclusi quasi tutti i rettili, non mostrano forti impulsi
materni. La mancanza di legami sicuri ha un impatto
negativo sullo sviluppo della mente e del cervello dei
piccoli.
L’amore materno è dunque essenziale per la salute
emotiva e fisica del figlio. I benefici emotivi di cure
amorevoli durano per il resto della sua vita (Panksepp).
Le cure materne- affermano i neuroscienziati- sono “le
cure più autogratificanti”. L’altruismo “ci fa sentire
bene”.
Il nostro cervello, secondo una linea evolutiva, è stato
in sostanza “programmato” per “offuscare” il tratto che
separa il sé dall’altro, in base a una continuità fra
prendersi cura del proprio corpo, dei propri bambini e
di coloro che ci sono vicini (Churchland). Si tratta di una
funzione svolta soprattutto da un “antico sistema
neurale” che contraddistingue ogni mammifero, dal
topo all’elefante (Aknin). È un impulso genuino,
benevolo, gratificante. Esperimenti di neuroimaging
realizzati dal neuroscienziato Rilling hanno evidenziato
che noi abbiamo “propensioni emozionali alla
cooperazione”.
La cura dei piccoli è un bisogno “insopprimibile” ed
è presente in tutti i mammiferi, è la forma archetipa
dell’altruismo, un modello comportamentale per tutto
125
il resto. La morale umana è - precisa P. Churchland- uno
sviluppo della tendenza alle cure materne, le quali sono
associate ai sistemi cerebrali che regolano le funzioni
biologiche dell’organismo. Questi sistemi neurali
operano in modo da considerare i nostri figli “parti” di
noi nello stesso modo in cui curiamo il nostro corpo.
Non siamo gli unici a praticare l’altruismo e le cure
materne. Esistono prove recenti sull’esistenza
dell’altruismo negli animali. Questi spesso manifestano
“tendenze morali”, come risulta da esperimenti
effettuati sulle scimmie e su altri animali. L’empatia, ad
esempio, è presente non solo nei primati, ma anche nei
canidi, negli elefanti e nei roditori, come dimostrano
migliaia di casi studiati dall’etologo e primatologo
Frans de Waal. Essa fa parte della nostra biologia.
La psicoanalisi ha fornito un contributo
fondamentale alla diade madre-bambino. Le prime
manifestazioni psichiche sono interpretate dagli
psicoanalisti proprio a partire dalla dimensione della
“cellula diadica”. La madre- sostiene Winnicottcostituisce per il bambino un “Io ausiliario”, una forma
di “osmosi psicologica”. Questo autore usa la nozione
di holding per definire le cure materne. Il concetto di
holding indica il comportamento della madre come
risposta sia alle esigenze fisiologiche del neonato che a
quelle affettive ed emotive. Anticipando le scoperte
delle neuroscienze, Winnicott dichiara che trattasi di
un’attitudine innata, una sorta di “pelle psichica” del
126
bambino. Di qui, il rilievo che assume la funzione
materna nello sviluppo mentale, normale e patologico,
del soggetto.
Le opere di Freud, padre e figlia, di Winnicott, Klein,
Hartman, Mahler, Bowlby e di tanti altri autori, sono
basate sulla rilevanza attribuita alla coppia madrebambino, al sistema di comunicazione preverbale, al
linguaggio del corpo, all’esigenza che la madre
favorisca lo sviluppo integrale del bambino.
Una positiva relazione affettiva con la madre e con le
altre figure parentali crea la salute mentale nel
bambino. Quando egli subisce deprivazione affettiva,
abbandoni, separazioni, traumi, ricoveri prolungati
ecc., si producono forme di ansia, distacco emotivo,
depressioni, aggressività, devianza, disadattamento
con tendenza al suicidio.
127
Capire il cervello
per capire la mente
La condizione necessaria per studiare la mente e
la coscienza secondo la metodologia delle scienze è
la loro “riduzione” a eventi fisici, neurali, cioè a
fatti elettrochimici. Vita mentale, pensieri, idee,
fatti consci e inconsci sono “prodotti” dal cervello.
Che cosa sono io? Sono ciò che il cervello mi fa
essere. Per le neuroscienze dunque mente e
coscienza “coincidono” con il cervello (Hagner).
Il mondo appare alla nostra mente non nella sua
realtà, ma in ciò che il cervello “trasmette” al nostro
io, elaborando i dati degli organi di senso e
coinvolgendoli dentro le aree cerebrali. Coscienza,
autocoscienza, mente, conoscenza, emozioni,
affettività, memoria, volontà, linguaggio sono tutti
eventi dell'attività cerebrale. L'uomo è homo
cerebralis (Hagner). Niente “senza il mio
cervello hanno dichiarato di recente in un
Manifesto undici neuroscienz iati tedeschi,
aggiungendo - non senza un moto di ingenuità che fra 20-30 anni sarà possibile chiarire ciò che ora
'‘
128
è oscuro: mente, coscienza, libero arbitrio (H.
Monyer et al. ).
Finora
le
neuroscienze
hanno
fornito
un'imponente quantità di dati di notevole interesse
senza tuttavia essersi avvicinate alla comprensione
di come dalla materia emerga l'immaterialità della
coscienza e della mente, cioè dello spirito. Sarà
possibile alla mente - prodotto del cervello “capirsi” fino in fondo?
Punto di partenza è che per capire la mente, cioè
noi stessi, “dobbiamo capire - scrive Francis Crick –
il cervello”, ovvero come si comportano le cellule
nervose e le loro molecole, e come interagiscono.
Noi, dice, non siamo altro che “un involucro di
neuroni”.
La domanda di fondo, che secondo noi
accompagnerà per sempre la ricerca in materia, è se
la mente che studia sé stessa sia capace di
comprendere come “emerga” dal cervello, dal
momento che essa stessa conduce 1’indagine.
Autorevoli neuroscienziati sono consapevoli dei
limiti dello studio della coscienza e ritengono che il
cervello umano, la “scatola nera”, non potrà mai
spiegare completamente le sue stesse operazioni (F.
A. von Hayek).
Le neuroscienze descrivono e identificano quali
aree del cervello sono attive quando, ad esempio,
129
agiamo, pensiamo o ascoltiamo un brano musicale.
Ma la realtà di quegli stati d'animo, chiamati qualia,
e la loro causa rimangono ancora oscure. Come
sorga la coscienza dall'attività neurale permane
ancora un mistero. In ciò secondo noi sta il grande
fascino della ricerca neuroscientifica: il cervello
proteso all’esplorazione di se stesso e della mente
indotto dalla sua inesauribile e irrefrenabile sete di
sapere. ”Non ha colonne d'Ercole il pensiero” ha
scritto Maria Luisa Spaziani. Dentro il cervello
“dormono interi continenti”, il mondo “è da
creare”.
Per Kandel, il riduzionismo o fisicalismo delle
neuroscienze non è una filosofia sulla quale
discettare, ma un metodo. Che serve a chiarire il
rapporto fra la materia del cervello e la vita
mentale. Idee, stati d'animo, valori, progettualità,
sensazioni, qualia: tutto è riportato a meccanismi
fisico-chimici.
Presupposto,
infatti,
delle
neuroscienze, per Kim, è che “ci deve essere
un'esplicita corrispondenza fra ogni evento
mentale e i suoi correlati neurali” (NCC).
La riduzione degli eventi mentali a eventi della
materia cerebrale comporta quindi 1’identità fra
mente e cervello.
I correlati neurali della coscienza e della mente
(Neural Correlates of Consciousness) sono eventinota Gary - in parte generici, in parte ambientali e
130
in parte stocastici. Ogni esperienza modifica il
cervello e la mente (Steiner). Il nostro io è un
“divenire in perpetuo cambiamento”. Anche la
visione del mondo che abbiamo cambia. “L'uomo rileva Plessner - vive l'immediatezza di quanto fa
l'impulsività dei suoi stimoli, tutti gli aspetti
primordiali della sua presenza vivente, la
possibilità di scelta, ma anche l'irragionevolezza
dell'affetto e dell'istinto”. Un meccanismo cerebrale
“determina” una scelta, un altro “fa sentire” il
rimpianto per l'errore o la gioia della conferma. Il
cervello umano finora risulta l'oggetto “più
problematico che esista al mondo” (James) e fa di
noi quello che siamo. Tutti possediamo –scrive
LeDoux - i medesimi sistemi cerebrali e anche il
numero di neuroni è pressoché lo stesso in ognuno
di noi. Ciononostante, il particolare modo in cui
quei neuroni sono connessi è diverso. E questa
“unicità” è in sintesi ciò che ci rende quello che
siamo.
Un errore nella distribuzione dei neuroni può
portare a ritardi mentali, epilessia, paralisi. Stati
d'ansia, uso di farmaci e droghe, malattie infettive
o metaboliche della madre possono poi influire
sulla neurogenesi e sulla migrazione dei neuroni
nel cervello del feto.
Progressi importanti si sono fatti attraverso il
metodo della visualizzazione di aree cerebrali, che
131
consente di “localizzare” la coscienza dentro il
cervello, ovvero permette di studiare il cervello nel
momento in cui è attivo. Il limite della tecnica è
quello di non rivelare ciò che nelle aree attive
avviene.
Le neuroscienze sono concordi nel ritenere che il
cervello è strutturato già al momento della nascita
e che con le strutture cerebrali è trasmessa
geneticamente la conoscenza innata. Fu una
scoperta interessante rilevare che le scimmie hanno
paura dei serpenti già la prima volta che li vedono.
La percezione tuttavia è più un processo di
“creazione” che di conoscenza, perché - chiarisce
Edelman - “seleziona” e “rinforza” le strutture
nervose congruenti con l'ambiente. Il quale, come
abbiamo detto “modifica” la struttura del cervello
(plasticità del sistema nervoso).
Uno dei meccanismi dell'interazione con il
mondo esterno e con la nostra vita interiore è
costituito dai neuroni specchio (neuroni che si
attivano sia quando osserviamo un'azione che
quando siamo noi a compiere la stessa cosa) e
dall'empatia, che è partecipazione emotiva a quello
che accade attorno a noi, come ad esempio gioire o
soffrire. Si ritiene poi che un'insufficienza dei
meccanismi dei neuroni specchio sia all'origine
dell'insorgenza dell'autismo.
132
Il cervello perciò crea il mondo in cui viviamo.
Vita mentale e coscienza sono “accessibili” alla
nostra
introspezione
nella
forma
dell'autocoscienza, ma della maggior parte
dell'attività cerebrale non siamo consapevoli.
Giunti a questo punto, ci troviamo di fronte a
sfide incredibili. Qual è la natura del cervello che
pensa? Come può la materia (il cervello) “generare”
individualità diverse le une dalle altre? È possibile
chiarire in termini neurali fisico-chimici che cosa
significhi essere “coscienti”? A quali meccanismi è
dovuta l'autocoscienza? E di che natura è la mente?
Diciamo anzitutto che le neuroscienze,
identificando mente e coscienza con il cervello,
evitano di affrontare e portare a definitiva
soluzione l'antico, fastidioso problema del rapporto
mente-cervello, cercando di capire mente e
coscienza in una realtà fisica. Una volta che la
mente sia stata inclusa fra gli eventi del mondo
naturale, ”dobbiamo - sostiene McGinn - trovarle
un posto”. Ma se la mente è un meccanismo elettrochimico non è libera di “scegliere” tra opzioni
diverse. E se le decisioni sono prese dal cervello,
che è per l'appunto, un oggetto fisico che obbedisce
pertanto a leggi fisiche, la volontà non è libera. E
allora in che senso si è responsabili?
Come si può dedurre, ricadiamo nell'annoso,
complesso dilemma della causalità mentale e del
133
libero arbitrio. Il problema- commenta Nozick- “è
così intrattabile, così refrattario a una soluzione
chiara che dobbiamo affrontarlo da molte direzioni
diverse”. E tuttavia, nessuno degli approcci e
nemmeno l'insieme di tutti gli approcci possibili aggiunge - “si dimostrerà del tutto soddisfacente”.
Secondo Gazzaniga, le basi su ciò che è lecito e
ciò che non è lecito sono “innate” e trasmesse dal
cervello che ha una struttura “preformata”, ma che
tuttavia è anche capace di modificarsi con
l’esperienza. Su questo modello euristico è nato un
fecondo campo di studio, che ha come fondamento
il concetto di “neurotihics”, termine introdotto nel
2003 da W. Safire. La sua concezione si basa su
questi presupposti: 1. Il senso morale è “legato” alla
fisiologia dei centri cerebrali ed è “regolato” da una
“moralità universale” connessa con strutture
cerebrali comuni a tutto il genere umano; 2. Con
l’evoluzione del cervello è emerso il senso del bene
e del male.
Studi recenti effettuati con la visualizzazione
cerebrale hanno mostrato che nell’eseguire
decisioni di carattere etico sono attive aree non solo
frontali e orbito-frontali, ma anche temporali e
parietali. Queste decisioni poi sono influenzate più
dall’area emotivo- affettiva che da quella logica. La
moralità –scrive Hauser –sarebbe perciò un insieme
di istinti morali, “una grammatica morale
134
universale” comune a tutti gli uomini. Concetto che
corrisponde al Daimonion di Socrate e Platone, alla
conoscenza innata della morale e della matematica
di Leibniz, alla legge morale dentro di noi di Kant
e al linguaggio universale di Chomsky.
Sennonché l'uomo - rileva Gazzaniga - è anche
capace di “immoralità orribili”, in quanto
intrinsecamente violento, amorale e dissennato,
fornito com'è di un “cervello rettiliano” (Mac Lean),
una pulsione distruttiva e di morte (Tanathos)
come corrispondente anatomo-fisiologico dell'Es di
Freud, cioè degli istinti primordiali. Una realtà che
Paul Mac Lean, uno dei maggiori studiosi della
neurofisiologia moderna, ha scientificamente
verificato e che Platone aveva intuito. Un'altra
testimonianza - scrive Raffaello Vizioli- che “la
vicenda umana (il cervello) è diacronica e
sincronica”.
Le attuali conoscenze non hanno ancora
dimostrato che dall’attività elettrochimica dei
neuroni e delle aree cerebrali sia possibile dedurre
quali sono i contenuti della mente e della coscienza.
“Voi non siete che un pacco di neuroni” ha scritto
Crick. Ma egli tralascia di chiedersi - osserva Benini
- chi siano i noi che dovrebbero capire come
funziona il “pacco di neuroni che noi siamo, se non
cellule nervose, altri pacchi di neuroni, in una
regressione all'infinito”. Di qui, l'impossibilità di
135
chiarire la “contraddizione fra la natura
rigidamente “determinata” della volontà secondo
la concezione naturalistica delle neuroscienze, ii
nostro sentirci liberi e il sentirci costretti se la scelta
ci è imposta.
Il libero arbitrio, come aspetto della causalità
mentale, è un evento che “sfugge alla mente che
indaga” (de Caro). Il problema, irrisolto e
verosimilmente irrisolvibile, verte insomma su
come la mente sorga dalla materia del cervello.
Ridurre la spiritualità alla materia è una questione
per noi senza tempo destinato a impegnare
duramente neuroscienziati, scrittori e poeti.
Nonostante la scoperta dei neuroni mirror, alcuni
neuroscienziati sostengono che non è possibile
raggiungere l’Io di un altro, così come è impossibile
raggiungere il proprio Io. La ricerca sulla mente
infatti è basata sull’introspezione e dunque non
potremo mai “ comprendere” e “penetrare” la
nostra coscienza e quella degli altri, e cioè i qualia,
gli stati d'animo, con i loro correlati neurali, fisici.
Misteri destinati a restare finora nascosti a noi
stessi. Chi è la persona, anche la più cara, che ci sta
di fronte forse non lo sapremo mai.
In realtà, proprio perché la soglia della mente e
della coscienza è ben lontana dall'essere stata
“sfondata”
è
crescente
l’interesse
dei
neuroscienziati nel superare quegli ostacoli che
136
appaiono ora insormontabili. Neuroscienziati
americani di recente hanno sottoscritto un
documento per far seguire al Decennio del cervello,
chiusosi nel 1999, un Decennio della mente, poiché
si sarebbe vicini a “capire” come la mente pensa,
percepisce e agisce. Le neuroscienze hanno di
fronte sfide incredibili e meravigliose. Sostenute
dall'inesauribile sete di sapere del cervello, il quale
dà vigore al fascino della ricerca. Il cervello non ha
confini, è illimitato, non ha colonne d'Ercole il
pensiero
137
Occhio-occhio,
voce-voce, pelle-pelle
“De li occhi suoi, come ch’ella li mova,
escono spiriti d’amore infiammati,
che feron li occhi a qual che allor la guati,
e passan sì che ‘l cor ciascun retrova. ”
(Dante)
La straordinaria potenza del contagio emotivo con lo
sguardo, la voce e il contatto fisico. La realizzazione di
una condizione mentale, psicologica e biologica capace
di lasciare una traccia, un engramma, nel cervello e di
creare le basi dello sviluppo umano, sia normale che
patologico.
Come si formano le connessioni neuronali e le relazioni
umane e sociali? E quale impatto ha su di noi il cervello
sociale? L’esame approfondito delle infinite sottigliezze
di queste interazioni mostra come le persone svolgano
un ruolo rilevante nel regolare il nostro comportamento
emotivo e sociale. Intanto, è possibile comprendere la
complessità e l’importanza delle relazioni emotive e
138
sociali attraverso l’evoluzione e il funzionamento del
cervello (Cozolino). Cosa intendono i neuroscienziati
quando parlano di “cervello sociale”? L’idea che il
cervello sia composto di aree separate, ognuna con un
particolare ruolo appare superata. I circuiti utilizzati
per una funzione non sono localizzati in una singola
zona, ma sono distribuiti in tutto il cervello. Nel
mappare il cervello sociale, pertanto, non si deve
parlare di un singolo sistema neurale unitario, ma
piuttosto di “circuiti interdipendenti” (Blair,
Perschardt).
Anzitutto, precisiamo che con il nome di “cervello
sociale”, le neuroscienze indicano che il cervello è “un
organo sociale” intersecato da reti destinate a “ricevere,
elaborare e comunicare” messaggi attraverso le sinapsi
e costruito nell’interazione tra l’attività dei geni e le
condizioni ambientali, per creare ciò che siamo, in un
rapporto dove “natura e cultura diventano una cosa
sola” (LeDoux). Senza interazioni stimolanti, i neuroni
e le persone “languono e muoiono”. Nei neuroni,
questo processo viene chiamato apoptosi. Negli esseri
umani viene detto depressione, ansia, angoscia,
suicidio.
La teoria che i primati possiedano reti neurali dedicate
alla “percezione sociale” è stata proposta da Kling e
Steklis con la scoperta che il danneggiamento di
strutture
cerebrali
causava
aberrazioni
del
“comportamento sociale”. A sua volta, il termine
139
“neuroscienza sociale” è stato usato per la prima volta
all’inizio degli anni Novanta da J. Cacioppo e G.
Berntson per designare lo studio di come noi stabiliamo
sistemi di “attaccamento” e creiamo connessioni
reciproche. Le ricerche mostrano che noi siamo
“programmati” per connetterci. La struttura stessa del
cervello lo rende “socievole”, cioè soggetto a un
profondo legame “cervello-cervello” ogni volta che
stabiliamo un contatto “viso-viso”, “voce-voce” o
“pelle-pelle” con un’altra persona.
