Felicetta Ferraro
UNA SOCIETÀ IN MOVIMENTO
A trent’anni dalla nascita, e mentre non si è ancora spenta l’eco di un anniversario che ha
visto sostenitori, oppositori, storici ed analisti politici di tutto il mondo affannarsi ad analizzare ancora
una volta uno degli eventi che ha segnato in maniera indelebile il secolo appena trascorso, la
Repubblica Islamica sembra trovarsi di fronte ad una svolta di cui gli eventi che hanno riempito le
pagine dei giornali negli ultimi mesi, sono un segnale evidente, anche se ancora una volta non di facile
lettura. Originata da una rivoluzione che è stata insieme politica e religiosa, ma anche nazionalista,
antimperialista e ugualitaria, oggi, come nel corso di tutta la sua breve ma densa presenza sulla scena
internazionale, la Repubblica Islamica rimane una entità scarsamente conosciuta: un “puzzle”,1, la
cui ricomposizione richiede un’analisi approfondita delle tessere che lo compongono, – ideologia,
politica, economia, organizzazione sociale, nazionalismo, interazione con il mondo esterno – facendo
attenzione a non far prevalere un elemento su tutti gli altri, rimandando l’immagine che più appare
opportuna in un dato momento. Nei tre decenni appena trascorsi, la società iraniana ha conosciuto
cambiamenti profondi perché non c’è dubbio che la trasformazione che ha preso il via nel ’79 è stata
una trasformazione radicale che ha modificato in maniera irreversibile la politica e la società. Le
dinamiche di tale cambiamento sono strettamente connesse all’evoluzione interna della repubblica
islamica e delle sue istituzioni, ma poggiano anche sullo sviluppo economico e sociale che il paese
aveva raggiunto negli anni Settanta, e sulle contraddizioni e le tensioni interne che da esso erano
scaturite.
Pregiudizi, luoghi comuni e deformazioni, rimandano oggi ad un’immagine basata sullo
stereotipo dell’opposizione tra l’aspirazione modernizzatrice dell’epoca pahlavi e l’affermazione di un
tradizionalismo “arcaicizzante” imposto da un Islam retrogrado e non in sintonia con il Paese. Questa
visione, che per molti ha trovato ulteriore conferma nella violenta crisi scatenata dai contestati risultati
delle elezioni presidenziali dello scorso 12 giugno interpretata in molti casi unicamente come lo scontro
tra una dirigenza fondamentalista e una società percepita nel suo insieme come progressista e secolare,
non tiene conto della complessa situazione socioculturale dalla quale la rivoluzione è scaturita, delle
tormentate vicende storiche e politiche che hanno contrassegnato lo sviluppo dell’Iran moderno e della
permanenza di alcune “continuità” (storiche, sociali, culturali) che continuano a pesare, nel bene e nel
male, sull’evoluzione interna del Paese.
“Troppa ideologia e troppo poca storia – ha scritto di recente Roberto Toscano, ambasciatore
italiano a Teheran fino allo scorso anno, con il quale ho condiviso cinque dei miei otto anni di missione
1
K. Pollack, The Persian Puzzle. The Conflict between Iran and America, New York, Random House, 2004.
in Iran e innumerevoli e illuminanti discussioni sulla società iraniana – , come se credissimo che la
rivoluzione del ’79 ha creato un paese e una popolazione totalmente nuovi (...). Ma vi è anche troppa
ideologia e troppo poco sociologia. Per comprendere l’Iran è necessario focalizzarsi meno sulle donne
con chador e sugli attivisti che intonano marg bar Amrika e più sulla complessità della società iraniana”2.
Una complessità – è bene ricordare – che ha radici lontane, in un passato millenario che gli iraniani
sentono ancora straordinariamente vicino, ed in una molteplicità di esperienze storiche e culturali che
pur non intaccando quel fortissimo senso di identità nazionale che si è sviluppato sull’altopiano iranico
molto prima della conquista islamica, hanno lasciato tracce significative in tutti gli aspetti della vita
degli iraniani e contribuito allo sviluppo di una realtà poliedrica e ricca di contrasti che sfugge a sguardi
frettolosi e superficiali. In questo breve spazio non è possibile fare riferimento, neanche per sommi
capi, agli sviluppi storici e culturali che hanno contribuito alla grande varietà del quadro umano e
sociale dell’Iran così come oggi lo conosciamo. Per semplificare il discorso, diciamo che l’immagine di
una nazione unitaria, compattamente sciita, ostile al mondo esterno e alle implicazioni culturali che dai
contatti con esso possono derivare, prevalente oggi in Occidente, convive, da sempre, con una realtà
dove la differenziazione etnica e linguistica, la diversità religiosa, il multiculturalismo, l’apertura verso il
mondo esterno costituiscono elementi altrettanto essenziali della società e della cultura.
L’Iran moderno, la cui identità poggia su una combinazione di elementi di cui fanno parte sia
l’Islam sciita che un tenace sentimento nazionale nutrito dall’orgoglio per un passato di splendore
culturale e dal rifiuto di qualsiasi ingerenza straniera, è stato protagonista nel XIX secolo di alcuni
eventi considerati all’avanguardia in Medio Oriente e nel mondo musulmano. Essi sono anche
all’origine del complesso dibattito sul rapporto tra identità, modernizzazione e occidentalizzazione
nonché dei particolari percorsi intrapresi dalla società e dalla politica nell’Iran contemporaneo e, in
definitiva, di buona parte di quelle “contraddizioni” ancora oggi continuamente rilevate
nell’osservazione della società iraniana.
La modernizzazione difficile
Nell’introduzione ad un suo volume recentemente tradotto in italiano, Ervand Abrahamian
scrive che l’Iran “è entrato nel Novecento con i buoi e l’aratro di legno” e ne è venuto fuori “con le
acciaierie, una percentuale di incidenti automobilistici tra le più alte del mondo, e tra lo sgomento di
molti, un programma nucleare” 3. Una trasformazione straordinaria, tanto più se si considera che agli
inizi del XIX secolo la Persia è una delle aree più povere ed arretrate della regione: un paese di appena
dieci milioni di abitanti, molti dei quali nomadi, privo di strade carrozzabili e con solo qualche
chilometro di ferrovia. Il tasso di alfabetizzazione è cinque volte inferiore a quello dell’Egitto e dieci
