08 SETTEMBRE Il fascismo, la guerra e l’armistizio Francesco Maria Feltri CONSAPEVOLEZZA MEMORIA Cittadinanza CONSAPEVOLEZZA MEMORIA Cittadinanza Percorsi e temi di storia, per sentirsi cittadini in Europa, in Italia e in Emilia Romagna A cura di Francesco Maria Feltri Elenco dei volumi Modulo 1: 1° maggio, La festa del movimento operaio Modulo 2: 4 novembre, La memoria della prima guerra mondiale Modulo 3: 28 ottobre 1922, La marcia su Roma Modulo 4: 8 settembre, Fascismo, guerra e armistizio Modulo 5: 8 maggio, La fine della seconda guerra mondiale Modulo 6: 25 aprile, La festa della liberazione Modulo 7: 27 gennaio, La giornata della memoria Modulo 8: 2 giugno, La nascita della Repubblica Modulo 9: 10 febbraio, Giorno del ricordo Modulo 10: 8 marzo, La festa della donna Modulo 11: 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne INTRODUZIONE GENERALE Un nuovo inizio per la comunità: gli eventi frattura radicale All’inizio del XVI secolo, Niccolò Machiavelli era convinto che la storia fosse una specie di grande illusione, un errore di prospettiva. I continui rivolgimenti, che investono il mondo della politica, potrebbero indurci a pensare che il mutamento sia l’aspetto più vero ed ultimo della vicenda umana; per il pensatore politico fiorentino, al contrario, in ultima analisi non c’è alcun cambiamento davvero sostanziale. Siamo di fronte a increspature provvisorie, prive di conseguenze radicali, non ad autentiche e decisive fratture storiche. Per Machiavelli, la storia non è molto diversa dalla realtà naturale: certo, ogni estate, nel campo si raccolgono spighe differenti da quelle degli anni precedenti. Il procedimento, però, è sempre quello, ciclico e ripetitivo, e non c’è spazio per alcuna significativa novità. Per usare un’altra metafora, si potrebbe pensare ad un palcoscenico: cambiano gli attori e le prime donne; mutano i fondali e le ambientazioni. Eppure, la commedia rappresentata è sempre la stessa: e per di più, secondo Machiavelli, non è una commedia, bensì una tragedia, i cui ritmi e movimenti sono dettati dalla spietata natura degli esseri umani, decisamente più inclinata verso il male che verso il bene. Nel corso del XIX secolo, comunità nazionali, Stati e associazioni politiche di diversa natura incominciarono ad appropriarsi del tempo. Fino ad allora, il tempo era stato monopolio della Chiesa, che lo aveva strutturato secondo un preciso calendario liturgico. A scadenze periodiche, il fedele incontrava delle precise ricorrenze e festività (Natale, Pasqua, Pentecoste…), che gli permettevano di fare memoria dei principali eventi della vita di Cristo o della Chiesa delle origini, e quindi di riscoprire con rinnovata freschezza la propria identità di cristiano. A partire dall’Ottocento, mentre si affermava la Nazione, come II INTRODUZIONE GENERALE nuova fonte di valori e destinatario di fedeltà assoluta (fino al martirio), accanto al calendario liturgico cristiano – e in certi casi contro di esso, in precisa e polemica alternativa – si impose una serie di festività civili, che scandivano l’anno e spingevano l’individuo a riflettere sulla sua identità di cittadino e/o di membro di una comunità nazionale. Sia la Chiesa che le moderne comunità nazionali del XIX-XX secolo si ispiravano ad una concezione della Storia e del tempo diametralmente opposta a quella di Machiavelli. Pur focalizzando la loro attenzione su questioni molto diverse, autorità ecclesiastiche e intellettuali sensibili al tema della nazione erano convinti che nella storia si producessero alcuni eventi frattura radicale, capaci spezzare l’opaca omogeneità della vicenda storica. Le comunità umane che avevano fatto esperienza di uno o più di tali eventi, da essi uscivano radicalmente trasformate. Proprio per questo, avevano bisogno di una festa, che ne conservasse la memoria. Potevano essere esperienze traumatiche o felici, drammatiche o gioiose: comunque, non potevano e non dovevano essere più dimenticate, perché era grazie a quelle sconfitte o quelle vittorie, a quelle passioni o quelle resurrezioni, che la comunità si definiva nella propria identità più autentica e duratura. Ma la festa, civile o religiosa che sia, nel momento in cui spinge a fare memoria, mette in moto un meccanismo che è diverso e molto più forte del puro non dimenticare. Nel suo sforzo di essere efficace di fronte alla vicenda storica decisiva, la memoria diventa attualizzante. In effetti, se l’evento ricordato è capace di spezzare la storia, esso continua ad agire per sempre: la sua onda lunga raggiunge anche noi, che viviamo anni o secoli dopo l’evento. Insomma, tra comunità (religiosa o civile) e Storia si crea un circolo: per definire se stessa, la comunità deve andare al passato e riscoprire l’importanza di quell’evento; l’obiettivo, però, non è puramente archeologico: al contrario, III INTRODUZIONE GENERALE grazie alla riflessione sul passato, si tratta di agire sul proprio presente, illuminandolo di nuova luce, o meglio di speranze e valori capaci di superare il tempo, di parlare ad ogni generazione e di ispirarne anche oggi l’azione, religiosa, morale o politica. Memoria e cittadinanza attiva Diritti e democrazia non sono affatto qualcosa di ovvio, di normale, di scontato. Per certi versi, anzi, nel terribile panorama della storia sono l’eccezione: realtà fragili che sono state conquistate dopo innumerevoli sforzi e che, soprattutto nel Novecento, sono state infrante da progetti totalitari di vario tipo e di vario genere. Malgrado tutte le difficoltà, le sconfitte e i ritorni all’indietro, non è vero che nella storia non è mai cambiato nulla. Anche se i grandi progetti utopici, di qualunque matrice ideologica, sono tutti falliti, dopo avere provocato milioni di morti e disastri materiali incalcolabili, non è stato tutto inutile. La storia non è solo un computo di vittime, di un tipo o dell’altro. Senza indulgere ad alcun facile ottimismo, o cedere all’ingenua concezione secondo cui saremmo giunti alla fine della Storia e al migliore dei mondi possibili, è comunque vero che i cittadini e le cittadine di oggi possono condurre un’esistenza più libera e ricca di opportunità, rispetto a coloro che sono vissuti in altre epoche storiche. Nulla va dato per scontato o per definitivamente acquisito. Diritti e democrazia – lo ripetiamo – sono conquiste fragili e deteriorabili. Proprio per questo, a nostro parere, necessitano di una sempre maggiore consapevolezza, che a sua volta può emergere solo dalla memoria, cioè dalla riflessione storica. Anche ai giorni nostri, tale memoria tende ad organizzarsi intorno a degli eventi di forte impatto emotivo e simbolico; le celebrazioni ufficiali, però, talvolta li ricoprono di retorica e li rendono distanti dai cittadini. Paradossalmente, insomma, le ri- IV INTRODUZIONE GENERALE correnze possono ottenere l’effetto opposto, rispetto al fine originario per cui sono nate. La riflessione storica vorrebbe essere più sobria, più obiettiva, più scarna; proprio per questo, forse, riuscirà a far emergere di nuovo il significato di svolta epocale di questo o quell’evento. Se non si trasforma in spregiudicato strumento ideologico (è questo, infatti, il principale limite del cosiddetto uso pubblico della Storia), la conoscenza storica può rendere il cittadino pienamente consapevole dei propri diritti e dei propri doveri, nella misura in cui la riflessione sul passato aiuta a comprendere quanto i diritti stessi e la democrazia (in tutti i suoi aspetti, regole comprese) sono il frutto di complesse (e quindi, spesso, persino contraddittorie) vicende storiche, di lotte e di tragedie, vissute (e subite) da chi ci ha preceduto. Sotto questo profilo, il dovere morale e civile di fare memoria, per mantenere viva l’importanza di tutte le libertà e le opportunità che ci è concesso di vivere come cittadini, oggi è ancora più necessaria che nei secoli passati. Moduli per riflettere su storia e cittadinanza Il lavoro che proponiamo consisterà in alcuni moduli, ognuno dei quali avrà la stessa struttura di base, anche se potrà variare la quantità di materiale da cui verrà costituito. Ogni modulo (materialmente, un libretto di un centinaio di pagine) tratterà un tema, o un problema, importante per la costruzione dell’identità collettiva e di una comune cittadinanza. Il principio di base che informa l’intero lavoro è lo sforzo di intrecciare costantemente tre piani d’analisi: la dimensione internazionale (l’Europa e, talvolta, il mondo intero), la dimensione nazionale (l’Italia), la dimensione locale (l’Emilia Romagna). Per ogni tema, ai tre livelli citati, si cercherà di individuare almeno una vicenda significativa, che si è impressa nella memoria V INTRODUZIONE GENERALE collettiva e che per un gruppo di cittadini è stata epocale, cioè decisivo, nel caratterizzare la loro esistenza. Scendendo in dettaglio, ogni modulo avrà la seguente struttura ideale: Dimensione internazionale Scheda 1 Scheda 2 Scheda 3 Scheda Dimensione nazionale di apertura: Introduzione ad un tema Scheda 1 Scheda 2 Scheda 3 Dimensione regionale Scheda 1 Scheda 2 Scheda 3 Anche se, in linea di principio, ogni modulo è autonomo, autosufficiente, concluso in se stesso, ciascun elemento ovviamente dialoga con gli altri dai quali riceve ulteriore chiarezza e forza di significato. Buona lettura, a tutti i cittadini e le cittadine che vorranno seguirci nel nostro percorso. F. M. F. VI Indice Introduzione3 Dimensione internazionale: La guerra di Hitler: dalla Blitzkrieg a Stalingrado Guerra lampo in Polonia e in Francia L’invasione dell’URSS La Germania verso la sconfitta 17 28 45 Dimensione nazionale: La guerra del Duce: dall’intervento alla disfatta Non belligeranza e guerra parallela La campagna di Russia La caduta del fascismo 63 82 97 Dimensione locale: La guerra, i fascisti, i tedeschi I primi anni di guerra Il fascismo bolognese, tra regime e RSI Gli internati militari 117 128 148 3 9 Settembre 194 8 Settembre Il fascismo, la guerra e l’armistizio Introduzione N ella notte tra il 10 e l’11 luglio 1943, gli Alleati attaccarono la Sicilia con 150 mila uomini. Il 17 agosto, gli angloamericani erano padroni assoluti dell’isola. La gravità della situazione era immediatamente risultata evidente al comandante in capo delle Forze Armate italiane, generale Vittorio Ambrosio, che suggerì a Mussolini di chiedere ad Hitler che all’Italia fosse permesso intavolare, il più in fretta possibile, trattative di pace con gli anglo-americani. Il rifiuto di Mussolini a procedere in questa direzione determinò la crisi definitiva del fascismo. Infatti, il 25 luglio, il re Vittorio Emanuele III privò Mussolini del potere e diede al paese un nuovo governo. Recatosi alla residenza reale per la consueta udienza, il Duce si sentì dire dal sovrano che non era più il capo del governo e che al suo posto, per quell’incarico, il re aveva già nominato il maresciallo Pietro Badoglio. Mussolini, poi, fu arrestato e portato in una località segreta, in modo che non potesse dirigere una reazione fascista diretta contro la decisione del re. Alle 22.45 del 25 luglio, furono trasmessi due radiomessaggi al popolo italiano, nei quali si annunciavano la destituzione di Mussolini, la nomina di Badoglio a guida del governo e la assunzione da parte del re del comando delle Forze Armate; nel medesimo tempo, però, si dichiarava pure che la guerra continuava. Malgrado quest’ultima drammatica precisazione, i due messaggi furono accolti con entusiasmo dalla popolazione; viceversa, non ci fu alcun tentativo di reazione fascista, neppure da parte della milizia, la forza armata del partito e del regime. Il governo Badoglio era un regime autoritario. Tutt’altro che democratico, temeva, prima d’ogni altra cosa, che i partiti an- 3 8 settembre tifascisti potessero approfittare della confusa situazione venutasi a creare e che, sfruttando l’entusiasmo popolare, le forze di sinistra tentassero di dar vita a qualche moto rivoluzionario. A tal fine, furono presi vari provvedimenti, fra i quali spicca l’ordine di sparare sulla folla, in caso di tumulti sovversivi, <<anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta, come se si procedesse contro il nemico>>. Intanto, furono presi contatti con gli Alleati, per giungere ad un armistizio, che venne firmato a Cassibile, in Sicilia, il 3 settembre. Il problema, a quel punto, era rappresentato dai tedeschi, i quali non avevano la minima intenzione di accettare passivamente la capitolazione dell’Italia, né di lasciare il suo territorio, nel caso di una pace separata conclusa dal governo italiano con gli anglo-americani. Badoglio cercò a più riprese di prendere tempo; gli Alleati, però, gli comunicarono infine brutalmente che avrebbero reso nota l’avvenuta firma dell’armistizio. L’8 settembre 1943, Badoglio si rassegnò a diffondere via radio la notizia che l’Italia aveva cessato le ostilità con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Il testo del comunicato lasciava intendere che ci sarebbe stata una immediata e dura reazione da parte tedesca; malgrado ciò, i comandanti dei vari reparti dell’esercito furono lasciati del tutto privi di ordini e di indicazioni operative coerenti. Neppure a difesa di Roma fu presa alcuna misura, in quanto il re e il governo, il 9 settembre, abbandonarono in segreto la capitale, rifugiandosi a Brindisi, appena liberata dagli Alleati. Seguendo un piano preparato da tempo dal Comando, le truppe tedesche affluirono sempre più numerose dal Brennero e, con notevole rapidità, occuparono tutto il territorio nazionale. La totale mancanza di direttive trasformò la situazione in un vero e proprio caos generalizzato. La maggior parte dei reparti si disgregò completamente, assumendo quell’atteggiamento che la formula: <<tutti a casa>>! riassume meglio di tante parole. 4 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO In Italia e nei Balcani, più di 700.000 militari italiani furono catturati dai tedeschi e deportati in Germania; sul territorio nazionale, la maggior parte dei soldati fu disarmata e fatta prigioniera senza avere la possibilità di reagire. Più tragica e concitata fu la vicenda di molti reparti di stanza in Grecia, in Albania o sulle isole dell’Egeo e dello Ionio; le truppe che scelsero di resistere ai tedeschi dovettero affrontare duri combattimenti e la spietata violenza dei tedeschi, che in alcuni casi fucilarono anche coloro che si erano arresi. L’episodio più grave si verificò a Cefalonia, tra il 15 e il 22 settembre: secondo Giorgio Rochat, dopo uno scontro in cui morirono circa 200 soldati, altri 3.800-4.000 furono fucilati sull’isola, dopo la resa. Altri 1.360, caricati su una nave tedesca, morirono annegati, a seguito di un bombardamento alleato che affondò l’imbarcazione. Secondo Mario Torsello, nel complesso, in quelle settimane confuse e drammatiche l’esercito italiano ebbe complessivamente quasi 19.000 morti, tra caduti in combattimento e fucilati dai tedeschi. Anche la marina e l’aviazione militare furono colte alla sprovvista dall’improvviso annuncio dell’armistizio. Secondo la marina inglese, 133 unità della flotta passarono sotto il controllo alleato; tuttavia, il destino delle singole navi spesso fu determinato dai comandanti, molti dei quali trovarono umiliante e disonorevole l’ordine di consegnarsi agli inglesi: piuttosto di ubbidire, preferirono affidare la loro unità ai tedeschi o affondarla. È possibile che, in questo modo, sia andato perduto un centinaio di navi. In altri casi, invece, le imbarcazioni militari furono distrutte dagli aerei tedeschi: è il caso della corazzata Roma, ammiraglia della flotta, che affondò con 1.253 marinai. Quanto agli aerei, la maggior parte fu subito catturata dai tedeschi negli aeroporti: su 800 velivoli, circa 200 raggiunsero i territori controllati dagli Alleati. Il 12 settembre 1943, un reparto di paracadutisti tedeschi liberò Mussolini, che era detenuto in un albergo nella zona del 5 8 settembre Gran Sasso, in Abruzzo. Portato in Germania, il Duce ottenne da Hitler il permesso di ricostruire uno stato fascista in Italia; nacque pertanto la cosiddetta Repubblica Sociale Italiana (RSI), il cui governo prese dimora in varie ville sulla costa del lago di Garda: e poiché il ministero degli esteri, tenuto personalmente da Mussolini, aveva sede nella cittadina di Salò, l’espressione Repubblica di Salò venne ben presto utilizzata per indicare la nuova realtà politica. In teoria, si trattava di uno Stato sovrano, alleato della Germania; in pratica, si trattò di un semplice vassallo, privo di qualsiasi autonomia e sottomesso ad un pesante regime di occupazione militare. 6 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO BADOGLIO ANNUNCIA L’ARMISTIZIO L ’8 settembre 1943, gli italiani appresero della firma dell’armistizio da un breve comunicato radiofonico del generale Badoglio. Molte persone pensarono che la guerra fosse finita. In realtà, essa entrava in una nuova e più terribile fase, che avrebbe direttamente coinvolto il territorio nazionale e la popolazione civile. Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al gen. Eisenhower, comandante in capo delle Forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza. (E. Collotti, La seconda guerra mondiale, Torino, Loescher, 1985, p. 112) L’8 SETTEMBRE: LE REAZIONI DEGLI ITALIANI E DEI TEDESCHI L ’armistizio dell’8 settembre 1943 ha costituito per tutti gli italiani che l’hanno vissuto un’esperienza esistenziale di eccezionale portata: nelle memorie individuali e in quella collettiva dell’intera nazione quel giorno è rimasto indelebile per un’intera generazione (come lo fu a lungo Caporetto, per chi 7 8 settembre visse la prima guerra mondiale). Tuttavia, come ha osservato giustamente lo storico italiano Claudio Pavone, <<ancora oggi considerare l’8 settembre come una mera tragedia o come l’inizio di un processo di liberazione è una linea che distingue le interpretazione di opposte sponde>>: quella filofascista e quella antifascista. L’annuncio dell’armistizio fu salutato dalla maggioranza della popolazione con un senso di sollievo e in alcuni casi addirittura con entusiasmo, anche se non mancò chi vide nella resa agli angloamericani una scelta umiliante e disonorevole. Il 10 settembre Piero Calamandrei notava nel suo diario: <<Rimango sorpreso di sentire come è potente anche nella gente umile la vergogna dell’armistizio>>. Molte testimonianze mostrano una serie di reazioni che andavano dall’incredulità allo stupore, alla gioia, e poi alla preoccupazione e allo smarrimento, a mano a mano che la situazione reale, quella personale di ciascuno e quella del paese, diveniva più chiara. Questi sentimenti si succedettero in sequenza più o meno rapida a tutti i livelli. Ancora una volta, come già era avvenuto il 25 luglio, la gente interpretò la decisione del governo Badoglio di arrendersi come la fine della guerra. In molte città suonarono le campane, si improvvisarono balli nelle piazze o più semplicemente bevute e pranzi tra amici e parenti. La maggioranza della popolazione sperava che fosse finito tutto, che sarebbe tornata la normalità, o almeno che non si sarebbe più sofferta la fame. Le iniziali espressioni di contentezza e l’illusione di una conclusione indolore dell’avventura bellica fascista lasciarono ben presto il posto alla preoccupazione per l’immediato futuro. Che cosa avrebbero fatto i tedeschi? Sarebbero arrivati gli angloamericani? La risposta non tardò molto, perché la reazione del Comando 8 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO germanico fu immediata, con l’attivazione del piano Achse, già preparato da tempo, per l’occupazione delle città e per il <<disarmo a sorpresa, con ogni mezzo e senza il minimo scrupolo, delle truppe italiane>>. È persino inesatto parlare di una reazione, perché si trattava in realtà dell’attuazione di un piano già predisposto. Infatti quando il 7 settembre si capì che ci sarebbe stato uno sbarco angloamericano nell’Italia meridionale, il Comando supremo della Wehrmacht si preparò a chiarire con un <<ultimatum politico e militare>> il rapporto con l’Italia, la cui uscita dalla guerra era ritenuta imminente. Una nota elencava una serie di richieste da presentare al governo di Roma: una loro mancata accettazione avrebbe portato all’assunzione diretta della difesa dell’Italia da parte tedesca e all’immediato disarmo delle truppe dell’ex alleato. L’ultimatum doveva essere presentato indipendentemente dall’uscita dell’Italia dalla guerra e le truppe tedesche erano già in stato di allarme. Così, mentre la maggioranza delle forze armate italiane venne a conoscenza della firma dell’armistizio dall’annuncio alla radio, e fu quindi colta totalmente di sorpresa, le unità tedesche invece erano già preparate, come risulta evidente dalla rapidità e dalla simultaneità delle loro iniziative. Il Comando supremo delle forze armate del Reich emanò tra il 9 e il 15 settembre una serie di direttive, che un autore tedesco [= lo storico Gerhard Schreiber – n.d.r.] ha definito criminali, sul trattamento da applicare ai soldati italiani. I militari ex alleati dovevano essere divisi in tre gruppi e ricevere un trattamento diverso sulla base del loro atteggiamento di fronte alla proposta di continuare a combattere a fianco della Germania. Quelli che aderivano potevano conservare le armi ed essere trattati come i soldati tedeschi; quelli che non volevano collaborare e non volevano combattere dovevano essere mandati nei campi di internamento in Germania o in altri paesi alleati, come prigionieri di guerra; 9 8 settembre infine quelli che opponevano una qualche forma di resistenza o che si schieravano apertamente con le forze partigiane e nemiche avrebbero subito un trattamento diverso a seconda che fossero ufficiali o semplici soldati: gli ufficiali che opponevano resistenza o non ordinavano ai propri soldati di consegnare le armi dovevano essere fucilati come irregolari, mentre i soldati dovevano essere impiegati come forza lavoro nei territori dell’Est europeo. Nelle prime direttive si parlava di prigionieri di guerra; soltanto il 20 settembre, su ordine dello stesso Hitler, agli italiani catturati fu attribuita la denominazione di internati militari, non tutelati quindi dalle leggi internazionali, anche se questa decisione era del tutto arbitraria dal punto di vista del diritto internazionale. […] Da parte italiana il problema di che cosa fare si pose subito per i presìdi dell’esercito sparsi in tutta la penisola e per le divisioni che occupavano la Jugoslavia, la Grecia e l’Albania. Il proclama di Badoglio escludeva una resistenza organizzata e lasciava i comandi senza direttive. L’accenno alla reazione a <<eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza>> si riferiva ovviamente ai tedeschi, ma escludeva un’iniziativa italiana, mentre […] l’abitudine a un atteggiamento passivo e l’incapacità dei comandanti di assumersi responsabilità ebbero effetti disastrosi. Dopo aver inutilmente aspettato ordini da Roma, una buona parte dei generali e degli ufficiali superiori delle varie unità se ne andò alla chetichella. In molti casi i soldati furono consegnati [= obbligati a rimanere – n.d.r.] nelle caserme, dove poi furono bloccati e catturati dai tedeschi; in altri furono mandati in licenza o invitati a sbandarsi e a tornare a casa. Da qui una prima differenza tra quello che accadde in Italia e quello che avvenne fra le truppe dislocate fuori dai confini nazionali, dove non vi fu uno sbandamento perché la casa non poteva essere raggiunta: fuori d’Italia l’alternativa – consegnarsi ai tedeschi o combattere – fu 10 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO fin dall’inizio più netta. Fu tra le divisioni all’estero che si verificarono perciò sia i casi di maggiore collusione con la Wehrmacht, sia quelli di vero eroismo, come il noto sacrificio della divisione Acqui a Cefalonia. […] Nel caso di Cefalonia il Comando supremo delle forze armate tedesche, seguendo una direttiva dello stesso Hitler, ordinò <<di non fare prigionieri tra gli italiani>>. Gli ordini di Hitler furono eseguiti pienamente: circa 1.300 militari della divisione Acqui morirono in combattimento o uccisi al momento della cattura. Le perdite complessive tra caduti in battaglia, fucilati e morti sulle navi affondate dalle bombe alleate, variano tra 6.500 e 9.500, secondo diverse stime […] A Corfù morirono in combattimento o fucilati 600-700 uomini. I responsabili di questi massacri furono giudicati come criminali di guerra a Norimberga. Nei Balcani i tedeschi perpetrarono i maggiori eccidi di militari italiani. Non è possibile precisarne l’entità, perché sia le fonti italiane che quelle tedesche danno dati spesso contrastanti. Così, mentre è noto il numero dei morti angloamericani e tedeschi, per gli italiani non è possibile indicare cifre precise. Molte uccisioni furono effettuate senza che i comandanti tedeschi che le avevano ordinate provvedessero a stilare elenchi nominativi o a darne notizia nei diari di guerra. Ne è un esempio tipico il caso di Cefalonia: il bollettino delle forze armate tedesche del 24 settembre, giorno in cui vennero fucilati i soldati italiani, riferiva che <<la massa della divisione ribelle fu distrutta in combattimento, insieme al suo stato maggiore>>, mentre fu sterminata dopo la resa, in quel giorno e nei giorni successivi. (E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 135-138 e 154) 11 8 settembre L’8 SETTEMBRE NELLA MEMORIA DI UN UFFICIALE DEGLI ALPINI N uto Revelli partecipò alla drammatica campagna di Russia come sottotenente degli alpini. Scampato alla ritirata, si convinse che <<l’unica Patria>> in cui valesse la pena di credere era <<quella dei poveri cristi che hanno pagato con la vita le colpe degli altri>>. Di qui il suo rifiuto del fascismo e la sua immediata adesione, dopo l’8 settembre, al movimento partigiano. La scena seguente è ambientata a Cuneo. L’8 settembre è una data difficile da capire. Gli antifascisti certo la aspettavano, la prevedevano. Ma io, come tanti, appartenevo a un altro mondo e continuavo a non capire. La notizia dell’armistizio mi arriva dalla strada, da via Roma. Sono le 18,30, e vedo la gente raccolta in gruppi che discute, che grida, che parla a voce alta. Vedo soldati che fanno festa, che gridano che la guerra è finita. Davanti a un bar ascolto il comunicato di Badoglio, inciso su un disco prima di scappare da Roma con il re. Un messaggio equivoco, una voce vecchia, un disco rotto che ricomincia sempre dall’inizio. Intuisco che sta per incominciare un’altra guerra. Ho conosciuto i tedeschi sul Fronte russo e so che non perdonano. Corro a casa e mi metto in divisa. Afferro le mie tre armi automatiche e mi presento in caserma, nella caserma del 2° Alpini, la caserma Cesare Battisti. Al portone ‘entrata’ incontro il capitano Luigi Romiti. Ammira i miei due parabellum [= mitragliatori russi – n.d.r.] poi mi invita a tornarmene a casa: <<Qui perdi tempo, - mi dice – qui non c’è nessuna intenzione di sparare sui tedeschi>>. […] L’indomani, sempre in divisa, torno in caserma, dove continuano ad aspettare ordini. Poi apprendo che a Cuneo 12 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO sarebbe arrivato un reparto della 4a Armata in fuga dalla Francia. Con Piero Bellino accorro in via Statuto, dove c’è la sede del Comando di Zona. Lì incontriamo questo piccolo reparto: pochi automezzi e pochi soldati spauriti, sbandati. I loro ufficiali sono scomparsi, sono andati a cercare degli abiti borghesi. Poi arrivano gli altri. A Cuneo, il 10 settembre, ci sono migliaia di soldati, un’invasione: colonne di camion abbandonati, soldati senza reparto, ufficiali che si sono tolti i gradi. I nostri contadini chiameranno l’armistizio il disordine di Badoglio. Si respira il disastro più che a Podgornoe [= in Russia – n.d.r.], dove almeno c’era una volontà di combattere. Qui, adesso, c’è la disfatta senza speranza, la resa, il clima da si salvi chi può. Alla caserma Battisti ormai non si parla che di smobilitazione. Gli ordini non arrivano. I soldati hanno capito che bisogna disperdersi. Il comandante del 2° Alpini è il colonnello Boccolari, un super decorato della guerra ’15-18. È ancora in caserma, è ancora in divisa, ma sul punto di arrendersi. Doveva essere un appassionato di fiori. Infatti in quei giorni si preoccupa dei suoi vasi di gerani, che aveva disposto tutto attorno al monumento ai caduti nel cortile della caserma. Stanno per arrivare i tedeschi, e il colonnello si preoccupa di salvare i suoi gerani… Il tenente Nardo Duchi, che poi diventerà uno dei più attivi e coraggiosi partigiani della banda di Boves [= località in provincia di Cuneo, in cui i tedeschi compirono una delle prime stragi in terra italiana, il 19 settembre, uccidendo 23 civili – n.d.r.], vorrebbe fucilare il colonnello Boccolari. Discutiamo animatamente, se fucilarlo o meno. Io mi oppongo. Non è con un colonnello in meno che risolveremo la situazione. Con Piero Bellino vado a cercare il colonnello Palazzi. Palazzi è un ufficiale di quelli seri. Sono le 9 di sera del 10 settembre. Ci apre in pigiama, un pigiama a righe, da carcerato. Gli dico che in caserma tutti 13 8 settembre scappano, che abbiamo bisogno del suo intervento. Palazzi mi conosce, al mio ritorno dalla Russia mi ha abbracciato sotto i portici di Cuneo. Adesso risponde urlando: <<Fuori dai coglioni! Via, non voglio più saperne. Tutti pidocchi, tutti pidocchi>>. Ce ne andiamo a testa bassa, umiliati. Abbraccio Piero Bellino, ci guardiamo e piangiamo. […] Il giorno 12, alle ore 14, le SS del maggiore Peiper entrano in Cuneo. Ho voluto aspettarli, i tedeschi, ho voluto vederli. Arrivano con una breve colonna di autoblinde, dal viadotto sul fiume Stura. Occupano piazza Vittorio. Sono proprio come i tedeschi che ho visto a Varsavia, che ho visto in Russia. Spavaldi, pieni di boria, odiosi. Mentre risalgo lungo corso Nizza, per incontrare Piero Bellino e prendere gli ultimi accordi prima di abbandonare Cuneo, mi imbatto in un amico d’infanzia che non ha capito nulla e vive come in una giornata normale. Mi ferma, mi propone di andare a vedere un film al Cinema Monviso. È domenica, e il cinematografo apre alle 14,30. Non mi tradisco, non gli dico nulla. Trovo una scusa e scappo via. Ecco, come ognuno poteva vivere, a modo suo, l’8 settembre. Incontro Piero, Faramia, Mutisio. Tra un’ora ci ritroveremo a San Bernardo di Cervasca, lontano da Cuneo, al sicuro. Corro a casa, smonto le mie tre armi automatiche, le infilo nello zaino, e in bicicletta raggiungo la cascina Chiari, che diventa la nostra prima base partigiana. L’indomani, con Piero Bellino, raggiungo Valera di Caraglio, dove il materiale abbandonato dalla 4a Armata è moltissimo. Nei campi sono più numerosi i fucili buttati che le margherite. Nascondiamo armi e munizioni. Poi ci spingiamo in Valle Grana. (N. Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 130-134) 14 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO 15 Parigi Soldati tedeschi a Dimensione internazionale La guerra di Hitler: dalla Blitzkrieg a Stalingrado Guerra lampo in Polonia e in Francia I l 1° settembre 1939, le truppe tedesche penetrarono in territorio polacco. Anche se due giorni dopo, il 3 settembre, Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Germania, la campagna militare in Polonia fu di una velocità sorprendente: il 28 settembre Varsavia capitolò, dopo che le forze tedesche ebbero travolto l’esercito polacco mediante l’applicazione della cosiddetta guerra lampo (Blitzkrieg). Si trattava, in pratica, dell’utilizzo combinato delle due nuove armi che resero la seconda guerra mondiale un conflitto radicalmente diverso da quello del 1914-1918: l’aviazione e il carro armato. In un settore del fronte, veniva scatenata una massiccia azione di bombardamento aereo; subito dopo, approfittando del disorientamento provocato dall’aviazione, quel medesimo settore era investito da un violento attacco delle forze corazzate. Considerando che i polacchi non possedevano carri armati e che la maggior parte dei loro aerei fu distrutta al suolo, ben si capiscono le ragioni del repentino successo tedesco. Ma, per cogliere pienamente l’importanza storica della Blitzkrieg, si deve andare al di là dell’ottica strettamente militare e strategica; nel 1939, la Germania non aveva affatto impostato tutta la propria vita economica e sociale in direzione del riarmo e della produzione utile ai fini bellici. Il tenore di vita dei tedeschi e la disponibilità di beni di consumo in Germania erano ancora decisamente elevati, né Hitler poteva permettersi di abbassarli, se voleva mantenere il consenso di una popolazione che era entrata in guerra contro voglia e senza entusiasmo. Infine, la massiccia importazione di materie prime dall’URSS mostrava chiaramente che il Terzo Reich non sarebbe stato in 17 8 settembre grado di sostenere una lunga guerra di logoramento: di qui l’individuazione di una geniale tattica militare, che permettesse di giungere rapidamente alla vittoria e permettesse di abbreviare il più possibile i tempi del conflitto. Il 17 settembre, da est, entrò in Polonia anche l’Armata Rossa, come previsto dal patto di non aggressione russo-tedesco, firmato a Mosca dai due ministri degli esteri Molotov e Ribbentrop il 23 agosto. In Occidente, la guerra divampò veramente solo nella primavera del 1940. Dapprima l’esercito tedesco occupò la Danimarca e la Norvegia, al fine di garantire alla Germania il regolare rifornimento di ferro, proveniente dalla neutrale Svezia, e di possedere buone basi aeree, da cui poter bombardare l’Inghilterra. In maggio, la guerra lampo nazista investì Olanda, Belgio e Francia. Ancora una volta, come l’anno prima in Polonia, risultarono decisive la velocità e la capacità d’urto delle forze corazzate, appoggiate dall’aviazione: aggirato da nord il sistema di fortificazioni denominato Linea Maginot, i tedeschi sfondarono il fronte alleato vicino a Sedan e riuscirono ad isolare le armate nemiche impegnate nella Francia settentrionale. La disfatta anglo-francese, a quel punto, fu totale, e l’unico successo consistette nel fatto che gli inglesi riuscirono ad evacuare dal porto di Dunkuerque 200 mila soldati britannici e 140 mila francesi. Il 14 giugno 1940, le truppe tedesche entrarono trionfalmente a Parigi, dopo di che il governo francese fu costretto a chiedere la resa. La Francia venne divisa in due zone: mentre il nord fu posto sotto il diretto controllo tedesco, a sud fu instaurato un governo conservatore. Guidato dal maresciallo Philippe Pétain (il vincitore di Verdun), il nuovo esecutivo si insediò a Vichy e si dichiarò subito disposto a collaborare con i tedeschi, nella convinzione che essi avessero vinto la guerra. In Germania, l’effetto della fulminea vittoria sulla Francia fu straordinario. Il prestigio di Hitler toccò il suo massimo livello, 18 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO ed anche quegli ambienti militari che avevano ancora delle riserve nei suoi confronti le abbandonarono definitivamente, accettandolo come indiscutibile guida della Germania e del suo popolo. Nessun generale tedesco sarebbe più stato in grado, fino all’estate del 1944, di mettere in discussione le sue direttive. Il 19 luglio, in un discorso al Reichstag, Hitler offrì alla Gran Bretagna la pace; a Londra, tuttavia, il 10 maggio era diventato primo ministro Winston Churchill: consapevole di rappresentare il sentimento comune del popolo inglese, il governo respinse l’offerta hitleriana e si preparò a resistere ad un conflitto che si profilava lungo e difficile. Lo stato maggiore tedesco iniziò a progettare l’invasione della Gran Bretagna: un’operazione che avrebbe potuto avere successo solo se le navi, mentre attraversavano la Manica, non fossero state attaccate dall’aviazione inglese. Così, nel corso dell’estate del 1940, ebbe luogo la cosiddetta battaglia d’Inghilterra, caratterizzata dallo sforzo dei bombardieri tedeschi di mettere fuori uso gli aeroporti inglesi, di acquistare il dominio assoluto dei cieli e, infine, di rendere possibile l’invasione dell’isola. L’aviazione inglese (Royal Air Force), tuttavia, riuscì ad infliggere enormi perdite a quella avversaria, in virtù sia della superiorità tecnica dei propri caccia (gli Spitfire), sia del rivoluzionario utilizzo del radar, che permise di conoscere in anticipo da dove proveniva un attacco nemico e di concentrare in quel settore tutti gli aerei necessari o disponibili. Verso la fine dell’estate e in autunno, i tedeschi cambiarono obiettivo e si concentrarono sulle città inglesi. Tra il 7 settembre e il 13 novembre, Londra fu colpita praticamente ogni giorno e ogni notte. Per l’aviazione tedesca (Luftwaffe), però, mantenere una simile pressione sulla popolazione inglese risultò alla fine impossibile: nel periodo 10 luglio - 31 ottobre, l’aviazione tedesca perse 1733 aerei e 3089 aviatori, a fronte dei 915 velivoli e 503 piloti della RAF. 19 8 settembre HITLER E I GENERALI TEDESCHI, ALLA VIGILIA DELL’INVASIONE DELLA POLONIA I l 22 agosto (quando tutto era ormai pronto per la guerra, in quanto Stalin aveva già annunciato il suo consenso al patto di non aggressione) una cinquantina di alti ufficiali tedeschi fu convocata al Berghof, il rifugio sulle Alpi Bavaresi in cui Hitler amava risiedere quando si allontanava da Berlino. In quell’occasione, il Führer spiegò le ragioni della guerra imminente. I generali erano seduti su file di sedie. Hitler, appoggiato al pianoforte a coda, parlò dando rare occhiate al foglietto di appunti che teneva nella mano sinistra. Non fu redatto alcun verbale. All’uditorio fu detto esplicitamente di non prendere appunti dell’incontro. L’ordine fu ignorato da uno o due dei presenti, tra cui il capo della Abwehr [= il servizio di spionaggio dell’esercito – n.d.r.], ammiraglio Canaris, che annotarono di nascosto i punti principali. Altri, come il capo di stato maggiore colonnello generale Halder e l’ammiraglio generale Boehm, giudicarono quanto udito di tale importanza che più tardi quello stesso giorno si affrettarono a stilarne un sunto. <<Non avevo dubbi sul fatto che un conflitto con la Polonia dovesse arrivare, prima o poi>> esordì il cancelliere. <<Avevo già preso questa decisione in primavera, ma pensavo di volgermi prima contro l’Occidente, e affrontare l’Est in seguito>>. Le circostanze, disse, gli avevano fatto cambiare idea. In primo luogo egli ebbe a sottolineare l’importanza del proprio ruolo in quella situazione. <<Sostanzialmente>> dichiarò senza falsa modestia <<tutto dipende da me, dalla mia esistenza, ed è frutto 20 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO del mio talento politico. A ciò si aggiunga il fatto che forse mai nessun altro potrà vantare quella fiducia che l’intero popolo tedesco ripone in me. È probabile che in futuro non vi sia un altro uomo dotato di un’autorità superiore alla mia. La mia esistenza è pertanto un elemento di enorme valore. Ma in qualsiasi momento io posso scomparire per mano di un criminale o di un pazzo>>. Pose quindi in rilievo il ruolo personale giocato da Mussolini e da Franco, laddove Francia e Inghilterra mancavano di <<personalità ragguardevoli>>. Alle difficoltà economiche della Germania accennò brevemente quale motivo in più per non rinviare l’azione. <<Per noi sono decisioni facili da prendere. Non abbiamo nulla da perdere e tutto da guadagnare. A causa delle nostre restrizioni (Einschränkungen), la situazione economica è tale da non consentirci di resistere più di qualche anno. Göring può darne una conferma. Non abbiamo scelta. Dobbiamo agire>>. Passò in rassegna l’insieme delle forze internazionali, concludendo: <<Tutte queste circostanze favorevoli saranno sparite fra due o tre anni. Nessuno può sapere quanto mi resta da vivere. Dunque, meglio una guerra adesso>>. Proseguiva col suo tipico argomentare. Era meglio testare subito gli armamenti tedeschi. Impossibile tollerare oltre la situazione polacca. Si rischiava un crollo di prestigio. Un intervento occidentale era altamente improbabile. Il rischio c’era, ma il compito dell’uomo politico come dell’uomo d’armi era affrontare il rischio con ferrea determinazione. Così aveva già fatto in passato, in particolare nel recupero della Renania nel 1936, dimostrando sempre di avere ragione. Bisognava correre il rischio. <<Ci troviamo di fronte>> affermò col suo consueto dualismo apocalittico 21 8 settembre <<alla drastica alternativa tra l’attacco o, presto o tardi, un sicuro annientamento>>. Passò quindi a un confronto tra la forza bellica tedesca e quella delle potenze occidentali, per concludere che l’Inghilterra non era in condizione di aiutare la Polonia. Né essa poteva avere interesse alcuno in un conflitto prolungato. Le speranze dell’Occidente erano state riposte nell’inimicizia tra Russia e Germania. <<Il nemico non ha fatto i conti con la mia grande forza di volontà>> esclamò gloriosamente. <<I nostri nemici sono vermiciattoli (Kleine Würmchen). Li ho visti a Monaco>>. Il patto con la Russia sarebbe stato firmato di lì a due giorni. <<Ora la Polonia è nella posizione in cui la volevo>>. Non v’erano da temere resistenze. […] L’intervento si chiudeva infine con una sintesi della sua filosofia: <<Ai vincitori nessuno viene a chiedere se avevano detto la verità oppure no. Quando si intraprende una guerra non è la ragione che conta, ma la vittoria. Chiudete i vostri cuori alla pietà. Agite brutalmente. Ottanta milioni di persone devono ottenere ciò che loro spetta di diritto. La loro esistenza va tutelata e resa sicura. La ragione è del più forte. Dunque, massima severità>>. Le reazioni dell’uditorio furono contrastanti. A tre mesi circa dalla riunione, il generale Liebmann, che non poteva dirsi un ammiratore di Hitler, ricordava le proprie sensazioni. Se pure dal cancelliere gli era capitato di udire alcuni discorsi efficaci, scriveva, questo mancava completamente di lucidità e di senso critico. <<Il suo tono tronfio e chiassoso era semplicemente ributtante. Sembravano le parole di un uomo privo di ogni senso di responsabilità, che non avesse più un’idea precisa di cosa significasse una guerra vittoriosa e deciso con arbitrarietà inaudita al salto nel buio>>. A 22 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO giudicare dalle facce cupe e dai palesi malumori, molti dei presenti dovevano a suo avviso pensarla allo stesso modo. Può darsi che fosse così. Ma se i generali non fecero plauso alle parole di Hitler, è vero anche che non sollevarono alcuna obiezione. In linea di massima, lo stato d’animo era improntato a fatalismo e rassegnazione. (I. Kershaw, Hitler 1936-1945, Milano, Bompiani, 2001, pp. 322-325. Traduzione di A. Catania) LA GUERRA-LAMPO IN POLONIA L ’ambasciatore francese a Varsavia Léon Nöel si rese subito conto delle novità tattiche introdotte dai tedeschi nella campagna militare del settembre 1939. Su scala ancora maggiore, l’impiego combinato di aviazione e carri armati fu ripetuto dai tedeschi nell’attacco contro la Francia (maggio 1940) e poi nell’aggressione contro l’URSS (giugno 1941). L’attacco tedesco è stato sferrato ed è condotto dallo stato maggiore tedesco con ritmo fulminante, con una minuzia ed una maestria nei preparativi, una perfezione nell’esecuzione, una celerità nei risultati che, sin dalle prime ore, hanno posto nella situazione più delicata le armate polacche, colte di sorpresa in piena concentrazione delle loro forze e nel giorno stesso della mobilitazione generale. La Wehrmacht e la Luftwaffe hanno applicato metodi nuovi che hanno provocato quasi immediatamente la disorganizzazione contemporanea dell’esercito e del paese nemico. Effettuando 23 8 settembre continui bombardamenti su tutto il territorio polacco, l’aviazione tedesca ha ostacolato tanto il vettovagliamento ed i trasporti delle truppe quanto la trasmissione degli ordini provenienti da stati maggiori che essa inseguiva di quartier generale in quartier generale. Non più assalti di fanteria preparati da tiri di artiglieria come durante l’altra guerra. Gli attacchi sono effettuati da divisioni blindate, da carri armati che si muovono in massa, seguiti da auto-mitragliatrici e sostenuti da aerei che mitragliano e bombardano le truppe polacche a bassa quota; alla fanteria, trasportata per lo più in camion e in motocicletta, non resta che il compito di occupare il territorio conquistato. […] All’atto in cui entrano in guerra prima la Gran Bretagna e poi la Francia [ 3 settembre 1939 – n.d.r.], sono passate poco più di quarantotto ore dall’inizio della campagna polacca, e già le armate polacche sono disciolte, le divisioni disorientate e divise le une dalle altre, mente le Panzerdivisionen [= le forze corazzate tedesche, composte da centinaia di carri armati, detti Panzer - n.d.r.] proseguono senza sosta la loro avanzata ed invadono il paese a nord, a nord-ovest, penetrando dalla Prussia orientale, a sud-ovest attraverso la Slesia e, a sud, provenendo dalla Boemia-Moravia e dalla Slovacchia. Invano l’aviazione e l’esercito polacchi manifestano un’energia ed un coraggio degni delle più belle pagine della storia della Polonia. Invano, su apparecchi di livello molto inferiore a quelli tedeschi, gli aviatori compiono le imprese più straordinarie arrivando a schiantarsi sui loro nemici quando hanno esaurito le munizioni. Invano hanno abbattuto, il 1° settembre, 16 aerei nemici e, nei due giorni successivi, un numero maggiore. Anche loro subiscono 24 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO perdite assai gravi che ben presto renderanno impotente l’aviazione polacca. L’esercito dà prova di un magnifico spirito di abnegazione e si batte con accanimento, senza riuscire a ritardare sensibilmente la marcia della formidabile macchina bellica tedesca che continua ad avanzare, come mossa da un potente congegno ad orologeria. (E. Collotti, La seconda guerra mondiale, Torino, Loescher, 1985, pp. 55-56) IL DRAMMA DEI PROFUGHI NEL GIUGNO 1940 N ella primavera del 1940, lo scrittore Arthur Koestler si trovava in Francia con un’amica. In queste pagine descrive il caos che colpì l’intero paese, al momento della disfatta militare. Limoges era su di una delle vie principali lungo le quali la corrente dei profughi scendeva da nord verso sud. I miei ricordi di quegli ultimi giorni in Francia sono principalmente di natura acustica: la incessante sinfonia polifonica dei clacson delle auto, il ruggito e il ronzio dei motori, il frastuono dei mezzi di trasporto pesanti sulla strada principale, il rantolo asmatico delle vecchie Citroën, il nitrito dei cavalli e i pianti dei bambini esausti, a mano a mano che la caotica corrente fluiva attraverso la città nella sua corsa senza scopo. Senza interruzione, tutto il giorno e tutta 25 8 settembre la notte, le divisioni meccanizzate della disfatta sfilavano e la gente nelle strade le contemplava; alcuni impietositi, altri con ostile disprezzo, altri con occhi ansiosamente pensierosi, chiedendosi quando sarebbe venuto il loro turno di unirsi alla Grande Migrazione verso sud. Perché avevano osservato la corrente ingrossarsi sin dai primi giorni, quando non era più di un rivolo con le sorgenti che si perdevano lontano a nord, in Olanda e in Belgio, e le macchine portavano ancora targhe straniere; poi nei giorni di Sedan [la zona in cui l’esercito tedesco sfondò il fronte francese, il 12-13 maggio 1940 – n.d.r.] s’era improvvisamente ingrossata e sulle targhe erano apparsi i segni delle province francesi, M per Département du Nord, N per il Pas de Calais; e sempre più e più vicino, X per Somme, Y per Seine-et-Oise, finché fecero la loro comparsa i primi autobus verdi di Parigi e per alcuni giorni nove targhe su dieci portavano la fatale R della capitale; poi perfino la R sparì e nuove fonti della corrente si aprirono in Bretagna e sulla Loira. Le targhe sulle automobili raccontavano la tremenda storia del rullo compressore che scendeva sulla Francia e svelavano la verità che i comunicati ufficiali cercavano ancora di nascondere. G. [la giovane compagna di Koestler – n.d.r.] ed io sedevamo nella terrasse del Café de l’Orient, di fronte alla place de la Mairie, dove passava la corrente principale. Per lo più pioveva e i materassi in cima alle automobili s’inzuppavano d’acqua. [...] Era un’ironia del destino particolarmente sadica aver mutato il popolo più piccolo borghese, meticoloso, sedentario in una nazione di girovaghi. Dieci milioni di francesi che si muovevano senza scopo lungo le strade con i loro materassi e tegami, che congestionavano tutte le vie di comunicazione, che paralizzavano ogni rapido 26 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO movimento militare, che coprivano come uno spesso torrente di fango quel che rimaneva della nazione, finché l’ultimo barlume di vita si spense. [...] Era come se tutti gli esemplari della fauna meccanica, qualunque veicolo potesse muoversi e puzzare su quattro ruote fuggisse dal diluvio. [...] E tutto nell’interno traboccava fino all’ultimo centimetro quadrato di un misto di vecchi, ragazze, nonne, bambini, tegami, gabbie d’uccelli, macchine da cucire, casse, balle, panieri, culle, biciclette, orologi a cucù, pani, latte di benzina, gomme di scorta, grammofoni, fisarmoniche, bottiglie di vino, cani e gatti – tutto stufato insieme come in una specie di gulasch surrealista. (A. Koestler, Schiuma della terra, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 150-152. Traduzione di N. Conenna) 27 8 settembre L’invasione dell’URSS N el settembre del 1940 Hitler rinunciò definitivamente al progetto di invadere la Gran Bretagna; d’altro canto, fin dall’estate aveva progettato di procedere contro l’URSS, visto che, con la sconfitta della Francia, si era verificata quella situazione di sicurezza alle spalle da lui considerata, nel Mein Kampf, come essenziale per la riuscita della guerra contro la Russia. La speranza del Führer era di poter sconfiggere l’URSS con una nuova guerra lampo, che avrebbe dovuto respingere l’esercito russo fino agli Urali prima dell’inverno. A questa valutazione ottimistica della situazione, il dittatore tedesco fu mosso dalle pesanti epurazioni condotte da Stalin fra i generali negli anni 1937-38. Un altro elemento decisivo, che spinse Hitler a sottovalutare le capacità sovietiche di opporre una valida resistenza all’attacco tedesco, fu la sua concezione razzista: nell’immaginario hitleriano, l’URSS era comandata da una banda di bolscevichi ebrei, capaci solo di disgregare e decomporre le energie vitali di un popolo, e non certo di costruire una solida e potente entità statale. Dunque, contro gli slavi (considerati da Hitler come sottouomini) e contro i loro dirigenti ebraici, le forze della Germania avrebbero sicuramente trionfato, secondo il Führer, in un breve lasso di tempo. Questa concezione razzista è alla base anche della particolare brutalità che caratterizzò la guerra ad Oriente. Nella primavera del 1941, a più riprese il Comando supremo tedesco ricevette precise istruzioni relative al fatto che l’esercito sarebbe stato accompagnato da speciali reparti di SS, incaricati di eliminare la classe dirigente sovietica: il che, nel giro di breve tempo, provocò l’esecuzione di tutti gli ebrei che si trovavano in territorio sovietico. Da parte loro, il 6 giugno, gli alti comandi militari emanarono un ordine (denominato Kommissarbefehl) in base al quale dovevano essere giustiziati sommariamente tutti i com- 28 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO missari politici e i funzionari comunisti che fossero stati catturati. Nel solo territorio di competenza del gruppo d’armate Centro, la Wehrmacht fucilò da 3 a 5.000 commissari politici, mentre le SS, nella stessa area, ne eliminarono circa 10.000. Tale comportamento era del tutto coerente con il fine ultimo della campagna d’Oriente: la conquista dello spazio vitale (Lebensraum) per il popolo tedesco, lo sfruttamento coloniale delle risorse russe e la trasformazione della sua popolazione in un’informe moltitudine di schiavi al servizio dei conquistatori. In tempi più brevi, però, il ragionamento di Hitler era dettato anche da motivazioni tattiche. Nei suoi progetti, la rapida conquista dell’URSS avrebbe dovuto indurre la Gran Bretagna ad una pace di compromesso con la Germania, ormai diventata nuova potenza egemone sul continente europeo. In alternativa, nel caso in cui Churchill si ostinasse a proseguire la guerra ad oltranza, le immense riserve agrarie e minerarie russe avrebbero finalmente fornito al Terzo Reich le risorse alimentari e le materie prime per combattere una lunga guerra di logoramento. Denominata in codice Operazione Barbarossa, l’offensiva iniziò il 22 giugno 1941, cogliendo completamente di sorpresa Stalin, che fino all’ultimo aveva prestato fede al patto di non aggressione e creduto che Hitler non avrebbe attaccato. In un primo momento, l’attacco tedesco registrò un successo clamoroso. Alla fine dell’estate 1941, il numero di prigionieri sovietici aveva sicuramente raggiunto la cifra di 3 milioni (circa mezzo milione di essi fu costretto ad arrendersi al momento della conquista di Kiev, il 19 settembre). Nel maggio 1942, quando i tedeschi ripresero l’offensiva, altri 239.000 prigionieri furono catturati nei pressi di Kharkov, in Ucraina. Alla fine del conflitto, il numero globale di soldati sovietici caduti in mani tedesche toccò la quota di 5,7 milioni. In un primo tempo, le loro condizioni di detenzione furono terribili: non a caso, si calcola che almeno 3.300.000 di essi siano periti di stenti o vittime di esecuzioni sommarie. I nazisti 29 8 settembre presero come pretesto il fatto che l’URSS non aveva firmato la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. In realtà, la motivazione vera della violenza nazista verso i sovietici era di natura ideologica: il disprezzo razzista contro i sottouomini slavi si mescolava con l’odio per il nemico bolscevico. Alla metà di settembre, l’esercito di Hitler era riuscito ad avanzare in territorio russo per una profondità di 800 chilometri, conquistando un territorio che - più vasto dell’intera Germania - garantiva prima della guerra all’URSS il 36% della sua produzione di grano, il 60% di quella di ferro e di acciaio, il 55% di quella del carbone. Eppure, malgrado tutti questi successi, nessuno dei grandi obiettivi che la Germania si era proposta di conseguire in tempi brevi era stato raggiunto. A nord Leningrado - per quanto assediata e affamata (al punto che più di un terzo dei suoi tre milioni di abitanti morì per denutrizione, tra il 1941 e il 1944) non capitolò, mentre a sud la conquista dell’Ucraina (con le sue miniere e le sue acciaierie) non si rivelò così decisiva come si era sperato. Negli anni Trenta, il regime sovietico aveva provveduto a creare una nuova regione industriale negli Urali; pertanto, la perdita dell’Ucraina (e del suo grano) provocò senza dubbio gravi problemi per il rifornimento alimentare delle città russe, ma non significò affatto il collasso dell’industria bellica sovietica, che al contrario, dal 1942, fu in grado di produrre mensilmente 2.000 carri armati e 3.000 aeroplani. Quanto al settore centrale del fronte (quello che avrebbe dovuto comprendere, in teoria, anche la conquista di Mosca), l’esercito tedesco subì una prima battuta d’arresto fin dalla metà di luglio, nella regione di Smolensk. Le truppe di Hitler arrivarono poi, in novembre, fino ai sobborghi di Mosca; ma il 5 dicembre, quando già l’inverno russo infieriva e causava terribili problemi ai soldati tedeschi, l’Armata Rossa contrattaccò davanti alla capitale, provocando la definitiva cessazione della guerra lampo e la sua trasformazione in una micidiale guerra di logoramento. 30 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO LA GUERRA AD ORIENTE NELLA CONCEZIONE DI HITLER L a guerra contro l’URSS fu concepita da Hitler come uno scontro che avrebbe aperto una nuova fase nella storia della Germania. Il suo obiettivo era lo sfruttamento coloniale degli immensi spazi russi e la trasformazione della popolazione slava in una massa di schiavi al servizio della razza ariana, considerata superiore. Hitler non solo puntava all’eliminazione militare della grande potenza avversaria - come aveva fatto nella campagna contro la Francia -, ma intendeva preparare sulle ceneri dell’Unione Sovietica la costruzione dell’Impero orientale germanico cui aveva sempre mirato, con tutte le conseguenze che discendevano dal suo dogma razziale. [...] Le affermazioni fatte da Hitler in ambienti ristretti negli ultimi mesi prima dell’inizio dell’aggressione permettono di provare la continuità dei suoi vecchi obiettivi programmatici, e le direttive segrete impartite alla stampa tedesca sollecitavano la riproposizione dell’immagine del nemico che era stata costantemente evocata fino alla svolta del 1938-39 e che era quella del bolscevismo giudaico. Quattro erano gli obiettivi che si intrecciavano l’un l’altro nella concezione della guerra ad oriente di Hitler. 1. Lo sterminio della classe dirigente giudaico-bolscevica dell’Unione Sovietica, inclusa la sua presunta radice biologica costituita dai milioni di ebrei dell’Europa centroorientale. 2. La conquista di uno spazio coloniale per insediamenti tedeschi nelle zone della Russia ritenute più fertili. 31 8 settembre 3. La decimazione delle popolazioni slave e la loro sottomissione al dominio tedesco nei quattro Commissariati del Reich di Ostland (Russia Bianca, Lituania, Lettonia, Estonia), Ucraina, Moscovia, Caucasia, retti da vicerè tedeschi, secondo l’espressione che Hitler coniò guardando al suo ideale di dominio coloniale, ossia al ruolo della Gran Bretagna in India. I compiti principali affidati a questi Commissariati del Reich (di cui per altro furono istituiti solo i primi due a causa degli sviluppi della guerra nel 1941, del tutto opposti al programma) consistevano nell’estirpare dalle masse slave qualsiasi ricordo del grande Stato russo e di ridurre queste stesse masse in una condizione di ottusa e cieca obbedienza nei confronti dei nuovi padroni. 4. La realizzazione dell’autarchia in una grande area dell’Europa continentale sottoposta al dominio tedesco e a prova di blocco, rispetto alla quale i territori conquistati all’est avrebbero dovuto rappresentare il serbatoio presumibilmente inesauribile di materie prime e di derrate alimentari. Sembrava questo il presupposto indispensabile affinché il Reich hitleriano potesse sostenere una guerra contro le potenze marittime anglo-americane ed essere in grado nel futuro di affrontare qualsiasi eventuale nuova guerra mondiale. Nelle linee direttive destinate allo Stato maggiore per l’economia nei territori orientali, fissate il 2 maggio 1941, era già previsto che la sola intenzione di rifornire le forze armate tedesche sfruttando esclusivamente la Russia avrebbe comportato la <<morte per fame di parecchi milioni di persone>>. Mentre nella fase precedente l’attacco all’Unione Sovietica, e anche in Polonia nel 1939, i compiti dell’esercito e delle SS erano stati tutto sommato ancora relativamente separati in 32 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO modo molto netto, e quindi l’esercito aveva sempre condotto la guerra contro i suoi avversari, soprattutto contro le potenze occidentali, rispettando le regole della Convenzione dell’Aia in materia di guerra terrestre, nella guerra contro l’Unione Sovietica, Hitler invalidò a suo completo arbitrio questi ed altri principi del diritto internazionale già prima di dare inizio all’attacco. La sua perseveranza nel cancellare la linea divisoria, fino a quel momento rispettata, tra SS ed esercito, e nel trasformare quest’ultimo in uno strumento diretto della sua guerra ideologico-razziale ad oriente, derivava dalle parole chiare ed inequivocabili che egli aveva pronunciato il 30 marzo 1941 dinanzi a 200-250 comandanti generali e ufficiali superiori, i quali le avevano accolte, in parte positivamente, in parte con riserva: <<Lotta tra due opposte concezioni del mondo. Giudizio distruttivo sul bolscevismo. Equiparato a criminalità sociale. Comunismo, pericolo enorme per il futuro. Si tratta di una lotta di annientamento. Se non la concepiamo così, colpiremo magari il nemico, ma entro trent’anni ci ritroveremo di fronte un nemico comunista. Commissari e adepti della GPU [Direzione Politica di Stato] [= la polizia segreta sovietica - n.d.r.] sono criminali e così vanno trattati. La lotta sarà assai diversa da quella ad occidente. Ad oriente bisogna essere spietati oggi per poter essere indulgenti nel futuro>>. (A. Hillgruber, Storia della seconda guerra mondiale. Obiettivi di guerra e strategia delle grandi potenze, Roma-Bari, Laterza, 198, pp. 78-80. La citazione tra virgolette è tratta dagli appunti del generale Halder) 33 8 settembre ANTISEMITISMO E DISPREZZO RAZZISTA VERSO I RUSSI, TRA I GENERALI TEDESCHI N on tutti i generali tedeschi erano dei nazisti fanatici. Tuttavia, molti di loro condividevano con Hitler un profondo disprezzo per gli ebrei, per i russi e per il comunismo. Pertanto, da parte dei militari, non emerse mai alcuna vera opposizione di principio all’impostazione propriamente nazista del conflitto ad Oriente, concepito come guerra di annientamento del nemico, col quale non era possibile alcun accordo. Dalle Linee-guida sul comportamento delle truppe in Russia (documento emanato dallo Stato maggiore nel maggio 1941). <<La lotta richiede iniziative energiche e spietate contro agitatori bolscevichi, guerriglieri sabotatori ed ebrei, e la completa eliminazione di ogni resistenza attiva e passiva. I membri dell’Armata Rossa – prigionieri compresi – devono essere trattati con estremo riserbo e massima cautela, dovendosi fare i conti con tecniche di lotta particolarmente subdole. In particolare, i militari dell’Armata Rossa di origine asiatica hanno una mentalità contorta e sono astuti e privi di sentimenti>>. Direttive emanate dal generale Erich Hoepner, il 2 maggio 1941. <<La guerra alla Russia è un capitolo importante della lotta per l’esistenza della nazione germanica. È l’antica battaglia tra popoli germanici e slavi, per la difesa della cultura europea dall’inondazione asiatico-moscovita e il ripudio del bolscevismo ebraico. Il fine di questa battaglia dev’essere la distruzione dell’odierna Russia, ed essa va quindi combattuta con severità senza precedenti. Ogni operazione bellica 34 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO dev’essere guidata, nella pianificazione e nell’esecuzione, dalla ferrea volontà di sterminare il nemico spietatamente e totalmente. In particolare, non si dovrà risparmiare nessun aderente all’attuale sistema russo-bolscevico>>. Direttive emanate alle truppe dal generale Hermann Hoth, nel novembre 1941. <<Ogni segno di resistenza attiva o passiva e ogni sorta di macchinazione da parte degli agitatori ebraico-bolscevichi dev’essere represso subito e senza misericordia… Questi ambienti sono sostenitori del bolscevismo, fautori delle sue organizzazioni criminali, complici dei partigiani. Si tratta degli stessi ambienti ebraici che tanto hanno danneggiato la nostra patria con le loro attività contro la nazione e la civiltà, che in tutto il mondo si fanno promotori di tendenze antitedesche, e che per primi incorreranno nella giusta punizione. Il loro sterminio è una condizione della nostra stessa sopravvivenza>>. (M. Burleigh, Il Terzo Reich, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 580581. Traduzione di C. Capararo, S. Galli, M. Mendolicchio) LE DIRETTIVE DEL FELDMARESCIALLO VON REICHENAU P robabilmente, il feldmaresciallo Walter von Reichenau fu l’alto ufficiale tedesco ideologicamente più compromesso con il regime nazista. La sua direttiva emanata il 10 ottobre 1941, indirizzata alla VI Armata (operante in Ucraina), mostra che il generale condivideva al cento per cento la politica di sterminio che, a quell’epoca, aveva assunto i propri contorni più netti e 35 8 settembre spietati. Un documento datato 13 novembre 1941 mostra che Hitler lesse e approvò personalmente la direttiva di Reichenau. Vi sono ancora molte idee oscure sulla condotta dell’esercito nei confronti del sistema bolscevico. Lo scopo essenziale della campagna contro il sistema giudaico-bolscevico è la distruzione completa della potenza e lo sterminio dell’influenza asiatica nell’area culturale europea. In rapporto a questo si presentano anche per i militari compiti che vanno oltre la concezione tradizionale e unilaterale che abbiamo del soldato. Nello spazio orientale il soldato non è solo il combattente secondo le regole dell’arte militare, ma anche il portatore dell’imprescindibile idea di popolo e il vendicatore di tutti gli atti bestiali commessi contro il popolo tedesco e i popoli ad esso apparentati. Il soldato deve pertanto comprendere appieno la necessità di una dura ma giusta espiazione da parte della subumanità ebraica. Inoltre deve mirare a stroncare sul nascere eventuali rivolte dietro le linee del fronte della Wehrmacht, che, stando all’esperienza, sono sempre fomentate da ebrei. […] Indipendentemente da qualsiasi considerazione politica sul futuro, il soldato deve svolgere un duplice compito: 1) Annientare l’eresia bolscevica, lo stato sovietico e le sue forze armate. 