Così, il viso della madre ha un forte impatto sul
cervello del bambino, poiché innesca alti livelli di
oppioidi, i quali sono responsabili degli aspetti
piacevoli nelle interazioni sociali e agiscono sui centri
di ricompensa sottocorticali. La stimolazione positiva
ed eccitante da parte della madre favorisce anche la
produzione del “fattore di rilascio di corticotropina
(CRF) nell’ipotalamo del bambino, attiva il sistema
nervoso simpatico, controlla la produzione di endorfina
e stimola la creazione di dopamina. La cascata
biochimica attivata dalla interazione bambino-madre
innesca poi la crescita di nuovi neuroni e la sintesi
proteica. Il contatto occhio-occhio nei primi momenti
della vita è così importante che l’evoluzione non ha
lasciato nulla al caso. Fissare il viso della
madre assicura
“l’imprinting”
di
una
vitale
informazione emotiva e sociale. Essere poi guardata dal
proprio bambino calma la madre e ne stimola i
140
comportamenti di accudimento. I bambini e i genitori
s’impegnano in periodi di sguardo o sorriso reciproco
che calmano e rilassano entrambi. Sia nella madre che
nel bambino i livelli di endorfina e dopamina si
innalzano e si abbassano quando essi sono vicini, si
separano e si riavvicinano, creando una danza di flussi
alternati di benessere e disagio, per cui la vicinanza
fisica ed emotiva produce benessere e la separazione
dolore. Poche ore dopo la nascita, il neonato è già in
grado di riconoscere facce familiari, di imitare la madre
che apre la bocca e tira fuori la lingua, e di discriminare
espressioni facciali di felicità, tristezza o meraviglia.
Importanti indicazioni sul meccanismo di questi
processi provengono dalla scoperta dei neuroni
specchio (Pellegrino, Rizzolatti), i quali si attivano sia
quando stiamo osservando sia quando stiamo
compiendo una particolare azione. I neuroni specchio
non solo collegano reti all’interno del nostro cervello,
ma ci permettono di sintonizzarci con gli stati
emozionali degli altri. Siamo esposti al “contagio
emotivo” e cioè a essere “infettati” (Ogan) da ciò che
vediamo fare da altre persone. Sperimentiamo in
sostanza la vita interna di un altro, fenomeno che si
chiama empatia.
Il collegamento tra il cervello del bambino e il
cervello della madre si realizza attraverso il contatto
occhio-occhio, espressioni facciali, vocalizzazioni,
carezze e scambi emozionali. La connessione tra madre
141
e figlio è un importante fattore determinante dello
sviluppo del cervello.
L’impatto della madre sul cervello del proprio figlio
è intenso e molto esteso; le interazioni precoci
costruiscono reti neurali e segnano parametri biologici
decisivi che possono durare per tutta la vita.
Abbiamo imparato molto della neurobiologia delle
interazioni madre-bambino studiando nel ratto
la relazione fra madre e cuccioli. Grazie alle analogie fra
la biologia e il comportamento dei roditori e dell’uomo,
il ratto rappresenta una preziosa fonte di informazione,
soprattutto
rispetto
alla
base
biologica
dell’accudimento. Un ratto madre risponde ai richiami
dei suoi cuccioli. Li lecca mentre sono nel nido e
sdraiandosi sopra di loro inarca la schiena,
permettendo ai piccoli di attaccarsi ai suoi capezzoli
(Fleming). Attraverso il contatto fisico con i suoi
cuccioli, i comportamenti materni vengono rafforzati
per mezzo di ricompensa della dopamina (Deller).
Questi livelli di dopamina stimolano i processi
neuroplastici nel cervello della madre per aiutarla a
comprendere e a curare i suoi piccoli (Shingo). Anche se
il nostro aspetto è molto diverso da quello del ratto, il
nostro cervello e il suo rappresentano sorprendenti
somiglianze. I due cervelli hanno neuroni e cellule gliali
che comunicano, organizzano e funzionano allo stesso
modo (Cozolino). Diversi studi mostrano che le basi
neuroanatomiche del comportamento materno del ratto
142
e dell’uomo “sono pressoché sovrapponibili”
(Lorberbaum). Le madri nelle due specie imparano
velocemente a identificare la propria prole e lavorano
sodo per nutrirla e proteggerla (Stern).
I ratti che hanno ricevuto un positivo accudimento
mostrano nell’amigdala un maggior numero di ricettori
delle benzodiazepine che contribuiscono a diminuire i
livelli d’ansia. Questi ratti sono meno ansiosi, esplorano
di più, sono meno impauriti e imparano meglio (Caldji).
I cuccioli esposti a deprivazione materna rivelano
un’accresciuta mortalità di neuroni, minor velocità di
sinapsogenesie diminuzione dell’espressione dei fattori
di crescita neurale nell’ippocampo, nonché prestazioni
scadenti anche in compiti di memoria e di
apprendimento (Zhareg).
Nel ratto il contatto tattile precoce è così importante
che perfino la manipolazione dei cuccioli di topo da
parte dei ricercatori comporta un’aumentata densità dei
recettori di cortisolo e livelli più bassi di cortisolo nella
circolazione sanguigna (Smythe).
Una recente ricerca ha dimostrato che toccare i propri
figli non solo attivava il sorriso e le espressioni positive
nel bambino, ma faceva anche star meglio le madri
(Onozawa). I vantaggi del contatto non sono limitati
alle relazioni umane. Gli scambi di strofinii, fusa,
sfregamenti, amoreggiamenti fra i gatti e i loro padroni
sottolineano il valore di “regolatori emotivi” che tutto
ciò ha per noi. Nel nostro cervello vengono attivati gli
143
stessi centri neurali sia che coccoliamo un gatto sia che
un gatto ci strofini addosso (Brothers).
Il contatto pelle-pelle rappresenta dunque un
fondamentale canale di comunicazione e un
meccanismo vitale di legame umano. Quando una
persona cara ci tocca, diventiamo più calmi e sereni,
mentre il nostro stress diminuisce. Un contatto leggero
induce sensazioni di benessere e un confortevole calore,
che portano a un aumento di ossitocina e di endorfine,
sostanze che intensificano i legami affettivi e sociali. Il
contatto fisico esercita anche un’azione sedativa,
produce un abbassamento della pressione sanguigna,
favorisce la regolazione autonoma e la salute
cardiovascolare (Feldman), attiva lo sviluppo dei
bambini, abbassa i livelli degli ormoni di stress nei
bambini e negli adulti (Weiss), mentre diminuiscono i
sintomi nell’ansia, nella depressione e nell’aggressività
(Field).
In pazienti affetti da cancro e altre malattie sottoposti
a massaggio terapeutico, si è verificato un
accrescimento dei livelli di dopamina, serotonina,
ossitocina ed endorfine. Tutto ciò sottolinea il valore di
“regolatori emotivi” svolto dal toccare. Pazienti
sperimentano un sollievo sintomatico dopo aver preso
un cucciolo e molti terapeuti ora impiegano i cani nella
stanza di consultazione per aiutare i loro pazienti a
rilassarsi.
144
I bambini prematuri tenuti vicino alla pelle della
madre o massaggiati regolarmente piangono di meno,
si sviluppano più velocemente, acquistano più peso e
vengono dimessi prima di quelli che hanno meno
contatto (Bergman) . L’importanza fondamentale della
diade madre-figlio è rispecchiata nell’antica massima
sapienziale : “Dio non poteva essere ovunque e perciò
ha
creato
la
madre”.
Questi legami precoci infine modulano i livelli dei
neurotrasmettitori nel cervello, facendoci sperimentare
l’intera gamma delle sensazioni, dalla disperazione
all’estasi (Panksepp).
145
La capacità di capire
se stessi e gli altri
Lo sviluppo del concetto di mente, vale a dire il
modo in cui si perviene a riconoscere di avere una
mente unica e separata da quella degli altri, è tra i temi
di ricerca che hanno suscitato maggiore interesse. Il
concetto di mente è essenziale allo sviluppo della
capacità di mentalizzazione, la capacità cioè di riflettere
su pensieri e sentimenti propri e altrui, e di riconoscerli
come stati mentali che motivano il comportamento nel
corso della vita.
Studiare lo sviluppo del cervello può aiutarci a
progredire in questo campo. In realtà, il rapporto fra
mente e cervello continua a suscitare accese discussioni
nelle neuroscienze e nell’ambito della filosofia della
mente. In generale, il modello dell’evoluzione umana
maggiormente condiviso è quello proposto da Richard
Alexander (AA. VV., “Da mente a mente”, Raffaello
Cortina), il quale ritiene che il nostro cervello si sia
evoluto non tanto per affrontare le forze ostili della
natura, ma per sostenere la competizione con altri
individui. Tutte le specie affrontano una competizione
al loro interno, ma in quella umana il ruolo svolto dai
146
gruppi sociali in questo tipo di competizione è
particolare.
Comprendere gli altri ci permette di superarli in
intelligenza e astuzia (Ward); di sviluppare competenze
cognitive, emotive, sociali e anticipatorie; di formarsi
obiettivi ed eseguire piani di azione. In questo quadro,
emerge il concetto di mentalizzazione, originariamente
introdotto in psicoanalisi da autori francesi, che si rivela
un tema di grande prospettiva euristica e in continua
evoluzione. Peter Fonagy e collaboratori hanno definito
la mentalizzazione come il processo che permette di
interpretare se stessi e gli altri come “dotati di una
mente”, cioè come persone che agiscono in base a
“sentimenti, credenze, desideri e intenzioni”. Le
importanti scoperte compiute dalle ricerche condotte
negli ultimi anni mostrano che la capacità di
mentalizzazione sugli altri non sarebbe acquisita con lo
sviluppo, ma costituirebbe una forma di adattamento
evoluzionistico
innata,
implementata
da
un
meccanismo cerebrale prestabilito che nell’uomo
appare attivo e funzionante “già all’età di dodici mesi e
forse anche prima”. Questo meccanismo sembra poi
essersi evoluto in diverse specie sociali non umane che
vivono anch’esse in nicchie altamente competitive.
La mentalizzazione è dunque una capacità o un
processo di ordine cognitivo che, tuttavia è
profondamente influenzata da esperienze di natura
affettiva; e specificamente dalla precocissima relazione
147
affettiva e regolativa fra il bambino e la figura di
attaccamento. Le attuali ricerche sulla mentalizzazione
comprendono diverse aree di ricerca: 1. le ricerche
neuro scientifiche sul cervello e sul legame fra mente e
cervello; 2. la teoria e la ricerca sull’attaccamento e sulle
relazioni precoci che promuovono o inibiscono la
capacità di mentalizzazione; 3. gli studi sulla teoria
della mente.
I costrutti di mentalizzazione attribuiscono un ruolo
centrale alla mente. L’attuale interesse per la mente
impone alla psicoanalisi la ricerca di un linguaggio
comune con altre discipline. Naturalmente, la mente
non è un concetto nuovo in psicoanalisi, tuttavia, la
concezione
psicoanalitica
della
mente
resta
“problematica” e “irrisolta”. Il modello classico,
composto da Es, Io e Super-io, non rappresenta più una
guida come in passato, nemmeno per i freudiani. Le
teorie psicoanalitiche dello sviluppo oggi sono sempre
più interessate al tema dell’intersoggettività. Il cervello
diventa mente solo per effetto di una “stimolazione
adatta” da parte delle persone che si prendono cura del
bambino (Jurist). Un attaccamento sicuro promuove nel
bambino la capacità di “regolare” gli affetti, la crescita
del Sé e la comprensione della propria mente.
Inizialmente, il bambino dipende dal caregiver, il quale
contiene le emozioni negative più intense e promuove
la tolleranza degli affetti positivi. Con lo sviluppo della
capacità di regolazione affettiva, nella seconda metà del
148
primo anno di vita emerge il senso del Sé. La
regolazione affettiva è dunque alla base della
mentalizzazione che si sviluppa intorno ai quattro anni.
La teoria dell’attaccamento è così andata oltre il
concetto iniziale di Bowlby di un attaccamento
orientato a mantenere la vicinanza del caregiver, con la
successiva introduzione dell’obiettivo della “sicurezza
percepita” (Stroufe). Si è superato quindi il “realismo
ingenuo” di Bowlby, termine per indicare la credenza
che le nostre menti riflettano il mondo in maniera
“diretta e immediata”, attraverso i “modelli operativi
interni”. Il concetto di mentalizzazione poi comprende
sia la funzione cognitiva che quella emotiva.
Il possesso della capacità di mentalizzazione è, per
Allen, più di un’abilità, è “una virtù”, un “atto
d’amore”; mentre per Fonagy è ricondotto alla
“competizione sociale”: mentalizziamo per finalità
strategiche e per prevalere sugli altri. Si tratta in
sostanza di una capacità che non garantisce che essa
venga usata a fini pro sociali. È ragionevole pertanto
ipotizzare che uno psicopatico possa essere in grado di
mentalizzare e possa usare questa capacità per fini
malvagi e perversi.
Un caregiver con un attaccamento sicuro trasmette al
bambino tale sicurezza, la capacità di mentalizzare e di
crearsi modelli operativi interni. Diversi studi hanno
stabilito una connessione fra disturbo borderline (BPD)
e attaccamento insicuro (Allen). Un’esperienza
149
traumatica vissuta nella prima infanzia determina un
ritiro definitivo del soggetto dalla dimensione mentale.
Dalla qualità della genitorialità dipendono lo sviluppo
dell’attaccamento, della mentalizzazione e delle
capacità di interiorizzazione e rappresentazione del
bambino.
Sono stati compiuti progressi nella comprensione dei
substrati genetici, epigenetici e neurobiologici del
comportamento materno in modelli di mammiferi. Da
diversi studi risulta che alcune caratteristiche del
comportamento materno si trasmetterebbero da una
generazione all’altra non attraverso i geni, e che la
qualità delle cure materne ricevute nella prima infanzia
potrebbe programmare le risposte del bambino allo
stress nelle fasi successive, influenzando il suo
approccio al mondo (Ladd).
Gli studi empirici poi hanno rilevato la natura
altamente specializzata dei comportamenti verbali e
non verbali dei genitori di bambini molto piccoli e
l’importanza di una precoce sincronia e reciprocità nelle
interazioni genitore-bambino; dimostrando la decisiva
influenza delle prime esperienze sui successivi
comportamenti di attaccamento del bambino nei
confronti dei genitori e sullo sviluppo di relazioni
intime nelle fasi di vita seguenti (Leckman). Questi
studi sottolineano le conseguenze negative di una
precoce deprivazione o negligenza genitoriale sullo
sviluppo mentale, affettivo e sociale del bambino, ed
150
evidenziano l’importanza dell’adattamento coniugale
dei genitori, della loro autostima, nonché del supporto
sociale di cui possono beneficiare nel loro adattamento
al ruolo di genitori.
Conseguenze dannose possono poi derivare tanto da
una carente preoccupazione primaria da parte dei
genitori, che può preludere a una forma di abbandono
o di abuso, quanto da un’eccessiva preoccupazione, la
quale può indurre una condizione assimilabile a uno
stato
ossessivo-compulsivo
(Eckenrode).
Una
condizione spesso associata a un disturbo
dell’attaccamento fra madre e bambino, che pone a
rischio lo sviluppo di quest’ultimo anche in anni
successivi, è la depressione post-partum (Goodman).
Molti studi riportano che l’ossitocina facilita il
comportamento materno in femmine di ratti esposte
all’effetto di estrogeni. La somministrazione di
ossitocina in femmine di ratto vergini determina la
comparsa di un comportamento materno a tutti gli
effetti entro pochi minuti. Anche i sistemi
dopaminergico e noradrenergico sembrano avere un
ruolo di primo piano nel facilitare il comportamento
materno (Koob). L’ossitocina, gli estrogeni e la
prolattina
possono
agire
sull’area
mediana
dell’ipotalamo, (area coinvolta nella regolazione del
comportamento materno), favorendo il comportamento
materno.
151
In sostanza, la comparsa e il consolidamento del
comportamento materno dipendono da uno specifico
circuito neurale. Con la gravidanza o la ripetuta
esposizione a cuccioli, si verificano cambiamenti a
livello strutturale e molecolare, che riguardano
specifiche aree del sistema limbico, dell’ipotalamo e del
mesencefalo adatte alle molteplici esigenze della cura
materna.
Sulla deprivazione delle cure materne, alcune
ricerche mostrano che i profili comportamentali delle
scimmie maltrattate sono simili alla prime descrizioni
di Bowlby di un attaccamento sicuro o insicuro dei
bambini umani (Suomi). In uno studio di brain imaging
su primati non umani è stato rilevato che la separazione
di giovani scimmie dalle madri era associata
all’attivazione dei circuiti corticali suscettibili agli
ormoni dello stress.
Oltre a influenzare il comportamento, la separazione
dalla madre può avere una serie di conseguenze
negative sulla salute fisica. Anche uno stress indotto nei
primi giorni di vita ha effetti su integrità neuronale,
metabolismo, funzione gliale e contenuto di
glutammato cerebrale. Questi modelli animali
sembrano in linea con gli studi condotti su popolazioni
umane, dai quali emerge che anche i bambini sottoposti
ad abusi mostrano un aumento dei livelli di cortisolo e
ormoni dello stress. Una comunicazione con il bambino
“costantemente incongruente e contraddittorio” può
152
impedirgli di formare “un proprio senso di identità e di
relazione con il mondo esterno” (Bateson).
In sintesi, i dati provenienti dagli studi condotti su
animali indicano che l’intervallo che circonda la nascita
del cucciolo di ratto o di scimmia rhesus rappresenta un
periodo critico nella vita dell’animale, condizione che
avrà conseguenze durature sul piano neurobiologico e
comportamentale. In particolare, la qualità delle prime
cure può avere effetti permanenti sulle differenze
individuali nel successivo comportamento materno,
nella regolazione dell’ansia e negli schemi di risposta
allo stress.
Esperienze cicliche di incuria dunque possono
alterare l’asse HPA e persistere per intere generazioni
(Shea). L’esposizione precoce ad un ambiente
sfavorevole, disturbi della relazione fra genitore e
bambino aumentano la vulnerabilità a sviluppare
risposte alterate allo stress, a produrre disturbi d’ansia
e dell’umore e a generare una psicopatologia nelle fasi
di vita successive.
Per assicurare uno sviluppo positivo nell’infanzia e
nelle fasi di vita successive è necessaria la combinazione
tra geni “sufficientemente buoni” e cure genitoriali
“sufficientemente buone” (Winnicott). Interazioni fra
geni, cure genitoriali, esperienze positive, condizioni
emotive, sistemi neurobiologici e vincoli ambientali
contribuiscono alla comprensione della diade madrebambino, e ad assicurare interventi precoci per favorire
153
lo sviluppo del cervello, la capacità di problem solving e
la risposta allo stress, riducendo la vulnerabilità allo
sviluppo di disturbi psicopatologici nelle fasi di vita
successive. Le ricerche mostrano la decisiva importanza
non solo a promuovere lo sviluppo di bambini sani, ma
anche ad aiutare i genitori e gli adulti a compiere il
passaggio verso il loro nuovo ruolo e a comprendere i
fattori genetici, neurobiologici e affettivi che
contribuiscono a questa fondamentale transizione.
154
La depressione
della donna
“Qui il sole mi pare così freddo, / i fiori appassiti, la
vita scomparsa” (Schubert).
