Genetica ed epigenetica: la rivoluzione biologica in corso

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CAPITOLO
Genetica ed epigenetica:
la rivoluzione biologica in corso
Agli inizi del secolo presente, nel giro di pochi
anni, si sono accese e spente grandi fiammate di
entusiasmo attorno alla genetica. La decifrazione
dei 3 miliardi di basi che compongono il genoma umano avrebbe segnato una svolta epocale, ci
avrebbe consentito di conoscere nel dettaglio e in
modo completo il “libro della vita”, le istruzioni
genetiche che definiscono l’essere umano. Avrebbe
anche indelebilmente diviso la storia della biologia
in due ere: prima e dopo il Progetto Genoma, come
scrisse nel 1999, sul New England Journal of Medicine, Francis Collins, direttore dello statunitense
National Human Genome Research Institute [1].
ASCESA E CADUTA
DEL PROGETTO GENOMA
Il completo sequenziamento delle basi del DNA
umano, avvenuto nei primi anni del XXI secolo, ha
dato vita a un’esplosione di studi con l’obiettivo di
trovare la relazione tra caratteristiche del genoma
e tratti biologici, psicologici e comportamentali
umani, e ovviamente tra genoma e malattie.
La tecnica usata è quella GWAS (Genome-Wide
Association Study), che consiste nello studio dell’intero genoma di un essere umano: una possibilità
ormai alla portata dei laboratori, anche di quelli
privati, che la offrono alle singole persone a un costo inferiore a 100 dollari.
Il disegno dello studio è semplice, direi elementare, forse troppo, come vedremo: si tratta di confrontare il genoma di un campione il più ampio
possibile, per esempio di obesi, con un campione
analogo di persone normopeso e individuare le
aree del genoma degli obesi che presentano una
maggiore frequenza di difformità rispetto al geno-
4
ma dei normopeso. In queste difformità si troverebbe la chiave per comprendere e quindi curare
l’obesità.
Questa procedura è stata usata per lo studio delle
più comuni malattie (dalle internistiche alle psichiatriche), ma anche per le caratteristiche fisiche
(per esempio l’altezza), per i comportamenti (per
esempio l’orientamento sessuale), per le attitudini
(per esempio l’intelligenza).
L’alleanza big science-big media
Nel primo decennio del XXI secolo sono usciti
i primi risultati di questi studi, presentati in forma molto eccitante e di grande presa sull’opinione pubblica. In questi anni, infatti, si è saldata
un’aperta alleanza tra ricercatori, editori di riviste
scientifiche e direttori dei grandi mass media, a
cui poi si è aggiunto il volano senza freni dei social
media, con effetti di amplificazione e persistenza
dell’informazione mai visti nella storia dell’umanità.
La “gioiosa macchina da guerra” dell’informazione genetica ci ha regalato, in ordine di tempo
(tralasciando le bufale di giornata, come l’identificazione del gene dell’infedeltà coniugale): la
scoperta della genetica delle psicosi, della depressione, dell’orientamento sessuale, dell’alcolismo,
dell’altezza, dell’intelligenza, dell’obesità e di altro
ancora.
Nei corsi di laurea in psicologia, biologia e medicina, accanto alla genetica delle malattie ha fatto la
sua comparsa, come materia di insegnamento con
i relativi textbook, la genetica comportamentale,
che, dopo alcuni anni di irresistibile ascesa, vede
aprirsi al suo interno un dibattito a tutto campo
(Box 4.1).
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Parte 2 • Mutamenti nelle basi delle scienze biologiche
Box 4.1 Il dibattito all’interno della genetica comportamentale
A distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, sono usciti i libri dei due più noti studiosi delle genetica
comportamentale basata sugli studi sui gemelli, entrambi professori al King’s College di Londra.
Quello di Robert Plomin è il textbook della materia giunto alla sesta edizione. Quello di Tim Spector
è un ampio saggio che tratta tutta la vasta materia della genetica e dell’epidemiologia comportamentale, anche sulla base della sua ventennale esperienza di direttore del Registro dei gemelli britannici,
che costituisce il più grande database sui gemelli del mondo.
