Turner Titolo originale: Mr. Turner. Regia e sceneggiatura: Mike

Turner
Titolo originale: Mr. Turner. Regia e sceneggiatura: Mike Leigh. Fotografia: Dick Pope. Montaggio: Jon
Gregory. Musica: Gary Yershon. Scenografia: Suzie Davies. Costumi: Jacqueline Durran. Interpreti: Timothy
Spall (Joseph Mallord William Turner), Paul Jesson (William Turner), Marion Bailey (Sophia Booth), Dorothy
Atkinson (Hannah Danby), Lesley Manville (Mary Somerville), Martin Savage (Benjamin Robert Haydon),
Joshua McGuire (John Ruskin), Karl Johnson (mr. Booth), Ruth Sheen (Sarah Danby), Sandy Foster (Evelina),
Amy Dawson (Georgiana), Richard Bremmer (George Jones), Niall Buggy (John Carew), Fred Pearson (sir
William Beechey), Tom Edden (C.R. Leslie), Jamie Thomas King (David Roberts), Mark Stanley (Clarkson
Stanfield), Nicholas Jones (sir John Soane), Clive Francis (sir Martin Archer Shee), Robert Portal (sir Charles
Eastlake), Simon Chandler (sir Augustus Wall Callcott), Edward de Souza (Thomas Stothard), Roger AshtonGriffiths (Henry William Pickersgill), James Fleet (John Constable), Patrick Godfrey (lord Egremont), Karina
Fernandez (miss Coggins), Veronica Roberts (lady Stuckley), Richard Dixon (mr. Manners), Michael Keane (il
reverendo Prendergast), Stuart McQuarrie (il padre di Ruskin), Sylvestra Le Touzel (la madre di Ruskin),
Eleanor Yates (la moglie di Ruskin), David Horovitch (il dottor Price), Leo Bill (il fotografo), James Dryden
(l’assistente del fotografo), Sinead Matthews (la regina Victoria), Tom Wlaschiha (il principe Albert).
Produzione: Georgina Lowe, Michel Saint-Jean per Xofa Productions/Lypsinc Productions/Thin Man
Films/Film4/Focus Features International/France 3 Cinéma/Untitled 13. Distribuzione: BIM. Durata: 149’.
Origine: Gran Bretagna/Francia/Germania, 2014.
Gli ultimi venticinque anni dell’esistenza di Joseph Mallord William Turner (1775-1851), da quando vive con il
padre, ex barbiere, e con la domestica Hannah Danby, fino alla serena relazione con la vedova Booth, sua
affittuaria di una camera nella città marina di Margate. Incline alla solitudine e provocatorio nei confronti dei
pittori coevi che non ama (Constable), Turner spinge la sua ricerca pittorica oltre le convenzioni figurative,
prefigurando l’impressionismo con l’adozione rivoluzionaria dei colori a olio e realizzando opere che suscitano
reazioni contrastanti fra i suoi contemporanei. Nella vecchiaia assiste all’avvento della fotografia e muore nella
prima fase dell’Era vittoriana.
Le mosche e la luce
Roberto Chiesi
Nelle prime sequenze di Turner, Mike Leigh mostra le due dimensioni dell’esistenza del pittore quando
aveva già raggiunto i cinquant’anni e la fama: i viaggi e la casa. Turner percorre i paesaggi naturali, nella
campagna inglese o in Europa (la prima sequenza si svolge a Ostenda, “ricostruita” per esigenze di budget
nel Suffolk), studiando le forme e la luce della realtà sempre in solitudine, lontano dalla pazza folla.
Intanto lo attende la comodità della sua dimora a Londra, dove vivono il vecchio padre William e la
domestica Hannah Danby (entrambi in ansia, in quei giorni, a causa dello scoppio di una bomba nella città
olandese). È una vita familiare sui generis perché Turner non ha voluto formare una famiglia con Sarah
Danby, la donna (zia della domestica, interpretata da Ruth Sheen, un’attrice abituale del cinema di Leigh)
che gli ha dato due figlie rimaste illegittime e che ogni tanto irrompe a tormentarlo con rimproveri e
questue, subite dal pittore con la rassegnazione di chi ha la coscienza sporca. Ma anche la dimensione
domestica e “familiare” della vita sua e dei suoi, esiste esclusivamente in funzione del suo dipingere, di cui
Leigh evidenzia la natura totalizzante e assoluta.
