Praga, 29 ottobre 1787 Casanova e il romanzo vivente va in scena

Praga, 29 ottobre 1787
Casanova e il romanzo vivente
va in scena la prima rappresentazione del don giovanni di mozart; giacomo casanova, forse tra gli spettatori, e i suoi fogli autografi con
varianti al libretto. il secolo degli avventurieri e dei racconti della loro vita: il mito di don giovanni, le memorie di lorenzo da ponte,
l’autobiografia di casanova. l’appassionante illusione dei racconti
biografici
Tra il mito e la carne, due esili foglietti. Da mettere
sotto teca e portare in tournée come le reliquie dei santi. Da sventolare davanti agli occhi dei ragazzi nelle scuole, per spiegare loro cosa sia la letteratura: il suo potere
e il suo tormento. Sono due pagine manoscritte conservate nell’Archivio di Stato di Praga, stilate con una grafia chiara e minuta. L’autore porta uno dei nomi della letteratura italiana più famosi nel mondo, insieme a quelli di Dante e di Pinocchio: Casanova. Dante era un morto che cammina e alla fine del suo viaggio torna a essere
vivo; Pinocchio era un totem di legno e dopo mille peripezie diventa un corpo vero. Non c’è molta distanza fra
le loro storie e quella di Giacomo Casanova, né tra i miti che mettono in scena: la resurrezione (Dante), la transustanziazione (Pinocchio), l’incarnazione (Casanova).
«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Più precisamente a Venezia, in calle della Commedia, parrocchia di San Samuele, il 2 aprile 1725, in
seguito all’unione non platonica tra due attori, Gaetano Casanova e Zanetta Farussi, in arte La Buranella.
Giacomo era vivace di spirito, e altrettanto di lombi: si
fece strada nel mondo. Girò ogni angolo d’Europa, disegnando il più minuzioso atlante della geografia sociale settecentesca che si ricordi. Finché, sessantadue anni
dopo, il cerchio si chiuse mille chilometri a nord dalla
patria veneziana, quando l’avventuriero venne a trovarsi
di fronte a quanto di più vicino poteva esserci al suo doppio: nel 1787 a Praga, in un luogo che conosceva meglio
delle sue tasche e dei suoi stessi organi sessuali, un teatro. L’edificio che risucchiò dentro di sé tutto il secolo.
Il tempio di un piacere, attivo e passivo, che stava diventando sovrano: guardare.
Il teatro Nostitz, costruito grazie alla munificenza
del conte Franti∫ek Antonín Nostitz-Rieneck tra il 1781
e il 1783 al centro di Praga, in stile neoclassico, vicino
all’antica università, era uno dei più moderni e meglio
attrezzati teatri d’Europa. Lunedì 29 ottobre 1787, alle sette di sera, circa ottocento spettatori videro sul palco largo dieci metri, profondo venti e incorniciato da un
proscenio di otto metri di altezza, il baritono pesarese
Luigi Bassi interpretare Don Giovanni alla prima del-
l’opera di Wolfgang Amadeus Mozart. E lui vide loro,
poiché le luci in sala all’epoca non si spegnevano. In mezzo a loro, lo sguardo del ventiduenne primo Don Giovanni della storia dell’opera, del quale si decantava la notevole avvenenza, potrebbe avere incrociato quello dell’ultrasessantenne libertino Casanova: che da un paio
d’anni viveva non lontano da Praga, nel castello del conte Joseph Karl di Waldstein, a Dux, dove morirà nel
1798. Un cortocircuito che se non fosse vero andrebbe
inventato.
Se sia avvenuto sul serio, in effetti, non si sa con certezza; è probabile, o meglio possibile, che sia andata così. Di sicuro Casanova nell’autunno del 1787 si trovava
a Praga, per seguire altre sue faccende, e si fatica a credere che stando in città si sarebbe fatto sfuggire un tale evento. Altri indizi favorevoli si possono raccogliere,
ma nessuna prova. Come non esistono prove che attestino l’incontro prima dello spettacolo fra Casanova e
Mozart, durante il quale leggenda vuole che il libertino
avesse suggerito alcune correzioni del libretto scritto da
Lorenzo Da Ponte: per adattarlo alla messa in scena, come si usava fare. Ciò che davvero esiste sono soltanto
quei due foglietti conservati nell’Archivio di Stato di
Praga e ritrovati a Dux, tra le carte di Casanova, dopo
la sua morte. I quali contengono due varianti alla nona
scena del secondo atto del Don Giovanni: un’aria di Leporello e un quintetto.
