Sara Hejazi
L’altro islamico
Leggere l’islam in occidente
Introduzione di Laura Bonato
Copyright © MMIX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
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via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–2478–2
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: aprile 2009
Indice
Prefazione, di Laura Bonato
Introduzione, di Sara Hejazi
1.
2.
3.
7
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Oltre i luoghi comuni: la presenza musulmana in Italia
1. L’Islam in Italia: visibilità, praticabilità, integrazione
1.1. I più visibili: i maghrebini a Torino
1.2. I meno visibili: gli iraniani
1.3. L’integrazione complessa
2. Il carattere arabo. Leggere ed interpretare gli stereotipi
2.1. Maometto l’Anticristo
2.2. La “riconquista” e l’occidentalizzazione del mondo
2.3. I mezzi di comunicazione e la diffusione degli stereotipi
3. La questione del velo:all’origine delle incomprensioni
3.1 Il velo come specchio di una cultura
3.2 Guardare le donne velate a Torino
3.3 Essere velate a Torino
La democrazia unilaterale. Alla base della differenza
1. Democrazia e differenza
2. Stato e Chiesa: religione potere e ideologie politiche
3. Linguaggio politico e politica del linguaggio
3.1. Gorge W. Bush e Mahmoud Ahmadinejad
4. L’abuso degli hadith e il potere ai pochi
5. Terrore da Terrorismo. Kamikaze e jihad
6. Guerre moderne e Islam. Il dilemma dell’Occidente
Ridimensionare la minaccia dell’altro. La religione e la
complessità
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Indice
1. Mondi disincantati e reincantati
2. Islam e cristianesimo: confronti conflitti e prestiti
3. Conclusioni
Bibliografia
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Prefazione
di Laura Bonato
Il libro di Sara Hejazi analizza con puntualità i problematici rapporti
tra Islam e Occidente insistendo su due importanti ordini di problemi. Il
primo concerne i processi di costruzione delle identità musulmane in
Italia in ambito urbano, come avviene la loro negoziazione, i contesti di
sviluppo e di conflitto, le dinamiche di aggregazione – o meno –: è una
riflessione supportata da una significativa esperienza di terreno, in cui
l’Autrice non dà nulla per scontato. Il secondo spunto interessante
riguarda la fede religiosa, il fattore discriminante che orienta il nostro
pensiero verso una connotazione negativa del musulmano. Ed è sul credo
religioso, fortemente ribadito ed esasperato, che mi permetto alcune brevi
considerazioni.
La presentazione a questo volume rappresenta infatti uno spunto per
riflettere su un argomento, quello delle feste musulmane immigrate, che
già da tempo si è rivelato in tutta la sua problematicità e complessità.
Studiando il panorama cerimoniale italiano avevo già avuto occasione
di segnalare la rilevante presenza di feste etniche ed interetniche senza
però trattarle in maniera sistematica perché, onestamente, non possedevo
gli strumenti per farlo. Riprendendo la distinzione di Gallotti e Gandolfi
(2000), ricordiamo che le feste etniche sono quelle consumate
privatamente dalle comunità straniere, cioè matrimoni, battesimi, o
semplici momenti di svago che diventano un’occasione per riunirsi con i
propri connazionali, per rivivere e reinventare le tradizioni del paese
d’origine; invece le feste interetniche, o multietniche, legate al calendario
Prefazione
religioso e civile dei paesi di provenienza degli immigrati, ovviamente
rielaborate ed adattate alle contingenze dei nuovi contesti, sono
un’invenzione piuttosto recente: infatti solo da pochi anni animano lo
spazio urbano di molte città italiane e rappresentano uno dei luoghi del
contatto tra italiani ed immigrati. E se le feste interetniche registrano un
apprezzabile livello di partecipazione e di coinvolgimento sia degli attori
sia degli spettatori, diventando spazi d’incontro e di dialogo con gli
italiani, per contro le feste etniche sembrano rappresentare un momento
di forte rivendicazione identitaria.
L’introduzione al lavoro di Sara Hejazi mi offre l’occasione per
mettere sulla carta alcune riflessioni relative ad una festa etnica di cui
molto si parla e sulla quale tanto si dibatte senza – forse – conoscerla: la
festa musulmana del sacrificio, che si celebra 70 giorni dopo il Ramadan,
il mese del digiuno durante il quale – dall’alba al tramonto – la comunità
musulmana non mangia, non beve, non fuma e non ha rapporti sessuali.
