I fondamenti dottrinali della questione delle investiture

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I fondamenti dottrinali della questione delle investiture
Derivando dal latino investire, “adornare”, la parola “investitura” fu usata in epoca feudale per
indicare il conferimento di una dignità o di una carica da parte di un’autorità superiore. Si poteva
essere “investiti” del titolo di cavaliere, di un feudo e delle funzioni di conte o di vescovo.
Le cerimonie di investitura avevano sempre due aspetti connessi, uno materiale e uno simbolico.
Così all’investitura di un feudo corrispondevano gli atti che simboleggiavano la fedeltà e la
sottomissione dell’infeudato; oppure, il vescovo che investiva un cavaliere gli consegnava le armi
ma gli imponeva anche un atto di umiliazione colpendolo su una spalla. La questione presentava
aspetti particolarmente complessi quando si trattava di investire i vescovi dei loro poteri,
distinguendo il loro aspetto spirituale da quello temporale.
L’investitura a vescovo
La procedura canonica (cioè quella conforme ai canoni e alle leggi della chiesa) prevedeva che i
vescovi fossero eletti dal clero diocesano e che successivamente venissero consacrati da un
arcivescovo o dal papa stesso, che doveva consegnare loro i simboli del potere spirituale, l’anello e
il pastorale (il bastone con l’estremità superiore ricurva): era questa l’investitura ecclesiastica
propriamente detta.
Accedere alla carica di vescovo aveva però anche un importante significato politico, perché in molti
casi al titolo di vescovo era associato quello di conte e in ogni caso il vescovo diventava titolare di
diritti sulle terre e gli uomini che costituivano la dotazione materiale del vescovado. Poiché alle
origini di questi diritti e del potere che essi assicuravano vi era la concessione fatta in passato da un
sovrano, l’imperatore non poteva restare indifferente di fronte alla scelta della persona che avrebbe
ricoperto la carica di vescovo. Rivendicava di conseguenza per se stesso l’investitura laica, cioè il
compito di procedere all’investitura dei poteri e dei beni o “benefici” materiali connessi al titolo
vescovile.
Il conflitto e il compromesso
La pratica era allora che l’imperatore (ma lo stesso valeva per i re di Francia e d’Inghilterra)
designasse autonomamente la persona più adatta a diventare vescovo, riducendo a un atto formale
l’elezione canonica e anche la consacrazione. Il punto veramente decisivo è che l’imperatore
provvedeva abitualmente a consegnare di persona, al momento dell’investitura, l’anello e il
pastorale e ciò dava l’impressione che l’investitura laica stessa fosse una vera e propria nomina o
addirittura il conferimento di un ordine sacro, con la scomparsa di ogni distinzione fra l’aspetto
temporale e politico e quello spirituale. Fino a che la riflessione dei teologi e dei giuristi non ebbe
ben chiarito la differenza fra le due investiture, che i due contendenti avevano contribuito a
oscurare, non ci fu modo di arrivare a un compromesso.
Gregorio VII morì nel 1085 ed Enrico IV gli sopravvisse fino al 1106. L’accordo venne soltanto nel
1122, dopo diverse settimane di puntigliose trattative che si erano svolte a Magonza, sede di un
principato ecclesiastico retto da uno dei maggiori arcivescovi di Germania. Adalberto di Magonza,
che era stato fino ad allora capo della fazione tedesca anti-imperiale, fu nominato da Callisto II capo
della delegazione papale. L’arcivescovo Brunone di Treviri si trovava invece nella delegazione che
rappresentava l’imperatore. La pace fu ristabilita nella città imperiale di Worms il 23 settembre.
Benché i documenti allora scambiati non definissero con precisione cosa si dovesse intendere con
“regalie”, i poteri di spettanza imperiale, il compromesso raggiunto a Worms rappresentò un
momento essenziale nella storia d’Europa per il suo sforzo di distinguere tra la sfera statale e quella
della chiesa.
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