L’overview di Plomin mantiene l’approccio classico di un campo di ricerca che lui stesso ha contribuito a segnare. Dopo avere fatto alcuni esempi dei “successi della genetica” nello spiegare malattie
dello sviluppo (l’autismo), disordini psichiatrici gravi (la schizofrenia), ma anche differenze comportamentali (il peso corporeo e l’intelligenza), conclude rivolto al suo lettore: «Il messaggio è semplice:
la genetica gioca un ruolo maggiore nel comportamento» (Plomin, 2013, p. 5). Non che l’ambiente
non conti, avverte Plomin, ma è sottomesso alla genetica. Le stesse esperienze che influenzano lo
sviluppo individuale sono il prodotto della genetica di quell’individuo. «Le persone creano la propria
esperienza per ragioni genetiche» (ivi). Con un approccio che appare schiettamente tautologico,
Plomin sostiene che quelle che si presentano come cause ambientali in realtà possono essere lette
come cause genetiche. Per esempio, se in una casa ci sono molti libri, la qual cosa può certamente
influire, ammette, nello sviluppo intellettivo di un bambino e nel suo successo scolastico, questo
non è un fattore ambientale, ma può essere il prodotto della genetica, in quanto «i fattori genetici
possono influire sui tratti genitoriali che li legano sia al numero di libri che i genitori hanno nella
loro casa sia al successo scolastico dei loro figli» (ivi).
Spector introduce il suo libro confessando: «Fino a tre anni fa ero uno dei tanti scienziati che davano per scontata la visione genocentrica dell’universo. Avevo passato gli ultimi 17 anni a produrre
centinaia di studi sui gemelli, nel tentativo di convincere il mondo scientifico e un pubblico scettico
che praticamente ogni caratteristica e ogni patologia risentiva di un’influenza genetica determinante»
(Spector, 2013, p. 15). Qualche riga più avanti, Spector presenta subito uno dei problemi irrisolti
della genetica comportamentale, da cui è partita la sua riflessione autocritica: la discrepanza tra il
grado di ereditarietà di un tratto o di una patologia, tendenzialmente alto o anche molto alto, e la
sua effettiva comparsa nei discendenti che, anche nei monozigoti, il più delle volte è al di sotto del
50% delle possibilità che la malattia si presenti in entrambi. «Compresi – scrive Spector – che la mia
visione tradizionale della genetica e del ruolo dominante dei geni andava modificata». L’esplosione
della ricerca in campo epigenetico ha poi rapidamente completato il cambio di paradigma che l’epidemiologo britannico ci presenta nel suo saggio, che conclude con le seguenti parole: «Benché resti
ancora molto da capire riguardo all’epigenetica, con quello che abbiamo imparato finora possiamo
riscrivere irreversibilmente i postulati genetici fondamentali» (ivi, p. 301).
Riferimenti bibliografici
Plomin R., DeFries J.C., Knopik V.S. et al. (2013), Behavioral genetics, VI ed., Worth Publisher, New York.
Spector T. (2013), trad. it. Uguali, ma diversi. Quello che i nostri geni non controllano, Bollati Boringhieri,
Torino.
Quale bilancio può presentare questa grande industria della ricerca ai propri azionisti, che poi in
larga misura saremmo noi cittadini?
Un bilancio molto deludente [4] che, tra l’altro,
ha definitivamente chiarito la differenza tra ereditarietà e genetica. L’altezza e l’intelligenza, per
esempio, hanno un tasso di ereditarietà elevato, nel
senso che nascere in una famiglia di persone alte
e/o intelligenti aumenta la probabilità per i figli
di essere come i genitori. Ma non è assolutamente
documentabile la base genetica.
Uno studio sull’intero genoma di oltre 3500 persone ha trovato una grande variabilità genetica
associata al quoziente intellettivo, confermando
che l’intelligenza e altre funzioni cognitive sono
“ereditabili e poligeniche” [5]. Il fenomeno è spie-
Capitolo 4 • Genetica ed epigenetica: la rivoluzione biologica in corso
gabile facilmente e può essere riassunto in un’efficace battuta: nell’ereditarietà dell’intelligenza non
entra solo il codice genetico, ma anche il codice
postale! E quindi l’educazione, il livello scolastico
familiare, il reddito.
Ma la storia che meglio spiega il fallimento della
visione riduzionistica, che ha ispirato la ricerca
genetica degli ultimi anni, è quella della genetica
della depressione.