Questa festa, chiamata Aid El Kabir, a cadenza variabile perché correlata
alla luna, è la principale celebrazione dopo il Ramadan e prevede il
sacrificio di montoni. Secondo il Corano, Abramo, inviato di Dio,
obbedendo ad un comandamento divino, stava per sacrificare l’unico
figlio, Ismaele, nato dalla sua unione con Hajar, una ex serva della sua
prima moglie Sarah, quando Allah sostituì ad Ismaele un montone.
Questo avvenimento é localizzato per i musulmani in prossimità della
Mecca 1.
La macellazione rituale comporta l'uccisione dell'animale tramite
iugulazione, perché la legge islamica 2 prescrive una serie di regole
affinché la carne sia considerata commestibile per i musulmani: vengono
recisi i grandi vasi sanguigni del collo (l'arteria carotide o la vena
giugulare) o del petto (tronco carotidale e vena cava anteriore) per
permettere il completo dissanguamento, condizione indispensabile alla
successiva buona conservazione della carne. La colonna vertebrale non
deve essere toccata e la testa dell’animale non deve essere staccata
1
Secondo la Bibbia, invece, il fatto è ambientato a Gerusalemme: Abramo, obbedendo a
Dio, si apprestava a sacrificare il figlio Isacco, nato dalla sua prima moglie Sarah, alla presenza
di tre angeli. L’intervento di Dio salvò Isacco.
2
La legge islamica è l’insieme dei precetti del Corano, degli Hadith (la trasmissione orale
di una testimonianza riguardante un detto, un fatto, un atto, un comportamento del Profeta), lo
Ijmà (il consenso dei dotti giurisperiti musulmani) e il Qisas (legge del taglione).
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Prefazione
durante l’uccisione, la quale deve essere compiuta con un solo gesto: un
secondo intervento sullo stesso montone ferito renderebbe il corpo non
utilizzabile per il musulmano a celebrare la festa; il movimento di taglio
deve essere continuo e terminare quando il coltello viene sollevato dal
montone. Alcuni informatori mi hanno spiegato che secondo la legge
islamica questa operazione spetta al capofamiglia, che può però delegare
un sacrificatore riconosciuto, e deve essere compiuta dopo la preghiera
dell’Aid, venti minuti circa prima dell’alba, chiamata da un Imam. Il
montone deve essere poi diviso in tre parti uguali: una per la famiglia,
una per i vicini e gli amici, e la terza, composta dai pezzi più prelibati,
deve essere donata ai poveri.
Il fatto che i montoni vengano uccisi senza preventivo stordimento, ha
innescato dibattiti e polemiche circa il rispetto delle regole religiose che
comporta la sofferenza dell'animale, che viene immobilizzato secondo
tecniche particolari e ucciso senza essere prima stordito. Nella maggior
parte dei paesi europei la legge prevede delle deroghe per rendere
attuabile la macellazione rituale senza previo stordimento dell'animale:
fanno eccezione la Svizzera, dove il rito dell’Aid El Kabir è vietato, e la
Svezia, che ha imposto lo stordimento degli animali3; in Danimarca e in
Finlandia il taglio della gola deve essere seguito da un colpo di pistola. In
Italia questa possibilità viene recepita tramite il Decreto 333/98, che detta
le norme relative al trattamento degli animali prima e durante la
macellazione: ci sono alcuni casi, come ad esempio appunto la
macellazione rituale, in cui è concessa la possibilità di non stordire
l'animale prima di ucciderlo, come invece dovrebbe avvenire a norma di
legge in tutti i casi di macellazione industriale.
Lo stordimento degli animali non è contemplato dai precetti dell’Islam
ma in alcuni stati islamici, come ad esempio in Malesia, è permesso a
condizioni ben precise: innanzitutto lo stordimento deve essere
temporaneo e non deve provocare danni permanenti4; in secondo luogo
lo storditore deve essere musulmano, o deve essere sorvegliato da un
musulmano o da un’autorità di certificazione della sacra macellazione;
3
In Svezia nel 2001 è entrato in servizio il primo macello islamico che opera nel rispetto
della legge locale.
4
L’informatore A.F. precisa che i montoni, oltre ad essere in salute, non devono essere
feriti né sfigurati.
