In giallo i dubbi, che si dovrebbero controllare, e le indicazioni di servizio Potrei fornire piante di luoghi e battaglie di questo capitolo. CAPITOLO 6 LA GRECIA NELL’ETÀ CLASSICA IL TEMPO: 499-362 a.C. L’età classica Con il V secolo a.C. inizia l’età classica che si protrae fino al 323 a.C., quando si fa iniziare l’età ellenistica. Dell’ultima fase dell’età classica, quando comincia la decadenza delle poleis, noi parleremo nel prossimo capitolo. In questo affronteremo, invece, il periodo più splendido della civiltà greca, ma anche il più tormentato dalle guerre. La prima è rappresentata dallo scontro con un gigante orientale, l’impero persiano. LE GUERRE PERSIANE IL TEMPO: 480-479 a.C. La situazione dell’Asia Minore nel VI secolo a.C. Nel VI secolo a.C., le città greche da secoli insediate sulle coste dell’Asia Minore finirono sotto il dominio di Creso, il re del ricco regno di Lidia, che sorgeva nell’entroterra, alle spalle degli insediamenti greci, in posizione strategica, e aveva come capitale Sardi. I greci, però, sotto Creso non persero del tutto la propria autonomia economica, perché l’atteggiamento del sovrano fu tollerante e aperto alla cultura greca, tanto che egli, famoso per le sue enormi ricchezze, inviava offerte e ricchissimi doni al santuario di Delfi e ai templi di numerose altre città greche. Così, quando il re dei persiani Ciro « mandò degli araldi in mezzo agli Ioni, per tentare di staccarli da Creso, […] gli Ioni non si lasciarono convincere» (Erodoto, I, 76). Alla fine del VI secolo a.C. le città greche dovettero invece fare i conti con l’impero persiano, l’ultimo grande impero del Vicino Oriente, destinato a dominare per oltre due secoli (v. cap. 3???). Uno scontro di civiltà Col desiderio di realizzare il grande sogno dell’impero universale, il re persiano Dario I intraprese, alla fine del VI secolo a.C., la conquista anche dell’occidente e, inevitabilmente, si scontrò col mondo greco. La lotta contro il gigante persiano assunse per i greci un valore epico e fu considerata la più grande impresa mai affrontata nella loro storia, sulla quale essi fondarono la propria identità: le due guerre persiane divennero una vera epopea nel loro ricordo. La voce che meglio seppe narrare quell’avventura è quella dello storico greco Erodoto, nato ad Alicarnasso, nella Ionia, nel 484 a.C., proprio nel periodo delle guerre contro l’impero persiano. Nelle pagine delle sue Storie egli non narra solo lo scontro di due popoli, ma l’opposizione radicale di due culture e di due modi di concepire la politica e la società, con un punto di vista certamente “ellenico-centrico” (G), che tuttavia è il punto di vista con cui i greci vedevano quella vittoria. Per i persiani, invece, si trattò di un’esperienza piuttosto marginale che, se bloccò l’avanzata verso occidente, non scalfì l’enorme potere del loro impero. Scheda Tra storia e leggenda su Erodoto?? Cantarella p. 265 GEOSTORIA Inserire carta neutra dell’impero La vastità dello spazio imperiale L’impero di Dario si estendeva dalla regione del delta dell’Indo al Golfo Persico, alle coste del Mediterraneo, del Mar Nero e del Mar Caspio, compreso il Caucaso. L’impero controllava anche il Bosforo, il Mar di Marmara e lo stretto dei Dardanelli, che i Greci chiamavano Ellesponto e che era essenziale ai loro commerci con le colonie sorte sulle coste del Mar Nero. Ma Dario estese il controllo anche al di là dell’Ellesponto, alla Propontide che si affaccia sul mar di Marmara, al Chersoneso tracico che Atene, nel VI secolo a.C., aveva cominciato a colonizzare perché era una regione ricca di grano, e all’isola di Taso, ricca di miniere d’oro. LA STORIA La Ionia nell’impero Con la conquista persiana della Lidia, nel 540 a.C. erano passate sotto il controllo persiano anche le città greche della costa dell’Asia Minore (v. capitolo 3???). Esse mantenevano le proprie istituzioni e la propria indipendenza, ma erano costrette a versare tributi e a prestare servizio militare per il Gran Re. Il vero controllo persiano sulle città ioniche si attuava però soprattutto attraverso l’instaurazione di tiranni appoggiati dai satrapi (G) e dal governo centrale. I loro traffici commerciali nel Mediterraneo erano danneggiati dalla concorrenza dei fenici, appoggiati dal Gran Re, e la conquista persiana della Tracia ostacolava i traffici nel mar Nero. Alla fine del VI secolo a.C., era tiranno di Mileto Aristagora, il quale per una sconfitta subita nel tentativo di conquistare l’isola di Nasso, temeva che il satrapo di Sardi Artaferne (o Artafrene), che aveva fornito finanziamenti per la spedizione, gli avrebbe tolto la signoria su Mileto. Pensò dunque di ribellarsi al potere del Gran Re. Carta piatta della prima guerra persiana La preparazione della rivolta ionica: la richiesta di aiuto a Sparta «In primo luogo, rinunciando, a parole, alla tirannide, instaurò a Mileto l’uguaglianza dei diritti, affinché spontaneamente i cittadini si ribellassero insieme con lui. Poi, estese anche al resto della Ionia questo stesso regime: alcuni tiranni furono scacciati […]. E il dominio tirannico nelle varie città ebbe fine.» (Erodoto,V, 37-38) Poi Aristagora cercò l’appoggio di una potente alleata e giunse a Sparta, dove presentò la guerra contro i persiani come un’impresa facile perché il nemico era un “barbaro” (v. par. La scoperta di sé e degli altri ) e come tale incapace di eroismo, impacciato nell’abbigliamento e sprovvisto di armi adeguate, e vantaggiosa perché avrebbe ridato la libertà ai greci, e permesso di conquistare le immense ricchezze dell’impero. Ma Sparta non accettò perché, come sempre, gli spartani non potevano allontanarsi per lunghi periodi dalla propria terra rischiando di veder esplodere ribellioni di iloti (v. cap. Sparta e Atene, pp.???). La preparazione della rivolta ionica: la richiesta di aiuto ad Atene Ad Aristagora non restava che rivolgersi all’altra grande potenza, Atene. I rapporti della città attica con i persiani erano tesi. Ippia, l’ultimo tiranno di Atene, cacciato dalla città nel 510 a.C. e rifugiatosi in Persia (v. cap. 5??) non appena «pose piede in Asia, usava ogni mezzo per mettere in cattiva luce gi Ateniesi agli occhi di Artafrene, facendo di tutto perché Atene ritornasse soggetta a lui e fosse sotto il potere di Dario» (p. 64-65). L’atteggiamento di Ippia rivela una costante della storia greca: di fronte alle esigenze di un singolo o di una città, i greci non si facevano scrupolo di rivolgersi ad una potenza straniera, anche a costo di finire sotto il suo dominio. Quando Artaferne impose agli ateniesi di riaccogliere Ippia ad Atene, essi si rifiutarono e si prepararono alla guerra. Proprio allora (era il 499 a.C.) Aristagora di Mileto arrivò al Atene e, presentatosi all'assemblea popolare, ripeté le stesse cose che aveva detto a Sparta, e aggiunse che i milesi erano ioni come gli ateniesi ed era naturale che essi, tanto potenti, li proteggessero. Riuscì a persuadere l’ecclesia, che deliberò di inviare in aiuto degli Ioni una piccola flotta di venti navi, alle quali si aggiunsero cinque navi fornite da Eretria, la principale città dell’Eubea. L’incendio di Sardi Ottenuto l’aiuto di Atene e l’alleanza delle città ioniche, Mileto diede vita alla rivolta. Ben presto gli insorti giunsero a Sardi, la presero e la incendiarono. Dario, informato che ateniesi e ioni avevano incendiato Sardi, chiese chi mai fossero gli Ateniesi, tanto era sconosciuta la piccola città greca e irrilevante di fronte all’immensità dell’impero. E ovviamente decise di punire gli insorti, cominciando col sottomettere alcune città ribelli, inviando anche degli araldi qua e là nelle varie regioni della Grecia, con l’ordine di pretendere terra e acqua a nome del re, di chiedere cioè la sottomissione totale, per mare e per terra, al Gran Re. Le isole dell’Egeo e alcuni stati-etnici accettarono la richiesta, il re di Macedonia dichiarò la propria sottomissione al Gran Re. Ma Dario non inviò la richiesta agli ateniesi e agli spartani perché «quando, in precedenza, ve li aveva mandati Dario, a questo stesso scopo, gli Ateniesi avevano scaraventato i messi nel “baratro” [una voragine dietro l’acropoli di Atene, dove si gettavano i condannati a morte] e gli Spartani li avevano scaraventati in un pozzo, ordinando loro di prendervi terra e acqua da portare al re» (Erodoto, VII, 133). Aristagora di Mileto allora fuggì in Tracia, dove morì durante una spedizione militare (497 a.C.). La caduta di Mileto e di Eretria Le città ioniche però resistettero ancora, fino a quando subirono una grave sconfitta navale ad opera dei fenici, alleati dell’impero, e i persiani cinsero d'assedio Mileto per terra e per mare. Nel 494 a.C. vinsero la sua resistenza e la espugnarono da cima a fondo, trucidando o vendendo come schiavi gli abitanti. Le altre città ioniche invece ebbero un trattamento mite perché i persiani ritennero sufficiente, come deterrente contro futuri tentativi di rivolta, la distruzione di Mileto. Dario, spinto da Ippia, inviò poi contro Eretria e contro Atene, un esercito di fanteria, numeroso e bene equipaggiato, al comando del generale Dati, e una flotta per trasportare l’esercito al comando dell’ammiraglio Artaferne, figlio del satrapo omonimo. Giunti ad Eretria e fatta irruzione nella città, i persiani ne spogliarono i templi e li incendiarono, vendicandosi così dei santuari che erano stati bruciati a Sardi. Quindi ridussero in schiavitù alcuni cittadini e altri ne deportarono in Asia. Tra storia e leggenda Tragedie da tacere Gli ateniesi furono molto scossi dalla caduta di Mileto, la città allora più prestigiosa di tutto il mondo ellenico e simbolo della cultura greca. «Tra l’altro, in particolare, siccome il poeta Frinico aveva composto e fatto rappresentare una tragedia sulla presa di Mileto e il teatro tutto era scoppiato in pianto, lo condannarono a pagare una multa di 1000 dramme, perché aveva ricordato sventure cittadine e ordinarono che nessun altro mai potesse far rappresentare quella tragedia.» (p. 90). Al contrario, quando vent’anni dopo Eschilo metterà in scena, con la sua tragedia I Persiani, la vittoria di Atene, conseguirà il successo. La spedizione contro Atene Dopo essersi impadroniti di Eretria, i persiani, accompagnati da Ippia, fecero vela verso l'Attica e si fermarono, proprio su suggerimento dell’antico tiranno di Atene, a Maratona, la pianura più adatta alle evoluzioni della potente cavalleria persiana e la più vicina a Eretria. Ma appena gli ateniesi ne furono informati, per chiedere aiuto mandarono a Sparta, come messaggero, Filippide, un "corriere" di professione (v. Tra storia e leggenda). Egli, dopo aver percorso in 36 ore ben 230 km, giunto nella città laconica non riuscì a ottenere l'aiuto dagli spartani perché, secondo il racconto di Erodoto (v. scheda Tra storia e leggenda), la luna non era ancora piena! Mentre, dunque, questi aspettavano il plenilunio, Ippia guidava i “barbari” verso Maratona. Gli ateniesi, al comando dello stratega Milziade, il cui padre era stato fatto assassinare da Ippia, decisero di non aspettare il nemico ad Atene, che non era facilmente difendibile, e di accorrere da soli a difendere il loro paese. Milziade era un abile comandante e un valoroso guerriero, che era stato, come il padre, tiranno di una città della Tracia e aveva militato per i persiani: quindi conosceva bene la loro tattica militare. Tra gli altri strateghi a Maratona c’era anche Aristide, un aristocratico che aveva preso parte alle riforme di Clistene. dida per l’immagine della battaglia La piana di Maratona Maratona, letteralmente “campo dei finocchi”, era un villaggio posto sulla costa orientale della penisola dell’Attica, in una valle abbastanza stretta, lunga 10 e larga poco più di 3 km. Tra storia e leggenda può diventare dida per l’immagine della stele del corridore di Maratona in Clemente p. 164 Corrieri eccezionali Fidippide (o Filippide), che giunse a Sparta percorrendo 100 km al giorno, era un hemeródromo, un “corridore giornaliero”, addestrato a “correre per un intero giorno”, come indica la parola, anche per lunghe distanze e su terreni disagevoli, adibito soprattutto a portare messaggi agli eserciti. Tesi di Mosconi: Un messaggero simile, di nome Thersippo o Euclea, spesso confuso con Filippide, secondo la tradizione avrebbe percorso, dopo la famosa battaglia, i 42 km da Maratona ad Atene ad una velocità tale che ebbe il tempo di dire solo “Abbiamo vinto” prima di cadere morto per lo sforzo compiuto. All’episodio si ispira la moderna maratona, che si svolge su 42,195 km. Tesi di Gentile: la battaglia probabilmente avvenne il 12 agosto e non il 20 settembre, perciò il corriere sarebbe morto per il caldo Tesi di Clemente: il corridore di Maratona era lo stesso che prima era andato a Sparta a chiedere aiuto, era subito dopo tornato a Maratona e poi ad Atene: quindi morì per lo sforzo eccessivo, però mi sembra che non ci stiamo con le date e neppure con i km eccessivi. Qualcuno riesce a risolvere l’enigma? Si dovrebbe anche parlare della nascita della maratona moderna e in generle della nascita delle Olimpiadi moderne: dove?. Tra storia e leggenda Questione di luna e di feste Una prescrizione religiosa, vietava agli spartani di intraprendere qualsiasi azione militare finché non finiva il plenilunio che seguiva le feste di Apollo Carneo, che si svolgevano a cavallo tra agosto e settembre. Secondo gli storici, in quell’anno 490 a.C., il plenilunio cadeva il 15 settembre, così gli spartani poterono arrivare ad Atene solo tre giorni dopo il plenilunio, troppo tardi per prender parte allo scontro con i persiani, ormai sconfitti dagli ateniesi il 12 settembre. Potranno solo elogiare gli ateniesi, per la loro eroica impresa, e prendere la via del ritorno. In vista della battaglia Privi dell’aiuto spartano, gli ateniesi ricevettero però aiuto da Platea, città della Beozia, che aveva ottenuto da Atene aiuti e protezione contro Tebe, la potente città che predominava in Beozia e che per odio verso gli ateniesi si era schierata coi persiani. Platea inviò 1000 dei suoi opliti, ad affiancare i 10.000 opliti ateniesi a Maratona. Le fonti invece non concordano sul numero dei persiani, che si fa variare da 200.000 fino a 600.000. Il comando della spedizione contro Atene era stato affidato a Ippia, che sperava di riottenere la tirannide, una volta conquistata la città. A Maratona, Milziade schierò l’esercito sulle pendici dei colli che sovrastano la piana. La posizione era favorevole agli ateniesi e i persiani indugiarono inutilmente per una quindicina