Il padre, ex barbiere, con amorevole dedizione solleva il figlio da tutte le incombenze pratiche e
quotidiane, mentre Hannah attende alle faccende domestiche e, quando Turner ha un soprassalto di
desiderio carnale, senza un fiato e senza richieste gli concede il proprio corpo per una rapida soddisfazione
erotica in piedi o dove capita.
Assistiamo quindi a un’esistenza chiusa in rituali che si ripetono metodicamente e incessantemente, dove
la sfera degli affetti è appunto circoscritta a quel vecchio padre consacratosi alla genialità del figlio
(mentre la povera Hannah sembra essere considerata poco più di un animale domestico); i rapporti con gli
altri pittori cadono sotto un’attitudine di misantropia che si accentua dopo la morte del padre (Turner non
nasconde il disprezzo per il paesaggismo impeccabile di Constable e prova insofferenza per il disordine di
Haydon, due artisti ai due estremi ed entrambi agli antipodi da lui). In casa sono accolte quasi
esclusivamente le visite dei possibili acquirenti, che Turner senior fa penetrare in una stanza dove, al di là
di un’anticamera buia, le tele del figlio sono esposte sotto ampie lenzuola sulla cui superficie si
accumulano mosche morte: un’immagine di brutale, fisico contrasto fra lo splendore luministico dei quadri
e una natura morta in corpore vili.
Attento come un artigiano che controlla meticolosamente la materia dei colori scelti uno per uno dal suo
venditore di fiducia, Turner non teorizza, non filosofeggia, non pontifica sulla sua arte e sembra refrattario
alle parole come lo è ai convenevoli. Ma lo vediamo e udiamo anche mentre si esibisce con goffaggine e
sincerità nel canto di Didone, When I Am Laid in Earth, tratto dal Dido and Æneas di Purcell, mentre i
grugniti che emette sempre più spesso, sembrano una difesa e una protesta contro le noie che gli procurano
gli altri e i loro discorsi. Non è un asceta perché nutre voracemente il proprio corpo grasso e sgraziato, che
reca nei lineamenti rabelaisiani il ricordo delle sue umili origini e non disdegna di copulare, oltre che con
Hannah, anche nei bordelli di cui è frequentatore abituale.
La fisicità da orco di Timothy Spall dilata e deforma quella che era la fisionomia reale del pittore,
documentata da autoritratti e rare fotografie. Ma la contraddizione fra quella fisicità greve e la sua arte è
soltanto apparente. Sfruttando magistralmente la propria fisicità, Spall suggerisce sempre nella luce degli
sguardi l’irrequietudine e il tormento del suo personaggio introverso e chiuso in se stesso, volentieri
nascosto dietro l’anonimato, tranne che con Sophia Booth, la vedova materna e sanguigna che incontra nei
suoi viaggi a Margate e a cui si unisce fino alla morte.
Nella sequenza in cui visualizza un aneddoto leggendario (secondo cui Turner si sarebbe fatto legare
all’albero maestro di una nave per vedere e vivere la tempesta di neve dall’interno), Leigh non mostra la
furia degli elementi “alla maniera” di Turner, ma rimane con la mdp nel controcampo organico della
visione pittorica, mostrando il corpo del pittore legato all’albero, fradicio e disfatto. A quell’immagine
segue quella di Turner gravemente malato di bronchite proprio in conseguenza del suo “esperimento”.