Leporello, nella rappresentazione praghese del dramma giocoso intitolato Il dissoluto punito o sia il Don Giovanni, era il basso romano Felice Ponziani. Già acclamato Figaro nelle Nozze di Figaro andate in scena con
grande successo il 1º maggio 1786 al Burgtheater di Vienna, fu il primo personaggio ad apparire quella sera sul
palcoscenico del teatro Nostitz, intonando l’incipit della nuova opera italiana di Mozart:
Notte e giorno faticar
per chi nulla sa gradir,
piova e vento sopportar,
mangiar male e mal dormir…
Voglio far il gentiluomo,
e non voglio più servir.
Casanova e il romanzo vivente
Nell’ottava scena del secondo atto, Leporello travestito da Don Giovanni viene smascherato («Quello io
non sono»), quindi nella nona sfugge alla collera di chi
è caduto nell’inganno, rovesciando ogni colpa sul suo padrone:
Ah pietà, signori miei,
ah pietà, pietà di me,
do ragione a voi, a lei,
ma il delitto mio non è.
Il padron con prepotenza
l’innocenza mi rubò.
La variante lasciata scritta da Casanova rallenta e
amplia il ritmo delle parole del servo:
Il solo Don Giovanni
m’astrinse a mascherarmi.
Egli di tanti affanni
è l’unica cagion.
Io merito perdon.
Colpevole non son.
e chiama in causa la natura adescatrice del gentil sesso:
La colpa è tutta quanta
di quel femmineo sesso
che l’animo gl’incanta
e gl’incatena il cor.
O sesso seduttor!
Sorgente di dolor!
Infine avanza ancora proteste d’incolpevolezza: «Lasciate andar in pace | un povero innocente», concludendo che «merita il vostro sdegno | il solo Don Giovanni».
La fine della mascherata prelude al tragico epilogo.
Subito dopo, infatti, Don Giovanni e Leporello incontreranno nel sepolcreto la statua del Commendatore:
l’impunito seduttore, che aveva ucciso il padre di Donna Anna all’inizio della storia, se ne farà suprema beffa invitandolo a cena, e l’ultimo passo verso l’inferno sarà consumato. Come se la statua di marmo fosse l’estremo confine di raggelamento dell’identità per quest’opera allegramente ricolma di tanti inganni e travestimenti. Il massimo tabù per quest’universo in turbinosa fuga da un unico sé, un’unica vita, un unico amore, in una
parola dal riconoscimento, che come la lama della spada
che ferisce a morte il Commendatore ferma l’essere
nell’«ei fu». S’inizia con Leporello che vuol diventare
qualcun altro, si prosegue col suo padrone che scappa
per non farsi smascherare e addirittura uccide per questo, si culmina con lo scambio di persona tra i due. «Chi
son io tu non saprai» è la prima battuta con cui Don
Giovanni entra sul palcoscenico. E pare l’ammonimento principe di tutto lo spettacolo al suo pubblico, presente e futuro: il vessillo dell’opera di tutte le opere, come la definirà in seguito Ernst T. A. Hoffmann.
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Perché sbandiera l’appartenenza della storia che narra al mito. Assicura lunga vita di metamorfosi e reincarnazioni al personaggio che non ne vuole sapere di coincidere con un singolo individuo, ma guerreggia anche contro il cielo pur di rimanere una grandiosa creatura della
possibilità. «Ahi, cielo! Chi sei allora?», esclama Isabella all’inizio della commedia El burlador de Sevilla di Tirso de Molina pubblicata nel 1630: «Chi sono? – risponde Don Juan Tenorio. – Un uomo senza nome». Quindi accorre il Re di Napoli in persona a porgergli la stessa domanda «Chi sei?», e Don Juan di rimbalzo: «Chi
vuole che sia? Un uomo e una donna». Nella prima testimonianza storica del mito, che segna la sua data di nascita ufficiale, Tirso chiarisce subito le regole del gioco:
il più radicale mito moderno di disponibilità all’avventura inizia esibendo una disponibilità altrettanto radicale, a essere ciò che vuole il re-lettore-spettatore.