di giorni aspettando che essi scendessero in campo aperto. I comandanti ateniesi, com’è tipico della democrazia, discutevano animatamente sulle decisioni da prendere. «Tra gli strateghi ateniesi i pareri erano discordi, poiché alcuni non volevano che si attaccasse battaglia (erano troppo pochi, dicevano, per tener fronte all'esercito dei Medi! [così i greci chiamavano i persiani]); altri, invece, e tra essi Milziade, insistevano per sferrare l'attacco.» (Erodoto, VI,109). La battaglia di Maratona e la geniale tattica ateniese Milziade riuscì a far passare dalla sua parte l’arconte polemarco e ad assumere egli stesso la responsabilità da far prevalere la propria linea e ad assumere egli stesso la responsabilità dell’attacco. Il 12 settembre del 490 a.C., Milziade diede improvvisamente il segnale e gli opliti ateniesi, per impedire che i persiani potessero usare la potente cavalleria e i loro formidabili arcieri, si slanciarono di corsa sulla piana caricando il nemico in formazione compatta. I Persiani, al vederli arrivare di corsa, li consideravano pazzi, visto anche il loro scarso numero, e senza cavalli né arcieri. Gli ateniesi erano infatti i primi ad adottare la tattica della corsa contro i nemici e «i primi, racconta Erodoto, che sopportarono di vedere l'esercito persiano, mentre fino allora ai Greci incuteva terrore anche solo sentire il nome dei Medi» (Erodoto, VI, 112). La battaglia durò a lungo, ma alla fine la falange oplitica ateniese con la sua formazione compatta ebbe la meglio sulle truppe persiane che combattevano in ordine sparso e senza un adeguato coordinamento (v. par. La scoperta di sé e degli altri). Gli ateniesi inseguirono i fuggiaschi fino all’accampamento e si impadronirono di sette navi nemiche. Con le altre i persiani doppiarono il Capo Sunio, cercando di giungere in città prima degli ateniesi. A marce forzate verso Atene Ma Milziade riportò in città l’esercito a marce forzate e nella stessa giornata della battaglia riuscì a giungere ad Atene prima che vi arrivassero i nemici. Pare che il piano originario dei persiani, sventato dagli ateniesi con il rapido ritorno ad Atene, prevedesse proprio l'attacco alla città e che lo scontro di Maratona dovesse servire soltanto come diversivo per distogliere da Atene il grosso delle truppe. Una volta fallito il progetto, i persiani «giunsero in vista del Falero (era questo, allora, il porto di Atene); ma dopo aver fermato le navi al largo di esso, ripresero per mare la via del ritorno in Asia.» (Erodoto, VI, 116). La vittoria di Maratona ha lasciato un ricordo indelebile anche nella nostra cultura, oltre che in quella greca, come di un’impresa quasi impossibile. Tuttavia occorre precisare che gli ateniesi si batterono non contro tutto l’esercito persiano, ma solo contro un corpo di spedizione relativamente modesto, che Dario aveva inviato per sistemare una questione per lui marginale. Dida dell’immagine del tumulo A futura memoria «In questo scontro di Maratona, morirono da parte dei Barbari circa 6.400 uomini, da parte ateniese 192», racconta Erodoto, che, però, forse non tiene conto delle perdite dei Plateesi e degli schiavi. Eppure in loro memoria, nel luogo della battaglia, fu elevato un tumulo oggi scomparso. È ancora visibile invece un piccolo colle artificiale chiamato “La tomba”, che era il tumulo, più alto rispetto a quello dei plateesi, innalzato per gli ateniesi caduti in battaglia, i cui nomi furono scritti in cippi collocati sul colle per conservarne la memoria in eterno. La reazione alla vittoria e la riforma della costituzione ateniese L’eco della vittoria di Atene a Maratona fu enorme: una piccola città, in cui la democrazia con le sue risse interminabili sembrava rendere fragile il potere, era riuscita a reagire compatta e a sconfiggere, quasi completamente da sola, un nemico potentissimo. Da allora Atene assunse un ruolo egemone nel mondo greco, contendendolo alla più forte potenza bellica, Sparta. Intanto Milziade volle sfruttare la vittoria per conquistare le isole Cicladi e impedire che i persiani le usassero come base per invadere la Grecia. Ma l’impresa fallì, Milziade fu ferito e in patria fu accusato di aspirare alla tirannide. Morì poco dopo a seguito delle ferite. Ma per evitare nuovi tentativi di tirannide, furono apportate modifiche alla riforma di Clistene: la carica di arconte fu assegnata per sorteggio e perse prestigio, togliendo ulteriormente potere agli aristocratici che soli potevano accedervi. Per la prima volta nel 487 a.C. fu applicato l’ostracismo, un mezzo per allontanare dalla città personaggi sospettati di attentare alla democrazia, e furono allontanati i promotori di un attacco fallito contro l’isola di Egina. Tra loro era Santippo che, imparentato con la famiglia degli Alcmeonidi, aveva preso parte alle riforme di Clistene, aveva sposato una sua nipote, Agariste, da cui ebbe Pericle, il futuro grande statista di cui parleremo tra breve. Fu votata la legge navale, che prevedeva la costruzione di una flotta e favoriva i ceti meno abbienti (v. par. la reazione …). Carta piatta della II guerra persiana I grandiosi preparativi di Serse In Persia Dario non si rassegnava alla sconfitta e iniziò i preparativi per riprendere le ostilità. Forse fu subito dopo la battaglia di Maratona che Ippia morì, ma al seguito del re restarono alcuni suoi figli e parenti, pronti a consigliargli di riprendere la guerra contro Atene. Dopo aver designato il figlio Serse come suo successore, però, proprio mentre si accingeva alla guerra, nell’autunno del 486 a.C. morì anche il Gran Re. Dalla primavera del 484 a quella del 480 a.C., fu Serse a preparare una imponente spedizione contro la Grecia, chiamando a raccolta truppe e mezzi da tutto l’impero. Per potere trasportare la cavalleria e un esercito imponente, non bastava la flotta, come nella guerra voluta da Dario. Quindi il re predispose sia un esercito da inviare a piedi sia una flotta d’appoggio, che avrebbe navigando lungo la costa. Siccome una prima spedizione al comando del generale Mardonio, che aveva tentato di doppiare il promontorio dell’Athos, la più orientale delle tre sporgenze della penisola Calcidica, aveva subito un disastro, Serse intraprese il taglio dell’istmo che collega il promontorio alla terraferma, in modo da non doverlo doppiare. Intanto faceva costruire ponti sull’Ellesponto, con barche legate insieme, perché i soldati potessero passare a piedi sulla sponda europea. Completati i lavori di costruzione dei ponti, del taglio del canale dell’Athos e delle dighe che dovevano impedire che il flusso dell’acqua ostruisse il canale, nella primavera del 480 a.C. Serse mosse l’esercito, probabilmente di oltre 100.000 uomini e più di 1000 navi, anche se Erodoto parla di milioni di uomini e migliaia di navi. Giunto sullo stretto, il re si fermò ad ammirare estasiato le sue truppe. «Alla vista di tutto l’Ellesponto coperto delle sue navi e di tutta la spiaggia del mare e la pianura di Abido piena dei suoi soldati, allora sì che Serse si considerò felice.» (Erodoto, VII, 45). Occorsero 7 giorni e 7 notti perché l’intero esercito attraversasse i ponti di barche costruiti sullo stretto. La reazione dei greci di fronte al pericolo Serse procedette quindi verso la Grecia, costringendo tutti i popoli che via via incontrava e che erano già tributari dell’impero a unirsi al suo corpo di spedizione. Parallelamente la flotta procedeva lungo la costa. Le poleis greche non erano unite nella volontà di resistere all’invasore, anzi molte erano favorevoli ai persiani e persino l’oracolo di Delfi, a cui Serse aveva inviato ingenti donativi, sconsigliava di resistere. Neanche dentro Atene i pareri erano concordi. Tra i sostenitori di un accordo con la Persia era il conservatore Aristide, che, portavoce dell’aristocrazia terriera, non vedeva vantaggi in una guerra contro l’impero, ma solo lo svantaggio di avere i campi devastati e la città distrutta. Per il ceto medio di imprenditori e commercianti invece la libertà coincideva con la stessa sopravvivenza: libertà di commerci in un mare libero dalla concorrenza, soprattutto di quei fenici tanto favoriti dai persiani (v. capitolo impero persiano??? Non so se ne parleremo). Temistocle A far prevalere la propria opinione fu però Temistocle, che già in precedenza era riuscito a far approvare la legge navale, convincendo l’ecclesia a investire le enormi ricchezze che affluivano dalle miniere del Laurio, scoperte solo nel 483 a.C. nella zona montuosa dell’Attica meridionale, per allestire una flotta di duecento triremi, le navi da guerra, di recente costruzione, più moderne, veloci, agili nelle manovre ed efficienti. Gli ateniesi avevano rinunciato alle dieci dracme, che sarebbero toccate a ciascuno di loro, per costruire la flotta. Ora Temistocle proponeva di costruire un porto al Pireo (allora era attivo solo il porto del Falero) e aggiungere altre navi, anche a spese dei privati più ricchi, e con una potente flotta sfidare Serse. Per avere il campo libero da opposizioni, Temistocle riuscì nel 482 a.C. a far ostracizzare il rivale Aristide, anche se l’onestà dello stratega di Maratona era nota a tutti, tanto da valergli il soprannome di “giusto”. L’ostracismo si rivelò così un’arma micidiale. Poiché si otteneva con una semplice votazione dell’assemblea contro personaggi ritenuti pericolosi sulla base di dicerie, senza prove certe e senza un regolare processo, l’ostracismo divenne un’arma facilmente sfruttabile contro gli avversari politici. La scelta di Temistocle di basare la guerra sulla flotta di triremi aveva un risvolto sociale e politico fondamentale, che l’aristocratico Aristide non poteva condividere: infatti ad essere ingaggiati come rematori erano i teti, la classe più povera, che trovava nella spedizione militare una fonte di guadagno e un nuovo ruolo sociale, che, coinvolgendoli nella difesa della città, avrebbe garantito loro maggiori diritti. Proprio per favorire la classe meno abbiente e ottenerne il favore in assemblea, Temistocle costruì la flotta più potente del Mediterraneo, con un numero di navi eccezionalmente alto: la flotta di Samo, il centro navale più potente fino a quel momento, non superava infatti le quaranta navi. Alla ricerca di alleanze Le trentuno città greche che concordavano con la scelta di affrontare il gravissimo pericolo rappresentato da Serse posero fine alle inimicizie e alle guerre, che li mettevano gli uni contro gli altri e, convenute a Corinto, conclusero un’alleanza, una Lega panellenica, alla cui testa si mise Sparta col consenso di Atene. Per porre fine anche ai conflitti interni fu proclamata un’amnistia generale che permise ad Aristide e a Santippo di rientrare ad Atene. Non aderirono invece alla Lega Argo, la grande nemica di Sparta, e le regioni settentrionali perché, troppo esposte all’attacco persiano, preferirono sottomettersi spontaneamente al Gran Re. Gli alleati mandarono anche ambasciatori in Sicilia, presso Gelone, per esortarlo a venire in soccorso della Grecia. I tesori di Gelone, tra l’altro, si diceva fossero immensi, di gran lunga maggiori di quelli d'ogni altro popolo greco e sarebbero stati preziosi per vincere. Ma Gelone era impegnato, insieme a Terone, tiranno di Agrigento, contro i cartaginesi, che avevano intrapreso una politica espansionistica, sobillati proprio dal re di Persia, che voleva tenere occupati i greci della Sicilia, i sicelioti, e impedire loro di portare aiuto alla madrepatria. Gli inviati dei greci non riuscirono quindi a ottenere aiuti da Siracusa, e neppure da Creta e da Corcira, a cui pure li avevano chiesti nella speranza che tutto il mondo greco costituisse un blocco compatto contro l’aggressore. La linea del fronte I greci dovettero a quel punto deliberare dove porre la difesa per non permettere al nemico di penetrare in Grecia. Prevalse l’opinione di presidiare il passaggio delle Termopili, sia perché era più stretto di quello che dalla Macedonia portava in Tessaglia, sia perché era più vicino alle città della Lega. Si decise anche che, per impedire alle navi persiane di approdare in Attica, la flotta delle 200 navi ateniesi e delle 70 navi dei loro alleati solcasse il mare nei pressi dell’Artemisio, che si trova così vicino alle Termopili che si poteva facilmente ricevere notizie di quello che avveniva in un posto e nell’altro. Serse, invece, pose l’accampamento nella Malide, che si affaccia sulla parte nord del golfo Maliaco, su cui si affacciano, da sud-est, anche le Termopili. Box-dida (immagine in Lessico classico, ma che risale al 1800!) La geografia delle Termopili All’epoca della famosa battaglia la costa, che si affaccia da est sul golfo Maliaco, all’altezza delle Termopili era molto più arretrata di oggi e il passo era molto stretto perché una sporgenza del monte Eta si affacciava immediatamente sul mare. Era l’unica via che permetteva di passare dalla Tessaglia alla Locride, ma il passaggio era reso difficile dalla presenza di tre strettoie: due sono strettissime e permettevano il passaggio di un solo carro, la terza, più larga, era sbarrata dal muro costruito dai focesi per difendersi dai tessali. Il luogo era percorso da numerosi fiumi e il suo nome deriva dalle fonti termali sulfuree, quindi calde (in greco thermái), e dalle porte (pylai), che si aprivano sul muro dei focesi. Oggi la costa è avanzata e le alluvioni del fiume Spercheo hanno creato delle paludi (da controllare) La battaglia delle Termopili (giorno e mese agosto? 