2) Sterminare senza pietà le insidie e le crudeltà delle specie straniere e in tal modo garantire la sicurezza della Wehrmacht tedesca in Russia. Solo in questo modo assolveremo al compito storico di liberare una volta per tutte il popolo tedesco dal pericolo dell’ebraismo asiatico. (M. Weinreich, I professori di Hitler. Il ruolo dell’Università nei crimini contro gli ebrei, Milano, Il Saggiatore, 2003, pp. 165166. Traduzione di C. Salmaggi) 36 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO I SOLDATI TEDESCHI SUL FRONTE ORIENTALE N on è facile valutare il grado di allineamento ideologico dei soldati comuni (inquadrati nell’esercito, la Wehrmacht, non nelle SS), in quanto le fonti a volte sono di difficile lettura e contraddittorie. Nei diari e nella corrispondenza, affermazioni tipicamente naziste sono associate ad altre espressioni, di segno opposto, che denotano scarso interesse per la guerra e la vittoria finale. Nei primi sei mesi di combattimenti, le forze dell’Asse [= l’alleanza tra Itala fascista e Germania nazista – n.d.r.] persero 750.000 uomini, saliti a un milione nel marzo 1942; di questi, 250.000 erano morti dispersi. I soldati del reggimento d’assalto Gross Deutschland cominciarono la campagna di Russia in 6.000; alla fine del 1941, le perdite erano pari a 4.070 unità; nel febbraio 1942, quello che restava del reggimento erano tre ufficiali e 30 soldati. Nel dicembre 1941, gli effettivi della 6a e 7a divisione corazzata erano ridotti rispettivamente a 180 e 200 uomini, mentre la 18a divisione corazzata consisteva in quattro battaglioni di fanteria. Perdite così elevate significavano che i reparti si riducevano a raggruppamenti di estranei messi insieme solo per fare numero, senza nemmeno l’ombra dei forti legami regionali e sociali che di solito cementano un’unità combattente. Di fronte all’evidente superiorità dell’avversario in uomini, mezzi e comandanti, le forze dell’Asse erano tenute insieme solo da una disciplina ferrea, che puniva anche infrazioni di poco conto – per non parlare della diserzione, del panico o dell’automutilazione – col plotone di 37 8 settembre esecuzione. Circa 15.000 uomini furono condannati a morte dalle Corti marziali sul fronte orientale, mentre centinaia di migliaia furono destinati ai battaglioni di punizione o imprigionati. […] Il problema, nel collegare questi fattori generali con le atrocità razziali, è che le seconde furono pianificate in anticipo, e cominciarono non appena soldati e reparti di polizia tedeschi ebbero varcato il confine. È quindi impossibile attribuirle esclusivamente al deterioramento e all’imbarbarimento del conflitto, che si verificarono in un secondo tempo. La licenza di comportarsi a piacimento col nemico fece in qualche modo da contrappeso alla draconiana disciplina imposta alla Wehrmacht. Nella forma più banale, le truppe tedesche misero in atto tecniche di sopravvivenza quotidiana rubando alimenti, bestiame e animali da tiro, il contenuto di interi vagoni merci, abiti pesanti e calzature di feltro, incuranti dei danni così arrecati ai civili. Si giunse a togliere la paglia dai tetti delle casupole contadine per nutrire gli animali da tiro. Inoltre i soldati saccheggiavano le abitazioni senza alcun ritegno, come risulta evidente da un rapporto del novembre 1941 dall’area arretrata 582: <<Gli oggetti rubati includono, per esempio, sciarpe, federe, tovaglie, asciugamani, calzoni, tendaggi, giacche, capi di abbigliamento di ogni genere, arredi funerari, scarpe da donna e da bambino, biancheria intima femminile, eccetera>>. In alcuni casi il valore non di uso, ma pecuniario, della refurtiva fa pensare all’esistenza di qualche forma di criminalità organizzata. Così verso la fine del 1941, a Witebsk, scomparvero 118 capi di bestiame, 15 tonnellate di sale, e un milione di fogli di compensato. In altre località i militari vandalizzarono impianti e macchinari, 38 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO o distrussero risorse ittiche in tal misura, dandosi alla pesca con le bombe a mano, da potersi parlare di autentiche forme di delinquenza. E come sempre, qualunque resistenza della gente del posto era soffocata nel sangue. La brutalità militare era anche influenzata dal condizionamento subito dai soldati, cresciuti sotto il nazismo ed esposti al supplemento di ideologia dell’addestramento. Anche se bisogna andare cauti nel discutere di un così enorme numero di uomini diversi per origini, età e convinzioni politiche e religiose, ci sarebbe da stupirsi se molti di loro non avessero creduto ardentemente nel Volk, nella patria e nel Führer, nel naturale diritto dei tedeschi di conquistare e signoreggiare, o nell’inferiorità culturale e razziale degli altri popoli. […] Non è difficile trovare tracce della mentalità da razza superiore nel comune soldato tedesco, specialmente se si guardano le semiufficiali raccolte di frasi e opinioni compilate dai nazisti. Ma simili opere di natura propagandistica miravano a dimostrare che le forze armate condividevano le idee del Führer. Così le raccolte di corrispondenza dal fronte – se di questo veramente si trattava – appaiono straordinariamente imbevute di razzismo, come questa lettera di un soldato semplice datata agosto 1941: <<Cosa sarebbe stato della nostra colta Europa se questi figli della steppa, avvelenati ed ebbri di idee distruttive, questi esseri subumani dalle menti plagiate, avessero invaso la nostra bella Germania? Ringraziamo sempre con amore e lealtà il nostro Führer, salvatore della patria e figura storica>>. O questa, di un soldato scelto: <<Solo un ebreo può essere bolscevico, per simili sanguisughe non si può immaginare sorte migliore… Dovunque uno sputi, salta fuori un ebreo… Per quanto ne so, non un solo ebreo ha 39 8 settembre mai lavorato nel paradiso dei lavoratori; tutti, anche l’ebreo più misero, hanno un posto [nell’apparato], ovviamente con privilegi più o meno grandi>>. L’odio razzista tipicamente nazionalsocialista di cui simile corrispondenza è imbevuta, e la sua uniformità, danno da pensare o almeno fanno desiderare di consultare gli archivi degli editori, per cercare di capire se siano autentiche o ritoccate. Lettere ritrovate di recente a Mosca, provenienti da uffici postali della Russia occupata, poi ripresi dall’Armata Rossa, hanno un tono diverso, molto più personale; il tono di uomini che in un bunker, a lume di candela, affidano alla carta pensieri sui famigliari o sulla morte sempre incombente. La stragrande maggioranza di queste lettere, molte messe insieme con fatica da soldati per i quali ortografia, grammatica ed espressione verbale delle mozioni erano attività inconsuete, rivela inoltre la preoccupazione di cosa succedesse a casa. I loro autori non si soffermano né sugli ebrei né sui civili russi; vogliono notizie dei parenti, delle mogli, delle fidanzate, dei fratelli e delle sorelle, e ricostruiscono con la fantasia quello che hanno perduto, alcuni temporaneamente, molti per sempre. Se accennano alla guerra è per descrivere fatiche e privazioni: le marce, i digiuni, le notti all’addiaccio o in ripari miseri e malsani, l’impossibilità di lavarsi e conservare il decoro personale. Si attengono a quello che li attanaglia al ventre o alle gambe. In queste descrizioni il nemico non ha molto spazio, se non in quanto temuta parentesi di paura che s’intromette nella continua ricerca di cibo e calore. […] Col deteriorarsi della situazione al fronte, il sentimento predominante era il desiderio di tornare a casa vivi. Come Herbert, un altro soldato, scrisse ai genitori nel gennaio 1943: <<Sarò felice 40 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO se non dovrò mai più rivedere questa dannatissima Russia, perché col tempo è capace di distruggere chiunque. Come quasi tutti i miei commilitoni, ho un solo desiderio: tirarmi fuori da questo paradiso dei lavoratori e non rivederlo né sentirne parlare mai più. Vogliamo tutti una cosa sola: pace e tranquillità e cibo a sufficienza, e tutto il resto che vada a farsi fottere>>. (M. Burleigh, Il Terzo Reich, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 584589. Traduzione di C. Capararo, S. Galli, M. Mendolicchio) IL DISCORSO DI STALIN DEL 3 LUGLIO 1941 L ’invasione tedesca dell’Urss iniziò il 22 giugno 1941. Per quasi due settimane, Stalin restò in silenzio totale. Forse, era convinto che l’offensiva nazista avrebbe travolto l’Armata Rossa e sarebbe arrivata fino a Mosca. Il leader che si fece udire il 3 luglio era un uomo provato e insolitamente affaticato. Forse, in quell’occasione, Stalin superò la soglia che nessun leader carismatico, neppure il più democratico e aperto alle masse, può superare, pena la perdita di fiducia in lui e la trasformazione in soggetto debole. Di qui il suo sforzo, nel corso della guerra e dopo la vittoria, di assumere atteggiamenti più solenni e marziali, di quelli tenuti in precedenza. Fu la radio a portare in tutto (o quasi tutto) il paese le parole accorate e insolitamente informali del compagno Stalin il 3 luglio 1941. Radio Mosca era diffusa su un ampio territorio, ma molte zone periferiche erano ancora servite da stazioni locali. Fuori delle grandi città il possesso di apparecchi 41 8 settembre procapite era basso, ma l’ascolto collettivo in posti di lavoro e circoli ricreativi era consueto. Nei primi giorni di guerra fu ordinato che tutti gli apparecchi privati venissero consegnati alle autorità; l’unica modalità di ascolto restava la rete di radiodiffusione via cavo, collegata ad altoparlanti sistemati nelle strade e apparecchi riproduttori nelle case. Anche per questo il testo del discorso, pronunciato dopo due enigmatiche e misteriose settimane di silenzio da parte del leader in seguito all’invasione tedesca del 22 giugno, fu diffuso anche a mezzo stampa, proprio perché più capillarmente potesse raggiungere angoli e zone sperdute del paese. La guerra segnò una svolta importante nel mezzo di comunicazione radiofonico: regole, tempi e abitudini censorie, dopo una prima frenata all’efficienza del servizio d’informazione stesso, dovettero essere riviste e adattate allo stato di emergenza. […] Il paese fu colto impreparato dalla furia espansionistica tedesca: <<Ci potrà essere chi si chiede: come è potuto succedere che il Governo Sovietico abbia concluso un patto di non aggressione con gente tanto fedifraga e tirannica come Hitler e Ribbentrop? Non è che l’Unione Sovietica ha commesso un errore?>>. Dovette retoricamente domandare Stalin alla nazione dai microfoni di Radio Mosca un paio di settimane dopo l’invasione. La sua risposta, altrettanto retorica, non poté che essere: <<Certamente no!>>. Ma assieme al tono, al lessico e al registro utilizzato nel breve discorso, anche dichiarazioni come questa sarebbero passate alla storia per la loro anomalia. […] Affrontata la situazione internazionale, Stalin sarebbe passato al punto più emotivamente coinvolgente: l’appello al popolo per chiedere solidarietà e abnegazione totali. Ma per 42 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO capirne la portata e l’impatto su chi lo ascoltava è necessario tornare all’attacco del suo discorso: a quel <<Fratelli e sorelle!>> messo quasi di sfuggita tra i più consueti e scontati appellativi: <<Compagni! Cittadini! Combattenti del nostro esercito e della nostra flotta!>>. E poi, con tono familiare e domestico, pur restando ben conscio della propria posizione e dell’effetto che un tale atteggiamento avrebbe suscitato, il tocco finale nell’apertura: <<Sono io che mi rivolgo a voi, amici miei!>>. Pronunciò parole inusitate: <<Amici miei! Fratelli e sorelle!>>, rimandando a una situazione di rapporto non politico ma familiare, non però della scontata grande famiglia da cartolina di Stalinland. Questa volta c’è da credere che gli accenti intimi e amichevoli mirassero altrove. <<Fratelli e sorelle>>, con lessico e tono che, nonostante gli anni passati, tutti avrebbero riconosciuto essere quelli della vecchia chiesa ortodossa, della tradizione russa contadina. <<Fratelli e sorelle>>, ostentando una vicinanza, una confidenza che lasciava trapelare imbarazzo, insicurezza e paura, esplicitate dalle pause per bere, nonostante la brevità dell’intervento. Tutto tra le righe, difficile da cogliere per quanto inatteso e improbabile. Pressoché inaccettabile da parte degli ascoltatori, del popolo, ma reale e inedito. Così evocato, negli anni tra il 1955 e il 1959 (in piena destalinizzazione), da Konstantin Simonov nel romanzo I vivi e i morti: <<L’altoparlante era appeso nel corridoio, accanto al tavolino dell’infermiere di turno. Lo accesero al massimo volume e spalancarono le porte delle corsie. Stalin parlava con voce monotona e lenta, con un forte accento georgiano. Una volta, durante il discorso, si poté sentire il rumore di un 43 8 settembre bicchiere da cui beveva acqua. La voce di Stalin era bassa di tono e di volume; sarebbe potuto sembrare perfettamente calmo se non fosse stato per quel suo respiro pesante e affaticato e per quell’acqua che si era messo a bere durante il discorso. Ma, per quanto fosse agitato, l’intonazione del suo discorso restava uniforme, la voce sorda risuonava senza alti e bassi, né punti esclamativi>>. Jurij Lotman noterà che nel periodo bellico e anche dopo la guerra, nonostante la vittoria, ma proprio a causa di queste insicurezze e timori, Stalin muterà anche il proprio abbigliamento. Passerà dalla sobrietà della casacca militare di chi sta a guardare gli altri, sicuro del proprio potere e della propria forza, alla necessità del culto della personalità, sostenuta dalla solennità di una divisa, necessaria a chi si sente osservato e cerca modi e maniere per sostenere una posizione che si è, seppure lievemente, incrinata. Significative a questo proposito sono le fotografie che lo ritraggono sulla prima pagina della Pravda, in occasione dei festeggiamenti di novembre, nei diversi anni di guerra. Nel 1942, ormai citato come Commissario del popolo per la difesa, indossa ancora la classica giacca che lo aveva contraddistinto da sempre. Nel 1943 appare con cappotto, cappello e mostrine. Nel 1944 sul petto si affollano medaglie e decorazioni. Nel 1945 è in divisa solenne bianca da gran maresciallo. (G.P. Piretto, Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, Torino, Einaudi, 2001, pp. 175-178) 44 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO La Germania verso la sconfitta N ell’estate del 1942, l’esercito germanico riprese la sua avanzata in territorio sovietico. Tuttavia, a differenza del 1941, l’offensiva non ebbe come obiettivo principale Mosca, bensì i campi petroliferi del Caucaso. Occupata quella preziosa regione, le truppe tedesche avrebbero poi dovuto, nelle intenzioni di Hitler, puntare sulla capitale sovietica da sud, risalendo il Volga. Ma Hitler, dopo alcune clamorose vittorie estive, il 23 luglio compì l’errore strategico più grave di tutta la guerra, in quanto ordinò al suo esercito di dividersi in due gruppi di armate, in modo da attaccare contemporaneamente sia il Caucaso che Stalingrado, un importante centro industriale che si estendeva per una trentina di chilometri lungo la riva destra del Volga. Il risultato fu che nessuno dei due obiettivi venne conseguito, visto che la capacità d’urto delle armate tedesche (per altro già gravemente provate dalla campagna del 1941) venne irrimediabilmente compromessa da quella divisione di forze. La resistenza sovietica a Stalingrado, in particolare, fu tale che i tedeschi non ebbero mai il completo controllo della città, ed anzi si dissanguarono nel disperato tentativo di conquistarla. I sovietici infatti combatterono casa per casa e all’interno delle fabbriche, in un groviglio inestricabile di rovine e di macerie che rese difficile ai tedeschi l’elaborazione di qualsiasi manovra di vasto respiro e li obbligò a condurre quella che definirono una guerra da topi (Rattenkrieg). Nel novembre 1942, l’Armata Rossa passò al contrattacco e riuscì ad accerchiare i 250 mila soldati della VI Armata tedesca impegnata a Stalingrado. Hitler vietò esplicitamente al generale von Paulus ogni ritirata dalla città, in cui - da assedianti - i tedeschi si erano trasformati in assediati; ma, al tempo stesso, non vi fu nessuna possibilità né di rompere l’accerchiamento 45 8 settembre dall’esterno né di rifornire la VI Armata per via aerea. Il risultato fu che Von Paulus, il 31 gennaio del 1943, fu costretto ad arrendersi con gli ultimi 91 mila tedeschi superstiti. Per molti aspetti, quella di Stalingrado fu la battaglia decisiva di tutta la guerra. Certo, la situazione della Germania era ancora, all’inizio del 1943, tutt’altro che disperata; tuttavia, da allora in poi, le armate tedesche persero l’iniziativa e furono costrette sulla difensiva, subendo il peso di una coalizione di nemici che, di mese in mese, rafforzava la propria capacità di produzione bellica. Nell’estate del 1943, i tedeschi lanciarono nella Russia centrale un’ultima poderosa offensiva, denominata operazione Zitadelle. Nella regione di Kursk, dal 5 luglio al 23 agosto 1943 ebbe luogo la più vasta battaglia campale di tutta la guerra, che coinvolse un numero elevatissimo di carri armati, da entrambe le parti. Sconfitto ancora una volta (il merito della vittoria spettò soprattutto ai carri sovietici T-34, che si dimostrarono superiori ai Tiger germanici) e ormai consapevole della formidabile potenza della coalizione nemica, Hitler decise allora di procedere ad una mobilitazione di tutte le risorse tedesche. Ciò significò che, per la prima volta dall’inizio della guerra, gli investimenti diretti ai beni di consumo furono in Germania drasticamente ridotti, mentre il tenore di vita dei tedeschi venne radicalmente ridimensionato. Il compito di gestire l’economia tedesca in questo disperato sforzo fu assegnato ad Albert Speer, che nel settembre 1943 assunse la carica di Ministro per l’Armamento e la Produzione di guerra. I risultati ottenuti dall’organizzazione costruita da Speer hanno del miracoloso: basti pensare che la Germania riuscì a produrre, nel 1944, 105.258 armi belliche (cannoni pesanti, aerei, carri armati), contro le 36.804 del 1942. Tale dato è ancora più sorprendente se si tiene conto che, nel 1943, le incursioni aeree anglo-americane sui centri industriali del- 46 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO la Germania si fecero sempre più massicce e metodiche: nel complesso, sull’intera Germania caddero 207.600 tonnellate di bombe nel 1943, salite a 915 mila nel 1944; soltanto su Berlino, furono sganciate 50 mila tonnellate di bombe tra il novembre 1943 e il marzo 1944. Per sopperire alla carenza di manodopera, vennero deportati in Germania tecnici e operai prelevati da tutti i territori controllati dall’esercito tedesco; nel 1944, la cifra globale di tali lavoratori stranieri occupati in Germania superava i 7 milioni. Le loro condizioni di vita erano molto diverse, a seconda delle caratteristiche razziali. Quanti provenivano da paesi occidentali (Francia, Belgio, Olanda, ad esempio) erano trattati in modo relativamente decente; russi e polacchi, invece, furono in genere sfruttati come veri e propri schiavi nei lavori più faticosi e pericolosi, quando non furono addirittura lasciati semplicemente morire per fame e per sfinimento fisico. I primi 148.000 civili furono catturati in URSS nel maggio 1942; in giugno se aggiunsero altri 164.000. In tutto, furono circa 2. 800.000 (tra il 1942 e il 1944) i cittadini sovietici che furono deportati in Germania. Le modalità di reclutamento furono ben presto così sommarie e brutali, da lasciare perplessi persino molti funzionari tedeschi, convinti che le retate di massa compiute nei cinema o tra le donne in fila per comprare il latte, avessero come unico risultato quello di spingere un numero crescente di civili nelle fila dei partigiani. Persino il governatore della Polonia Hans Frank, verso la fine del 1943, denunciò il fatto che le razzie indiscriminate di lavoratori polacchi (in tutto, più di 2.500.000) da spedire all’interno del Reich avevano gravissimi effetti controproducenti, in quanto aggravarono notevolmente l’odio della popolazione contro i tedeschi. Una volta condotti in Germania, questi lavoratori forzati dovevano 47 8 settembre portare ben in vista sui vestiti precisi segni di identificazione: una P per i polacchi, una OST (= Est) per i sovietici. Se qualcuno dei deportati dall’Est avesse osato avere relazioni sessuali con una donna tedesca, sarebbe stato punito con la pena di morte. 48 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO UN CRONISTA RUSSO A STALINGRADO N el 1942, lo scrittore russo Vasilij Grossman era corrispondente di guerra da Stalingrado, per il giornale dell’Armata Rossa Krasnaia Zvezda (Stella Rossa). I suoi articoli erano un appassionato appello a resistere, per difendere l’indipendenza della Russia e la libertà del suo popolo. Lo scrittore sperava che, dopo la guerra, Stalin avrebbe alleggerito la sua dittatura. In questo, come molti altri, Grossman sarebbe rimasto profondamente deluso. In un mese i tedeschi lanciarono centodiciassette attacchi contro i reggimenti della divisione siberiana. In una terribile giornata, la fanteria e i carri tedeschi attaccarono per ventitrè volte. E per ventitrè volte furono respinti. Per un mese intero, con l’eccezione di tre sole giornate, l’aviazione tedesca rimase in volo sulla divisione dalle dieci alle dodici ore al giorno. Il che, su un mese, fa trecentoventi ore. La sezione operativa fece l’astronomico totale delle bombe sganciate dai tedeschi sulla divisione: ne venne fuori un numero con quattro zeri. La stessa cosa si può dire delle incursioni aeree. E questo su un fronte di un chilometro e mezzo o due. Questo fragore avrebbe potuto assordare l’umanità intera; questo fuoco e questo metallo sarebbero bastati a incendiare e annientare un intero Stato. I tedeschi contavano di spezzare così la tempra morale dei reggimenti siberiani. Pensavano di aver superato il limite di sopportazione del cuore e dei nervi dell’uomo. Invece, cosa stupefacente, quegli uomini non si sono piegati, non hanno perso la ragione. […] Verso la fine della seconda decade di ottobre i tedeschi diedero l’assalto finale alla fabbrica. Nessuno aveva ancora 49 8 settembre visto un’azione preparatoria di quella portata. Per ottanta ore, l’aviazione, l’artiglieria e i mortai pesanti tedeschi attaccarono senza sosta. Per tre giorni e tre notti fu un caos di fumo, di fuoco, di esplosioni. […] Passate ottanta ore, la preparazione dell’artiglieria si fermò di colpo, e, dalle cinque del mattino, fu l’attacco: carri pesanti e medi, orde di mitraglieri forsennati, reggimenti di fanteria. I tedeschi riuscirono a penetrare nella fabbrica; i loro carri, rombando sotto le mura delle officine, tagliarono le nostre difese, dividendo le postazioni di comando della divisione e dei reggimenti dall’estremo limite della prima linea. Si poteva pensare che la divisione, privata del comando, avrebbe perso ogni capacità di resistenza; che i posti di comando, esposti ai colpi diretti del nemico, sarebbero stati annientati. Invece si verificò una cosa sorprendente: ogni trincea, ogni rifugio, ogni nido di fanteria, così come le rovine fortificate delle case, diventò una piccola cittadella, con il proprio comando e i propri collegamenti. Sergenti e soldati semplici assunsero il comando e respinsero gli attacchi con abilità e intelligenza. […] Questa battaglia senza pari per il suo accanimento proseguì per molti giorni e molte notti di fila. Non si combatteva più per il possesso di una casa o di un reparto della fabbrica. Si combatteva per ogni gradino delle scale, per ogni cantone di uno stretto corridoio, per una macchina, per un passaggio tra le file dei torni, per una conduttura del gas. […] Gli stabilimenti della fabbrica passarono di mano in mano più e più volte. Nel corso della battaglia, i tedeschi riuscirono a impadronirsi di molti stabilimenti e reparti della fabbrica. I loro assalti raggiunsero in quei momenti la massima intensità. Era l’ultimo sforzo delle armate nemiche 50 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO sull’asse di tensione principale: come se, per aver sollevato un carico troppo pesante, la forza interiore che, metteva in azione il loro ariete, fosse venuta meno. (V. Grossman, Anni di guerra, Napoli, L’ancora, 1999, pp. 7177. A cura di M. Bellini) STALINGRADO L a seconda poderosa offensiva tedesca iniziò il 28 giugno 1942. Incapaci di fronteggiare l’attacco nemico, i russi si ritirarono fino al Volga, cosicché Stalingrado divenne il punto strategico più importante del fronte. Tra le macerie della città, si svolse uno scontro spietato e confuso, che i tedeschi definirono Rattenkrieg (guerra da topi). Per i sovietici, l’unica speranza di vittoria consisteva nel costante flusso di rifornimenti che arrivava dalla riva orientale del fiume Volga. Durante la precipitosa ritirata [dell’estate 1942 – n.d.r.] la disciplina dell’esercito sovietico cominciò a cedere: i reparti abbandonavano le armi e gli equipaggiamenti, i soldati preferivano ricorrere all’autolesionismo piuttosto che affrontare il gigante tedesco. L’autorità degli ufficiali e dei commissari militari minacciò di dissolversi. Il 28 luglio Stalin si mosse per frenare il crollo, emanando l’ordine 227, Ne Shagu Nazad! (Neppure un passo indietro!). La pubblicazione dell’ordine capitò in un momento di crisi acuta. Stalin disse alle forze armate che la ritirata doveva interrompersi: <<Ogni posizione, ogni metro di territorio 51 8 settembre sovietico deve essere difeso con accanimento, fino all’ultima goccia di sangue. Dobbiamo aggrapparci a ogni centimetro di suolo sovietico e dobbiamo difenderlo fino alla fine!>>. Dopo la guerra fu vietato divulgare i particolari dell’ordine numero 227, anche se era stato distribuito a tutti i reparti combattenti. […] Tutti coloro che fossero caduti nelle maglie di quell’ordine, sia i disseminatori di panico che i codardi, erano passibili di esecuzione sommaria o di essere assegnati agli shtrafbaty, i battaglioni penali. […] Le rivelazioni sul terrore nelle forze armate mettono in luce un’evidente realtà storica, ma distorcono anche la nostra visione dello sforzo bellico sovietico: non tutti i soldati avevano un fucile puntato alla schiena, non tutti i casi di sacrificio e di sfida coraggiosa erano il prodotto della coercizione e della paura. Crederlo significherebbe sminuire l’eccezionale eroismo di migliaia di uomini e donne normali, la cui sincera dedizione alla causa sovietica non può essere messa in dubbio. Nell’estate e nell’autunno del 1942 la popolazione sovietica era animata da qualcosa di più della paura dell’NKVD. […] [= Narodnyj komissariat vnutrennich del, cioè Commissariato del popolo agli affari interni - n.d.r.] La guerra divenne non una semplice difesa del comunismo, con il quale molti russi non erano d’accordo, ma una lotta patriottica contro un nemico temuto e odiato. […] Le battaglie di settembre avevano spinto l’Armata Rossa ai limiti della resistenza umana e del Volga. In tre giorni di aspri combattimenti, iniziati il 13 settembre, le forze tedesche si fecero strada attraverso le macerie e le rovine, fino alla stazione ferroviaria centrale e alle pendici del Kurgan di Mamajev. La stazione cambiò padrone quindici volte. Piccoli distaccamenti di soldati sovietici attaccavano di 52 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO notte per riconquistare quello che i tedeschi avevano preso di giorno. La sommità del Kurgan di Mamajev fu conquistata prima da una parte, poi dall’altra. La collina si trasformò in un paesaggio lunare, cosparso di crateri e di cenere grigia. Di fronte a forze tanto superiori, le truppe esauste di Cujkov si ritiravano casa per casa, isolato per isolato, in gruppi formati dai superstiti di quelle che un tempo erano state intere divisioni. Sull’altra riva del Volga era rimasto poco da inviare in soccorso. Disperato, Stalin ordinò alla 13ª divisione della Guardia, comandata da Aleksandr Rodimtsev, un eroe dell’Unione Sovietica, di accorrere a prestare aiuto. La divisione sbarcò in uno spoglio capolinea ferroviario allestito in mezzo alla steppa, a chilometri dal fronte. I soldati intrapresero un’estenuante marcia forzata e arrivarono al traghetto stanchi, in qualche caso disarmati. Ma, come la cavalleria dei proverbi, arrivarono appena in tempo: Cujkov stava resistendo, con soli quindici carri armati e pochi uomini, agli sforzi furiosi della 6ª armata per giungere alle banchine del centro. Le Guardie di Rodimtsev furono immediatamente traghettate su alcune barche e gettate nel pieno della battaglia, in pratica senza alcuna preparazione. Le loro perdite raggiunsero quasi il 100 percento, ma ottennero il risultato voluto: la 62ª armata tenne la sua sottile striscia di riva occidentale del Volga, e la città fu salva. Il campo di battaglia, nel quale erano stati gettati gli uomini di Rodimtsev, non assomigliava a nessun campo di battaglia conosciuto: la città sembrava essere stata l’epicentro di un gigantesco terremoto. Su tutta l’area si era posato uno strato di cenere spessa e scura prodotta dall’incendio degli edifici, e si sollevava in nuvole di cenere grigia a ogni scoppio di 53 8 settembre un’altra granata o a ogni soffio del vento della steppa. Nell’aria gravavano gli odori acri del legno e dei mattoni bruciacchiati e, a volte, il puzzo della carne bruciata. Ogni nuovo bombardamento aereo o d’artiglieria contorceva ulteriormente le rovine. I soldati sovietici e tedeschi si nascondevano o vivevano nelle cantine, combattevano tra i muri abbattuti, che fornivano un riparo sommario contro il fuoco continuo delle mitragliatrici pesanti e dei mitra. Le linee del fronte non erano definite in modo netto: le due parti non distavano più di un lancio di bomba a mano. I soldati sovietici che si trovavano intrappolati dietro le linee tedesche continuavano a combattere. Furono quasi tutti feriti, ma le ferite leggere non garantivano più il ritiro dal combattimento. I feriti gravi venivano recuperati, se possibile, ma morirono a centinaia là dov’erano caduti, preda delle torme di ratti che correvano come un fiume caldo sui vivi e sui morti. La strategia seguita da Cujkov e da Paulus fu molto semplificata dalla battaglia. Il comandante sovietico doveva tenere Stalingrado a qualsiasi costo, l’obiettivo tedesco era spingere i difensori nel Volga. Il conflitto non si basava sulla strategia, ma sulla tattica. In breve tempo Cujkov divenne un maestro del combattimento urbano. Ordinò ai suoi uomini di tenersi il più vicino possibile alle linee tedesche, obbligando il nemico a rinunciare alla superiorità aerea e di fuoco per evitare di colpire le proprie truppe. Alla fine di settembre questo era anche un fatto di sopravvivenza, perché solo poche centinaia di metri separavano i reparti avanzati tedeschi dalla riva del fiume. Oltre il Volga, dalle posizioni sovietiche della riva orientale, giungeva un ininterrotto bombardamento d’artiglieria e di razzi, facilitato dal fatto di avere un bersaglio molto più ampio. L’esercito 54 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO tedesco trovò il conflitto urbano molto diverso, in peggio, dalle veloci operazioni aeree e corazzate attraverso la steppa. A Stalingrado si trovò a dover combattere in modo frustrante contro un nemico inafferrabile e micidiale. Cujkov ordinò ai suoi uomini di sfruttare in tutti i modi il terreno e le proprie capacità combattive. Quando potevano, le forze sovietiche combattevano di notte: si infiltravano tra i reparti tedeschi e, a un dato ordine, lanciavano urla spaventose, sparando con le mitragliatrici contro il nemico atterrito. Di notte sui soldati tedeschi scendeva una coltre di paura. I rudi siberiani e i tartari sovietici usavano i coltelli e le baionette per massacrare le unità nemiche rimaste isolate, impreparate al combattimento corpo a corpo nell’oscurità. Di giorno i cecchini restavano appostati in attesa di qualunque cosa si muovesse nel settore tedesco. Giunsero da Berlino eccellenti tiratori, scelti per neutralizzare la minaccia dei cecchini, ma caddero anch’essi vittime della guerra nascosta dell’Armata Rossa. Un sottufficiale tedesco scrisse: <<È un combattimento accanito. Il nemico spara da tutte le parti, da ogni buco. Non devi mai farti vedere>>. (R. Overy, Russia in guerra 1941-1945, Milano, Net, 2003, pp. 169-172 e 183-185. Traduzione di P. Modola) GUERRA AEREA E STRATEGIA MILITARE N egli anni Trenta, si fronteggiarono due diverse scuole di pensiero strategico, a proposito della guerra aerea. Mentre un primo gruppo di politici e di militari diede la precedenza 55 8 settembre ad aerei di piccola o media dimensione, da usare soprattutto in battaglia, a sostegno dell’esercito, un secondo orientamento era favorevole alla costruzione di aerei imponenti, capaci di portare distruzione nelle città del nemico. Con l’importante eccezione degli Stati Uniti, nessuno degli altri stati in guerra vedeva grandi vantaggi nei bombardamenti strategici a lungo raggio: su iniziativa dello stesso Stalin il programma di sviluppo dei bombardieri pesanti era stato chiuso in Unione Sovietica già nel 1937 e gli sfortunati promotori, capeggiati da Aleksandr Tupolev, spediti in campi di lavoro, dove continuarono la loro opera dietro il filo spinato. L’esperienza della guerra civile spagnola, nella quale i piloti sovietici avevano combattuto a fianco delle forze repubblicane contro Franco nel 1936, aveva convinto Stalin che le forze aeree erano più utili se usate in prima linea, come appoggio per l’esercito. Gli osservatori tedeschi e francesi arrivarono più o meno alle stesse conclusioni. Durante la guerra civile spagnola l’aeronautica provò in combattimento il suo nuovo bombardiere da picchiata, lo Junker Ju-87 [meglio noto col nome di Stuka – n.d.r.], con la sua terrificante sirena che annunciava il bombardamento imminente. Questo aereo era opera del colonnello Ernst Udet, aviatore di mitica fama che faceva fremere le platee cinematografiche negli anni Venti con le sue acrobazie, oltre che essere un noto vignettista. L’appoggio dato alla causa di Hitler gli fruttò l’incarico di dirigere la produzione delle forze aeree tedesche. Il suo amore per le acrobazie aeree lo portò a trascurare i bombardamenti a lungo raggio per favorire bombardieri più piccoli che potessero scendere in picchiata e distruggere anche bersagli di piccole dimensioni sul 56 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO campo di battaglia. Quando il responsabile dell’aviazione tedesca, Hermann Göring, insistette perché la Germania producesse anche un bombardiere quadrimotore a lungo raggio d’azione, Udet disse ai progettisti tedeschi che anch’esso doveva essere in grado di scendere in picchiata, una richiesta che ne ritardò la realizzazione di tre anni. Quando scoppiò la guerra la Germania diede la priorità alla cooperazione tra l’aviazione e l’esercito, una strategia che fu mantenuta, così come in Unione Sovietica, fino alla fine del conflitto. Perché dunque Gran Bretagna e Stati Uniti si schierarono contro ogni conoscenza militare acquisita e insistettero con i bombardamenti? [...] L’aviazione e i politici britannici rimasero legati alla loro visione degli anni tra le due guerre mondiali che un bombardamento indiscriminato, finalizzato al raggiungimento di un rapido <<colpo finale>>, sarebbe stato probabilmente una delle caratteristiche della successiva guerra: per opporsi alla minaccia dei bombardamenti bisognava dotarsi a propria volta di bombardieri propri. Le radici della deterrenza post-bellica risalgono dunque alla decisione britannica degli anni Trenta di costituire una potente forza d’attacco di bombardieri per spaventare i potenziali nemici. C’erano, naturalmente, ragioni più fondate per portare avanti i bombardamenti che non il timore di esserne vittime. Nessuno voleva che si ripetesse lo spaventoso spargimento di sangue della grande guerra, e una guerra di bombardamenti, nonostante i suoi molteplici orrori, sembrava promettere un conflitto più rapido e asettico. Il colonnello Fitzmaurice confortò i suoi lettori rassicurandoli che il suo Super-Armageddon avrebbe posto fine alle guerre 57 8 settembre di logoramento una volta per tutte, garantendo che queste erano <<sepolte e dimenticate nel fango, nella poltiglia e nei cimiteri di guerra delle Fiandre>>. A paragone dello spreco di giovani vite nello stallo delle trincee, i bombardamenti potevano causare una settimana di orrori seguita dalla resa: si profilava insomma una guerra a poco prezzo, che faceva risparmiare non solo vite ma anche denaro, una strategia economica che risultava parimenti attraente al contribuente democratico e al ministro del Tesoro. Tutto ciò lasciava aperte importanti questioni: cosa avrebbero dovuto colpire i bombardieri? [...] L’aviazione britannica e quella americana, assai più libere dalle soffocanti restrizioni di eserciti con lunga tradizione, volevano una strategia che concedesse loro un’effettiva indipendenza, il giusto complemento della novità e modernità delle armi a loro disposizione. Scelsero poi quello che venne chiamato il bombardamento strategico, per distinguerlo dal puro e semplice bombardamento tattico di appoggio all’esercito e alla marina. L’obiettivo del bombardiere strategico era il cuore stesso del paese nemico, la sua popolazione e la sua economia. La grande guerra aveva aperto la strada a un nuovo genere di conflitto, la guerra totale, nella quale la distinzione tra civile e militare non valeva: il bombardiere ne era lo strumento per eccellenza, capace com’era di polverizzare le industrie del nemico e terrorizzare la popolazione per indurla alla resa. [...] Per tutti gli anni Trenta, e ancora nelle prime fasi della guerra, questa strategia fu impossibile da realizzare tecnicamente e operativamente poco seria. Nel dicembre 1937, comunque, il comando bombardieri britannico ricevette l’ordine di progettare la distruzione dell’economia tedesca con una 58 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO serie di bombardamenti, e da quel momento fu posta la base di quella che sarebbe diventata l’offensiva coordinata di bombardamenti lanciata nel 1943. (R. Overy, La strada della vittoria. Perché gli Alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 157-159. Traduzione di N. Rainò) L’INGEGNERIA DELL’INCENDIO L ’esperienza dimostrò, nel giro di poco tempo, che era più facile provocare gravi danni alle città nemiche con il fuoco, piuttosto che per mezzo delle bombe dirompenti ad alto potenziale. Le città tedesche, dunque, si trasformarono in giganteschi roghi, impossibili da domare. Sin dalla fine del 1942 gli scienziati alle dipendenze del ministero dell’Aviazione britannico studiavano un modo per mettere a frutto le proprietà distruttive del fuoco. Le bombe dirompenti erano pesanti da trasportare e infliggevano danni che impressionavano relativamente poco il nemico; il materiale