Le più famose incarnazioni del Don Giovanni, dopo
quella di Tirso de Molina, sono il Dom Juan ou le Festin
de Pierre di Molière, commedia in cinque atti andata in
scena il 15 febbraio 1665 nella sala del Palais-Royal,
quindi il dramma giocoso di Mozart - Da Ponte. Ma in
mezzo, una miriade di spettacoli di ogni genere, teatri
di marionette, scenari della commedia dell’arte, melodrammi avevano fatto dilagare questa favola burlesca e
truculenta in tutta Europa. Nel 1787 il pubblico presente al teatro Nostitz sapeva perfettamente – già da un secolo e mezzo – chi era Don Giovanni. Sapeva che era
un «giovane cavaliere estremamente licenzioso», come
veniva definito nel libretto di Da Ponte, che sfidava le
leggi degli uomini, di Dio e della morte, guadagnandosi l’inferno. Addirittura qualche spettatore poteva avere assistito, nel carnevale dello stesso anno, al Don Giovanni o sia il convitato di pietra al teatro Giustinian di
San Moisè a Venezia, con musica di Giuseppe Gazzaniga e libretto di Giovanni Bertati, che servì da canovaccio per l’opera praghese scritta e allestita in tutta fretta.
Quindi, nessuno poteva aver dubbi su cosa aspettarsi la
sera del 29 ottobre 1787 da uno spettacolo che recava
nel titolo quel nome così popolare. Eppure, il veto preventivo del «chi son io tu non saprai» dovette funzionare per l’ennesima volta: di qui non si passa senza azzerare il nome, l’origine, la memoria, la colpa, il padre.
Inoltre, l’eventuale presenza in carne e ossa, tra il
pubblico, del più celebre libertino del secolo complicava alquanto le cose. Il 1787 fu un anno particolare per
Casanova. Una delle più sensazionali beffe della sua rocambolesca biografia aveva avuto per protagonista la ricchissima marchesa d’Urfé, che dalle presunte virtù magiche di Casanova si aspettava la Grande Opera: essere
trasformata in uomo, diventando immortale. Questo avveniva alla fine degli anni cinquanta, a Parigi; e Casanova era un giovane estremamente licenzioso, nel pieno
delle sue forze: prese ciò che c’era da prendere alla vec-
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chia fanatica di occultismo e si dileguò. Trent’anni dopo, a Praga, vecchio ormai era lui e disposto a tutto pur
di realizzare la grande opera di metamorfosi di se stesso, verso l’immortalità. Fuori dal mondo, tra le caligini
boeme, l’antico avventuriero tremava all’idea che nulla
rimanesse della sua vita e corse ai ripari.
Il luogo alchemico dove la salvifica trasmutazione sarebbe dovuta avvenire era una stamperia. Il 20 settembre 1787, appena un mese prima della rappresentazione del Don Giovanni, Casanova aveva finito di scrivere
la grande opera dalla quale si aspettava fama imperitura. «Voilà un ouvrage qui m’enverra à l’immortalité»,
esclamava senza falsi pudori nella lettera a un amico: un
romanzo fantascientifico di circa 1700 pagine, intitolato Icosameron e pubblicato a Praga in cinque volumi,
presso L’Imprimerie de l’École normale, nel gennaio
1788. Sempre nell’autunno 1787 aveva consegnato alle
stampe un’altra opera, L’Histoire de ma fuite des prisons
de la Republique de Venise qu’on appelle les Plombs, che
fu pubblicata a Praga entro quello stesso anno, in un volume di 270 pagine.
Il 1787 è per Casanova l’anno delle grandi manovre
di trasformazione in autore e in personaggio. Sono manovre di guerra contro la vecchiaia e la morte, che si svolgono non lontano dal teatro Nostitz. E che al centro vedono schierarsi alcuni libri, la loro scrittura e la loro
stampa. Tra i due libri casanoviani stampati a Praga, entrambi scritti in francese, quello da cui l’autore si aspettava maggior gloria fu un fiasco; defatigante ed elefantiaco, l’Icosameron rimase una mera bizzarria bibliografica nonostante i trecento sottoscrittori, talmente poco
diffusa da far dubitare per molto tempo che fosse mai
realmente esistita. Mentre la storia della fuga dai Piombi venne subito tradotta in tedesco e pubblicata a Vienna nel 1788, quindi, più volte ristampata, diventò un titolo di successo. Fu a Praga nel 1787 che si può dire
scoccata l’ora per la monumentale impresa autobiografica alla quale Casanova darà inizio due anni dopo, nel
1789. In quel preciso momento e luogo fu chiaro, infatti, che la grande opera non si faceva a suon d’invenzione: non consisteva nell’uscire dalla vita per creare
qualcosa di nuovo, ma piuttosto nel travasare quella vita in un libro, stare fuori e dentro le pagine, come loro
artefice e insieme protagonista.