480 a.C.) Viandante, se giungi a Sparta annuncia ai Lacedemoni che noi riposiamo qui, per obbedire alle loro leggi. Occorre controllare l’iscrizione, ho usato la frase del racconto di Böll, perché mi piace di più Malgrado avesse promesso il suo aiuto, in realtà Sparta aspettava ancora una volta che si concludessero, il 21 agosto, le feste in onore di Apollo, e perciò inviò alle Termopili solo i Trecento, un corpo scelto, quasi una guardia del re. Li comandava uno dei due re spartani, Leonida. Anche gli altri alleati avevano in programma di intervenire solo quando si fossero conclusi i Giochi Olimpici, che cadevano proprio in quel periodo: duravano solo cinque giorni, ma prevedevano la sospensione delle attività belliche per un intero mese. Il problema era quindi essenzialmente la scarsa coesione delle varie città nell’affrontare il nemico e le feste erano solo una scusa per non intervenire a difesa delle Termopili. Anche i greci schierati alle Termopili, quando i Persiani si avvicinarono al passo, cominciarono a discutere sull'opportunità di ritirarsi. I peloponnesiaci preferivano porre la difesa sull’istmo di Corinto in modo da salvare il Peloponneso, abbandonando le regioni continentali ai persiani; Leonida, invece, decise di rimanere, ma anche di mandare dei messaggeri nelle varie città a sollecitare aiuti, poiché erano troppo pochi per poter respingere l’esercito dei persiani. Serse lasciò passare quattro giorni, sperando che i greci si ritirassero, poi al quinto giorno, li attaccò. I difensori del passo resistettero tre giorni, poi un abitante della zona, un certo Efialte, segnalò a Serse un sentiero che permetteva di aggirare le Termopili e prendere i greci alle spalle. Quando Leonida fu informato dell’arrivo dei persiani congedò le truppe degli alleati e rimase a difendere il passo coi suoi Trecento. Accanto a loro rimasero anche i perieci, armati alla leggera, e gli iloti che fungevano da scudieri e attendenti di campo. Degli alleati restarono con Leonida i 700 tespiesi, che non vollero abbandonare il re spartano fino alla morte, e i 400 tebani che egli costrinse a restare per punire Tebe favorevole ai persiani, ma fuggirono appena fu loro possibile Pertanto il numero dei combattenti greci alle Termopili doveva aggirarsi sui 2000. «Mentre accanitamente si difendevano con le spade (quelli tra essi che si trovavano ancora ad averle), con le mani e con i denti, i Barbari li seppellirono di dardi, gli uni incalzandoli di fronte, dopo aver abbattuto l'ostacolo del muro; gli altri, che li avevano circondati, premendo da ogni parte intorno.» (pp. 266-268). I Trecento di Leonida morirono tutti, insieme al loro comandante, riscattando con la loro morte la sconfitta e la vile scelta della loro città. Una morte annunciata Di fronte alla scelta di Sparta di inviare un contingente di soldati così esiguo, gli storici si sono sempre interrogati. Gli spartani, a quanto pare, non erano del tutto convinti sull’utilità per loro di bloccare l’avanzata di Serse così a nord. Il loro intento era, come per gli altri peloponnesiaci, piuttosto quello di fortificare l’istmo di Corinto. Tanto più che essi erano sempre restii ad impegnare l’esercito troppo lontano dalla città. Probabilmente quindi il sacrificio di Leonida e dei suoi trecento era previsto e necessario a mantenere l’alleanza con Atene. D’altro canto, l’eroismo che essi mostrarono nella lotta e nell’affrontare una morte certa avrebbe portato la fama di Sparta alle stelle. Dida con immagine in Lessico classico, Il sentiero del tradimento Il sentiero attraverso cui Efialte condusse i persiani era detto Anopea e partiva dal fiume Asopo, nel punto in cui scorre attraverso la gola del monte, e correva lungo il monte stesso fino alla città di Alpeno. A difesa di questo sentiero erano state schierate truppe dei focesi. Dopo la battaglia Serse, trovato sul campo di battaglia il cadavere di Leonida, gli fece mozzare la testa e la infisse su un palo. In onore di Leonida invece i greci innalzarono sul posto un leone in pietra, sia perché il nome dell’animale alludeva al nome del re, Leonida appunto, sia perché un leone era lo stemma dei re di Sparta. In onore di tutti gli spartani fu incisa un’iscrizione che diceva: «Viandante, se giungi a Sparta annuncia ai Lacedemoni che noi riposiamo qui, per obbedire alle loro leggi». Nel 440 a.C. poi gli spartani trasporteranno in patria le ossa di Leonida e innalzeranno ai caduti una colonna con incisi i nomi di tutti i morti alle Termopili. Occorre precisare che anche i persiani ebbero gravissime perdite, ben 20.000 navi stando a quanto riferisce Erodoto. Controllare altre opinioni Dall’Artemisio a Salamina La flotta ancorata all’Artemisio ebbe maggior fortuna e, dopo tre giorni di combattimenti, inflisse una grave sconfitta alle navi persiane che avevano già subito danni e perdite per una violenta tempesta. Intanto le truppe di terra di Serse avanzavano dirette ad Atene, mentre la flotta dei greci partita dall'Artemisio gettò le ancore a Salamina, per trarre in salvo dall'Attica vecchi, donne e bambini che trasferirono a Egina, a Trezene e, in parte, sull’isola stessa di Salamina. Qui si radunarono molte più navi che all'Artemisio, provenienti da più città: senza contare le pentecontere, a 50 remi, il loro numero ammontava a 378. Di esse il contingente di gran lunga più numeroso e che meglio teneva il mare era quello fornito da Atene, ma il comandante in capo era Euribiade, cittadino spartano. La distruzione di Atene Arrivato ad Atene, Serse la trovò deserta, a parte un piccolo gruppo di cittadini che si era rifugiato nel santuario dedicato ad Atena e ad Eretteo sull’acropoli. Serse trucidò i difensori, espugnò i templi e li incendiò insieme all’intera acropoli e alla città. Dall’isola di Salamina gli ateniesi assistettero impotenti alla distruzione delle loro case. La scelta del sito della battaglia Ormai era giunto il momento dello scontro sul mare. Allorché si seppe che l’armata persiana aveva a disposizione ancora più di 1200 navi, che assediavano il porto ateniese del Falero, gran parte degli alleati voleva spostare la flotta sull’istmo di Corinto, ma Temistocle sapeva che non ci sarebbe stata salvezza per Atene se non si fosse combattuto subito e perciò cercò di convincere il comandante in capo Euribiade a restare, ma invano. Nel frattempo l’esercito di terra dei persiani si metteva in marcia verso il Peloponneso, ma qui gli abitanti, appena conosciuto l’esito della battaglia delle Termopili, avevano cominciato ad erigere un muro sull’istmo, al comando di Cleombroto, fratello di Leonida. Il piano di Temistocle A Salamina i pareri continuavano ad essere discordi, finché Temistocle inviò di nascosto un finto traditore a Serse per spingerlo ad attaccare lui battaglia. Il Gran Re preparò quindi l’accerchiamento delle navi ateniesi alla fonda a Salamina. I greci ne vennero informati e Temistocle, che conosceva meglio i luoghi, le correnti e i venti, diede ordine di arretrare le navi verso la terraferma, ma con la prua rivolta al nemico, in modo da attirare la flotta persiana nello stretto di mare tra la costa attica e la penisoletta di Cinosura (letteralmente “coda di cane”) che si protende dall’isola di Salamina verso la costa dell’Attica. Qui le agili e moderne triremi greche, secondo Temistocle, potevano sperare di avere la meglio sulle grandi navi persiane, che erano prevalentemente quelle fenicie di qualità inferiore rispetto alle triremi ateniesi ed erano in mare da molto tempo, perciò le loro attrezzature erano logore. Inoltre la flotta era costituita anche da contingenti greci della Ionia che combattevano controvoglia per il re di Persia e si potevano spingere a defezionare. La battaglia di Salamina (20 settembre 480 a.C.) La tattica geniale di Temistocle si rivelò vincente: quando le navi greche, mentre arretravano fingendo di volersi sottrarre allo scontro, videro le navi nemiche disgregare il loro schieramento per inseguirle, fecero un rapido cambiamento di rotta e si slanciarono al contrattacco. Le navi persiane, guidate dal generale Mardonio, per sfuggire si ingolfarono, come aveva previsto Temistocle, nello spazio di mare troppo stretto per manovrare e finirono con lo speronarsi a vicenda. Dall’alto di un’altura su cui si era fatto costruire un trono dorato (o d’oro???), Serse assistette al disastro della sua flotta. «Gemiti e urla coprivano ovunque la distesa del mare, sinché li assopì il volto oscuro della notte», scrisse qualche anno dopo il poeta tragico Eschilo, che aveva partecipato alla battaglia. Il prezioso trono di Serse fu collocato nell’acropoli di Atene, come magnifico trofeo della vittoria. Scheda sul passo di Eschilo Cant. antico p. 274??? Box? Le tattiche di battaglia navale Cantarella antico p. 270 La battaglia di Imera (20 settembre 480 a.C.) Il caso volle che, nello stesso giorno della battaglia di Salamina secondo la tradizione, il 20 settembre 480 a.C., in Sicilia, presso il fiume Imera, sulla costa settentrionale dell’isola, Gelone e Terone vincessero i cartaginesi, che da allora non furono più in grado di competere coi greci per il controllo della Sicilia. Con le due contemporanee vittorie i greci si avviavano a diventare i padroni del Mediterraneo, soprattutto dopo che, nel 474 a.C. la flotta di Gelone sconfisse a Cuma quella degli etruschi, sobillati contro i greci ancora una volta dai persiani. Da allora la potenza etrusca cominciò a decadere. La fuga dei persiani Dopo la sconfitta di Salamina, il generale Mardonio, vedendo Serse gravemente depresso e deciso a ritornare in patria, gli propose di lasciarlo in Grecia, per poterla conquistare a suo nome. Serse acconsentì e Mardonio, con una parte dell’esercito, tra cui tutti i diecimila Immortali, il corpo scelto della guardia reale (v. cap. 3???), accompagnò il re in Tessaglia, da dove Serse avrebbe proseguito per tornare in patria, mentre Mardonio stesso e le sue truppe rimasero a svernare nella regione greca. Il nuovo attacco ad Atene Trascorso l’inverno in Tessaglia, Mardonio marciò in direzione di Atene. Gli spartani non avevano mandato truppe in Beozia per bloccare il passaggio al generale persiano, come avevano richiesto gli ateniesi. Adducevano ancora una volta la scusa di esserne impediti dalla celebrazione di una festa sacra, ma in realtà, malgrado la parola data agli ateniesi, non volevano impegnarsi nella difesa dell’Attica perché si sentivano protetti dal muro che avevano nel frattempo finito di erigere sull’istmo di Corinto. Mardonio quindi pregustava già la soddisfazione di informare Serse d’aver conquistato Atene, ma quando giunse nella città a metà giugno del 479 a.C. la trovò ancora una volta deserta: gli abitanti, proprio come dieci mesi prima, si erano rifugiati a Salamina o sulle navi. A questo punto però gli ateniesi minacciarono Sparta che avrebbero fatto accordi col nemico se non avesse portato loro aiuto. E finalmente gli efori inviarono 5000 opliti affiancati da 7 iloti ciascuno e 5000 soldati con armatura pesante, scelti tra i perieci. A comandarli era Pausania, reggente e tutore del piccolo figlio di Leonida, l’eroe delle Termopili. Mardonio, sentita la notizia dell’arrivo dei rinforzi spartani, non volle più rimanere in Attica, perché il terreno non era adatto allo spiegamento di forze di cavalleria e, in caso di sconfitta, la ritirata non era possibile se non per luoghi così stretti, che anche pochi uomini sarebbero bastati a sbarrargli il passo. Così, prima che Pausania e i suoi entrassero nell'istmo, si ritirò di nascosto, dopo aver dato alle fiamme Atene e aver completamente abbattuto quello che ancora restava in piedi delle mura, degli edifici privati e dei templi. Era, dunque, sua intenzione di ripiegare verso Tebe e impegnare battaglia nelle vicinanze d'una città amica e in un luogo dove potesse spiegare la sua cavalleria. La battaglia di Platea (479 a.C.) Lo scontro tra i 40.000 greci, spartani guidati dal generale spartano Pausania e ateniesi al comando di Aristide, contro i 100.000 soldati di Mardonio fu predisposto nella pianura di Platea, dove Mardonio poté schierare la potente cavalleria. Siccome però gli auspici erano sfavorevoli, i due eserciti restarono accampati di fronte per dieci giorni senza combattere. Poi alcuni degli alleati greci abbandonarono lo schieramento e i persiani attaccarono. Ma fu ancora una volta la sconfitta, quando Mardonio fu ucciso e i persiani si sbandarono e fuggirono verso il loro accampamento fortificato, mentre i greci li inseguivano e ne facevano strage: dei soldati di Mardonio, neppure 3000 riuscirono a salvarsi. Dei Lacedemoni, perirono nello scontro 159 soldati in tutto. I greci vincitori assediarono Tebe e i capi della fazione favorevole ai persiani vennero giustiziati. Preparativi per la battaglia di Micale «Volle il caso che proprio nello stesso giorno in cui subivano la disfatta in Platea, i Barbari subissero anche quella a Micale, nella Ionia.» (Erodoto, IX, 90). Infatti, mentre una flotta greca se ne stava all'ancora nelle acque di Delo, vennero dei messaggeri ioni che esortavano i greci a liberarli dai persiani. La flotta, comandata da Santippo, si spostò allora nei pressi di capo Micale, dove intanto si erano appostate le navi persiane, tratte in secco e riparate dagli scudi di vimini ricoperti di pelli, messi insieme dai persiani per farne un baluardo. Proprio quando giunse notizia della vittoria di Platea, «i Greci, dopo aver abbattuto la maggior parte dei Barbari, o mentre resistevano con le armi in pugno, o mentre si davano alla fuga, diedero fuoco alle navi e a tutto il muro di difesa; prima, però, avevano trasportato il bottino sulla spiaggia e vi avevano trovato dei forzieri pieni di oggetti preziosi. Incendiate le navi e il muro, ripresero il mare per il ritorno» (Erodoto, IX, 106). La liberazione della Ionia I greci dovettero poi risolvere il problema della Ionia, che era difficile da difendere e temevano perciò potesse ricadere in mano persiana. C’era chi voleva evacuarla e trasferire gli abitanti n Grecia, ma gli ateniesi si opposero e accolsero le isole nella Lega. Si concludeva così la lotta degli ioni verso la libertà, cominciata esattamente 20 anni prima. Da quel momento i persiani non tentarono più di conquistare la Grecia e persero il controllo del Mediterraneo. La spiegazione della vittoria Le ripetute vittorie delle piccole città greche contro il gigante asiatico appaiono ancora oggi come un miracolo a cui si stenta a credere. Gli storici hanno però cercato di individuarne le ragioni. Mentre la vittoria di Maratona può essere spiegata con la scarsa importanza che Dario annetteva all’impresa, la spedizione di Serse era stata preparata con grande cura e la presenza dello stesso re sul campo di battaglia mostra quanta importanza egli attribuisse all’impresa. Forse fu proprio la grandezza dell’impero, la presenza di tante genti disparate, che parlavano lingue diverse e spesso non si capivano tra loro, a impedire di mobilitare tutte le forze dell’impero e di coordinarle. Al contrario le piccole poleis che lottavano per la propria sopravvivenza, proprio per le loro ridotte dimensioni, potevano mettere in campo tutte le proprie energie e fare conto sull’impegno di ciascun cittadino, sulla compattezza e sulla superiorità tecnica della falange oplitica e della flotta, sulla conoscenza dei luoghi, che ai persiani erano invece poco noti. La scoperta di sé e degli altri Le guerre persiane segnarono una svolta tra la cultura arcaica, in cui i greci non aveva ancora la piena coscienza della propria identità nazionale, e l’acquisizione di una consapevolezza che porterà alle creazioni più