2
3
R. Toscano, Meno ideologia nel puzzle iraniano, in “Oil”, n.6, 2009, p. 34.
E. Abrahamian, Storia dell’Iran. Dai primi del Novecento ad oggi, Donzelli Editore, Roma 2009, p. 3.
volte a quello della Turchia. Eppure nel 1906 proprio in Iran si realizza la prima rivoluzione
costituzionale di un paese musulmano, ad opera di una coalizione straordinariamente simile, per
composizione e contraddizioni interne, a quella che si formerà nel 1978: una ristretta élite intellettuale,
urbana e nazionalista, influenzata da ideologie maturate al di fuori dell’Islam, affascinata dallo sviluppo
scientifico e dalle conquiste tecnologiche raggiunte dai Paesi europei, e nello stesso tempo ostile a
questi Paesi che di fatto occupavano l’Iran e ne drenavano le risorse; un’ampia porzione di clero,
preoccupato per la penetrazione di valori estranei all’Islam che il contatto con l’Occidente stava
provocando. Ed infine, il ceto mercantile i cui interessi apparivano seriamente minacciati dalla pressioni
economiche occidentali e dall’inserimento dell’Iran nell’economia di mercato europea in posizione
subalterna e di sfruttamento. Dall’unione di questi ultimi due gruppi nasce quell’alleanza tra moschea e
bazar che avrà un peso rilevante nella storia dell’Iran contemporaneo e che in quell’occasione dimostrò
il proprio potere rigettando quasi subito le istanze costituzionaliste nel timore che le riforme
democratiche proposte (riforma fiscale, riforma per la centralizzazione dello stato, riforma
dell’amministrazione della giustizia) favorissero la penetrazione di contenuti secolari all’interno della
società iraniana. Un atteggiamento che determinò di fatto il fallimento dei principali obiettivi che la
rivoluzione aveva posto e sancì la sconfitta degli intellettuali progressisti che avevano dato il via al
movimento di protesta e ne avevano formulato i contenuti.
Modernizzazione, occidentalizzazione e secolarismo vennero così a trovarsi, sin dagli inizi,
strettamente connessi tra di loro come espressione di opposizione all’Islam che suscitava condanna e
rigetto da parte della società tradizionale4–. La “schizofrenia culturale”, vale a dire quella particolare
tensione tra innovazione (vissuta spesso come copia mal riuscita delle conquiste occidentali) e
tradizione che secondo il filosofo contemporaneo Dariush Shayegan ha caratterizzato il paradigma della
modernità e il processo della modernizzazione in Iran, affonda le sue radici nel dilemma vissuto in
questa delicata fase di passaggio5. Così come dal complicato intreccio tra ammirazione per le
acquisizioni tecnologiche e scientifiche dell’Europa e consapevolezza dell’arretratezza sociale ed
economica del proprio Paese deriva quel duplice sentimento di inferiorità e di difesa aggressiva che
sarà una costante dell’atteggiamento tenuto da gran parte della società iraniana nei confronti
dell’Occidente.
Il processo di formazione di un moderno stato iraniano di tipo occidentale prende il via, come è
noto, con la nascita della dinastia Pahlavi nel 1925. Per tutto il ‘900 l’Iran viene quindi a trovarsi in balia
di una tensione modernizzatrice che parte dalla volontà dei due sovrani Pahlavi, Reza Shah e poi suo
figlio Mohammad Reza, per estendersi in maniera irregolare all’interno della società: un movimento di
M. Ringer, Education, Religion, and the Discourse of Cultural Reform in Qajar Iran, Mazda, Costa Mesa, 2001, pp. 1011.
5 Daryush Shayegan, Cultural Schizophrenia. Islamic Societies confronting the West. London, Saqi Books, 1992.
4
modernizzazione che mal si adatta, per motivi diversi, alle condizioni del paese e che incomincia a
mettere radici molto tardi, mentre le forze della rivoluzione stanno ormai per entrare in scena.
A metà degli anni Settanta, le conseguenze di una grave crisi economica provocata da quello che
è poi passato alla storia come il “primo shock petrolifero”, incrementano la situazione di disagio sociale,
la disoccupazione e la povertà che il sostanziale fallimento della politica di riforme attuata con l’aiuto
degli Stati Uniti, la cosiddetta Rivoluzione Bianca, aveva provocato. L’ostilità al regime, alimentata
dall’opposizione intransigente del clero sciita alla penetrazione della cultura occidentale e dalla lotta del
partito comunista tudeh nei confronti delle scelte imperialiste dello shah, si fa più aperta e in essa
confluisce tutto il malcontento che la politica complessiva dei Pahlavi aveva generato nel tentativo di
imporre un sistema di valori sostanzialmente estraneo alla maggioranza della popolazione. A tale
malcontento bastava una miccia per esplodere e questa viene fornita da alcuni episodi di repressione
particolarmente cruenti, che innestano un processo a catena di proteste da cui la rivoluzione prende il
via6.
Costruzione di una società islamica
Qualificata a torto come arcaica, tradizionalista, religiosa, la rivoluzione islamica si è sviluppata
all’interno di una società in trasformazione, in buona parte urbana e secolarizzata, sconvolta da tensioni
e contraddizioni che l’Islam, più di altri, è stato in grado di captare e convogliare in una “resistenza
culturale”, una ricerca di “autenticità” che appare costruita su una visione antitetica alla “colonizzazione
occidentale” , all’intossicazione da occidente, secondo la famosa espressione coniata dallo scrittore Jalal
Al-e Ahmad, indotta dallo shah e dai suoi sostenitori esterni7. L’ordine sociale che si instaura dopo la
sua vittoria non si afferma però su una negazione della modernità, o su un ritorno incondizionato a
situazioni premoderne in risposta al progresso artificiale imposto dall’esterno. Alla rottura, sul piano
politico, del tradizionale quietismo sciita operato dall’ayatollah Khomeini con l’instaurazione del velayat-e
faqih, corrisponde sul piano sociale l’abbandono del conservatorismo tipico del clero ed una
ristrutturazione della società nella quale la tradizione non viene messa in discussione verbalmente ma di
fatto depotenziata attraverso l’utilizzo del suo linguaggio e delle sue istituzioni in chiave simbolica8. Un
esempio di tale atteggiamento è costituito dall’imposizione, subito dopo la proclamazione della
6
Due volumi utili per ricostruire questo complesso periodo sono: E. Abrahamian, Iran between Two Revolutions,
Princeton University Press, Princeton, 1982 e J-P. Digard, B. Hourcade, Y. Richard, L’Iran au XXe Siècle, Fayard,
Paris, 1996.