Il trasportatore della serotonina:
la breve vita di una star
Nel 2003, un affermato ricercatore di origini israeliane, Avshalom Caspi, professore di psicologia e
neuroscienze in prestigiose università americane
e inglesi, pubblicò un lavoro con cui si riteneva di
avere trovato le basi genetiche della depressione,
rintracciate in una variante del promotore del gene
che codifica per il trasportatore della serotonina
(in sigla, 5-HTTLPR): la variante corta (e cioè
con una minore sequenza delle basi), rispetto alla
variante lunga, avrebbe conferito un rischio maggiore di depressione.
La prestigiosa rivista scientifica Science, alla fine
del 2003, inserì lo studio di Caspi tra le maggiori scoperte scientifiche di quell’anno. Negli anni
seguenti, decine di laboratori sparsi nel mondo si
inserirono in questo filone di ricerca impegnando molte risorse umane e finanziarie. Nel 2009,
una meta-analisi, pubblicata su JAMA, la rivista
dell’Associazione medica americana, concluse però che non c’è alcuna evidenza che la variante corta
del promotore del gene per il trasportatore della
serotonina conferisca un aumento del rischio di
depressione indipendentemente dall’ambiente [2].
Ciò ha indotto Caspi a fare un bilancio critico della
ricerca in campo genetico, incluso il suo stesso
lavoro, come si può leggere nel brano seguente,
tratto da una sua ampia review pubblicata sull’American Journal of Psychiatry:
Per oltre un secolo, il pubblico è stato nutrito
con una dieta di determinismo, che è iniziata
con i primi del Novecento con l’eugenetica […].
A metà secolo è intervenuto il determinismo
ambientale, esemplificato da B.F. Skinner. Alla
fine del XX secolo, l’opinione pubblica è stata
spinta verso il determinismo genetico, secondo
cui i fattori non genetici hanno scarsa importanza per la salute mentale e il comportamento.
Il determinismo è pericoloso. Dobbiamo acqui-
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sire una più realistica e raffinata comprensione
delle cause dei comportamenti, in cui gli effetti
di alcuni geni dipendono dalle scelte degli stili
di vita. Questa sarà la miglior difesa contro il
cattivo uso dell’informazione genetica.
Questo cambiamento di visione, basato sull’interdipendenza tra stress e 5-HTTLPR, ci condurrà a comprendere perché stress e depressione
riguardano la gran parte di noi [3].
UN FALLIMENTO CHE VIENE
DA LONTANO
Il 25 aprile del 1953, Nature pubblicò un lavoro
dal titolo “Molecular Structure of Nucleic Acids”,
a firma J. Watson e F. Crick, accompagnato da un
disegno con cui si proponeva la doppia elica come
modello di organizzazione del DNA.
Stabilita la struttura del DNA, occorreva chiarire
la collocazione e il ruolo dei geni.
I geni, scrive Crick a metà degli anni Sessanta, sono
una «porzione della enormemente lunga molecola
di acido nucleico»; il ruolo di «ciascun gene è quello di dirigere la sintesi di una particolare proteina.
Tuttavia il gene non controlla questo processo direttamente. Una serie di copie di lavoro del gene
viene fatta in un altro acido nucleico, conosciuto
come RNA. (…) Il flusso dell’informazione va da
DNARNAProteina» [6, pp. 40-41].
Precedentemente egli aveva chiarito che quella
direzione del flusso di informazione, dal DNA alla
proteina, non è un fatto secondario, anzi è il cuore
della moderna biologia molecolare, al punto che,
mettendo nel conto molti rimproveri, che del resto
non mancheranno, per l’uso di una parola aborrita
in ambito scientifico, lo chiamerà «dogma centrale
della biologia molecolare».
Nel 1970, dopo che erano emersi alcuni fatti che
mettevano in discussione il dogma centrale, Crick
torna sulla questione ribadendo la validità del dogma, riassunto nell’immagine (Figura 4.1) con cui
ha corredato il suo lavoro [7]. Secondo il dogma
centrale della biologia molecolare il trasferimento
dell’informazione è quello indicato dalle frecce continue. I trasferimenti indicati dalle frecce tratteggiate sono rari o del tutto assenti, mentre l’assenza di
frecce, per esempio tra proteine e DNA, significa
che la relazione è assolutamente improbabile. Quindi non è possibile una relazione ProteinaDNA
o una relazione ProteinaProteina o anche una
relazione ProteinaRNA.