Nel testo del Don Giovanni di Da Ponte, la parola
«libro» compare due volte – sempre in bocca a Leporello – nella quinta scena del primo atto. Una prima volta,
a commento del conciso flashback attraverso il quale
Donna Elvira informa il pubblico sui luoghi, i modi e i
tempi dell’affronto da lei subito:
In casa mia
entri furtivamente;
a forza d’arte,
di giuramenti e di lusinghe, arrivi
a sedurre il cor mio:
m’innamori, o crudele,
mi dichiari tua sposa, e poi mancando
della terra e del cielo al santo dritto
con enorme delitto
dopo tre dì da Burgos t’allontani,
m’abbandoni, mi fuggi e lasci in preda
al rimorso ed al pianto,
per pena forse che t’amai cotanto!
E Leporello commenta fra sé: «Pare un libro stampato». La seconda volta, la parola «libro» compare in vicinanza del brano più celebre di tutta l’opera: l’aria del
catalogo, introdotta dall’invito del servo a Donna Elvira affinché si consoli guardando «questo non picciol libro», tutto pieno di nomi di conquiste del suo impenitente padrone, in «ogni villa, ogni borgo, ogni paese».
Laddove affiora un racconto più dettagliato di ciò che è
accaduto, nella trama scattante e poco incline a volgersi all’indietro, ecco che subito spunta l’immagine di un
libro, pronto a fissare in forma di testo quegli scampoli
di memoria.
L’avventura, d’altronde, riguarda precisamente l’accadere. L’avventuriero è colui al quale sono successi fatti in quantità straordinaria: è una somma di accadimenti.
Una lista, se si vuole. Da tenere sempre aggiornata, dato che crescendo accresce la fama del protagonista. Per
questo Don Giovanni ha un contabile così meticoloso
sempre vicino: «Qualche nuova conquista? – chiede Leporello nella quarta scena del primo atto. – Io lo devo
saper per porla in lista». Un diligente custode dei grandi numeri del padrone:
In Italia seicento e quaranta,
in Lamagna duecento e trentuna,
cento in Francia, in Turchia novantuna,
ma in Ispagna son già mille e tre.
Leporello è la memoria portatile di Don Giovanni.
Il suo diario, il suo taccuino giornaliero. Funzione d’importanza cruciale, se si pensa che quei numeri non appartengono solo, comicamente, alla figura retorica dell’iperbole; ma anche, tragicamente, a quella della sineddoche. L’avventura sessuale altro non è, infatti, che una
sineddoche dell’avventura in generale. È il grado zero
di ogni avventura, il suo punto di partenza fisiologico,
il modo più semplice per alludere a tutto ciò che può accadere. Compreso l’ultimo e più definitivo avvenimento, che aspetta Don Giovanni nelle vesti dell’«uom di
sasso»: l’evento che conclude tutti gli altri, impacchettando la lista per il futuro o per l’oblio.
Avventure possono viverne tutti; ma per guadagnarsi
il patentino di avventuriero ci vuole qualcosa di più, bisogna tenerne memoria e spargerne notizia. Ci vuole una
lista e un pubblico. Il Settecento è stato il secolo d’oro
degli avventurieri. Oltre a essere quello dei giornali, del
Casanova e il romanzo vivente
romanzo e dell’autobiografia. Il tutto strettamente collegato insieme: i giornali incrementano il gusto delle notizie e quello della verità, proprio come l’autobiografia;
i romanzi sono spesso pseudo-autobiografie dove qualcuno racconta le sue avventure spacciandole per vere:
vedi Robinson Crusoe, che nel 1719 Daniel Defoe contrabbandava al pubblico per un uomo in carne e ossa nel
primo romanzo moderno che portava il suo nome, The
Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe.
E gli avventurieri? Niente meno che i garanti della possibilità corporea, tangibile dell’avventura, coloro la cui
sorprendente vita in giro per il mondo rende verosimile la peripezia romanzesca. Le sentinelle del realismo, si
potrebbe quasi dire: altra grande scoperta del secolo.
Gli avventurieri settecenteschi erano romanzi viventi. La loro biografia, piena di incredibili vicende e
colpi di scena, reclamava di essere avidamente sfogliata
da schiere di lettori e di fameliche lettrici, come un libro. Calamitava centinaia di occhi e orecchi alla ricerca
di sensazioni forti e novità. Era una fabbrica naturale di
narrazioni. Perché senza avventure, il racconto langue;
ma anche senza racconti l’avventura langue, sbiadisce,
rischia di scomparire. Il rapporto di dipendenza appare
tanto più stretto quanto più è reciproco: da una parte
l’affabulazione che si aggrappa al corpo romanzesco ma
reale dell’avventuriero, ricavandone una garanzia di veridicità; dall’altra il corpo dell’avventuriero che chiede
in cambio il lievito della risonanza e della memoria all’affabulazione stessa.