alte della cultura classica. La lotta comune di quasi tutte le città a sud della Tessaglia contro un comune nemico e le straordinarie vittorie diedero ai greci la consapevolezza di essere un unico popolo – perciò si definirono sempre più spesso col nome di elleni, prima usato solo sporadicamente – e di avere radici comuni molto forti, che li contrapponevano ad altri popoli stranieri, di cui quello persiano divenne l’emblema. I greci, che in epoca omerica onoravano lo straniero ponendolo sotto la tutela di Zeus, finirono col vedere in lui il pericolo, colpiti dalla sua diversità fisica (statura, colore della pelle e dei capelli) e linguistica. Per una cultura fondata sulla parola, l’impossibilità di comunicare era un ostacolo insormontabile. Lo straniero era il “barbaro” (termine onomatopeico inteso a riprodurre suoni incomprensibili, “bar-bar”), «colui che balbetta»: insomma era barbaro chi non parlava greco. Si trattava quindi di una discriminazione culturale, non biologica. Però, come osservava Tucidide, Omero non chiamava mai «greci» o «elleni» i greci che assediano Troia, né «barbari» i loro nemici, perché evidentemente per Omero greci e troiani appartenevano allo stesso mondo morale e civile. Ed Erodoto apprezza usi e costumi di popolazioni che solo da un punto di vista linguistico definisce «barbari». Fu dopo la vittoria nelle guerre persiane che cominciò a maturare l'idea di una profonda differenza culturale rispetto agli altri popoli, tra un «noi», civili, e gli «altri», arretrati e barbari. I greci si sentivano separati quindi da un'abissale distanza dagli stranieri, e in particolare dai persiani, una distanza non solo linguistica e culturale, ma anche politica, ideologica, economica e militare. I persiani avevano costituito uno stato di sudditi di nazionalità diverse soggetti al dispotismo di un uomo che compiva atti di superbia e di tracotanza (hybris) (v. schede Orgoglio e pregiudizio e Flagellare il mare) e imponeva usanze intollerabili agli occhi dei greci, come la pratica della proskynesis, la genuflessione davanti al sovrano, o, più in generale, l'omaggio con gesti troppo riverenti verso chi copriva cariche pubbliche. Secondo i greci erano atteggiamenti che denotavano la mancanza del senso della libertà, dunque erano indegni di un uomo; i greci avevano un’unità etnica, che comprendeva territori diversi, dalla Grecia all’Asia Minore alle colonie occidentali, ed erano liberi cittadini che si autogovernavano ed erano sottoposti solo all’autorità delle leggi che essi stessi si erano dati. I persiani ubbidivano passivamente agli ordini, i greci discutevano e si confrontavano in modo paritario. I persiani non avevano proprietà privata, solo il sovrano aveva il pieno diritto di disporre dei beni e delle terre, anche di quelle date in uso ai privati, i greci godevano della proprietà privata che era la base dei loro diritti. I persiani, dediti alla ricerca del piacere, vivevano nel lusso e nelle mollezze (v. scheda L’assurda impresa di Serse), perciò erano incapaci di affrontare fatiche e sofferenze; gli stessi “immortali” andavano in battaglia con vesti e armi preziose e si facevano accompagnare da concubine e servi, che portavano vettovaglie su carri e cammelli; i greci e, in particolare, gli spartani vivevano con sobrietà, in modo sano e perciò erano forti e robusti. L’esercito persiano, costituito da soldati di tutto l’impero, si schierava in battaglia per gruppi etnici, per popoli e non per ragioni tattiche, ma, mentre i persiani erano ben addestrati, gli altri popoli non lo erano altrettanto; perciò si affidavano alla forza del loro numero, senza coesione né collaborazione tra i reparti, combattevano in modo disordinato e caotico e solo perché obbligati dal sovrano; i greci, malgrado la loro frammentazione politica, riuscirono a concordare una strategia militare comune perché tutti combattevano per un ideale comune, la difesa della propria terra e della libertà, ubbidendo alle leggi; erano tutti ben addestrati, disciplinati e compatti nella formazione della falange oplitica, che coinvolgeva tutti i cittadini: l’aristocrazia di un tempo non avrebbe potuto sostenere una guerra simile. (v. scheda Un barbaro e un greco a confronto) Sarebbe meglio la seguente tabella? Differenze Politiche Ideologiche Economiche Culturali Persiani avevano costituito uno stato di sudditi di nazionalità diverse soggetti al dispotismo di un uomo che compiva atti di superbia e di tracotanza (hybris) (v. schede Orgoglio e pregiudizio e Flagellare il mare) e imponeva usanze che costituivano un orrore agli occhi dei greci, come la pratica della proskynesis, la genuflessione davanti al sovrano, o, più in generale, l'omaggiare con gesti troppo riverenti chi copriva cariche pubbliche. Secondo i greci erano atteggiamenti che denotavano la mancanza del senso della libertà, dunque era indegni di un uomo ubbidivano passivamente agli ordini non avevano proprietà privata, solo il sovrano aveva il pieno diritto di disporre dei beni e delle terre, anche di quelle date in uso ai privati I persiani, dediti alla ricerca del piacere, vivevano nel lusso e nelle mollezze (v. scheda L’assurda Greci avevano un’unità etnica, che comprendeva territori diversi, dalla Grecia all’Asia Minore a tutte le colonie occidentali, ed erano liberi cittadini che si autogovernavano ed erano sottoposti solo all’autorità delle leggi che essi stessi si erano dati. discutevano e si confrontavano i greci godevano della proprietà privata che era la base dei loro diritti. i greci e, in particolare, gli spartani vivevano con sobrietà, in modo sano e perciò erano forti e robusti. Militari impresa di Serse), perciò erano incapaci di affrontare fatiche e sofferenze; gli stessi “immortali” andavano in battaglia con vesti e armi preziose e si facevano accompagnare da concubine e servi, che portavano vettovaglie su carri e cammelli; L’esercito costituito da soldati di tutto l’impero si schierava in battaglia per gruppi etnici, per popoli e non per ragioni tattiche, ma, mentre i persiani erano ben addestrati, gli altri popoli non lo erano altrettanto; perciò si affidavano alla forza del loro numero, senza coesione né collaborazione tra i reparti, combattevano in modo disordinato e caotico e solo perché obbligati dal sovrano; i greci, malgrado la loro frammentazione politica, riuscirono a concordare una strategia comune perché tutti combattevano per un ideale comune, la difesa della propria terra e della libertà, sottomessi solo alla legge; erano tutti ben addestrati, disciplinati e compatti nella formazione della falange oplitica, che coinvolgeva tutti i cittadini: l’aristocrazia di un tempo non avrebbe potuto sostenere una guerra simile. (v. scheda Un barbaro e un greco a confronto) Orgoglio nazionale e imperialismo Le differenze divennero per i greci segno della propria superiorità e dell’inferiorità dei persiani, la cui visione limitata del proprio essere uomini, secondo i greci, fu una delle principali cause della disfatta di Serse. Il loro giudizio si estese in generale a tutti gli stranieri, che non avevano la “superiore” cultura greca. E i greci non persero occasione di utilizzare e strumentalizzare la propria presunta superiorità in chiave politica, ogni volta che intendevano giustificare la volontà di entrare in conflitto con popoli "barbari". Su questo senso di superiorità i greci fondarono dunque un'ideologia imperialistica, e pretesero di essere il punto di riferimento culturale per ogni altro popolo che, secondo loro, volesse dirsi civile. Metterei almeno le seguenti schede Tra storia e leggenda per esemplificare le affermazioni di cui sopra. Orgoglio e pregiudizio «Secondo il mio modo di vedere, trovo che fu per orgoglio che Serse fece fare quello scavo [dell’istmo dell’Athos], volendo egli dimostrare la sua potenza e lasciare ricordi insigni; infatti, mentre gli sarebbe stato possibile, senza che i soldati facessero alcuna fatica, traghettare le navi attraverso l'istmo, egli diede ordine di aprire verso il mare un canale così largo che vi potessero insieme navigare due navi spinte dai rematori.» (pp.176) Erodoto non manca di sottolineare la hybris di Serse, che lo spinge ad intraprendere un’azione di violenza sulla natura, quando avrebbe potuto, come facevano i greci sull’istmo di Corinto per passare da un mare all’altro, tirare in secco le navi e trasportarle su dei rulli fino all’altra sponda. Lo storico dimentica però di dire che le navi greche non avevano le enormi dimensioni di quelle persiane. Flagellare il mare Più grave atto di tracotanza apparve un’altra reazione di Serse. Mentre era in viaggio verso Abido sull’Ellesponto, «quelli cui era affidato il lavoro gettavano i ponti: i Fenici con funi di lino bianco, gli Egiziani con cavi di papiro; tra Abido e la riva opposta vi sono 7 stadi [1300 m circa]. Era appena stato stabilito il passaggio che una violenta tempesta, scatenatasi, distrusse tutte quelle attrezzature e le disperse. Quando lo venne a sapere Serse, irritato contro l'Ellesponto, ordinò che lo si flagellasse con 300 colpi di sferza e si calasse in mare un paio di ceppi [per indicare che il mare era di sua proprietà]. Ho pure sentito dire che, insieme con i flagellatori, Serse mandò anche dei marchiatori, perché bollassero a fuoco l'Ellesponto [come uno schiavo fuggitivo?]. È certo che, mentre lo flagellavano, ordinò che dicessero queste parole barbare e insensate: “Onda amara, il mio signore ti infligge questo castigo perché l'hai offeso, senza aver da lui ricevuta offesa alcuna. Il re Serse ti varcherà, che tu voglia o che non voglia. È ben giusto che nessuno fra gli uomini ti offra sacrifici, perché tu non sei che un fiume torbido e salmastro”. Al mare, dunque, fece infliggere questo castigo e a quelli che avevano diretto i lavori sull'Ellesponto fece tagliare la testa.» (p.180) Un barbaro e un greco a confronto Per sottolineare ancora una volta la profonda distanza che separa la cultura e la civiltà greca da quella dei “barbari”, Erodoto immagina un dialogo tra Serse sul punto di partire alla volta della Grecia e Demarato, il re di Sparta che, detronizzato, si era rifugiato alla corte di Persia. «Ordunque, dimmi questo; se, cioè, i Greci avranno il coraggio di alzar le mani contro di me. Infatti, a mio parere, neppure se tutti i Greci e gli altri uomini che abitano a occidente si coalizzassero tra loro, sarebbero in grado di resistere al mio attacco, a meno che non fossero molto uniti. […] Demarato parlò cosi : « O re, poiché mi ordini di dirti la verità, parlando in modo che tu non abbia in seguito a cogliermi come mentitore, sappi che ai Greci è stata sempre compagna assidua la povertà; ma ad essa s'è aggiunto il coraggio, frutto di temperanza e di salde leggi: con questo la Grecia si difende contro la povertà e l'asservimento. Ora io lodo tutti i Greci che abitano in quelle regioni doriche; non però a tutti vanno le parole che io dirò, ma agli Spartani soltanto: prima di tutto, non sarà mai che essi accettino le tue proposte che apportano schiavitù alla Grecia; in secondo luogo, si opporranno a te in campo aperto, anche se gli altri Greci tutti si dovessero schierare dalla tua parte. Quanto al numero, non chiedere quanti sono per osare di agire in questo modo: si trovino pure ad essere in 1000 schierati in campo o anche meno di 1000, o più, questi ti daranno battaglia ». 103. All'udir queste parole Serse scoppiò a ridere e disse: « O Demarato, come hai potuto dire che 1000 uomini possono combattere contro così grande esercito? […] Come potrebbero mai 1000 uomini, o sia pure 10.000, o anche 50.000, che siano tutti liberi allo stesso modo e non sottomessi all'autorità d'uno solo, come potrebbero opporsi a un così grande esercito? Infatti, se quelli sono 5000, noi siamo più di 100 contro ciascuno di essi. E poi, se fossero sottomessi all'autorità di uno solo, come è d'uso tra noi, potrebbero forse, per paura di questo padrone, dimostrarsi più valorosi che non comporti la loro stessa natura, e, costretti dallo scudiscio, andrebbero contro avversari più numerosi, pur essendo in meno. Ma sbrigliati così verso la licenza, non potrebbero fare né l'una cosa, né l'altra. Per conto mio, sono del parere che, anche se fossero a essi pari per numero, ben difficilmente i Greci potrebbero lottare contro i Persiani soli. Presso di noi, piuttosto, solo da noi, si possono trovare quelli che tu dici e sono tuttavia poco numerosi, anzi rari: ci sono, effettivamente, tra i Persiani della mia guardia del corpo di quelli che accetteranno di combattere contro tre avversari greci contemporaneamente: e siccome tu non li conosci, vai dicendo molte ingenuità». 