L`insediamento ebraico in Emilia Romagna. Breve profilo storico

L'insediamento ebraico in Emilia Romagna.
Breve profilo storico (secc. XI-XX)
di
Fulvio Papouchado
Settembre 2014
F. Papouchado, L'insediamento ebraico in Emilia Romagna. Breve profilo storico
www.sa-ero.archivi.beniculturali.it
L’insediamento medievale
Tra i primi ebrei a stanziarsi nell’attuale Emilia Romagna, un piccolo gruppo scelse l’area adiacente
alla costa adriatica, principalmente la zona tra Ravenna e Rimini, dove essi contribuivano alle rotte
commerciali tra Venezia, l’Adriatico e il Levante. Infatti lungo tali percorsi sono state ritrovate
alcune tracce della loro presenza, testimoniata da reperti risalenti ai secoli XI e XII.
In seguito, a partire dal XIV secolo, l’immigrazione ebraica ha preso slancio infoltendo gli sparuti
stanziamenti preesistenti, le cui caratteristiche però non sono ben note. Questi israeliti provenivano
sia dal centro-nord dell’Europa che dal sud della penisola italiana. La spinta che incoraggiava i loro
spostamenti era di solito la concessione, da parte del governante, di una condotta per esercitare
un’attività finanziaria presso i mercati e i centri amministrativi e di potere. Assieme al banchiere
ebreo, pertanto, giungevano la sua famiglia e un seguito di correligionari che si impiegavano come
dipendenti ed aiutanti, originando quindi la formazione di un microcosmo - di venti o trenta persone
legate da vincoli di parentela e di affari - che si concentrava in una o più vie, definite di solito
“giudecche”. Tali elementi distintivi si osservavano grosso modo in tutti gli altri stanziamenti
ebraici nella parte settentrionale della “isola della rugiada divina”, ossia all’ebraica Yi-tal-yah.
Di solito i primi edifici ebraici consistevano di un grosso stabile a più piani che accoglieva il banco
di prestito, i locali destinati a magazzino dei pegni, la stalla, il granaio, il forno per le azzime, la
cantina, una corte interna. Ai piani superiori erano ospitati i membri della famiglia del banchiere
oltre a precettori, dipendenti della ditta, servitori, correligionari di passaggio. Spesso la condotta
includeva altresì il permesso di tenere in casa un oratorio privato adibito a sala di preghiera e di
studio.
Una delle comunità più prospere fu quella bolognese, dedita al commercio e non solo al traffico di
denaro; dalle cospicue possibilità economiche, incentivava il fervore intellettuale e ascetico ebraico
che da Bologna si irradiava nella regione. Nel 1488 venne addirittura istituita presso l’università
felsinea una cattedra di storia dell’ebraismo. Proprio a Bologna si stabilì il cesenate Obadià Sforno
che, dopo un itinerario attraverso le accademie ebraiche d’Italia, produsse una serie di opere
esegetiche a uso spirituale per le comunità che lo interpellavano per le questioni di procedura
religiosa.
Gradualmente aumentò il numero di piccoli centri emiliani e romagnoli che ospitano una presenza
ebraica, soprattutto dopo che nel 1451 il duca Borso d’Este ebbe il permesso papale di concedere
autonomamente le licenze ai feneratori. Così, nel ducato estense, gli ebrei si stabilirono anche ad
Argenta, Scandiano, Finale, Mirandola, Brescello, Sassuolo. Nella zona parmense ricordiamo, tra i
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vari, gli insediamenti di Colorno, Busseto, Cortemaggiore, Soragna. A est di Bologna gli ebrei
scelsero invece Bertinoro (da dove proveniva Obadià Yarè, famoso rabbino esegeta e viaggiatore),
Cesena, Faenza, la Rimini dei benevoli signori Malatesta e altre città. Le maggiori comunità
godevano di autonomia giuridica e amministrativa, organizzando anche congressi intercomunitari
per stabilire importanti decisioni per regolare la vita interna ebraica e i rapporti con la Chiesa e i
cristiani. Alcuni convegni presieduti dai rabbini delle diverse comunità padane si tennero in EmiliaRomagna: a Bologna nel 1416, a Ravenna nel 1443 e a Ferrara nel 1554.