Prendiamo Casanova. Fu avventuriero tra i più conosciuti del suo tempo. Le sue imprese passavano di bocca in bocca, stimolando la curiosità di incontrarlo di persona e farsele raccontare. Ma cosa sarebbe rimasto di lui
se a partire dal 1789 non avesse provveduto a scrivere
una monumentale, dettagliatissima autobiografia intitolata Histoire de ma vie? Non solo. Cosa sarebbe rimasto via via di quelle singole imprese se lo stesso protagonista non si fosse prodigato a tradurle subito e dappertutto in forma di racconto, se non avesse sempre risposto all’imperativo di tramutare ogni singolo pezzetto della sua vita in discorsi, parole? Prima oralmente,
poi per scritto. Questo veneziano figlio di nessuno era
un everyman in perenne lotta contro la minaccia dell’anonimato, attraverso un fondamentale esercizio di costruzione narrativa: tenere la propria vita a memoria. Il
che voleva dire scalare i quattro gradini della sopravvivenza: dal nulla all’azione, dall’azione alla parola, da
quest’ultima alla scrittura, infine al libro stampato.
A Praga, nell’autunno del 1787, Casanova si apprestava per l’appunto a far questo. In qualche stamperia
della città, spingeva il pezzo forte dell’intera sua biografia a salire sull’ultimo gradino della scala della memorabilità. L’episodio era quello della fuga dai Piombi,
che meglio di qualsiasi altro si prestava a compiere per
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Figura 1. Foglio autografo di Giacomo Casanova con trascrizione modificata dell’aria di Leporello tratta dal Don Giovanni di Mozart.
primo il passaggio dalla vita alla Vita. Perché era stata
davvero una delle imprese più ammirate e chiacchierate del secolo. Il dissoluto punito che fugge come un fringuello dalla blindata prigione del Palazzo ducale, e può
vantarsene in giro liberamente, gonfio di gloria. L’impresa andava prima di tutto concepita, messa in atto e
portata a termine: questa è la realtà storica di ciò che
Casanova fece il 31 ottobre 1756, dopo quindici mesi di
carcere. Ma poi, una volta evaso attraverso i tetti a strapiombo sul Canal Grande, sotto la luna piena, in una
delle scene più romanzesche della letteratura del Settecento, non si trovava che a metà strada. Anzi, a un quarto di strada. Mancava di rispondere a tutti quelli che incontrava, curiosi di sapere cosa fosse accaduto; di perfezionare sempre di più quel racconto, fino a renderlo
una performance orale, della durata non scontabile di
un paio di ore, da ripetere davanti a tutti i potenti d’Europa che ne facessero richiesta. E ancora metterla per
scritto, nelle lettere inviate a conoscenti e amici, oppure nelle sintesi redatte a favore di qualche personaggio
importante, come fu nel caso di madame de Pompadour.
In attesa del libro a venire, che di quella graduale testualizzazione dell’evento avrebbe fatto tesoro, per elevarla al quadrato della stampa.
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A quel punto la realtà della clamorosa fuga era già
lontana, mentre il simulacro della narrazione aveva preso progressivamente il suo posto. Senza tuttavia cancellare la traccia di quella realtà, che era il sale del racconto. L’unico motivo per cui tutti lo volevano prima
ascoltare, poi leggere: il fatto che fosse vero. I dettagli
potevano essere stati esagerati dal protagonista, contraffatti, anche inventati, ma era certo e documentato
che un trentenne veneziano, che rispondeva al nome di
Giacomo Casanova, nell’ottobre del 1756 fosse evaso
dai Piombi. Conquistando il copyright su una storia dalle potenzialità promozionali elevatissime. Una perfetta
macchina narrativa, che da quel primo nucleo offerto al
pubblico nel 1787 avrebbe figliato l’organismo maggiore dell’intera autobiografia. Nata sotto il duplice segno
del piacere e della verità: «Je m’amuse, – afferma Casanova mentre è intento a scrivere le sue memorie, – parce
que je n’invente pas».
Ricapitolando: l’avventuriero incarna la realtà oggettiva delle più romanzesche avventure. Più sono romanzesche, più aumentano il credito della sua avventurosa persona; d’altra parte, la loro natura romanzesca
sembra fatta apposta per mettere in crisi ogni categorica spartizione tra menzogna e autenticità. Com’è possibile prestare fede a colui che ha adescato l’universo mondo mandando all’aria ogni legame e promessa? Come
può un lettore credere nel patto autobiografico che gli
viene proposto dal più incallito dei seduttori? L’avventuriero paga la lunga vita d’incostanza del suo corpo con
un esorbitante deficit di autorevolezza della sua parola.