Jalal Al-e Ahmad viene annoverato tra gli intellettuali che hanno contribuito a preparare il terreno per
l’esplosione rivoluzionaria. Pur proveniendo da una famiglia di religiosi, egli era un militante comunista che
rigettava l’influenza occidentale al fine di salvaguardare l’identità culturale nazionale. Cfr. H. Dabashi, Theology of
Discontent. The Ideological Foundation of Islamic R,evolution in Iran, New York and London, New Yrk University Press,
1993, pp. 74-75; M. Emiliani, M. Ranuzzi De’ Biachi, E. Atzori, Nel nome di Omar. Rivoluzione, clero e potere in Iran,
Odoya, Bologna, 2008, pp.85-86.
8 Renzo Guolo, Una rivoluzione contro la tradizione religiosa, in A. Nesti (a cura di), Laboratorio Iran. Cultura, religione,
modernità in Iran. Franco Angeli, 2003, p. 68.
7
repubblica, dell’hejab, la copertura del corpo femminile, che è stato lo strumento attraverso il quale il
clero rivoluzionario ha legittimato l’accesso femminile alla sfera pubblica in opposizione ai
tradizionalisti che ne reclamavano l’espulsione in nome dei principi islamici e del ripristino dell’ordine
sociale violato dai Pahlavi. Con la sua imposizione, seguita dalla prima grande manifestazione di
protesta del dopo rivoluzione, lo stato islamico riconosce simbolicamente il valore di questi principi
difendendo, nel contempo, il ruolo socialmente attivo affidato alle donne nel nuovo ordine islamico9 .
La questione femminile oltrepassa naturalmente la questione del velo, e i tradizionalisti riusciranno ad
imporre in parlamento l’abolizione della legge sulla protezione della famiglia varata in difesa delle donne
nell’epoca precedente, riportando le iraniane ad una condizione di inferiorità legale rispetto agli uomini
fortemente lesiva dei loro diritti civili. Inserite comunque nel tessuto politico della repubblica islamica,
le donne riusciranno con il tempo a sviluppare un movimento fortemente critico della tradizione
maschilista e patriarcale che domina i rapporti tra i sessi. Esso si svilupperà dapprima unicamente
all’interno del sistema per poi aprirsi gradualmente, durante gli anni del riformismo, ad un dialogo con
il femminismo di matrice laica dal quale scaturisce un fronte particolarmente agguerrito che ha
prodotto, tra le altre cose, la “campagna per un milione di firme” ormai nota internazionalmente10.
Uscito vincente dal duro scontro politico interno seguito alla caduta della monarchia, e preso
saldamente in mano il potere, il clero militante, che già mentre si opponeva alle riforme dello shah
aveva compreso che la possibilità di esercitare un peso nel paese dipendeva dalla capacità di reggere la
sfida con il cambiamento ormai irreversibile operato dal regime, intraprende un percorso di
“islamizzazione” della modernità che viene per così dire “legittimata” e resa fruibile da parte di tutte le
componenti della società.
Associando monarchia, imperialismo e progresso sociale, il governo clericale si dedica nella
prima fase della sua affermazione a depurare la società iraniana dalle influenze occidentali: musica,
cinema, cultura, arte, abbigliamento, tutto finisce sotto l’occhio vigile del controllo islamico, assicurato
da apposite squadre di volontari, i basiji, e da corpi di polizia appositamente costituiti. I programmi
scolastici vengono modificati e le università chiuse in attesa di una riforma culturale incaricata di
depurare anche la scienza e la tecnologia dalle influenze nefaste del pensiero laico e secolare11. Mentre
assume il controllo della sfera politica, economica e culturale, la nuova élite politico-religiosa
R. Guolo, La via dell’Imam. L’Iran da Khomeimi ad Ahmadinejad, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 162-88. Sul
differente uso del simbolismo del velo nel corso del Novecento e prima e dopo la rivoluzione islamica, si veda S.
Hejazi, L’Iran S-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo, Aracne, Roma, 2008.
10
La campagna “un milione di firme per cambiare le leggi discriminatorie” contro le donne iraniane è stata
lanciata a Teheran nell’agosto del 2006. Partita come inziativa del Movimento per i diritti delle donne nel corso di
una manifestazione, ha raggiunto una grande visibilità internazionale e ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra i
quali, nel 2009, il premio Simone De Beauvoir.
9
La “rivoluzione culturale” ha luogo dal 1980 al 1983 e comporta la chiusura forzata delle università e dei centri
di specializzazione, con la sola eccezione delle scuole religiose di Qom.
11
proveniente dalla classe media tradizionale che aveva resistito alla modernizzazione occidentale, cerca di
estromettere completamente la sua controparte laica, bollata come toghuti, “idolatra”, termine oggi
scomparso dal vocabolario corrente a riprova della distanza ideologica che separa le nuove generazioni
da quelle dei loro padri. Accusati di essere veicolo di “invasione culturale” occidentale, migliaia di
funzionari vengono licenziati ed allontanati in vario modo, mentre inizia un esodo massiccio di
intellettuali, docenti universitari, tecnocrati, ingegneri, medici, esponenti culturali del vecchio regime che
vanno a raggiungere in Europa, e più frequentemente negli Stati Uniti, l’aristocrazia e i membri dell’élite
pahlavi che avevano lasciato il paese agli esordi della rivoluzione. A rimpiazzarli vengono chiamati
elementi ideologicamente affidabili ma sprovvisti il più delle volte delle qualifiche necessarie, con un
danno facilmente immaginabile per il progresso scientifico e tecnologico: in compenso, questa misura
assicura la temporanea neutralizzazione della classe media occidentalizzata che per scelta nazionalista o
per mancanza di mezzi non aveva lasciato il paese. Tra
i cittadini devoti sciiti, leali agli ideali
rivoluzionari e alle istituzioni, fedeli alla Guida Suprema e in sintonia con le politiche generali del
governo, definiti khodi, gli ‘interni’ e i non praticanti, gli estranei alla devozione pubblica, gli scettici, gli
scontenti, i critici del sistema, insomma i kheyr-e khodi, ‘quelli che stanno fuori’, si sviluppa una linea di
demarcazione che rimane per molti anni un confine invalicabile che spacca la società e crea frustrazione
e diffidenza.
Il vuoto lasciato dalla classe media laica e moderna viene compensato con la formazione di
quadri specializzati leali al sistema. Alle famiglie dei “martiri”, i caduti durante la rivoluzione e la guerra,
appartenenti in genere agli strati più bassi della società vengono accordate quote di ingresso separate
nelle università e facilitazioni ecomiche di vario tipo. Si tratta di una “discriminazione positiva” che
provoca un rapido rimescolamento della popolazione universitaria ed il controllo da parte degli studenti
islamici degli organi studenteschi12. Il livello scientifico dei laureati in questi primo periodo non è certo
elevato, ma il progressivo miglioramento dei rapporti internazionali e l’impegno economico del governo
che promuove la formazione all’estero dei propri quadri con borse di studio e incentivi di carriera,
migliorano rapidamente la situazione.