104. A questo Demarato replicò: « O re, […] gli Spartani quando combattono singolarmente a nessuno al mondo sono inferiori; uniti, poi, sono i più valorosi di tutti gli uomini. Poiché, se è vero che sono liberi, non sono poi liberi in tutto: domina su di loro un padrone, la legge, di cui hanno timoroso rispetto molto più ancora che i tuoi sudditi non l'abbiano per te e fanno tutto quello che essa comanda ed essa sempre la stessa cosa comanda: di non fuggire dal campo di battaglia qualunque sia la caterva dei nemici e, rimanendo saldi al proprio posto, vincere o morire.» (p. 205207). L’assurda impresa di Serse 82. Si racconta, poi, anche questo: che Serse, ormai in fuga dalla Grecia, lasciò le proprie suppellettili a Mardonio. Pausania, dunque, vedendo la tenda di Mardonio splendidamente adorna d'oro, d'argento, di tappeti e tende a vari colori, diede ordine a quelli che facevano il pane e ai cuochi di allestire un banchetto identico a quello che solevano fare per Mardonio. Quando quelli ebbero eseguito il comando, allora Pausania, al vedere i letti d'oro e d'argento accuratamente distesi e le stoviglie pure d'oro e d'argento e gli arredi magnifici del banchetto, pieno di stupore per la profusione di lusso che aveva davanti agli occhi, comandò ai suoi servi, per ischerno, di preparargli un pasto alla maniera spartana. E poiché, quando questo fu preparato, grande era la differenza fra i due, Pausania, ridendo, fece chiamare i capi dei Greci e giunti che furono disse loro, mostrando l'uno e l'altro apparato del banchetto: “Uomini di Grecia, volevo mostrarvi la stoltezza del Meda, il quale, avvezzo a un tale tenore di vita, è venuto qui da noi, per portarci via questa nostra cosi misera cena”. Tali parole, a quel che si racconta, disse Pausania ai comandanti dei Greci.» (399-400) Tattiche militari a confronto si fecero incontro ai Greci i Persiani, quelli che il re chiamava gli "Immortali" comandati da Idarne: c'era la convinzione che, essi almeno, l'avrebbero facilmente fatta finita. Ma quando anche questi vennero a contatto con i Greci, ebbero lo stesso risultato, non certo migliore, di quello ottenuto dai Medi, in quanto la battaglia si svolgeva in un luogo stretto, avevano delle lance più corte dei Greci e non trovavano modo di mettere a profitto il loro numero. Gli Spartani, invece, combattevano in modo degno di essere ricordato, dimostrando in molti modi di saper bene usare delle armi tra uomini che non lo sapevano, soprattutto quando voltavano le spalle e tutti insieme simulavano la fuga: i Barbari, al vederli fuggire, si davano ad inseguirli urlando e schiamazzando, ma essi, quando stavano per essere raggiunti, sempre si rivolgevano, sì da far fronte ai Barbari e con queste improvvise conversioni abbattevano un numero incalcolabile di Persiani. Anche da parte degli stessi Spartani in quel luogo ne cadde un piccolo numero TABLET Proposte: percorso di lettura con ampi brani di Erodoto storia per immagini. Il Partenone per raccontare la vittoria come in Bettini Giganti, p. 164 L’IMPERIALISMO ATENIESE IL TEMPO: 480-430 a.C. L’ASSETTO DELLA GRECIA DOPO LE GUERRE PERSIANE Le guerre persiane non si conclusero con la battaglia di Micale e i rapporti dei greci con la Persia restarono tesi ancora per qualche decennio, ma la fase acuta era comunque finita. La svolta impressa dalle guerre persiane Lo scontro con l’impero persiano rappresentò per il mondo greco una svolta radicale. Fino a quel momento ad avere un ruolo di primo piano era stata Sparta, col suo potentissimo esercito, la sua stabilità politica, l’immagine di un potere saldo e consolidato nel tempo. La città non aveva subito trasformazioni radicali che ne mettessero in discussione l’assetto, come invece era accaduto ad altre poleis e soprattutto ad Atene. Al momento dello scoppio della rivolta ionica (499 a.C.), Atene si era appena liberata dalla tirannide (510 a.C.) e si era data con Clistene (508 a.C.) una costituzione assolutamente innovativa, che aveva dato il via alla democrazia. La città doveva però ancora trovare una propria identità politica e un proprio ruolo nel mondo greco, che le desse anche visibilità internazionale. Lo trovò proprio nelle guerre persiane, in gran parte provocate dalle sue stesse scelte politiche. I due seguenti sono paragrafi di ripasso, che mi sembrano però molto utili per capire sia le guerre persiane sia l’argomento che segue. Alla base delle scelte di Sparta… La differente reazione di Sparta e Atene alla richiesta di aiuto di Mileto, e durante tutto il corso delle guerre persiane, sono spiegabili con il diverso assetto politico che le due poleis avevano raggiunto. Sparta era un’oligarchia, dominata da un’aristocrazia guerriera, gli spartiati, che: detenevano in esclusiva il diritto di cittadinanza; esercitavano il potere escludendone qualsiasi altra classe; fondavano il proprio benessere sulle rendite fondiarie derivanti dall’agricoltura, affidata al lavoro degli iloti, e su modeste attività commerciali praticate dai perieci; trovavano la sua forza nella coesione della intera classe; attribuivano un ruolo all’individuo solo in quanto appartenente ad una famiglia e a una stirpe e solo se se ne dimostrava degno attraverso atti di valore; esercitavano un’unica professione, la guerra, in cui eccellevano su tutti gli altri popoli, e sui cui principi fondavano la propria rigorosissima morale (che era quella tipica della cultura di vergogna, per cui v. p.??? nel capitolo sulla cultura omerica, ma anche con qualche episodio delle Termopili). Il ruolo dominante di Sparta nel mondo greco era, quindi, fondato proprio ed esclusivamente sulla forza del suo esercito che poteva garantire sicurezza e protezione alle città alleate, le quali, in cambio, accettavano di essere governate da regimi oligarchici appoggiati e, in qualche misura, assoggettati a Sparta. La città laconica era perciò diventata modello e supporto di tutte le aristocrazie greche, ma non poteva permettersi un’espansione al di fuori del Peloponneso per non compromettere la sicurezza e la stabilità del suo potere. Pochi guerrieri, sia pure eroici, non avrebbero potuto controllare un impero ampio, né potevano allontanarsi troppo e troppo a lungo dalla patria senza rischiare l’insurrezione dei popoli sottomessi. Né, d’altro canto, avevano interesse a farlo: l’economia di Sparta non necessitava di un’espansione, era sufficiente la terra della Laconia e della Messenia a garantire benessere agli aristocratici, né c’erano altre forze sociali che potessero avanzare richieste di allargamento dei confini. Pertanto la politica di Sparta fu: conservatrice, per mantenere i privilegi della classe dominante e la stabilità politica e sociale; chiusa entro confini territoriali ristretti, contraria al progresso, all’apertura e allo sviluppo culturale; pronta a combattere per la libertà e l’indipendenza, ma anche ad allearsi con potenze straniere se queste garantivano libertà all’aristocrazia spartana; contraria a guerre imperialistiche, di espansione territoriale ed economica. Si spiega così perché l’atteggiamento di Sparta durante le guerre persiane fosse essenzialmente difensivo e il suo intervento, nei limiti imposti dall’alleanza con Atene, circoscritto a tutelare il Peloponneso e ad evitare la devastazione dei campi. Nel Peloponneso stesso, del resto, il potere diretto di Sparta si esercitava solo sulla Laconia e la Messenia ed era per il resto fondato su accordi con le altre città del Peloponneso con le quali aveva costituito un’alleanza militare, la Lega o Simmachia Peloponnesiaca. Le guerre persiane e l’eroismo dimostrato dai suoi soldati servirono certamente a rafforzare e a consolidare il ruolo egemonico di Sparta nella Lega e l’immagine di potenza invincibile, ma non apportò altri vantaggi. … e di Atene Ben diversi furono gli effetti delle guerre persiane sulla politica e sul ruolo di Atene. La lunga evoluzione della costituzione ateniese era stata determinata dai profondi cambiamenti dell’assetto sociale della città. L’economia ateniese, fondata inizialmente sull’agricoltura, si era via via allargata agli scambi commerciali e aveva perciò favorito la nascita e l’espansione di un ceto di artigiani e commercianti. Di fronte alla richiesta di aiuto di Mileto, Atene reagì in modo confacente con i propri interessi: una grande potenza come Mileto voleva liberarsi dai vincoli imposti alla libertà di commercio dal giogo straniero, occorreva aiutarla per garantire la libertà dei traffici nel Mediterraneo. Certo la svolta impressa dalla costituzione democratica non era ancora, nel 499 a.C., così decisiva e Atene inviò aiuti insufficienti a sostenere la rivolta ionica, aiuti che per altro ben presto, di fronte alle prime sconfitte, ritirò. Tuttavia la città dimostrò di essere pronta ad affrontare il rischio della reazione persiana. Nel 490 a.C. a Maratona, Atene affrontò da sola i persiani e vinse, ma non era ancora sufficiente ad ottenere la sicurezza dei commerci. Fu Temistocle, il geniale spregiudicato astuto stratego che, nel 480 a.C., ebbe il coraggio di continuare la guerra, affermando che la potenza di Atene risiedeva nella flotta, perché: a. l’economia e la ricchezza di Atene erano ormai fondate sugli scambi commerciali via mare e solo una flotta potente poteva garantirli; b. occorreva dare lavoro e ruolo agli strati più poveri della popolazione, per evitare conflitti: la flotta ingaggiava un enorme numero di teti come rematori; c. si doveva creare uno strumento in grado di fondare un impero economico: la flotta assicurava protezione militare agli alleati; d. era indispensabile garantire la libertà degli scambi nel Mediterraneo, con un numero di navi tali da esercitare un controllo costante contro la concorrenza. La flotta ateniese, moderna, agile, tecnologicamente avanzata, che Temistocle aveva ottenuto convincendo l’ecclesia a rinunciare ai proventi delle miniere d’argento con la sua straordinaria abilità di oratore e che usò con grande spregiudicatezza, gli consentì di sconfiggere i persiani, liberare le colonie dell’Asia Minore e tutto il Mediterraneo, ma soprattutto di presentare Atene come la salvatrice della Grecia e da quel momento il punto di riferimento per tutte le poleis a economia commerciale. La politica ateniese presentava pertanto caratteri diversi rispetto a quella spartana: affrontava la guerra per espandere la propria sfera d’influenza economica, fino a creare un vero impero; estendeva in questo modo anche i propri confini culturali ed era pronta alle innovazioni; aspirava al progresso in tutti i campi. La Lega delio-attica (477 a.C.) Temistocle seppe sfruttare molto bene il pericolo che ancora la Persia rappresentava, per costituire, su richiesta delle città della costa asiatica, la Lega di Delo. Era un’alleanza tra tutte le città e le isole greche dell’Egeo (v. carta), finalizzata alla reciproca tutela nel caso di un nuovo prevedibile e probabile attacco persiano. Naturalmente l’egemonia della Lega era affidata ad Atene che, con la sua potentissima flotta, aveva dimostrato di essere in grado di difendere gli alleati. Era però necessario che tutte le città contribuissero alle spese per mantenere in efficienza e potenziare la flotta e pagare rematori, soldati, tecnici, carpentieri ecc. Si costituì pertanto un tesoro della Lega a cui tutte le città contribuivano in modo paritario e che venne custodito a Delo, una piccolissima isola delle Cicladi, nel tempio dedicato ad Apollo (v. figxx). Ben presto Atene assunse nella Lega un ruolo tanto determinante, che l’alleanza è passata alla storia come Lega delio-attica. Infatti era obbligo per tutte le città alleate contribuire alla difesa comune fornendo tutto quanto fosse necessario alla flotta. Però c’era anche la possibilità, per evitare di impegnare i cittadini lontano dalla patria, di versare un tributo per le spese navali. Molte città preferirono appunto questa soluzione e, siccome la flotta era quella ateniese, i tributi finirono di fatto per rappresentare un asservimento delle alleate alla città egemone. Dida per immagine del santuario di Delo L’isola del tesoro Il tesoro della Lega era custodito nel tempio di Apollo senza altra protezione che la sacralità e l’inviolabilità del luogo. Nel santuario del tempio si tenevano anche le riunioni del Consiglio federale, costituito dai rappresentanti di tutte le città aderenti, in cui le decisioni della Lega venivano prese democraticamente, anche se ad Atene spettava la presidenza, come il comando di eventuali operazioni militari. Ateniesi erano anche coloro che amministravano il tesoro comune, gli ellenotami. Inserire carta sulla divisione del Mediterraneo tra le due Leghe EVOLUZIONE DELLA POLITICA ATENIESE (480-460 a.C.) La politica antispartana di Temistocle Per mantenere salda l’alleanza intorno ad Atene, Temistocle prospettava di continuo la minaccia di un altro attacco persiano e nel contempo rafforzava le difese della città. Fece ricostruire le mura cittadine distrutte da Serse, fortificò il porto del Pireo e, soprattutto, avviò la costruzione delle Lunghe mura [v. box) Anche in questa scelta Temistocle si dimostrò previdente. Egli intuì che il vero pericolo per Atene non era in realtà la Persia, con cui egli stabilì accordi commerciali, ma Sparta che vedeva una minaccia nell’espansione dell’antica alleata e ne temeva influenza sulle città della Lega Peloponnesiaca. Alla potenza degli opliti spartani, gli ateniesi non potevano opporre un esercito di terra altrettanto forte. Sparta avrebbe potuto quindi assediare Atene e prenderla per fame, senza che i suoi soldati potessero difenderla adeguatamente. La salvezza doveva venire dal mare: rendendo sicuro il collegamento tra la città e il suo porto, Atene avrebbe potuto ricevere approvvigionamenti dalle città alleate e resistere all’infinito ad un eventuale assedio. Sul mare Sparta mai avrebbe potuto competere con la flotta ateniese. Dida inserire immagine: disegno con dida anche sulla fortificazione del Falero e foto dei resti: si dovrà decidere se cambiare la presentazione nel cap. Sparta e Atene, spiegando che la strada per il Pireo era affiancata da due muri paralleli, uno sett. e uno meridionale e così anche quella per il Falero ecc., oppure scrivere qui.] Le Lunghe mura Le Lunghe mura volute da Temistocle, partendo dal centro di Atene, proteggevano da nord e da sud la strada che dalla città conduceva per quasi 7 chilometri al porto. La costruzione delle mura venne completata da Pericle e da allora il Pireo divenne il porto commerciale principale della Grecia, fornito di cantieri per 400 navi, mentre al Falero erano ancorate le navi da guerra e Munichia era un porto militare. L’ostracismo di Temistocle (471 a.C.) I metodi e lo scarso rispetto della legalità con cui Temistocle sembrava gestire il suo potere, ma soprattutto l’ostilità di Sparta diedero motivo alla fazione degli aristocratici, appoggiata dai Lacedemoni, di mettere in dubbio l’onestà del vincitore di Salamina. Nel 471 a.C. Temistocle venne così ostracizzato dall’ecclesia. (inserire immagine dell’ostrakon col suo nome). Si rifugiò in diverse città, finché giunse proprio nell’impero persiano, presso Artaserse, che nel 465 a.C. era succeduto al padre Serse, il nemico contro cui Temistocle aveva combattuto, ma che si era anche premunito di rendersi amico (v. cap. prec., se lasciamo la notizia là oppure nella scheda Tra storia e leggenda oppure si riassume qui). Morì poco dopo, nel 461 a.C., a 65 anni. La storia in breve Gli avvenimenti dalla caduta di Temistocle all’ascesa di Pericle (471-461 a.C.) A far perdere credibilità a Temistocle fu il suo antico avversario, il conservatore Aristide, mentre un altro conservatore, Cimone, figlio si Milziade, il vincitore di Maratona, ne ottenne l’ostracismo. Cimone riprese le ostilità contro la Persia, liberò le coste della Tracia e prese il controllo di Bisanzio sul Bosforo, nel 469 a.C. distrusse la flotta persiana presso la foce del fiume Eurimedonte e garantì così ad Atene il dominio sull’Egeo. Verso Sparta, invece, fece una politica di alleanza, tanto che condusse 4.000 opliti ateniesi in aiuto della città alle prese con una ribellione di iloti: in occasione di un terremoto nel 464 a.C., gli insorti si erano infatti arroccati nel santuario fortificato del monte Itome in Messenia, da cui Sparta aveva difficoltà a snidarli. Visto il lungo protrarsi dell’assedio divenne troppo costoso mantenere il contingente ateniese e Sparta lo rispedì