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Parte 2 • Mutamenti nelle basi delle scienze biologiche
DNA
RNA
PROTEINA
Figura 4.1 Crick F. (1970), “Central dogma of molecular
biology”, Nature 227: 561. Secondo il dogma centrale della biologia molecolare, il trasferimento dell’informazione è
quello indicato dalle frecce continue. I trasferimenti indicati
dalle frecce tratteggiate sono rari o del tutto assenti, mentre
l’assenza di frecce, per esempio tra proteine e DNA, significa
che la relazione è assolutamente improbabile.
E, affinché sia chiara la portata del dogma, Crick
chiude il suo articolo con le seguenti parole: «La
scoperta dell’esistenza di uno dei tre sconosciuti trasferimenti potrebbe fra crollare l’intera base
intellettuale della biologia molecolare». Quindi,
riassumendo, secondo Crick il genoma contiene
solo alcune regioni codificanti, che sono i geni; ogni
gene codifica per una proteina, seguendo una logica
programmata e cioè non essendo condizionato da
effetti di retroazione degli altri componenti della vita della cellula. Ciò che conta, ribadisce lo scienziato
inglese, sono le informazioni contenute nel DNA,
che verranno trasmesse fedelmente al messaggero
RNA, il quale le tradurrà in proteina. In questo
modello, la vita è l’assemblaggio di molecole prodotte da una collezione di geni, punto a punto (un
gene-una proteina), senza alcuna possibilità che essa
retroagisca sulle condizioni che l’hanno prodotta.
La ricerca dei decenni successivi si incaricherà di
demolire il dogma, mostrando che:
1. Non contano solo le regioni codificanti, ma anche il resto del genoma, che rappresenta circa
il 99% di tutto il DNA.
2. Dallo stesso gene possono venire più proteine,
tramite un meccanismo noto come “splicing
alternativo”, che consiste nel montare in modi
diversi le sequenze genetiche codificanti e quin-
di avere diversi RNA prodotti dallo stesso gene,
da cui si possono formare molte (anche molte
decine di) proteine diverse tra loro.
3. La comunicazione proteina-proteina è dimostrata dai cosiddetti prioni, che sono proteine
che assumono una diversa conformazione in
base al contatto con altre proteine e che, come
noto, possono dare origine a malattie peculiari
come la variante umana della Creutzfeldt-Jakob,
detta anche malattia della mucca pazza.
4. La retroazione dell’RNA sul DNA è ben attiva
sia nella forma della cosiddetta trascrittasi inversa, usata dai virus per stampare DNA a partire
dall’RNA, sia nella forma dei microRNA che,
come vedremo più avanti in questo capitolo,
impediscono l’attività di altri RNA e che quindi
non consentono al DNA di trasmettere le proprie informazioni.
5. Questo vuol dire che non tutti gli RNA vengono
tradotti in proteine.
6. Le proteine sono una fonte essenziale di comunicazione con il DNA; anzi, sono i segnali
(fattori di trascrizione, enzimi) che attivano la
macchina del DNA che, per sua natura, è inerte.
Insomma, il dogma centrale della biologia molecolare non c’è più, anche se troppa ricerca in campo
genetico prosegue come se nulla fosse successo, come se il dogma di Crick fosse ancora vivo e vegeto.
Il genoma come dispositivo adattativo
Al posto del paradigma riduzionista e determinista,
incarnato dal “dogma centrale”, è emerso un nuovo
paradigma che vede il genoma non più come un
centro direttivo che impartisce istruzioni all’organismo, bensì come un «dispositivo adattativo che
risponde alle esigenze ambientali regolando l’espressione genica», secondo la definizione data da Evelin
Fox Keller, storica e filosofa della genetica [8].
Del resto, il programma ENCODE (Encyclopedia
of DNA Elements), che ha identificato tutte le regioni codificanti del DNA umano [9], ha stabilito
che quelli che tradizionalmente vengono chiamati
geni, cioè le regioni del DNA che codificano per
proteine, rappresentano poco più dell’1% di tutto il DNA. Ha anche stabilito che la grandissima
parte del restante 99% di DNA, che appunto non
codifica per proteine, non è materiale inerte, non è
junk, spazzatura, come era stato definito negli anni
Ottanta. Definizione a lunga vita, rintracciabile
ancor oggi nel sentire scientifico comune.