Rapporti con i cristiani
Solitamente la convivenza con il cristianesimo procedeva tranquilla e si stabilivano rapporti di
commercio, di collaborazione nella gestione della vita urbana e di amicizia. Sono, relativamente ad
altre zone dell’Europa medievale, assai sporadici gli episodi di aperta insofferenza nelle terre
emiliane, come il bagno di sangue che nel 1348 sconvolse la comunità ebraica di Parma accusata di
omicidio rituale. Pertanto i cristiani s’erano abituati gradualmente alla presenza degli israeliti
eppure le circostanze di reciproca frequentazione allarmarono i vertici ecclesiastici dei diversi stati
in cui era divisa la pianura padana, dalla metà del XV secolo circa. I predicatori assisi nei pulpiti
delle cattedrali orchestrarono, di conseguenza, una campagna polemica nei confronti degli usurai
cui veniva attribuita la responsabilità dei problemi della collettività locale. Le invettive dei preti
erano motivate anche dalla presenza, per loro sgradita, dei marrani spagnoli e portoghesi che
venivano accolti in alcune città, soprattutto nella corte estense. Marrano è il termine spregiativo con
cui si definivano gli ebrei che, costretti o almeno indotti, alla conversione al cristianesimo
continuavano a seguire la ritualità giudaica in uno spazio nascosto per non venir scoperti e
processati dal tribunale inquisitorio. Molti cripto-giudei erano mercanti e medici di valore, quindi le
loro attività erano apprezzate dalle corti principesche e dalla popolazione, come nel caso del celebre
medico marrano Amato Lusitano che trovò rifugio nella tollerante Ferrara del XVI secolo. Invece
questa commistione suscitava lo sdegno degli ecclesiastici che non accettavano facilmente la
doppiezza di chi si professava cristiano e osservava al contempo i riti giudaici al riparo delle mura
di casa.
L’ebraismo a Bologna e in Romagna, sottoposte al potere temporale pontificio, conobbe un
inasprimento delle condizioni sociali poco dopo l’emanazione della bolla violentemente
antigiudaica Cum nimis absurdum (1555). Si aggiunsero gli altri stati, dopo aver superato le
reticenze dei rispettivi principi e numerose città italiane assistettero al rogo in piazza dei volumi del
Talmud, mastodontica opera accusata di propagare idee perniciose e contrarie alla morale cristiana.
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Anche a Bologna, Ravenna e Ferrara queste pire impressionarono gli ebrei locali, spingendoli ad
accettare la censura di altri libri per poter continuare a detenere almeno la fondamentale Torah e i
consueti manuali di preghiere.
Gli estensi erano favorevoli a un buon rapporto con gli ebrei in quanto da essi ricavavano utilità
economica e vantaggi personali. Per merito della sua casata, Ferrara fu tra tutte le città emiliane –
almeno fino alla devoluzione alla Chiesa avvenuta nel 1598 – la più accogliente e propizia alla
fioritura della presenza ebraica. I duchi Ercole I, Alfonso I ed Ercole II accolsero intere comunità di
profughi spagnoli e di marrani portoghesi, alcuni dei quali, ricchissimi e potenti, aiutarono a
migliorare l’economia locale, altrimenti priva di consistenti risorse. Per una ventina d’anni, le più
potenti di questa famiglie sefardite si trovarono a convivere nella capitale estense: gli Abravanel, i
Mendes-Nasí e gli Enriques-Benveniste s’erano stabiliti a Ferrara animando circoli di intellettuali e
sostenendo i propri affari e traffici commerciali che tenevano in piedi il sistema di scambi
internazionali da e per Ferrara.