in patria. Fu uno scacco alla politica filo spartana e conservatrice di Cimone, che venne ostracizzato nel 461 a.C., dieci anni dopo Temistocle. Gli succedette Efialte (da non confondere col traditore delle Termopili) che, a capo del partito radicale, diminuì drasticamente il potere dell’areopago per eliminare il baluardo del potere aristocratico, ma pagò con la morte la decisione. Anche Sparta colpì uno degli eroi delle guerre persiane, Pausania, che dopo aver riportato in patria le ossa di Leonida, si lasciò influenzare dallo sfarzo dei persiani ed era pronto a mettersi a capo delle rivolte degli iloti, che minacciavano di esplodere approfittando del disordine creato dalla guerra. Per sfuggire alla condanna Pausania si rifugiò nel tempio di Atena a Sparta, ma lì fu murato vivo. Taccio della graphé: box??? L’ETÀ DI PERICLE (461-429 a.C.) LA STORIA L’ascesa di Pericle (461 a.C.) Dopo un decennio in cui in Atene si alternarono al potere la fazione conservatrice e quella radicale, nel 461 a.C. venne eletto stratega, a soli trent’anni, Pericle, figlio di Santippo, il vincitore della battaglia di Micale, che aveva preso parte alle riforme di Clistene, e imparentato per parte di madre con Clistene e quindi con la famiglia degli Alcmeonidi. Uomo intelligente e colto, Pericle diede una svolta radicale alla democrazia e alla cultura ateniese di cui è diventato l’emblema storico. La politica estera di Pericle (461-445 a.C.) Il primo decennio del potere di Pericle fu caratterizzato da una politica imperialista e aggressiva. Militarmente però non si può dire che Pericle abbia ottenuto grandi successi. …nei confronti della Persia Contro l’impero persiano appoggiò la rivolta di un principe locale di nome Inaro, scoppiata in Egitto nel 460 a.C. e conclusa nel 454 a.C. con la sconfitta dei ribelli e dell’esercito ateniese, che perse 200 navi e migliaia di uomini. Pericle capì che gli conveniva chiudere il fronte antipersiano e concluse con l’impero, nel 449 a.C., la pace di Callia (dal nome del cittadino ateniese che condusse le trattative): Atene rinunciava ad espandersi verso oriente, la Persia si impegnava a non intervenire più nell’Egeo. …nei confronti di Sparta Per contrastare Sparta Pericle agì sulle città alleate, nel tentativo di sottrarle alla Lega Peloponnesiaca. Aiutò Argo, tradizionalmente avversaria di Sparta. Attrasse Mantinea e Megara nella Lega Delio- attica, provocando la reazione di Corinto, alleata di Megara nei commerci. Si alleò con la Beozia. Nel 455 a.C. l’impero ateniese raggiunse il culmine della sua estensione (inserire carta con dida dei confini) L’atteggiamento di Pericle provocò la reazione spartana nel 457 a.C. e lo scoppio della prima guerra del Peloponneso che, dopo una decina d’anni di scontri poco significativi, nel 445 a.C. si concluse con una tregua trentennale con cui Atene dovette rinunciare all’alleanza con Megara, la Beozia, la Locride e la Focide, e le due poleis rivali stabilirono le reciproche sfere di influenza, limitandole alle città delle due rispettive Leghe. Il disegno di innalzare Atene a potenza terrestre aveva fatto naufragio e Atene dovette accontentarsi di essere potenza marittima, stringendo legami sempre più stretti con gli alleati della Lega. …nei confronti della Lega Delio-attica Il campo in cui più evidentemente si rivelò l’imperialismo ateniese fu proprio nei confronti degli alleati. I rapporti di Atene con la Lega Delio-attica si sbilanciarono sempre più a favore della fondatrice dell’alleanza, che trasformò la sua “egemonia” in arché, “impero”, rendendo sudditi i liberi alleati: le contribuzioni delle città alleate per il mantenimento della flotta e le spese di guerra divennero veri e propri tributi, che Pericle usò per finanziare i suoi progetti; il tesoro comune fu spostato da Delo ad Atene (454 a.C.), dove veniva amministrato dagli ellenotami senza darne più conto alla Lega; il Consiglio direttivo della Lega non fu più convocato e le decisioni furono prese dall’ecclesia ateniese; il tribunale d’appello fu quello ateniese: in questo modo, Atene controllava anche la giustizia delle alleate, che persero così la loro autonomia; si proibì agli alleati di coniare moneta e si impose l’uso della dracma ateniese, che così manteneva il controllo dei mercati e dell’economia; si impedì alle città alleate di uscire dalla lega e ogni tentativo di rivolta fu duramente represso; nelle zone che avevano tentato di ribellarsi furono fondate cleruchíe, cioè colonie, in cui trovava sfogo l’incremento demografico ateniese, ma che erano anche presidi militari per controllare da vicino le città formalmente alleate, ma in realtà ormai suddite. La democratica Atene si trasformò quindi in una città tiranno nei confronti degli alleati. LE ISTITUZIONI Pericle primo cittadino (461-429 a.C.) «Per tutto il tempo che fu a capo della città in periodo di pace, governò sempre con moderazione, garantì la sicurezza della città, la quale sotto di lui raggiunse il massimo splendore. […] Il suo potere si fondava sulla considerazione di cui godeva. Quando si accorgeva che quelli [i cittadini in assemblea] si abbandonavano a sconsiderata baldanza, li colpiva con le sue parole, portandoli allo sgomento, per ricondurli poi ad uno stato d’animo di rinnovato coraggio, se li vedeva in preda ad una paura irrazionale. Di nome, a parole era una democrazia, di fatto il potere del primo cittadino.» (Tucidide, II, 65, 5-9 in Canfora, p. 114) Tucidide delinea chiaramente che il potere di Pericle, di fatto il potere di uno solo in un regime ormai soltanto apparentemente democratico, era fondato sul suo carisma. Tale era la sua abilità nel condurre il popolo senza mai lasciarsi trascinare dalle passioni popolari che riuscì a farsi rieleggere per trent’anni alla strategia, cioè alla massima carica elettiva, che gli permetteva di governare ogni aspetto della vita della polis. Non solo la rielezione consecutiva gli permise di portare a termine il suo vasto programma politico, ma anche di non doverne render conto al popolo. Infatti allo scadere di ogni magistratura bisognava affrontare un processo, il rendiconto, con cui si verificava la correttezza e l’efficacia dell’operato del magistrato. Pericle però poté rinviare di anno in anno il rendiconto perché continuava ad essere rieletto anche per l’anno successivo. Egli non agiva tuttavia in nome dei propri interessi personali, quanto per l’ambizione di accrescere il potere di Atene, per renderla egemone su tutto il mondo greco. Non è improbabile che aspirasse addirittura a creare uno stato unitario sotto la guida di Atene. La politica interna di Pericle Anche se può apparire un paradosso, l’imperialismo ateniese in politica estera fu lo strumento di cui Pericle si servì per rafforzare la democrazia nel governo della città. Per garantirsi il consenso più ampio possibile, infatti, lo stratega aveva bisogno di ampliare la base degli elettori, favorendo la partecipazione politica degli strati più bassi della popolazione che, tradizionalmente, si occupavano poco di politica perché non potevano trascurare il proprio lavoro, che dava loro da vivere. Pericle pertanto fece varare leggi e provvedimenti che modificarono la costituzione di Clistene in senso sempre più democratico. Così: - furono retribuite le attività, finora gratuite, di magistrati, membri del Consiglio dei Cinquecento, giudici popolari; - furono assegnate per sorteggio e non per elezione, tutte le magistrature, anche l’arcontato, escluse quelle per le quali erano necessarie conoscenze specifiche: stratega, arconte polemarco, e poche altre soprattutto di carattere finanziario; - fu ridotto, con una legge del 451 a.C., il numero di coloro che avevano diritto alla cittadinanza ateniese, riservata da quel momento solo a quelli che avevano entrambi i genitori ateniesi. Era un provvedimento teso ad evitare che si dovesse spartire il denaro pubblico tra troppi cittadini, riducendone la quantità per ciascuno. Ad Atene, su una popolazione stimata di 250.000 persone, furono considerati cittadini solo 30-40.000 individui e di questi solo pochissimi potevano aspirare alle magistrature per le quali erano necessarie competenze precise. Con questa legge, però, né Temistocle né Cimone avrebbero potuto essere cittadini ateniesi, visto che non avevano madre ateniese. Solo alla fine del secolo invece fu introdotto anche un gettone di presenza per chi partecipava alle adunanze dell’ecclesia (per compensare la giornata di lavoro persa) e l’essere cittadino divenne un vero e proprio “mestiere”, suscitando scandalo presso i benpensanti aristocratici. La politica di Pericle tese a potenziare l’importanza dell’ecclesia e dell’eliea, il tribunale popolare, ma, per evitare eccessive tensioni con l’aristocrazia, mantenne in vita l’areopago, limitandone le funzioni a quelle di tribunale per i reati di sangue, mentre lo privò della prerogativa di controllare sull’operato dei magistrati. Siccome in tribunale va a finire ogni tipo di conflitto, soprattutto quelli riguardanti la ricchezza e la correttezza della gestione politica, sottrarre l’organo più importante della città all’assemblea che rappresentava l’aristocrazia, cioè l’areopago, e affidarlo ai ceti popolari, e soprattutto ai teti ingaggiati nella flotta, significava spostare decisamente il potere verso le classi “basse”. La democrazia imperialista Le riforme di Pericle erano evidentemente molto costose e le casse dello stato andavano rimpinguate costantemente. Nel mondo greco non esisteva un sistema di tassazione e la ricchezza derivava allo stato ateniese dalle tasse portuali (circa il 2% del valore delle merci), dallo sfruttamento delle miniere del Laurio e del Pangeo, da una tassa a carico degli stranieri, dalle multe. Le cifre così ottenute non erano però sufficienti alla politica di crescita democratica voluta da Pericle: servivano altri fondi: furono forniti dai tributi degli alleati. L’imperialismo divenne quindi strumento della democrazia. Sia pure con tutt’altro tipo di meccanismi, qualcosa di simile è accaduto in epoche assai più recenti (v. Usa a fine capitolo) ECONOMIA E SOCIETÀ In cambio di voti, posti di lavoro… e arte Per realizzare le opere pubbliche, erano sempre stati gli aristocratici a fornire le liturgíe (letteralmente “servizi per la comunità”), una forma di autotassazione con cui i nobili si assumevano il peso di finanziare varie attività di pubblico interesse: organizzare feste, cerimonie religiose e spettacoli teatrali (coregía), allestire navi da guerra (trierarchía) ecc. La liturgia era un’usanza antica e risaliva all’epoca in cui le famiglie nobili traevano prestigio dalla dimostrazione di generosità nei confronti della collettività. Pericle rese obbligatoria la liturgia per i più ricchi. Tuttavia il suo piano di sviluppo era assai ambizioso e il provvedimento non era sufficiente a finanziarlo. Egli intendeva infatti incrementare decisamente i lavori pubblici con due finalità: 1. dare lavoro ai teti, ai nullatenenti, per ampliare ulteriormente il consenso popolare alla sua politica e ottenere in assemblea la maggioranza per le sue proposte: per questo fine, come sospetta qualche critico, i lavori per il completamento dell’acropoli durarono molto a lungo, mantenendo vivo il consenso popolare; 2. dare alla città un aspetto nuovo e prestigioso di fronte agli occhi del mondo intero. Era chiaro che Pericle non poteva ottenere ulteriori finanziamenti da nobili suoi avversari politici e praticamente ormai esclusi dalla politica. Ancora una volta furono gli introiti della Lega a permettergli di trasformare Atene nella capitale della cultura e di dare inizio all’epoca classica della grecità. Box su Aspasia??? (Canfora, p. 122) Ambiguo malanno p. 70 e altri Affiancato dalla sua compagna, l’etera Aspasia, che fondò un circolo di intellettuali, Pericle si circondò e finanziò letterati, artisti come Fidia, storici come Erodoto, filosofi come Anassagora e Protagora. Da completare CULTURA LA CULTURA AL SERVIZIO DELLA POLITICA Tutti i campi della cultura furono coinvolti dalla profonda trasformazione operata da Pericle. L’arte del bello (potrebbe anche essere una semplice dida) Pericle completò la ricostruzione della città e in particolare dell’acropoli affidandola allo scultore e architetto Fidia che ne fece il capolavoro indiscusso dell’intero mondo greco: Propilei, Eretteo, Partenone, statua gigantesca d’oro e avorio di Atena sono ancora oggi, con il loro equilibrio e la loro perfezione formale, i monumenti simbolo dell’Atene periclea e della stessa cultura occidentale. (v. tablet). Oltre all’amore per l’arte, a spingere lo statista erano ragioni politiche: Atene doveva mostrare al mondo la sua potenza attraverso lo splendore e la ricchezza dei suoi monumenti. Non si può dire, d’altro canto, che non fosse anche previdente e forse anche preoccupato del futuro della città, ben sapendo a quale avventura la stava preparando: lo scontro con Sparta. Nel Partenone, il più splendido tempio greco, dedicato alla dea vergine (parthénos) Atena, protettrice di Atene, egli conservò un tesoro di mille talenti, una somma eccezionale, che per decreto stabilì non si dovesse spendere se non in caso di pericolo estremo, in cui fosse a rischio la stessa sopravvivenza della città. La sua scelta ha sapore profetico, perché il tesoro verrà effettivamente utilizzato proprio per salvare la città nel corso della guerra da Pericle stesso avviata. Box lessicale Il talento ateniese Il talento ad Atene era d’argento e valeva 26,2 kg. I mille talenti di Pericle erano 26,2 tonnellate d’argento che con la quotazione attuale dell’argento??? Corrispondono a??? euro: completare 4.2 La filosofia della parola politica Se Atene fu in grado di diventare la capitale della cultura fu perché fu cosmopolita e la sua ricerca aperta ai contatti con altri popoli, cui l’avvicinavano i commerci, la aprì ad altre culture e modi di pensare e sviluppò il suo senso critico, mise in discussione le certezze, fino a dar vita a nuove forme di pensiero con la filosofia, creazione tutta ateniese. Come sappiamo, il luogo ufficialmente deputato al dibattito e alle decisioni politiche era ad Atene l’ecclesia, in cui vigevano i principi della parrhesía, la libertà di parola, e dell’isegoría, la parità di diritto a prendere la parola. Per ottenere, tuttavia, l’approvazione di una propria proposta, chi prendeva la parola, l’oratore, doveva avere la capacità di convincere la maggioranza dell’ecclesia. Per questo erano le persone in genere più colte ad avere la meglio. Con l’estendersi dei poteri