Eppure è proprio quell’incostanza che gli ha permesso
di accumulare un patrimonio di storie avvincenti in giro per il mondo reale: questo il dilemma – ma anche la
sfida – che l’autobiografia del libertino pone alla nuova
letteratura nata al confine tra cronaca e finzione. Perché solo uno spudorato e inattendibile giovane maschio
può costruirsi come un libro sempre aperto alla pagina
successiva. Come la disponibilità fatta persona, e quindi il personaggio perfetto.
Don Giovanni insegna che il personaggio dei personaggi è mascherato. Sfuggire al proprio nome è ciò che
realizza il mito e conduce all’immortalità. Finché il Commendatore non riesce a scoprire la sua vera identità, Don
Giovanni è salvo. E anche lo spettatore: salvo dalla fine della trama appena cominciata. Quando il convitato
di pietra si presenterà alla porta del suo assassino e lo
potrà inchiodare chiamandolo per nome, Don Giovanni sarà perduto. E l’opera sarà finita. Ma Casanova nella sua autobiografia va oltre: insegna che per dar vita al
personaggio perfetto, meglio ancora è combinare Don
Giovanni con Leporello, la disponibilità a cancellare nome e passato, più la lista che la ferma nella memoria, che
ne fa una storia. Il Personaggio più l’Autore, o meglio il
personaggio autore di se stesso.
L’autore del libretto del Don Giovanni mozartiano,
Lorenzo Da Ponte, era anch’egli libertino e avventuriero in carriera. Nel paio di mesi in cui scrisse il testo per
Mozart, lavorando forsennatamente ad altre due opere,
l’Axur per la musica di Antonio Salieri e L’arbore di Diana per quella dello spagnolo Vicente Martín y Soler, si
faceva sollazzare da una «bella giovinetta di sedici anni», la quale accorreva nella sua camera «a suono di campanello, che per verità io suonava assai spesso, e singolarmente quando mi pareva che l’estro cominciasse a raffreddarsi». Lo racconta nelle sue Memorie, pubblicate a
New York dal 1823 al 1827 (anche il manoscritto dell’autobiografia casanoviana, acquistato nel 1821 dall’editore Heinrich Brockhaus di Lipsia, a partire dal 1826
approdava alla stampa, in una versione largamente rimaneggiata). Da Ponte aveva una ventina di anni meno
di Casanova e morì quarant’anni dopo di lui, nel 1838.
Nelle sue Memorie raffigura il più anziano libertino, da
lui conosciuto nel 1777, come una sorta di stravagante
ma ammirevole fratello maggiore:
E, quantunque io non amassi né i suoi principi né la
sua condotta, nulladimeno amava e stimava moltissimo i
consigli e i precetti suoi, che, a dir il vero, eran aurei, e di
cui ho profittato poco, ma avrei potuto veracemente profittare moltissimo.
Uno su tutti, il più prezioso: «non scrivete mai il vostro nome».
Quando quell’avveduto consiglio fu elargito, era
presente anche la giovane moglie di Da Ponte. Rimasta
«stordita della vivacità, dell’eloquenza, della facondia
e di tutte le maniere di questo vegliardo straordinario»,
chiese al marito di raccontarle la storia della vita di Casanova. Il marito l’accontentò intrattenendola «assai
piacevolmente per molte ore»; identico servizio viene
fornito al lettore delle Memorie dapontiane, somministrandogli un sunto di alcune pagine della biografia casanoviana, introdotta da queste parole: «Nacque Giacomo Casanova a Venezia, dove, dopo varie vicende,
fu per ordine degl’inquisitori di Stato fatto mettere sotto i Piombi». Nel compendio miniaturizzato della vita,
tutto viene fatto iniziare con la fuga dai Piombi, la vera nascita che accredita il veneziano come avventuriero di statura europea. In modo «mirabile» fuggì da quelle carceri, e «la storia di quella fuga» per Da Ponte si
legge «generalmente con maraviglia pari al diletto». La
stessa storia che qualcuno testimonia di aver sentito raccontare da Casanova anche a Mozart in persona, durante una memorabile serata dell’ottobre 1787 alla villa Bertramka, mentre il Don Giovanni stava per essere
portato a termine. La stessa che l’avventuriero recava
sotto braccio per le strade di Praga, verso una degna
stamperia, mentre il Don Giovanni si preparava ad andare in scena.