Trascorso il momento più difficile dell’affermazione dello stato rivoluzionario, e complice anche
una guerra che aveva richiesto un immenso sforzo in termini di organizzazione, equipaggiamento, e
servizi, le conoscenze scientifiche e i contatti con l’occidente riemergono prepotentemente come
strumento di progresso nella mani della nuova dirigenza e della nuova classe media, ai cui sforzi
vengono questa volta associati, e qui sta la grande novità determinata dalla rivoluzione, tutti gli strati
Negli anni immediatamente successive alla rivoluzione culturale, gli studenti islamici avevano aderito in
maggioranza all’Ufficio per il Raffozamento dell’Unità (daftar-e tahkim-e vahdat) un’associazione studentesca nata
sotto l’egida di Hezbollah che è successivamente diventata uno dei capisaldi del movimento studentesco
riformista.
12
della società e tutte le regioni del paese, con l’eccezione, evidentemente, di quel residuo della ricca
borghesia di epoca pahlavi che ancora era rimasta in patria.
L’integrazione delle aree rurali, anche di quelle più sperdute, delle aree tribali, delle periferie
cittadine, miseramente fallita con la politica dello shah, si realizza invece senza grandi traumi nell’Iran
islamico, grazie alla rete di legami che la nuova dirigenza intrattiene con queste realtà dalle quali spesso
proviene e con le quali parla un linguaggio comune13.
Nel primo decennio dopo la rivoluzione, nonostante la guerra, gli sforzi del governo islamico si
concentrano sulla costruzione di infrastrutture, strade, collegamenti, reti elettriche, che mettono
finalmente in comunicazione un paese da sempre caratterizzato dalla dispersione degli insediamenti.
Investimenti ancora più massicci in questo ed altri settori vengono compiuti alla fine del conflitto che
aveva richiesto uno sforzo sovraumano e che si era concluso lasciando l’economia gravemente
dissestata, gli impianti petroliferi distrutti dai bombardamenti ed il paese completamente isolato.
Ripresa economica
e stabilizzazione politica possono avvenire soltanto emarginando dalla scena
politica la componente radicale, sostenitrice di un deciso intervento statale nell’economia, che aveva
dominato fino a quel momento. Su questo si trovano d’accordo, pur essendo lontani su altri temi, sia il
nuovo presidente della Repubblica, Akbar Rafsanjani, figura politica di primo piano che dominerà la
scena fino ai nostri giorni, sia la nuova Guida Suprema, Ali Khamenei, succeduto a Khomeini per
volere dell’élite religiosa rivoluzionaria cresciuta all’ombra dell’Imam, nonostante non possedesse i titoli
originariamente previsti dalla Costituzione per la più alta carica del governo islamico.
La fase cosiddetta della “ricostruzione” che prende il via dopo il 1989 appare quindi
caratterizzata dalla rottura definitiva dell’’unità politica del primo periodo rivoluzionario, e
dall’affermazione di una destra “moderna”, moderata, pragmatica, favorevole ad una più accentuata
normalizzazione all’interno della società e nei rapporti internazionali, in contrasto sia con la destra
conservatrice orientata verso una politica di liberalizzazione economica ma contraria ad aperture in
campo culturale e sociale, sia con la sinistra, caratterizzata da istanze più radicali di contrapposizione
con l’Occidente, protezionismo economico e movimentismo politico.
La cauta politica di liberalizzazione economica e le timide aperture nei rapporti internazionali
che Rafsanjani inaugura per favorire la crescita economica e lo sviluppo del Paese mancano l’obiettivo
principale, ma danno comunque il via ad una fase di euforia e di crescita interna che in pochi anni
trasforma il volto dell’Iran e decreta l’inizio di quella che viene ormai definita la “seconda repubblica”,
nella quale crescita economica, stabilizzazione politica, sviluppo sociale e apertura internazionale
cercano di affermarsi senza rimettere in causa i
13
connotati di base del sistema prodotto dalla
F. Khosrokhavar, Toward an Anthropology of Democratization in Iran, in "Critique”, no. 16, Spring 2000, pp. 3-29.
rivoluzione14. A sua difesa si erge la Guida Suprema, avviando un delicato gioco di equilibri, alleanze,
aperture e repressione che molti considerano oggi essere arrivato al punto di rottura.
La politica di privatizzazione lanciata da Rafsanjani con il primo piano quinquennale fa uscire
allo scoperto i capitali accumulati negli anni della guerra. Teheran si trasforma nella capitale
dell’immobiliare e nascono i primi grattacieli. Ben presto, i quartieri settentrionali si trasformano sotto i
colpi di una speculazione edilizia che le varie crisi che si succedono negli anni successivi, compresa
quella odierna, rallentano ma non riescono mai a fermare del tutto. La produzione industriale aumenta,
così come le estrazioni petrolifere. I negozi si riempiono di beni di consumo e di prodotti occidentali
che danno l’illusione di essersi ormai lasciati alle spalle le ristrettezze della guerra. L’istruzione cresce
vistosamente: la necessità di dotarsi di un apparato amministrativo efficiente e di quadri validi per la
ricostruzione impone il rientro nella scuola e nelle università dei professori, degli scienziati e degli
esperti che erano stati allontanati ed espone la popolazione studentesca proveniente dalle fasce disagiate
al contatto con idee e comportamenti che rompono con il conformismo della società tradizionale. La
rete privata di università – la Libera Università Islamica – creata dallo stesso Rafsanjani già nel 1982
per superare la paralisi dell’università pubblica negli anni della rivoluzione culturale, si diffonde in tutto
il territorio, rendendo più facile l’accesso all’istruzione superiore anche da parte delle ragazze. Benché
questa Università sia qualificata come “islamica”, il suo corpo docente risulta meno politicizzato di
quello delle università pubbliche sottoposte ad un rigido controllo da parte delle autorità, e impartisce
un insegnamento più libero da condizionamenti ideologici. Nell’opinione popolare, la presenza stessa di
una sede della Libera Università conferisce alle città di piccole dimensioni una atmosfera meno
provinciale e di maggiore apertura sociale.