Seguendo il suo artista nelle fibre del quotidiano, fra le pratiche alte e basse della sua vita senza
soluzione di continuità, denudandolo senza reticenze nei suoi appetiti e nell’egoismo tipico degli ossessi,
Leigh suggerisce come l’arte visionaria di Turner nascesse anche da un’immersione impura e costante, da
uno sporcarsi ininterrotto e rigenerante con la materia della realtà. Realtà che sulle sue tele veniva
decantata in una sublime visionarietà di luce e cromatismi che venne spesso incompresa dai
contemporanei, tanto che divenne perfino oggetto di siparietti sbeffeggianti.
LE DUE STORIE
Leigh ha dichiarato di avere scelto gli ultimi venticinque anni di vita del pittore perché sono quelli
segnati dalle evoluzioni più profonde del suo stile di artista, che appunto raggiunge la dissoluzione della
forma prefigurando l’impressionismo, ma è anche il periodo in cui il mondo cambia, con l’avvento della
fotografia e delle ferrovie.
Trasformazioni che investono anche lo stesso Turner, quando, già in là con gli anni, decide di farsi fare
un ritratto fotografico e si siede nello studio di un giovane fotografo, affacciandosi così, sulla soglia del
mondo nuovo. Dietro il ritratto dell’artista sul limitare di una cultura e di un’età, si intravede l’autoritratto
forse involontario, non biografico ma estetico, dello stesso Leigh che ha superato i settant’anni, per la
prima volta gira in digitale e anch’egli ha attraversato due epoche diverse.
Ma è anche una trasformazione interiore quella che racconta Leigh, iniziata con il lutto del padre e
quindi con il tardivo ingresso nell’età adulta. Suggerisce i traumi nascosti nella storia intima di Turner
(come nei personaggi feriti dei suoi film precedenti): si pensi alla sequenza dell’agonia del padre, dove il
vecchio rievoca la follia della moglie e soprattutto alla bellissima sequenza nel bordello. Qui Turner
sembra all’inizio comportarsi come un cliente venuto a consumare del sesso per esorcizzare il dolore della
morte del genitore. Ma anziché godere del corpo della giovane prostituta, ne dirige le posture come se
fosse una modella da ritrarre (in un quadro funebre) e disegna degli schizzi su un taccuino. È visibilmente
sconvolto e presto scoppia in singhiozzi, rivelando un’inattesa vulnerabilità. Probabilmente, sta mettendo
in scena l’immagine primaria di un antico trauma: la morte tragica della sorella più giovane quando egli
aveva undici anni, un trauma rivissuto dal lutto recente. È la stessa immagine invisibile che ritorna poco
prima della sua morte, quando corre in strada in vestaglia per l’impulso irresistibile di disegnare il corpo di
una giovane annegata, deposto nel fango.
Turner – è un’altra virtù del film di Leigh – non racconta solo la storia di Joseph Mallord William
Turner, bensì anche quella di Hannah, la sua sguattera tuttofare. Fin dall’inizio, quando vediamo un gesto
furtivo di stizza e delusione della donna all’ordine impartito dal pittore ritornato da Ostenda, il regista non
manca mai di dedicare inquadrature significative alle reazioni, gli sguardi, i gesti e a quanto rivelano dei
sentimenti e delle frustrazioni di questa donna che vive con l’unico scopo nella vita di lavargli la
biancheria, pulirgli la casa, cucinare e trastullarlo sessualmente alla bisogna.
Nella mimica selvatica e ingrata, splendidamente resa da Dorothy Atkinson, affiora la condizione di un
essere umano tenuto nella condizione degradata di serva e oggetto erotico occasionale. Hannah soffre di
un’orrenda malattia della pelle, la psoriasi, che si aggrava quando ormai il pittore ritorna raramente nel suo
alloggio londinese perché preferisce vivere con la sua Sophia, divenuta sua moglie. Alla fine Hannah,
ormai invecchiata e devastata dalla malattia, giunge fino a Margate per cercarlo ma si allontana sconvolta
quando apprende della segreta vita coniugale del padrone. La sua triste storia parallela è messa a fuoco con
sensibilità asciutta da Leigh mentre rimane fuori campo dalla visuale di Turner, che non si è mai fermato
un solo istante a guardare quella donna che viveva accanto a lui.