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La vita di Casanova incastonata come un cammeo
dentro la vita di Da Ponte. Si sarà accorto il più giovane dei due del sortilegio operato a sue spese dal più vecchio? Con la complicità di una femmina, sedotta davanti
al marito avventuriero dal prototipo della specie. Si sarà
reso conto che Casanova, agli occhi della sua donna e attraverso di lei a quelli di tutti i lettori delle Memorie, si
sostituisce a lui? A lui legittimo marito e a lui legittimo
narratore della propria vita, nella presente opera scritta
«da esso»? Chiedere di diventare lettrice della vita di
un altro, in questo universo di instancabile messa a testo della realtà, equivale infatti alla confessione di voler
cedere a un adescamento pari, se non addirittura superiore, a quello sessuale.
D’altronde sia il marito che la moglie erano avvertiti: in una delle prime pagine dell’Histoire de ma vie di
Casanova si legge che il nome Giacomo «voulait dire en
langue hébraïque supplanteur». Avrebbe dovuto drizzare le orecchie, l’ebreo Da Ponte, che in origine si chiamava Emanuele Conegliano e convertendosi al cattolicesimo cambiò il suo nome con quello del vescovo che
lo aveva battezzato. «L’alphabet est public, – aveva dichiarato più volte il caposcuola Casanova, – et chacun
est le maître de s’en servir pour créer une parole et la
faire devenir son propre nom». Il supplanteur sembra nato per questo. Dopo una vita di espedienti e camuffamenti non gli restava altro che soppiantare Da Ponte al momento giusto per mettersi al posto dell’Autore e del Personaggio insieme. Quale migliore occasione del librettista che deve rientrare di corsa a Vienna, richiamato da
Salieri, lasciando Mozart sprovvisto di una penna italiana che lo aiuti a sistemare il testo che avrebbe eternato il principe dei libertini?
Come sia andata in realtà, non lo sappiamo. Certo è
che tutti e tre i protagonisti di questa vicenda, Mozart,
Da Ponte e Casanova, erano massoni; e i fratelli massoni meglio di chiunque altro sanno cosa voglia dire tener
segreto il proprio nome: nella massoneria i meccanismi
di identificazione e riconoscimento sono quantomai complessi e delicati, basati spesso su parole della lingua ebraica tratte dall’Antico Testamento. Come massoni erano
probabilmente anche i comuni amici praghesi, che potevano aver fatto da intermediari tra il musicista e il vecchio avventuriero: tutti sottoscrittori dell’Icosameron,
l’opera per la quale Casanova andava girando per Praga
in cerca dell’immortalità. Tra questi Pasquale Bondini,
che insieme a Domenico Guardasoni era l’impresario dell’opera italiana di Praga, vale a dire il committente del
Don Giovanni.
In definitiva, poco importa se il 29 ottobre 1787 al
teatro Nostitz Casanova ci fosse o meno. Il dubbio stesso è già un capolavoro. Dietro le quinte avrebbe incarnato l’unico vero autore che potesse dare la parola al più
grande seduttore; davanti al palcoscenico, l’unico vero
seduttore che potesse dare corpo al fantasma del mito.
Perciò quei famosi due foglietti ritrovati nel castello di
Dux, con le varianti del Don Giovanni, hanno tanto valore. Sono vergati con la stessa grafia delle migliaia di
pagine del manoscritto dell’Histoire de ma vie, scritta da
Giacomo Casanova, il Supplanteur dei Supplanteurs. E
parlano di un mito autobiografico che da almeno due secoli non smette di riguardarci: il nostro tenace desiderio che chi scrive coincida col proprio personaggio, e di
conseguenza che i personaggi siano gli artefici di loro
stessi. Che la finzione sia vera, e viceversa, che la realtà
sia già quasi letteratura. In altre parole, che anche la nostra vita abbia una storia. E il desiderio di riuscire, prima o poi, a pronunciarla.
francesca serra
La prima versione praghese del libretto del Dissoluto punito o
il Don Giovanni si legge nell’edizione critica a cura di G. Gronda, Einaudi, Torino 1995, da cui sono tratte le citazioni del
testo dell’opera. La bibliografia sul mito di Don Giovanni
è infinita: si ricordino almeno i due classici g. macchia, Vita
avventure e morte di Don Giovanni, nuova ed. riveduta e ampliata, Adelphi, Milano 1995, e j. rousset, Il mito di Don Giovanni (1978), Pratiche, Parma 1980, insieme alla raccolta di
saggi contenuta nel Libro di Don Giovanni (1990), a cura di J.