“Dopo queste nottate, le giornate portavano le
emicranie che le trapassavano l’occipite…e poi
seguivano nottate ancora peggiori, rese terribili dal
peso crescente dell’ansietà e della depressione”
(biografia di Virginia Woolf).
Uomini e donne vengono veramente da pianeti
diversi ? A che cosa sono dovute le profonde differenze
fra i sessi? Sul mistero della differenza, la scienza sta
facendo chiarezza. Anzitutto, le splendide scoperte
della nuova scienza del cervello e della mente
dimostrano, come abbiamo precisato in altre pagine,
che non esiste un cervello unisex. Il funzionamento del
cervello di uomini e donne è “diverso” fin dalla nascita.
Perfino nei neonati di un giorno, il cervello femminile è
più empatico e comunicativo, mentre il cervello
maschile è più capace di comprendere ed elaborare
sistemi.
155
La genesi di questa diversità è il cervello insieme con
1'ambiente e l’educazione. Le caratteristiche biologiche
della donna - il ciclo mestruale, la gravidanza, il parto,
1'allattamento, la cura dei figli - influenza lo sviluppo
cognitivo, affettivo, comportamentale e sociale del suo
cervello.
Le ricerche mostrano che le prime differenze si
manifestano già dall'ottava settimana di sviluppo
fetale. A causa soprattutto dell'attività ormonale che
“condiziona” per sempre i meccanismi neurali, di
maschi e femmine.
Le donne sono più sensibili degli uomini nella sfera
delle emozioni, degli affetti e dei sentimenti. Molti studi
su questo argomento sono stati condotti sui primati. I
neuroscienziati ritengono che nel cervello femminile
(umano) possano esserci più neuroni “specchio” che in
quello maschile (Oberman). La dimostrazione si trova
nelle differenti biologie dei nostri cervelli. Fatto che dà
luogo a diverse mentalità e a diversi comportamenti.
Il cervello della donna è una struttura emotiva molto
efficiente, in grado di “interpretare” i segnali verbali e
non verbali dei “più intimi sentimenti altrui” (Brody), e
di captare segnali di sofferenza, infelicità, malessere. È
la ragione per cui le donne piangono quattro volte più
degli uomini (Campbell).
Questa maggiore sensibilità è dovuta al numero dei
neuroni che il cervello della donna possiede. L’aumento
156
poi degli estrogeni genera sensazioni viscerali e dolore
più intensamente dei maschi. Anche i circuiti emotivi
per la paura, il dolore e la sicurezza sono differenti per
maschi e femmine (Bontler).
L’ansia, che nasce quando tensione e paura attivano
l'amigdala - il centro cerebrale della paura,
dell'aggressività e della rabbia - è quattro volte più
diffusa nelle donne (Halbreich).
La maggiore probabilità della donna di soffrire di
ansia e depressione soprattutto durante l’età produttiva
è un fenomeno presente in tutte le culture. Oltre ai
fattori socio-culturali, un ruolo importante rivestono
stress, geni, estrogeni, progesterone e biologia
cerebrale. Gli effetti degli estrogeni spiegano perché il
numero di donne che soffrono di “winter blues” o
depressione stagionale sia tre volte maggiore rispetto
agli uomini.
Che cosa è la depressione? Sulla depressione esiste
un'immensa letteratura. Chiamiamo depressione una
malattia psichiatrica in cui si presenta “alterato” non
solo ii tono dell'umore, ma anche le manifestazioni
cognitive, affettive e comportamentali, spesso
accompagnate da disturbi somatici fino alla
compromissione di tutte le funzioni vitali e di relazione.
Studi condotti in materia hanno calcolato che la
depressione entro il 2020 potrebbe diventare la
principale
causa
di
malattia
nelle
società
industrializzate. Esiste poi uno stretto rapporto tra
157
depressione, suicidio e pensieri ricorrenti di morte,
ricorrenti propositi di suicidio e tentativi di suicidio.
Molti autori hanno indicato la malattia depressiva come
la maggiore portatrice di rischio suicidario rispetto a
tutte le patologie psichiatriche (Wolfersdor). Il suicidio
prevale nel sesso maschile, è più elevato nell'età senile.
In molti Paesi, i tassi di suicidio fra i giovani compresi
dai 13 ai 20 anni d'età crescono in maniera vertiginosa.
Suicidi furono, tra gli altri, Paul Celan, Ernest
Hemingway, Majakovskij, Gerard de Nerval, Cesare
Pavese, Virginia Woolf, Van Gogh, Gorky. Tra gli artisti
e scrittori depressi, citiamo Schumann, Virginia Woolf,
Poe, Pound, Thomas Moore, Shelley.
La depressione è conosciuta da millenni. Ippocrate
(400 a. C. ) la definisce “melancholia”. Risalgono a
Kraepelin e a Bleuler i primi tentativi di classificazione
delle malattie psichiche. È di Freud con 1'opera “Lutto
e melanconia” il contributo più importante dei processi
psicodinamici che sottendono la depressione, Egli
associa la depressione al lutto.
L'idea base è che all’origine di questa patologia vi sia
una situazione di “perdita”.
L'intuito geniale di Proust così descrive la natura dei
lutto: “ Se è vero che i morti non esistono più che in noi,
è su noi stessi che infieriamo ostinandoci a ricordare la
perfidia con cui li abbiamo colpiti. A questi dolori, per
158
quanto crudeli, m'attaccavo con tutte le mie forze,
perché li vivevo come effetto del ricordo”.
Nel
Rinascimento,
nell’Illuminismo
e
nel
Romanticismo, la malinconia assume ii carattere di vera
fascinazione. A subirla, sono soprattutto i poeti, gli
artisti e i letterati che di essa fanno l’emblema del genio
“saturnino”. Nel Romanticismo francese e tedesco, la
malinconia “contrassegna” la rovina dell’Io.
La metafora del “viaggio”, che designa la condizione
esistenziale dell'uomo romantico, assume il ruolo di
causa principale della depressione. “Qui il sole –dirà il
“viandante” di Schubert - mi pare così freddo, i fiori
appassiti, la vita scomparsa”.
I disturbi psichici e quelli depressivi vengono
raggruppati in una unica entità alla quale viene
assegnata il termine di “disturbi affettivi”, e
successivamente di “disturbi dell'umore” (DSM).
La depressione è un disturbo molto diffuso. Nei
paesi occidentali colpisce in media una persona su
cinque, almeno una volta nel corso della vita. Preferisce
le donne agli uomini. Ogni tre persone depresse due
sono donne. Ogni anno, due donne su cento si
ammalano, mentre per gli uomini il rapporto è di uno a
cento.
Molte donne hanno sintomi depressivi in occasione
del ciclo mestruale e dopo il parto. Gli studi rilevano
159
inoltre come la percentuale di donne afflitte da
depressione sia circa il doppio rispetto agli uomini.
Nella distimia e nella depressione maggiore, la
categoria femminile risulta due volte più rappresentata
nel primo disturbo e circa tre nel secondo rispetto a
quella maschile. Le donne tendono ad ingrassare, ad
avere problemi di sonno e presentano una maggiore
ansia sui problemi del corpo.
L'eziopatogenesi fa riferimento al modello biologico,
al modello psicologico e come abbiamo detto ai fattori
culturali e socio-economici. Gli studi di genetica hanno
documentato l’esistenza di una importante componente
ereditaria nell’eziologia delle sindromi psichiatriche. Si
tratta di una realtà complessa e dinamica, che può
essere compresa solo attraverso un approccio
multiprofessionale.
La terapia della depressione pertanto non può
basarsi esclusivamente sugli psicofarmaci, i quali
devono essere sostenuti da altri di natura
psicoterapeutica e realizzati da professionisti di
accertata competenza, formazione e maturità
psicologica. Nei casi più gravi e complessi si consiglia
una terapia “combinata”: farmaci e psicoterapia.
La depressione ha poi ritmi che seguono sia le ore del
giorno sia 1’avvicendarsi delle stagioni, anche in
relazione al funzionamento degli ormoni e al
cambiamento della luce.
160
In uno studio su 113 poeti e artisti, è risultato che il
tasso più alto di anormalità psichiatrica è stato
riscontrato tra i poeti (50 per cento) e i musicisti (38 per
cento, contro il per cento di pittori). In un'altra ricerca,
è emerso che il 18 per cento dei poeti aveva commesso
suicidio.
Un altro studio su poeti e artisti infine ha rivelato che
le depressioni maggiori sono due volte più diffuse tra le
donne.
161
Alla conquista
della felicità
Negli ultimi anni, le neuroscienze hanno accumulato
una grande quantità di conoscenze, empiricamente
fondate, sul cervello ed hanno svelato meccanismi
sconosciuti, i quali ci aiutano a comprendere i meandri
della nostra mente, a spiegare il comportamento umano
e a migliorare la nostra vita.
Gli studi mostrano tra l’altro che il cervello è un
organo prodigioso, che agisce in base a schemi
adattativi complessi e che predilige una condizione di
equilibrio stabile, di chiarezza e di coerenza. Il
comportamento umano- ci ricorda Di Salvo, è
imprevedibile e fatto di mille sfumature.
Una delle idee fondamentali emerse dalla ricerca
neuro scientifica è che il nostro cervello segue più
“automatismi” di quanto crediamo ed è influenzato da
“centinaia di preconcetti irrazionali”. Il risultato di
numerose ricerche portano alla stessa conclusione,
ovvero che la mente umana risente in modo negativo
dell’azione di questi preconcetti. La sua capacità è
quella di prevedere i rischi, e difendersi dai preconcetti,
dall’imprevedibilità e dall’instabilità. Tutti fattori che
162
sono vissuti dal cervello come minaccia alla sua
sopravvivenza. Ha la tendenza all’omeostasi, cioè a
mantenere un equilibrio interno, stabile e costante
(Cannon): insomma uno stato di sedazione
neuromotoria e di tranquillità interiore, come già
teorizzava Seneca, il più grande filosofo latino, secondo
una concezione psicoanalitica ante litteram. Il cervello ha
poi come dote innata, per molti neuro scienziati, la
capacità di comprendere il mondo. Un mondo che noi
riteniamo “abitato da forze ed essenze invisibili, che
trascendono la dimensione terrena e si situano nel
soprannaturale. Di qui, la disposizione dell’essere
umano a distinguere le credenze secondo il loro valore:
credere in Dio, ad esempio, diventa per molti “più
importante che credere a 2 più 2 eguale a 4”.
C’è poi nel cervello un “centro della ricompensa”,
che ha la funzione di”rinforzare” i comportamenti più
vantaggiosi per l’individuo. Il neurotrasmettitore della
ricompensa è la dopamina, una sostanza importante,
ma anche un potente nemico di gratificazioni
inappropriate, che danno luogo a comportamenti
compulsivi e a forme di dipendenza patologica, come
ad esempio nel caso delle droghe, del sesso, della rete o
del gioco.
Viviamo in un mondo dove le situazioni di tipo
ossessivo-compulsivo sono sempre più numerose. Nei
prossimi anni, il fenomeno è destinato a intensificarsi.
L’ansia, la solitudine interiore, che prescinde dalle
163
persone che abbiamo intorno, l’isolamento sociale, i
videogiochi, sono tra i principali fattori che alimentano
l’uso compulsivo del web (Caplan), i cui protagonisti
fanno da “surrogati” nell’appagamento dei bisogni
psicologici e nelle situazioni cariche di frustrazioni.
In realtà, sono ancora limitate le nostre conoscenze
sul cervello e la mente. Negli ultimi decenni tuttavia
importanti scoperte ci hanno fornito nozioni
fondamentali. Le nostre attuali conoscenze sul cervello
mostrano che il dualismo corpo-mente è una dottrina
ormai superata. Siamo lontani dal “dualismo animacorpo”, dal concetto cioè che il cervello (entità
materiale) e la mente (entità immateriale) siano due
sostanze separate, secondo l’impostazione di Cartesio.
Per i neuro scienziati, è il cervello a “produrre”
quella cosa cui abbiamo dato il nome di “mente”. La
mente è qualcosa che il cervello “fa”. Il cervello “è” la
nostra anima, la nostra mente. Una conclusione che
mette in profonda crisi le nostre millenarie concezioni
filosofiche e teologiche, a partire dal pensiero di
Platone, il padre della filosofia occidentale e
“l’inventore” dell’anima, indipendente dal corpo, e
dunque immortale. La mente dunque “non è altro che il
cervello” (S. Le Vay), “ridotta” perciò a un processo
biologico, non più sostanza immateriale, ma sostanza
materiale.
164
È possibile che l’essere umano, creatura che si ritiene
eccezionale e di natura superiore, debba restare
“attaccato” a una cosa materiale? È questa la sfida che
ci viene affidata dalle nuove neuroscienze.
Il cervello acquisisce una condizione di felicità se
riesce a vivere in uno stato di certezza e di stabilità
emotiva. Ciò fa emergere la sua tendenza a cercare
prove che confermino le proprie idee e a ignorare quelle
che le contraddicano. È una disposizione battezzata dai
neuro scienziati “bias di conferma”, una caratteristica
quanto lo sono “il sonno, il sesso o le grigliate
all’aperto”. Cercare prove o giustificazioni nel
convalidare la nostra posizione e contrastare quelle che
la confutano è un meccanismo cerebrale chiamato
“chiusura cognitiva”.
Ma perché impegnarsi tanto per dimostrare
l’autenticità di una cosa che invece si è dimostrata
essere falsa? Cercare anche in maniera compulsivoossessiva di aver ragione pur di fronte ad evidenti
falsità è una condizione emotiva che produce nel
cervello una scarica neurochimica di gratificazione. Avere
l’ultima parola anche in questioni banali o meschine è
una cosa che al nostro cervello “piace tanto”. Perché
ogni comportamento di “chiusura”, di “resistenza
mentale” rappresenta una “ricompensa” una
soddisfazione, un premio psicologico. Una scossa di
certezza: “contrasto, nego, rifiuto: dunque sono, esisto”.
165
A guidare il nostro cervello in sostanza sono gli
“schemi prestabiliti”. Ogni nuova situazione mette in
discussione uno schema mentale consolidato. Il cervello
reagisce come se si trattasse di una minaccia, attivando
l’amigdala, una struttura sensibile ai pericoli e alle
nostre reazioni di ansia o paura. Lo ribadiamo, il
cervello ha la tendenza all’omeostasi, ha un bisogno
disperato di stabilità, di certezza: ogni nuova
informazione costituisce una minaccia, un pericolo.
Il libro: David Di Salvo, Cosa rende felice il tuo cervello,
Bollati Boringhieri Editore, Torino 2013, pagine 331, € 22.
166
L’unicità della persona,
split brain, morale
e religione
Negli ultimi anni, le neuroscienze hanno intrapreso
un affascinante viaggio lungo un ampio sentiero che
comprende i nostri cervelli, le nostre menti, la nostra
coscienza, i nostri sentimenti, il nostro mondo sociale
fino a includere i nostri sistemi morali e la religione.
Da sempre il cervello ha attirato l’attenzione di
scienziati e filosofi, i quali hanno riconosciuto
alternativamente la nostra “unicità” oppure l’hanno
negata. Un tempo, si riteneva che soltanto gli esseri
umani avessero la capacità di riflettere sui propri
pensieri. Oggi, una serie di dati mostra che questa
capacità è presente anche nel mondo animale. Siamo
caratterizzati dai medesimi componenti chimici e
abbiamo le medesime reazioni fisiologiche degli
animali. Condividiamo con questi la maggior parte dei
nostri geni e dell’architettura del cervello. Nonostante
ciò, le differenze sono abissali.
167
Comprendere il cervello e la mente, significa
comprendere anche la condizione umana. La mente, per
molti neuroscienziati, non è “un buco nero”, ma “una
scatola nera”, che può essere interpretata e compresa,
grazie al contributo di straordinari strumenti di recente
sviluppo, quali la “neuroimaging” e le tecniche
genetiche.
La vera domanda del XXI secolo è “come” il cervello
possa permettere alla mente di essere e funzionare. I
processi mentali fanno parte ancora dell’oscuro mistero
del cervello che i neuro scienziati cercano
disperatamente di capire. La psicologia da parte sua
continua a porsi domande alle quali i suoi mezzi “non
consentono risposta”. Di qui, il severo giudizio di
Gazzaniga, già espresso in “The Mind’s Past” che “la
psicologia in sé è morta”, soppiantata dalle
neuroscienze, disciplina in cui ogni giorno vengono
fatte incredibili scoperte.
Le neuroscienze possono non solo sondare la
coscienza, intesa come consapevolezza delle nostre
capacità, ma addirittura esplorare la “coscienza
umana” (Gazzaniga). Il contributo maggiore alla
comprensione più recente del concetto di coscienza è
venuto dagli studi condotti su soggetti che vivono con i
due emisferi cerebrali separati, a seguito di traumi o di
interventi chirurgici, che hanno interrotto le vie di
comunicazione fra il loro emisfero sinistro e quello
destro. Gli esperimenti condotti da Roger Sperry e
168
Michael Gazzaniga su un cervello diviso, split brain,
mostrano che ciascuno dei due emisferi può avere una
sua consapevolezza. I due emisferi risultano quindi
isolati l’uno dall’altro. Questi soggetti vivono come se
avessero due menti separate che presentano proprie
caratteristiche e capacità di apprendere, ricordare e
provare emozioni.
In una persona normale, le due metà del cervello
comunicano l’una con l’altra: se la parte destra del
cervello vede una mela, passa il messaggio attraverso il
“corpus callosum” (corpo calloso) fino all’emisfero
sinistro, che può dare un nome a quella mela. Senza i
collegamenti che attraversano il corpo calloso,
l’emisfero destro non può passare il suo messaggio al
sinistro, e i pazienti con emisezione cerebrale sono
incapaci di riconoscere gli stessi oggetti se li vedono
nella parte sinistra del loro campo visuale (che si collega
all’emisfero destro). È come se questi soggetti - osserva
Sperry- avessero “due regni distinti di coscienza
consapevole, due sistemi di intuito, percezione,
pensiero e memoria”. In alcuni casi, infatti, la mano
destra e la mano sinistra, guidate dai due emisferi,
possono compiere azioni diverse se non discordanti,
Gli studi sugli animali sono stati il primo passo per
dimostrare il ruolo fondamentale del corpo calloso nella
determinazione della condizione mentale. La prima
scoperta fu quella di comprendere che una parte del
cervello faceva qualcosa di cui l’altra non sapeva nulla.
169
Ciascuno emisfero del cervello aveva le sue specialità e
svolgeva funzioni separate.
Partendo da questi studi, il neuro scienziato suddetto
è giunto a sostenere il concetto di “interprete”, che è il
titolo di un volume pubblicato dall’editore Di Renzo. È
la capacità dell’emisfero sinistro di “interpretare” i
nostri pensieri, i nostri comportamenti e le nostre
risposte, sia cognitive che emotive, agli stimoli
ambientali, dando così un senso a tutti i processi della
coscienza, della mente, e agli eventi della nostra vita.
L’interprete ha consapevolezza, ad esempio, del fatto
che sanguinare possa essere la conseguenza del
“pungere” un dito.
Ciascuna specie poi è consapevole delle proprie
capacità. Può forse esserci qualche dubbio- si chiede
Gazzaniga- sul fatto che un topo, al momento della
copula, provi una sensazione di soddisfacimento al pari
di un essere umano ? Certamente no. Così come appare
chiaro pensare che a un gatto piaccia un pezzo di
merluzzo.