9
Prefazione
infine, gli strumenti usati per stordire devono essere diversi da quelli
utilizzati per stordire animali non “sacri”, cioè non destinati alla festa del
sacrificio.
La più recente celebrazione dell'Aid el Kabir, che si è svolta l’8
dicembre 2008, mi ha “toccato” particolarmente perché anche la
comunità musulmana di Alessandria, la città in cui vivo, ha accettato –
esattamente come succede da qualche anno in diverse città italiane – una
nuova configurazione dello spazio rituale, il mattatoio pubblico,
sperimentando quindi una riproduzione re-immaginata della festa: le
alternative sarebbero state svolgere il rito nell’illegalità o per procura nel
paese d’origine. La disponibilità a collocarsi all’interno della cornice
legale della macellazione manifesta la chiara intenzione da parte dei
protagonisti all’incorporazione della festa del montone – e dei suoi
partecipanti – nella nostra società (Dore, 2001). Considerando la
chiusura dei macelli di molte città per la festa cristiana dell’Immacolata,
dobbiamo presumere che quest’anno le uccisioni illegali devono essere
state numerose, nei campi – con il rischio di denuncia per gli esecutori e il
pagamento di multe molto salate – o – dove possibile – in casa o nei
garage.
Nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, quando ha avuto
inizio la migrazione musulmana verso l’Italia, e negli anni successivi, non
avevamo pressoché conoscenza della macellazione rituale: N.L.
testimonia di averla obliata per anni, conservando – come afferma anche
Sara Hejazi nel suo testo – una forma molto interiorizzata di religiosità.
Ma questa pratica ha assunto negli ultimi anni un rilievo quantitativo
notevole, determinato dall’aumento delle presenze musulmane nel nostro
paese.
L’opinione pubblica dibatte sulla festa dell’Aid El Kabir, definita
spesso una sanguinaria mattanza, circa la compatibilità tra il diritto di
libertà religiosa – fondamento della macellazione rituale – e il rispetto
degli animali, che impone di evitare loro ogni inutile sofferenza: lo
sgozzamento, infatti, lascia l’animale cosciente, coricato su un fianco e
con la testa rivolta verso la Mecca. Considerando che il Corano non
prescrive che l’animale sia cosciente al momento dell’uccisione, varrebbe
la pena indagare se sussistono ancora tra i musulmani che festeggiano
l’Aid El Kabir condivisione e solidarietà o se la macellazione rituale è un
10
Prefazione
mezzo per affermare la propria unicità, per mantenere una componente di
diversificazione culturale e di appartenenza comunitaria.
Il sacrificio starebbe a significare la disponibilità a condividere i propri
beni con il prossimo, ma è ancora questo il senso del rito per i
musulmani? La macellazione rituale avviene oramai su scala industriale e
il sacrificio – a mio parere – non è più quel momento di comunione
attraverso il quale il gruppo rinnova il senso di solidarietà ed
appartenenza. Quella che era una piccola violenza sacralizzata può
invertire il suo corso e finire per sostenere e legittimare versi e propri
massacri (Kilani, 2008) . Ecco allora che il sacrificio non è sempre un atto
simbolico, restauratore dell’equilibrio sociale (Rivera, 2008): Kilani
(2008) ne mette in evidenza indifferenza e crudeltà, quella riservata agli
animali sacrificati.
Sappiamo che a Varese la legge islamica ha consentito che fosse
siglato un accordo fra i dirigenti dell’azienda sanitaria e la comunità
islamica provinciale: nei due macelli autorizzati della provincia i montoni
vengono uccisi solo dopo un “prestordimento”. Allora si può fare! Ma
altre soluzioni possono essere adottate – e molti musulmani l’hanno già
fatto –, come inviare soldi nel proprio paese d’origine per finanziare lì il
sacrificio. Altrimenti ci si può affidare ad un nuovo servizio Internet, la
“DearOnes-regali per i tuoi cari”, che risolve il problema di come
compiere il sacrificio rituale di un animale senza provvedere
personalmente alla macellazione. La “DearOnes” si ripromette di far
compiere il rito in patria e di restituire via e-mail una ricevuta che attesta
l’avvenuta cerimonia 5.