incendiario era più leggero, poteva essere sganciato in grossi quantitativi e, una volta colpito l’obiettivo, dava inizio a un processo di distruzione che si propagava da sé. In determinate circostanze una bomba incendiaria da due chilogrammi desertificava una superficie superiore a quella devastata da una bomba dirompente mille o duemila volte più pesante. [...] Gli attacchi incendiari scatenati sulle città tedesche costituirono una 59 8 settembre novità assoluta nella storia bellica: era la prima volta che il controllo di un’arma era totalmente in mano agli scienziati, la prima volta che ideazione e utilizzo andavano così di pari passo. Quando fu raggiunto il culmine della sinergia fra conoscenze, realizzabilità tecnica, disponibilità di materiale e apparecchiature, la guerra finì. Se gli Alleati non si fossero dedicati con tenacia all’elaborazione anche concettuale dell’annientamento, la tempesta di fuoco sarebbe rimasta un’arma spuntata com’era all’inizio. Prima di raggiungere la perfezione, si procedette a lungo a tastoni, attraverso correzioni progressive. Inizialmente il fuoco veniva appiccato soltanto per illuminare gli obiettivi delle bombe dirompenti durante gli attacchi notturni. L’analisi comparativa delle riprese aeree dimostrò che settemila tonnellate d’esplosivo causavano trenta chilometri di danni, mentre la stessa quantità di sostanze incendiarie ne provocava centocinquanta. L’opinione secondo cui le città erano più facili da bruciare che da far esplodere e che un incendio di dimensioni sufficienti avrebbe raggiunto entrambi gli obiettivi si consolidò solo nell’estate del 1943. Ci si arrivò con l’esperienza e con una serie di bombardamenti che in parte funzionarono e in parte no. [...] Il primo lancio sperimentale di uno spezzone incendiario era avvenuto nel 1936, grazie alla collaborazione tra la RAF [ = Royal Air Force – n.d.r.] e le Imperial Chemical Industries; il test fu considerato un successo: la bomba si accendeva sempre e non si spezzava mai. Nell’ottobre dello stesso anno, il governo britannico ne ordinò 4.500.000 esemplari. Allo scoppio della guerra, le scorte erano di cinque milioni. La robustezza, l’efficienza incendiaria e l’abbondanza fecero delle bacchette di electron imbottite di termite (in 60 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO coppia con le blockbusters [= schiacciaisolati; si trattava di bombe dirompenti cilindriche da 4.000 libbre - n.d.r.]) l’arma principe della guerra aerea sulla Germania. Nel 1944, una semplice modifica rese l’impiego degli spezzoni incendiari ancora più micidiale. Gli ordigni cominciarono a essere sganciati in grappoli legati fra loro che si separavano poco prima dell’urto. La densità maggiore permise di produrre vere e proprie tempeste di fuoco capaci di divorare città come Darmstadt, Heilbronn, Pforzheim e Würzburg. Un bombardamento protratto per più giorni, a base di diverse miscele incendiarie di benzina, gomma, resina artificiale, olio, asfalto fluido, glicerina e piccole quantità di saponi metallici, acidi grassi e fosforo, dispiegava un potenziale distruttivo superato solo dalle armi nucleari. (J. Friedrich, La Germania bombardata. La popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati 1940-1945, Milano, Mondadori, 2004, pp. 11-18. Traduzione di M. Bosonetto, F. Pisani, C. Proto) 61 ia Grecia - Cefalon Soldati italiani in Dimensione nazionale La guerra del Duce: dall’intervento alla disfatta Non belligeranza e guerra parallela S econdo il Patto d’acciaio (stipulato solennemente il 22 maggio 1939), l’Italia avrebbe dovuto immediatamente entrare in guerra a fianco del Terzo Reich, nel momento stesso in cui la Germania iniziava l’invasione della Polonia. Mussolini tuttavia, quando venne a conoscenza della decisione di Hitler di iniziare il conflitto in tempi brevi, presentò all’alleato un lunghissimo elenco di richieste, che mettevano a nudo la strutturale debolezza economica dell’Italia. Sul piano strettamente militare, le carenze delle forze armate italiane erano a dir poco clamorose. Il paese era del tutto privo di difesa contro i bombardamenti nemici: con 2 (due!) riflettori e 230 batterie antiaeree era evidentemente impossibile difendere tutte le città del vasto territorio nazionale. L’Italia poi non possedeva aerei, carri armati e pezzi d’artiglieria moderni e adeguati, mentre le navi non erano munite di alcun tipo di radar. In realtà, le carenze militari dell’esercito italiano non erano da attribuire al solo Mussolini: molti generali italiani, infatti, non avevano appreso alcuna lezione dal primo conflitto mondiale e continuavano ad affermare che l’uomo, non la macchina, era l’elemento vincente in uno scontro bellico. Pertanto, non meraviglia che lo stato maggiore italiano non abbia mai seriamente imposto alla FIAT-Ansaldo di progettare un carro armato davvero efficiente e pesante, capace di reggere il confronto con i mezzi inglesi o russi, e sia stato a dir poco tollerante e indulgente nei confronti dei pessimi prodotti con cui la casa torinese riforniva le forze armate. Nel settembre 1939, Hitler disse a Mussolini che, per la sua 63 8 settembre guerra, non aveva certo bisogno dell’Italia; il Duce optò allora per la cosiddetta non belligeranza, un’espressione che, nelle sue intenzioni, non significava affatto neutralità, bensì pieno appoggio politico alla Germania, senza diretta ed effettiva partecipazione al conflitto. La prospettiva prevista dal Duce era quella di una guerra lunga, nella quale l’Italia avrebbe potuto intervenire nel giro di due o tre anni. La rapida e imprevista sconfitta della Francia sconvolse completamente i progetti di Mussolini, che il 10 giugno 1940 annunciò pubblicamente la sua decisione di scendere in campo. La ragione per cui Mussolini, pur consapevole della gravissima impreparazione delle forze armate italiane, scelse ugualmente di gettare il Paese nel conflitto, va ricercata fondamentalmente nella sua convinzione che Hitler avesse già vinto la guerra. Sconfitta la Francia - secondo Mussolini – l’Inghilterra sarebbe senz’altro scesa a patti con la Germania; pertanto, solo una partecipazione effettiva e diretta allo scontro, secondo il dittatore fascista, avrebbe garantito all’Italia la possibilità di far udire la propria voce all’imminente tavolo delle trattative di pace. Il progetto di Mussolini era di conquistare la Corsica, Nizza, la Savoia e alcune colonie, capaci di ingrandire l’impero fascista. In una prospettiva ancora più ambiziosa, il Duce sperava di creare una vasta area sotto controllo italiano e di realizzare una duratura egemonia romana nel Mediterraneo e nei Balcani. Tuttavia, nell’estate del 1940, poiché la Gran Bretagna respinse ogni offerta di armistizio da parte di Hitler, l’Italia si trovò coinvolta in un grande conflitto europeo, senza avere la minima speranza di vincerlo. L’11 novembre 1940, gli aerosiluranti inglesi riuscirono senza problemi ad affondare tre corazzate nel porto di Taranto e a mettere fuori combattimento metà dell’intera flotta da guerra italiana. Qualche mese più tardi, il 27 marzo 1941, al largo di Capo Matapan (la punta più meridionale della Grecia) gli 64 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO italiani persero altri 5 incrociatori e 2.400 marinai. In Etiopia, intanto, le mal equipaggiate truppe italiane - del tutto tagliate fuori dalla madrepatria e quindi assolutamente prive di rifornimenti - subirono presto gravi sconfitte e non poterono impedire che, il 6 aprile 1941, gli inglesi occupassero Addis Abeba e rimettessero sul trono il negus Hailè Selassiè. Mentre le disfatte si moltiplicavano, nel giro di pochi mesi le riserve d’oro dello Stato minacciarono di esaurirsi e il paese divenne totalmente dipendente dalla Germania per il proprio fabbisogno energetico. Il Terzo Reich fornì all’Italia 12 milioni di tonnellate di carbone nel 1940-1941 e 11 milioni nel 19411942; malgrado questo sforzo tedesco, la già magra produzione di acciaio in Italia (nel 1938, essa era un decimo di quella tedesca e pari al 38% di quella giapponese) calò vistosamente passando da 2,32 milioni di tonnellate (1938) a 1,73 milioni di tonnellate (1942), a causa della carenza di materie prime. Con un simile retroterra industriale precario, l’esercito e la marina si trovarono subito in gravi difficoltà, in quanto non furono in grado di sostituire il materiale che veniva distrutto dal nemico. Mussolini però non comprese mai le strutturali debolezze dell’esercito e della società che guidava, ed anzi continuò a sopravvalutare ampiamente le reali possibilità italiane. Pertanto, il 28 ottobre 1940 dichiarò guerra alla Grecia. L’obiettivo del Duce era di tipo politico, cioè voleva mostrare che l’Italia non era una semplice pedina tedesca, bensì poteva condurre - in piena autonomia e proprie risorse - una guerra parallela, con obiettivi rispondenti solo agli interessi italiani. L’attacco fu condotto dall’Albania, un piccolo regno che l’Italia aveva occupato nell’aprile del 1939, dopo che la Germania si era impadronita, in marzo, della Cecoslovacchia. Mussolini immaginava una campagna rapida, capace di portare gloria e prestigio al re- 65 8 settembre gime. All’opposto, incontrò una tenacissima resistenza greca, mentre sulle montagne i soldati italiani dovettero affrontare il freddo invernale con un equipaggiamento scadente e inadeguato. Insomma, l’insuccesso fu totale, e il risultato fu del tutto opposto a quello sperato. L’esercito italiano fu salvato dalla completa disfatta solo in virtù del tempestivo intervento tedesco nei Balcani, nell’aprile 1941. 66 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO DISCORSO DI MUSSOLINI DEL 10 GIUGNO 1940 M ussolini annunciò l’entrata in guerra dell’Italia con un solenne discorso, pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia, a Roma. In quell’occasione, il Duce rilanciò la retorica nazionalista (inventata da Enrico Corradini) secondo cui nel mondo le nazioni giovani, feconde e proletarie si contrapponevano ai paesi ricchi, ma ormai condannati al declino politico. Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’impero e del Regno d’Albania! Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano. Alcuni lustri della storia più recente si possono riassumere in queste frasi: promesse, minacce, ricatti e, alla fine, quale coronamento dell’edificio, l’ignobile assedio societario [= promosso dalla Società delle Nazioni – n.d.r.] di cinquantadue Stati. La nostra coscienza è assolutamente tranquilla. Con voi il mondo intero è testimone che l’Italia del Littorio ha fatto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l’Europa; ma tutto fu vano. Bastava rivedere i trattati per adeguarli alle mutevoli 67 8 settembre esigenze della vita delle nazioni e non considerarli intangibili per l’eternità; bastava non iniziare la stolta politica delle garanzie [= allusione a Francia e Inghilterra, che nel 1939 si erano impegnate a garantire l’indipendenza della Polonia, in caso di aggressione da parte della Germania – n.d.r.], che si è palesata soprattutto micidiale per coloro che le hanno accettate [= per la Polonia, di cui Francia e Inghilterra non avevano potuto impedire la conquista, da parte della Germania – n.d.r.]; bastava non respingere la proposta che il Führer fece il 6 ottobre dell’anno scorso, dopo la finita campagna di Polonia. Oramai tutto ciò appartiene al passato. Se noi oggi siamo decisi ad affrontare i rischi ed i sacrifici di una guerra, gli è che l’onore, gli interessi, l’avvenire ferreamente lo impongono, poiché un grande popolo è veramente tale se considera sacri i suoi impegni e se non evade dalle prove supreme che determinano il corso della storia. Noi impugniamo le armi per risolvere, dopo il problema risolto delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime; noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l’accesso all’Oceano. Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione; è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto; è la lotta tra due secoli e due idee. Ora che i dadi sono gettati e la nostra volontà ha bruciato 68 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO alle nostre spalle i vascelli, io dichiaro solennemente che l’Italia non intende trascinare altri popoli nel conflitto con essa confinanti per mare o per terra. Svizzera, Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto prendano atto di queste mie parole e dipende da loro, soltanto da loro, se esse saranno o no rigorosamente confermate. Italiani! In una memorabile adunata, quella di Berlino, io dissi che, secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un amico si marcia con lui sino in fondo. Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania, col suo popolo, con le sue meravigliose Forze Armate. In questa vigilia di un evento di una portata secolare, rivolgiamo il nostro pensiero alla Maestà del re imperatore, che, come sempre, ha interpretato l’anima della patria. E salutiamo alla voce il Führer, il capo della grande Germania alleata. L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta [dopo la guerra in Etiopia e quella di Spagna – n.d.r.] in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore! (E. Collotti, La seconda guerra mondiale, Torino, Loescher, 1985, pp. 90-91) 69 8 settembre LE CARENZE STRUTTURALI DELLE FORZE ARMATE ITALIANE L o storico inglese MacGregor Knox è uno specialista di Storia militare che ha studiato in modo dettagliato il Regio Esercito durante la seconda guerra mondiale. A suo giudizio, la disfatta fu l’inevitabile conseguenza della combinazione di due fattori: le errate valutazioni politiche di Mussolini e la meschinità dei vertici militari, accusati da Knox di incompetenza, provincialismo, ottuso attaccamento al passato e connivenza con la venalità della grande industria. La sua impietosa conclusione è che <<il fallimento militare dell’Italia fascista fu innanzitutto il fallimento della cultura militare e delle istituzioni militari italiane>>. Resta fuori questione che le armi e i weapon systems [= l’apparato bellico – n.d.r.] italiani erano i meno efficaci, i meno numerosi e i più costosi prodotti nei principali paesi belligeranti della seconda guerra mondiale. L’acciaio italiano costava il quadruplo rispetto al prezzo del mercato internazionale. Secondo una stima autorevole, le nuove corazzate della classe Littorio consegnate alla marina a partire dal 1940 furono pagate il doppio di quanto sarebbero costate se fossero state costruite nei cantieri francesi, certo non i più economici del mondo. E in settori quali progettazione di macchine belliche, metallurgia, tecnica della catena di montaggio, macchine utensili, strumenti di precisione, elettronica per le comunicazioni, radiolocalizzatori e ecogoniometri, l’industria italiana entrò in guerra – e in grande misura rimase sempre – in una condizione di ostinata e provinciale arretratezza. Ricerca e 70 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO controllo di qualità in settori chiave quale quello dei mezzi corazzati erano a un livello rudimentale o del tutto assenti; le piastre bullonate del primo carro armato medio FIATAnsaldo che vide un ampio impiego in guerra, l’M13/1940, si frantumavano come vetro. La progettazione di veicoli e carri armati era un’attività che dipendeva dalla genialità individuale e dalla sperimentazione condotta a tastoni da dei singoli progettisti, anziché da un lavoro di squadra; all’Ansaldo un solo uomo progettò tutti i carri armati e i mezzi corazzati italiani dal 1933 al 1943. Non sorprende dunque che non riuscì mai a costruire un carro armato soddisfacente. Nonostante la cattura e il trasferimento in Italia a scopo di studio – nel 1941-42 – di un T-34 sovietico, il miglior carro armato medio di tutta la guerra, il prodotto più affidabile della FIAT-Ansaldo fu un semovente alquanto robusto con un obice da 75 mm a bassa velocità iniziale. Peraltro il complesso industriale non tollerò la competizione di macchine straniere di gran lunga migliori quali il carro medio che la Skoda offrì nel 1941. La FIAT-Ansaldo riuscì clandestinamente a impedire la produzione in Italia del Panzer III o IV, di cui la Germania – e Hitler in persona – offrì in diverse occasioni i progetti, il brevetto e finanche i macchinari per costruirlo. Sebbene la produzione di velivoli fosse oligopolistica più che monopolistica, il reparto aviazione FIAT si distinse per aver progettato e venduto all’aeronautica forse il peggior monoplano da caccia della seconda guerra mondiale, il FIAT G50. La raffinatezza aerodinamica evidente, ad esempio, nello Zero nipponico – un aereo che, benché montasse un motore simile al G50 e al Macchi MC200, era equipaggiato con due cannoncini da 20 mm anziché con le 71 8 settembre inutili mitragliatrici degli apparecchi italiani – era pressoché assente. Analogamente, fino al 1942-43 l’industria non riuscì a produrre un efficiente aereo da assalto al suolo: quelli con cui l’aeronautica entrò in guerra erano un pericolo più per l’equipaggio che per il nemico. La progettazione di motori avio era incentrata su copie e derivazioni di motori stranieri brevettati negli anni Venti e nei primi anni Trenta. L’incapacità dell’industria petrolifera statale e parastatale di produrre carburanti ad alto numero di ottani o lubrificanti che non rovinassero i motori contribuì anch’essa a frenare l’innovazione. Tutti i tentativi di progettare l’affidabile motore da 1500 CV necessario ad alimentare i caccia monoposto da 650 km/h e armati di cannoncini fallirono miseramente. L’azienda Piaggio falsificò impunemente i risultati di una prova di omologazione di un suo motore dopo essere entrata nel mirino perché i motori si fermavano regolarmente in volo. L’aeronautica portò la questione all’attenzione di Mussolini, ma la Piaggio continuò a produrre motori talmente inaffidabili da risultare pericolosi. Lo stesso rappresentante dell’aeronautica distaccato presso la Piaggio, preso di petto, affermò seraficamente che i tecnici addetti al controllo di qualità dell’aeronautica erano eccessivamente severi: <<Ma non avete ancora capito che tanto la guerra la fanno i tedeschi?>>. […] Per l’esercito, l’elemento decisivo della guerra era la superiorità numerica, un’ottica solo in apparenza corroborata [= confermata – n.d.r.] dall’esperienza del 1915-18. Sul finire del primo conflitto mondiale il regio esercito aveva acquisito un buon numero di macchine da guerra, ma i suoi vertici avevano sempre rifiutato una realtà che l’alto comando tedesco aveva invece accettato 72 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO già a metà del 1916: la guerra era diventata una guerra di macchine. Alla fiducia nella volontà umana si affiancava la fede nel numero; e forse entrambe contribuirono a far sì che l’esercito tollerasse fino al 1939 di vedersi consegnare i carri armati leggeri L3 da 3,5 tonnellate della FIAT-Ansaldo, facilmente perforabili dal fuoco delle mitragliatrici e che in un’occasione vennero distrutti da abissini armati di pietre. […] Malgrado le sue gravi inefficienze, la FIAT-Ansaldo godette sempre della tolleranza dell’esercito. E sebbene l’ultimo capo di stato maggiore del periodo prebellico, Pariani, avesse correttamente previsto già nel 1936-37 che il centro di gravità strategico dell’imminente guerra italiana sarebbe stato un’avanzata su Suez, progettò di combattere tale guerra principalmente con la fanteria autotrasportata. Il primo carro armato medio italiano, il pessimo M11/39, aveva il cannone praticamente inservibile perché collocato in casamatta anziché sulla torretta girevole, una soluzione evidentemente dettata dall’incapacità di progettare torrette con cannoni o dalla presunta necessità di ridurre la larghezza del veicolo per adattarlo alle strade italiane. Uno dei pochi generali italiani con esperienza di comando di unità corazzate in combattimento, Ettore Bastico, fu evidentemente così intimidito dall’opposizione dei suoi colleghi alla nuova arma che durante una riunione di generali superiori indetta nel novembre del 1937 per discutere del futuro dei mezzi corazzati, convenne che <<il carro è un mezzo potente che non dobbiamo disconoscere, ma non gridiamogli osanna. L’osanna riserviamolo per il fante e per il mulo>>. L’innovazione fu sempre vista con sospetto, in quanto significava scompaginare una struttura di forze che rifletteva una concezione bellica profondamente 73 8 settembre radicata nell’esercito e serviva al meglio gli interessi del corpo ufficiali. La cosa davvero straordinaria è quanto poco e quanto lentamente le dure lezioni della guerra scalfirono la venerazione dell’esercito per la fanteria e per i muli. (MG. Knox, Alleati di Hitler. Le regie forze armate, il regime fascista e la guerra del 1940-1943, Milano, Garzanti, 2002, pp. 52-54 e 61-65. Traduzione di S. Minucci e dell’autore) IL RANCIO DEL SOLDATO ITALIANO L ’efficienza di un esercito non si misura solo dalle armi che utilizza. Anche il vitto è un parametro importantissimo per valutare la modernità di un apparato militare, oltre ad essere un fattore determinante del morale dei soldati. Dotati di un equipaggiamento scarso e inadeguato, i soldati italiani furono trattati peggio dei militari di tutti gli altri eserciti anche a questo elementare livello, mentre gli ufficiali difesero fino all’ultimo i propri privilegi legati al grado. Il vitto dei soldati merita una trattazione a parte per un’importanza che non occorre sottolineare, anche se spesso sottovalutata dagli studi (non certo dalla memorialistica). Ci offre una testimonianza impietosa dei ritardi dell’esercito, qui il regime fascista c’entra poco, salvo per le crescenti difficoltà di approvvigionamento. <<Il rancio di mezzogiorno era di solito brodo di carne con un po’ di pasta ed un pezzetto di lesso; la sera c’era il minestrone; poche rare volte la pastasciutta… alla 74 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO domenica c’era anche un po’ di vino>> (1938). Dalla fine dell’Ottocento alla seconda Guerra mondiale, la razione giornaliera dell’esercito aveva quattro componenti base: pane di buona qualità; carne bovina fresca o congelata (carne con l’osso, quindi con una percentuale di scarto, nel 1915-18 la razione era di 375 grammi di carne in piedi, ossia calcolata sull’animale vivo); pasta (maccheroni, i tubi della memorialistica) o riso due volte alla settimana; infine patate e legumi per il minestrone serale. […] Un vitto per un paese povero, agli inizi del secolo per i contadini e gli operai mangiare pane bianco e carne tutti i giorni era un lusso, malgrado la bassa qualità tradizionale delle cucine militari. Nel 1940 la razione era sufficiente in caserma e nelle retrovie, non però al fronte, come attestano tutte le memorie e le testimonianze dei reduci. Al fronte, in tutti i teatri di guerra, la fame era garantita. Possiamo indicare due ragioni di fondo. Gli alti comandi che parlavano di guerra di rapido corso non avevano pensato a modernizzare un sistema di vettovagliamento adeguato ai fronti statici della prima Guerra mondiale, quando si provvedeva alle truppe con forni e cucine nelle retrovie. Nulla fu fatto per migliorare i forni Weiss per la panificazione che si erano dimostrati pesanti e poco mobili già in Etiopia; dovevano restare così lontano dal fronte che spesso in Albania il pane arrivava vecchio e ammuffito. Sembra poi incredibile, ma è documentato, l’esercito non disponeva di cucine mobili (i primi esemplari entrarono in servizio nel 1943 e, in omaggio alla tradizione, funzionavano a legna anziché a nafta o benzina più reperibili), ma contava ancora sulle casse di cottura di fine Ottocento e sulle gloriose marmitte da campo modello 1855. Ossia il rancio veniva 75 8 settembre avviato al fronte da cucine nelle retrovie, si può immaginare con quali fatiche e ritardi se le truppe erano in movimento o su posizioni difficilmente raggiungibili, dove arrivava un pastone tiepido eppure prezioso, date le circostanze. Le cucine poi si riducevano a cucinieri poco addestrati, agli attrezzi e a grandi marmitte appese a strutture precarie da rinnovare ad ogni spostamento, con fuoco a legna da reperire sul posto; problemi piccoli in condizioni normali, non facili da risolvere durante gli spostamenti o in regioni prive di legna come la Libia. Inoltre, in tre anni di guerra su fronti diversi questo sistema non fu modificato con una modernizzazione delle attrezzature e il decentramento della preparazione del rancio, dove possibile o necessario, o la distribuzione di fornelli ai reparti. I soldati si arrangiavano accendendo fuochi sotto le gavette quando potevano, rubacchiando viveri qua e là, ma avrebbero meritato di meglio. L’altro problema di fondo era la desolante insufficienza dei generi di integrazione al rancio. L’immagine del soldato inglese che si prepara il breakfeast abbrustolendo il bacon, poi si concede una tazza di the è un po’ troppo idilliaca in contrapposto al soldato italiano che inzuppa il pane nella brodaglia di un caffè, però inquadra il problema. Il rancio rimane lo stesso dalle caserme al fronte, peggiora inevitabilmente di qualità e regolarità in momenti in cui le truppe sono sottoposte alle fatiche e tensioni del combattimento. La razione di Albania prevede la distribuzione eventuale di un bicchierino di cognac (3 cl) oppure 50 grammi di marmellata oppure 25 di cioccolato, con un cenno alla possibilità di una distribuzione continuativa per periodi eccezionali. Manca la concezione che il soldato 76 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO al fronte debba avere un vitto più ricco e curato, garantito anche in caso di collasso dei rifornimenti. La razione di riserva si riduceva a 400 grammi di galletta e una scatoletta di carne, a volte la scadente minestra Chiarizia in scatola; molti reparti in Albania (e poi in Africa settentrionale) non ebbero di meglio per settimane. Un confronto con la razione K del soldato americano (tutto il necessario per 24 ore salvo l’acqua in una sola confezione: scatolette varie, minestra liofilizzata, caffè in polvere, gallette, fornellino a meta, sigarette, fiammiferi, carta igienica eccetera) è umiliante, segna il confine non tra due eserciti, ma tra due civiltà. […] In tutti gli eserciti si distingueva tra mensa ufficiali, mensa sottufficiali e rancio dei soldati, in tempo di pace e in guerra nelle retrovie, con ovvie varianti. Al fronte però il vitto era uguale per tutti, salvo che per le forze armate italiane che conservarono fino al crollo il privilegio di una mensa a parte, più ricca e curata, per gli ufficiali e per i sottufficiali. La memorialistica di Libia attesta sia lo stupore degli italiani quando vedevano Rommel pranzare con pane nero e marmellata, sia il piacere degli ufficiali tedeschi invitati alla mensa dei colleghi italiani, dove pastasciutta e vino erano garantiti (ovviamente non durante i combattimenti). Per i soldati, dovunque, soltanto la gavetta o le razioni a secco. MacGregor Knox ha trovato le risposte dei comandi della II armata in Jugoslavia a un sondaggio sull’abolizione delle mense privilegiate, promosso nell’estate 1941 dallo stato maggiore dell’esercito su richiesta di Mussolini. <<Gran parte dei comandanti si disse favorevole per motivi logistici più che di leadership. Ma “la massa degli ufficiali” si dimostrò palesemente poco entusiasta. Un comandante di corpo d’armata sostenne che gli ufficiali fossero semplicemente 77 8 settembre incapaci di svolgere le loro funzioni nutrendosi con il rancio normale dei soldati: “La mensa ristora e mette l’ufficiale nelle condizioni fisiche e di spirito per ben assolvere il suo non facile compito. Una differenziazione, ai fini del morale degli ufficiali, ci deve assolutamente essere”. La soppressione delle mense da campo per ufficiali avrebbe inoltre potuto produrre una “eccessiva dimestichezza e conseguente diminuzione di prestigio”, nonché una perdita di “affiatamento e cameratismo” tra gli ufficiali dei reparti. Infine il nuovo sistema, se esteso alla vita di guarnigione, avrebbe potuto condurre a “diminuzioni della già tenue autorevolezza dei giovani subalterni, conseguente dalla soppressione di distinzioni formali”. La tenacia con cui il corpo ufficiali difese tali “distinzioni formali” lascia ben intendere la misura dei propri dubbi sulla sua stessa capacità di comando>>. Una pagina triste, un esercito vecchio che non riusciva ad assicurare un rancio sufficiente alle truppe e cercava di garantire il prestigio degli ufficiali con privilegi di casta ottocenteschi anziché selezione e addestramento. (G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943, Torino, Einaudi, 2005, pp. 280-285) IL RAPPORTO TRA ITALIANI E TEDESCHI IN GRECIA I l tipo di occupazione che fu instaurato in Grecia riflette sul piano politico il reale rapporto di forze venutosi a creare sul campo. Gli italiani furono trattati dai tedeschi come delle pedine, mentre tutte le decisioni importanti erano prese esclusivamente a Berlino e poi calate dall’alto da Hitler a Mussolini. 78 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO Il primo episodio di scontro tra Italia e Germania si ha al momento dell’offerta di capitolazione da parte dell’esercito greco sul fronte epiro-macedone, rivolto ai tedeschi. Il governo tedesco era stato considerato dalla politica estera greca, negli anni tra le due guerre mondiali, quasi come un mediatore, e diventa dopo la sconfitta il vero interlocutore. L’Italia pretende che la richiesta di capitolazione venga rivolta anche all’esercito italiano e insiste per essere presente ad Atene (dove in realtà le truppe del regno arrivano cinque-sei giorni dopo i tedeschi) per partecipare alla parata militare delle truppe occupanti. Questa vicenda illustra bene le ragioni per cui i greci vedono nei tedeschi i veri interlocutori e assegnano all’Italia un ruolo subordinato, non riconoscendo di essere stati sconfitti dall’Italia. Tutto il problema della politica d’occupazione italiana sembra determinata da problemi di prestigio, da una parte, e di rapporti di potere all’interno del gruppo dirigente fascista. La prima ipotesi avanzata è quella di ricorrere a un governatore civile, e per questa carica emerge il nome di Dino Grandi [...]. Per quanto altri nomi vengano poi fatti (quello di Bottai, ad esempio), del governatorato civile ben presto non si parla più perché i tedeschi pongono in atto una loro strategia che condiziona le mosse dell’Italia. Essa si differenzia da quella adottata in altri paesi occupati: non un’amministrazione diretta tedesca, ma un governo collaborazionista greco affiancato da un plenipotenziario politico-diplomatico del Reich. A questa strategia si deve pertanto adeguare l’Italia che provvede alla nomina di un omologo italiano nella persona di un diplomatico piuttosto capace, Pellegrino Ghigi. In questo modo, caduta l’ipotesi del governatorato civile italiano, si crea una struttura che è 79 8 settembre stata impropriamente definita di mezzadria italo-tedesca: si tratta in realtà di un vero e proprio dualismo di poteri. L’Italia si trova nella condizione di dover costantemente inseguire l’iniziativa tedesca, quasi costretta ad agire in modo da non scomparire rispetto all’alleato; e questa graduatoria si riflette anche negli atteggiamenti della popolazione greca. L’atteggiamento più ostile registrato tra i greci è rivolto ai bulgari, a cui si attribuisce il massimo di brutalità; seguono poi i tedeschi, verso i quali c’è un atteggiamento ambivalente di rispetto e di timore; e infine gli italiani, considerati con ironia e scherno. [...] Occorre sottolineare che l’Italia non prevedeva affatto la presenza di un governo greco che potesse essere intermediario nei confronti della popolazione civile. Sono i tedeschi a prendere accordi per la costituzione di questo governo (24 aprile) immediatamente dopo la capitolazione. Gli italiani si trovano di fronte al fatto compiuto. I tedeschi sembrano considerare l’occupazione della Grecia come un fatto imposto da ragioni di carattere strategico, non motivato tuttavia da particolare ostilità verso la Grecia e la sua popolazione. C’è una certa similitudine con quanto avviene nei confronti della Francia: fino al 1942 i tedeschi valutano attentamente il ruolo che può avere Vichy sotto il punto di vista economico e politico nel quadro del Nuovo ordine europeo. L’Italia sarebbe molto più dura nel sostenere le sue rivendicazioni, che sono di fatto bloccate dai tedeschi che richiamano l’alleata all’importanza di aggregare Vichy al complesso del Nuovo ordine europeo, rimandando a più tardi i problemi delle rivendicazioni territoriali. Con la Grecia si verifica una situazione analoga. L’amministrazione italiana riconosce con riluttanza questo stato di fatto. Filippo Anfuso, cui è 80 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO affidato l’incarico di seguire la situazione greca, in uno dei suoi primi rapporti (già alla fine di aprile del 1941) scrive a proposito della soluzione adottata dai tedeschi: <<Con tale soluzione il governo germanico concede alla Grecia non il trattamento delle nazioni nemiche del Reich, quali la Serbia e la Polonia, ma di quelle che per imprescindibili ragioni politiche strategiche è stato costretto ad occupare (Norvegia e Olanda). Trattamento preferenziale che la Grecia certo non merita anche perché lo stato d’animo della popolazione è di averla scampata bella e di essersi sottratta miracolosamente all’occupazione italiana>>. [...] Il problema principale che si presenta è quello del rapporto dualistico con l’amministrazione tedesca. È particolarmente significativo che nel governo greco – governo di un paese sconfitto – non esistesse un ministro degli Esteri. Nel suo diario il generale Cavallero annota che c’è un senso nel fatto che non esista un ministro degli Esteri greco, in quanto tale funzione è assolta dal plenipotenziario tedesco Altenburg. Gli italiani, in sostanza, colsero immediatamente come la gestione della situazione greca fosse ormai sfuggita dalle loro mani e la loro condotta non avrebbe potuto esser altro che quella di una consapevole subalternità alla Germania. (E. Collotti, L’Europa nazista. Il progetto di un Nuovo ordine europeo (1939-1945), Firenze, Giunti, 2002, pp. 295-298) 81 8 settembre La campagna di Russia I l principale teatro della guerra tra Italia e Gran Bretagna fu l’Africa del Nord. Dalla Libia, gli italiani tentarono più volte di penetrare in Egitto, di conquistare Alessandria e di bloccare il canale di Suez. In un teatro di questo genere, sarebbe stato essenziale agire con grande mobilità e con materiale adeguato. Ancora una volta, però, l’esercito italiano fu costretto a scontrarsi con gravissime carenze di tipo organizzativo. I carri armati e i camion per spostare rapidamente le truppe furono sempre scarsi e inferiori a quelli britannici. Gli equipaggi dei carri italiani, ad esempio, erano pressoché privi di radiotelefoni e di bussole per automezzi, mentre i motori degli aeroplani e le mitragliatrici, per parecchio tempo, furono privi di filtri antisabbia. Nel febbraio 1941, le inadeguate truppe italiane furono rafforzate da un contingente tedesco, denominato Afrika Korps, guidato dal generale Erwin Rommel. Dotato di numerosi e veloci carri armati, Rommel riuscì a conquistare il porto di Tobruk e a penetrare infine in territorio egiziano, fino a 100 chilometri da Alessandria. Nell’autunno del 1942, tuttavia, gli inglesi ottennero imponenti rifornimenti e scatenarono una grande offensiva nei pressi di El Alamein, ricacciando indietro le truppe italiane e tedesche. La battaglia di El Alamein chiuse definitivamente ogni speranza di una conquista del Canale di Suez da parte dei nemici dell’Inghilterra. Nello stesso tempo, il 7-8 novembre 1942, truppe anglo-americane sbarcarono in Marocco e in Algeria, col risultato che le forze italo-tedesche si trovarono compresse, in Tunisia, sia da Oriente che da Occidente, e infine dovettero arrendersi. Gli Alleati fecero 130.000 prigionieri, l’intero Mediterraneo passò nelle loro mani, mentre l’Italia divenne una sorta di fortezza assediata. 