Anni di ricerca sullo “split brain” mostra che
l’emisfero sinistro ha molte più capacità mentali del
destro. L’emisfero sinistro parla, pensa e genera ipotesi.
È il centro del pensiero, del linguaggio, del discorso e
della risoluzione dei problemi. È superiore nei compiti
verbali, analitici e sequenziali. Il cervello destro invece
è specializzato in compiti di ricognizione spaziale, ed è
170
più portato per i compiti sintetici, globalizzanti e
ideativi, compresa la musica, ma non è in grado di
“pensare o comunicare”. Può solo risolvere problemi
semplici.
Sulla strada della comprensione dei meccanismi
della coscienza, ci sono autori che sostengono che
l’essenza della coscienza non può avere una
spiegazione fisica, ossia è tanto “fantastica” da non
poter essere spiegata attraverso neuroni, sinapsi e
neurotrasmettitori. Ci sono altri che ritengono che
possa esserlo. Essere in grado tuttavia di spiegare la
coscienza attraverso i neuroni, le sinapsi e i
neurotrasmettitori è “un’impresa persino più fantastica
e affascinante”.
Dobbiamo cercare quel circuito neurale “comune a
tutti i vertebrati” che consente di essere consapevoli
delle proprie capacità specie-specifiche. Lo stesso
circuito che permette a un topo di fare ciò è, con ogni
probabilità, “presente” anche nel cervello umano. Da
questa prospettiva, il problema della coscienza è
“risolvibile”.
Se dunque i nostri cervelli hanno infinite capacità e i
due emisferi presentano funzioni specifiche, come
emerge quella potente sensazione di “unità” della
coscienza? La risposta è nella funzione di “interprete”
presente nel cervello sinistro e nella sua tendenza a
generare teorie, spiegazioni e ipotesi sugli eventi e sui
comportamenti. In questa maniera, l’interprete produce
171
in ognuno di noi la sensazione di una mente “unica e
integrata”. È un sistema che dà un “senso” a tutte le
informazioni che bombardano il cervello, interpretando
pensieri, idee, azioni, aspetti cognitivi ed emotivi e
collegamenti.
Un tale meccanismo non può far altro che “dare
origine al concetto di sé”. Intendiamo il concetto di
cognizione di sé come il “prodotto” di vari processi e
come una “struttura di conoscenze” (Kihlstrom e
Klein). È l’interprete che elabora la teoria, la narrazione
(passato, presente e futuro) e l’immagine di sé. Questo
livello di autocoscienza dimostrato dagli esseri umani è
“unico”.
Dove si trovano le capacità di analizzare il sé? Studi
di brain imaging e l’esame di dozzine di casi mostrano
che il senso del sé emerge da una serie di “sistemi
distribuiti in entrambi gli emisferi. Sulla base di
informazioni provenienti da questi sistemi distribuiti,
l’interprete nell’emisfero sinistro “costruisce il senso
del sé”.
Il sé partecipa anche alla formazione e
all’interpretazione del giudizio morale o del
comportamento. Problemi filosofici come l’etica, la
morale e le esperienze religiose sono, infatti, finiti con il
convergere sulle neuroscienze. In termini evolutivi, si
tratta di una nuova capacità che gli esseri umani hanno
acquisito di recente. Abbiamo scoperto tratti che
risultano unici negli esseri umani: l’emozione morale
172
legata al senso di colpa, di vergogna e di imbarazzo; il
pianto e la tendenza ad arrossire; l’emozione del
disgusto. Abbiamo poi scoperto che abbiamo intuizioni
morali fin dalla nascita.
Il cervello produce storie e credenze. Questa sua
attività è particolarmente evidente nel fenomeno della
credenza religiosa, la quale può aver avuto origine da
“una reazione istintiva” comune a tutti gli esseri umani.
Abbiamo scoperto che la base della religione poggia
sulla nozione di “purezza della mente o del corpo”.
Alcuni autori asseriscono che la religione sembra
“naturale” perché una gran varietà di “sistemi mentali”
viene attivata da “norme religiose” (Boyer).
Diversi autori, fra i quali Greene e Gazzaniga, hanno
esaminato l’associazione esistente tra lobo temporale ed
esperienza religiosa: le persone che soffrono di epilessia
del lobo temporale sono spesso colpite da attacchi
caratterizzati da un potente sentimento religioso, se non
addirittura da vere e proprie allucinazioni di carattere
religioso. Questa connessione è stata confermata da un
esperimento effettuato da Persinger, innescando
apposite esplosioni di attività ne lobo temporale, le
quali scatenavano nei soggetti sperimentali “esplicite
esperienze religiose”. In questo senso, le neuroscienze
possono fornire alla neuroetica e alla neuroteologia
molteplici, fondamentali contributi. Il più importante
contributo è quello relativo al “come” gli esseri umani
costruiscano credenze morali e religiose. I meccanismi
173
di “correlazione mentale” o di “empatia” sono accertati.
Essi ci aiutano a comprendere le azioni e il significato di
ciò che gli altri fanno. Ci aiutano in sostanza a
sviluppare una teoria della mente altrui e, di
conseguenza, della nostra.
Le conclusioni delle ricerche sulla struttura mentale
del giudizio morale e delle credenze religiose indicano
che essi nascono all’interno del nostro cervello
(Greene).
174
Alla ricerca
dell’anima nel cervello
I progressi delle neuroscienze nella comprensione
della struttura e del funzionamento del cervello, della
mente e della coscienza sono destinati a riconsiderare in
modo nuovo le nostre concezioni millenarie, a partire
dai sistemi filosofici, morali e spirituali.
Le ricerche condotte attraverso gli straordinari
metodi di brain imaging mostrano sempre più che tutto
ciò che proviamo e pensiamo sia il risultato non di
un’anima immateriale, ma dell’attività del nostro
cervello. I neuro scienziati ritengono che i processi
mentali siano processi cerebrali. La natura del pensiero
e dei sentimenti pertanto può essere analizzata e capita
dalla comprensione del cervello.
Storicamente, i filosofi sostenevano che gli esseri
viventi “contengono” gli “spiriti animali” che
“vivicano” nel corpo (Galeno). Platone affermava
l’esistenza di un’anima non fisica. Su questa linea si
poneva anche Cartesio, il quale asseriva che tutte le
funzioni mentali- pensiero, sentimenti, emozioni, sogni,
decisioni- fossero opera dell’anima immateriale e non
del cervello. Da parte sua, Aristotele appare più incline
175
ad abbracciare la concezione del naturalismo: i pensieri
e gli stati emozionali sono in realtà stati del corpo.
Da queste diverse ipotesi, sono emerse le due teorie
dell’Occidente: il dualismo- sostanza spirituale e
sostanza materiale (anima e corpo)- e il naturalismo che
ammette l’esistenza solo del cervello. L’anima viene
così identificata con il cervello, fatto che fa perdere
credibilità alla concezione dualistica, a partire dalla
metà del Novecento. Dalla teoria cartesiana non c’è
stata in realtà alcun progresso. I dualisti non hanno
“neppure tentato di sviluppare” una scienza del’anima.
Ripetere ogni volta che l’anima c’è non è una
“spiegazione”. Inoltre, non c’è stato “un singolo
esperimento” che abbia mostrato in maniera definitiva
che il cervello esegua compiti mentali, come “il vedere
e il decidere”. C’è stato- precisano i neuro scienziati- un
“accumularsi” di dati nella ricerca del sistema nervoso,
che “smontano” l’idea di un’anima spirituale.
Le prove- scrive Patrizia S. Churchland nel suo
documentato e brillante libro L’io come cervello (Raffaello
Cortina Editore) derivano da molte fonti. Esperimenti
mostrano che cambiamenti fisici nel cervello producono
cambiamenti nelle “supposte funzioni spirituali, come
il pensiero e la coscienza”. Un soggetto colpito da ictus
sarebbe divenuto incapace di riconoscere, ad esempio,
visi familiari o di comprendere il linguaggio.
Fondamentale al riguardo, la scoperta negli anni
Sessanta di Rogers Sperry nello studio di alcuni pazienti
176
i cui emisferi erano stati separati chirurgicamente come
tentativo di curare una grave epilessia. Accurati
esperimenti effettuati su questi pazienti split brain, ossia
dal cervello diviso, mostrarono che i due emisferi
diventavano sul piano cognitivo “indipendenti”. Nei
soggetti split brain, ogni emisfero può sperimentare in
modo separato gli stimoli diretti esclusivamente a esso.
L’altro emisfero “non ne sa nulla”.
Queste conclusioni rappresentavano una forte base
all’ipotesi che gli stati mentali fossero stati fisici del
cervello e non stati di un’anima non fisica (LeDoux).
L’anima immateriale poi “non si adatta neppure alla
fisica”. Se un’anima non fisica- affermano i neuro
scienziati- causa eventi in un corpo fisico o viceversa,
viene “violata la legge di conservazione di massa ed
energia.
La concezione dell’anima è in crisi perché- affermano
i neuro scienziati- “non c’è alcuna anima”. Questo
tuttavia non esclude che non ci sia spazio per un’anima
non fisica, come sostenuto da Platone.
La mente e la coscienza sono ancora un mistero
troppo profondo per poterli capire. Secondi alcuni
autorevoli neuro scienziati non sapremo mai come il
cervello dia origine a pensieri e sentimenti. Abbiamo a
che fare- nota Chomsky- con un mistero insolubile. La
natura della coscienza- aggiunge Chalmers- non può
177
essere chiarita, studiando il cervello. Il quale non è un
organo facile da studiare sperimentalmente.
Invero, la storia della scienza ci dice che molti
fenomeni ritenuti misteriosi hanno poi trovato
spiegazione. Di qui, il fervore e l’impegno di tutta una
schiera di neuro scienziati alla ricerca del
funzionamento del cervello e della mente.
Oggi, si ammette una sostanziale “identità” di
cervello, mente e coscienza. Che rappresenta oltretutto
l’unico metodo per sottoporre l’anima (la mente) a
indagine scientifica. L’anima infatti, essendo
immateriale, non è “misurabile” scientificamente.
Dunque, la mente come cervello, un tema che è al centro
della nuova opera di Patricia S. Churchland,
un’affascinante esplorazione del cervello, della mente e
dell’etica.
È possibile- scrive l’autrice- che anima e cervello
siano “un’unica e stessa cosa”. Ciò che pensiamo come
anima è il cervello e ciò che pensiamo come cervello è
l’anima.
Che cosa sappiamo oggi? La scienza del cervello è ai
primi passi. Di fronte alla complessità del cervello, che
crea sgomento e soggezione, i risultati sono
straordinari.
Anzitutto, sappiamo che non esiste alcuna regione
del cervello che sia la sede della mente e della coscienza.
178
L’anatomia del cervello è “altamente conservata” tra le
specie di mammiferi. Le strutture che regolano le
emozioni sono “molto simili”. I principali elementi che
stanno alla base della coscienza sono “molto simili in
tutti i mammiferi”. Tutto ciò suggerisce ai neuro
scienziati che non soltanto gli esseri umani abbiano
coscienza, ma che essa, in una qualche forma, sia “una
caratteristica del cervello di tutti i mammiferi e degli
uccelli”. Quando il cane Kimi di mio figlio Valentino
nota che io sto per uscire incomincia a fare festa ed è
contento per la passeggiata. Quando comprende che
esco da solo mi guarda con aria afflitta perché sente la
tristezza della separazione. Sentimenti di gioia e
tristezza sono dunque comuni, pur ovviamente con
alcune differenze, le quali tuttavia si verificano anche
tra gli esseri umani. Gli stati mentali sono infatti
soggettivi, unici, personali.
Tutti i mammiferi inoltre hanno un cuore “molto
simile” al nostro e possiedono cervelli che hanno “in
buona parte” la stessa struttura e anatomia del cervello
umano.
È stato dimostrato, ad esempio, che i processi
inconsci hanno un ruolo di primo piano su come
prendiamo decisioni e risolviamo i problemi.
Le scoperte sul cervello realizzate negli ultimi anni ci
consentono- asserisce Edelman- di studiare la mente e
la coscienza a “dispetto” della soggettività. Sono allo
studio teorie scientifiche della mente e della coscienza
179
che si basano sull’attività del cervello intese a chiarire la
relazione tra eventi mentali (mente) ed eventi fisici
(cervello), e di “riferire” i propri stati fenomenici interni
(soggettivi) mentre misuriamo l’attività neurale e
corporea.
L’evoluzione biologica dei mammiferi nel corso di
settanta milioni di anni ha portato a strutturare il
cervello ai fini della sopravvivenza e del benessere in
modo da estendere la “cura di sé” alla “cura degli altri”:
in primo luogo alla prole, poi al partner, ai parenti, agli
amici e perfino agli estranei. Dando in tal modo origine
al sistema di “attaccamento”, alla socialità e alla
moralità.
Alla base della cura di sé, della cura degli e del
sistema sociale e morale ci sono tre fattori principali:
l’ossitocina, la vasopressina e gli oppiodi. Queste
sostanze, che vengono rilasciate sia dal cervello della
madre sia da quello del figlio, innescano una cascata di
eventi grazie ai quali la madre si sente fortemente
“attaccata” ai figli, dando affetto, benessere, protezione,
sicurezza emozionale, gratificazione (Cheng). Gli studi
sugli effetti della separazione dei neonati di roditore
dalla madre hanno rivelato cambiamenti nella
produzione di ossitocina e vasopressina e alterazione in
specifiche aree del cervello, nonché livelli di ansia,
aggressività e stress elevati (Veenema).
180
Sono
queste
sostanze
che
portano
alla
maternalizzazione del cervello e a prendersi cura della
prole, laddove una madre tartaruga non lo fa. Le madri
mammifere si accollano enormi rischi per accudire la
prole, le madri serpente no (Porges). Così, una carezza
delicata e amorevole attiva segnali di benessere e di
sicurezza. Durante questi momenti di sintonia affettiva
ed emozionale, l’ossitocina viene rilasciata sia dal
cervello della madre che dal cervello del piccolo,
neutralizzando i segnali di ansia e di allerta.
Alla base dell’attaccamento e di prendersi cura degli
altri c’è soprattutto “una maggiore” produzione di
ossitocina e vasopressina (Sue Carter) unita anche ad un
sistema di empatia, ai neuroni specchio e
all’apprendimento, un processo che avviene
specialmente per imitazione. Di fronte a un pericolo,
all’isolamento, alla deprivazione socio- affettiva o
all’emarginazione, crescono i livelli degli ormoni dello
stress e diminuiscono quelli dell’ossitocina. Che, lo
ribadiamo, è la molecola dell’amore, del piacere, della
fiducia e della sicurezza.
Nel corso dell’evoluzione biologica, la nostra vita
sociale e morale ha subito continui cambiamenti.
L’Homo erectus è apparso circa 1, 6 milioni di anni fa,
mentre l’Homo sapiens calca il pianeta da circa 250 mila
anni.
Secondo i neuro scienziati, le norme morali sono
“plasmate” da quattro processi del cervello: 1) la cura
181
per sé, per la prole e per gli altri; 2) il riconoscimento
degli stati psicologici altrui, come la sofferenza o la
rabbia ; 3) l’apprendimento delle pratiche sociali; 4) la
soluzione dei problemi.
Concludendo, i valori e le norme di condotta
vengono originati dal cervello di “ogni animale”
(Hauser). Anche la religione, per molti neuro scienziati,
“dipende” dalla base neurobiologica della natura
dell’essere umano, e fa parte della cultura, anche se essa
associa la fonte della moralità a un legislatore supremo,
a Dio.
182
Gli stati soggettivi
possono essere
conosciuti
sperimentalmente
Da sempre, c’è la credenza dell’uomo nell’esistenza
di un’anima immateriale. A partire dall’antico Egitto,
dall’Induismo e da molte altre culture, spesso l’anima
immateriale veniva rappresentata dagli uccelli a
simboleggiare il suo volo dopo la morte
nell’oltretomba. L’idea di un’anima separata dal corpo
e dunque immortale è sostenuta da Platone nel IV
secolo a. C., poi dalla concezione cristiana e da
Tommaso d’Aquino nel 1200. È soprattutto Cartesio a
sostenere il concetto del dualismo mente-corpo, cioè
che la mente è una sostanza immateriale che si sottrae
alle leggi della fisica.
Come potrebbe una macchina (il corpo)- si chiedeva
il filosofo francese- generare una varietà infinita di
pensieri, ide, simboli, emozioni (anima)?
Fino al XX secolo, l’anima, la mente, la coscienza,
sono rimaste al di fuori della scienza, restando
patrimonio esclusivo della filosofia. Tutta cambia183
afferma Stanislas Dehaene in “Coscienza e cervello”negli anni Ottanta del secolo scorso, quando le
neuroscienze s’impadroniscono del concetto di
coscienza, il quale diventa un tema di ricerca di primo
piano per i neuro scienziati. Così, un enigma filosofico
viene mutuato in un fenomeno da studiare in
laboratorio, trasformando lo studio della mente e della
coscienza in una scienza sperimentale.
Da oltre venti anni, gli scienziati stanno usando ogni
strumento della ricerca- dalle teorie dell’evoluzionismo
neodarwiniano alle metodiche di brain imaging, agli
elettrodi inseriti nel cervello umano, allo scopo di
“identificare” le basi cerebrali della mente e della
coscienza. La domanda infatti che filosofi e scienziati si
pongono è come potrebbe sorgere un’anima
(immateriale) da un cervello (materiale). Alcuni autori
sostengono che la mente non può essere conosciuta,
poiché i nostri stati soggettivi, (le nostre esperienze
interne), sono unici, privati, personali, soggettivi, come il
rosso di una rosa o il verde di una foglia. Queste qualità
interne non possono mai essere “ridotte” - affermano- a
una descrizione scientifica neuronale. Altri autori
sostengono invece che la coscienza fenomenica, -cioè la
soggettività, l’introspezione- può essere indagata e
conosciuta sperimentalmente. È possibile cioè
esaminare le basi biologiche della coscienza, gli stati
soggettivi, dai neuro scienziati chiamati qualia.
184
Gli studi sulla coscienza sono diventati una
disciplina scientifica attraverso “la ricerca di
meccanismi oggettivi degli stati soggettivi”, ovvero il
supporto cerebrale della coscienza.
Finora, la ricerca mostra che le esperienze coscienti
possono essere osservate in una grande varietà di
stimolazioni visive, uditive, tattili e cognitive. La
coscienza è dunque un’informazione trasmessa
all’interno del cervello e scaturisce da una rete neurale.
Ogni volta che noi diventiamo coscienti di una
informazione, “possiamo poi trattenerla nella mente e
conservarla nella memoria”. Ogni stato mentale
soggettivo dunque appartiene a uno stato neurale: è un
uccello, un cane, una persona, ma non tutto questo nello
stesso momento. Il cervello percepisce un singolo stato
soggettivo. Diventare, ad esempio, consapevoli di Kimi,
il meraviglioso cucciolo di mio figlio Valentino, implica
l’attivazione di “miliardi di neuroni”, i quali delineano
i contorni di un pensiero cosciente. Sulla base di una
grande varietà di prove sperimentali, abbiamo appreso
a seguire l’attività dei neuroni che intervengono
soltanto quando avviene “l’accesso cosciente”
(Dehaene), cioè la consapevolezza.