Mentre i due estremi dello spettro sociale, le élites del vecchio regime e le nuove, strettamente
legate alle gerarchie religiose e al potere politico, rimangono estrane e di fatto prive di contatto, la
classe media occidentalizzata e la nuova borghesia islamizzata incominciano a familiarizzare e a
costruire una piattaforma di rivendicazioni comuni finalizzate a trarre vantaggio dal maggiore benessere
ecomico e dalle aperture socio-culturali che la presidenza Rafsanjani favorisce. Si tratta, sia per quanto
riguarda la cultura che i comportamenti sociali, di trasformazioni che badano a non discostarsi troppo
dai dettami ideologici rivoluzionari ma che hanno comunque l’effetto di creare un clima di
rinnovamento e di partecipazione che spezza la “cappa di piombo” che gli anni dolorosi e grigi della
guerra avevano imposto. Karbaschi, celebre sindaco di Teheran, al quale si deve la trasformazione della
capitale in una metropoli “moderna” – ricordo nel 1994, a Teheran, le telefonate di compiacimento dei
miei amici iraniani per il primo grande cartellone publicitario sui muri di una delle nuove autostrade
cittadine – piena di verde, costruisce nell’estrema periferia sud il Centro Culturale Bahman che attrae, in
14
B. Hourcade, Iran. Nouvelle identités d’une république, Paris, Editions Belin, 2002, passim.
un’area nota precedentemente per la miseria e il degrado, gli abitanti dei quartieri settentrionali avidi di
cultura e spettacoli che sono sempre più spesso anche occidentali15.
Il Bahman funge da modello per la costruzione di numerosi centri culturali, dapprima a Teheran
e poi nelle altre città, nei quali cultura moderna e cultura iraniana tradizionale si incontrano e si
conoscono, creando i presupposti per l’esplosione culturale ed artistica che qualche anno dopo fa
conoscere la pittura, il cinema e il teatro iraniani internazionalmente16. Nella stessa epoca incominciano
a comparire sui tetti delle case le prime parabole, divenute poi uno dei tanti fenomeni sociali
contraddittori dell’Iran islamico per la loro presenza anche nei quartieri più miseri ed in quelli delle
classi più fedeli al sistema, mentre computer e materiali informatici si accumulano nei negozi del bazar
con una abbondanza che stupisce i turisti che incominciano a riapparire nelle strade iraniane. Il
patrimonio nazionale, che a parte un tentativo per fortuna fallito di danneggiare Persepoli agli inizi della
rivoluzione ad opera di un gruppo di estremisti, era stato sempre protetto, viene ora valorizzato
attraverso la ripresa di contatti scientifici con l’estero e l’apertura di numerosi musei. Riprende anche
l’attività del Teatro Vahdat, il teatro dell’opera voluto da Farah Diba, che diventa sede di un Festival
Internazionale di musica, teatro e cinema, mentre nascono nuove sale in tutti i quartieri.
In breve, si può affermare che negli anni delle due presidenze Rafsanjani si assiste ad una
ripresa economica della classe media e ad un incremento della sua influenza nella società e nella
cultura dal quale derivano rivendicazioni culturali e politiche che le istituzioni rivoluzionarie non
sono in grado di soddisfare. La modesta apertura culturale appena conquistata viene anzi
contrastata con il lancio di una campagna contro “l’invasione culturale” straniera (tahajom-e
farhangi) che costringe alle dimissioni Mohammad Khatami, in quel momento a capo del
Ministero della Guida e della Cultura Islamica, e reprime duramente il mondo intellettuale
arrivando sino all’assassinio di un certo numero di scrittori. A dispetto di questa violenta
reazione, la spinta verso l’evoluzione politica e sociale non si arresta e crea verso la fine degli
anni ’90 i presupposti per quella “stagione delle riforme” nella quale le divergenze tra il potere
politico e la società emergono allo scoperto definitivamente: il primo vuole conservare l’eredità
della rivoluzione anche a costo di tradirne lo spirito, la seconda vuole promuoverne le dinamiche
che consapevolmente e non la rivoluzione stessa ha messo in moto.17
Nel Bahman ho assistito nel 1992 al primo concerto pianistico tenuto in Iran dopo la rivoluzione da Novin
Afruz, muscista residente in Italia da molto tempo prima della caduta della monarchia e che era stata allieva
prediletta di Benedetti Michelangelo.
16 Nel luglio del 2000 la regista teatrale Pari Saberi mette in scena a Roma nel Colosseo, con il sostegno del
Ministero degli Esteri e dell’Ambasciata d’Italia a Teheran, lo spettacolo Antigone ispirato alla classica tragedia
greca e alla tradizione sciita del ta’ziye. Pochi mesi dopo, il regista Panahi vince il Leone d’Oro nella 57ma Mostra
del Cinema di Venezia con il film Il Cerchio, dura denuncia della condizione femminile che in patria non verrà
mai proiettato.
17 F.Khosrokhavar, O. Roy, Iran: Comment sortir d’une révolution religieuse, Paris, Seuil, 1999, pp. 132-142.
15
L’affermazione di Mohammad Khatami alle elezioni presidenziali del 1997 con un
altissimo numero di voti testimonia la voglia di partecipazione della società alla costruzione di
un nuovo ordine sociale basato sull’evoluzione dei meccanismi politico-istituzionali della
Repubblica Islamica. L’esito degli sforzi della società civile che il periodo ha visto fiorire e dello
schieramento politico del presidente è noto e paradossale. Intimoriti dall’ampiezza del
movimento delle riforme e ritenendo che ad essere messo in gioco fosse il mantenimento
dell’assetto islamico del sistema ed il controllo degli organi non eletti a favore di quelli eletti
democraticamente, la Guida Suprema ed il fronte conservatore hanno unito le loro forze
attaccando e demolendo la politica delle riforme con il sostegno dell’apparato economicoburocratico dello stato, gli apparati di sicurezza (pasdaran e intelligence) e gli strati popolari
economicamente dipendenti dagli aiuti dello stato. Deluse e frustrate per l’impossibilità di
liberalizzare il sistema e colpiti da misure repressive che ne riducevano ogni giorno gli spazi, le
forze sociali che avevano appoggiato politicamente il movimento riformista si sono presto
ritirate dalla scena attiva permettendo ai conservatori, ed in particolare alla fazione ultra-radicale,
di conquistare prima il governo delle grandi città, tra cui Teheran, e poi la presidenza della
repubblica, senza incontrare alcuna resistenza nelle urne.18
La complessità del sistema politico iraniano e la presenza di fazioni contrapposte anche
all’interno dei conservatori, la cui agenda è molto più diversificata di quanto la coesione di
facciata intrapresa di fronte al pericolo riformista abbia fatto ritenere, hanno però fatto emergere
uno scontro tra la dirigenza uscita dalla rivoluzione che difende la natura islamica e repubblicana
dello stato concepita da Khomeini, e un nuovo raggruppamento politico, i cui membri sono più
giovani di quelli della classe politica tradizionale, si sono formati in maggioranza attraverso la
partecipazione alla guerra contro l’Iraq, provengono da ambienti sociali popolari impregnati di
conservatorismo sociale e religioso, e sono profondamente ostili alle spinte occidentalizzanti
nella cultura e nei comportamenti sociali19. Di queste oscillazioni del quadro politico ha
aproffittato la società per continuare a far sentire la propria voce a dispetto del notevole
restringimento degli spazi di libertà e di espressione, che ha colpito, come è ormai risaputo,
soprattutto la stampa. La campagna elettorale che ha preceduto le contestate elezioni del 12
giugno scorso è stata di una vivacità e di una libertà assolutamente inconsuete. I candidati si
sono confrontati in dibattiti pubblici nei quali critiche e accuse senza esclusione di colpi sono
state lanciate di fronte ad un pubblico televisivo sorpreso e sconcertato, mentre i loro sostenitori
si affrontavano per le strade di Teheran scatenando la fantasia e la creatività. Nel 2005 Rafsanjani
aveva cercato di colpire l’attenzione delle classi moderne di Teheran facendo distribuire i