Capitolo 4 • Genetica ed epigenetica: la rivoluzione biologica in corso
Secondo i 594 ricercatori che hanno contribuito al
progetto ENCODE [9], più dell’80% del genoma
ha un’attività biochimica, di cui, come abbiamo
visto, una minuscola frazione serve a codificare
proteine, mentre il resto serve ad attività regolatorie la cui gran parte produce RNA non codificanti,
che, come vedremo, svolgono una fondamentale
attività epigenetica. Queste regioni regolatorie del
DNA sarebbero le aree più importanti del genoma
anche ai fini evolutivi, perché spiegherebbero da
dove vengono, per esempio, le differenze tra il nostro cervello e quello dei nostri cugini scimpanzé.
È noto, infatti, che dal punto di vista genetico c’è
una larghissima sovrapposizione tra noi e loro, anche se le funzioni mentali sono molto diverse. Così,
è ormai assodato che i nostri geni sono in numero
simile a quello dei vermi della terra: 23.000 circa.
La differenza, quindi, non starebbe tanto nei geni e
nel loro numero, quanto nei meccanismi complessi
di regolazione, nei pattern di espressione genica,
guidati dai meccanismi epigenetici.
L’EPIGENETICA
La ricerca in campo epigenetico è esplosa con il
nuovo secolo, ma è una linea di ricerca antica, contemporanea e alternativa a quella che ha dominato
la biologia per tutta la seconda metà del Novecento. L’epigenetica, con le ricerche e i libri del biologo inglese Conrad Hal Waddington (1905-1975) a
metà del Novecento, era l’altra faccia della ricerca
in campo genetico, rappresentava il paradigma
alternativo a quello che si è imposto con Francis
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Crick, Jacques Monod e gli altri biologi riduzionisti (Box 4.2, 4.3 e 4.4).
La figura di Waddington è di grande interesse
perché costituisce un modello di scienziato sistemico, che rifiuta il riduzionismo grossolano che
dominava il suo tempo e, al tempo stesso, non
abbandona il solido terreno della verifica scientifica. Il suo modo di studiare la vita ci ricorda
anche la grande importanza che la filosofia ha per
le scienze della vita [10]. La filosofia di riferimento
di Waddington era infatti quella del filosofo della
scienza Alfred North Whitehead (1861-1947), una
filosofia a orientamento sistemico, a differenza di
quella di Crick, fondata sul realismo empirista.
Definizione
L’epigenetica è lo studio dei cambiamenti nell’espressione genica che non sono causati da mutazioni genetiche e che possono essere ereditabili
[11]. L’epigenetica quindi, più in generale, indica
un determinato assetto dell’espressione genica che
condiziona l’insieme delle attività della cellula in
risposta agli stimoli ambientali. Si tratta cioè di un
cambiamento adattativo, che può essere fisiologico
o patologico. Questo tipo di segnatura, legata allo
stato di salute di un organismo, può essere reversibile, a differenza della segnatura che interviene
nella formazione dell’organismo (ontogenesi), il
quale è caratterizzato da cellule che, per forma e
funzioni, sono molto diverse tra loro, pur venendo
tutte dallo stesso patrimonio genetico costituito
dall’ovulo fecondato (cosiddetto zigote).
Box 4.2 I due paradigmi: contenuti scientifici
Genetica riduzionista
• Un gene una proteina.
• DNA invariante fondamentale.
• Il genoma è chiuso in se stesso: «Non si può
concepire alcun meccanismo in grado di trasmettere al DNA una qualsiasi istruzione»
(Monod, 1970).
Epigenetica
• Un genotipo più fenotipi.
• «La coppia di genitori dona alla prole un set
di potenzialità, non un set di caratteristiche
già formate» (Waddington, 1961).
• I singoli geni interagiscono tra di loro lungo
vie che sono organizzate in sistemi.
Riferimenti bibliografici
Monod J. (1971 [1970]), Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Mondadori, Milano, trad. it. di Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne,
Editions du Seuil, Paris.
Waddington C.H. (1961), The nature of life, Atheneum, New York; Idem (1979), L’evoluzione di un evoluzionista,
a cura di F. Voltaggio, Armando, Roma.
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Parte 2 • Mutamenti nelle basi delle scienze biologiche
Box 4.3 Crick e Waddington a confronto: biologia, fisica e filosofia
Crick
Il compito principale della biologia del Novecento: critica del vitalismo e spiegazione della
vita in termini fisico-chimici.
Le filosofie di riferimento sono quella del fisico
Schrödinger e quella del filosofo della scienza
Popper.