La scoperta di esperienze coscienti è un notevole
progresso, ma queste basi neurali degli stati soggettivi
non spiegano ancora cosa sia la coscienza e perché essa
abbia luogo.
185
La coscienza? “Il concetto- scrive Sutherland nel suo
International Dictionary of Psycology- è impossibile da
definire, se non intermini inafferrabili, senza una vera
comprensione
di
cosa
significhi
coscienza.
Sull’argomento non è stato scritto nulla che valga la
pena di leggere”. Coscienza è in sostanza avere
pensieri, sensazioni, consapevolezza. Coscienza è in
particolare consapevolezza soltanto di una parte
dell’insieme di stimoli che il cervello riceve: un colore,
un suono, una forma, un rumore, una fotografia, un
ricordo, una sensazione, ecc. Questo per dire che il
nostro cervello è “ridotto” ad un pensiero cosciente per
volta.
Quando emerge la coscienza? I feti, i bambini, i
prematuri, i neonati sono coscienti? Scimmie, topi,
uccelli o altri animali hanno forme di coscienza? Allo
stato delle nostre conoscenze, non sappiamo l’esatto
momento nel quale emerge la coscienza. Alcuni autori,
come J. P. Changeux, ipotizzano che la coscienza è già
presente alla nascita. Ci sono prove del fatto che i
bambini di pochi mesi sono coscienti. Per quanto
riguarda la situazione dei nostri cugini, gli animali,
esperimenti condotti al riguardo mostrano che le
scimmie hanno esperienze soggettive. Non dovrebbe
sorprendere, sostengono molti neuroscienziati, se
scoprissimo forme rudimentali di coscienza in tutti i
mammiferi e forse in molte specie di uccelli e di pesci.
186
La ricerca dimostra poi che il comportamento
animale- scimmie, delfini, ratti, piccioni- hanno capacità
autoriflessive (autocoscienza), ovvero metacognizione.
Non siamo gli unici a sapere di sapere e il concetto di
sapiens sapiens non dovrebbe essere più collegato
esclusivamente al genere Homo. Ovviamente, abbiamo
la stessa impalcatura neuronale, ma ciascun individuo
ha un codice neurale unico e differente.
La coscienza, per i neuroscienziati, è “una proprietà
biologica”, emersa nel corso dell’evoluzione e svolge
una funzione positiva.
Invero, la capacità della coscienza è “limitata” in
quanto retta da meccanismi inconsci, come già aveva
sostenuto Freud. Esperimenti di brain imaging hanno
confermato che la maggior parte della nostra vita
mentale avviene al di fuori della nostra coscienza. La
coscienza dunque viene considerata come una “parte”,
ma non il tutto del sistema mentale (LeDoux).
187
Alle origini delle
emozioni e degli affetti
La nostra cultura, come mi ripeteva spesso il
neuroscienziato Raffaello Vizioli, con il quale ho
collaborato per molti anni, è dominato dal concetto di
trinità. Già Platone descrive l’anima come una coppia di
destrieri guidati da un auriga. Lo scienziato russo,
Luria, concepisce il cervello in base a tre unità
funzionali. Anche la teoria di Freud propone un
modello trinitario (Es, Io e Super-Io). Negli ultimi anni,
uno dei più grandi neuroscienziati, Paul Mac Lean, ha
mostrato attraverso le sue ricerche che il cervello è “una
struttura trinitaria” consta di tre formazioni
sovrapposte: il cervello del rettile. Il cervello limbico e
il neocervello. Tutti e tre costituiscono- precisa Vizioliun cervello funzionalmente unitario, dunque un
cervello “uno e trino”. La trilogia dell’anima in sostanza
definisce un insieme di cognizione, emozione e
motivazione (Hilgard).
La ricerca sull’emozione, intesa come stato
dell’organismo caratterizzato da eventi psicologici e
fisiologici, ha ricevuto un importante impulso dalla
concezione evolutiva di Darwin, che ha assegnato al
188
sistema delle emozioni un rilevante punto di
riferimento per lo studio delle specie animali. Freud
pone al centro della vita mentale il mondo delle
emozioni, degli affetti e dei sentimenti. Finora, le
ricerche neuro scientifiche mostrano che in ogni
individuo vi sono patterns emozionali di base.
Invero, per lungo tempo il tema della mente emotiva
è stata ignorato dai neuro scienziati, mentre è
considerato essenziale nella filosofia classica ed è
presente in tutta la storia della filosofia occidentale.
Il comportamentismo ha negato la mente, mentre la
rivoluzione cognitivista ha ammesso la mente,
enfatizzando però il pensiero e i processi cognitivi a
discapito delle emozioni.
A prendere in considerazione i processi mentali di
base e i comportamenti emotivi sono oggi le
neuroscienze emotive.
Nel campo della ricerca neurobiologica, James ha
proposto una concezione delle emozioni basata sul
funzionamento di meccanismi sensoriali e motori.
Darwin ha sostenuto che le emozioni servono alla
sopravvivenza dell’individuo e della specie ed hanno
un carattere universale.
Negli ultimi anni, la ricerca neuro scientifica, sulla
base dello studio animale, dello studio clinico dei
pazienti e di quello sperimentale, ha approfondito
l’esame dei meccanismi del cervello, che sono
all’origine delle emozioni. Fondamentali sono i
189
contributi di LeDoux sulla paura, di P. Ekman
sull’universalità delle emozioni di base, di Damasio
sugli aspetti istintuali dei sentimenti e dell’esperienza
emotiva, e di J. Panksepp.
Nella sua importante opera, scritta insieme con L.
Biven, intitolata “Archeologia della mente. Origini
neuro evolutive delle emozioni umane” (Raffaello
Cortina Editore), Panksepp ha utilizzato il
comportamento animale per studiare le emozioni e i
sentimenti. La sua teoria è che animali ed esseri umani
si comportano in modo simile: i ratti e le persone, ad
esempio, esprimono reazioni di paura simili in
situazioni di pericolo. È possibile pertanto che essi
esprimano anche i medesimi stati soggettivi.
Le emozioni di base sono determinate da una serie di
meccanismi sottocorticali comuni a tutti i mammiferi.
Un aspetto che richiama il mondo istintuale dell’Es di
Freud. Le ricerche poi mostrano il ruolo centrale che
assumono nel campo delle emozioni il sistema limbico
e in particolare l’amigdala.
Le emozioni di base, secondo Izard, sono dieci:
collera, tristezza, felicità, paura, disgusto, sorpresa,
disprezzo, vergogna, colpa, interesse. Queste sono
espresse universalmente da tutti gli individui nelle
diverse culture. Gli affetti sono il nostro sistema di
comunicazione più arcaico. All’interno di questo
concetto, troviamo le emozioni e i sentimenti consci e
inconsci, che sono manifestazioni somatiche
190
neurosensoriali e metaboliche. Sono tutte componenti
dell’apparato mentale che operano in un sistema di
integrazione.
Finora, le neuroscienze non ci hanno fornito risposte
sicure su come è creata un’emozione, su che cosa ci
rende felici o ci riempie di desiderio, collera o tenerezza.
Questo è dovuto soprattutto al fatto che i sentimentiemozioni, affetti, sensazioni- sono esperiti in modo
soggettivo, mentre la scienza deve usare l’osservazione
in terza persona (osservazione esterna), per cui non è in
grado, secondo alcuni neuroscienziati, di analizzare e
conoscere le esperienze vissute in prima persona. Altri
autori, come Panksepp, ritengono invece che le nuove
neuroscienze sono in grado di chiarire i modi in cui gli
antichi circuiti del cervello dei mammiferi generano gli
affetti emotivi primitivi, cioè gli stati d’animo e dunque
la mente e la coscienza.
Le emozioni, gli affetti, sono le fondamenta su cui
viene costruita la nostra vita. L’antica divisione tra
disturbi fisici ed emotivi non è più accettata, si riduce al
punto tale da “estinguersi”. La mente e il cervello non
sono entità “distinte”, sono “realmente una e la stessa
cosa”.
Oggi, facciamo uso di questi due termini, cervello e
mente, con la doppia maiuscola e non separati dallo
spazio (CervelloMente), per sottolineare- precisa
Panksepp- che le neuroscienze sono “moniste”, senza
più alcuna prospettiva “dualista”. La teoria del
191
monismo, in opposizione al dualismo, e prevalente
nelle nuove neuroscienze, sostiene in sostanza che tutto
ciò che avviene nella mente è “radicato” nel cervello
fisico.
Allo stato attuale della ricerca, sappiamo che i
principi biologici di base del cervello di tutti i
mammiferi hanno uno stesso piano fondamentale
costituito da antichi circuiti affettivi concentrati nelle
regioni primitive del cervello dai quali ha origine la
coscienza. Questi circuiti affettivi sono presenti sia negli
esseri umani che negli altri mammiferi. I sentimenti
sono simili, ma non identici, poiché l’evoluzione è
caratterizzata da diversità.
Non abbiamo ancora una risposta empirica
definitiva alla domanda su come i sistemi neuronali
siano in grado di produrre le esperienze affettive, cioè
la coscienza. La ricerca deve concentrarsi sui
meccanismi istintivi ancestrali, che si trovano nei
circuiti sottocorticali del cervello dei mammiferi, là
dove nascono cioè le emozioni, gli affetti e i sentimenti.
Abbiamo prove sicure che tutti mammiferi vivono
esperienze emozionali intense. L’attività mentale sia
conscia che inconscia è intrinsecamente emotivoaffettiva. I sentimenti hanno basi biologiche (Russell) e
sono le radici delle nostre primitive comunicazioni.
I progressi in questo campo stanno operando una
rivoluzione sia nella psichiatria sia nella psicoanalisi,
discipline per lo più costruite su “concetti artificiosi e
192
intuizioni e non sui dati scientifici”. La diagnostica
psichiatrica si basa su concetti obsoleti, non sulla
conoscenza della nuova scienza del cervello e dei suoi
sistemi emotivi. Fatto che ha causato problemi sempre
maggiori, passando dal DSM1 al DSM5.
193
Per una epistemologia
basata sul cervello
Apri la mente a quel ch'io ti paleso
e fermarli entro; ché non fa scienza,
senza lo ritenere, avere inteso.
(Dante, Paradiso, V, 40-42)
Le neuroscienze sono state attraversate in questi
ultimi anni da “eventi e scoperte epocali”(Insel). Uno
degli eventi di maggiore portata storica riguarda la
scoperta della sequenza completa dcl genoma umano
costituito da circa 30. 000 geni composti da quasi tre
miliardi di basi di DNA. Situazione che rappresenta
un'opportunità senza precedenti di studiare le
differenze tra la nostra specie e i mammiferi non umani,
e rivela anche sorprendenti similitudini tra gli esseri
umani, con un'analogia del 99, 9 per cento tra gli
individui. Un progetto in corso, chiamato International
Haplotype Mapping Projet, sta lavorando sulla
diversità umana per individuare dove risieda la
differenza dello 0, 1 per cento tra gli individui sui tre
miliardi di basi di DNA.
194
Oggi sappiamo che le connessioni tra i neuroni non
sono stabilite una volta per tutte, ma si possono
modificare con l'esperienza e l'apprendimento. Poiché
gran parte dello sviluppo cerebrale è “stocastico” ed
“epigenetico”, ossia è fortemente influenzato dal fatto
che i neuroni che scaricano insieme si cablano insieme,
non esistono due cervelli identici. Neanche due gemelli
monozigoti hanno lo stesso identico cervello. Ogni
cervello è “unico” ed è dotato di “plasticità”.
Questi elementi hanno portato- afferma Kandel- alla
consapevolezza dell’unicità biologica dell’individuo,
fatto che avrà un forte impatto su ogni aspetto della
medicina e della psichiatria. La nostra individualità
pertanto si riflette nell'unicità della nostra mente, la
quale emerge “dall'unicità del nostro cervello”. I dati
poi mostrano che il cervello e la mente sono emersi
come “prodotto della selezione naturale” (Edelman).
Il cervello stesso funziona come “sistema selettivo”
con repertori altamente variati di circuiti. Le reti
straordinariamente complesse di cui è formato e i
segnali provenienti dal mondo esterno sono “incarnati”
in un modo che varia da cervello a cervello.
Nell'analizzare la struttura e il funzionamento del
cervello, di conseguenza, occorre - scrive Romolo Rossi
- tenere conto della storia dettagliata, anzitutto nel
corso dell'evoluzione e poi nello sviluppo cerebrale del
singolo individuo. L’ultimo, grande mistero con il
quale è chiamata a confrontarsi la nuova scienza del
195
cervello è la natura della mente umana. La biologia
della mente costituisce, per i neuroscienziati, il punto
d'arrivo di un percorso iniziato nel 1859, con la teoria di
Darwin sull'evoluzione delle forme corporee.
Darwin è stato il primo autore ad affermare che
l'uomo, al pari di ogni altro animale, si era evoluto da
progenitori animali “completamente diversi da lui”. Ha
sostenuto poi la tesi ancor più rivoluzionaria che la
spinta dell'evoluzione derivasse non da un agente
animato - l'Intelligent Design sostenuto dal
creazionismo -, ma dalla selezione naturale, un
processo basato sull'azione selettiva che l'ambiente
esercita sui diversi individui. Sta di fatto tuttavia che in
un passo dell’opera “L’origine dell'uomo”, Darwin
parla dell'intelletto “quasi divino dell'uomo” e afferma
che la vita è stata in origine impressa “dal Creatore in
poche forme od anche in una sola”; considerazioni che
esprimono, d'accordo con Primo Levi, “una religiosità
profonda e seria”.
Occorre dunque elaborare - dichiara Edelman,
neuroscienziato e premio Nobel per la medicina“un'epistemologia basata sui cervello” e “fondata
sull'evoluzione”, poiché “tutti i meccanismi cerebrali
sono emersi nel corso dell'evoluzione di Homo
Sapiens”.
I cambiamenti epigenetici e storici nella formazione
delle mappe cerebrali sono “fortemente infiuenzati” dai
segnali provenienti dal corpo e dall'ambiente.
196
Nello sviluppo del feto quanto in quello postnatale
infatti il sistema propriocettivo è in grado di
“distinguere” i movimenti autogenerati da quelli
imposti dall'esterno. Dopo la nascita e durante lo
sviluppo infantile, nelle popolazioni sinaptiche del
sistema nervoso centrale avvengono “enormi
cambiamenti” dovuti ad “eventi selettivi”.
Questa visione dinamica dello sviluppo del cervello
è in accordo con la teoria della selezione dei gruppi
neurali e dà rilievo alla natura plastica dello sviluppo
cerebrale, il quale si arresta in pratica soltanto “al
momento della morte”. Anche la coscienza è comparsa
nell'evoluzione dei vertebrati quando sono emerse le
connessioni rientranti del sistema talamocorticale che
collega i sistemi di memoria anteriori che trattano i
valori ai sistemi corticali posteriori dedicati alla
percezione. Di conseguenza, si è prodotto un enorme
aumento delle capacità discriminatorie per effetto di
miriadi di integrazioni tra i circuiti che costituiscono il
nucleo dinamico.
È vero quindi non solo che un tale cervello è “unico”,
ma anche che lo stimolo sensoriale offerto dall'ambiente
e la risposta motoria del soggetto non sono mai
“identici” da una volta all'altra. Ciò esclude i modelli
del cervello e della mente considerati come macchine (il
cervello non è un computer), rendendo invece
necessario l'assunto secondo cui la memoria è una
197
“proprietà dinamica” basata sulla “ricategorizzazione”,
e non un “archivio fisso” di tutte le varianti di una
scena.
L'evoluzione del cervello è poi accompagnata
dall'evoluzione della cultura, la quale fornisce un
mezzo di cambiamento relativamente rapido e potente
che influenza le basi della conoscenza, della sensazione
e del comportamento (Richerson, Boyd).
L’epistemologia
basata
sul
cervello
tiene
necessariamente conto delle ipotesi fornite da un'analisi
dei disturbi psichiatrici, i quali portano tutti ad
alterazioni
della
conoscenza.
L'esame
del
funzionamento del cervello e della mente finisce in
sostanza nel gettare luce sui problemi degli stati mentali
anormali, e viceversa.
Quello che emerge dalla ricerca neuroscientifica sui
disturbi neuropsichiatrici è la gamma straordinaria
delle cause e delle risposte che riguardano differenti
livelli della struttura del cervello. Nelle sindromi
neuropsicologiche, un danneggiamento di aree
cerebrali può provocare deliri. Per quanto concerne la
questione delle psicosi, alterazioni genetiche e
biochimiche possono arrivare a compromettere l'esame
di realtà. Nelle nevrosi, che per Freud derivavano da
conflitti interni e spesso le loro cause emergono nella
prima infanzia per la frustrazione di pulsioni sessuali
infantili, le connessioni funzionali tra pensiero,
credenze e risposte del sistema di valori possono
198
generare disturbi del comportamento. Per quanto
suggestive, le ipotesi di Freud risultano troppo distanti
dai meccanismi strutturali rivelati dagli studi sulle
interazioni fra cervello e corpo. Molte idee freudiane
poi derivano non da basi scientifiche, ma da intuizioni.
Per capire le origini e lo sviluppo delle patologie
mentali occorre approfondire la nostra conoscenza dei
meccanismi cerebrali specifici a tutti i livelli. Gli studi
finora condotti permettono di affermare che “tutti i
disturbi psichici riflettono specifiche alterazioni nel
funzionamento neurale e sinaptico” (Kandel). Dalle
ricerche effettuate da Kandel su Aplasia, una specie di
lumaca marina dal cervello molto semplice, emerge la
presenza di meccanismi cellulari comuni nell'ansia
cronica e nell’ansia anticipatoria. L’ansia e la paura poi
esprimono un meccanismo adattivo universale, che si
osserva tanto negli animali complessi quanto in quelli
più semplici. È necessario infine passare da una
neuropatologia basata esclusivamente sulla struttura
delle aree cerebrali a una fondata anche sulla loro
funzione.
199
Nuove prospettive
nel campo delle
neuroscienze
Da alcuni anni, sono incorso numerose ricerche per
orientarsi in quel territorio ancora sconosciuto che è il
cervello umano, là dove attraverso una fantastica
attività neuronale sono codificati i nostri pensieri. Un
cervello che il neuro scienziato S. Seung definisce “una
foresta maestosa talmente aggrovigliata nelle
ramificazioni dei suoi alberi da non consentire che vi
penetri alcun raggio di sole.
Tutto nasce da questa foresta: ogni sinfonia, ogni
nostro pensiero e ricordo, ogni delitto e ogni atto di
pietà. Si prova sgomento di fronte ad un organo così
vasto e complesso. Un cervello infinito. Non c’è da
stupirsi se quest’organo è ancora un mistero. Potremo
mai conoscere la totalità di questa foresta e di questi
rami incantati (neuroni)?
Finora, i neuroscienziati ne hanno ascoltato i suoni- i
segnali elettrici- e le forme fantastiche dei neuroni.
L’obiettivo è quello di comprendere come fa il nostro
cervello a realizzare l’impresa di pensare e di rievocare
200
il passato, percepire il presente e immaginare il futuro.
Al momento nessuno lo sa veramente.
Sono in corso molteplici direzioni di ricerca. Una
teoria interessante è quella avanzata da Sebastian
Seung: ricostruire l’intera rete delle connessioni tra le
aree cerebrali. Disegnare in sostanza “una mappa di
navigazione”, chiamata “connettoma”, per tentare di
comprendere il cervello. Delineare quella mappa e
poterne analizzare i tratti, rappresenterà una via di
accesso alle basi neurobiologiche del nostro io.