18
19
R. Redaelli, L’Iran Contemporaneo, Carocci, Roma, 2009, pp. 86-99.
B. Hourcade, La difficie costruction d’une répubblique, La Documentation Francaise, n. 25, mai-juin 2005.
volantini elettorali da ragazze che sfrecciavano su pattini a rotelle, mentre nel suo centro
elettorale venivano offerte confezioni luccicanti di noccioline americane per le quali ragazzi e
ragazze si mettevano in fila. In questa elezione le tecnologie più moderne sono state utilizzate da
tutti i candidati, anche dal conservatore Reza’i e dall’ultra radicale Ahmadinejad. Accantonando
la questione della contestazione del risultato della consultazione elettorale che appartiene ad una
valutazione politica dell’operato della Guida e dei ministeri preposti, il risultato delle elezioni, che
hanno fatto registrare una affluenza senza precedenti, testimonia l’esistenza di una società vivace,
partecipe e fortemente diversificata, lontana dalla frettolosa semplificazione di una
contrapposizione attribuita esclusivamente ad un fronte riformista ed uno conservatore.
Mussavi, pur avendo raccolto il voto della maggioranza della società progressita non è
qualificabile come un “riformista”, così come Ahmadinejad non rappresenta la galassia
conservatrice. La presenza di Mehdi Karrubi, che gli avvenimenti successivi stanno sempre più
qualificando come il vero referente dell’opposizione giovanile e progressista, e dell’excomandante delle Guardie della Rivoluzione Reza’i, candidatosi a difesa dei consevatori
moderati, conferma l’esistenza di agende politiche differenziate e la ricerca del consenso degli
elettori sulla base di programmi non appiattiti sul solo discorso ideologico.
L’irreversibilità del cambiamento
Come affermato nella prima parte di questo breve esame della società iraniana postrivoluzionaria, la trasformazione politica avviata nel 1979, che ha comportato sacrifici e dure
conseguenze per tutti gli iraniani, si è sviluppata di pari passo con una mutazione profonda della
società e della cultura secondo dinamiche strettamente connesse alla natura stessa della
repubblica islamica. Esaminando i fattori che hanno determinato il cambiamento, appare
evidente il ruolo importante svolto dal dato demografico. Dal 1979 la popolazione iraniana è
praticamente raddopiata raggiungendo oggi la cifra di 74 milioni. Di conseguenza, due iraniani
su tre sono giovani al di sotto dei 30 anni. L’85% di questi giovani ha studiato e in molti casi
possiede un titolo di studio avanzato. Sono giovani che non hanno sperimentato la spinta
ideologica della rivoluzione o le sofferenze della guerra, ma che non hanno neanche nostalgia di
un passato monarchico che per loro appartiene definitivamente alla storia. Sono i figli della
vecchia e della nuova borghesia, delle nuove elites che la rivoluzione ha creato e di quelle
masse di diseredati che dalla rivoluzione hanno ottenuto status sociale ed opportunità, ai quali
gli annni della presidenza Khatami hanno dato la possibilità di formarsi al dibattito politico e di
creare nuovi rapporti di forza all’interno della società. Massicciamente scolarizzati – quasi il
90% di essi ha studiato e possiede un titolo di studio - sono attivi, informati di ciò che
succede nel mondo, desiderosi di partecipare alla società dei consumi e di avere accesso alla
cultura internazionale e al mondo globalizzato: i più anziani hanno vissuto l’entusiamo del
periodo khatamista, hanno votato in massa per il suo programma e si sono sentiti traditi
quando le riforme sono state bruscamente fermate; i più giovani, che stanno vivendo le
conseguenze della restaurazione conservatrice seguita alla fine di quel periodo, si dibattono
inquieti per i tanti diritti non riconosciuti, incanalando il loro disagio in forme di devianza
giovanile – in primo luogo l’uso di droghe – che hanno ormai raggiunto proporzioni
allarmanti. Sono comunque giovani pronti a mettersi in gioco in tutti i settori della cultura: il
cinema, la musica, la letteratura, la pittura, il giornalismo, il teatro. A Teheran esistono più di
400 gallerie d’arte, e il Paese è percorso da festival, da biennali, da competizioni artistiche che
sono nate nel clima di apertura e di cooperazione internazionale della fine degli anni ‘90 e che
continuano ad operare a dispetto delle limitazioni imposte dalla censura e dal taglio drastico dei
finanziamenti. Come altrove, anche in Iran questi giovani, la cui vitalità è un dato di fatto
riconosciuto da chiunque abbia un minimo di familiarità con il Paese, vogliono partecipare alla
società dei consumi e vogliono avere accesso alla cultura internazionale. Malgrado i loro sforzi, le
autorità clericali preposte alla giustizia e alla polizia non sono in grado di controllare l'accesso
all'informazione e agli scambi che le nuove tecnologie informatiche permettono.Secondo dati
della banca mondiale, gli iraniani che utilizzano la rete sono tra i 4 e i 7 milioni, il numero di pc
per ogni 100 abitanti è di 7,5 (nella moderna Turchia è di soli 4,5) e in Internet c’erano, prima
dell’esplosione creata dalle proteste dell’Onda Verde, intorno a 70 mila blog in persiano.
Vivendo a Teheran, ma anche ad Isfahan, a Shiraz, si percepisce che le mode e i consumi di
stampo occidentale sono inarrestabili, ma anche che il desiderio di questi giovani di sentirsi parte
di un mondo
“globalizzato” è ormai separato dal sentimento di inferiorità nei confronti
dell’Occidente che aveva caratterizzato la gioventù degli anni ’70.