Miller, Pratiche, Parma 1995, e al Dictionnaire de Don Juan,
R. Laffont, Paris 1999.
Una raccolta dei maggiori testi teatrali della tradizione è stata curata da U. Curi, Don Giovanni. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia 2005 (da cui si cita El burlador de Sevilla, pp.
53-54). Un’agile guida alla lettura e all’ascolto è quella di l. lipperini, Don Giovanni. Il potere della seduzione, la musica, il mito (1987), Castelvecchi, Roma 2006. Per la ricostruzione della prima del Don Giovanni a Praga si rimanda al capitolo ii del
volume di t. f. kelly, First Nights at the Opera, Yale University Press, New Haven Conn. 2004, pp. 65-130.
L’Histoire de ma vie di Casanova si legge in francese nell’edizione a cura di F. Lacassin, R. Laffont, Paris 1993 (dal vol. I
si citano le pp. 19 e 434); nella traduzione italiana, Storia della mia vita, a cura di P. Chiara e F. Roncoroni, Mondadori,
Milano 1983-89. La citazione sul divertimento ottenuto senza inventare è tratta da Correspondance avec J. F. Opiz, a cura
di Fr. Kohl e O. Pick, K. Wolff Verlag, Leipzig 1913, vol. I,
p. 71. Un’edizione moderna dell’Icosameron è stata stampata
dall’editore F. Bourin, Paris 1988; una riduzione in italiano
del romanzo fu curata nel 1960 da G. Spagnoletti per l’editore Lerici di Milano. La lettera del 15 aprile 1785 in cui Casanova parla dell’immortalità era indirizzata a Maximilien
Lamberg. L’Histoire de ma fuite des Plombs si trova in varie
edizioni sia francesi che italiane.
La maggiore biografia casanoviana è stata scritta da j. rives
childs, Casanova, a Biography Based on New Documents, Al-
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Praga, 29 ottobre 1787
len and Unwin, London 1961; si veda anche e. bartolini, Vita di Giacomo Casanova, Mondadori, Milano 1998. Tra le monografie: m.-f. luna, Casanova mémorialiste, H. Champion,
Paris 1998, e g. ficara, Casanova e la malinconia, Einaudi,
Torino 1999. Di una contrapposizione tra Casanova e il personaggio di Don Giovanni molti hanno scritto, da m. sarfatti, Casanova contro Don Giovanni, Mondadori, Milano
1950, a f. marceau, Casanova ou l’anti -Don Juan, Gallimard,
Paris 1985.
Sui rapporti con l’opera del Don Giovanni si vedano p. nettl,
The Other Casanova, a Contribution to the Eighteenth Century
Music and Manners, Philosophical Library, New York 1950;
f.-l. mars, Casanova e Don Giovanni (1961), in g. casanova,
L’Histoire de ma vie cit., vol. III, pp. 1152-56 (dove si legge
il testo delle varianti casanoviane), e g. macchia, Casanova e
il «Don Giovanni» di Mozart, in id., Tra Don Giovanni e Don
Rodrigo. Scenari secenteschi, Adelphi, Milano 1989, pp. 147-63.
La fotografia di uno dei fogli autografi delle varianti è riprodotta in p. vescovo, Il teatro. Occasioni e progetti, in Il mondo
di Giacomo Casanova. Un veneziano in Europa, 1725-1798, Catalogo della mostra (Venezia, 1998-99), Marsilio, Venezia 1998,
pp. 179-89. Tutta la vicenda viene infine riconsiderata da a. fabiano, L’abbraccio del Casanova al mondo musicale del suo tempo, in g. pizzamiglio (a cura di), Giacomo Casanova tra Venezia e l’Europa, Olschki, Firenze 2001, pp. 261-76.
Le Memorie di Da Ponte si citano dall’edizione a cura di G.
Armani (1976), Garzanti, Milano 2003 (pp. 173, 169-70); si
veda inoltre a. lanapoppi, Lorenzo Da Ponte. Realtà e leggenda nella vita del librettista di Mozart, Marsilio, Venezia 1992.
La fenomenologia degli avventurieri settecenteschi è stata studiata, fra gli altri, da s. roth, Les aventuriers au xviiie siècle,
Galilée, Paris 1980; a. stroev, Les aventuriers des Lumières,
Presses universitaires de France, Paris 1997; e m. delon, Le
savoir-vivre libertin, Hachette, Paris 2000.