Anzitutto, dobbiamo dire che la ricerca mostra che i
nostri sistemi di connessione neurale sono molto
differenti. Questa scoperta comporta pertanto che ogni
essere umano sia “unico”. Perché il cervello funziona in
maniera differente in ognuno di noi? Le menti sono
differenti perché differenti sono i genomi. I geni hanno
un ruolo nella formazione della nostra personalità, nel
QI e nei disturbi mentali. I geni da soli non spiegano
tutto. Sono le esperienze, gli eventi della vita e
l’educazione che insieme ai geni concorrono a forgiare
il nostro cervello e dunque i sistemi di connessione
neurale. Esiste un sistema di interazione tra i geni
(nature) e le esperienze (norture), La nostra mente
dunque è forgiata dagli eventi della nostra vita e dai
geni.
La teoria del connessionismo cerca di spiegare come
funzionano le regioni cerebrali, le quali sono
considerate come “reti complesse” composte da un
201
numero esorbitante di neuroni. Le connessioni sono
organizzate per consentire ai neuroni di generare
collettivamente gli “intricati schemi di attività”, da cui
“nascono i nostri pensieri”.
Impareremo, afferma Seung, a decodificare ciò che
c’è scritto nei sistemi di connessione e a capire cosa
rende intelligente un cervello. I neuro scienziati non
vogliono solo capire il cervello, vogliono anche
cambiarlo.
Il nostro cervello cambia durante tutta la nostra vita,
a causa di nuove conoscenze. Negli anni sessanta Marh
Rosenzweig e colleghi hanno scoperto che vivere in una
gabbia “arricchita” aumentava l’intelligenza dei topi e
accresceva la loro corteccia cerebrale. Era la prima
dimostrazione del fatto che l’apprendimento, gli
stimoli, l’esperienza e l’esercizio mentale inducono un
cambiamento
nello
sviluppo
del
cervello,
dell’intelligenza e nell’organizzazione dei neuroni.
Ciascun neurone esegue un compito, ma insieme
cooperano in maniera complicata. Per la bellezza della
sua forma il neurone vi toglierà il fiato.
I neuro scienziati stanno approfondendo come una
vasta rete di neuroni pensa, prova sentimenti, ricorda e
percepisce. In sostanza, come il cervello genera gli
straordinari fenomeni della mente.
Ma davvero la mente - l’anima- è tutta in questi
eventi (fisici) neurali? I neuro scienziati lo danno per
scontato. Altri autori invece sono convinti che la mente
202
dipenda da un’entità immateriale. Una sorta di anima.
Finora, non ci sono prove oggettive, scientifiche
sull’esistenza dell’anima. Così come non ci sono prove
sperimentali sul connessionismo. Il quale pertanto non
è ancora assurto a scienza. Poiché i neuro scienziati non
posseggono le tecniche per disegnare la mappa delle
connessioni tra neuroni. Occorre perciò che la sua teoria
sia valutata sperimentalmente. La strada è quella di
individuare i connettomi attraverso nuove tecnologie,
le quali ci consentiranno di decodificare cosa c’è scritto
nei sistemi di connessione neuronale.
“Vivremmo molto meglio nel nostro mondo strano e
difficile- scrive Stephen J. Gould nel suo bellissimo libro
“Il riccio nella tempesta” - se potessimo credere che la
mente umana è il risultato ragionevole e prevedibile di
un processo diretto fin dall’inizio verso questo
obiettivo. La storia ci insegna “una dura lezione”.
L’evoluzione della vita “non conferisce” all’intelligenza
umana alcuno status speciale o preordinato. I saggi di
Gould hanno come idea centrale la teoria
dell’evoluzione. Sono riflessioni illuminanti su
argomenti disparati, come la mente, il cervello, il
determinismo biologico, la storia della vita, il futuro, la
complessità della natura.
“C’è bellezza- dice- nel mugghiare del vento e
grandiosità nel brontolio della burrasca”, ma la triste
storia del piccolo salice piegato dal vento “commuove
infine il cuore umano”.
203
Il piacere e la gioia,
il dolore e la tristezza:
tutto dal cervello
Questo secolo - afferma il neuro scienziato Swaab ha di fronte a sé almeno” due giganteschi interrogativi”:
come è nato l’universo e come funziona il cervello. Un
organo straordinario che ci consente di pensare, vedere
e sentire. Tutto proviene dal cervello. Un fantastico
cervello costituito da circa 100 miliardi di neuroni e da
una rete di connessioni lunga 100 mila chilometri. Ogni
neurone stabilisce infatti un contatto con altre diecimila
cellule nervose attraverso le sinapsi. Tra le specie,
l’affinità chimica è molto elevata. In considerazione
delle grandi coincidenze molecolari, il sistema nervoso
dei vermi, degli insetti e dei vertebrati, dai pesci
all’uomo deve “aver avuto un predecessore comune”
esistito 600 milioni di anni fa. Viene poi messo in
evidenza che il genoma umano differisce da quello
dello scimpanzé solo dell’per cento. Il topo possiede
1200 recettori olfattivi mentre nell’uomo ne restano 350.
Veniamo al mondo con un cervello reso unico dalla
combinazione del patrimonio genetico e della
204
programmazione che avviene durante lo sviluppo del
cervello nell’utero, e nel quale sono “già fissati” in
modo rilevante i nostri tratti caratteriali, i nostri talenti
e i nostri limiti. I fattori ambientali sono fondamentali
per lo sviluppo del cervello, ma l’aspetto più
importante- aggiunge Swaab (“Noi siamo il nostro
cervello, Elliot Edizioni) “non è l’ambiente sociale”,
come si riteneva negli anni Settanta, ma quello biochimico prima della nascita. L’alcol, la cocaina, il
piombo, gli antiepilettici, il fumo assunti durante la
gravidanza possono determinare nel bambino disturbi
dell’apprendimento, depressioni, angoscia e anomalie
dello sviluppo come schizofrenia, autismo, morte in
culla e disturbi sessuali.
Si ammette poi che l’identità di genere e
l’orientamento sessuale vengano programmati per il
resto della nostra vita nell’utero. Viene smentita così
l’idea che l’omosessualità, considerata dalla medicina
una malattia fino al 1992, rappresenti una scelta
“sbagliata” o sia indotta dall’ambiente. Le conclusioni
di molte ricerche indicano che la terapia volta a
trasformare gli omosessuali in eterosessuali non
funziona e può portare alla depressione e addirittura al
suicidio. Oggi, sappiamo che la schizofrenia, l’autismo
e tutta una serie di disturbi psichiatrici sono
riconducibili a un disturbo precoce dello sviluppo
cerebrale con una base genetica. Anche le ragazze
205
colpite da anoressia o bulimia nervosa hanno avuto
spesso problemi alla nascita.
Un ambiente sicuro, arricchito e stimolante favorisce
uno sviluppo normale del cervello. Se il bambino viene
trascurato, subisce abusi o resta a lungo senza genitori,
può riportare un ritardo mentale permanente e
provocare stress e depressione, mentre i livelli di
ossitocina si riducono.
Gli straordinari metodi di brain imaging ora
permettono non solo di “individuare” le malattie
cerebrali, ma anche di “vedere” le aree che si attivano
quando leggiamo, pensiamo, calcoliamo, ascoltiamo
musica, abbiamo esperienze religiose, siamo
innamorati o eccitati sessualmente. Attraverso i disturbi
del cervello ricaviamo molti insegnamenti sul suo
funzionamento. Per molti quadri clinici di questo tipo
abbiamo già terapie efficaci. Il morbo di Parkinson
viene trattato con L-dopa e una corretta terapia
combinata evita l’insorgere della demenza da AIDS. Si
individuano inoltre i fattori di rischio genetici e di altro
tipo legati alla schizofrenia.
Oggi è possibile poi “eliminare” i coaguli che
provocano l’infarto cerebrale, “arrestare” le emorragie
e “inserire” stent nei vasi cerebrali intasati. Positive le
prospettive di nuove scoperte sui processi molecolari
che provocano malattie come quella dell’Alzheimer, la
schizofrenia, il morbo di Parkinson, la sclerosi multipla
e la depressione. Gli elettrodi, impiantati nel cervello,
206
funzionano già efficacemente come mostrano le
applicazioni su pazienti affetti da Parkinson. È
impressionante - rileva Swaab - veder cessare
all’improvviso tremori anche molto forti non appena il
paziente aziona il pulsante dello stimolatore. Elettrodi
di profondità vengono applicati anche per la cefalea a
grappolo, per ridurre gli spasmi muscolari, i disturbi
ossessivo-compulsivi, l’obesità e le dipendenze.
Si tenta di riparare i danni al cervello, trapiantando
tessuti cerebrali del feto nei pazienti colpiti dal morbo
di Parkinson o dalla malattia di Huntington. La terapia
genica viene già sperimentata sui pazienti che soffrono
di Alzheimer.
Le conclusioni di molte ricerche mostrano che per un
regolare sviluppo e per uno svolgimento rapido del
parto occorra una positiva interazione tra il cervello
della madre e quello del nascituro. Il cervello di
entrambi “accelera” l’andamento del parto, rilasciando
l’ossitocina, l’ormone che fa contrarre l’utero e stimola
tra l’altro la produzione di latte.
Ulteriori, recenti studi indicano che l’ossitocina
svolge un ruolo importante in molte interazioni sociali,
crea un legame tra la madre e il bambino, genera un
effetto calmante e stimola il sistema di “attaccamento”.
Questi studi hanno poi rivelato che bambini trascurati
o cresciuti in orfanotrofio, e bambine maltrattate o
abusate hanno presentato livelli di ossitocina più bassi
rispetto a quelli di soggetti cresciuti in famiglia. Oggi,
207
l’ossitocina è considerata come il “trasmettitore”
dell’affetto, dell’empatia, della generosità, della calma,
della fiducia e dell’”appartenenza reciproca”. Si è
scoperto che questo ormone - chiamato ormone
dell’amore - “reprime” la paura e l’aggressività, grazie
alla sua azione sull’amigdala, ed entra in gioco nelle
reazioni allo stress, nell’innamoramento e nei rapporti
sessuali.
Si è anche scoperto di recente che i disturbi dei
sistemi cerebrali legati all’ossitocina e alla vasopressina
si presentano con frequenza nei casi di autismo.
Nei primi anni di vita, l’ambiente determina la
formazione di circuiti cerebrali che hanno a che fare con
il linguaggio, l’interpretazione del viso e delle
immagini. Sta di fatto che noi veniamo al modo con un
cervello “unico”, in cui il nostro carattere, le nostre
inclinazioni e i nostri limiti sono già in gran parte
stabiliti.
Tutte le ricerche recenti indicano che l’attività di
enormi quantità di neuroni localizzati in alcune aree del
cervello costituisce la base della coscienza, la quale è
considerata come “una nuova proprietà emergente”,
che scaturisce dal funzionamento di molte aree
cerebrali specifiche. Essa presenta, secondo Swaab, due
aspetti. In primo luogo, siamo coscienti del nostro
ambiente. In secondo luogo, vi è la “coscienza di sé”,
che appare “molto sviluppata” anche in tutta una serie
di animali. Anche nelle decisioni morali prendono parte
208
non solo la corteccia prefrontale, ma anche molte altre
aree del cervello.
È presente nel cervello - affermano i neuroscienziati
- una “rete morale” i cui componenti neurobiologici si
sono sviluppati durante l’evoluzione. Molti esempi di
“autentico comportamento morale” sono stati osservati
anche negli animali. I neuroni specchio e l’empatia sono
alla base dell’azione morale. Ha scritto lo scienziato De
Waal: “Dio dovrebbe donare agli uomini un po’più di
empatia per gli altri”.
Invero, nelle scelte morali noi esercitiamo poca
influenza. Il nostro cervello prende continuamente
decisioni sulla base di un processo inconscio, per cui
non c’è posto per un “libero arbitrio completo e
consapevole”. Gli esperimenti di Libet dimostrano che
la coscienza tarda circa mezzo secondo a manifestarsi
dopo uno stimolo sensoriale. Dan Wegner parla di una
“volontà inconscia” anziché di “libero arbitrio”, che in
tal modo si rivelerebbe soltanto una “illusione”.
Esperimenti provenienti da diverso laboratori
sembrano gettare fondati dubbi sull’autonomia delle
nostre decisioni e quindi sull’esistenza del cosiddetto
libero arbitrio. Dobbiamo al riguardo considerare
anzitutto che il cervello è composto di molte parti e
consta di diverse regioni e aree funzionali. In secondo
luogo, il cervello potrebbe essere “condizionato” dalla
biochimica del corpo. Infine, potrebbe essere
influenzato dall’assetto genico.
209
Esperimenti di brain imaging infine mostrano come
le esperienze spirituali, le esperienze religiose e quelle
mistiche, queste ultime caratterizzate dalla sensazione
di unione con Dio, attivino aree cerebrali differenti, fra
le quali l’area della gratificazione che contiene la
dopamina. Dean Hamer ha scoperto un gene, che ha
chiamato il “gene di Dio”, le cui variazioni determinano
il grado di spiritualità. Neurotrasmettitori come la
serotonina contribuiscono a determinare la nostra
spiritualità.
Anima, spiritualità e religione hanno una
componente genetica, sono una caratteristica
dell’evoluzione e sono presenti nel corso dei secoli in
tutte le culture.
Concludiamo: le prospettive sono straordinarie.
L’enorme sviluppo che si è verificato nel campo delle
neuroscienze comporta sempre nuove scoperte. Che
hanno effetti benefici sull’umanità e soprattutto sulle
persone con malattie cerebrali.
210
Il cervello, uno e trino
In questi ultimi anni, sono stati compiuti stupefacenti
progressi sul cervello e la mente. Le ricerche mostrano
la meravigliosa e incredibile realtà del cervello umano,
una straordinaria struttura unica nell’universo
conosciuto. Un cervello diverso da qualsiasi cosa
l’uomo abbia mai costruito. E per questo, fonte di
continue sorprese per gli stessi neuroscienziati.
Il cervello umano può essere paragonato a una casa
costruita un po’per volta nel corso di milioni di anni.
Sull’architettura di questa casa, Paul MacLean, uno
dei più grandi protagonisti delle neuroscienze
moderne, ha elaborato un’interessante e affascinante
teoria.
Il cervello - egli afferma - è una struttura trinitaria “triune brain” -, che consta di tre formazioni
sovrapposte: il cervello rettiliano, così chiamato perché
il suo aspetto è simile al cervello di un rettile, il cervello
limbico o cervello mammaliano e il neocervello o
cervello
dei
mammiferi
recenti.
Il primo rappresenta la parte più antica e profonda del
cervello e si è evoluto- sostengono Ornsteine
Thompson- più di 500 milioni di anni fa. Al cervello
211
rettiliano sono legate l’aggressività e la violenza. È una
pulsione autodistruttiva e distruttiva.
Il secondo cervello avrebbe fatto la sua comparsa da
300 a 200 milioni di anni fa. È la sede delle emozioni.
L’ultimo, il neo cervello, apparve circa 200 milioni di
anni fa. È la parte più nobile del cervello. È ciò che ci dà
la nostra peculiare qualità umana: siamo in grado di
capire, pensare, ricordare, comunicare, creare.
Queste tre formazioni fondamentali del cervello
presentano tra loro grosse differenze strutturali e
chimiche. Eppure, riescono a fondersi e funzionare
come un cervello “uno e trino”.
È proprio vero- osserva il neuroscienziato Vizioliche la trinità domina la nostra cultura. Infatti, se dal
campo della fede, passiamo alla scienza del cervello,
ritroviamo un’analoga concezione trinitaria. Il cervello
dunque è anch’esso una struttura trinitaria.
L’analogia con la Santissima Trinità non è solo
formale, nel senso che tutti e tre i cervelli costituiscono
“un cervello funzionale unitario”, quindi un “cervello
uno e trino”. Certamente, deve esserci qualcosa di
magico e di affascinante nel numero tre.
Platone infatti descrisse il cervello come una coppia
di destrieri perigliosamente guidata da un auriga.
Anche lo scienziato sovietico, Lurija, ha concepito
l’organizzazione del cervello nei termini di tre unità
funzionali: la prima deputata a regolare il ritmo sonnoveglia, la seconda a ricevere le informazioni, la terza
212
proposta alla programmazione delle attività motorie e
intellettuali.
Infine, trinitario è anche il modello della mente
proposto da Freud. Secondo il padre della psicoanalisi,
la mente è formata da tre istanze.
La prima è l’Es, il mondo degli istinti, delle pulsioni
e dei desideri. Che ci porta ad agire secondo il principio
del piacere immediato, senza pensare agli effetti della
nostra azione.
La seconda è il Super- Io, che è l'insieme degli
obblighi, delle proibizioni, dei tabù tradizionali
impressi nel nostro cervello dai nostri genitori.
La terza istanza è l’Io, il quale riflette sulle
conseguenze delle sue azioni, rinuncia al piacere
immediato per quello differito, cioè per il principio di
realtà, e trasforma gli impulsi in comportamenti
ragionevoli. L’Io è una struttura di mediazione tra l’Es
e il Super- Io e quindi guida di entrambe le istanze
psichiche. Questo modello, in base alle scoperte delle
neuroscienze, ha ricevuto un riconoscimento
scientifico, perché considerato fondato su una base
biologica.
Il cervello rettiliano, infatti, corrisponde sul piano
anatomo-fisiologico all’Es, cioè agli istinti primordiali;
il cervello mammaliano equivale alla sede dell’Io,
mentre il neocervello corrisponde al Super- Io, preposto
alla coscienza morale, alla critica e al giudizio.
213
Quando, di fronte al male e a certe efferatezze
diciamo che si è liberato il rettile che è nell’uomo,
affermiamo una realtà. Che i neuroscienziati hanno
verificato scientificamente, che Platone aveva intuito e
che Freud ha teorizzato.
Freud riteneva che l'Io avrebbe preso la guida
dell’intero
comportamento
dell’essere
umano.
In realtà, i fatti sono andati in modo diverso. A partire
dagli anni Sessanta e Settanta, i ragazzi e i giovani
hanno cominciato a contestare e a ribellarsi ai genitori,
agli insegnanti, all’autorità e alla società. Si è
progressivamente affermata un’educazione e una
pedagogia del “laissezfaire”, del permissivismo. Una
filosofia basata su una pedagogia che proibisce di dare
ordine e punizioni, di dare insomma la direzione e le
indicazioni e gli orientamenti di un sano e maturo
comportamento.
L’Io, cioè l’individuo, il ragazzo, si è sentito libero e
indipendente, guidato da pulsioni e da una sorta di
delirio di onnipotenza Sono poi crollati i valori che per
millenni hanno guidato la coscienza morale degli esseri
umani, mentre la società è diventata multiculturale,
fatto che ha frantumato il sistema di principi etici valido
per tutti.
Il risultato è che oggi viviamo una profonda e
drammatica crisi morale e spirituale, una crisi politica
ed economica. Crisi che ha investito l’individuo e il
mondo globale.