Frutto della trasformazione demografica è anche la massiccia presenza femminile nella
società. Le donne iraniane hanno assunto ormai un ruolo da protagoniste e questo proprio grazie
alle opportunità che la società islamizzata ha loro offerto: il concetto del chador lasciapassare è
ormai noto ed effettivamente l’islamizzazione della società ha legittimato l’ingresso nella scuola
e nella vita pubblica delle donne appartenenti a famiglie conservatrici, tradizionaliste e della
stessa nomenklatura religiosa. Inoltre, milioni di ragazze degli strati sociali più bassi e delle
campagne hanno usufruito dello sviluppo economico delle aree rurali e di quelle tribali che la
repubblica islamica ha messo, agli inizi della rivoluzione, tra i suoi programmi prioritari, per
accedere all’istruzione e al mondo del lavoro. Oggi il 66 per cento degli studenti universitari è
costituito da donne e le donne sono presenti e operano in tutti i settori della società.
All’aumento della partecipazione femminile nel mondo del lavoro, della cultura, dell’arte e,
ancora molto limitatamente, della politica ha contribuito la drastica riduzione del tasso di
natalità, sceso dopo l’impennata degli anni di guerra. A fronte di questa evoluzione, persistono
ancora un quadro giuridico restrittivo e penalizzante, adottato, come già detto, subito dopo la
rivoluzione, e una pratica sociale di natura patriarcale che appaiono ormai in netto contrasto con
le richieste del mondo femminile: per una donna è molto difficile ottenere o l’affidamento dei
figli; la sua testimonianza vale ancora la metà di quella di un uomo, così come le spetta la metà
dell’eredità paterna; senza il permesso del coniuge non può nemmeno ottenere il passaporto e
quindi viaggiare all’estero. Contro questo stato di cose, si è costituito un fronte femminile molto
attivo che ha assunto una forte valenza politica e che ha per questo subito una forte repressione.
L’incremento demografico si è sviluppato di pari passo con una massiccia inurbazione,
che aveva preso il via già nel periodo immediatamente precedente la rivoluzione. Nel 1979 la
popolazione urbana supera per la prima volta quella rurale. L’urbanizzazione implica, tra le altre
cose, anche la costruzione di una nuova identità, quella di cittadino che si libera
progressivamente dei comportamenti politici e sociali collettivi, associati cioè all’appartenenza ad
un gruppo etnico, tribale, religioso o prefessionale. Oggi non è più possibile, o almeno lo è
sempre di meno, analizzare la società iraniana in termini di sistemi tradizionali o
sociologicamente coerenti: i cittadini, gli abitanti rurali, i nomadi, i sunniti, e così via. La presenza
di strategie individuali di comportamento è sempre più evidente e costituisce in sé un fattore di
cambiamento importante nei rapporti all’interno della struttura sociale.
Un fattore che si può considerare rivoluzionario, nel vero senso della parola, nel contesto
secolare dei rapporti tra stato e cittadini in Iran è costituito dalla partecipazione alla vita politica e
dalla politicizzazione dei singoli. L’Iran ha conosciuto momenti importanti di azione politica
collettiva – la rivoluzione costituzionale è stato uno di questi – ma si è trattato comunque di
movimenti limitati ad alcune fasce della popolazione, in genere quella più istruita ed
occidentalizzata e una parte del clero e della società tradizionale. La mobilitazione generale
indotta dagli eventi rivoluzionari e dalla successiva lotta tra le diverse fazioni che vi avevano
preso parte, ha aperto invece la strada a forme di partecipazione nuove, che hanno coinvolto,
per la prima volta, non solo gli intellettuali e la ristrettissima classe dirigente, ma tutta la
popolazione, compresi quei ceti rimasti storicamente ai margini.
L’organizzazione duale dello stato islamico che prevede regolari consultazioni elettorali
ha consolidato l’attitudine alla partecipazione politica. Gli iraniani sanno che votare può
cambiare il loro destino: le elezioni sono condizionate da un controllo preventivo dei candidati e
non sono immuni da manipolazioni, ma esistono, sono regolari e determinano una vita politica
movimentata, con raggruppamenti politici contrapposti, scontri, vittorie, perdite, momenti di
consenso e momenti di astenzione da parte dell’elettorato. La massiccia protesta verificatasi
dopo le ultime elezioni presidenziali testimonia precisamente l’esistenza di questa percezione e la
delusione di un elettorato maturo che vota sempre più secondo le proprie inclinazioni e i propri
interessi e sempre meno per appartenenza ad un raggruppamento tradizionale, etnico,
confessionale, professionale.
Infine, una trasformazione che appare decisiva per comprendere il mutamento di base
della società è quella che riguarda il clero sciita. L’assunzione diretta del potere da parte del clero
ha avuto, infatti,
come conseguenza la cooptazione nel processo di evoluzione di una
componente fondamentale della società la cui opposizione aveva di fatto decretato il fallimento
dei precedenti tentativi di modernizzazione. Confrontato con la necessità di governare un paese
grande, complesso, variegato dal punto di vista etnico e culturale, provvisto di molteplici identità
– la componente nazionalista dell’identità iraniana, per citarne solo una, è oggi integrata più che
mai nell’immagine che la repubblica islamica si è costruita all’interno come all’esterno – il clero,
anche quello più tradizionalista, si è misurato con la realtà viva del paese e ha sviluppato al suo
interno una dialettica che ha determinato importanti evoluzioni. Si pensi, per fare un solo
esempio, alla critica al modello di stato che si è sviluppata all’interno del clero riformista e tra i
cosiddetti intellettuali religiosi e all’influenza che essa ha avuto attraverso l’esperienza del
governo Khatami sull’evoluzione dell’attuale pensiero politico20.
L’Islam ha vissuto in Iran dopo la rivoluzione un cambiamento profondo,
modernizzandosi e consolidandosi come elemento identitario della nuova realtà repubblicana. Di
pari passo si è consolidata la società islamica e si sono affermate le élites sorte dal clero, dalla
rivoluzione, dalla guerra. Queste ultime, radicate in quella fascia di popolazione che la
modernizzazione di epoca pahlavi aveva ignorato, sono quelle che hanno dato il maggior
contributo di sangue e di sacrifici alla creazione del nuovo stato e reclamano, dopo la parabola
riformista, il controllo dei centri politici ed economici ed il potere per salvare l’Iran da una
nuova “colonizzazione” dell’Occidente. Intoccabilità del sistema islamico, difesa dei valori
tradizionali, lotta alla “depravazione” sociale istigata dai costumi occidentali, assistenzialismo nei
confronti degli strati più deboli della popolazione e orgoglio nazionale sono alla base del loro
discorso ideologico, incarnato oggi dal presidente Ahmadinejad che basa la sua politica populista
su quelle classi sociali che la nuova polarizzazione della società iraniana emargina
economicamente. Queste però non sono più costituite “da contadini analfabeti o da contadini
20
Letture utili di riferimento per valutare la portata del cambiamento nella società iraniana post-rivoluzionaria
sono il volume già citato di B.Hourcade, Iran. Nouvelle identités d’une répubblique; D. Minoui, Les Pintades à Téhéran.