Da Schrödinger, che lo influenzò al punto da indurlo a passare dalla fisica alla biologia, riprende
un approccio che guiderà tutta la sua ricerca:
trovare la centrale di comando della vita. «Il
ciclo vitale di un organismo è controllato da un
gruppo di atomi supremamente ben ordinato»
(Schrödinger, 1944).
Da Popper riprende la sua critica alla visione
sistemica della scienza.
Waddington
Il compito principale della biologia del Novecento: spiegare l’emergenza di nuove proprietà non contenute nei costituenti fisico-chimici
elementari.
La filosofia di riferimento è quella sistemica di
Whitehead.
Occorre conoscere il molto piccolo (atomi e
molecole), ma all’interno dei diversi livelli di
complessità.
«La fisiologia deve comprendere la fisica delle molecole, che stanno però dentro la cellula
vivente e quindi in strutture diverse da quelle
inanimate. […] L’individuo è un’unica realtà:
corpo e mente» (Whitehead, 1926).
Riferimenti bibliografici
Schrödinger E. (1944), What is life?, trad. it. Cos’è la vita?, Adelphi, Milano, 1995.
Whitehead A.N. (1926 [2001]), Science and modern world, trad. it. La scienza e il mondo moderno, Bollati
Boringhieri, Torino.
Box 4.4 Le origini dell’epigenetica
Tra il 1939 e il 1943, prima di essere arruolato nell’esercito inglese durante la Seconda guerra mondiale, Conrad H. Waddington pubblica due libri e alcuni articoli nei quali presenta la sua innovativa
visione della biologia e della genetica. In questi testi troviamo per la prima volta, in epoca moderna
e con un preciso significato scientifico, i termini “epigenetica” ed “epigenotipo”.
All’origine della ricerca del biologo inglese c’è la domanda fondamentale dell’embriologia, la
scienza che studia la formazione di un nuovo essere vivente: quali sono i meccanismi che portano
dal genotipo al fenotipo e cioè dal patrimonio genetico contenuto nella cellula fecondata (zigote)
all’individuo concreto? Waddington, nel 1942, definisce epigenetici i meccanismi che conducono
al fenotipo ed epigenotipo «la concatenazione di processi legati insieme in un network, così che un
disturbo in una fase precoce dello sviluppo può causare a più lunga distanza, gradualmente, anormalità in numerosi organi e tessuti». L’epigenetica è quindi strettamente legata all’embriologia, ma
Waddington aveva anche interessi nel campo della genetica, che aveva studiato al California Institute
of Technology di Pasadena con uno dei grandi della nuova scienza: l’americano Thomas H. Morgan,
Nobel per la medicina nel 1933 e notissimo per i suoi studi sulla genetica della Drosophila melanogaster, il moscerino della frutta. Il programma di ricerca di Waddington è fin dall’inizio orientato
a connettere embriologia e genetica, convinto che le dinamiche dello sviluppo di un nuovo essere
siano più complesse delle informazioni contenute nei geni, ma che sono quest’ultimi a guidare lo
sviluppo dell’embrione. Non è un caso che i suoi due primi libri siano dedicati uno alla genetica
(An Introduction to Modern Genetics, New York, 1939) e l’altro alla combinazione di embriologia
e genetica (Organisers and Genes, Cambridge, 1940).
David L. Nanney, genetista americano con forti legami con l’Italia, per ragioni scientifiche ma anche
per i suoi studi giovanili in Lettere classiche, nel 1958 pubblica, sulla rivista dell’Accademia delle
Scienze statunitense, un articolo che, riprendendo esplicitamente le ricerche di Waddington, avanza
alcune idee fondamentali sui sistemi di controllo epigenetico a livello cellulare. Se Waddington
Capitolo 4 • Genetica ed epigenetica: la rivoluzione biologica in corso
45
si era posto il problema di come si passa dalla cellula fecondata all’organismo, Nanney si pone il
problema di come si passa da un unico genoma, che è la base di ogni organismo complesso, a una
pluralità di cellule, molto diverse tra loro. Già a occhio, infatti, un neurone è diverso da una cellula
del fegato o della cute. Come è possibile, se il patrimonio genetico è lo stesso? E inoltre, come si
mantiene questa differenziazione cellulare? Nanney sostiene che nella cellula, accanto al sistema
genetico, opera anche un sistema epigenetico nel senso indicato da Waddington e cioè che è responsabile della differenziazione cellulare. Questo sistema conferisce stabilità alla configurazione
cellulare e conferisce alla cellula una memoria che può essere trasmessa alle cellule figlie. «Per questa
ragione – scrive – cellule con lo stesso genotipo possono non solo manifestare differenti fenotipi,
ma queste differenze, nello stesso ambiente, possono persistere indefinitamente durante la divisione
cellulare» (Nanney, 1958). Infine, ipotizza il genetista, i sistemi di controllo epigenetico stanno con
tutta probabilità nel nucleo, nei cromosomi, e non nel citoplasma, come veniva da più parti suggerito.