214
La stessa famiglia è in profonda crisi. La stessa scuola
è in profonda crisi, mentre molti ragazzi sono
disorientati e insicuri, in conflitto, immaturi. È allarme
sociale. Gli studi hanno dimostrato che cresce il numero
di ragazzi e bambini che soffrono di disturbi
psichiatrici, ansia e depressione, malessere e insonnia,
inquietudine e aggressività fino alle forme di violenza,
arroganza, ineducazione. È emergenza educazione. Gli
insegnanti sono demotivati, molti vivono la scuola con
ansia. Tra i miei pazienti, ci sono anche insegnanti.
Ebbene, si svegliano al mattino con l’angoscia di andare
a scuola, con l’angoscia di subire forme di aggressività
e maltrattamento da alunni. Che non sono universitari,
ma ragazzi di scuola media.
Andrea Zanzotto, uno dei maggiori poeti del
Novecento, scomparso alcuni giorni fa, ha scritto:
“viviamo una condizione che coincide con una psicosi
vera”, una vera malattia. “Oggi c’è una emergenza
umana”. Una società arrogante, priva di umiltà e
altruismo, di generosità e di empatia. Tutta orientata
all’interesse individuale, all’egoismo, a soddisfare,
come un bambino, le proprie pulsioni. C’è una
desertificazione della coscienza sia individuale che
collettiva.
Ci salverà l’arte ?, come ingenuamente ha scritto un
poeta. Oppure, la scienza del cervello e della mente?
Fintanto che rimarrà un mistero il cervello umano,
rimarrà un mistero anche il mondo circostante.
215
Certamente, qualunque terapia al riguardo deve
prendere l’avvio anzitutto dal riconoscimento
dell’esistenza della malattia. Senza una presa di
consapevolezza del proprio disturbo e senza la volontà
di iniziare una terapia non esiste alcun presupposto di
guarigione.
Ma, esistono i terapeuti? Vi lascio con questo
importante e drammatico dubbio. Sperando che
ognuno con umiltà avvii in primis una propria
autoanalisi.
Sul piano prettamente scientifico, diciamo che, come
ha dimostrato la nuova scienza del cervello e della
mente, all'interno dell’uomo “sono sempre presenti come scrive l’autorevole neuroscienziatoMacLean- due
animali ben svegli e coscienti, ma irrimediabilmente
incapaci di esprimersi con il linguaggio”, cioè in modo
verbale, comprensibile. Il compito di controllare questi
due cervelli spetta al terzo cervello della trinità, al
neocervello. Spesso però, il neocervello è incapace di
frenare gli istinti e le pulsioni provenienti dal cervello
rettiliano e da quello mammaliano. In questi casi,
prevale la pulsione distruttiva e autodistruttiva,
prevalgono l’aggressività e la violenza. i disturbi
dell’emozione, dell’ansia e della depressione,
insicurezza e distorsione della realtà.
È sul neocervello che i neuroscienziati fanno
affidamento. È un organo incredibile, la struttura più
complessa e straordinaria dell’universo conosciuto. Un
216
organo che sta “cambiando” il mondo e la stessa
esistenza umana, con la sua creatività, immaginazione,
intelligenza, innovazioni e con la sua capacità di far
fronte alle risposte sociali.
Molte risposte dunque ci possono venire dalle nuove
neuroscienze. Si tratta allora di migliorare la
conoscenza del nostro cervello, allo scopo di ridurre gli
effetti negativi di quel sistema schizofrenico costituito
dal cervello rettiliano, riducendo quelle tensioni e quei
conflitti interni all’uomo. che altrimenti potrebbero
“esplodere”, con conseguenze catastrofiche e provocare
malessere individuale e sociale di enorme portata. e di
difficile soluzione.
La battaglia più difficile da superare, e concludiamo,
è quella fra l’uomo e i suoi due cervelli animali. . . Gli
incredibili progressi della nuova scienza del cervello ci
offrono la base per sperare che il neocervello riuscirà a
far fronte ai problemi sempre più circi e drammatici del
nostro tempo.
217
La prospettiva
interpersonale in
neuroscienza
Da sempre, filosofi e scienziati cercano di sondare la
natura della mente umana. Nonostante la molteplicità
delle ipotesi, non si è ancora pervenuti a formulare un
quadro concettuale possibilmente unitario intorno a
una definizione di “mente”. Su questo fondamentale
aspetto della ricerca neuroscientifica Daniel Siegel nella
sua nuova opera “Mappe” per la mente. Guida alla
neurobiologia interpersonale” (Raffaello Cortina) tenta
di riunire in una unica cornice teorica i contributi di una
serie di discipline scientifiche.
Siegel ha domandato a studiosi appartenenti a
differenti branche- scienze cognitive, biologia,
antropologia, genetica, linguistica, neuroscienze,
psichiatria, fisica- di dare una definizione di mente e di
chiarire il rapporto fra mente e cervello. Il risultato della
ricerca non ha fornito alcuna base comune sulla
definizione di mente. Alcuni ricercatori hanno un
atteggiamento di sfiducia sulla possibilità di
“comprendere” l’essenza della mente e della coscienza,
218
mentre altri sostengono invece che è possibile conoscere
il funzionamento dell’attività mentale. Allo stato della
ricerca, possiamo dire - d’accordo con Boncinelli - che i
neuro scienziati sanno di non sapere. C’è una posizione
comune intorno all’idea che non sappiamo davvero
cosa siano la mente e la coscienza. La difficoltà
principale consiste nel fatto che mente e coscienza sono
entità immateriali e dunque non misurabili
scientificamente. Il concetto di mente dunque è
sfuggente e addirittura inafferrabile e oscuro.
Finora, la mente è stata considerata dagli scienziati
“nient’altro che l’attività del cervello”. Siamo soltanto
all’inizio della ricerca neuro scientifica, c’è ancora molto
da esaminare e scoprire.
Secondo alcuni autori, “mente” è un termine
generico, un’entità sconosciuta e che forse “mai
riusciremo a conoscere”.
Punto di partenza è chiarire che i processi mentali
hanno un carattere soggettivo, cui ci si riferisce con il
termine “qualia”, ossia la “qualità soggettiva
dell’esperienza
individuale”.
La
descrizione
dell’esperienza soggettiva fornita direttamente da colui
che l’ha compiuta è utile, ma non è “equivalente”
all’esperienza stessa poiché questa non può essere
descritta in modo esaustivo né è facilmente
quantificabile, né osservabile direttamente. Gli stati
soggettivi pertanto non possono essere studiati in modo
219
oggettivo e quantificabile. Non possiamo quindi
ottenere una “misurazione oggettiva”.
Un altro aspetto della mente difficile da esaminare in
modo “misurabile” è la coscienza, cioè l’esperienza
soggettiva di essere consapevoli. Ma cosa significa
essere consapevoli, per esempio, del pensiero? Che cosa
significa pensare? In realtà, non sappiamo veramente
cosa sia un pensiero o un’emozione.
I neuro scienziati ritengono che per conoscere la
mente, è anzitutto necessario conoscere il cervello. La
mente, per Siegel, emerge sia dal cervello sia dalle
interazioni all’interno di diadi, famiglie, scuole,
comunità e società. La mente è un processo relazionale.
Cervello, mente e relazioni sono dunque “parte di
una unica realtà”. La persona che siamo noi non è
“indipendente” dal nostro cervello né dalle nostre
relazioni.
Esperienze
soggettive
e
relazioni
interpersonali modificano le connessioni neurali e
“modellano” il cervello, realizzando così l’integrazione,
la salute e la resilienza, la quale è la capacità di adattarsi
a fattori di stress. La salute emerge dall’integrazione dei
tre vertici di un triangolo formato da cervello, mente e
relazioni. Questi concetti neurobiologici si basano sulle
scoperte riguardanti la neuroplasticità, che è la capacità
del cervello di modificare la propria struttura in
risposta all’esperienza. Questa determina una
eccitazione dei neuroni e dei geni, la quale comporta il
movimento di particelle dotate di carica elettrica che si
220
propaga lungo le cellule nervose. Si tratta di un
processo che determina un flusso di energia
(elettrochimica) che porta a una modifica della struttura
e del funzionamento del cervello.
Da questo processo d’integrazione basato sulla
“compassione” e “l’empatia” nasce la salute della
mente, del cervello e delle relazioni gratificanti.
L’integrazione
crea
l’armonia.
La
mancanza
d’integrazione porta al “caos” alla “rigidità” mentale e
ai disturbi mentali. Queste considerazioni hanno
trovato conferma in una serie di scoperte scientifiche in
base alle quali i principali disturbi psichiatrici, come il
disturbo bipolare, la schizofrenia, l’autismo, il trauma,
la trascuratezza o la deprivazione affettiva subita
nell’infanzia, sembrano essere collegati a deficit di
“integrazione neurale”.
La teoria dell’integrazione è dunque alla base dello
sviluppo mentale e del benessere bio-psichico.
L’obiettivo allora è quello di promuovere e scoprire il
potenziale di integrazione insito in ciascuno di noi.
Dalla rassegna degli studi sulla longevità, sulla
felicità e sul benessere mentale e fisico appare come
l’elemento fondamentale alla base di queste qualità
positive siano le relazioni arricchenti e gratificanti. Le
quali fortificano la mente e diventiamo così più sani,
felici, saggi e longevi.
221
Dove va l’adolescenza?
Districarsi nell’attuale, confuso e complesso
momento della società contemporanea, cercare di
individuarne gli snodi più importanti e di comprendere
la condizione dell’adolescente è davvero un’impresa
immane.
I temi sono molteplici: progressi e nuove piaghe,
eclissi della civiltà occidentale, ansia e depressione,
aumento dei disturbi psichiatrici nei bambini, rischi e
danni psichici provocati dall’uso e dall’abuso di
internet.
L’immagine che oggi l’Italia proietta è tra splendore
e decadenza, miseria e nobiltà. Un Paese dalla grande
bellezza, ricco di fascino, arte, storia e leggende. Ma in
forte declino culturale, sociale e morale. Un Paese che
alcuni autori definiscono “incolto e volgare”. Una
modernità che tutto invecchia: la letteratura, il
romanzo, il cinema, persino l’arte contemporanea.
Invero, si sono smarrite in famiglia, a scuola e nella
società quelle millenarie certezze, che da sempre hanno
accompagnato e sorretto la civiltà occidentale e scandito
la vita dell’essere umano. Oggi, la vita quotidiana è
sempre più attraversata da una realtà ansiogena,
222
indistinta, incerta e conflittuale. Tutto ciò porta a un
malessere esistenziale dell’individuo e della comunità.
L’unica e importante prospettiva positiva è la qualità
della vita. Secondo una ricerca dell’Oms, sono previsti
un miglioramento ovunque delle aspettative di vita. La
riduzione della mortalità infantile del 50 per cento,
mentre nei Paesi ricchi è ipotizzato il calo delle malattie
infettive.
È
prevista,
in
seguito
all’invecchiamento
l’espansione delle demenze senili, che saliranno al
secondo posto dopo le malattie cardiovascolari.
Diventerà poi globale il problema delle depressioni.
Emerge una tendenza preoccupante: il livello dell’età
circa i disturbi psichiatrici si abbassa sempre più. Già a
due anni d’età si possono riscontrare casi di bambini
che presentano sintomi di ansia, depressione e disturbi
della personalità.
C’è inoltre la piaga dell’alcol, della droga e del
suicidio. Le ricerche indicano che circa un milione di
ragazzi e ragazze fra i 14 e i 18 anni fa uso di queste
sostanze. Con il rischio di incorrere nella dipendenza
patologica. Crescono anche i tentativi di suicidio e i
comportamenti parasuicidari ad alto rischio
psicopatologico. Sono circa trentamila i ragazzi che
ogni anno tentano di togliersi la vita. Sono molteplici le
cause dell’aumento di queste patologie psichiatriche.
C’è soprattutto una combinazione di fattori genetici,
familiari e socio-culturali. L’analisi deve comprendere i
223
cambiamenti sociali, le mutazioni nel matrimonio, la
crisi dei modelli parentali, il lavoro, lo stress dei
genitori, i divorzi, la crisi della coppia, lo scontro
culturale tra i genitori con formazione, educazione e
sensibilità diverse, la mancanza di sicuri punti di
riferimento eticamente e spiritualmente congruenti.
Nasce una generazione figlia di una cultura
permissiva, un modello pedagogico negativo e
dannoso, che è presente in famiglia, a scuola e nella
società. Sta diventando sempre più acuto il problema
dell’autorità
morale.
“Nessunoscrive
il
neuroscienziato de Waal- corregge più nessuno, e
quindi la gente è diventata progressivamente meno
civile”.
Esistono poi anche forme di aggressività e di
violenza generalizzata. Da tempo, assistiamo a un
fenomeno che Giovanni Bollea, il padre della
neuropsichiatria infantile in Italia, e chi scrive hanno
definito in una pubblicazione già negli anni Novanta
del secolo scorso “un processo di violentizzazione”, una
tendenza individuale e sociale planetaria, la quale
purtroppo non è stata ancora percepita in tutta la sua
devastante gravità.
Il nostro modo di essere e di interagire con la realtà
sta subendo notevoli cambiamenti. L’irrompere, ad
esempio, della Rete ha prodotto un mutamento
antropologico e un processo di omologazione. In pochi
224
anni, siamo diventati “web-dipendenti”. Ansia,
nervosismo, aggressività, isterismi.
I social netword possono far bene e male. Tutto
dipende dall’uso che se nefa. “Ubi commode, ivi
incommode”: dove ci sono i vantaggi, ci sono anche gli
svantaggi. Sta di fatto che l’esposizione prolungata al
computer genera danni al cervello e altri disturbi
psichiatrici,
comportamentali
e
cognitivi,
determinando forme di dipendenza patologica simili a
quelle causate dall’alcolismo e dalla droga. È un
problema che riguarda lo sviluppo e la salute dell’intera
persona nella sua unità e totalità bio- psichica.
Ricerche condotte negli Stati Uniti mostrano che i
soggetti che navigano in Rete manifestano sintomi
legati ad un nuovo disturbo chiamato “tecno stress”,
una forma di “tossicodipendenza” i cui sintomi sono
ansia, depressione, irritabilità, cefalea, insonnia,
disturbo dell’umore, rabbia e insofferenza (Craig Brod).
È la rivoluzione del computer. Un totem
straordinario nel bene e nel male. Che sta mutando
l’immagine della realtà, le relazioni sociali, le
dinamiche interpersonali, e la stessa visione che
abbiamo dell’uomo e della società. Le ricerche
ipotizzano che vivremo sempre ‘più attaccati’al web e
al telefonino, spesso in una condizione di dipendenza
patologica e di schizofrenia. Sono i nuovi, grandi feticci
del mondo contemporaneo. I quali hanno una notevole
influenza sui sistemi neuronali, in molte aree del
225
cervello e dunque sui comportamenti individuali e
collettivi.
Sta nascendo in sostanza una nuova generazione
digitale. Sono i “nativi digitali”, interconnessi e
multitasking.
Chi sono? Sono i ragazzini nati in piena era web.
Connessi alla Rete, internet, telefonino, face book.
Chattano, “whatsappano”, videogiocano, pubblicano
foto. A confermare questa diagnosi è una recente ricerca
condotta nell’Università di Roma e commissionata dal
“Movimento Italiano Genitori” (Moige).
Sono stati esaminati circa mille ragazzi dai sei ai
diciotto anni. Tutti sono connessi a internet. Il 52 per
cento del campione dichiara di dedicare alla tv fino a
due ore al giorno. Un ragazzo su cinque fino a cinque
ore. Il 10 per cento si connette per studiare. Per tutti gli
altri è “svago”. Il 24 per cento poi si collega al web per
chattare spesso con sconosciuti e uno su cinque ha
incontrato le persone che ha conosciuto online. Sei
ragazzi su dieci inoltre stanno su face book, dichiarano
di divertirsi a fare “sexting”, ricevere o inviare foto delle
proprie parti intime.
Circa il cyber bullismo, dalla ricerca emerge che sei
adolescenti su dieci tra i 14 e i 20 anni almeno una volta
hanno usato foto e video per “prendere in giro”
qualcuno, mentre uno su cinque dice di farlo spesso.
Nel settore videogiochi, uno su cinque trascorre da
una a tre ore al giorno, mentre il 57 per cento si dice
226
‘influenzato’nei comportamenti dai videogiochi e il 56
per cento si “identifica” con il proprio avatar, l’alter ego
virtuale.
A rendere il quadro più allarmante è il
comportamento dei genitori. Appaiono irritabili,
stressati, iperattivi o viceversa stanchi e annoiati.
Spesso lasciano i figli davanti al computer senza porre
alcun limite o verifica, se è vero che il 40 per cento
naviga o videogioca “senza limiti di orario”. “Ci
troviamo- ha commentato il presidente del Moige,
Maria Teresa Munizzi- davanti a una generazione che
preferisce il mondo virtuale a quello reale e che non
riesce ad avere relazioni autentiche con le persone in
carne e ossa”. Gli stessi adulti poi sono “prigionieri” di
giovanilistiche e infantili effusioni per questi mezzi e
non riescono a “percepire” i pericoli e la
“drammaticità”
della
multiforme
e
intricata
situazione”.
Diventa ogni giorno più evidente nelle nuove
generazioni la “correlazione” tra un uso “smodato” dei
social e alcune incapacità di affrontare emotivamente i
problemi della vita “reale”. Un eccessivo appiattimento
verso i social network può portare a un
“impoverimento” di alcune competenze intellettive
importanti per la vita lavorativa e non solo, come la
capacità di comprendere la complessità della realtà
contemporanea con conseguenze nefaste per i soggetti.
227
Le ricerche mostrano l’esistenza di una crescente
mancanza di “intelligenza sociale” che porta a una
forma di “smarrimento” nell’affrontare e risolvere i
conflitti e le difficoltà che nascono nelle relazioni
interpersonali e sociali. Si avverte una “pericolosa
tendenza” a vivere nella società entro schemi che non
appartengono alla vita reale, con effetti che
“impoveriscono” sia i singoli che la società. C’è
insomma uno iato profondo tra la vita digitale, dove
tutto è permesso e la vita quotidiana, fatta di senso di
responsabilità, partecipazione, norme e doveri.
Tutti sembrano connessi: ragazzi, fidanzati, coniugi,
genitori. È una pulsione compulsiva, un desiderio
incontrollabile definito con il termine craving per un
comportamento che all’inizio crea un senso di piacere,
ma che poi diventa una dipendenza patologica.
Subentra una paura irrazionale, una fobia che si
accompagna al timore di “perdere il contatto” con la
Rete o con il telefonino. Si tratta di una sindrome
denominata nomophobia, la quale provoca cefalea,
nausea, tremore, sudorazione, sino a determinare
tachicardia e dolori al petto.
Insomma fanciulli a 50 anni. Sono persone adulte,
svolgono un lavoro serissimo. Ma fanno “smorfie”
davanti alla fotocamera del cellulare, che poi caricano
su Facebook e si “crogiolano” nei commenti. C’è il
50enne che trova il tempo con l’applicazione Bitstrips
per realizzare il suo ritratto “come fosse un cartoon” e
228
poi lo dispensa sui social network. C’è anche la 40enne
in camera con due figli che si balocca su Google map e
le sembra una magia poter vedere con street view il suo
palazzo e il suo piccolo mondo. Altre persone poi che si
scambiano messaggi sugli smartphone con i sistemi di
messaggistica Line o Whatsapp o Messenger di
Facebook e fanno a gara su chi inserisce gli emoticon e
gli striker (faccette) più brutti. Molto utilizzata la
faccetta spaventata parodia dell’urlo di Munch,
l’orsetto seduto sul water. Le ricerche conducono gli
studiosi a considerare come in queste “sabbie mobili”
di “incretinimento” nel territorio magmatico dei social
network-tablet-smartphone-pc stanno affondando
senza speranza non solo i ragazzini e le ragazzine, ma
‘anche i loro genitori’. È buona cosa riscoprire il
fanciullino che è nell’essere umano. Ma non il
fanciullino scemo.