82 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO Insieme alle carenze nei materiali e nella produzione bellica, una delle principali cause delle ripetute disfatte italiane è da individuare nella dispersione delle forze. Infatti, mentre gli inglesi attaccavano a El Alamein, Mussolini aveva bloccato ben 30 divisioni (600.000 uomini) nei Balcani e, soprattutto, ne aveva inviati altri 229.000 sul fronte russo. Inizialmente, il Duce aveva insistito con Hitler affinché alla grande campagna antibolscevica lanciata dal Terzo Reich partecipasse anche un piccolo contingente italiano (62.000 uomini). Nel 1942, dopo il fallimento dell’Operazione Barbarossa, fu Hitler a chiedere all’Italia un maggiore contributo: così, alle tre divisioni iniziali se ne aggiunsero altre sette. In Russia, il Regio Esercito impiegò in tutto 10 divisioni (229.000 uomini), su un totale di 65: per l’esercito italiano si trattò di uno sforzo notevole; oltre tutto, furono inviate nella steppa russa anche moltissimi alpini, il cui impiego sarebbe stato più proficuo tra le montagne della Jugoslavia. L’ARMIR (Armata Italiana in Russia) era assolutamente inadatta per il tipo di scontro che dovette affrontare. I soldati erano privi di armi automatiche individuali (fucili mitragliatori), mentre le pesanti mitragliatrici in dotazione ai reparti spesso erano inutilizzabili nel rigido inverno russo, con temperature spesso inferiori a -25°. La qualità della lana delle divise era cattiva, pessima quella delle scarpe, che spesso perdevano la suola e comunque non erano in grado di impedire (come già era accaduto in Grecia) il congelamento dei piedi. I pochi carri armati non reggevano minimamente il confronto con quelli tedeschi o russi: pesavano al massimo 3 tonnellate (più o meno come un camion), a fronte delle 27 dei panzer e delle 34 dei carri sovietici. Nell’autunno 1942, insieme all’armata romena, l’ARMIR era schierata sul fiume Don, a protezione del fianco sinistro della Wehrmacht, impegnata a Stalingrado. La grande offensiva sovietica che il 19 novembre portò all’accerchiamento dei tede- 83 8 settembre schi sfondò il fronte in più punti e infine (il 17 gennaio) rinchiuse anche 150.000 italiani, in maggioranza alpini, in una grande sacca, obbligandoli ad una terribile ritirata in mezzo alla neve. Quasi tutti i cannoni furono abbandonati sul Don, mentre gli automezzi disponibili e funzionanti erano insufficienti. La ritirata verso ovest, pertanto, avvenne a piedi; in linea d’aria, si trattava di un tragitto di circa 120 chilometri. In realtà, furono molti di più, a causa della confusione e della necessità di compiere continue deviazioni, per evitare di affrontare i russi, decisamente superiori in uomini e mezzi. L’odissea nella neve di coloro che riuscirono a uscire dalla sacca durò una decina di giorni: la divisione alpina Tridentina riuscì ad uscire dalla sacca – sfondando le linee russe a Nikolajewka – solo il 26 gennaio 1943. In questo disastro, l’esercito italiano perse circa 95.000 uomini; di questi, 10.030 riuscirono a tornare dalla prigionia, a guerra finita, mentre tutti gli altri morirono per le cause più disparate: attacchi russi, assideramento durante la ritirata, congelamento e malnutrizione durante il trasferimento verso i campi di concentramento sovietici o nel periodo dell’internamento. Per coloro che furono catturati, infatti, l’esperienza della prigionia fu estremamente dura, a cominciare dalle marce del davaj, la parola russa (avanti!) con cui le guardie di scorta incitavano i soldati prigionieri a camminare. In teoria, le direttive sovietiche affermavano che bisognava trattare i nemici catturati in modo corretto e dignitoso; in pratica, nessuna delle direttive fu applicata, e solo tardivamente le autorità si preoccuparono di farle rispettare maggiormente. 84 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO LE CARENZE DELL’ARMAMENTO ITALIANO C ristoforo Moscioni Negri prese parte alla campagna di Russia come sottotenente degli alpini. Rientrato in Italia, dopo l’8 settembre 1943 comandò un reparto partigiano in Provincia di Pesaro. Nel suo resoconto, più volte ribadisce che gli alpini combattevano per spirito di corpo. All’opposto, la constatazione delle carenze militari privò i soldati di qualsiasi fiducia nei generali e, a maggior ragione, in Mussolini e nel regime fascista. La scena seguente va ambientata nel dicembre 1942, poco prima della grande offensiva sovietica. Passai fuori molte ore pensando a come avrebbero attaccato i russi e ai punti deboli della nostra difesa. Ero sicuro che non sarebbero venuti dopo una preparazione di artiglieria per non metterci sull’avviso, ma di sorpresa con una rapida corsa attraverso il fiume gelato. Ancora una volta, coi parabellum [= fucili mitragliatori, capaci di sparare a raffica, di cui i russi erano dotati, mentre gli italiani avevano solo fucili a colpo singolo – n.d.r.] contro i fucili, sarebbe stato un massacro. I nostri mitragliatori infatti non potevano essere tenuti pronti in postazione perché si gelavano e non sparavano più, dato che non avevano nemmeno mai visto la miscela antigelo promessaci sin dall’estate. Dovevamo tenerli nei ricoveri, sopra le stufe, ravvolti da una coperta in modo che l’umidità non si condensasse a contatto dell’acciaio, ma anche così non bastava. Portati fuori occorreva qualche minuto prima che si sciogliessero, sparando un colpo alla volta, e la raffica partisse. Delle tre postazioni fucilieri, quella di Minelli al centro e 85 8 settembre l’ultima sulla destra avevano un lieve margine di sicurezza perché una breve scarpata le separava dal piano del fiume. Su di essa, forse, potevano fermare i russi coi fucili intanto che i mitragliatori si scaldavano. Ma quella di Pintossi situata a sinistra verso la valle, dove il Don era più stretto, non aveva davanti nessun ostacolo. Almeno fosse stato possibile difendersi con le bombe a mano. Ma le nostre non erano come le tedesche o le russe: facevano soltanto rumore e per di più sulla neve molte volte non scoppiavano affatto. Se poi i russi avessero attaccato con l’appoggio dei carri, ci avrebbero fatti a pezzi senza possibilità di difesa. I tedeschi almeno, oltre a cannoni di calibro adatto, avevano tenuto dei corsi per cacciatori di carri e i loro fanti potevano difendersi con una tecnica ben studiata e mezzi opportuni. Noi avevamo degli uomini di tempra magari più salda, ma dai nostri comandi arrivavano soltanto inutili e prolisse circolari: il nostro maggiore, al rapporto ufficiali, usava distribuirle come carta per bassi servizi a chi ne aveva bisogno. (C. Moscioni Negri, I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia. Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 16-17) 86 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO I SOLDATI ITALIANI NEL 1943, DOPO LA CAMPAGNA DI RUSSIA D opo la tremenda ritirata di Russia, tra i soldati si diffusero stanchezza, scoraggiamento e rassegnazione. Gli uomini erano del tutto incapaci di capire il senso della guerra che erano chiamati a condurre. Non a caso, molti di questi soldati e di questi ufficiali, una volta rientrati in Italia, parteciparono poi attivamente, dopo l’8 settembre 1943, alla Resistenza. La lettera seguente (datata 10 aprile 1943) fu inviata da un ufficiale fascista alle autorità italiane, per avvertirle della gravità della situazione. Personale (il testo reca il timbro VISTO DAL DUCE) Zona di guerra P.M. 53, lì 10/4/XXI Caro Bastianini [sottosegretario agli Esteri nel 1943 - n.d.r.] da un mese e mezzo circa mi trovo in Russia. Sono qui giunto mentre le nostre truppe eroicamente ripiegavano sotto l’urto possente superiore di mezzi del nemico. [...] Purtroppo la situazione delle nostre truppe rimaste in Russia non è delle più brillanti e desta negli elementi che hanno il diretto comando dei reparti serie preoccupazioni. [...] La truppa è organicamente deperita, stanca, sfiduciata. Da mesi essa si è rifugiata di località in località, e per la maggior parte sono soldati che hanno percorso dai 400 agli 800 Km a piedi sulla neve, combattendo aspramente, senza mai potersi a lungo e convenientemente riposare. Tuttora dorme per terra, agglomerata in locali inadatti, come gregge, senza paglia e senza essersi potuta del tutto spidocchiare. Il tifo petecchiale, o dermo-tifo come ora lo si vuole chiamare, ha 87 8 settembre già fatto la sua comparsa, né si è riusciti per le condizioni ambientali in cui si vive a debellarlo. Se tu, caro Bastianini, entrassi in uno qualunque di questi dormitori nostri avresti la visione viva, palpitante di un lazzaretto manzoniano. Pensa che ne abbiamo uno, ad esempio, nel quale i soldati sono costretti, per mancanza di vetri alle finestre, a sopportare giorno e notte senza interruzione la luce accecante di un riflettore! Tanto spettacolo di miseria stringe profondamente il cuore. I medicinali scarseggiano, gli ospedali rigurgitano di ammalati ed oltre a non essere attrezzati (operazioni chirurgiche non è possibile eseguirne) sono insufficienti ad accogliere tutti gli abbisognevoli di cure ospitaliere. Il rancio - e la truppa non a torto si lamenta - è scarso. Valga un esempio; da ier l’altro e per otto giorni non vi sarà distribuzione di carne fresca. La razione giornaliera è pertanto costituita da 600 gr di pane, 200 gr di pasta, mezza scatoletta di carne (e il soldato non la può più sopportare per l’abuso che ne è stato fatto) e 40 gr di formaggio. [...] Nessuno, dico nessuno, e ancora un’ora fa verbalmente il capitano medico del reggimento me lo confermava, degli elementi che attualmente disponiamo è in condizioni fisiche di sopportare ancora un inverno russo in trincea. Il morale della truppa - conseguenza logica di uno stato di cose è oltremodo basso e così dicasi della maggioranza, per quello degli ufficiali inferiori in modo particolare. Bisogna vivere nei reparti per rendersi conto dello stato vero d’animo degli uomini. Si direbbe che sono stati colpiti da un trauma psichico che li conduce a un senso fatalistico: manca per tanto uno spirito aggressivo e guerriero. [...] Il nostro soldato in Russia, compresi, ripeto, la maggioranza 88 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO degli ufficiali inferiori, è portato istintivamente a non considerare più - dopo il trattamento ospitale e generoso degli indigeni durante il ripiegamento, in contrasto spesso a quello poco cameratesco dei camerati alleati [= i Tedeschi - n.d.r.] - il russo come suo primo nemico. La riprova la troviamo nella corrispondenza privata diretta ai familiari. Negli ufficiali poi, tanto in alto quanto in basso, predomina generalmente un senso di rancore e di sfiducia nei confronti del Regime che viene incolpato di tutti gli errori. Cova, serpeggia un pericoloso spirito antifascista. Anche la personalità del Duce, più o meno velatamente, viene posta in discussione. [...] Caro Bastianini, con piena consapevolezza ti ho prospettato per sommi capi la reale situazione delle nostre truppe in Russia. Qui si sta consumando un tradimento alle spalle del Paese e del Regime. Qui certe verità non si vogliono intendere; vi è un muro attraverso il quale la verità non può e non deve passare. Qui si pensa unicamente a se stessi ed alla propria carriera pronti a riversare in un domani ogni errore e colpa sul Regime e sull’ Uomo che la Divina Provvidenza ci ha dato. [...] Fai di questa mia l’uso che ne credi più opportuno. A mio avviso è bene che il Duce la legga e ne prenda integrale conoscenza. [...] Con ogni augurio t’abbraccio, Tuo GEMELLI (F.W. Deakin, La brutale amicizia. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano, Torino, Einaudi, 1990, pp. 292-294. Traduzione di R. De Felice, F. Golzio, O. Francisci) 89 8 settembre LE CONSEGUENZE DELLA DISFATTA IN RUSSIA L a tragedia degli italiani in Russia si consumò in diverse fasi: la battaglia impari con le truppe sovietiche, la ritirata, la cattura, le marce e il trasporto versi i campi di internamento, la terribile prigionia. Poiché le strutture russe erano assolutamente inadeguate ad accogliere in blocco le migliaia di soldati nemici catturati nella battaglia di Stalingrado, moltissimi italiani e tedeschi morirono di freddo, di fame e di fatica. Sulla tragica ritirata degli alpini (dal Don a Nikolajewka ci sono circa 120 km in linea d’aria, gli alpini ne fecero molti di più, più un altro centinaio fino alla nuova linea tedesca per quelli che riuscirono a uscire dalla sacca) abbiamo buoni studi e una ricca memorialistica [...]. I battaglioni alpini si mossero per dieci giorni nella neve, senza indicazioni, né viveri, né altri mezzi che le poche slitte sovraccariche di feriti trainate da muli straordinari e sacrificati. Se in parte riuscirono a uscire dalla sacca lo si dovette a due fattori, il mediocre impegno dei russi nell’inseguimento, affidato soprattutto alle milizie partigiane, e la grande prova di solidità di questi battaglioni, che in condizioni estreme, pur assottigliati da perdite e sbandamenti, riuscirono a conservare la capacità di superare combattendo i successivi sbarramenti. La Tridentina riuscì a sfondare a Nikolajewka, il 26 gennaio, aprendo la via a una colonna di decine di migliaia di sbandati. Le altre divisioni furono bloccate dagli sbarramenti russi e dovettero arrendersi. [...] Le cifre ufficiali sulle perdite nell’inverno 1942-43 sono di 85.000 dispersi e di 27.000 feriti o congelati, da rapportare 90 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO ai circa 150.000 uomini schierati sul Don [...]. Sulla sorte di questi dispersi l’unica cifra certa riguarda i prigionieri rimpatriati nel 1946 che sono 10.030. Quindi circa 75.000 caduti in quattro diverse fasi, i combattimenti sul Don e nella ritirata, poi, dopo la cattura, le tragiche marce forzate verso le stazioni ferroviarie russe al di là del Don in condizioni disastrose, quindi molti giorni di treno in condizioni sempre disastrose. La quarta fase fu ancora peggiore, con l’arrivo in campi di prigionia sprovvisti di tutto, dove le malattie fecero strage di uomini debilitati da mesi di sofferenze e privazioni. [...] Ripartire i caduti tra le diverse fasi accennate non sarà mai possibile, le stime variano secondo le vicende dei reduci. Quelli che riuscirono a uscire dalla sacca tendono ad accentuare le perdite della ritirata, i superstiti della prigionia ne rivendicano la drammaticità e i tantissimi morti (50.000 come dato orientativo e discusso). Per inquadrare questa falcidie bisogna ricordare la condotta barbara dei tedeschi che fucilavano subito i commissari politici sovietici e una parte dei prigionieri; e lasciarono morire nei campi gran parte di quelli arresisi nel 1941-42, poi nel 1943 cominciarono a utilizzarli come forza lavoro. In totale 3.300.000 morti su 5.700.000 prigionieri russi. Da parte sovietica c’era l’ordine di risparmiare i prigionieri, tranne i russi passati con i tedeschi da fucilare sul campo. [...] La falcidie dei prigionieri italiani fu dovuta alla tragica disorganizzazione dei russi, sopraffatti dal mezzo milione di prigionieri catturati nel corso della battaglia di Stalingrado (fino a quel momento ne avevano fatti ben pochi). Lo sforzo bellico sovietico sacrificava tutto al combattimento, sussistenza e sanità erano già precarie per le truppe, per la massa dei prigionieri mancava tutto, a cominciare dai viveri. 91 8 settembre I comandi russi avevano scarsa attenzione per la vita dei loro uomini (dalle grandi perdite negli attacchi di fanteria a un altissimo numero di fucilazioni); non ne dedicarono molta alla sopravvivenza dei prigionieri nelle marce forzate e nei treni strapieni. Va comunque ricordato che tutto il sistema di trasporti russo era sconvolto dall’invasione e dalle necessità belliche e che le condizioni di alimentazione erano tragiche anche per i cittadini russi. Di conseguenza ci vollero alcuni mesi perché i campi di prigionia garantissero condizioni di sopravvivenza; nel frattempo la maggior parte degli italiani erano morti. Lo stesso accadde ai tedeschi, su circa 110.000 catturati nella sacca di Stalingrado ne sopravvissero soltanto 5.000. Poi il trattamento dei prigionieri migliorò (in totale morirono il 12% dei soldati tedeschi presi prigionieri dai sovietici e il 58% dei soldati russi caduti in mano ai tedeschi), ma per gli italiani era troppo tardi. (G.Rochat, Le guerre italiane 1935-1943, Torino, Einaudi, 2005, pp. 392-397) 92 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO I COMUNISTI ITALIANI IN URSS E LA QUESTIONE DEI PRIGIONIERI N ei primi mesi del 1943, subito dopo la tragedia della ritirata dell’ARMIR, due dirigenti comunisti italiani in Russia – Vincenzo Bianco e Palmiro Togliatti – si scambiarono alcune lettere sulla questione delle durissime condizioni in cui si trovavano i prigionieri nei campi sovietici. Conoscendo in anticipo la posizione di Stalin, Togliatti respinse la richiesta di intervenire presso le autorità russe per ottenere un miglioramento della situazione. All’inizio del 1943, subito dopo la disfatta dell’esercito italiano sul fronte del Don, Bianco ebbe l’incarico di organizzare il lavoro politico tra i prigionieri di guerra italiani, creando le scuole politiche e il giornale per i prigionieri. Questo ruolo lo portava spesso a visitare i lager e quindi ad avere un’idea chiara sullo stato fisico e psicologico in cui si trovavano i prigionieri italiani. Ciò risulta anche dalla ben nota lettera che Bianco inviò a Togliatti il 31 gennaio 1943, e che, tra le altre cose, affrontava il problema dei prigionieri: <<Ti pongo una questione molto delicata di carattere politico molto grande. Penso che bisogna trovare una via, un mezzo per cercare, con le dovute forme, con il dovuto tatto politico, di porre il problema, affinché non abbia a registrarsi il caso che i prigionieri di guerra muoiano in massa come ciò è già avvenuto. Non mi dilungo, tu mi comprendi, perciò lascio a te di trovare la forma per farlo…>>. Bianco chiedeva dunque a Togliatti di intervenire, e appellandosi al <<tatto politico>> dimostrava di essere 93 8 settembre consapevole della reazione che avrebbe potuto avere Stalin a una simile interferenza da parte del segretario del Komintern. La visione staliniana della politica non ammetteva alcun atteggiamento indipendente né autorizzava intromissioni politiche, anche da parte di altri esponenti comunisti, soprattutto in una fase della guerra così critica. La risposta di Togliatti a Bianco, del 15 febbraio-3 marzo 1943, rivela il clima di tensione che si respirava nell’Urss in quegli anni e svela la mancanza di libertà d’azione, di capacità propositiva di fronte al potere staliniano, nonché la completa aderenza ai canoni del comunismo internazionale. La richiesta di Bianco, sostanzialmente, rappresentava una deviazione, che nel gergo staliniano era chiamata umanesimo astratto, oppure <<il tentativo di porre gli interessi nazionali al di sopra di quelli di classe>>. Secondo Togliatti, che aveva imparato la lezione durante tutti quegli anni di esperienza e di vita nell’Urss, Bianco era troppo sentimentale e con i suoi ragionamenti filantropici si discostava dalla posizione assunta dalla leadership staliniana. Scriveva dunque Togliatti: <<L’altra questione sulla quale sono in disaccordo con te è quella del trattamento dei prigionieri. Non sono per niente feroce, come tu sai. Sono umanitario quanto te. O quanto può esserlo una dama della Croce Rossa. La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l’Unione Sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. Anzi. E ti spiego il perché. Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantesca del fascismo. Non nella stessa 94 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali, è penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti. Quanto più largamente penetrerà nel popolo la convinzione che aggressione contro altri paesi significa rovina e morte per il proprio, significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia. I massacri di Dogali e di Adua furono uno dei freni più potenti allo sviluppo dell’imperialismo italiano, e uno dei più potenti stimoli allo sviluppo del movimento socialista. Dobbiamo ottenere che la distruzione dell’Armata italiana in Russia abbia la stessa funzione oggi. In fondo, coloro che dicono ai prigionieri, come tu mi riferivi: “Nessuno vi ha chiesto di venir qui: dunque non avete niente da lamentarvi”, dicono una cosa che è profondamente giusta, anche se è vero che molti dei prigionieri sono venuti qui solo perché mandati. È difficile, anzi impossibile, distinguere in un popolo chi è responsabile di una politica, da chi non lo è, soprattutto quando non si vede nel popolo una lotta aperta contro la politica delle classi dirigenti. T’ho già detto: io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano sopprimere, tanto più che possiamo servircene per ottenere certi risultati in un altro modo; ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro, non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia. E ora alle questioni di lavoro>>. 95 8 settembre Il rifiuto di Togliatti di prendere qualsiasi iniziativa per salvare i prigionieri di guerra italiani, il tentativo di presentare la morte di migliaia di uomini come la giusta nemesi per aver partecipato alla guerra contro l’Urss dimostrano la totale subordinazione della dirigenza del Pci alla politica staliniana. […] Bianco replicò seccamente con una lettera del 20 marzo: <<Non intendo aprire una discussione né con te né con nessun altro. […] Ma mettere una croce sulla massa dei lavoratori dei paesi del blocco fascista, tu sai meglio di me cosa significa, e, oltre tutto, io so benissimo che tu non la pensi così. Ma, purtroppo, devo constatare che questa opinione è largamente diffusa>>. […] Le accuse di Bianco si scontravano con una mentalità che non tollerava atteggiamenti umanitari. L’insistenza con cui Bianco si rivolse sia a Togliatti sia ai responsabili sovietici dei prigionieri di guerra, nonché allo stesso Dimitrov, dimostra come egli fosse sinceramente interessato alla sorte dei suoi connazionali. Del resto lui, a differenza di Togliatti, i campi di prigionia li aveva visitati. (M. T. Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 53-57) 96 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO La caduta del fascismo I n Italia, dopo i primi anni di guerra, la situazione economica ed alimentare era diventata drammatica. Nel giugno del 1942, la razione giornaliera di pane venne fissata a 150 grammi per persona, mentre grassi commestibili e zuccheri furono distribuiti rispettivamente nella misura di 400 e 500 grammi mensili. I prezzi dei generi alimentari salirono, dall’indice 100 del 1939, a 172 nel 1942. Viceversa, i salari rimasero praticamente fermi, col risultato che il loro potere d’acquisto reale era proporzionalmente diminuito. A seguito di questa drammatica situazione, il 5 marzo 1943 scoppiò a Torino una serie di scioperi di protesta; il regime fu colto completamente alla sprovvista e si mostrò del tutto incapace di reprimere le agitazioni, che ben presto si estesero alle industrie milanesi e coinvolsero un numero elevatissimo di operai: 130.000. Il 2 aprile, il governo fu costretto ad annunciare un aumento generale dei salari e degli stipendi, <<da corrispondersi per l’anniversario della fondazione di Roma, il 21 aprile>>. Appellandosi a questa data simbolica, il regime voleva far finta di mascherare (a se stesso, in primo luogo) la grave situazione di malcontento diffuso fra la popolazione. Il significato degli scioperi della primavera del 1943 sta proprio in questa progressiva corrosione del consenso del popolo italiano nei confronti del fascismo. Meno spettacolare (ma non meno importante, come sintomo e segnale della crisi di consenso che stava per investire il fascismo) fu l’episodio delle dimissioni del conte Cini da Ministro delle Comunicazioni, il 14 giugno (tre giorni dopo l’occupazione di Pantelleria e di Lampedusa da parte degli anglo-americani). Cini, infatti, era una figura di primo piano del mondo dell’industria e dell’imprenditoria, cioè di quella borghesia che, 97 8 settembre nel 1922, aveva accettato che il fascismo andasse al potere, considerandolo l’unica barriera di fronte al pericolo della rivoluzione sociale. Le dimissioni di Cini sono, per certi versi, il parallelo borghese degli scioperi operai; si trattò di un distacco, di una presa di distanza critica: da ogni parte, e persino negli ambienti che avevano appoggiato per anni il regime, si stava insomma creando, intorno a Mussolini, il vuoto. Dopo lo sbarco alleato in Sicilia, le motivazioni che indussero Vittorio Emanuele III a destituire Mussolini furono, sostanzialmente, di natura dinastica; il sovrano temeva, infatti, che l’imminente disfatta militare avrebbe potuto travolgere lo stesso istituto monarchico. Lo sforzo del re fu quello di distinguere, almeno all’ultimo momento, la monarchia dal fascismo e dalla guerra voluta dal regime mussoliniano, in modo che la caduta del Duce (inevitabile, in caso di sconfitta) non coinvolgesse la dinastia sabauda. Il 19 luglio (dopo che Roma era stata pesantemente bombardata e Mussolini, incontratosi con Hitler a Feltre, non aveva trovato il coraggio di porre al Führer la questione dello sganciamento dell’Italia dal conflitto) il re prese accordi col generale Ambrosio e con il comandante dei Carabinieri, in modo da arrestare Mussolini il 26 luglio, in occasione dell’udienza che, in quel giorno, il Duce avrebbe avuto presso il sovrano. La seduta del Gran Consiglio del Fascismo, la notte tra il 24 e il 25 luglio, precipitò gli eventi. La convocazione del supremo organo del regime fu richiesta il 16 luglio da una quindicina di gerarchi fascisti desiderosi di discutere insieme al Duce i provvedimenti che la gravità della situazione richiedeva. Un gruppo di alti esponenti del partito, però, decise di sfruttare l’occasione per mettere sotto accusa Mussolini e chiederne, di fatto, la destituzione. Tale nucleo di dissidenti era guidato da Dino Grandi e da Galeazzo Ciano; il primo era stato ambasciatore a Londra dal 1932 al 1939, 98 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO allorché fu richiamato in Italia e nominato Presidente della Camera. Nel suo periodo londinese, Grandi aveva fatto di tutto per mantenere buoni i rapporti dell’Italia con l’Inghilterra ed impedire l’avvicinamento del fascismo al nazionalsocialismo tedesco. Ciano, genero del Duce, era invece stato ministro degli Esteri dal giugno 1936 al febbraio 1943; dopo la catastrofe di Stalingrado, aveva a più riprese sollecitato Mussolini di premere su Hitler affinché concedesse una maggior attenzione al fronte mediterraneo, o meglio ancora giungesse ad una pace negoziata con l’URSS, in modo da poter concentrare tutte le forze contro gli anglo-americani. La riunione del Gran Consiglio del Fascismo ebbe inizio alle 17 del 24 luglio 1943; Grandi pose in votazione un proprio ordine del giorno, che in sostanza esautorava Mussolini da ogni potere, visto che chiedeva il ritorno del re al comando delle Forze Armate (assunto da Mussolini il 10 giugno 1940, al momento dell’ingresso dell’Italia in guerra) e il regolare funzionamento di tutti gli organi dello Stato, primo fra tutti la Camera. Certamente, nelle intenzioni di Grandi, non si trattava di un vero ritorno alla Stato liberale e al parlamentarismo; piuttosto, Grandi e i suoi sostenitori prospettavano una sorta di fascismo senza Mussolini, di regime autoritario senza la dittatura personale del Duce, di Stato forte nel quale, al massimo, potesse esistere un certo margine per il dibattito e la discussione: se non altro, per ottenere di nuovo la collaborazione di tutte quelle forze conservatrici (la grande borghesia e l’esercito, ad esempio) che avevano abbandonato Mussolini al suo destino. In ogni caso, per il momento, secondo Grandi erano importanti soprattutto lo sganciamento dalla Germania e l’armistizio con gli anglo-americani; tutto il resto, in ultima analisi, era subordinato a questa fondamentale svolta in politica estera. La drammatica e confusa riunione del supremo organo del fascismo durò dieci ore ed ebbe termine alle 2.40 del mattino del 25 luglio, dopo l’appro- 99 8 settembre vazione dell’ordine del giorno Grandi (19 a favore, 7 contrari, 1 astenuto). Il re vide nella decisione del Gran Consiglio la legittimazione finale del colpo di stato che stava per attuare, e che ebbe effettivamente luogo nel pomeriggio del 25 luglio. 100 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO GLI SCIOPERI OPERAI DEL MARZO 1943 L ’improvvisa ondata di scioperi che, nel marzo 1943, investì i grandi centri industriali del Nord Italia sono il segnale dell’irreversibile crisi del fascismo. Da un lato, evidenziarono il fallimento completo del modello corporativo, del tutto incapace di mediare i conflitti sociali; dall’altro, mostrarono l’abisso che la guerra aveva scavato fra il regime e il popolo italiano. All’inizio di marzo la situazione esplose improvvisamente. Alle dieci del mattino del 5 marzo, i lavoratori delle grandi fabbriche Fiat Mirafiori incrociarono le braccia. Il segnale prestabilito doveva essere la quotidiana prova a quell’ora delle sirene d’allarme. La direzione tuttavia era stata avvisata e non avvenne la prova. Ma nel giro di pochi minuti ogni lavoro si arrestò in ogni punto della fabbrica, e la notizia si sparse fulminea per Torino. Benché le unità della milizia fascista fossero all’erta sin dall’alba, dato che le autorità si aspettavano qualche dimostrazione preordinata, non fu presa nessuna immediata contromisura. Entro quella sera lo sciopero si era esteso ad altre sette fabbriche di Torino. L’8 marzo il locale segretario della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria aveva telegrafato al nuovo ministro delle Corporazioni a Roma, Tullio Cianetti, che gli scioperi simbolici avvenuti alle dieci di quella mattina avevano messo in agitazione da 30 a 35.000 lavoratori. Entro il 12 marzo avevano scioperato più di 100.000 lavoratori. Il giorno seguente si tennero a Torino incontri clandestini fra i dirigenti dello sciopero, nel corso dei quali furono discusse le richieste economiche degli scioperanti e fu 101 8 settembre decisa la diffusione di volantini che incitavano a continuare il movimento e a estenderlo ad altre regioni. Il 14 marzo il comitato clandestino del Partito comunista italiano per la Lombardia si riunì a Milano per ascoltare un rapporto sugli avvenimenti di Torino e del Piemonte. Nei giorni seguenti l’agitazione si estese alla Lombardia. L’invito allo sciopero fu annunciato a Milano il giorno 24 e le fabbriche Pirelli e Falk seguirono l’esempio di Torino. Sembra che fossero interessati allo sciopero più di 130.000 lavoratori, e le industrie belliche chiave del paese furono temporaneamente paralizzate. Dietro le richieste economiche – 192 ore pagate al mese, indennità di carovita, aumento delle razioni – c’erano i segni di un’agitazione politica concertata. […] Lo sciopero chiave che dette inizio a tutto il movimento, e che scoppiò alla Fiat Mirafiori, era stato preparato il mese precedente dal capo della locale cellula comunista. Fra i 21.000 lavoratori c’era una cellula di 80 iscritti, nessuno dei quali pagò regolari contributi al partito fino al maggio seguente, e in tre altre grosse fabbriche di Torino gli iscritti alla cellula erano rispettivamente 30, 72 e 60. Il significato fondamentale del movimento deriva dal fatto che pochi quadri riuscirono a fare esplodere un’azione di massa, che ebbe effetti decisivi sulla struttura e il prestigio del fascismo. La reazione delle autorità fasciste rivelò, ancor più chiaramente dello stesso sciopero, la debolezza del regime. Il capo della polizia, Carmine Senise, descrisse la situazione nelle sue memorie: <<[Gli] scioperi [furono] proclamati per motivi economici ma con finalità politiche, specialmente pel fatto che gli stabilimenti nei quali gli operai incrociarono le braccia erano tutti di produzione bellica. […] Il fatto notevole fu che allo 102 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO sciopero tutti parteciparono: fascisti e non fascisti, persino quelli che facevano parte della milizia. Alla Fiat di Torino anzi esisteva un’apposita legione, costituita interamente di operai di quegli stabilimenti, creata d’accordo fra il Partito e i dirigenti di quell’industria allo scopo di controllare il comportamento politico della massa: ebbene, i militi parteciparono allo sciopero come tutti gli altri operai e non si può proprio pensare che non avessero compreso le finalità di un movimento di cui erano evidenti il carattere politico e il fine contrario alla guerra>>. […] Il capo del primo sciopero alla Fiat fu arrestato insieme con circa trenta compagni. La polizia capì di trovarsi di fronte a un’organizzazione che lavorava per indebolire il fronte interno. Nella relazione dell’ispettore generale di pubblica sicurezza al capo della polizia a Roma, era scritto: <<I risultati dell’operazione, sia per il sequestro del materiale di propaganda, sia per le confessioni della maggior parte degli arrestati, stanno a provare obiettivamente l’avvenuta ricostruzione del Partito comunista torinese, personalmente diretto da un emissario del partito rimasto finora non identificato, e l’opera sovvertitrice che esso svolgeva col fine di sconvolgere la compagine nazionale, di aizzare la massa operaia e gli stessi militari contro la guerra e contro l’alleata Germania, di sollevare il popolo contro il regime e contro i poteri dello Stato>>. Questa insistenza sul pericolo comunista nelle agitazioni popolari era una vecchia tattica delle autorità fasciste, e un’espressione della paura per quel fantasma storico creato dagli stessi fascisti nel passato per giustificare la conquista del potere. La risposta delle masse all’azione di un gruppo di cospiratori era in realtà allarmante e la scarsa presa del partito fascista sulle masse, 103 8 settembre manifestatasi in tale occasione, rivelava, meglio di quanto fosse avvenuto prima nella storia del regime, la falsità degli obiettivi dello Stato corporativo. […] Questo significato degli scioperi di marzo è duramente e chiaramente affermato in una lettera di Farinacci a Mussolini del 1° aprile: << […] Non mi sgridare se ancora una volta ti affermo che l’esperimento corporativo, attraverso innovatori, improvvisatori, dottrinari e demagoghi, non è riuscito secondo quello spirito che animò la nostra fede e i nostri propositi […]. Il partito è assente e impotente… Ora avviene l’inverosimile. Dovunque, nei tram, nei caffè, nei teatri, nei cinematografi, nei rifugi, nei treni, si critica, si inveisce contro il regime e si denigra non più questo o quel gerarca, ma addirittura il Duce. E la cosa gravissima è che nessuno più insorge. Anche le Questure rimangono assenti, come se l’opera loro fosse ormai inutile. Andiamo incontro a giorni che gli avvenimenti militari potrebbero far diventare più angosciosi. Difendiamo la nostra rivoluzione con tutte le forze… E poi, caro Presidente, perché non convochi il Gran Consiglio? Lascia che ognuno sfoghi il suo stato d’animo, che ognuno ti dica il suo pensiero. E fa in modo che tutti ritornino rincuorati dalla tua parola>>. Era la prima richiesta volta a ottenere che i dirigenti fascisti compissero un esame al massimo livello, al di sopra della segreteria del partito, della situazione interna italiana. Il regime era di fronte alla più grande crisi politica della sua storia dopo l’assassinio di Matteotti nel 1924 e, come allora, Farinacci, fra le fila dei gerarchi fascisti, si fece portavoce dell’esigenza di drastici provvedimenti. La sua proposta di convocare il Gran Consiglio fu la prima richiesta in tal senso nel 1943, e non fu che tre mesi dopo, quando la situazione militare 104 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO raggiunse l’orlo dell’abisso, che Mussolini si arrese a questa richiesta. (F. W. Deakin, La brutale amicizia. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano, Torino, Einaudi, 1990, pp. 302-308. Traduzione di R. De Felice, F. Golzio, O. Francisci) RITRATTO DI DINO GRANDI L ’ex capo squadrista bolognese Dino Grandi (1895-1988) fu il principale tessitore del progetto finalizzato a estromettere Mussolini, al fine di intavolare credibili negoziati di pace, che evitassero all’Italia un’umiliante resa incondizionata (come Churchill e Roosevelt avevano proclamato, da Casablanca, nel gennaio 1943). Anzi, Grandi arrivò a proporre al re di capovolgere le alleanze, di dichiarare guerra alla Germania e di schierarsi al fianco degli anglo-americani. Vittorio Emanuele III, però, non accettò un progetto così machiavellico e restò in attesa. In tal modo, fu perso tempo prezioso, che permise ai tedeschi di far affluire truppe in Italia e di occuparne facilmente l’intero territorio nazionale, al momento dell’armistizio. Nel 1939 e nei primi mesi del 1940, Grandi era stato ostile alla partecipazione dell’Italia alla guerra e aveva fatto il possibile per scongiurarla, arrivando, il 1° settembre 1939, sino a prospettare in Consiglio dei ministri l’opportunità di rivedere radicalmente i rapporti con la Germania e, il 105 8 settembre 21 aprile successivo, a scrivere a Mussolini per metterlo in guardia contro decisioni affrettate; poi, di fronte all’inatteso crollo della Francia, anche lui aveva per un momento pensato che Mussolini potesse aver ragione e, entrata l’Italia in guerra, aveva, come Balbo e altri avversari dell’alleanza con la Germania, uniformato il suo comportamento all’antico motto inglese che poco prima di Monaco aveva ricordato a Chamberlain: <<right or wrong, my country>> [= a torto o a ragione, il mio paese – n.d.r.]. Le vicende belliche della fine del 1940 e degli inizi del 1941, in particolare la campagna di Grecia, lo avevano però fatto ricredere presto e da allora aveva sempre pensato che fosse necessario trovare il modo di far uscire, prima che fosse troppo tardi, l’Italia dal conflitto. Data la sua lunga permanenza come ambasciatore a Londra dal 1932 al 1939, la sua conoscenza dell’ambiente politico inglese e i suoi ottimi rapporti con alcune delle personalità più importanti della vita politica e della diplomazia di quel paese, a cominciare da Churchill, più che agli Stati Uniti, anche dopo che questi erano scesi in guerra, le sue speranze per una trattativa in tal senso si erano sempre rivolte all’Inghilterra. […] L’udienza del 4 giugno [1943 fu] l’ultima che Grandi ebbe dal sovrano prima del 25 luglio. Al punto in cui erano arrivate le cose Grandi […] parlò chiaro, tanto più che una domanda del re (<<La Camera approva la politica e l’azione del governo?>>) l’aveva lasciato di stucco: <<La Camera – rispose – è immobilizzata ma inquieta. La grande maggioranza dei consiglieri nazionali non attende altro che un gesto di forza da parte di vostra maestà. L’Italia intera ha condannato ormai la dittatura, vuole uscire da una guerra che non è sua, ma bensì soltanto del dittatore che 106 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO l’ha proclamata. Sino a quando noi siamo stati padroni del Mediterraneo una pace separata era possibile, oggi, dopo le decisioni di Casablanca, una pace onorevole cogli Alleati è possibile soltanto se noi avremo il coraggio di affrontare in campo aperto i tedeschi. È questa la sola condizione per rendere inoperante la resa incondizionata decisa dalle potenze nemiche a Casablanca>>. Di fronte ad un discorso così netto, il tono del re si era fatto duro: <<Le ho detto mille volte che io sono un re costituzionale e che deve essere il Parlamento ad indicarmi la strada>>. E ai tentativi di Grandi di replicare rifacendosi ai precedenti del maggio 1915 e dell’ottobre 1922, quando Vittorio Emanuele non aveva tenuto conto delle maggioranze neutralista e antifascista esistenti in parlamento, aveva ribattuto: <<Sì, ma in entrambi i casi ho atteso il voto di fiducia del Parlamento. Oggi il Parlamento tace, imprigionato, lo so, ma c’è anche il Gran Consiglio che potrebbe in via eccezionale costituire un surrogato del Parlamento>>. Una frase, quest’ultima, che indubbiamente può e poteva essere intesa come una precisa indicazione su quali basi operare, ma che – a nostro avviso – non può essere assolutamente estrapolata dal resto del discorso, dalla sua parte cioè relativa all’atteggiamento da tenere verso i tedeschi. A questo proposito il re fu assi esplicito: […] se egli doveva essere convinto che nella liquidazione di Mussolini, Grandi poteva giocare un ruolo importante, certo più importante di quello delle opposizioni [= dei deboli e disorganizzati partiti antifascisti – n.d.r.], doveva però aver accolto del tutto negativamente la sua idea di un capovolgimento immediato di fronte: una idea, per lui, non solo <<temeraria>>, ma inconcepibile, che andava 107 8 settembre contro sia alle sue più radicate norme di comportamento, sia ai suoi progetti, che prevedevano, invece, un’operazione in due tempi, prima la liquidazione di Mussolini, poi l’armistizio con gli anglo-americani, e non dovevano menomamente contemplare il passaggio all’offensiva contro i tedeschi. Ma a questo punto non si trattava più di una diversità di valutazioni politiche: era il contrasto netto tra due temperamenti, due culture, due modi di concepire la vita che non avevano nulla in comune e, in quel momento almeno, non potevano assolutamente intendersi. […] Stando così le cose, Grandi – convinto com’era che quella fosse l’occasione decisiva e praticamente l’unica sulla quale poter contare – si mosse dal 21 al 24 luglio e durante la stessa riunione del Gran Consiglio con la massima spregiudicatezza guardando solo al risultato e, per il resto, lasciando che ciascuno interpretasse il suo ordine del giorno e le sue parole come voleva, purché lo sostenesse, anche solo strumentalmente. […] Significativa ci sembra la disponibilità dimostrata da Grandi ad accettare l’adesione di Ciano – che personalmente non avrebbe voluto per motivi politici (ciò che Ciano aveva rappresentato a lungo con la sua politica filotedesca), morali (la sua parentela con Mussolini) e, aggiungiamo noi, personali (la loro sorda inimicizia) – non appena l’ex ministro degli Esteri si disse disposto a sottoscrivere il suo ordine del giorno e Bottai appoggiò la sua richiesta. E, del resto, una conferma indiretta di questa nostra opinione la si può trovare in quanto anni dopo avrebbe scritto Federzoni: <<Non so, a dire il vero, se tutti i sottoscrittori avessero ancora un chiaro concetto dei possibili effetti politici di ciò che stavano per fare>>. In un certo senso, si può dire che, se di lealtà si può parlare per questo genere di cose e in 108 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO circostanze, per di più, tanto drammatiche, fu con Mussolini che Grandi si dimostrò più leale […]: nei limiti del possibile, Grandi non volle che il suo operato assumesse il carattere di una congiura alle spalle di Mussolini e, forse, volle dargli addirittura una chance per uscire di scena salvando in qualche modo la faccia, ché, infatti, Grandi conosceva troppo bene Mussolini e la sua sensibilità politica per non capire che egli si rendeva conto di cosa lo aspettava se l’ordine del giorno Grandi avesse raccolto la maggioranza. (R. De Felice, Mussolini l’alleato. 1. L’Italia in guerra 1940-1943, Torino, Einaudi, 1996, pp. 1228. 1236-1238. 1249-1252) I SENTIMENTI DELLA POPOLAZIONE NEL 1943 N ell’estate 1943, temendo un attacco degli anglo-americani in Sicilia, Mussolini tenne alla radio numerosi discorsi infarciti di espressioni retoriche. Tra l’altro (il 18 giugno) dichiarò che i nemici sarebbero stati fermati sulla spiaggia (o meglio, sul bagnasciuga) e che ogni città dell’isola sarebbe stata una trincea. Il documento seguente, datato 9 luglio, è tratto da un rapporto dei Carabinieri di Enna: dimostra che la popolazione non credeva più alla retorica e considerava la guerra irrimediabilmente perduta. Il discorso del Duce ha lasciato il pubblico indifferente… non è stato sentito dalla maggioranza dei cittadini, che non hanno più fede in colui che guida i destini della nazione. 109 8 settembre Il pubblico, oltre le cose di primaria necessità, ha bisogno di sapone – che ora viene consegnato totalmente alle forze armate – olio, zucchero (che non sono distribuiti), vestiti e scarpe che sono scomparse completamente dal mercato. A tutto questo si devono aggiungere i continui bombardamenti delle città piccole e grandi dell’isola, senza sufficiente opposizione da parte nostra, che hanno abbassato il morale della popolazione a un punto tale che essa prega per la fine della guerra come una santa liberazione. (E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 66) LA REAZIONE DEGLI ITALIANI ALL’ANNUNCIO DELLA FINE DEL REGIME L ’annuncio dell’arresto di Mussolini fu accolto dalla maggioranza degli italiani con sollievo, soddisfazione ed entusiasmo. Temendo un’improvvisa insurrezione popolare, Badoglio autorizzò i suoi subordinati ad usare qualsiasi strumento, pur di mantenere l’ordine. Tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, la repressione delle manifestazioni di piazza provocò 93 morti, 536 feriti e 2.276 arresti. All’annuncio che il sovrano ha accettato <<le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro segretario di Stato, di sua eccellenza il cavalier Benito Mussolini>> 110 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO strade e piazze sono invase da gruppi di cittadini in tripudio, che innalzano cartelli e vessilli tricolori. Le scritte murali esprimono lo stato d’animo di ampi settori della popolazione urbana: <<VIVA IL DUCE LADRO>>, <<ABBASSO IL TRUCE>>, <<ASSASSINO DI MATTEOTTI>>… Sentimenti rimasti repressi per anni esplodono e nel loro libero riproporsi ritrovano la prova oggettiva della loro veridicità: non è più l’isolato antifascista a ingiuriare il tiranno, rischiando con ciò stesso il confino, bensì la moltitudine ridivenuta soggetto attivo, che dimostra la propria esistenza denegando il regime decapitato dalla congiura di palazzo. Come gli scioperi industriali del marzo 1943 avevano seriamente incrinato la credibilità della dittatura, stavolta le sfilate di migliaia di cittadini in tripudio forniscono un contributo – apparentemente postumo, in realtà essenziale – al tracollo del fascismo, sepolto dall’evidenza del totale isolamento dopo un ventennale monopolio delle piazze. La folla si assiepa dinanzi agli edifici e incita alcuni ardimentosi che, issati su precari appoggi, scalzano lapidi e scalpellano fasci littori. L’esigenza di vilipendere e rimuovere i segni del Ventennio è impellente nella capitale, dove più che altrove la coreografia imperiale aveva segnato l’arredo urbano; gruppi di giovani prendono d’assalto monumenti e statue del deposto autocrate, animati da fervore iconoclasta. Il servizio fotografico più significativo riprende i momenti culminanti della distruzione di un gigantesco simulacro bronzeo di Mussolini: l’enorme testa, staccata dal busto, giace rovesciata sul selciato, colpita da bastonate e finalmente trascinata per le vie da una frotta di ragazzi, probabilmente quegli stessi ai quali farà riferimento nelle sue memorie l’ex comandante della Milizia, irritato dalla 111 8 settembre <<folla di donne e di giovinastri>> impadronitasi delle strade per festeggiare la fine della dittatura. Il sentimento popolare si sfoga simbolicamente sulle rappresentazioni feticistiche del potere mussoliniano, con una prefigurazione allusiva di quanto sarebbe accaduto di lì a venti mesi a piazzale Loreto. […] La parola d’ordine lanciata dal duce (<<Vincere!>>) si rivela ogni giorno più irrealistica, e nell’estate 1943 la guerra fascista si è trasformata in un’estenuante tragedia quotidiana di morte, di fame e di battaglie perdute. Le ottimistiche valutazioni riportate dalla stampa sui danni inferti dalle armate dell’Asse agli eserciti delle forze demo-plutocratiche e bolsceviche sono contraddette dalla travolgente offensiva anglo-americana in Sicilia e dall’inasprimento dei micidiali bombardamenti aerei, che radono al suolo alcuni quartieri di Roma. Il 25 luglio il quartier generale delle forze armate maschera i successi degli avversari (<<In Sicilia si è anche ieri duramente combattuto. L’urto nemico, contenuto nei settori orientale e centrale del fronte si è ripetuto particolarmente intenso sull’ala settentrionale del nostro schieramento>>), ma non può sottacere l’ennesimo tributo di vittime civili, riprova della vulnerabilità del territorio nazionale: <<A seguito delle incursioni aeree dei giorni scorsi sono state accertate le seguenti perdite tra la popolazione civile: a Bologna 97 morti e 270 feriti; ad Aquino (Frosinone) 4 morti e 10 feriti per scoppio ritardato di bombe; a Capo Rizzuto 1 morto e 2 feriti; a Livorno 17 feriti di cui 2 gravi>>. […] Il governo Badoglio, timoroso sia della ripresa dell’antifascismo sia di possibili colpi di coda dei seguaci di Mussolini, supplisce alla sostanziale inerzia in tema di 112 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO politica estera con robuste dosi di decisionismo sul piano interno, stringendo ulteriormente le maglie dell’ordine pubblico in una militarizzazione del territorio rivolta non già a preparare la lotta al malfido alleato tedesco (nel frattempo impegnato a rafforzare la sua rete militare in Italia) bensì a reprimere moti di protesta. Il generale Mario Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito, sollecita i tutori dell’ordine pubblico a considerare delittuosa <<qualunque pietà e qualunque riguardo nella repressione>>, poiché <<poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito; perciò ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine>>. Le direttive dell’alto ufficiale non lasciano spazio a equivoci di sorta sull’atteggiamento dei comandi militari verso la ripresa dell’antifascismo: <<Muovendo contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano prescrizione autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Medesimo procedimento venga usato da reparti in posizione contro gruppi di individui avanzanti. Non est ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento… Il militare che, impiegato in servizio ordine pubblico, compia il minimo gesto di solidarietà con i perturbatori dell’ordine, aut si ribelli, aut non obbedisca agli ordini, aut vilipenda superiori et istituzioni, venga immediatamente passato per le armi>>. I due primi decreti emanati dal nuovo esecutivo – pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 29 luglio – sono espressione del doppio binario perseguito dalla Corte e dagli alti circoli militari: lo smarcamento dal fascismo agonizzante e il 113 8 settembre mantenimento del ferreo controllo sulla popolazione. Il regio decreto legge n. 668 sopprime il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e ne trasferisce le competenze ai tribunali militari (<<La cognizione dei reati già spettante al Tribunale predetto è devoluta, durante lo stato di guerra, ai Tribunali militari, secondo la rispettiva competenza territoriale. La devoluzione ha luogo anche per i procedimenti in corso. Relativamente ai predetti reati, i Tribunali militari procedono in ogni caso, durante lo stato di guerra, col rito di guerra>>), mentre il regio decreto legge n. 669 estende il controllo militare all’intera nazione (articolo unico: <<La legge penale militare di guerra è applicabile anche nel territorio delle provincie non dichiarate o considerate in stato di guerra>>). Ne deriva un accresciuto controllo sulle residue libertà degli italiani. A Bari l’attuazione pedissequa dello stato d’assedio provoca una strage: il 27 luglio una ventina di manifestanti vengono falciati dai soldati (ma la censura sulla stampa mantiene riservata la notizia dell’eccidio). L’indomani una manifestazione operaia indetta a Reggio Emilia dai comunisti con la parola d’ordine: <<Basta con la guerra! I tedeschi in Germania!>> viene dispersa al prezzo di una decina di morti e di numerosi feriti gravi. (M. Franzinelli, “Il 25 luglio”, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 221-230) 114 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO 115 Leandro Arpinati 45) (Bo), 22 aprile 19 1892 - Argelato o ai br feb 29 , na (Civitella di Romag Dimensione locale La guerra, i fascisti, i tedeschi I primi anni di guerra S econdo alcune testimonianze, la folla di bolognesi che, il 10 giugno 1940, in piazza Vittorio Emanuele ascoltò il discorso con il quale il Duce annunciò l’intervento dell’Italia in guerra, nel momento decisivo (<<la dichiarazione di guerra è già stata consegnata…>>) restò per un attimo perplessa, in pensoso silenzio. Anche a Bologna, dunque, il conflitto del 1939-1940 non fu accolto con l’entusiasmo che aveva caratterizzato le masse nell’agosto 1914. D’altra parte, poiché era convinzione universale che la guerra – dopo la resa della Francia – sarebbe durata pochissimo, su Il Resto del Carlino continuarono regolarmente ad essere pubblicate inserzioni pubblicitarie che suggerivano soggiorni sulle Dolomiti, sulla riviera romagnola, persino a Viareggio (meta però ritenuta all’epoca, da molti emiliani, esotica, o meglio troppo lontana e difficile da raggiungere). A Ferragosto, erano già partite per la villeggiatura circa 20.000 persone. Per chi rimase in città, l’estate del 1940 fu il tempo dell’oscuramento e degli improvvisi allarmi aerei, che tuttavia non comportarono alcuna incursione, ma solo improvvise e generali accensioni di luci, capaci di rendere nulle in un attimo tutte le severe prescrizioni emanate dalle autorità. Più rigorosi e rigidamente applicati, invece, i divieti di circolazione per le automobili, concesse solo a chi ne aveva bisogno per ragioni professionali e su percorsi stabiliti con estrema precisione. Tale faccenda, però, riguardava un’infima minoranza di cittadini (a Bologna, la targa BO, nel 1940, non superava il numero 25.000), mentre era la 117 8 settembre bicicletta il mezzo di spostamento veramente di massa in una città che comprendeva appena 250.000 abitanti. Più tardi, nel 1941, furono requisiti tutti i pneumatici, rendendo impossibile qualsiasi circolazione di veicoli a motore privati. Alla fine della prima estate di guerra (settembre 1940) cominciarono a scarseggiare in città zucchero e sapone, mentre numerose cancellate di ville e giardini furono abbattute e requisite, per ottenere metallo utile allo sforzo bellico. Le occasioni si svago e divertimento, però, non mancavano: i cinema proiettavano ancora film americani, mentre i teatri offrirono numerosi concerti e spettacoli di opera lirica. Il 1941 obbligò i bolognesi ad un confronto più serio con la realtà della guerra. L’ospedale Rizzoli, infatti, ospitò numerosissimi feriti, costretti a subire terribili amputazioni, a seguito del congelamento degli arti sulle montagne dell’Albania e della Grecia. In inverno, i combustibili da riscaldamento furono facilmente reperibili, sia pure a costi notevolmente più alti, rispetto all’anno precedente. I generi alimentari, invece, cominciarono a scarseggiare; mentre pasta e farina bianca divennero pressoché introvabili, gli unici beni acquistabili liberamente erano surrogati dal sapore stomachevole, fabbricati con ingredienti ignoti. L’anno seguente, il razionamento investì anche vari beni di consumo non commestibili (come cappelli, cravatte e guanti), mentre surrogati di pessima qualità sostituirono i saponi da barba. D’altra parte, nel 1942, i rapporti tra città e campagna si fecero più stretti e sistematici, permettendo agli abitanti del centro urbano di rifornirsi regolarmente nel contado di derrate alimentari. Infine, nella primavera del 1943 molte famiglie decisero di trasferirsi a tempo indeterminato nelle campagne, sia per garantirsi un regolare rifornimento di beni primari, sia per sfuggire ai bombardamenti, che cominciarono a rovesciarsi sulle principali città italiane. Nodo ferroviario di primaria importanza, Bologna fu attaccata 118 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO per la prima volta il 16 luglio 1943 (9 morti); molto più grave fu il bombardamento del 24 luglio (97 morti, 270 feriti), che investì il centro della città e provocò la parziale distruzione della chiesa di San Francesco. Il giorno seguente (25 luglio), la caduta del fascismo mise in moto alcuni cambiamenti importanti: all’università, fu nominato rettore Enrico Redenti, insigne giurista, mentre all’ex-sindaco socialista Francesco Zanardi fu concesso di ritornare dal confino. Tuttavia, il diffuso entusiasmo popolare fu attenuato dal pesante bombardamento che investì la città la mattina del 2 settembre (14 morti). La notizia dell’armistizio fu diffusa pubblicamente alle 19,30, in piazza Vittorio Emanuele; tra la folla, molti ritratti del re, ma anche scritte che chiedevano libertà e pace oppure un governo elettivo. Nel pomeriggio del 9 settembre, il comando tedesco si stabilì all’hotel Baglioni, nel centro di Bologna. La massima autorità, designata per il controllo sulla cosiddetta Militärkommandantur 1012 (comprendente le zone di Bologna e Modena), fu inizialmente il colonnello Helmuth Dannhel, coadiuvato dal maggiore Hans Senn. Alla fine di marzo del 1944, Dannhel fu sostituito dal generale Paul Steinbach, che fissò il proprio ufficio in via Putti 13, mentre l’hotel Baglioni fu utilizzato solo come sede di rappresentanza o in occasioni mondane. Le SS si stabilirono in via Santa Chiara 6/2, la Gestapo in viale Aldini132. Nei giorni seguenti, tra il 10 e il 16 settembre, i proclami tedeschi si moltiplicarono, imponendo il coprifuoco e minacciando durissime rappresaglie contro la popolazione civile, nel caso in cui fossero stati compiuti atti ostili nei confronti delle forze armate tedesche. Il 25 settembre 1943, Bologna subì l’incursione aerea più dura di tutta la guerra: condotta da 120 Liberator B24 americani, fu organizzata in tre ondate, durò dalle 10,56 alle 11,20 e provocò, secondo alcune stime, circa 2.000 vittime. In quella occasione, fu colpita anche la sede de Il Resto del Carlino, sic- 119 8 settembre ché la pubblicazione del giornale fu sospesa per quattro giorni. Diverse chiese (quella del Sacro Cuore e della Mascarella, San Martino e – di nuovo – San Francesco), cinema e teatri furono devastati. Moltissime persone abbandonarono la città, ma scoprirono che (nei dintorni) anche Mezzolara, Budrio, Minerbio e Vedrana (Budrio) erano stati colpiti. Il 5 ottobre, invece, furono colpiti duramente i binari ferroviari, distrutti insieme agli alberghi Bologna e Astoria; anche il Carlino, di nuovo, subì gravissimi danni 120 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO BOLOGNA AL BATTESIMO DEL FUOCO L a testimonianza seguente fu rilasciata da Sergio Soglia, operaio bolognese, che all’epoca aveva 16-17 anni. La tragica realtà della guerra appare per certi aspetti filtrata dalla consapevolezza di essere i protagonisti di un’importante pagina di storia e dalla fiducia che il contributo di tutti (persino di semplici apprendisti) possa servire a provocare la sconfitta dei tedeschi e dei fascisti. Giunse anche per Bologna il battesimo del fuoco. Il primo bombardamento aereo della città avviene nel pieno della notte: alle ore 3 del 16 luglio 1943, nove giorni prima della caduta di Mussolini, del padrone, come dicevamo in fabbrica. È un attacco breve e limitato. Sono sganciate alcune bombe nella zona di via Agucchi. I morti sono 9 e i feriti 20. Sono cittadini colti di sorpresa, nel sonno. La stampa locale dà pochissimo rilievo all’incursione. Il Resto del Carlino esce il giorno dopo, sabato 17 luglio, con questo titolo a due colonne: L’incursione aerea – Le onoranze delle vittime avranno luogo stamane in Certosa. Nel breve articolo sono riportati i nomi dei morti e dei feriti. Non si parla della zona colpita né dell’ora della incursione. La dimenticanza del cronista mi sorprende. Mi sento in qualche modo defraudato. <<L’obiettivo vero – diciamo noi ragazzi – era la nostra fabbrica>>. Gli anziani sono meno sicuri, <<Forse>>, si limitano a dire. È chiaro, soprattutto, che non comprendono la nostra eccitazione. Per noi non ci sono dubbi: volevano colpire la SABIEM, a poche centinaia di metri in linea d’aria dalle abitazioni civili centrate dalle bombe. 121 8 settembre Nella pausa di mezzogiorno non andiamo in mensa. Facciamo un rapido sopraluogo in via Agucchi. Vediamo le case sventrate. Le abitazioni colpite dalle bombe sono modeste; sono case di operai e di barrocciai, che lavorano la ghiaia in Reno. Siamo un gruppo di ragazzi di 16-17 anni, apprendisti aggiustatori nella fabbrica di S. Viola. Il nostro commento non è molto patriottico: <<Peccato – diciamo – che non abbiano sbaraccato l’officina>>. Lavoriamo per la guerra. Confezioniamo un particolare dell’obice 149: il sollevamento elastico. Sabotiamo da un paio di anni la produzione, come ci hanno insegnato i nostri maestri, operai dalle mani d’oro. Essi sanno arrangiare il pezzo in modo che possa superare il collaudo, ma è certo che dopo un paio di cannonate qualcosa nel meccanismo si guasterà. <<Bisogna – ci dicono – farla finita con la guerra. Prima finisce meglio è per tutti>>. Noi giovani siamo talmente convinti della necessità di farla finita che ci auguriamo il ritorno dei bombardieri alleati. <<Speriamo – è l’auspicio corale – siano più precisi la prossima volta>>. È l’unica nostra preoccupazione. Facile e tragica è la profezia. I bombardamenti continuano. Bologna, in alcuni quartieri, è ridotta ad un cumulo di macerie. Gli alleati angloamericani hanno inizialmente cercato di colpire gli obiettivi bellici. È successo così che ad essere rasi al suolo sono i quartieri popolari che sorgono in prossimità delle fabbriche. Dopo il 25 luglio 1943, la guerra psicologica per accelerare l’armistizio si è fatta ancora più martellante. I bombardamenti, come si dice, non guardano più in faccia a nessuno. È solo dovuto al caso che i quartieri alti, le zone residenziali nella parte collinare della città, rimangano illesi. […] Il bombardamento di via Agucchi, primo della lunga 122 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO serie, accelera lo sfollamento della città. Più severi si fanno i controlli per il rispetto delle norme sull’oscuramento, ma non si migliora la difesa contraerea che rimane pressoché inesistente. (L. Goldoni – A. Ferrari – G. Leoni, I giorni di Bologna Kaputt, Bologna, Edizioni Giornalisti associati, 1980, pp. 75-76) RAZIONAMENTO ALIMENTARE E REQUISIZIONI F ino ai bombardamenti dell’estate 1943 e all’arrivo dei tedeschi, per i bolognesi la guerra fu innanzi tutto razionamento dei generi di prima necessità (sapone, zucchero, grassi…), acquisto di misteriosi surrogati alimentari e requisizione dei metalli, della gomma e delle automobili. La testimonianza seguente è di Aldo Ferrari, che all’epoca era un ragazzo di 15 anni. Mia madre, in guerra, calò venti chili. La dieta era ferrea; i punti erano quelli della tessera; così perse in poco tempo quel peso che aveva messo su quindici anni prima per tenermi al mondo col suo latte per soddisfazione di mio padre, perché una sposa florida era il simbolo di una famiglia felice. Io, invece, in quel tempo continuai a crescere un po’ per legge di natura e un po’ perché avevo a disposizione per sfamarmi proprio quei chili cui lei rinunciava. La tessera era terribile e doveva peggiorare via via. Si cominciò con 120 grammi di pane al giorno e 200 se eri un addetto ai lavori pesanti e 300 se eri un minatore e tutti, allora, dicevano 123 8 settembre <<fortunato te>>. Un giorno che avevo appetito, e lo chiamavo fame, mia madre, come al solito, mi diede un pezzo del suo pane, facilmente individuabile perché i bollini lo personalizzavano chiaramente e il tuo era sempre ben diviso da quello di un altro e c’era chi consumava il suo pane in fretta sfruttando tutti i bollini di un anno in due mesi così poi per gli altri dieci si arrangiava, ma forse sperava che la guerra finisse prima. […] <<Prendilo, mi diceva, io non ho fame>>. Quella volta, prima di mangiarlo ci pensai su. Avevo notato che nel generale dimagrimento le mamme dei miei amici dimagrivano più in fretta degli altri e mi era allora balenata la verità e facevo conti amari. Trentatrè grammi di mortadella li avevo ingurgitati col bollino di mezzogiorno; il giorno dopo saremmo andati a comperare pochi grammi di carne, che distribuivano, sempre con la tessera, due giorni la settimana, e un po’ di pasta da condire col burro che avrei ricavato quel pomeriggio agitando la bottiglia a metà piena di latte. Il siero lo si buttava via e il grasso bianco andava raccolto raschiando il vetro con un lungo ferro da calza. Era un lavoro non facile, lungo e noioso, ma necessario perché nella dieta, invano corretta coi prodotti degli orticelli di guerra (avevamo piantato due fagioli in un vaso e ne attendevamo con ansia la crescita) si avvertiva in maniera particolare la mancanza di grassi. Servivano, si diceva, per i cannoni e non ce n’era nemmeno più per il sapone che facevamo bollendo in un pentolone pece greca, soda caustica, pezzi di animali marci, cotiche usate e talco. Veniva fuori una pappa gialla e puzzolente che tagliavamo a fette dopo averla fatta raffreddare. […] [Dal fornaio], negli scaffali quasi vuoti vidi due etichette di speranza per rinvigorire la dieta familiare: la Vegetina 124 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO e l’Ovolina. Non ne avevo mai sentito parlare; mia madre sì, e proprio per questo si era ben guardata dall’usarle, ma io non lo sapevo e le portai a casa trionfante. Con la Vegetina ci preparai una torta. Verde. Dopo discutemmo a lungo di cosa potesse essere composto quel tritume che pareva armonizzare soltanto coi colori del Gordon sottomarino sull’Avventuroso. Forse erano alghe, forse erbe macinate; qualcuno azzardò fossero bucce di piselli o punte di carciofo. Forse era un po’ di tutto. L’Ovolina, invece, fu una sorpresa. Come diceva il suo nome, sostituiva l’uovo nella confezione della sfoglia. Lo assicurava la Sant’Unione, la ditta che la produceva nel suo stabilimento appena fuori Bologna, verso San Ruffillo. Era una specie di colla gialla e riusciva in qualche modo a tenere insieme quel po’ di farina quasi bianca che ogni tanto ci capitava in casa. Con il cavaliere Emilio Sant’Unione sono andato a chiacchierare pochi mesi fa. <<All’inizio l’Ovolina era fatta di polvere d’uovo essiccato che veniva dalla Cina – mi ha raccontato – ma poi, quando smise di arrivare, dovemmo arrangiarci alla meglio. Ricorremmo alla fecola di patata con un po’ d’amido come addensante e un po’ di pittura. Non c’era nulla da mangiare in quel tempo, nulla di nulla e allora io mi misi a fabbricare illusioni. Illusioni d’uova, illusioni di spezie, illusioni di pepe, che vendevo in polvere mischiando erbe qualsiasi e peperoncino>>. […] Ma la guerra non permetteva neppure l’illusione. Un giorno andai, come sempre dopo un bombardamento, a vedere i danni, guidando la bicicletta là dove si vedeva salire fumo e polverone: era la Sant’Unione che bruciava. La pittura e le finte spezie e i diluenti e gli addensanti continuarono a bruciare per un mese e così fu costretta a chiudere la 125 8 settembre fabbrica, che del resto già faceva fatica ad andare avanti perché le banche non mettevano fuori più di cinquemila lire al giorno e non bastavano per il giro. E non bastavano ormai più le auto e i camioncini per la distribuzione dei prodotti. Anche andando a carbonella, con la pentola sul parafango, o a metano, con le bombole a schiacciare la cappotta, mancavano i pneumatici. Gomme alla patria era il nuovo imperativo dopo quello dell’oro (nel ’36) e quello delle cancellate (nel ’40) e se le fedi erano state sostituite dall’acciaio con la memore scritta, i giardini li avevano recintati di reti metalliche leggerissime che in breve avevano messo su pancia come le serrande dei negozi risucchiati in fuori dalle esplosioni. Era l’amore che le gonfiava, perché, così cedevoli, facevano da amaca solo che ti ci appoggiassi col dolce peso addosso. Senza gomme le auto divennero inutili e così