La creazione dei ghetti
In diversi centri urbani emiliani fu adottata la regolazione della presenza ebraica, confinandoli nel
ghetto chiuso da cancelli se custodito da chiavieri cristiani. La misura entrò in vigore in epoche
diverse: A Bologna nel 1566 (poi soppressa nel 1593 con l’espulsione definitiva), a Ferrara nel
1627, a Modena nel 1630. A Lugo nel 1634 in cui confluirono successivamente gli israeliti di
Bagnacavallo, Cotignola, Fusignano e Massa. Più tardi la segregazione fu stabilita anche a Carpi nel
1719 e a Finale nel 1736, a Correggio nel 1781 e solo per le famiglie più povere. Da Parma la
maggior parte degli ebrei invece fu espulsa nel 1488 e lo scarso numero rimasto non consigliò la
loro inclusione in un ghetto. Anche da Piacenza gli ebrei dovettero emigrare nel 1570. Di tanto in
tanto le aree destinate agli ebrei venivano ampliate per far fronte al loro aumento numerico ma
conservarono sempre il ruolo di separazione dai cristiani, oltre che di salvaguardia dell’identità
giudaica e di protezione dagli occasionali assalti della plebe. I “serragli” ospitavano tutte le
istituzioni religiose e amministrative necessarie per il prosieguo dell’esistenza comunitaria, quali la
macelleria kasher, la sinagoga, la scuola elementare, il forno delle azzime, gli enti di autogoverno e
il tribunale rabbinico. Parallelamente, in molte città veniva eretta la casa del Catecumeno per
accogliere, più o meno forzatamente, chi intendesse abbandonare l’ebraismo in favore del
cristianesimo e, in generale, rappresentare un baluardo di fede contro le eresie, come teorizzava il
precursore di queste istituzioni, Ignazio di Loyola. A Ferrara la casa aprì nel 1584,a Bologna nel
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1568, a Modena nel 1629, a Reggio nel 1632. Numerosi regolamenti venivano approntati per
disciplinare la permanenza dei neofiti in questa istituzione e impedire agli ebrei di influenzare il
percorso di catechesi dei loro correligionari. La cultura ebraica non fu soffocata dalla clausura nel
ghetto. Molti ghetti ospitavano le accademie nelle quali era tenuta viva la cultura religiosa
esplicitata soprattutto nelle opere esegetiche e di filosofia. La dottrina mistica della qabbalah fiorì
nelle strette vie dei ghetti di Ferrara e Modena offendo un’ascetica evasione dall’opprimente
clausura attraverso pratiche spirituali di gruppo. Tra i sapienti rabbini che ispiravano queste riunioni
citiamo Leon Modena, Isacco Lampronti di Ferrara, Abraham Rovigo di Modena. Questi esponenti
di diverse correnti filosofiche arricchirono la vita culturale italiana mediante la diffusione delle loro
opere, scritte in italiano o tradotte dall’ebraico, che oltrepassavano le mura del ghetto e
influenzavano in parte la cultura cristiana, anche profana. L’umanesimo ferrarese, ad esempio, fu
plasmato anche grazie all’apporto di alcuni ebrei, come il poliedrico Abraham Farissol.
L’emancipazione e l’Unità d’Italia
Nell’Ottocento, epoca di moti risorgimentali e istanze emancipazioniste, il ghetto fu più volte
abolito, ripristinato o alleggerito, fino a scomparire del tutto. Tra inizio e metà secolo sempre più
ebrei si facevano coinvolgere nella vita politica e sociale dei singoli stati pre-unitari e poi della
nazione italiana, come il modenese Mosé Formiggini, uno dei centumviri della Repubblica
Cispadana. Tra i successivi compaiono il ferrarese Salvatore Anau e suo cognato Leone Carpi di
Cento, convinti della necessità di emancipare gli ebrei che avrebbero così contribuito alla libertà e
all’unità italiane e aiutato l’economia finanziando la nascente industria. Tra gli attivi combattenti
per la libertà del paese ricordiamo i modenesi Angelo ed Emilio Usiglio, Abramo Isacco Forti di
Lugo, Israel Latis di Reggio. Talvolta le associazioni carbonare e irredentiste venivano
sovvenzionate da banchieri ebrei che speravano così di veder la futura Italia governata da un regime
che avrebbe garantito loro l’eguaglianza giuridica. Il processo di integrazione degli ebrei nella
società italiana non fu danneggiato dall’incidente causato dal caso di Edgardo Mortara, un bambino
che, nella Bologna del 1858, fu prelevato dalla gendarmeria papale per esser educato nel
cattolicesimo sotto la protezione di papa Pio IX. Anzi questo incidente aumentò l’intensità
dell’avversione ebraica nei confronti del potere temporale della Chiesa a Roma e della sua influenza
sugli altri stati della penisola.