È possibile cambiare la cultura di questo fenomeno?
Allo stato, non è possibile, poiché tutto fa ritenere che
questo fenomeno sia destinato a crescere. La
rivoluzione culturale della comunicazione di massa
infatti mostra sempre più una funzione debordante di
internet per la sua forza di attrazione e per i danni che
può causare alla salute mentale dell’individuo.
Nel 1978 viene descritta una “nevrosi da ritiro
sociale” (Kashara), diagnosi che indica un
comportamento di “fuga” e un desiderio di “ritiro e
isolamento” da un ambiente socio-culturale e familiare
229
ritenuto estremamente rigido. Questa condizione di
ansia ha portato alla nascita di questa nuova categoria
diagnostica che indica soggetti che si “ritirano” in casa.
Sulla base di questa condizione, lo studioso
giapponese, Tamatki Saito nel 1998 ha coniato il termine
“hikikomori”
per
designare
una
sindrome
caratterizzata da uno stato di “evitamento del contatto
sociale”. La tendenza all’auto-reclusione si sta
diffondendo anche in altri Paesi. In particolare, alcuni
autori sostengono che tale tendenza sia legata al
“modello 2. O”, quello dei social network. Il
comportamento hikikomori diventa così una “nicchia
globale” e il web si pone come l’unico strumento di
comunicazione con il mondo esterno attraverso
pseudo-identità vacue e fittizie.
In Italia, Massimo Biondi e collaboratori del
dipartimento di neurologia e psichiatria dell’Università
La Sapienza di Roma hanno esaminato per la prima
volta il caso di un paziente di 28 anni che presentava
una “nevrosi da ritiro sociale” (hikikomori).
All’osservazione, il soggetto mostrava uno stato di
“profonda angoscia, disperazione, insonnia e senso di
morte imminente”. L’anamnesi mostrava che il
paziente manteneva contatti con il mondo esterno
“quasi esclusivamente attraverso internet”.
Secondo ricerche realizzate negli Stati Uniti, anche il
mondo della ludopatia e dei videogiochi si rivela un
comportamento compulsivo che può determinare chiari
230
sintomi di ansia, depressione, disturbi della
socializzazione, una condizione di dipendenza
patologica e disturbi dell’apprendimento e del
rendimento scolastico. Un rapporto della Commissione
della UE di recente ha sollecitato il Parlamento europeo
a stabilire norme precise per la “protezione” sia dei
ragazzi che degli adulti. In alcune Regioni sono stati
istituiti servizi per la diagnosi e il trattamento
dell’attività ludica patologica.
La ludopatia o gioco d’azzardo patologico è “un
disturbo del comportamento”, il quale, secondo il
Manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM),
rientra nella categoria diagnostica dei “Disturbi del
controllo degli impulsi”. Attraverso internet, chiunque
può diventare un soggetto “compulsivo” in un rituale
solitario e alienante. Stiamo allevando- afferma lo
psichiatra Andreoli- il bambino “televisivo” e il
“ragazzo del web”. È una vera e propria “patologia”. Il
ragazzo tende all’obesità, è impacciato nei movimenti e
ha difficoltà di comunicazione con la famiglia, la scuola,
gli amici. È un soggetto che preferisce il mondo virtuale
alla realtà. Una pulsione distruttiva e auodistruttiva.
Dobbiamo rilevare una contraddizione: i progressi
della medicina, dell’igiene e dell’alimentazione oggi
“proteggono” i bambini. Eppure, essi non sono mai
apparsi tanto in pericolo come in questo momento
storico.
231
Invero, l’adolescente vive una condizione di
profonde contraddizioni, è attraversato da conflitti di
forze e pulsioni interne ed esterne, viene continuamente
sollecitato da meccanismi cerebrali e sociali legati al
piano sessuale e intellettivo. Il suo cervello inoltre
stimola la produzione di ormoni i quali provocano
notevoli mutamenti fisici e psichici e lo espongono a
forti rischi, come l’abuso di alcol e droga, sostanze che
generano- concorda il neuro scienziato Swaab- danni
permanenti al cervello. Un autorevole studioso,
Zuckermann, ha sostenuto che la ricerca di sensazioni
forti. “senzadio seeking” (SS) può essere considerata
“un vero e proprio bisogno” ed è associata ad altri
comportamenti, come abuso cronico di internet,
ludopatia, videogiochi, impulsività, aggressività, ansia.
Autorevoli studiosi sostengono al riguardo che la
famiglia, la scuola e le istituzioni mostrano di essere
“incapaci di dare orizzonte a nuovi valori e di
progettare una nuova qualità di vita” (Frabboni). I
ragazzi oggi vivono in una società vuota di futuro e di
progettualità, e senza paradigmi etico-sociali. In una
condizione cioè di estraneazione, emarginazione,
sfiducia e disaffezione. Occorre un nuovo umanesimo:
postulare l’alfabeto dei valori, il progetto di una
personalità integrale e un’educazione etico-sociale.
Formare non ragazzi spettatori passivi, inerti e
manipolati dalla grammatica di internet, tablet, face
232
book, videogiochi e cellulari, ma persone mature e
responsabili del loro destino.
La scuola deve “riporre” gli scheletri didattici
ossificati e avviare un nuovo modello pedagogico
aperto, fondato sull’empatia, la generosità, il rispetto,
l’altruismo. Un sistema educativo basato sulla ricerca e
sull’uso del laboratorio attraverso una feconda
molteplicità di spazi culturali, sociali, esistenziali ed
etici.
Vale l’esortazione di Kant: sapere aude, avere il
coraggio di conoscere e servirsi del proprio cervello, un
cervello sconfinato, unico e speciale, che non ha colonne
d’Ercole.
233
Il fenomeno
della dipendenza
da computer
Nel quadro della nostra ricerca sull’adolescenza e sui
danni provocati alla salute bio-psichica dall'uso
eccessivo della rete esaminata in questo libro, assume
un forte e primario ruolo il fenomeno della dipendenza.
Che è il “cuore” del processo di interazione tra
comportamento, disturbi psichiatrici e internet.
Secondo diversi autori, 1'uso di internet può indurre
dipendenza, una condizione simile a quella causata
dalla droga, dall'alcolismo e dal gioco d'azzardo. Le
dipendenze comportamentali sono considerate tra i più
gravi problemi di salute pubblica.
In psichiatria, la dipendenza è un comportamento
caratterizzato “dalla continua ricerca” (Vella) di un
oggetto o di una persona, considerati una fonte
necessaria e non sostituibile per il proprio piacere e la
propria sicurezza. È uno stato psichico e talvolta fisico,
che origina- secondo l’Organizzazione mondiale della
sanità (Oms)- da fattori biologici, psicologici e
234
ambientali oltre che da esperienze ripetitive
contrassegnate da una forte carica emozionale, cui
corrisponde una modificazione del cervello.
Esperimenti condotti con i metodi di “brain
imaging” (visualizzazione del cervello) hanno scoperto
che durante lo stato di dipendenza e di “carving”
(desiderio) vengono attivati i circuiti cerebrali della
gratificazione, della dopamina e quindi del piacere. Si
tratta di una condizione cerebrale nella quale vengono
“rinforzati” gli stimoli piacevoli, in virtù dei quali “si
impara a ripetere il comportamento”, condotta definita
“una forma aberrante e patologica’di apprendimento”.
In questi ultimi anni, si è sviluppato un crescente
interesse scientifico circa la possibilità che 1'uso della
rete possa sviluppare forme di dipendenza psicologica
e patologica e che esistano quindi patologie
psichiatriche “importate” da tecnologie informatiche.
Ci riferiamo a una forma di dipendenza conosciuta con
il nome di “Intemet addiction disorder” (1AI)). Il
termine è stato coniato dallo psichiatra newyorkese,
Ivan Goldberg, e indica “un disturbo da discontrollo
degli impulsi”. È una nuova categoria di disturbi
psichiatrici connessa all'uso compulsivo degli
strumenti di rete. Negli Stati Uniti, la dipendenza è
considerata nel “Diagnostic and statistical manual of
mental disorders” (DSM-5) una malattia come la
tossicodipendenza e l'alcol.
Le ricerche effettuate in materia di dipendenza da
235
computer mostrano che ci sono soggetti che non
possono astenersi dal contatto fisico continuo con
facebook, mouse, ecc. Questi comportamenti
producono forme di dipendenza psicologica e
patologica legate a sintomi psichiatrici di tipo
ossessivo- compulsivo.
Il comportamento del soggetto con personalità di
questo tipo esprime il suo desiderio infantile di
onnipotenza; deve difendersi dalla minaccia di impulsi
urgenti; appare ansioso, diffidente e cauto; non è
spontaneo ed è coartato sul piano affettivo dalla propria
“corazza” di protezione (Reich).
Circa 1'uso di internet, le ricerche rilevano poi che gli
uomini sono più indirizzati verso attività interattive di
tipo aggressivo, spazi chat sessualmente espliciti e
cyber pornografia. Le donne invece preferiscono le chat
room per allacciare amicizie, costruire avventure
romantiche o per recriminare contro i mariti.
I rischi legati a questa sindrome riguardano:
dipendenza da sesso virtuale, disturbi sociali,
alterazione del tono dell'umore, malessere psichico e
fisico, sentimenti di onnipotenza, incontri pericolosi.
Altri sintomi accertati sono: ansia, depressione,
agitazione, tremori, perdita del contatto con la realtà,
danni al cervello, scarsa capacità di provare emozione
ed empatia, trascurare la famiglia, il lavoro e i doveri,
disforia, irritabilità, disturbi di apprendimento,
isolamento fino a crisi di epilessia. Successivi studi
236
hanno indicato la presenza di questa sintomatologia:
obesità, dolori articolati, vertigini, alienazione,
difficoltà nei rapporti familiari e sociali. È stato infine
rivelato che il 10 per cento dei ragazzi americani
sottoposti al test diagnostico presentava aspetti
patologici della dipendenza.
Sono state individuate forme particolari di dipendenza.
Una è la “Cybersexual Addiction”. Questa categoria
comprende sia il materiale disponibile nella rete vietato
ai minori di 18 anni che le relazioni erotiche tra due o
più soggetti. Il cybersex può diventare in tal modo la
fonte principale di gratificazione sessuale. Una seconda
forma di dipendenza è il “Compulsive online
gambling”, che concerne 1'accesso ai siti per
scommettitori e facilita lo sviluppo del gioco d'azzardo.
La terza forma riguarda i “MUDs Addiction”: sono
giochi di ruolo in cui il soggetto può decidere quali
caratteristiche psico-fisiche assumerà durante il loro
svolgimento. Il rischio più grande è quello della
depersonalizzazione. Abbiamo infine il “Cyber
Relationship Addìctìon”, che ha lo scopo dì mantenere
un’immagine virtuale idealizzata di sé.
Che cosa si sta facendo per il trattamento del “ Disturbo
di dipendenza da Internet”?
Negli Stati Uniti sono stati compiuti i primi passi a
livello legislativo per creare spazi protetti nei quali i
bambini possano navigare senza correre troppi rischi.
In Italia, sono oltre due milioni i soggetti connessi a
237
internet, mentre negli USA 1’86 per cento dei bambini
fino a 5 anni usa internet almeno una volta a settimana.
Anche in Italia questo disturbo, che può essere
diagnosticato solo da specialisti attraverso la
somministrazione del Test di Young, desta
preoccupazione. Nel 2010, lo psichiatra Vittorino
Andreoli apri la prima clinica in Valle d'Aosta per
curare i soggetti affetti da questa sindrome nuova. Dal
2009 è attivo al Policlinico Gemelli di Roma il primo
ambulatorio ospedaliero italiano specializzato nella
dipendenza da internet.
Servono programmi di prevenzione e di terapia. Che
chiamano soprattutto in causa genitori e insegnanti.
Spiegare che non è un link o un commento confuso e
sgangherato su Facebook a determinare il valore
intellettuale, umano e sociale di una persona. Sono
luoghi dove emergono frustrazioni, esibizionismo e
complessi di inferiorità. Luoghi spesso scelti per
inventare una propria identità e personalità.
Il trattamento degli stati di dipendenza deve poter
conseguire questi obiettivi: migliorare la salute mentale
e fisica; consolidate idonee relazioni socio- familiari;
ridurre i comportamenti a rischio; diminuire i
comportamenti di disadattamento e di devianza; curare
1’attività educativa o lavorativa in modo continuativo.
Il tema dello studio dei comportamenti e dei disturbi
psichiatrici online è destinato a rivestire sempre più un
ruolo fondamentale, in relazione alla diffusione di
238
questi mezzi. Occorre una comprensione profonda di
una realtà complessa, delicata e difficile tra mondo reale
e mondo virtuale. Due mondi, che se indagati con
competenza e passione, possono fornirci utili
indicazioni e preziose conoscenze sul funzionamento
del cervello e della mente, che costituisce la grande e
meravigliosa sfida delle nuove neuroscienze.
239
Una nuova frontiera
rivoluzionaria
Negli ultimi anni, abbiamo appreso sul cervello e la
mente più che nei precedenti cinquemila anni. Tuttavia,
conosciamo soltanto una minima parte dei loro
meccanismi. Sta di fatto che con la comparsa dell'uomo,
l'evoluzione biologica ha raggiunto il suo massimo e ha
prodotto in alcuni esseri viventi un alto grado di
coscienza di sé. L'evoluzione biologica ha portato a
sviluppare una potente evoluzione culturale, che a sua
volta potrebbe indirizzare, come afferma Edoardo
Boncinelli, la propria evoluzione biologica. Si parla
infatti spesso di modificare il nostro genoma. Che può
essere trasformato dentro le cellule del corpo o
direttamente nella linea germinale, ovvero nelle cellule
che portano alla produzione dei gameti.
II cervello, per Miguel Nicolelis, è una “sinfonia di
neuroni’composta dai moltissimi insiemi di cellule. Le
quali comunicano tra loro attraverso messaggi
elettrochimici e punti di contatto chiamati sinapsi. Per
mezzo di queste reti neurali, il cervello svolge la propria
attività principale: la realizzazione di una moltitudine
240
di comportamenti, mettendo cioè in pratica ogni atto di
creazione, distruzione, scoperta, riflessione, seduzione,
amore, odio, gioia, tristezza, egoismo, solidarietà. Le
meraviglie che i circuiti cerebrali possono generare ogni
giorno fanno dire ai neuro scienziati trattarsi di un
“miracolo”. 11 cervello - aggiunge Rodney Douglas funziona come “un'orchestra', ma di un tipo unico, in
cui la musica prodotta “può quasi istantaneamente
modificare la configurazione degli esecutori e degli
strumenti”. E grazie a questo processo “autocomporre”
una melodia del tutto nuova”.
La sfida delle nuove neuroscienze è allora quella di
“decifrare”
e
comprendere
i
meccanismi
neurofisiologici che permettono a queste “vampate di
elettricità neurologica” di dare vita a quell'insieme di
attività e comportamenti che costituiscono quella che
definiamo “natura umana”.
Finora, le neuroscienze sono state coinvolte in una
disputa circa quali aree specifiche del cervello svolgono
una particolare funzione. Da una parte, ci sono i
“localizzazionisti”, i quali credono che le distinte
funzioni cerebrali siano generate da aree del sistema
nervoso altamente specializzate e separate. Dall'altra,
c'è un gruppo di neuro scienziati - i “distribuzionisti” per i quali il cervello umano fa affidamento su
“popolazioni” di neuroni multitasking, in grado di
svolgere molti incarichi contemporaneamente, e
distribuite in molti punti diversi per svolgere ognuna
241
differenti funzioni cerebrali. Questa seconda
concezione sostiene in sostanza che vaste popolazioni
di cellule localizzate in molte regioni diverse del
cervello contribuiscono a realizzare un comportamento
finale.
All'inizio, fu Ramon y Cajal ad affermare che un
singolo neurone costituisce l'unità fondamentale del
cervello. Successivamente, Sherrington mostrò invece
che le funzioni cerebrali dipendono dalla
collaborazione di molti neuroni e da distinti circuiti
neurali che operano insieme. Negli ultimi anni, le
scoperte delle neuroscienze stanno mettendo in crisi il
modello chiamato Iocalizzazionista in favore di quello
distribuzionista per realizzare quella che è stata
denominata “la vera anima del cervello”. Le ricerche
condotte in laboratori di diverse parti del mondo
dimostrano che un singolo neurone non può essere
considerato come la fondamentale unità funzionale del
cervello. Ad essere responsabili delle “sinfonie del
pensiero” sono infatti le popolazioni interconnesse di
neuroni.
Oggi, è possibile “riprodurre” una piccola parte in
forma di comportamenti motori concreti e volontari di
questi insiemi neurali. Ascoltando appena qualche
centinaio di neuroni possiamo già iniziare a replicare il
processo grazie al quale pensieri complessi diventano
“azioni corporee immediate”. Gli esperimenti indicano
che il cervello umano si presenta sempre più come uno
242
“scultore” che “fonde” spazio e tempo neurale per
ottenere un continuum organico responsabile della
creazione di tutto ciò che vediamo e percepiamo come
realtà, incluso il nostro senso dell'essere.
Autorevoli neuro scienziati ritengono poi che nei
prossimi decenni combinando questa visione del
cervello con la nostra crescente capacità tecnologica di
ascoltare e decodificare sinfonie neurali più grandi e
complesse, le neuroscienze finiranno per spingere la
portata umana “ben oltre i limiti correnti imposti dai
nostri fragili corpi”. L'équipe del neuro scienziato
Nicolelis, ad esempio, sta lavorando per insegnare alle
scimmie il modo di adottare un paradigma
neurofisiologico rivoluzionario chiamato “interfaccia
cervello-macchina” (BMI, brain- machine interface). Le
interfacce cervello-macchina sono oggetti progettati e
realizzati per permettere al cervello di connettersi a un
computer e muovere oggetti con un atto del pensiero.
11 pioniere di questa tecnica è Miguel Nicolelis, docente
di neuroscienze presso la Duke University (Carotina del
Nord) e autore di un fondamentale e splendido volume
dal titolo “TI cervello universale” (Bollati Boringhieri).
Usando queste BMT, i ricercatori sono riusciti a
dimostrare che le scimmie possono imparare a
controllare volontariamente i movimenti di dispositivi
artificiali, come braccia e arti robotici posti sia vicino
che lontano da loro, utilizzando esclusivamente la loro
attività elettrica cerebrale grezza. Questa scoperta dà
243
origine a una vasta gamma di possibilità per il cervello
e per il corpo che, a lungo andare, possono cambiare
completamente il nostro modo di comportarci e vivere.
in questa prospettiva, tornando a casa dalle vacanze,
un giorno precisa Nicolelis - potete chiacchierare con
una delle moltissime persone del mondo, usando
internet, senza però premere i pulsanti della tastiera o
pronunciare una singola parola. Nessuna contrazione
muscolare sarà richiesta. Basterà il pensiero. Simili
meraviglie non saranno più temi di fantascienza, ma
concreta realtà.
244
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