Ma è proprio la crudeltà verso gli animali che ci infastidisce dell’Aid
El Kabir? Non mostriamo tale manifesta sensibilità nei confronti, ad
esempio, degli animali da pelliccia: per ucciderli si utilizzano metodi quali
la camera a gas, la rottura delle ossa cervicali, la corrente elettrica, i colpi
sul muso e sulla nuca. Il fatto poi che per confezionare una pelliccia di
visone siano necessari fino a 54 animali – per quella di ermellino si arriva
fino a 200 esemplari – ci obbliga a riflettere sul motivo per cui l’opinione
pubblica non si mobilita a favore di più di 30 milioni di animali che ogni
anno vengono uccisi in nome della moda (crudele) ma lo faccia contro la
5
Il sacrificio di un montone costa $130 (www.DearOnes.it).
11
Prefazione
macellazione rituale praticata dai musulmani. Lo stesso si può dire degli
animali che, prima di arrivare come cibo sulle nostre tavole, stanno
rinchiusi in spazi angusti, al buio, spesso incatenati, e vengono ingrassati
al solo scopo di macellarli.
Ritengo possibile il compromesso se, però, da entrambe le parti non ci
si irrigidisce su posizioni irremovibili: attualmente l’Aid El Kabir è un
momento di identificazione collettiva ma – credo – svuotato del
significato originario; è una forma rigida di aggregazione che,
inevitabilmente, proprio in virtù di tale intransigenza, ha assunto una
valenza minacciosa nei confronti dell’ordine stabilito della nostra società.
Ospiti (musulmani) e ospitanti (Italiani, ma potremmo comprendere
buona parte degli Europei) con il loro atteggiamento inflessibile stanno
trascendendo qualsiasi significato spirituale o religioso della festa e si
accaniscono gli uni contro gli altri insistendo – e in nome di – elementi
simbolici che rappresentano una certa identità che si contrappone ad una
identità percepita come altra. La posizione di entrambe le parti, chiuse su
se stesse, generano una spirale culturale nella quale è possibile
individuare solo un appiattimento e un impoverimento delle culture
stesse.
Riferimenti bibliografici
Bonato Laura (2006), Tutti in festa. Antropologia della
cerimonialità, FrancoAngeli, Milano.
Dore Giovanni (2001), L’organizzazione pubblica del sacrificio
dell’`îd al kabîr (Bologna 1998), «La Ricerca Folkorica», 44, pp.8594.
Gallotti Cecilia, Gandolfi Roberta (2000) , Fare festa: effervescenza
e sfida in una “festa interetnica” a Bologna, «Africa e
Mediterraneo», 31-32, pp.30-43.
Khilani Monder (2008), Guerra e sacrificio, Bari, Dedalo, trad. it.
di Guerre et sacrifice. La violence extreme, Paris, Presses
Universitaires de France, 2006.
Rivera Annamaria (2008), Prefazione a Khilani M. (2008), Guerra
e sacrificio, Bari, Dedalo, pp.5-14.
12
Introduzione
Questo lavoro scaturisce da una serie di spunti e riflessioni nate
nell’arco di un anno, durante due semestri di seminari all’università intitolati “islam e democrazia”.
I seminari avevano lo scopo, attraverso l’ideazione di un’inchiesta da
sottoporre alle comunità musulmane eterogenee e ad un eterogeneo gruppo
di italiani residenti a Torino, di delineare, attenendosi strettamente alla realtà urbana, i processi di costruzione delle identità, i codici di riferimento, i
contesti di sviluppo e conflitto, le dinamiche di aggregazione e disgregazione, il linguaggio politico e le politiche del linguaggio che caratterizzano
l’islam nello spazio urbano italiano. Naturalmente il fattore religioso non ha
rappresentato e non rappresenta l’unico punto di riferimento delle identità
degli immigrati che si sono prestati a questa inchiesta. Per tutti infatti la
propria provenienza familiare, il genere, la nazionalità, la madrelingua, la
religione e infiniti altri elementi costituivano i punti di vista, potremmo dire, da cui poter parlare della propria esperienza migratoria e analizzarla nelle sue luci ed ombre. Tuttavia il fattore religioso ha rappresentato il filo
conduttore della narrazione per due motivi: sia perché i migranti di fede
musulmana sono indubbiamente consapevoli che è all’islam che essi vengono normalmente associati dalla società di accoglienza; sia perché esiste
in Occidente un diffuso pensiero attuale sulla valenza antimoderna e antidemocratica dell’islam, soprattutto quando la fede religiosa musulmana diventa visibile e riconoscibile nelle realtà urbane occidentali. Le interviste e
l’osservazione sul campo si sono svolte nel 2007 e nel 2008 e sono state rivolte quindi sia ad un campione di persone eterogenee di nazionalità italiana, sia genericamente a stranieri residenti a Torino, in particolare di nazionalità marocchina, tunisina, libanese, iraniana, afgana, brasiliana, argentina,
polacca e rumena.