A Parma il ritorno degli ebrei fu sancito nel 1803 sotto il governo della tollerante duchessa Maria
Luisa anche se la loro comunità fu ricostituita nel 1865, ben dopo la proclamazione dello stato
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unitario. Proprio a Parma nel 1845 fu fondata la Rivista israelitica, primo periodico ebraico
portavoce della corrente religiosa riformata e sionistica in Italia; nella stessa città fu attivo il
collezionista di antichità Gian Bernardo de’ Rossi. Suo emulo era il bibliotecario reggiano Moisè
Beniamino Foà – direttore della Biblioteca Estense di Modena – che contribuì alla salvaguardia del
patrimonio culturale locale.
Alcuni israeliti si affacciarono sulla scena politica nazionale di fine secolo e, tra quelli della nostra
regione, ricordiamo il forlivese Alessandro Fortis (1841-1909) che, dopo una militanza da
garibaldino, fu ministro e presidente del consiglio tra il 1905 e il 1906 gravitando politicamente
nell’area giolittiana.
Ai primi del XX secolo, precisamente nel 1901, Carlo Conigliani, rappresentante del sionismo in
versione italiana, organizzò una riunione dei sionisti nella sua Modena. L’esperienza del congresso
ebraico fu ripetuta a Ferrara nel 1904 sotto la guida di Felice Ravenna.
Data la maggiore integrazione sociale, la presenza ebraica andava diluendosi nel panorama urbano
italiano. Gli ebrei si amalgamavano confondendosi, volontariamente e con entusiasmo, con gli altri
cittadini. Parallelamente, molte piccole comunità ebraiche della regione sparirono completamente o
si fusero con quelle maggiori; ad esempio ai primi del Novecento la comunità di Carpi fu aggregata
a Modena e quella di Cento a Ferrara.
Antisemitismo di stato
Con l’affermazione del regime fascista, buona parte dell’ebraismo aderì ai suoi ideali, supponendo
in tal modo di dimostrare fedeltà alla patria italiana: l’esempio più frequentemente citato è quello di
Renzo Ravenna, fedele aderente al fascio, che negli anni ’30 amministrò Ferrara fino alle dimissioni
più o meno volontarie dalla carica di podestà.
Tuttavia, con l’avvento della legislazione “razziale”, gli ebrei italiani tornarono a rappresentare un
corpus giuridicamente separato. La delusione causata dall’emanazione delle leggi razziali spinse
Angelo Fortunato Formiggini a gettarsi dalla Ghirlandina della sua Modena nel novembre 1938.
L’amaro sconforto portò molti altri ebrei ad assumere posizioni politiche socialiste o a partecipare
alla resistenza attiva. Degno rappresentante dei combattenti partigiani di religione ebraica è il
bolognese Mario Jacchia, trucidato a Parma nel 1944, cui si aggiungono i ferraresi Giorgio Bassani
e Matilde Bassani Finzi e numerosi altri.
Nel periodo più concitato della guerra, nel luglio 1942 una elegante dimora a Nonantola nei pressi
di Modena, famosa con il nome di villa Emma, accolse una cinquantina di ragazzi ebrei di origine
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est-europea in fuga dai loro paesi e diverse persone del luogo, come don Arrigo Beccari e il medico
Giuseppe Moreali. Aggiuntasi nel frattempo una trentina di orfani jugoslavi, con l’armistizio la
situazione precipitò ma i protettori collaborarono alla salvezza degli ebrei nascondendoli e poi
accompagnandoli al confine svizzero.
Nella stessa provincia emiliana, precisamente a Fossoli di Carpi, dal 1942 funzionò un campo di
raccolta e transito in cui si trovarono a convivere in totale cinquemila prigionieri nemici, ebrei,
oppositori politici e altre categorie di internati destinati ai campi di sterminio gestiti dai nazisti.
Nel corso degli avvenimenti bellici, la Brigata Ebraica combatté al fianco degli alleati nei pressi di
Alfonsine, integrata nell’esercito britannico ma sotto la propria bandiera recante la stella di Davide,
poi consegnata al comune di Brisighella. I volontari ebrei – i più provenienti dalla Palestina –
sbarcarono nel novembre 1944 al porto di Taranto per raggiungere da lì le truppe statunitensi lungo
la Linea Gotica. L’offensiva culminò ai primi di aprile, quando la Brigata Ebraica varcò il Senio
insieme al gruppo di combattimento “Friuli”, conquistando poi Monte Ghebbio e Monte Guerzola. I
45 caduti ebrei sono tumulati nel cimitero di Ravenna, città che avevano aiutato a liberare. Al
termine della guerra, i soldati della Brigata pianificarono il ripristino delle principali infrastrutture,
tra cui il ponte sul Lamone a Faenza. Questo battaglione inoltre contribuì alla rinascita delle
comunità ebraiche emiliano-romagnole, inviando rabbini per la ripresa del culto religioso e
manodopera per il riassetto degli edifici comunitari danneggiati. Essi sostennero altresì il passaggio
clandestino di profughi ebrei superstiti dai campi di sterminio verso la Palestina dove, in seguito, il
14 maggio 1948, sarebbe sorto lo stato di Israele.