dell’assemblea un maggior numero di persone sentì l’esigenza di imparare le tecniche necessarie per convincere gli altri e avere la meglio in assemblea e nei tribunali. Nacquero allora dei veri maestri della parola, i sofisti (letteralmente “sapienti”), filosofi che insegnavano la retorica, l’arte della parola: per la prima volta la filosofia divenne una professione retribuita, e anche profumatamente, da quanti volevano fare carriera politica. Nel contempo, i sofisti modificarono definitivamente il corso della filosofia. Mentre fino a quel momento i filosofi erano essenzialmente studiosi della natura, scienziati potremmo definirli oggi, con i sofisti la filosofia cominciò ad affrontare i grandi temi dell’umanità e a studiare il pensiero. Essi non affrontarono però i temi del bene e del giusto, anzi scardinarono le idee tradizionali per affermare un assoluto relativismo (G): «L’uomo è la misura di tutte le cose» sosteneva Protagora, uno dei massimi filosofi sofisti, amico di Pericle: non esiste una verità oggettiva, ma solo opinioni soggettive. Tra esse prevarrà quella che sarà espressa nel modo più convincente. Dalla democrazia alla demagogia Le conseguenze politiche delle teorie dei sofisti non si fecero sentire finché il potere fu nelle mani di Pericle, che «governò sempre con moderazione» perché «era personaggio potente, per prestigio e lucida capacità di giudizio, assolutamente trasparente e incorruttibile, reggeva saldamente il popolo senza però violar la libertà e non si faceva guidare da esso più di quanto non lo guidasse lui, poiché non cercava di conseguire il potere con mezzi impropri e perciò non era costretto a parlare per compiacere l’uditorio.» (Tucidide, II, 65, 5-9 trad. Canfora???, p. 114). Ma quando Pericle morì, il potere finì nelle mani di coloro che «presero per ambizioni personali altre iniziative» (Tucidide) e la democrazia degenerò nella demagogia, nel potere di chi sapeva “condurre il popolo” (questo è il significato del termine) dove voleva, facendo leva sui desideri più bassi delle masse. In particolare, i lavoratori impegnati nella flotta che si ritenevano, in un certo senso, i fondatori dell’impero ateniese, visto che erano essi, in pace, a creare il benessere dei ricchi col proprio lavoro e, in guerra, a difenderlo, aspiravano sempre più a governare direttamente lo Stato. Non era difficile per chi sapeva usare la parola averli dalla sua parte. L’antidoto alla degenerazione della democrazia sarebbe potuto essere un innalzamento del livello culturale e delle capacità critiche del “popolo”, anche se, bisogna dire, rispetto ad altri popoli gli ateniesi non erano del tutto incolti. Il grado di alfabetizzazione degli ateniesi Il popolo di Atene non era analfabeta: intorno al 500 a.C. quasi tutti gli Ateniesi, anche quelli poveri, sapevano leggere e scrivere. Anche se non esistevano scuole statali, le scuole private erano economiche e per una cifra modesta un maestro insegnava a leggere e a scrivere. Anche la partecipazione alle assemblee popolari, in cui venivano discusse le questioni politiche all’ordine del giorno, contribuiva a istruire anche i nullatenenti. Il teatro come dibattito L’espressione più alta della cultura e della democrazia ateniese fu rappresentata dal teatro. Tragedia e commedia, generi nati da poco, si svilupparono proprio nella democrazia, per dare voce alla città con le sue contraddizioni, i suoi conflitti, i suoi problemi, attraverso testi che traevano spunto dall’attualità, come La presa di Mileto di Frinico o i Persiani di Eschilo (v. Tra storia e leggenda prec.), ma anche quando la trama era tratta dal mito. Gli spettacoli avevano carattere religioso e si celebravano in occasione delle feste in onore di Dioniso, ma assunsero presto un significato politico, come momento di discussione così importante per la vita della città che Pericle istituì il teoricón, un fondo per il teatro che forniva ingressi gratuiti per i poveri. Mentre all’ecclesia partecipava di fatto un numero ridotto di cittadini (in media 5-6000) e il loro diritto alla parola si riduceva spesso solo alla possibilità di interrompere la parola altrui con l’urlo, lo schiamazzo, perché non tutti avevano le capacità oratorie dei più colti, il teatro era il luogo in cui enormi masse popolari si affollavano e si affrontavano per discutere i temi più sentiti e attuali, dalla politica, alla morale, alla guerra. Spesso era il luogo dove meglio potevano esprimere la propria critica alla democrazia e alle sue degenerazioni (ad esempio con la satira delle commedie di Aristofane) anche gli oppositori del regime democratico e i nobili, esautorati del loro potere nell’assemblea, che essi ormai disertavano quasi sempre. Accanto all’assemblea e ai tribunali, il teatro fu il pilastro del funzionamento politico della città: fu in queste tre sedi che la comunicazione fu davvero generale e immediata. Da inserire sul tablet anche La scienza e Ippocrate ???? e la storiografia: Erodoto e Tucidide ????? inizio del percorso sulla democrazia che hanno alcuni manuali recenti:Airoldi, Marisaldi p. 153, Brancati 137, Bettini??? Che cos’è la democrazia per gli ateniesi? Il primo a citare la parola “democrazia” fu Erodoto, che parlava di una “costituzione democratica” (VI, 43, 3) e della nascita del regime democratico con Clistene (VI, 131,1), ma è Tucidide (VI, 89) a fare la distinzione tra “demos”, come antitesi della tirannide, e “democrazia” come forma degenerata e, come dice Alcibiade, nella sua autodifesa davanti a Sparta, “impazzita” del regime popolare. È probabile che il termine demokratia sia stato coniato dai nemici del demos, per esprimere la prevalenza di una parte più che la partecipazione paritetica di tutti indistintamente alla vita della città, che i greci indicavano piuttosto con isonomia. Anche Platone considera la democrazia il potere dei più poveri e non della maggioranza, che si indica con plethos, non con demos. Per demokratia i greci intendevano quindi la prevalenza incontrollata del demo che aveva ottenuto con la democrazia numerosi privilegi, tra cui il salario minimo per tutti. Quando però la guerra del Peloponneso metterà in crisi Atene, gli oligarchici sosterranno che soltanto ai cittadini in grado di equipaggiarsi per la guerra, non più di cinquemila, avrebbero dovuto avere il diritto a un salario. Con la fine delle poleis la democrazia diventerà un ricordo. Box sul discorso di Pericle di Tucidide??? Feltri p. 190 Calvani p. 252 La democrazia nasce solo quando il popolo la difende dal tentativo di Isagora??? Geo Attualizzazione: La politica imperialista della più grande democrazia moderna: Gli USA LA GUERRA DEL PELOPONNESO IL TEMPO: 431-362 a.C. In grigio le parti che si potrebbero tagliare Inserire una o più carte con indicazione di tutti i luoghi citati nel testo L’ANTEFATTO La guerra narrata da un testimone La guerra che sconvolse il mondo greco e avviò la decadenza delle poleis, la seconda guerra del Peloponneso, ci è stata tramandata dal racconto, quasi in presa diretta, dello storico ateniese Tucidide, che cominciò a scriverla «subito al suo sorgere e immaginandosi che sarebbe stata grande e la più importante di tutte quelle avvenute fino ad allora. Lo immaginava deducendolo dal fatto che le due parti [Sparta e Atene] si scontrarono quando entrambe erano al culmine di tutti i loro mezzi militari e vedendo che il resto della Grecia si univa all’uno o all’altro dei due contendenti, gli uni subito, e gli altri ne avevano l’intenzione. Certo, questo è stato il più grande sommovimento che sia mai avvenuto fra i Greci […]. Mai tante città furono conquistate e spopolate […] né mai avvennero tanti esili e tante stragi, […] grandi siccità e, in conseguenza di esse, carestie, e quell’epidemia che produsse non piccoli danni e distruzioni, la peste: tutto questo ci assalì insieme a questa guerra. La iniziarono Ateniesi e Peloponnesi, rotta la tregua dei trent’anni […]. Il motivo più vero, ma meno dichiarato apertamente, penso che fosse il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore al Lacedemoni, sì da provocare la guerra.» (Tuc I,1,1-2 e 23,1-5) La fase di preparazione Tucidide, col suo fine intuito, individuò esattamente la responsabilità che i suoi concittadini ebbero nello scoppio del conflitto. Per garantire il consenso popolare alla sua politica e trovare i fondi necessari a mantenere l’enorme massa di cittadini che ormai dipendevano dallo stato, Pericle doveva ampliare l’impero e non poteva farlo senza affrontare una guerra. Ma doveva farlo al più presto, prima che l’impero stesso fosse indebolito da ribellioni e defezioni delle città alleate, appoggiate da Sparta. Occorre dire che fino a quel momento Pericle non aveva ottenuto grandi vittorie contro gli avversari storici di Atene: con l’impero persiano aveva dovuto stipulare un trattato di pace (pace di Callia del 449 a.C.) e con Sparta una tregua (che concludeva la prima guerra del Peloponneso nel 445 a.C.). Con quei trattati aveva tuttavia garantito alla città attica libertà di commerci nell’Egeo. Ben presto le attività commerciali ateniesi cominciarono però a collidere con quelle dell’altra grande potenza commerciale, Corinto, alleata di Sparta. Fu allora che tra le due potenze scoppiò la lotta per il controllo dei mercati. Cancellare??? Per danneggiare la rivale Corinto, Pericle, nel 433-432 a.C.: appoggiò Corcyra (l’attuale isola di Corfù) che si era ribellata contro la madrepatria Corinto; assediò e conquistò Potidea, colonia corinzia nella penisola Calcidica, che aveva aderito alla Lega Delio-attica, ma voleva uscirne dopo l’aumento del tributo stabilito da Atene: Pericle ne fece abbattere le mura e la costrinse ad accogliere una cleruchia ateniese (v. p. cap. prec.). Lo stratega ateniese attaccò poi anche un’altra alleata di Sparta, Megara, sull’istmo di Corinto, contro cui fece varare in assemblea un decreto che chiudeva ai suoi commercianti tutti i mercati controllati da Atene (un vero e proprio embargo (G), che soffocava l’economia di Megara). Corinzi e megaresi si rivolsero a Sparta, che si rese conto che non potevano coesistere due imperi, come di fatto erano diventate le due Leghe, concorrenti nella stessa area geopolitica. Uno dei due era destinato a soccombere. La ripresa della guerra era inevitabile e scoppiò nel 431 a.C., ben prima della scadenza della tregua dei trent’anni, stipulata nel 445 a.C. (v. prec.???) La strategia lungimirante di Pericle aveva già indicato una direttiva ad Atene: chiusi tutti i cittadini tra le mura imprendibili che proteggevano la città, protetta la via di comunicazione col Pireo dalle Lunghe mura, salvi i rifornimenti via mare, abbandonati i campi al saccheggio degli spartani, gli ateniesi avrebbero potuto resistere all’infinito ad un assedio e avrebbero continuato a dominare sul mare, mantenendo salda la propria economia. La strategia periclea era però impopolare, soprattutto presso i contadini che vedevano i loro campi in costante pericolo. La speranza era che Sparta, la quale basava la propria ricchezza sull’agricoltura e aveva meno risorse economiche di Atene, si logorasse in una guerra lunga e dispendiosa. 1.3 La guerra “mondiale” (431-404 a.C.) La seconda guerra del Peloponneso coinvolse l’intero mondo greco in modo capillare e devastante, perché non contrappose soltanto le due avversarie e le loro rispettive alleate, ma ebbe effetti anche all’interno delle singole città, dove le fazioni contrapposte di aristocratici e democratici si scontrarono in guerre civili micidiali. «A tal segno progredì la spirale atroce della lotta civile; e sanguinò più acerba la ferita inflitta alla coscienza del mondo, poiché fu quello il primo di una catena lunga d'orrori che in un progresso di tempo implicò e travolse fino agli estremi confini, si può dire, l'universo greco. Dovunque si ergevano armati, l'uno contro l'altro, i condottieri dei partiti popolari e di quelli oligarchici che mettevano capo rispettivamente all'appoggio di Atene e di Sparta. In periodo di pace questi paesi non disponevano di pretesti ragionevoli, né quindi della volontà politica per appellarsi alle potenze egemoni. Mentre quando s'aprì il conflitto divenne anche più consueta e piana la pratica, per chi coltivava e metteva a frutto in ogni città i germi rivoluzionari, di ricorrere con successo all'intervento delle due rispettive coalizioni alleate, per indebolire le parti avverse e, al tempo stesso, migliorare le proprie prospettive. Le interne scosse segnarono a fondo le città con le infinite tracce del tormento e del sangue» (Tuc III, 82 da Internet, devo controllare di chi è la trad.?) La guerra “totale” È sulla scorta di quanto narra Tucidide che anche gli storici moderni preferiscono parlare di un’unica guerra per i tre diversi conflitti che si svolsero nell’arco di ventisette anni ed ebbero la durata più lunga tra tutti quelli della storia greca. Prima di allora (a parte la leggendaria e remota guerra di Troia), i conflitti si risolvevano in poco tempo e con poche battaglie (si pensi, ad esempio, alle guerre persiane). Nel caso della guerra del Peloponneso invece si creò per quasi un trentennio uno stato di tensione permanente tra le due città che si contendevano il dominio sull’intero mondo greco, con periodi di scontri più impegnativi e momenti di scontri marginali e con il continuo tentativo di ampliare il numero dei propri alleati. Era come se ognuna delle due potenze belligeranti aspettasse il momento in cui imporre all’avversario lo scontro risolutivo, nelle condizioni a lui più sfavorevoli, per distruggerlo definitivamente: in questo senso si può parlare di guerra totale. Ma la vittoria totale comportava anche la distruzione del sistema politico-sociale dell’avversario. LA PRIMA FASE DELLA GUERRA (FASE ARCHIDAMICA, 431-421 a.C.) La prima catastrofe La strategia di Pericle si rivelò subito perdente perché provocò un effetto imprevisto. Inizialmente avvenne esattamente quello che lo stratega aveva previsto: le truppe di Sparta, guidate dal re Archidamo (che diede il nome a questa prima fase della guerra) dilagarono ripetutamente in Attica, saccheggiarono e devastarono le campagne, ma tutti gli abitanti della regione si rifugiarono all’interno delle mura di Atene, riforniti dalle merci che arrivavano al Pireo e venivano trasportate in città sulla strada protetta dalle Lunghe mura. Quando però scoppiò un’epidemia di peste, dopo appena un anno di guerra, l’assembramento in spazi tanto ristretti e in condizioni igieniche precarie alimentò spaventosamente il contagio. Tucidide ne parla