L’esperienza sul campo ha poi stimolato successive riflessioni più generali sui rapporti tra islam e Occidente, e su come essi siano caratterizzati in
realtà da un conflitto spesso fondato su degli a priori, che riguardano co-
Introduzione
munità globali, transnazionali e in continuo movimento o sulla loro messa
in scena dall’alto, da parte di sistemi di governo e dell’informazione. La realtà che però viene raccontata dalle interviste appare ben diversa: lo spazio,
che normalmente definiamo globale, in cui si svolgono le quotidianità delle
persone, è in realtà limitato e contempla sfere di interazione sociale locali e
ripetitive: esse sono quasi sempre le stesse, e quasi mai accolgono nuovi
attori nella propria intimità. In questo senso i discorsi generalizzanti, politici, e demonizzanti riguardo all’islam, ai musulmani, al “conflitto” con
l’Occidente sembrano riguardare mondi altri, lontani e “narrati” come una
volta si tramandava il mito greco. La differenza nell’attualità sta nel fatto
che oggi, questi “sistemi mitici” cambiano più rapidamente e altrettanto rapidamente gli ascoltatori vi si abituano, costruendo le proprie opinioni e i
propri discorsi in conformità a questi sistemi, in base ai quali interpretano
anche le proprie esperienze dirette aderendo incondizionatamente al “mito
del conflitto” ogni volta che si presenta l’occasione di esprimersi in merito
alla diversità culturale.
Nella penisola italiana abbiamo oggi una vasta letteratura che parla
dell’islam collegandolo al processo migratorio; pure, si sente il bisogno di
chiarire questa presenza non soltanto dal punto di vista socio-economico,
ma anche adottando per una volta il punto di vista di chi, in questa sede, è
considerato altro in senso antropologico: lo strano/straniero, colui o colei
che esporta, migrando, diversità culturali, e che diventa contemporaneamente agente di cambiamento costante nella modernità e custode di pratiche tradizionali e della loro trasmissione nel tempo.
Se, infatti, soprattutto a partire dalla metà dell’Ottocento si è cominciato
a diffondere e conoscere l’islam in Occidente a vari livelli soprattutto riscoprendo l’età dell’oro musulmana e traducendo e analizzando opere che
trattavano di svariati argomenti, dalla storia alla mistica, dall’arte
all’architettura, dalla teologia alla politica, le comunità musulmane sono
andate progressivamente a costituire anche un oggetto di studio antropologico 1 sia a livello locale nella loro struttura sociale, nella ritualità, nei rapporti di genere, sia, più di recente, a livello globale come comunità musulmane immigrate nelle realtà urbane occidentali; le scienze sociali hanno iniziato a trattare l’argomento come una realtà in profonda trasformazione,
che, nonostante all’apparenza sembri resistere alla modernità, cambia radicalmente proprio in rapporto ad essa, e vada, a sua volta, trasformandola.
1
A partire dall’istituirsi di un’antropologia islamica con Gellner e in seguito dalla nascita del fenomeno dell’islam politico che ha caratterizzato le società mediorientali a partire
dagli anni Settanta.
14
Introduzione
Non è qui mia intenzione dichiarare, in modo semplicistico, che, nonostante nel discorso comune – e sulla scia della teoria sull’Orientalismo di E.
Said - si dia per scontata l’opposizione dicotomica Occidente/Oriente, ci
troviamo dinanzi a una realtà occidentale che va islamizzandosi e ad un islam che, viceversa, si occidentalizza; piuttosto va considerato come
quest’idea astratta rappresentata dalla parola “islam” sia costituita da persone che spesso attraversano continenti, sistemi culturali e persino epoche
storiche senza mai davvero essere interpellate, nonostante siano proprio loro a dare forma e vita ad un’espressività religiosa musulmana nelle città occidentali: si tratta di donne e uomini che re-inventano tradizioni del passato,
riproponendole in nuovi contesti culturali, o che re-interpretano il proprio
credo religioso in senso moderno, interiorizzandolo, accantonandolo o escludendolo dalla propria vita comunitaria, o, al contrario, in modo estremista, ribadendolo, trasmettendolo, esasperandolo come elemento primario
dell’identità per adattarlo od opporlo a forze culturali percepite come estranee; c’è poi una parte di migranti che reagiscono alla società d’accoglienza
“chiudendosi” ad essa e integrando nella propria quotidianità solo gli elementi che rappresentano una continuità con il paese di provenienza.