Chroniques de la vie des Iraniennes, Editions Jacob-Duvernet, Paris 2005 ; C., Bromberger (a cura di), L'Iran, derrière
le miroir , «La pensée de midi, n°27, mars 2009, Actes Sud.
disperati in fuga dalle campagne” 21. Al contrario, sono rappresentate da individui, ancora una
volta in maggioranza giovani, che vivono soprattutto in centri urbani e che aspirano alla vita
migliore per la quale i loro padri hanno combattutto. Il disagio economico in Iran è in crescita e
con esso cresce la frustrazione ed il risentimento per le aspettative deluse. La “giustizia sociale”
per la quale le masse si erano mosse non è stata ancora realizzata e la dicotomia tra classi alte e
occidentalizzate e classi povere e socialmente conservatrici si riaffaccia con prepotenza..
Il fantasma di una seconda rivoluzione sembra però lontano. A spingere la folla nelle
piazze gridando allah-o-akbar, ‘Dio è grande’, agitando il colore verde, il colore dell’Islam, non è
il desiderio di un ritorno al passato – in Iran il legame con la monarchia si è spezzato per sempre
– ma la volontà di vivere secondo valori e regole che corrispondano al progresso, alla libertà e
all’indipendenza che le forze liberatesi nel 1979 hanno reso possibili: la società iraniana si muove
e pretende che con essa si muova anche la politica. L’immobilismo o l’arretramento potrebbero
essere disastroso e a Teheran di questo sono coscienti tutti.
Un sublime miscuglio
L’Iran è una realtà complessa, difficile da capire e difficile da spiegare anche per chi ha il
dono di esserci nato e gli strumenti metodologici adatti per coglierne le sfumature e le
contraddizioni, come è il caso di Sara Hejazi, antropologa e giornalista con una lunga citazione
della quale vorrei chiudere questo mio contributo:
“Non è semplice vivere in una Repubblica islamica. Ormai si è detto in tutti i modi che l'Iran non
è quel Paese attanagliato da chador neri e uomini barbuti, e le proteste dei ragazzi iraniani di questi giorni,
immortalate da foto e video che continuano a girare numerosissimi sui social network e nelle televisioni
straniere, lo confermano: i protagonisti della protesta "per la libertà" sono ragazzi vestiti all'occidentale,
sono ragazze che lasciano intravvedere i capelli che spuntano da sotto foulard colorati, una gioventù
simile a qualsiasi gioventù europea. Eppure, quest'apparenza è un inganno. L'Occidente pensa di leggere
l'Iran attraverso la lente di questi giovani moderni, pronti a morire per le strade delle principali città
iraniane pur di far sentire le proprie voci, oppure attraverso la lente dell'Islam e del fanatismo religioso.
L'Iran è oggi un sublime miscuglio di occidentalizzazione, di spiritualità, di valori fondanti, di crisi dei
valori, di complessi di inferiorità culturali, di re-invenzioni religiose, di estrema ricchezza ed estrema
povertà, di rigidità e flessibilità. E chi non vi è mai stato, difficilmente può capire il perché non è semplice
vivere in una Repubblica islamica.
Siamo a Khiaban Sajad, una strada centrale di Mashad, dove tutte le sere la popolazione giovanile
si riversa per fare shopping, prendere il tè e conoscersi. Verso le dieci di sera si fa quasi fatica a
camminare talmente sono tante le persone per strada. Mentre a Teheran una parte della gioventù
protesta, qui questa altra parte di gioventù consuma. Sono con mia cugina Shahrzad che, come il 40%
21
Persicus, Da che parte stanno davvero gli iraniani?, Limes, 4/2009, p.96.
della popolazione iraniana, ha solo 15 anni, e che ha votato per il riformista Mussavi. Lei indossa un
foulard rosa, che si abbina alle scarpe col tacco, anch'esse rosa. Con noi ci sono altri amici e parenti, tutti
giovani. Mentre parliamo guardiamo le vetrine, ridiamo per qualche battuta. Ad un certo punto una
macchina della polizia accosta al marciapiede, dal finestrino abbassato spunta una chadorì, una donna
velata col chador. Appella Shahrzad dicendole «khanoum» – signora – e indicando la sua testa le dice «si
metta meglio il suo rusari». La macchina riparte, Shahrzad automaticamente si aggiusta i capelli sotto il
foulard, e noi continuiamo la nostra conversazione.
Le interferenze di questo tipo sono la consuetudine. Ma il fatto che una ragazzina indossi un paio
di scarpe col tacco rosa non fa di lei un simbolo della modernità d'Iran. Crescere sotto la Repubblica
islamica significa infatti aver anche interiorizzato alcune norme comportamentali, aver fatto propri alcuni
tabù e valori – specie riguardo alla sessualità – che si fondano sull'Islam della tradizione sciita, e significa
aver imparato a definire ogni volta, per ogni gesto, per ogni contesto, ciò che è "pubblico" e lecito e ciò
che è "privato" e proibito, come una sorta di esercizio di equilibrio della propria libertà personale nella
sfera
pubblica.
La rivolta dei giovani, soprattutto delle università, soprattutto degli ambienti urbani, soprattutto a
Teheran, è dunque sì una rivolta anche contro queste interferenze, una lotta per la conquista dello spazio
pubblico, una lotta per la riforma del governo. Ma chi sia il vero nemico, non è poi così ben chiaro. Non
sono solo la polizia o le guardie del governo. Ma la società iraniana stessa e tutt'intera, con le sue
contraddizioni, la sua morale, la costruzione della propria integrità culturale rispetto ad un Occidente
percepito come corrotto e come decadente. Chi fa la rivoluzione non ha dunque ben chiaro cosa vuole,
ma cosa non vuole: non vuole che i confini del lecito coincidano con quelli della propria casa, escludendo
tutto il mondo di fuori; non vuole non poter scegliere di viaggiare e non vuole che la differenza di genere
costituisca una discriminazione legale”22
22
S. Hejazi, L’Iran si ribella ma non sa contro chi, 3 luglio 2009, <http://web.vita.it/news/view/93226>.