Nell’Italia di oggi
Sotto il profilo urbanistico, in Emilia Romagna sono 32 le località che hanno ospitato un quartiere
prettamente ebraico. Di queste, sono 11 ad aver conosciuto l’istituzione di un vero e proprio ghetto
(Bologna, Carpi, Cento, Correggio, Ferrara, Finale Emilia, Guastalla, Lugo, Modena, Reggio
Emilia, Rimini). Invece i cimiteri ebraici nella regione, la cui apertura risale quasi sempre ai secoli
XVIII-XIX, sono 19: Bologna, Busseto, Carpi, Cento, Correggio, Cortemaggiore, Ferrara, Fidenza,
Finale Emilia, Fiorenzuola d’Arda, Guastalla, Lugo, Modena, Monticelli d’Ongina, Novellara,
Parma, Reggio Emilia, Scandiano, Soragna. Essi rappresentano un attestato tangibile della presenza
israelitica locale fungendo anche da archivio di nomi e genealogie familiari. Invece le sinagoghe
attualmente esistenti in Emilia Romagna sono 29, di cui solo alcune sono ancora utilizzate come
luogo di preghiera (Bologna, Ferrara, Modena, Parma).
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Dato l’assottigliarsi della consistenza numerica delle comunità israelitiche e il loro progressivo
assorbimento nella società nazionale ed europea, diviene pressante l’esigenza di salvaguardare la
memoria archivistica che testimonia un’antica presenza e un sostrato di cultura che gli ebrei hanno
prodotto e con cui hanno contribuito alla storia del nostro paese e delle sue realtà locali. Nell'Emilia
Romagna d’oggi esistono due istituzioni che si prefiggono lo scopo di diffondere la conoscenza
dell’ebraismo. Infatti nell’ambito delle attività del Museo Ebraico di Bologna assume grande rilievo
la catalogazione e lo studio delle realtà ebraiche regionali, su vari profili storici generali, per poi
illustrare la storia degli ebrei a Bologna e nella sua regione. A questo museo s’è aggiunto il MEIS, il
“Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah” installato nell’ex carcere di via Piangipane a Ferrara,
proprio dove, durante l’occupazione nazista della città, vennero rinchiusi diversi israeliti ferraresi
assieme a dissidenti e antifascisti. Si tratta quindi della riconversione di un luogo di dolore e di
privazione della libertà che oggi funge invece da spazio da cui irradia una nuova luce sulla storia e
sulle tradizioni degli ebrei d’Italia.
Bibliografia essenziale
▪
Bernardi Roberto, Le comunità ebraiche dell'Emilia Romagna, Tecnografica, Parma 1975.
▪
Bondoni Simonetta M., Busi Giulio (a cura di), Cultura ebraica in Emilia Romagna, con testi di
Simonetta M. Bondoni, Luisè, Rimini 1987.
▪
Bonilauri Franco, Maugeri Vincenza (a cura di), Ghetti e giudecche in Emilia-Romagna :
immagini per un percorso storico di recupero e valorizzazione, in «Quaderni del Museo ebraico
di Bologna», n. 4, De Luca, Roma 2004.
▪
Caravita Gregorio, Ebrei in Romagna, 1938-1945: dalle leggi razziali allo sterminio, Longo,
Ravenna 1991.
▪
Carocci Giampiero, Storia degli ebrei: dall'emancipazione ad oggi, Newton Compton, Roma
2005.
▪
Milano Attilio, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1982.
▪
Sacerdoti Annie, Tedeschi Falco Annamarcella (a cura di), Emilia Romagna : itinerari ebraici :
i luoghi, la storia, l'arte, con la collaborazione di Vincenza Maugeri, Marsilio, Venezia 1992.
▪
Segre Bruno, Gli ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001.
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