Le possibilità di atteggiamenti e scelte personali con cui le persone affrontano l’esperienza migratoria sono molteplici ma a tutte, in un modo o
nell’altro, spetta “fare i conti” con l’islam, che sia tentando di esportarlo, di
legittimarlo, di dimenticarlo, sminuirlo o trovando in esso un senso
all’esistenza.
Chi sono dunque queste persone, e come avviene la negoziazione delle
loro identità altre in Italia, ma soprattutto che ruolo gioca l’atteggiamento
degli italiani nei confronti di questa negoziazione, e come a sua volta questo atteggiamento viene influenzato da linguaggi politici, giornalistici e di
diffusione di massa in senso negativo è stato il filo conduttore delle inchieste. Il lavoro di ricerca seminariale si è incentrato in particolare sulla realtà
urbana torinese, che è la sede dell’università di Torino dove si sono svolti i
seminari. Si tratta, nel caso specifico, di un terreno interessante per diversi
motivi: al contrario di altre città italiane Torino è stata attraversata dai flussi migratori interni già a partire dall’immediato dopoguerra, (Castagnoli,
1995) cosa che la accomuna alla realtà francese ed inglese, anche se con
ovvie e profonde differenze. Oltre all’arrivo di ingenti flussi migratori stranieri Torino ha attraversato una profonda trasformazione soprattutto per
quanto riguarda la propria produzione industriale, a causa dei cambiamenti
mondiali nei flussi del capitale e della produttività che, negli ultimi
trent’anni, hanno decentrato la produzione in varie parti del mondo spesso
15
Introduzione
causando la de-industrializzazione delle realtà urbane industriali
dell’Occidente.
Torino, che fu infatti per eccellenza città industriale del Novecento, ha
attraversato negli ultimi vent’anni un massiccio processo di deindustrializzazione che ha modificato gli spazi urbani e i suoi strati sociali.
Proprio in questi anni si assiste dunque ad una “crisi dell’identità” torinese,
la cui tradizione era quella di essere una città operaia, e che va cercando ora
di ridefinirsi promovendo il turismo, o eventi culturali e sportivi (come le
olimpiadi invernali del 2006) e trasformandosi gradualmente “da città operaia e dell’industria” a “città dei servizi”.
La deindustrializzazione di Torino a cui sono seguiti fenomeni ormai
noti quali la precarietà nel lavoro, hanno in un certo senso contribuito a
creare un sentimento di incertezza nella popolazione locale anche rispetto
alla presenza immigrata. Non più divisa in quartieri omogenei (di operai, di
colletti bianchi, di dirigenti ecc.) la città post-industriale (Amendola, 2001)
sembra essere oggi un melting pot eterogeneo, dove non sono più tanto le
classi sociali distinte a contrapporsi quanto, piuttosto, le diverse etnie o appartenenze religiose.
Così le nostre riflessioni si sono dirette ad uno sguardo comparativo tra
i portatori di un’identità islamica e tra chi questa “islamicità” la percepiva
come altra, cercando di sottolineare quali fossero i nodi identitari che sfociavano nell’incomprensione, e quali i motivi per cui la parola “democrazia” poco si adattasse, secondo gli autoctoni, alla realtà islamica.
Dal lavoro di ricerca sul campo è emersa poi l’esigenza di approfondire
dal punto di vista teorico alcuni argomenti spesso trattati in modo superficiale o esclusivamente giornalistico: la jihad o guerra santa, letta esclusivamente sempre come minaccia di terrorismo ma totalmente decontestualizzata dal suo significato originario e dal suo sviluppo storicopolitico; la shar’ia (il corpus di leggi islamiche) e gli hadith (tradizioni sui
detti e le azioni del profeta) e il loro rapporto con la giustizia e la democrazia, spesso banalizzato e strumentalizzato al fine di demonizzare la diversità, o il più delle volte semplicemente malinteso.