Si tratta di un gruppo di osservazioni e soprattutto di idee scientifiche di grande rilievo, assolutamente complementari a quelle di Waddington, che per la prima volta mettono in evidenza la dimensione
cellulare della ricerca epigenetica.
Dimensione cellulare che verrà ripresa, pochi anni dopo, da un grande della ricerca biologica, il
torinese Salvatore Luria, cresciuto alla scuola di Giuseppe Levi che, tra il 1969 e il 1986, ha dato
tre Nobel per la medicina: lo stesso Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini. Ebreo, fuggito
dall’Italia nel 1938 dopo le infami leggi razziali di Mussolini, diventa cittadino americano con il
nome di Salvador Edward Luria e, nel 1960, in un lavoro sulle relazioni tra virus e cancro, dà la
prima precisa definizione di epigenetica in chiave di biologia cellulare.
«Cambiamenti nell’espressione delle potenzialità genetiche», così Luria definisce le modificazioni
epigenetiche indotte nelle cellule a livello nucleare. Con quali meccanismi biochimici? Negli anni
Settanta alcuni lavori documentarono che certe precise zone del DNA, contenenti la base citosina,
sono oggetto di deposito di gruppi metilici. Fu così scoperto il primo meccanismo epigenetico, la
metilazione del DNA.
Nei primi anni Ottanta fu dimostrato che i geni metilati sono inattivi e cioè non esprimono le informazioni che contengono. Verso la fine degli anni Ottanta il genetista inglese Robin Holliday pubblicò un lavoro che dimostra l’ereditarietà dei difetti epigenetici acquisiti da una cellula trasformata
in senso maligno: per la prima volta si parla di “epimutazione” e cioè di una mutazione che altera
l’attività del DNA senza cambiarne la sequenza.
Negli anni Novanta si scopre un altro fondamentale meccanismo epigenetico: le modificazioni delle
cosiddette code istoniche, cioè di precise porzioni di proteine che avvolgono il DNA. Infine, nei primi
anni del secolo presente, emerge un terzo potente meccanismo: l’attività dei cosiddetti microRNA
e cioè di piccole stringhe di acido ribonucleico che invece di “codificare” e cioè di dare origine a
proteine – come di solito fanno gli RNA, che funzionano da stampo per il montaggio degli aminoacidi di cui sono composte le proteine – interferiscono con gli altri RNA, impedendone l’attività.
(Tratto, con qualche taglio, da: Bottaccioli F. (2014), Epigenetica e Psiconeuroendocrinoimmunologia, Edra,
Milano, pp. 28-30, a cui si rinvia anche per la bibliografia indicata nel Box.)
Com’è possibile, infatti, che da un’unica cellula, dotata di un unico patrimonio genetico, possa
sorgere l’enorme diversità interna che troviamo in
un organismo? La spiegazione sta nella segnatura epigenetica permanente che, senza cambiare i
geni di quella cellula che diventerà un neurone o
dell’altra che diventerà un epatocita o una cellula
cutanea, ne modula l’espressione genica segnando
permanentemente il loro destino. Possiamo quindi
dire che i meccanismi epigenetici, con modalità e
stabilità diverse, intervengono in diversi contesti
o, meglio, in tutte le fasi della vita: dalla formazione dello zigote (ovulo fecondato) alla sviluppo
dell’embrione fino alla vita dell’organismo sviluppato (Box 4.5).
Quindi, l’epigenetica studia i cambiamenti cellulari senza mutazioni genetiche, che possono essere
reversibili o irreversibili, ereditabili o non eredita-
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Parte 2 • Mutamenti nelle basi delle scienze biologiche
Box 4.5 L’epigenetica nelle diverse fasi della vita
I meccanismi epigenetici intervengono:
• Nell’imprinting del genoma. Questo tipo di segnatura può essere parzialmente reversibile.