le sequestrarono. Chi le aveva cercò di nasconderle: Ardea, Balilla, Auguste, Alfa, finirono isolate in montagna, alcune sepolte in giardino. Il fornaio vicino a casa nascose sotto le patate la sua Maserati da corsa, rossa, modello 1930, col seggiolino del meccanico sfalsato rispetto a quello del pilota. Gli era servita, fino allo scoppio della guerra, per farci un giro la domenica e qualche volta mi aveva preso su, anche se non mi piaceva molto perché non superava mai i dieci all’ora; credo che lo disturbasse lo sventolio dello spolverino bianco. Le patate erano libere. Uno, se ci aveva i soldi e se ne trovava, ne poteva comperare quante ne voleva. Così lui ne aveva messe insieme tante e le aveva ammucchiate sopra la vettura protetta da sacchi di tela in fondo a un capannone. Passò del tempo e nessuno si ricordava neppure più di quella macchina quando, a furia di mangiarne, il mucchio delle 126 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO patate scemò e un bel giorno si intravide un sacco di tela. Qualcuno andò a guardarci sotto e scoprì la Maserati. Ne ebbe un colpo al cuore: era come aver trovato un cadavere in cantina. Si trattava di coprirla di nuovo, prima che la vedessero in troppi, prima che la voce arrivasse ai tedeschi, che non portassero in Germania anche lei. Per ricostruire quel sepolcro ci si ammucchiò sopra, allora, fascine e stracci e tutto quello che non sarebbe servito mai più, ma che non si aveva l’animo di gettare. (L. Goldoni – A. Ferrari – G. Leoni, I giorni di Bologna Kaputt, Bologna, Edizioni Giornalisti associati, 1980, pp. 27-30) 127 8 settembre Il fascismo bolognese, tra regime e RSI A Bologna, subito dopo l’occupazione tedesca, il partito fascista riorganizzò le proprie fila intorno all’autorevole figura di Goffredo Coppola, che dal 1931 insegnava letteratura latina e greca all’università della città e che, il 24 novembre 1943, divenne il pro-rettore dell’ateneo. Per offrire un’immagine rinnovata del fascismo, a guida del PNF fu collocato Aristide Sarti, un brillante ufficiale dell’aviazione di 26 anni. A dirigere Il Resto del Carlino fu invece chiamato Giorgio Pini che nel 1926 aveva pubblicato una biografia di Mussolini molto gradita dal Duce. Nel più generale clima di rilancio di temi e figure dello squadrismo, Sarti e Pini tentarono di recuperare anche Leandro Arpinati, una delle figure più controverse e discusse del fascismo bolognese. Nato a Civitella (Forlì) il 29 febbraio 1892, Arpinati era romagnolo, come Mussolini. Inoltre, come il futuro duce del fascismo, anche lui aveva alle spalle una militanza rivoluzionaria di estrema sinistra, sia pure nelle file dell’anarchismo, mentre Mussolini aveva preferito il sindacalismo soreliano, prima di approdare al PSI. Dal 1920, Arpinati fu uno dei più prestigiosi ed attivi esponenti dello squadrismo bolognese, ma fin dal 1923 si propose l’obiettivo di offrire una immagine diversa, normale e rassicurante, del movimento che aveva appena conquistato il potere. Il fascismo, disse in un’intervista rilasciata al Corriere italiano, e subito ripresa da Il Resto del Carlino (11 ottobre 1923) non era affatto <<una accolta di bastonatori, di gente violenta, incapace di perseguire ogni serio proposito di operosità pubblica>>. Il 16 dicembre 1926, Mussolini designò Arpinati come podestà di Bologna, cioè lo nominò alla guida del Comune, dopo che la figura del sindaco democraticamente eletto era stata sostituita da quella di un soggetto scelto dall’al- 128 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO to, dal Capo del governo. Per un istante, era sembrato che la nomina di Arpinati non dovesse giungere, in quanto proprio a Bologna, il 31 ottobre 1926, Mussolini aveva rischiato di essere assassinato da un colpo di pistola, all’angolo tra via Indipendenza e via Rizzoli. Accusato di essere l’attentatore, un giovane quindicenne, Anteo Zamboni, fu giustiziato sul posto. La vicenda dell’attentato di Bologna presenta numerosi punti oscuri. Infatti, non portò alcun esito l’inchiesta condotta a carico della famiglia Zamboni, accusata di aver ordito una vera congiura familiare a danno del Duce; Mammolo Zamboni (padre di Anteo) e sua cognata, (Virginia Tabarroni, sorella della madre di Anteo) furono condannati dal Tribunale Speciale a 30 anni di reclusione, ma la loro innocenza è riconosciuta da tutti gli storici. L’ipotesi più verosimile è che il giovanissimo Anteo fosse del tutto estraneo ai fatti: fu ucciso sul posto dai veri attentatori, che probabilmente erano fascisti radicali, legati alla figura di Roberto Farinacci, il quale non sopportava l’emarginazione imposta da Mussolini ai vecchi capi dello squadrismo. Percorsa da alcuni zelanti funzionari di polizia, questa pista fu in breve tempo volutamente insabbiata, per non scatenare una faida interna al fascismo, che avrebbe potuto indebolire il regime. Al contrario, l’attentato di Bologna fu abilmente sfruttato dal Duce per completare il controllo ormai assoluto del potere. Le cosiddette Leggi fascistissime, emanate nel novembre del 1926, soppressero tutti i partiti, dichiararono decaduti dal loro incarico i deputati dei partiti antifascisti e istituirono il Tribunale Speciale, incaricato di punire in modo esemplare tutti gli avversari del regime, ormai bollati come nemici dello Stato e dell’Italia. A Bologna, Arpinati si distinse soprattutto per la sua attività di ristrutturazione urbanistica, che riguardò la rete tranviaria, la costruzione di edifici scolastici e di case popolari, il potenziamento dell’illuminazione pubblica e la riorganizzazione del centro storico, l’avvio dei lavori per la funivia di San Luca, inaugurata 129 8 settembre il 14 maggio 1931. Particolare attenzione fu poi dedicata agli impianti sportivi, in quanto Arpinati, prima e meglio di altri, concepì lo sport come un efficace strumento di mobilitazione delle masse e di costruzione di consenso intorno al regime. Nella zona dell’Arcoveggio fu realizzato un nuovo ippodromo (inaugurato il 5 giugno 1932), mentre lo stadio del Littoriale fu iniziato il 12 giugno 1925; completato 16 mesi dopo, inaugurato il 31 ottobre 1926 alla presenza di Mussolini (che poi, lo stesso giorno, subì l’attentato già menzionato) era il più grande stadio d’Italia, in un momento in cui la squadra del Bologna era al vertice delle classifiche di campionato. Per l’epoca, si trattava di una struttura d’avanguardia, in quanto il campo da calcio era affiancato da una pista podistica a sei corsie, due piscine e sei campi da tennis. Non a caso, nel 1931, Arpinati divenne presidente del CONI. A quell’epoca, Arpinati aveva già raggiunto il vertice del suo potere, in quanto Mussolini, nel 1929, lo nominò sottosegretario agli Interni. Il leader fascista bolognese, però, si scontrò ben presto con Storace sulla questione della obbligatorietà della tessera per gli impieghi pubblici, mentre espresse giudizi fortemente acritici sul corporativismo e sull’intervento dello Stato in campo economico. Obbligato a dimettersi il 1° maggio 1933, Arpinati fu poi arrestato e condannato al confino. Dopo due anni di residenza coatta a Lipari, potè scontare il resto della pena nella sua tenuta di Malacappa (nella campagna bolognese). Il 7 ottobre 1943, Pini e Sarti organizzarono un incontro tra Arpinati e Mussolini, al fine di permettere una riconciliazione tra i due e guadagnare il vecchio squadrista alla causa della RSI. Arpinati si mantenne freddo e distante, accusò il Duce di essere prigioniero dei tedeschi e rinunciò all’incarico di ministro dell’Interno che Mussolini gli offriva. Malgrado questo suo netto rifiuto a collaborare col fascismo repubblicano, Arpinati fu comunque ucciso, il 22 aprile 1945, assieme al socialista Torquato Nanni, da un reparto di partigiani comunisti. 130 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO LE CONSEGUENZE DELL’ATTENTATO DI BOLOGNA L ’attentato subito da Mussolini a Bologna il 31ottobre 1926 ebbe numerose conseguenze a livello nazionale. Mentre lo squadrismo si scatenò di nuovo e colpì duramente numerosi antifascisti, la legislazione repressiva trasformò l’Italia in una dittatura durissima, cancellando quanto ancora restava dello Stato liberale. L’ordine del ministro Federzoni ai prefetti è che sulla stampa non compaia alcuna notizia di incidenti di qualsiasi tipo avvenuti durante le manifestazioni seguite all’attentato. Perché ciò sia assicurato vengono sospesi dal 1° novembre, per misure di ordine pubblico, tutti i giornali di opposizione. Nulla deve turbare questa immagine di un paese che si stringe solidale e fermo, con ordine, attorno al suo capo. In questa direzione va anche l’altra disposizione di non riprodurre sui giornali alcuna fotografia dell’attentatore. Troppo imbarazzante l’immagine di Anteo Zamboni: se riprodotto da vivo, risulterebbe palesemente un adolescente; se da morto, manifestamente un adolescente trucidato con una ferocia difficilmente compatibile con l’esercizio di una <<immediata e fatale>> giustizia da parte della folla, come si è voluto far credere. In realtà il clima è feroce e ovunque si respira aria di violenza. Incidenti e rappresaglie avvengono in molte città, seppure minimizzati dai prefetti nelle loro comunicazioni ufficiali al ministero degli Interni. Le cifre ufficiali sono sicuramente sottostimate, anche perché la maggior parte delle vittime si guarderà bene dal denunciare le aggressioni subite. Gli incidenti più gravi si hanno a 131 8 settembre Genova: è incendiata la sede de Il Lavoro e, per impedire la devastazione dell’abitazione dell’ex deputato Francesco Rossi, deve intervenire la polizia facendo uso delle armi; saccheggiate sono invece le case dell’ex ministro Canepa, del giornalista Ansaldo e di altri esponenti dell’antifascismo cittadino. A Milano sono devastate e incendiate le tipografie de L’Unità e dell’Avanti!, la sede centrale della Confederazione generale del lavoro, gli uffici della casa editrice La Coltura; stessa sorte tocca a Brescia agli stabilimenti tipografici del giornale Il Cittadino di Brescia; ovunque sono prese di mira particolarmente le sedi dei giornali: a Venezia Il Gazzettino, a Trento il Nuovo Trentino, a Roma il Mondo, il Risorgimento e la Voce Repubblicana, il cui direttore è ferito gravemente da colpi di manganello, a Cagliari le tipografie del Corriere di Sardegna e de Il Solco. In Veneto, e in particolare nelle province di Treviso, Vicenza, Belluno, Rovigo, Padova, Verona e Venezia, nonché a Udine, Trento e Fiume, le rappresaglie fasciste si indirizzano contro le organizzazioni popolari e cattoliche, tanto da indurre il patriarca di Venezia e molti vescovi della regione a inviare direttamente al capo del governo una lettera di protesta. Senza contare le aggressioni alle singole persone, operai, gente comune, sindacalisti, professionisti, giornalisti, intellettuali, politici, deputati, tutti travolti in quello che Salvemini avrebbe chiamato il pogrom del novembre 1926. A questo clima va ricondotto l’episodio che segna la vita di Emilio Lussu, costretto a sparare a Cagliari per difendersi da un assalto fascista alla sua casa, uccidendo uno degli aggressori; così anche l’assalto alla casa di Benedetto Croce a Napoli, dove pure assalite le abitazioni dei deputati Arturo Labriola e Arnaldo Lucci, del drammaturgo Roberto 132 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO Bracco e di altri ancora. […] Non mancano nel partito fascista le spinte a sfruttare il clima esasperato dall’attentato per radicalizzare in senso <<rivoluzionario>> la situazione. […] Lo stesso segretario del partito Augusto Turati, nel suo discorso alle Camicie nere dell’Urbe, rinfocola i toni della vendetta e della rivalsa: <<Dopo il quarto attentato alla vita del Duce il fascismo non può accontentarsi di fare delle manifestazioni di gioia per lo scampato pericolo. Nel messaggio che io ho lanciato ai fascisti sono dette parole molto chiare e molto ferme. Il primo gesto di giustizia è stato compiuto; presto compiremo gli altri. Restano ora da colpire i complici (voci: la forca). Ma c’è un’altra cosa che nel messaggio non è stata detta e che io dirò a voi questa sera. Nel messaggio non è stato fatto cenno a quegli altri delinquenti che prima hanno attentato e che ancora oggi attendono tranquillamente che la giustizia… (voci: la forca). Siamo d’accordo (applausi scroscianti) attendono troppo tranquillamente e troppo serenamente che la giustizia prepari un processo per una condanna qualunque (bene, applausi). Noi non possiamo dissociare l’un attentato dall’altro, perché la serie degli attentati compiuti dimostra che c’è una catena di responsabilità e un focolaio di infezione all’interno e all’esterno che bisogna debellare! […] >>. Il tentativo di radicalizzare la situazione è evidente, e altrettanto evidente il messaggio a Mussolini perché attui una ulteriore e definitiva fascistizzazione della vita politica italiana. Mussolini non si lascia certo scappare l’occasione, ma i tempi e i modi della sua azione sono più politici e richiedono, per intanto, che le violenze dei più esagitati cessino immediatamente. […] La strada di Mussolini è in 133 8 settembre realtà ben più radicale, e passa attraverso la sostanziale soppressione di ogni residua garanzia del vecchio ordinamento liberal-democratico e la definitiva svolta in senso autoritario dello Stato e delle sue leggi. Il disegno prende avvio con l’introduzione di misure eccezionali proposte da Federzoni e varate dal Consiglio dei ministri il 5 novembre 1926. In quella sede viene deliberato: l’annullamento di tutti i passaporti per l’estero; severe sanzioni contro gli espatri clandestini; la revoca della gerenza [= del diritto di gestire e guidare – n.d.r.], e quindi la soppressione, di tutti i giornali antifascisti; lo scioglimento di tutti i partiti, le associazioni e le organizzazioni contrarie al fascismo; l’istituzione del confino di polizia per gli oppositori; l’istituzione di un servizio di investigazione politica presso la milizia fascista. Il ministro Rocco presenta inoltre un disegno di legge concernente i <<provvedimenti per la difesa dello Stato>>, che avrebbero dovuto avere validità per un quinquennio, ma destinati a divenire perpetui. Esso prevede l’introduzione della pena di morte per chi attenti alla vita dei sovrani o del capo del governo; la reclusione da tre a dieci anni per chi ricostituisca i partiti, le associazioni e organizzazioni disciolte; la costituzione di un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che avrebbe applicato le norme del codice penale militare di guerra, e contro le cui sentenze non è ammesso ricorso. Il Gran Consiglio del fascismo, riunito nella notte stessa fra il 5 e il 6 novembre approva incondizionatamente la nuova linea del governo, che assicura la massima tutela del regime. <<Finalmente!>> titola il giorno dopo l’editoriale de Il Resto del Carlino, e il giorno dopo ancora <<Come in guerra>>, a rendere esplicito il consenso al giro di vite 134 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO attuato. La situazione precipita rapidamente: pubblicati sulla Gazzetta ufficiale già l’8 novembre, i provvedimenti di polizia vengono resi esecutivi subito; la notte fra l’8 e il 9 novembre sono occupate dalle forze dell’ordine le sedi dei partiti e delle associazioni disciolte e un certo numero di deputati dell’opposizione arrestati: fra questi Antonio Gramsci. Il 9 novembre, alla riapertura della Camera, viene approvata una mozione, presentata dal segretario del partito Turati, per la quale si dichiarano decaduti dal mandato parlamentare tutti i deputati dell’opposizione coinvolti, dall’assassinio di Matteotti, nella secessione dell’Aventino, compresi i comunisti tornati in realtà, dopo un periodo di astensione, in Parlamento. È quindi presentata la proposta di legge del guardasigilli Rocco, relatore il deputato bolognese Angelo Manaresi, che a sostegno dell’introduzione della pena di morte, ha modo di citare l’esempio della sua città dove <<le folle, che… il 31 ottobre fecero giustizia sommaria del delinquente che aveva osato alzare la mano armata contro la sacra persona del Duce, hanno espresso la volontà precisa della Nazione, hanno precorso l’opera dei legislatori e dei giudici, hanno additato, tra il consenso di tutto il popolo, alla nostra Assemblea la via da seguire>>. La legge, approvata dal Parlamento e siglata dal re, diviene esecutiva il 25 novembre 1926. È la fine della vita politica nel paese e la sconfitta definitiva dell’antifascismo. (B. Della Casa, Attentato al duce. Le molte storie del caso Zamboni, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 28-34) 135 8 settembre RITRATTO DI LEANDRO ARPINATI S econdo Renzo De Felice, la vicenda della destituzione di Arpinati è sintomatica di un’imminente svolta, all’interno del regime. Dalla metà degli anni Trenta, Mussolini scelse collaboratori sempre più scialbi e privi di personalità, esecutori meccanici dei suoi ordini. Arpinati, all’opposto, si era segnalato per le sue critiche al Concordato, all’imposizione della tessera obbligatoria per i pubblici uffici, all’intervento dello Stato nella vita economica e, quindi, al modello corporativo. Arpinati non era solo il sottosegretario agli Interni, in pratica il ministro; era anche uno degli uomini più in vista del fascismo: ancora nel ’41 G. Ciano [Galeazzo Ciano, genero del Duce – n.d.r.] nel suo diario scriverà: <<Tra gli uomini del Regime, Arpinati è qualcuno>>. Impulsivo, forse non molto intelligente e dotato della cultura tipica dell’autodidatta, era però un uomo personalmente molto retto, spregiudicato, molto legato a Mussolini ma senza piaggeria alcuna, politicamente un puro; dall’originario anarchismo individualista si era, via via, spostato sul terreno di un fascismo caratterizzato soprattutto, per un verso, da un forte liberismo alla Pantaleoni e, per un altro verso, da un profondo senso dello Stato; nonostante il suo fascismo e la carica che ricopriva, non aveva interrotto i suoi rapporti con vari antifascisti. Come sottosegretario aveva cercato di frenare certe tendenze più smaccatamente illegalistiche, di contenere le ingerenze del partito nello Stato, di assicurare un esercizio corretto della pubblica amministrazione comunale e provinciale e di combattere i profittatori e gli arrivisti. In 136 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO contrasto con la tendenza generalmente invalsa, per esempio, aveva permesso che ai concorsi banditi dagli enti locali e parastatali non fosse richiesta ai partecipanti l’iscrizione al PNF e che nella scelta dei vincitori si assumesse il primo della terna, senza discriminazioni tra iscritti e non iscritti. […] Nella scelta di Arpinati nel ’29 per il sottosegretariato agli Interni Mussolini doveva aver visto anche un espediente per risolvere la situazione bolognese: allontanare Arpinati dal suo rassato [= territorio in cui era il padrone incontrastato, il ras, come si diceva all’epoca, usando un termine etiopico che equivale a satrapo o signore feudale – n.d.r.] e, al tempo stesso, non metterlo localmente in una condizione di inferiorità rispetto a Grandi. Alla base della scelta vi era stata però soprattutto una personale valutazione positiva dell’uomo e del fascista, tanto è vero che – secondo A. [Agostino – n.d.r.] Iraci, che di Arpinati fu capo di gabinetto – aveva persino pensato di nominarlo ministro tout court e se non lo fece fu solo su suggerimento dello stesso Arpinati. E, una volta tanto, non si era sbagliato. Col tempo era diventato chiaro che su molte questioni i due avevano idee diverse. In particolare Arpinati era un avversario tenacissimo del corporativismo e di ogni forma, esplicita o larvata, di intervento dello Stato nell’economia. In questa sua posizione egli non era certo solo; al vertice del regime il corporativismo era visto con sospetto da non pochi: sia pure con sfumature e motivazioni diverse, per esempio da Turati, da Giuriati, da Rosoni, da De Bono. Solo che, diversamente da costoro, Arpinati esternava pubblicamente la sua avversione. Il 10 agosto ’31, durante un discorso pronunciato a Pistoia, era arrivato a dire: <<Lo Stato non può far tutto, non può provvedere a tutto. Se il mondo è in crisi, nessun paese può vivere fuori della crisi e nella prosperità, per quanto grandi 137 8 settembre siano l’autorità e la volontà dello Stato. Bisogna difendersi da certe tendenze che vorrebbero conferire allo Stato quei compiti e quei doveri, che sono esclusivi dei privati. Nessuno Stato fu mai buon industriale o buon commerciante. Tutti gli esperimenti in questo senso sono costati e costano gravi sacrifici e non meno gravi delusioni… Lo Stato, quando non interviene per aiutare i vecchi e i bambini, finisce sempre per sostenere i meno meritevoli, i negligenti, gli inetti, gli incapaci, a tutto danno dei volonterosi, degli abili, degli attivi. Tutto ciò determina un marasma, che mentre danneggia e avvilisce i buoni, aumenta il numero dei parassiti che sperano di vivere eternamente a carico della collettività. Ed è facile prevedere come tali concezioni portino, presto o tardi, al generale disinganno e alla generale rovina. Il fascismo ha fatto la sua rivoluzione contro queste tendenze e per impedire che il nostro paese fosse travolto da quella sinistra utopia, che sta devastando un gran popolo e un gran paese>>. Di fronte ad una presa di posizione così esplicita Mussolini si era sentito in dovere di dare ad Arpinati una risposta altrettanto esplicita e pubblica. Otto giorni dopo, parlando in Campidoglio per celebrare il centenario del Consiglio di Stato, aveva ribadito a tutte lettere che lo Stato fascista era corporativo, <<anzi fascista perché corporativo e viceversa, poiché senza la costituzione corporativa… non vi è rivoluzione fascista>>, aveva definito una <<concezione filistea e piccolo borghese della rivoluzione fascista>>, <<da respingere come una parodia e un insulto>>, quella di coloro che riducevano la rivoluzione fascista alla <<semplice costituzione di un governo forte che può garantire in ogni evenienza l’ordine pubblico>> e aveva drasticamente concluso: <<Discutere ancora se la sfera dell’economico rientri nello Stato e appartenga allo 138 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO Stato è semplicemente, nella migliore delle ipotesi, assurdo e inattuabile. Nessuna sfera della vita individuale e collettiva può essere sottratta allo Stato; ogni sfera, anzi, rientra nello Stato e vive in quanto è nello Stato>>. […] Oggettivamente la vicenda di Arpinati si colloca nel momento in cui il regime, al proprio interno, stava cominciando la parabola discendente, cominciava a corrompersi nella propria intima sostanza, diremmo quasi nella propria particolare moralità; nel momento in cui la logica del potere dittatoriale cominciava ad intaccare profondamente Mussolini e a renderlo sempre più prigioniero del proprio mito e della propria grandezza. Una grandezza che aveva bisogno assoluto sia di sempre nuovi successi sia di una facciata totalitaria, senza crepe e senza ombre di nessun genere, e che, pertanto, non poteva affidarsi che alle mani di esecutori mediocri o senza scrupoli, convinti o disposti a tutto per realizzarla, senza rendersi conto (o senza osare dirlo) dei rischi futuri e del costo immediato che essa aveva non solo per il paese ma per il regime stesso, che si accontentavano della facciata senza curarsi delle fondamenta (o curandosene solo in maniera burocratica e repressiva) e che, assai spesso, tendevano a far coincidere l’interesse del regime col proprio personale e concreto interesse e, così facendo, corrompevano, via via, con il loro esempio e con l’omertà, attiva e passiva, implicita nel loro comportamento le strutture superiori e centrali del regime, che inevitabilmente non potevano a loro volta non corrompere progressivamente quelle inferiori e periferiche. (R. De Felice, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso 19291936, Torino, Einaudi, 1996, pp. 292- 300) 139 8 settembre DESTITUZIONE E CONDANNA DI ARPINATI D opo essere stato costretto ad abbandonare l’incarico di sottosegretario agli Interni, Arpinati fu accusato da Starace – segretario del PNF - di numerosi comportamenti pericolosi e criminali. Tra l’altro, venne pure avanzata l’ipotesi di una sua complicità nell’attentato subito da Mussolini a Bologna il 31 ottobre 1926. Arpinati fu arrestato e condannato al confino. Con la fine della sua carriera, si chiudeva per il momento anche la prospettiva di fare di Bologna un centro di primaria importanza, capace di fare concorrenza a città come Milano o Torino. Il 1° maggio [1933] Mussolini invia al suo sottosegretario una missiva perentoria: <<Caro Arpinati – scrive – si è determinata una situazione per cui ti prego di rassegnare le tue dimissioni dalla carica di sottosegretario agli Interni>>. A stretto giro di posta la risposta di Arpinati: <<Caro Presidente, a seguito e in conformità dell’invito rivoltomi con lettera in data odierna rassegno le mie dimissioni da S.S. di Stato per l’Interno. Con immutata devozione>>. Nonostante la notizia delle dimissioni venga tenuta riservata per volontà dello stesso Mussolini – sarà resa pubblica soltanto il 3 maggio con un comunicato ufficiale dello stesso capo del governo alla agenzia Stefani – il giorno dopo puntuali da Bologna partono i veleni contro il potente ras bolognese caduto in disgrazia […]. Ad avvallare la necessità di procedere col pugno di ferro nei confronti del sottosegretario, viene evocata anche una sua sospetta complicità nell’attentato del 31 ottobre 1926, riesumando 140 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO così le voci calunniose a suo tempo circolate e allora messe a tacere. Il 9 maggio Arpinati dà le dimissioni anche da presidente della Federazione del Calcio, accompagnandole con una orgogliosa lettera di difesa del proprio operato inviata direttamente a Mussolini, e in cui, dichiarandosi <<addolorato ma non pentito>> rivendica la lealtà del suo comportamento, in contrapposizione a quello di Starace, e la dignità del suo agire politico. In realtà Arpinati non si rendeva ancora conto – o, meglio, tra l’incredulo e lo sbigottito, stenta a farlo – che Starace è solo una pedina di una macchinazione ben congegnata a suo danno dallo stesso Mussolini. E ne è una riprova il fatto che, a differenza delle modalità utilizzate in altri casi per esautorare dalle loro cariche personaggi del fascismo della prima ora (come Grandi, Balbo, De Vecchi, ecc.), che per essere rimossi vengono promossi ad alte ed altisonanti cariche, prive però di possibili influenze o lontane dall’Italia, la condanna di Mussolini nei confronti di Arpinati sarà implacabile. Le ripercussioni a Bologna della caduta in disgrazia del suo nume tutelare sono immediate. Ghinelli, braccio destro di Arpinati, deve rassegnare le dimissioni dalla carica di federale, che è assunta da Ciro Martignoni; espulso dal partito e allontanato dalla città, gli viene assegnata la città di Napoli quale domicilio obbligatorio. Il nuovo federale provvede a una radicale ristrutturazione della Federazione e del Fascio sia nel personale politico che nell’organizzazione degli uffici […]. Allo stesso Arpinati, nel frattempo rientrato a Bologna, Martignoni comunica in ottobre il mancato rinnovo della tessera di iscrizione al PNF per l’anno successivo, <<d’ordine di S. E. il Segretario del Partito>>, e lo invita a restituire il distintivo fascista. Sempre 141 8 settembre in ottobre in un drammatico e aspro braccio di ferro con lo stesso Mussolini, Arpinati è costretto a consegnare al prefetto Guadagnini le azioni de Il Resto del Carlino, di cui egli rivendica la proprietà personale, in contrapposizione al duce che le considera <<indiscutibilmente>> del partito. […] Piegato sì, quindi, ma non domo. Ed è indubbio che questo suo orgoglioso atteggiamento contribuirà a rincrudire la vendetta e la repressione nei suoi confronti. Nel marzo 1934 gli viene sospeso dal Ministero delle Comunicazioni persino lo stipendio di ferroviere sino ad allora ricevuto per congedo parlamentare. Contemporaneamente aveva preso l’avvio l’epurazione dei fascisti del suo entourage, i cosiddetti arpinatiani: su L’Assalto del 28 ottobre compare la prima lista di quelli a cui viene ritirata la tessera per avere assunto, <<in seguito alla sostituzione del segretario federale… atteggiamento in contrasto con le norme disciplinari del Pnf dimostrando di non possedere le qualità che costituiscono lo spirito tradizionale fascista>>. […] Intanto aumentano i controlli di polizia su Arpinati e sugli <<abituali frequentatori>> di Malacappa, la tenuta agricola alle porte di Bologna da lui acquistata in novembre con i fondi di un assegno assicurativo percepito per un vecchio incidente d’auto e con l’aiuto di amici fedeli, e che diviene la meta di una spola continua di auto rigorosamente registrate e trasmesse al capo della polizia a Roma. La sera del 23 luglio 1934 l’agenzia Stefani dirama il seguente comunicato dell’Ufficio stampa della Federazione dei Fasci di Bologna: <<S. E. il Segretario del Pnf, ha disposto l’espulsione dal Partito Nazionale Fascista dell’iscritto al Fascio di Bologna Leandro Arpinati per il seguente motivo: 142 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO “In diverse circostanze assumeva atteggiamenti contrastanti con le direttive che deve seguire chi ha l’onore di militare nelle file del Partito Nazionale Fascista” >>. La mattina del 24 la notizia è su tutta la stampa locale e nazionale e provoca grande fermento in città fra i sostenitori di Arpinati, fino ad allora illusi che la situazione possa rientrare e risolversi a loro favore, soprattutto in previsione dell’annunciato cambio del segretario federale con l’avv. Colliva, considerato loro amico. Assembramenti di arpinatiani <<vivamente contrariati>> davanti ai diversi bar del centro cittadini; di lì per tutta la giornata partenze di auto con diversi gruppi alla volta di Malacappa. La situazione precipita. Il 25 luglio Mussolini convoca a Roma il prefetto Natoli e alla presenza di Buffarini Guidi e di Starace dà l’ordine di arrestare immediatamente Arpinati e i suoi amici. La mattina del 26 luglio Arpinati viene arrestato nella sua tenuta di Malacappa. […] Il 30 luglio la Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia si riunisce e, senza interrogare l’imputato, infligge ad Arpinati la massima pena prevista dalla legge, ossia cinque anni di confino da scontarsi nella colonia penale di Lipari. Viene fatto partire per l’isola la sera stessa, con traduzione straordinaria in treno, scortato da due funzionari e quattro agenti. […] Con il confino, rinnovato per altri cinque anni nel 1939 – attenuato soltanto dal permesso ottenuto nel 1935 di rientrare, per ragioni di salute della moglie, a Malacappa in regime di domicilio coatto e quindi sotto stretta sorveglianza di polizia – si conclude la carriera politica di Arpinati. Messo al bando da un Mussolini sempre più prigioniero del suo mito e del suo potere dittatoriale, una sorta di damnatio memoriae colpisce la persona di Arpinati. Tutto di lui deve essere cancellato, il suo nome, le sue opere, il suo entourage 143 8 settembre politico. La caduta di Arpinati e la sua sostituzione con un personale politico di basso profilo e subalterno, finiscono tuttavia con l’appannare l’immagine di Bologna e della Decima Legione, relegandole inesorabilmente in una sorta di periferia politica del regime. (B. Della Casa, <<Squadrista, podestà, sottosegretario agli interni: la carriera esemplare di Leonardo Arpinati tra intransigenza e normalizzazione>>, in AA.VV. Fascismo e Antifascismo nella Valle Padana, Bologna, CLUEB, 2007, pp. 420-426) WEISZ, DALL’ARA, IL BOLOGNA E IL LITTORIALE I ntorno alla metà degli anni Trenta, si creò una situazione particolarmente favorevole, che permise a Bologna di essere il vero centro del calcio italiano: un impianto sportivo all’avanguardia (il Littoriale), che non aveva rivali nel resto della Penisola; un presidente ambizioso ed energico (Renato Dall’Ara); un allenatore di eccezionale livello tecnico (l’ungherese ebreo Arpad Weisz, che dovette abbandonare il suo incarico nel 1938, a causa delle leggi razziali). Quando Weisz è arrivato sotto le Due Torri, nel gennaio 1935, lo ha fatto con la consapevolezza di giocarsi tutto. Non gusta il sapore della vittoria da cinque anni, e gli manca come l’ossigeno. Il piatto è ghiotto, Bologna è abituata al successo. La città è arrivata ad avere quasi trecentomila 144 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO abitanti ed è una piazza che con gli ungheresi ha un feeling cementato: oltre a Kovacs, del quale Weisz ha preso il posto in panchina, i tifosi ricordano bene Lelovich, scopritore più tardi di Giacomo Bulgarelli. Nella lista va inserito anche Hermann Felsner, austriaco, ma esponente della scuola danubiana. Ha firmato gli scudetti del 1925 e del 1929, e nel mezzo avrebbe vinto pure quello del 1927, revocato al Torino per un episodio ante litteram di calcioscommesse e spettante al Bologna giunto secondo. Ma Arpinati, podestà cittadino e presidente federale, ha temuto le accuse di partigianeria. Il 1935 è un anno di attese e sottili inquietudini per la città emiliana, così come per tutta l’Italia. […] I sogni si scatenano davanti alle copertine della Domenica del Corriere, magari per una vacanza sugli sci o per assistere a una bella partita allo stadio come la raffigura Achille Beltrame, sempre piena di colori e di spalti pieni. È il popolo degli impiegati stretti dentro ai tram, la piccola borghesia urbana che si sente un gradino più in alto del proletariato e che alla sera rincasa, se non soddisfatta, quantomeno appagata [sotto il profilo economico – n.d.r.]. Il calcio è il suo passatempo preferito, e indubbiamente le squadre più amate, un po’ come oggi, risultano la Juventus, il Milan e l’Ambrosiana, così come si chiama l’Inter di quegli anni per volere del regime [che si sforzava di limitare l’uso dei termini stranieri – n.d.r.]. C’è anche il Bologna, come no? Weisz vi è giunto con qualcosa di grande cui aspirare. […] Lo abbiamo detto: ha un’enorme sete di rivincita e per placarla ha accettato di raccogliere dalle mani del presidente del Bologna, Renato Dall’Ara, una squadra bloccata dopo il successo del settembre in Coppa Europa. 145 8 settembre Ma chi è Renato Dall’Ara? È impossibile proseguire nel racconto di Weisz senza soffermarsi sull’uomo che l’ha voluto. […] Lo hanno obbligato a prendere il club rossoblu l’anno prima [= nel 1934 – n.d.r.]