In ultimo, è parso fondamentale appropriarsi di strumenti di analisi critica per affrontare in modo scientifico il linguaggio politico e le politiche del
linguaggio che oggi attraversano il pianeta e che utilizzano proprio il discorso religioso per auto-legittimarsi e per perpetrare logiche di potere preesistenti; ad esempio di questo faccio riferimento ad una certa generalizzata
retorica anti-islamica dell’amministrazione Bush, che si è contrapposta, soprattuto in questi ultimi tre anni, ad un’identica retorica anti-occidentale da
parte del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.
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Introduzione
Questo tipo di ricerca antropologica è sembrata fondamentale per due
motivi.
Il primo è che l’islam non si presenta più oggi come un semplice credo
religioso. Esso è infatti per molti musulmani anche inscindibile da certe
pratiche concrete che non riguardano solo la fede o la vita spirituale. Questa
inscindibilità dell’islam dalla sua pratica, nel mondo moderno, attraversato
costantemente da merci, persone, prodotti e idee in costante trasformazione,
e caratterizzato soprattutto da un atteggiamento capitalistico di consumo e
costante desiderio di aumento del benessere materiale, ha fatto sì che scaturisse, da parte delle società occidentali, un reale problema verso l’islam. Si
tratta da un lato di un problema che scaturisce dalla sua visibilità effettiva
(il velo, la preghiera collettiva nelle moschee ecc. ) dall’altro con ciò che
esso ormai rappresenta: un ritorno al passato (la non uguaglianza dei diritti
tra i generi) e una minaccia alla democrazia costituita (quando è associato
alla minaccia terroristica).
Il secondo motivo è che la religione musulmana coincide anche con
un’area geografica che almeno da due secoli è altamente intrecciata con lo
sviluppo economico europeo e mondiale. Non soltanto la ricchezza mineraria e petrolifera della regione mediorientale ha infatti attratto le super potenze mondiali verso i paesi islamici, causando guerre, rivoluzioni, conflitti
e alleanze ormai ben note, ma essa ha anche rappresentato la molla economica verso una reale modernizzazione a tappe forzate di tutto il Medio Oriente a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. I paesi di quest’area
geografica sono oggi, in buona parte, proprio il risultato di una corsa verso
la modernizzazione in senso occidentale, e, purtroppo, lo sono anche le
guerre che in pochi anni, a partire dal 2001, hanno coinvolto due importanti
nazioni mediorientali: prima l’Afghanistan e poi l’Iraq.
Alla luce di queste due considerazioni credo che oggi, più che mai, sia
importante capire l’islam, non tanto in quanto arte, religione o semplice espressività teologica, ma come reale rappresentazione di un mondo sempre
percepito secondo la prospettiva del conflitto, ma che in realtà si trova a vivere una trasformazione volta alla ricerca di autoaffermazione e ridefinizione di se stesso in quanto desideroso di maggior autonomia e di una
tregua dalle guerre che da sessant’anni a questa parte si combattono nel
“mondo musulmano”, ma anche da una tregua dal mito della sua intrinseca
valenza antidemocratica, che lo rende protagonista in quanto nemico acerrimo dell’Occidente.
Nonostante questo lavoro nasca in ambito accademico, non vogliamo
che sia fruibile esclusivamente all’interno dell’ateneo; il lavoro aspira a rivolgersi infatti anche a quei lettori interessati a conoscere più approfondi17
Introduzione
tamente alcune tematiche che riguardano l’islam e che risultano attuali in
quanto entrate a far parte della quotidianità occidentale, attraverso i telegiornali che per esempio citano la jihad o i kamikaze associandoli a immagini di violenza e combattimenti e la shar’ia, associandola a forme di giustizia legale spesso incomprensibili, come la lapidazione, la legge del taglione, le punizioni corporali ecc.
Inoltre il contatto degli italiani con l’islam non è esclusivamente limitato alle informazioni date dai telegiornali, né al territorio della città di Torino; la maggior parte delle città italiane infatti è scenario ormai da almeno
un decennio dell’espressività religiosa musulmana, e questo volume può
essere utile per capire meglio una realtà che sembra ancora avvolta da un
alone di mistero e in quanto tale spaventa chi la conosce poco o per nulla.
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