Il caso più rilevante e noto è quello della riattivazione di uno dei due cromosomi X che viene
silenziato, con meccanismi epigenetici, nelle prime fasi della vita delle femmine (per i dettagli,
si veda il testo).
• Nello sviluppo dell’embrione, segnando il destino delle diverse cellule che andranno a formare
i diversi tessuti e organi. Questo tipo di segnatura è permanente (anche se può essere rovesciata
in condizioni sperimentali particolari; si veda la nota 1) ed è trasmessa alle cellule figlie (ereditarietà mitotica).
• Nella vita dell’organismo sviluppato, segnando in modo stabile processi di adattamento o di
disadattamento agli stimoli ambientali. Questa segnatura è stabile, ma è reversibile. Al tempo
stesso può essere trasmessa, con dimensioni e caratteristiche ancora non sufficientemente chiarite,
attraverso le generazioni (ereditarietà meiotica o transgenerazionale).
bili. Laddove per cambiamenti ereditabili occorre intendere innanzitutto quelli trasmissibili alle
cellule figlie. Questa ereditarietà si chiama di tipo
mitotico perché si realizza quando la cellula, per
garantire il normale ricambio tessutale, si divide
in due cellule figlie tramite la mitosi: questa ereditarietà consente la stabilità del tessuto e degli organi. Consente cioè, per esempio, che una cellula
epatica o una cutanea diano origine ad altre cellule
epatiche e cutanee, rispettivamente. Ma consente
che venga mantenuto ed eventualmente trasmesso
(se la cellula si divide) anche l’assetto funzionale
(o disfunzionale) di una cellula e quindi la sua
segnatura epigenetica. Per esempio, la segnatura
epigenetica infiammatoria di un neurone o di una
cellula immunitaria, derivante da alimentazione,
inquinamento ambientale, stress emozionale o altro, può diventare un pattern stabile di attivazione
di quella cellula, con ovvie conseguenze sull’attività dell’organo e quindi sulla salute dell’individuo.
Accanto all’ereditarietà di tipo mitotico c’è un
altro tipo di ereditarietà che è di tipo meiotico1,
che interessa cioè le cellule germinali, gli spermatozoi e gli ovuli, che garantiscono la perpetuazione
della specie.
Abbiamo ormai molti elementi che segnalano una
trasmissibilità epigenetica di questo tipo, che va
quindi dai genitori ai figli (ereditarietà meiotica
o transgenerazionale). In quest’ultimo caso, però,
le caratteristiche delle epimutazioni ereditate e
Così chiamata perché lo spermatozoo e l’uovo, maturando, riducono a
metà il loro patrimonio genetico, consentendo così che con la fecondazione le due metà unite formino un patrimonio genetico completo.
1
l’estensione dell’eredità epigenotipica transgenerazionale non sono ancora del tutto chiare. Resta
il fatto che, come vedremo, pur con queste limitazioni, l’epigenetica transgenerazionale è accertata,
il che apre rilevanti interrogativi sulla concezione
tradizionale dell’evoluzione della specie umana.
I MECCANISMI
EPIGENETICI NOTI
Il Box 4.6 richiama i concetti di base dell’organizzazione del genoma, eventualmente utili al lettore
per comprendere i meccanismi epigenetici illustrati in questo paragrafo. Al momento attuale, i
meccanismi di regolazione epigenetica identificati
sono: la metilazione del DNA, il rimodellamento
della cromatina tramite la marcatura degli istoni
e l’azione dei microRNA (Figura 4.3).
La metilazione del DNA
È il meccanismo epigenetico identificato da più
tempo. Nei mammiferi la metilazione, cioè il deposito di un metile (CH3), avviene pressoché esclusivamente a livello del nucleotide citosina, che viene
trasformata in 5-metilcitosina, all’interno dei dinucleotidi CpG (dove “p” indica il gruppo fosfato che lega la Citosina alla Guanina). I CpG sono
abbastanza dispersi nel genoma e circa il 70% di
essi è metilato. Ci sono però delle concentrazioni
di questi dinucleotidi, fino al 20% in più del normale, chiamate “isole di citosina”, collocate in aree
strategiche, come le aree vicine ai siti in cui inizia la
trascrizione o addirittura all’interno del gene. Que-
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