. Si sostiene in giro che sia stato Mussolini in persona a tirarlo dentro l’impresa, smanioso di mettere in secondo piano Leandro Arpinati, il gerarca che ha fatto grande lo sport bolognese e che ha fatto ombra a tanti soloni di Roma. Ciò che ha ricevuto, Dall’Ara l’ha trasformato in un gioiello, il fiore che le autorità cittadine vogliono apporsi ogni domenica sulle camicie nere. Il podestà Manaresi, il segretario federale Colliva, che gli succederà più tardi, il prefetto Natoli, il questore Diaz, un paio di immancabili deputati locali: ognuno si mette in coda a omaggiare il Bologna che cresce d’importanza e richiama un pubblico, via via, maggiore. L’agosto successivo, alla ripresa della preparazione, scandirà il podestà: <<Invito voi giovani a lottare strenuamente per ottenere i migliori risultati>>. Accanto a lui, Dall’Ara in camicia nera. […] Il Littoriale in pochi mesi è diventata la seconda casa di Weisz: una sorta di palcoscenico dove mandare in scena i frutti del suo laboratorio, una simbiosi tra artigiano e bottega. Il Bologna degli anni Trenta è famoso in ogni angolo d’Europa per questo impianto, disegnato dall’ingegner Costantini, la cui prima pietra è stata posta, nel giugno del 1925, da Vittorio Emanuele III. Due anni dopo è stato inaugurato da Mussolini, trionfante su un cavallo bianco e vittima dell’attentato di Anteo Zamboni, poche ore più tardi. È chiaro comunque che lo stadio costituisca un emblema del fascio bolognese, al punto da essere mostrato a ogni visitatore istituzionale di passaggio in città. <<I tecnici stranieri – scrive la rivista del Comune di Bologna – rimasero 146 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO ammirati dalla romana grandiosità della costruzione, che supera per la modernità degli apprestamenti i campi più rinomati all’estero>>. È curioso pensare che sarà un ebreo, presto perseguitato dal regime, a rendere ancora più famoso il fascistissimo impianto. Non solo: molti progressi li ha attenuti lui. Un esempio? Nella primavera del 1938, a ridosso del suo forzato addio, Arpad insisterà con il presidente Dall’Ara perché affidi ad una società specializzata la sistemazione del campo. Opera che toccherà alla De Bernardi di Torino. Si è pure battuto per avere un Gabinetto medico per l’indagine sanitaria sugli sforzi degli atleti e delle loro possibilità. Tradotto: un ambulatorio medico-sportivo. Lo stadio ha numeri sostanziosi: quattromila posti nel parcheggio, cinquantamila sugli spalti, seicento bambini che ogni giorno frequentano gratuitamente la piscina limitrofa. Ma non c’è dubbio: l’attrazione maggiore è la torre di Maratona. Alta ventiquattro metri, modellata su diversi livelli, ha in cima la bandiera regalata alla città dalla Marina militare. Più in alto, sulla punta estrema del pennone, è posta la statua dorata della vittoria. Prima di essere smontata (oggi è visibile nella tribuna dello stadio) diventerà il bersaglio dei soldati americani accampati sul terreno di gioco durante la risalita del fronte alleato. (M. Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo, Reggio Emilia, Aliberti, 2007, pp. 58-65) 147 8 settembre Gli internati militari E saminare, a livello regionale, le conseguenze dell’8 settembre per i soldati, significa muoversi su due piani complementari. Innanzi tutto è opportuno comprendere come si svolse il collasso del regio esercito in Emilia Romagna; parallelamente, è giusto esaminare le esperienze di migliaia di militari emiliani e romagnoli che furono deportati in Germania, ma che spesso furono catturati in terre molto distanti dalla loro, cioè in altre aree d’Italia o addirittura in Grecia, in Albania e Jugoslavia. A Bologna, l’azione dei tedeschi nei confronti dei militari italiani fu rapidissima e condotta senza sforzi particolari. Pare che l’intera operazione di controllo del capoluogo abbia coinvolto appena 70 soldati della Wehrmacht. Di fronte all’intimazione tedesca di deporre le armi, qualche segno di resistenza si ebbe nella caserma del 6a reggimento bersaglieri (comandato dal colonnello Ubaldo Panceri), in quella della cavalleria (ad opera del capitano Conte Luigi Revelli di Beumont) e in quelle del 3° reggimento artiglieria e del 35° fanteria. Anche i carabinieri si arresero mal volentieri, e infatti alcuni di loro, in seguito, parteciparono alle attività clandestine antitedesche. Tutte queste azioni, però, non furono per nulla coordinate tra loro, in quanto il comandante della Difesa territoriale si rifiutò di organizzare un’organica resistenza, non si assunse alcuna responsabilità e respinse la richiesta dell’opposizione antifascista di distribuire armi ai volontari civili che si fossero offerti di combattere a fianco dei militari. Ancora una volta, la mancanza di direttive precise, unita all’assenza di iniziativa tipica di molti ufficiali del regio esercito, abituati solo ad eseguire gli ordini superiori, facilitarono notevolmente il compito delle truppe tedesche. Nel modenese, nella notte tra l’8 e il 9 settembre, verso le due 148 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO del mattino furono catturate senza colpo ferire tutte le reclute del 1924 accantonate a Vignola. Poche ore dopo, furono occupate l’Accademia militare e le caserme della città, insieme all’ufficio delle Poste e dei Telefoni. L’unico (breve) scontro avvenne a Sassuolo, nei pressi del Palazzo Ducale, sede di campagna dell’Accademia: morì un soldato italiano (Lino Morselli); in seguito, il comandante del reparto che aveva opposto resistenza (generale Ferrero) fu catturato e deportato in Polonia, ove morì in prigionia. Fu uno degli oltre 200 tra ammiragli e generali (dell’esercito e dell’aeronautica) che furono arrestati e spediti in Germania nei caotici giorni che seguirono la resa italiana. Due battaglioni, insieme allo Squadrone degli Allievi ufficiali dell’Accademia militare di Modena, si trovavano a circa 70 chilometri dal capoluogo, in località Piane di Mocogno, al comando del colonnello Giovanni Duca. Ricevuta la notizia dell’armistizio, si trasferirono in località Monchio e qui – in mancanza di ordini superiori – il comandante sciolse i reparti, che si sbandarono lasciando sul terreno grandi quantità di muli, di cavalli, di automezzi e di armi, recuperati poco dopo dai tedeschi. Una ricerca recente, condotta da Rossella Ropa, ha valutato in 9.127 il numero dei militari bolognesi deportati in Germania, dopo essere stati disarmati e catturati sui diversi teatri in cui si trovavano in servizio. Per la maggior parte, erano poco più che ventenni (il 40,91% di essi apparteneva alle classi di leva 1920-1924) ed erano originari della provincia. Il 73,13% di essi era formato da soldati semplici di fanteria. In molti casi, l’indicazione dell’area di operazioni in cui avvenne l’arresto è vago e generico: comunque, pare corretto affermare che circa il 50% apparteneva alle armate schierate nei Balcani (Albania, Erzegovina, Montenegro, Grecia ed isole dell’Egeo) mentre un altro 27% fu catturato in Slovenia, Croazia e Dalmazia.Il 54,04% venne catturato nelle ore immediatamente seguenti alla dichiarazione dell’armistizio; 149 8 settembre il 37,88% fu catturato nella settimana seguente; il resto, tranne pochissime eccezioni, entro la fine del mese. Le testimonianze raccolte ricordano spesso l’iniziale esultanza, trasformatasi subito in incubo, alla comparsa dei primi minacciosi reparti tedeschi. Non mancarono le situazioni paradossali, di reparti che non solo furono colti completamente alla sprovvista dalla notizia dell’armistizio, bensì l’appresero dai tedeschi che li catturavano o dai partigiani che, fino al giorno prima, erano loro nemici. Molti ex soldati ricordano il caos generalizzato che si venne a creare e forniscono un’immagine ben poco lusinghiera non solo dei massimi vertici dell’esercito, ma anche dei loro ufficiali, che impedirono esplicitamente una coordinata azione di resistenza ai tedeschi oppure abbandonarono i reparti al loro destino, scappando per proprio conto. Nel complesso, furono 1.503 i bolognesi che dichiararono di essere stati catturati dopo aver combattuto: non a caso, il 69, 53% lo fece all’estero, e solo il 30, 47% di questi sul territorio metropolitano, ove le speranze di fuga e di trovare protezione presso la popolazione civile erano decisamente maggiori. In Grecia (dove furono catturati 1.838 bolognesi), si opposero ai tedeschi 314 di quanti furono poi internati, mentre 13 dichiararono di essersi uniti ai partigiani. Di questi combattenti deportati, 116 scamparono alla battaglia e agli eccidi di Cefalonia; 16 di loro, però, morirono a seguito dell’affondamento delle navi che li portavano verso la Germania, mentre 4 scamparono al naufragio della nave Ardena su cui erano stati caricati. A Corfù, dopo un acceso combattimento che provocò 600-700 vittime italiane (molte, però, fucilate dopo la resa), furono catturati 45 bolognesi; a Rodi i prigionieri furono 156 (ma solo 78 dichiararono di aver partecipato ai combattimenti contro i tedeschi). Giunti in Germania, la maggioranza dei militari bolognesi fu impiegata nel settore industriale (59,51%). I deportati, morti in regime di prigionia, furono 358. Di 164 di loro si sa che il de- 150 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO cesso avvenne a seguito di una malattia (in genere legata alla fame e alla debilitazione); 61, invece, morirono a causa dei bombardamenti alleati sulla Germania. Di ben 103 internati, invece, non si conosce la causa della morte 151 8 settembre L’8 SETTEMBRE A MODENA L a testimonianza seguente, di Giancarlo Silingardi, mostra il clima di solidarietà che si creò istintivamente tra popolazione civile e soldati catturati dai tedeschi, che a Modena rinchiusero all’interno della cosiddetta Cittadella moltissimi militari destinati all’internamento in Germania. La mattina del 9 settembre andai davanti al portone del 6a Reggimento Campale a vedere quanto succedeva. Dalla città arrivò una colonna di carri armati che si fermarono sulla strada. I tedeschi in parte scesero e di corsa entrarono nella caserma, in parte restarono sui carri. Dopo un bel po’ di tempo, potevano essere le nove, dalla finestra di casa mia vedemmo passare una colonna lunghissima di soldati disarmati. I tedeschi li tenevano a bada coi fucili. I tedeschi erano pochi. C’era un carro armato in testa alla colonna e qualcuno in coda. Venivano dalla via Emilia, attraverso lo spiazzo dove è la Stazione delle Autocorriere, andavano in Cittadella. Molta gente era in strada a vedere. I prigionieri gettavano bigliettini con scritti i loro indirizzi e gridavano: <<Scrivete a casa. Dite che siamo vivi. Raccontate quello che succede>>. Un bigliettino toccò anche a me e mi ricordo che scrissi una cartolina in un paese in provincia di Siena. Molte donne strillavano, qualcuna piangeva. I tedeschi si guardavano in giro. Non dicevano niente. (E. Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Bologna, Il Mulino, 1970, p. 23) 152 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO MODENA TRA CAOS, RAZIONAMENTO E SOLIDARITÀ POPOLARE S ullo sfondo tragico del completo dissolvimento delle autorità militari e civili, Ermanno Gorrieri mette in risalto l’azione della popolazione, spontaneamente disponibile a compiere atti di protezione e sostegno nei confronti di soldati sbandati, sfuggiti alla cattura o evasi dalle mani dei tedeschi. Il frettoloso sbandamento dei battaglioni allievi dell’Accademia sull’Appennino fece mancare in Emilia quel diretto passaggio di reparti militari alla guerriglia verificatosi in alcune vallate alpine; sicché la Resistenza dovette cominciare da zero, con armamento ed equipaggiamento estremamente più ridotto e sommario, neppur lontanamente paragonabile a quello di cui disponeva l’Accademia. E inoltre la facilità con cui il Partito Comunista riuscì ad egemonizzare la lotta di liberazione in queste province, se trova spiegazione anche nella insufficienza e nelle lentezze di altre forze politiche, fu dovuta prima di tutto alla totale assenza di tempestive iniziative da parte degli alti ufficiali che avevano responsabilità di comando in provincia di Modena. Il 9 settembre, agli entusiasmi della sera precedente fece seguito, nell’animo dei modenesi, la più profonda costernazione; le illusorie speranze di una rapida avanzata alleata non bastavano a cancellare la dura realtà dell’occupazione tedesca, del crollo dell’esercito, della cattura dei nostri soldati. Il venir meno di ogni autorità, le lunghe privazioni e il timore delle razzie tedesche 153 8 settembre scatenarono, il 10 settembre, l’assalto ai magazzini di generi alimentari. Nel corso del 1943 le difficoltà annonarie [= connesse al rifornimento dei più elementari prodotti destinati all’alimentazione – n.d.r.] erano andate continuamente crescendo; la razione giornaliera di pane era ridotta a 150 gr. per persona, e inoltre si trattava di pane in cui crusca, patate e granturco superavano la farina di frumento. In queste condizioni è facile capire perché la folla si diede ad assaltare e a saccheggiare fabbriche, depositi, caseifici e mulini. […] Nessuno aveva promosso o guidato gli assalti ai magazzini: erano state la fame e le privazioni a far muovere spontaneamente la povera gente. Anche se i saccheggi erano giustificati dal timore che i viveri potessero finire in mano ai tedeschi, il modo disordinato e caotico con cui furono compiuti non fu che un aspetto, una manifestazione clamorosa della generale anarchia e confusione. Il disorientamento degli animi e lo sbandamento morale non potevano essere più gravi. […] Di fronte allo sbandamento generale, due reazioni immediate e spontanee dimostrarono che le energie morali del popolo non erano del tutto fiaccate: l’una veniva dalle masse, l’altra da gruppi ristretti. Nei giorni che seguirono l’8 settembre, tutto il popolo, in uno slancio generoso di solidarietà fraterna, offrì ogni assistenza ai soldati italiani che cercavano di sottrarsi alla cattura tedesca: migliaia di uomini furono aiutati a fuggire, alloggiati, nascosti, sfamati, vestiti in borghese e assistiti nel cammino verso casa. <<Da tempo abiti e stoffe erano razionati, dovunque c’era grande penuria: eppure in quei giorni la gente era pronta a privarsi di giacche, di camicie, di pantaloni, per darli ai fuggiaschi. Poiché spesso i treni venivano bloccati 154 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO e perquisiti dai tedeschi, nelle campagne, per le case dei contadini, continuo era il passaggio di giovani, in viaggio a piedi verso i loro paesi: essi sapevano che non sarebbero stati traditi, che potevano contare sull’appoggio e sull’aiuto della popolazione. I soldati catturati in provincia di Modena vennero concentrati nella Cittadella, l’antica fortezza estense dove fu impiccato Ciro Menotti, divenuta la sede del 36a Reggimento di Fanteria: i tedeschi la scelsero come centro di raccolta e di smistamento dei soldati italiani prima del trasferimento in Germania; nella Cittadella furono dunque trattenuti per alcuni giorni migliaia di uomini e fu qui che si manifestarono la generosità e l’ingegnosità dei modenesi, non solo per portare da mangiare ai soldati, ma soprattutto per aiutarli nella fuga. La principale via di fuga fu quella delle fognature: due ragazzi, Lella Malavolti e Luciano Bonacini, che abitavano nelle vicine case popolari, portarono dentro alla caserma la pianta delle fognature avuta da uno stradino e fecero loro stessi da guida ai soldati negli stretti cunicoli maleodoranti. Altri riuscirono con pretesti vari a portar dentro vestiti, con cui i soldati poterono andarsene: fra questi don Elio Monari, che ne fece uscire alcuni vestiti da prete>> (G. G., Fuga dalla Cittadella, 1961). […] D’altra natura fu il fenomeno del recupero delle armi; non intendiamo riferirci a quello che fu l’occultamento occasionale di moschetti e rivoltelle, lasciate dai soldati presso le famiglie che li avevano aiutati a mettersi in borghese, ma all’opera attiva di sottrazione delle armi abbandonate dai vari reparti dell’Esercito. Quest’opera non fu promossa e organizzata da un centro, che allora non c’era; siamo invece di fronte ad una serie di iniziative spontanee, senza collegamento tra loro, di provenienza 155 8 settembre diversa, aventi un solo denominatore comune: la volontà di non lasciare che le armi nostre, le armi italiane cadessero in mano allo straniero e la convinzione che più avanti, forse, sarebbero diventate utili. Il rischio affrontato per queste operazioni era la morte. Questo era infatti il contenuto del punto 2 dell’ordinanza del Comandante superiore tedesco […]: <<Chiunque tenga nascoste armi e non ne effettui la consegna presso un Comando militare germanico entro 24 ore dalla pubblicazione di questo proclama sarà fucilato secondo la legge marziale>>. […] Il bottino di gran lunga più rilevante fu quello abbandonato sull’Appennino dall’Accademia Militare: nella zona non esisteva in quel momento nessun nucleo, nessun embrione di organizzazione antifascista; fu perciò la popolazione dei paesi circostanti, attirata naturalmente più dagli equipaggiamenti che dalle armi, ad operare il recupero e l’occultamento, costituendo così un abbondante fonte di rifornimento per le future formazioni partigiane, che in quella zona avranno la loro culla anche in conseguenza della presenza di armi in tante case. (E. Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Bologna, Il Mulino, 1970, pp. 26-33) 156 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO I MILITARI BOLOGNESI, NEI GIORNI SUCCESSIVI AL DISARMO A ccusati di tradimento, i soldati italiani catturati dopo l’8 settembre furono trattati dai tedeschi con estrema durezza. Il primo impatto con la violenza nazista si ebbe nei campi di transito, dove i militari furono radunati a migliaia, in condizioni sanitarie pessime. Seguirono poi il trasferimento in Germania e l’internamento in lager. Sotto questo profilo, il destino e l’esperienza degli oltre 9.000 militari bolognesi catturati sono rappresentativi di quello che si verificò a tutti gli altri soldati italiani catturati (che secondo alcune stime recenti, proposte da Gerhard Schreiber, avrebbero raggiunto l’astronomica cifra di 802.722, al 1° febbraio 1944). <<Le strade sono letteralmente congestionate da truppe italiane arresesi e da tedeschi che si recano ad occupare le posizioni lasciate da noi… I cigli delle strade sono cosparsi di ogni sorta di materiale bellico: fucili, bombe a mano, cassette di munizioni, mortai, baionette, giberne e altro ancora… Molti dei nostri piccoli carri L sono rovesciati e immobili nelle posizioni più strane, alcuni completamente sventrati, colpiti in pieno dai cannoni dei Tigre tedeschi. A Dubrovnik un triste spettacolo si è presentato ai nostri occhi: i segni della battaglia sono ancora freschissimi e l’aria è ancora impregnata di un acre odore di polvere da sparo e di carne bruciata. Giacciono qua e là i corpi dei nostri soldati crivellati di colpi, alcuni addirittura a brandelli. Altri corpi invece sono a terra, rattrappiti, senza presentare ferite di sorta, solo i feriti e i cadaveri tedeschi sono già stati portati via. In gran numero anche le carcasse di muli e di 157 8 settembre cavalli della nostra artiglieria ippotrainata… Anche in città un’enorme quantità di materiale bellico per ogni dove… Intanto lunghe colonne di prigionieri di ogni arma passano giorno e notte dalla strada che fiancheggia il campo… non è possibile avvicinarli ma sembra che siano diretti in Germania. Sono malridotti e malvestiti>> (L. Morsiani). Questo, in linea di massima, lo scenario che fece da sfondo alle operazioni di cattura e di disarmo degli oltre 9.000 bolognesi che, fin dai primi momenti, vennero sottoposti a un trattamento durissimo: furono trattenuti nei campi di transito e smistamento (Durchgangslager - Dulag), senza preoccupazioni per le condizioni alimentari; poi trasportati in Germania o in Polonia in carri bestiame insaccati di uomini, chiusi e sorvegliati, senza cibo né acqua, per più giorni. Non tutti furono deportati: 845 (il 9,26%) rimasero nei territori dove erano stati disarmati: in Iugoslavia vennero rinchiusi nei campi a Brod, Nisch, Zagabria, Belgrado; in Grecia in quelli situati ad Atene, Salonicco, Ioannina, Rodi; mentre Grenoble, Perpignan, Calais sono solo alcuni dei tanti luoghi di detenzione in Francia, citati nelle testimonianze. Di questi, nel corso del tempo, dodici aderirono [= accettarono di collaborare con i tedeschi e con la RSI – n.d.r.] (1,42%): otto come militari e quattro come lavoratori. Non sono molti quelli che raccontano, con dovizia di particolari, la loro esperienza di prigionia nei territori occupati: alcuni furono chiusi in Lager veri e propri e utilizzati in lavori pesanti (in fabbrica o in miniera); altri vennero destinati d’autorità a reparti di lavoratori posti alle dirette dipendenze della Wehrmacht e costretti a seguire le truppe tedesche in ritirata. In ogni caso, le loro condizioni non furono molto diverse e dipesero soprattutto da svariate circostanze. […] 158 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO La maggioranza dei bolognesi, dunque, venne rinchiusa in centri di raccolta provvisori: caserme, campi sportivi, stadi di calcio, vecchi accampamenti abbandonati (in genere, i soldati separati dagli ufficiali), e qui cominciarono a patire le anticipazioni di quelli che sarebbero stati gli aspetti più dolorosi dell’esperienza concentrazionaria, sperimentando il difficile mestiere della sopravvivenza: dormire all’aperto, bere acqua non potabile, rimanere senza cibo e ricorrere al baratto, un espediente che poteva solo ritardare, ma non scongiurare, la fame che iniziò ad essere compagna costante. <<13 settembre: ieri sera sulle sei pomeridiane reparti di fanteria tedesca (tutti soldati giovanissimi) ci hanno incolonnato e fatti scendere a Dubrovnik con tutto il nostro armamentario, cannoni compresi, per la resa definitiva in questo campo di concentramento provvisorio, già accampamento di un reparto di artiglieria ippotrainata. Il campo si trova nella zona periferica della città e a sud di essa; è spazioso e il terreno, in parte ondeggiato e in parte piano, è stato recintato alla meglio da siepi e da steccati, in legno e filo spinato. Non vi sono edifici in muratura, ma solo qualche baracca in legno ad uso magazzino: la truppa infatti era attendata, mentre i cavalli, a quanto sembra, dormivano all’aperto… 30 settembre: …, sono stato anche indisposto forse a causa dell’acqua non potabile che siamo costretti a bere. Il campo è stato organizzato e si provvede da soli alla cucina, agli alloggi, alla pulizia. Per i viveri finora si è tirato avanti con le scorte cui ci rifornimmo al momento del caos; i tedeschi non hanno mai distribuito nulla. Adesso però le abbiamo quasi esaurite e presto, se non si provvederà, saremo alla fame. Speriamo sempre che succeda qualcosa di nuovo e finisca tutto, in modo da poter tornare a casa… 159 8 settembre 22 ottobre: la situazione è diventata critica per quanto riguarda il vettovagliamento, esaurite tutte le scorte, viviamo nutrendoci per buona parte di carne di muli e cavalli morti di inedia o che uccidiamo durante la notte di nascosto. Riusciamo anche a fare qualche permuta con i civili jugoslavi: essi ci offrono farina e pane in cambio di capi di vestiario, di cui ancora disponiamo, ma tutto ciò non potrà durare a lungo>> (L. Morsiani). […] Molti dei testimoni, allora giovani poco più che ventenni, descrivono lo smarrimento provato quando capirono che non avrebbero fatto ritorno alle proprie case. Il senso di abbandono che li colse allora, non li lasciò più e segnò non solo la loro vicenda di prigionia, ma anche il loro ritorno in patria. Il racconto del viaggio è poi caratterizzato soprattutto dai pesanti disagi patiti: la mancanza di spazio (nei vagoni bestiame piombati il tetto massimo di quaranta persone venne spesso superato e i termini usati che descrivono il sovraffollamento rendono perfettamente l’idea: i bolognesi scrivono di essere stati pigiati, schiacciati, chiusi come animali e caricati in treno come sardelle), la fame (misere razioni alimentari, costituite da pane e scatolette di carne, che in ogni caso dovevano bastare per più giorni), la sete, le precarie condizioni igieniche, cui si aggiunsero violenze, umiliazioni e degradazioni: <<un trattamento peggiore che non facevano con le bestie>>. […] Ci fu anche chi, rinchiuso in un vagone che non venne aperto per cinque giorni, perse l’uso della ragione, caso particolarmente tragico ma che restituisce, in modo esemplare, lo stato emotivo di quegli uomini. (R. Ropa, Prigionieri del Terzo Reich. Storia e memoria dei militari bolognesi internati nella Germania nazista, Bologna, CLUEB, 2008, pp. 104-113) 160 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO LE CONDIZIONI DI VITA DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI NEI LAGER I l durissimo atteggiamento tenuto dai tedeschi nei confronti degli IMI [=Internati Militari Italiani] non si attenuò in Germania, allorché i soldati catturati furono internati in appositi lager e adibiti al lavoro nelle industrie tedesche. Le testimonianze dei superstiti pongono l’accento soprattutto sulla fame patita e sulle malattie che colpivano i deportati, a causa delle carenze alimentari. Nel lager di Sandbostel il 16 aprile 1944 il tenente Giovanni Guareschi scriveva su un diario destinato a divenire famoso: <<Cammino su e giù… e vado svelto ma la fame mi insegue… Quante ore prima di poter masticare? Ancora cinque ore, poi avrò due patate e una scodella di rape; e lo stomaco, compreso rapidamente l’inganno, riprenderà a spasimare più dolorosamente. Sento anche la fame del dopo>>. Una ventina d’anni più tardi, rievocando con un amico i giorni di Sandbostel, Guareschi dirà che a quell’epoca gli tornavano spesso in mente le pagine di un libro di Carlo Castorino sulla fame sofferta dai prigionieri italiani a Mauthausen durante la Grande guerra e che lo scrittore genovese aveva significativamente intitolato La prova della fame: nel febbraio 1944, l’80 per cento dei 1.900 ufficiali internati a Czestochova soffrirono per edemi da fame e, come in altri lager polacchi, dal 30 al 40 per cento si ammalarono di tubercolosi in seguito alla denutrizione. La fame diventò la misura di tutte le cose. Nel lager di Przemysl, nel novembre 1943, un chilo di patate si 161 8 settembre pagava cento lire e una pagnotta ne costava novecento, mentre in Italia il prezzo del pane al mercato nero oscillava attorno alle 20 lire al chilo. Per acquistare pane, sigarette, patate e grassi gli internati italiani vendettero tutto quello che possedevano, anche le fedi matrimoniali, perché l’oro era la merce di scambio più ambita dai tedeschi: un orologio d’oro veniva valutato sei-otto filoni di pane. Come razione quotidiana gli ufficiali ricevevano ogni mattina un litro di infuso caldo di tiglio – di così scarso valore nutritivo che più d’uno se ne serviva per lavarsi o farsi la barba -; a metà giornata una minestra di rape, o di barbabietole già spremute, con qualche patata; oppure crauti crudi, qualche grammo di condimento, una fetta di pane da 2-300 grammi, un cucchiaio di miele sintetico o di marmellata o di zucchero (25 grammi); un pezzetto di margarina o di ricotta o di qualche surrogato di proteine (25 grammi): <<Troppo poco per vivere, troppo per morire>> (G. Storti). La razione per i soldati, i graduati di truppa e i sottufficiali era simile, forse con un po’ più di patate; per gli addetti ai lavori pesanti la minestra di rape era più abbondante e, di solito, più densa. Poi c’era l’alimento principale, il pane del lager. Nero e stopposo, era fatto con farina di segala e aveva forma di cassetta come il pancarré. Ogni pagnotta, solitamente lunga una trentina di centimetri e larga dieci, pesava fra i 1.500 e i 1.800 grammi, pari a sette razioni individuali circa. In genere la pagnotta era di qualità scadente e vecchia: il 25 settembre 1943, a Sandbostel gli internati militari italiani ricevettero del pane ammuffito sul quale era stampigliata la data dell’11 maggio di quell’anno. La fame, compagna indivisibile del deportato, spingeva a una ossessionante ricerca di giustizia nella 162 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO spartizione dei viveri, e specialmente del pane che veniva distribuito baracca per baracca, a gruppi di venti-trenta prigionieri. La spartizione del pane comportava ogni giorno complicate misurazioni e sorteggi allo scopo di eliminare qualsiasi possibilità di recriminazione: <<Una forma di pane, di quel pesante e umido pane che la guerra ha fatto conoscere in tutta l’Europa, veniva divisa con bilance sensibili come quella dei farmacisti e quando l’eguaglianza nel peso e nella forma era quasi assoluta, si tirava ancora a sorte>> (A. Natta). A questo punto, infatti, uno del gruppo andava in fondo alla baracca, si voltava col viso alla parete e, in risposta alla domanda: <<A chi questo?>>, faceva il nome di uno dei compagni assegnando così, con assoluta casualità, una delle porzioni pronte. La fame divenne disumana, e mortale, per gli IMI che lavoravano nelle grandi industrie quando il 28 febbraio 1944 fu introdotta una disposizione secondo la quale il vitto dei deportati doveva essere proporzionato al loro rendimento sul lavoro: <<Il Führer esige che gli internati militari italiani siano costretti, con severe misure, ad un alacre lavoro. Il vettovagliamento è perciò da commisurare al lavoro compiuto… La decisione relativa alla diminuzione è di competenza del datore di lavoro>>. Molte industrie tedesche applicarono immediatamente la direttiva di Hitler e quindi, per stimolare i deportati-schiavi a una maggiore produttività, finirono per affamarli ancora di più, riducendo le loro già scarsissime razioni. Nello Stalag VIII-B di Tesin, nella regione di Breslavia […], dov’erano rinchiusi 8.827 militari italiani adibiti prevalentemente alle miniere, il rancio fu fissato, dal marzo 1944, sulla base del rendimento nel lavoro. Analogamente a quanto già adottato per i 163 8 settembre prigionieri di guerra russi, gli internati italiani vennero divisi in tre gruppi: i buoni lavoratori; i medi ma fisicamente deboli e quelli che non riuscivano a lavorare, definiti fannulloni. I pasti caldi si cucinavano per tutti, ma gli appartenenti al primo gruppo ricevevano due litri e mezzo di minestra; quelli del secondo due litri e gli appartenenti al terzo soltanto mezzo litro. Anche nelle miniere di Peterswald, in Alta Slesia, i tedeschi suddivisero i 530 militari italiani che vi lavoravano in tre categorie – prima, seconda, terza – corrispondendo il rancio secondo la categoria di appartenenza: <<Più lavorare, più mangiare>>, annunciarono. Questo metodo, chiamato Leistungsernährung (alimentazione proporzionata alla produttività), varato già nel 1942, collocava nella prima categoria coloro che avevano un rendimento pari, o superiore, all’80 per cento di un operaio tedesco di uguale qualifica; nella seconda coloro il cui rendimento oscillava fra l’80 e il 60 per cento; la terza, infine, rappresentata da chi aveva un rendimento inferiore al 60 per cento; la parte di rancio tolta agli schiavi di quest’ultima categoria andava, come premio, a quelli della prima. Poiché dimezzare il vitto giornaliero, anche agli ammalati, costituiva una delle punizioni collettive più frequenti, le razioni potevano scendere a livelli minimi – e mortali – di 900 calorie al giorno contro le 1.730 prescritte e le 2.500-3.000 necessarie per lavorare. (G. Mayda, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945. Militari, ebrei e politici nei lager del Terzo Reich, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 326-329) 164 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO LA FARFALLA I l poeta romagnolo Tonino Guerra fu uno dei moltissimi internati militari in Germania che dovette subire la fame nei campi tedeschi. Guerra ricorda che già all’interno del lager iniziò a comporre poesie in dialetto, <<per tenere compagnia a dei contadini romagnoli>>, cui dava conforto e speranza sentire parlare nella loro lingua materna. Il testo che presentiamo, invece, fu scritto dopo la liberazione ed esprime in pochi versi il dramma di un’intera generazione. Cuntént, ma propri cuntént (Contento, ma contento davvero) a so stè una masa ad vòlti tla vòita (sono stato molte volte, nella vita) mò piò di tòtt quant ch’i m’a liberè (ma più di tutte, quando mi hanno liberato) in Germania (in Germania) ch’am so mèss a guardè una farfàla (e mi sono messo a guardare una farfalla) senza la vòia ad magnèla (senza la voglia di mangiarla) (S. Pivato, <<Letteratura e guerra a Rimini>>, in A. Bianchini – F. Lolli (a cura di), Letteratura e Resistenza, Bologna, CLUEB, 1997, p. 268) 165 8 settembre INDICE ICONOGRAFICO Immagine: 9 settembre 1943 Fonte: Il Resto del Carlino Archivio Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: 9 settembre 1943 Fonte: Il Resto del Carlino Archivio Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: 9 settembre 1943 Fonte: Il Resto del Carlino Archivio Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: 9 settembre 1943 Fonte: Il Resto del Carlino Archivio Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: 9 settembre 1943 Fonte: Il Resto del Carlino Archivio Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: 9 settembre 1943 Fonte: Il Resto del Carlino Archivio Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Soldati tedeschi a Parigi Fonte: La seconda guerra mondiale : immagini dal fronte / testi di David Boyle. - Vercelli, : White Star, 1999. - 598 p. : in gran parte ill. ; 31 cm. (Trad. e ampliamento del testo a cura di Fabio Bourbon) 166 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Soldati italiani in Grecia - Cefalonia Fonte: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Leandro Arpinati (Civitella di Romagna, 29 febbraio 1892 -Argelato (Bo), 22 aprile 1945) Fonte: Le legioni bolognesi in armi / Giorgio Pini. - Bologna : Edizione de l’assalto, 1923. - 108 p. : ill.; 24 cm Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna 167 8 settembre 168 IL FASCISMO, LA GUERRA E L’ARMISTIZIO 169 © Regione Emila-Romagna - Assemblea Legislativa Progetto grafico: lucignolo progetti grafici (Bo) I° edizione - finito di stampare il xx Xxxxxx 2011 stampa a cura di XXXXXXX Francesco Maria Feltri insegna Italiano e Storia presso l'ITAS "Francesco Selmi" di Modena. E' autore di numerosi manuali di Storia per la Scuola Superiore, tra cui ricordiamo "I giorni e le idee" (SEI, Torino, 2001) e "Chiaroscuro" (SEI, Torino, 2011). In qualità di studioso della Shoah, ha collaborato con la Fondazione Anne Frank di Amsterdam e con il Museo Yad Vashem di Gerusalemme. Per l'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, ha curato il sussidio didattico on line "Viaggio visivo nel Novecento totalitario". CONSAPEVOLEZZA MEMORIA LucignoloProgettiGrafici Cittadinanza