con toni tanto drammatici da trasformare il suo racconto storico in un testo narrativo di grande efficacia, modello della rappresentazione della peste di tutti i tempi. Inserire passo di Tucidide in scheda Tra storia e leggenda La morte di Pericle e i suoi successori (429 a.C.) Moltissimi gli ateniesi colpiti dal morbo e tra essi lo stesso Pericle che morì nel 429 a.C. A capo della fazione democratica gli succedette Cleone che segnò il deterioramento della democrazia. Egli fu considerato dai suoi contemporanei come colui che più di ogni altro contribuì a corrompere il demo, colui che per primo «si mise ad urlare alla tribuna, a vomitare ingiurie, a parlare scoprendosi in modo scomposto», come afferma Aristotele (Athenaion Politeia, 28,3 citata in Canfora, p. 130: inserire qualche brano???). Anche peggiori le accuse che gli rivolse il commediografo Aristofane. Cleone, spinto da ambizioni personali, era fautore della guerra ad oltranza e riusciva a far leva sugli istinti peggiori del demo. Per dieci la guerra si protrasse senza eventi decisivi (v. La storia in breve): ogni estate gli spartani dilagavano nelle campagne dell’Attica, ritirandosi alla fine della stagione, ma Atene sopravviveva grazie ai proventi dei suoi commerci, e attaccava a sua volta le coste del Peloponneso, senza affrontare però Sparta sulla terraferma. La fase si concluse con la pace di Nicia del 421 a.C. La storia in breve Scontri senza fine I rari scontri non furono mai risolutivi. Nel 425 a.C. gli ateniesi inflissero una sconfitta a Sparta conquistando la piccola isola di Sfacteria, posta nel golfo di Pilo sulla costa sud-occidentale del Peloponneso, e catturando il contingente spartano che la presidiava. Sparta riuscì però a impadronirsi di alcune alleate ateniesi nella penisola Calcidica, raggiunta via terra dagli opliti al comando di Brasida, un comandante geniale che per primo portò un esercito spartano a combattere per un lungo periodo lontano dal Peloponneso. Ma poi, nella battaglia di Anfipoli in Tracia, nel 422 a.C. morirono entrambi i generali Cleone e Brasida. Ad Atene prevalse allora Nicia, un aristocratico che perseguiva una politica moderata di alleanze con gli spartani. Fu lui a condurre le trattative che portarono alla cosiddetta pace di Nicia nel 421 a.C., che stabiliva la reciproca rinuncia delle due città alle conquiste fatte a danno dell’avversaria e la restituzione dei prigionieri. Scheda Tra storia e leggenda Melo: un falso storico? I patti stabiliti dalla pace di Nicia non furono del tutto rispettati, e le due potenze «si colpivano reciprocamente altrove evitando di attaccare direttamente il territorio avversario, in uno status di tregua insicura» (Tucidide), ma fu soprattutto un episodio a passare alla storia come un esempio increscioso dello spietato imperialismo ateniese. Secondo il racconto di Tucidide l’isoletta di Melo, fino ad allora neutrale, fu costretta ad entrare nella Lega di Delo perché era intollerabile agli ateniesi che un’isola dell’Egeo non ne facesse parte come tutte le altre. Al suo rifiuto, l’isola venne espugnata, i suoi abitanti maschi massacrati e donne e bambini venduti come schiavi. Nell’antefatto dell’episodio, Tucidide costruisce un dialogo che sarebbe avvenuto tra gli ambasciatori di Melo e quelli ateniesi. Inserire testo Recentemente uno studioso italiano, Luciano Canfora, ha dimostrato che Tucidide, nella ricostruzione dell’episodio, tace particolari essenziali per spiegare le ragioni della decisione di Atene, che ci sono invece pervenuti da altre fonti: 1. Melo era precedentemente entrata nella Lega Delio-attica, aveva continuato a pagare i suoi tributi fino al 425 a.C., sebbene nel 426 a.C. avesse subito incursioni ateniesi sul suo territorio; 2. poi aveva però defezionato, con la guerra ancora in corso, ed era passata decisamente dalla parte di Sparta, fornendo aiuti finanziari a sostegno dello sforzo bellico spartano; 3. la punizione di Melo avvenne però nel 416 a.C., ben cinque anni dopo la stipula della pace di Nicia del 421 a.C.; 4. a volerla fu Alcibiade, che stava preparando la spedizione contro Siracusa (approvata dall’assemblea solo qualche settimana dopo) e quindi prevedeva la ripresa delle ostilità contro Sparta. È probabile quindi che Alcibiade ritenesse indispensabile che tutto l’Egeo fosse sotto il controllo ateniese: la punizione di Melo doveva essere, in quel momento cruciale, un monito per le altre città della Lega a non defezionare. I particolari che lo storico greco tace cambiano radicalmente la prospettiva con cui da secoli si guarda a quell’episodio: Melo non sarebbe, infatti, l’isola neutrale ingiustamente aggredita da Atene, come sostiene Tucidide, ma una ex alleata punita, come altre, perché ha defezionato, ha fornito aiuti a Sparta e perché Alcibiade voleva riprendere la guerra e assicurarsi la fedeltà della Lega. Ma perché Tucidide ha taciuto? Secondo Canfora perché voleva assumere «l’eccidio dei Melii come emblema della deriva tirannica dell’impero ateniese. Che è uno dei fili conduttori, forse il più rilevante, dell’intera sua opera.» (Il mondo di Atene, Editori Laterza, Bari 2012, p. 175). Tacendo le responsabilità di Alcibiade nell’eccidio, inoltre, Tucidide faceva risalire, ancora una volta come sempre in tutta la sua opera, le responsabilità dell’eccidio soltanto al popolo ateniese e non ai politici che lo governavano. La sua visione della democrazia è quella del potere tirannico del demo (v. cap. L’età di Pericle e il percorso). LA SECONDA FASE DELLA GUERRA (LA SPEDIZIONE IN SICILIA, 415-413 a.C.) La guerra mediterranea Dopo un periodo di tregua armata, o infida come la definisce Tucidide, in cui le ostilità si manifestavano con scontri “delocalizzati” (v. scheda su Melo), il conflitto riprese quando Atene decise di estendere l’impero anche al Mediterraneo occidentale. Aveva già tentato di intervenire in Sicilia nel 426 e nel 422 a.C., ma fu quando pervenne una richiesta di aiuto della città siciliana di Segesta in guerra contro Selinunte e Siracusa, alleate di Sparta, che la guerra del Peloponneso divenne guerra mediterranea, e si estese da Siracusa al Bosforo, all’Egeo, alle isole dell’Asia occidentale. A volere riaprire le ostilità fu un giovane aristocratico, Alcibiade, parente di Pericle, che lo aveva allevato nella sua casa a contatto con i più grandi intellettuali dell’epoca. Il giovane spregiudicato, bellissimo, dalla vita sregolata e affascinante, maniaco dei cavalli e delle feste, risentiva dell’influsso dei sofisti (v. cap. precedente) ed era spinto ad assumere un ruolo politico più dalla personale ambizione che dall’interesse dello stato. Per mettersi in luce e contrastare il potere del moderato Nicia, presentò all’ecclesia una spedizione in Sicilia in aiuto di Segesta, cioè di una colonia greca, come un’impresa legittima, facile e assai vantaggiosa: avrebbe permesso di impadronirsi della più fiorente colonia greca dell’Occidente, Siracusa, e in prospettiva di contendere a Cartagine il controllo sulla zona occidentale dell’isola. Nicia, che si presentava come il custode della direttiva di Pericle di non mettere a repentaglio lo stato con imprese imperialistiche, era contrario all’impresa. Ma Alcibiade, che aveva il vantaggio di essere parente proprio di Pericle, convinse l’assemblea: Nicia fu costretto ad accettare l’incarico di comandante della spedizione insieme ad Alcibiade e Lamaco. Si allestì una flotta di 134 navi e 30.000 uomini, ma quando, nella tarda primavera del 415 a.C., l’esercito stava per salpare scoppiò uno scandalo. Lo scandalo delle Erme (415 a.C.) Una notte vennero mutilate quasi tutte le Erme, cioè le statue del dio Ermes che adornavano, come custodi e portafortuna, strade, piazze, incroci e facciate delle case private. Era un sacrilegio che faceva temere l’ira degli dei, un presagio di sventura per la spedizione. Dilagò un clima di terrore. Nel popolo sorse il sospetto che giovani aristocratici famosi per la loro vita dissoluta stessero preparando una congiura contro la democrazia: il timore della tirannide ad Atene era un vero incubo, un’angoscia cronica da quando erano stati cacciati i Pisistratidi nel 510 a.C. (v. cap???). Circolarono voci che fosse implicato Alcibiade, poco amato per la sregolatezza del suo comportamento. Egli chiese di essere processato subito per scagionarsi, ma gli avversari temevano che l’esercito pronto a salpare potesse sostenerlo e garantirgli l’assoluzione. Così lo lasciarono partire. In sua assenza ad Atene i sospetti su di lui crebbero a dismisura. Una volta che Alcibiade giunse in Sicilia, dunque, Atene inviò la Salaminia, la nave dello stato, a prelevarlo per condurlo ad un processo-farsa, il cui verdetto di morte probabilmente era già stato stabilito. Egli riuscì a fuggire e a rifugiarsi presso amici a Sparta, e da allora fornì alla città nemica utili consigli contro Atene. Box Storia di parole Differenti modi di vedere la tirannide Nell’aggressione a Siracusa gli ateniesi non si posero il problema che la città era greca e aveva un governo simile al proprio. Infatti, a Siracusa vigeva, sì, una tirannide, ma il termine in Sicilia manteneva il suo significato originario. La tirannide, come abbiamo già sottolineato (v. par. su nascita poleis), nasceva in momenti di stasis in cui un individuo si faceva carico di risolvere i problemi delle categorie emarginate, che chiedevano maggiori diritti ed erano pronte alla rivolta sociale e alla guerra civile per ottenerli. Il tiranno diventava il garante delle classi escluse dal potere, di solito oligarchico, e talvolta provvedeva persino ad abbattere l’oligarchia. Il termine tirannide aveva avuto invece ad Atene un’evoluzione ed aveva assunto un significato diverso. Come si vede nello scandalo delle Erme, il popolo ateniese «temeva una congiura oligarchica e tirannica» (Tuc. VI, 60, 1): associava quindi l’idea di tirannide a quella dell’oligarchia. A Siracusa, come in tutte le colonie greche in Sicilia e nella Magna Grecia, invece era la democrazia a sfociare nel potere personale di uno, cioè in una tirannide, che tendeva a reprimere i ceti alti, e questo può spiegare come mai questa forma di governo durasse presso di loro molto più a lungo che in Grecia. L’assedio di Siracusa (415-413 a.C.) In assenza del maggior fautore della spedizione, il comando delle operazioni militari restò a Nicia, che non credeva nell’impresa e condusse l’assedio di Siracusa con molta cautela, puntando più sulle trattative che sulle azioni militari. Tuttavia nel 214 a.C. la città era ormai quasi completamente conquistata sia per terra sia per mare, quando improvvisamente un contingente spartano, su consiglio di Alcibiade, venne in aiuto di Siracusa e riorganizzò la resistenza sulla terraferma, mentre una flotta, inviata in soccorso da Corinto, tolse agli ateniesi il dominio sul mare. Le truppe ateniesi, accampate in terreni paludosi e malsani, colpite dalla malaria, chiesero rinforzi. Gli aiuti da Atene arrivarono però solo nella primavera del 413 a.C. Un loro attacco contro Siracusa fallì e i siracusani bloccarono anche la flotta ateniese in un luogo da cui non riuscì a prendere il largo. Inutile anche il tentativo delle truppe di fuggire via terra: furono raggiunte poco lontano da Siracusa e sconfitte. Nicia fu ucciso (Lamaco aveva già perso la vita in un precedente combattimento), ben settemila soldati fatti prigionieri furono gettati nelle cave di pietra chiamate latomie, dove morirono di stenti. Dida immagine delle latomie e volendo dell’orecchio di Dionisio, con l’indicazione che a dare il nome, secondo la tradizione, pare sia stato Michelangelo LA TERZA FASE DELLA GUERRA (LA GUERRA DECELEICA, 413-404 a.C.) Sparta si prepara alla vittoria Nella decennale ricerca della vittoria finale, parve a Sparta che fosse giunto il momento dell’attacco finale contro un’Atene prostrata dalla disfatta in Sicilia. Su suggerimento di Alcibiade, il comando spartano adottò una nuova strategia. Fortificò la località di Decelea, posta nella Diacria, a 120 stadi a nord-est di Atene che da lì si poteva vedere; vi insediò un presidio permanente in modo da tenere sotto assedio costante Atene e bloccare le comunicazioni terrestri, anche verso le miniere d’argento del Laurio, principale fonte di reddito per la città. Si alleò con il Gran Re persiano che voleva approfittare della debolezza di Atene per riconquistare le città ioniche. Con l’oro ricevuto dall’impero persiano allestì una flotta in grado di fronteggiare la rivale anche sul mare. Favorì la defezione delle alleate di Atene dalla Lega Delio-attica. La strenua resistenza di Atene La sconfitta totale avrebbe significato per Atene la fine della Lega Delio-attica e quindi della democrazia, che non avrebbe più potuto essere sostenuta dai tributi delle alleate. Fu il demo pertanto a volere la prosecuzione ad oltranza della guerra, attingendo al tesoro dei mille talenti d’oro, che Pericle aveva depositato nel Partenone per le situazioni di grave emergenza (v. L’età di Pericle). Col denaro si poté ricostruire la flotta e continuare la guerra. L’instaurazione di un governo oligarchico (411 a.C.) Gli aristocratici non concordavano con la scelta dell’assemblea popolare e nel 411 a.C. una congiura oligarchica riuscì a mettere a tacere il demo col terrore e misteriosi assassini. Pur mantenendo in vita la costituzione democratica, svuotò di significato le sue istituzioni perché l’assemblea decideva solo quello che stabilivano i congiurati, come la creazione di un Consiglio dei Quattrocento cittadini scelti, cui fu affidato il governo cittadino. Il Consiglio provvide ad inviare subito a Sparta proposte di pace immediata. Ma la città rifiutò le trattative perché non si fidava di un governo privo di un reale appoggio popolare ed era convinta che il popolo ateniese avrebbe ripreso il potere. Molte alleate della Lega Delio-attica passarono dalla parte di Sparta, sapendo che Atene non aveva più la forza militare per attaccarle. Alcibiade, che inizialmente aveva ispirato la congiura ma poi si era allontanato da Sparta, tentò di stipulare un’alleanza tra Atene e il Gran Re, ma neanche il re persiano si fidava degli oligarchi ateniesi e rimase alleato fedele di Sparta. Incapaci di concordia, come spesso accadeva tra gli oligarchi, il governo dei Quattrocento decadde dopo solo quattro mesi, in seguito alla perdita dell’Eubea, conquistata dagli spartani. Il ritorno di Alcibiade e la restaurazione della democrazia (408 a.C.) Alcibiade si mise allora a capo della flotta ateniese stanziata presso Samo che voleva restaurare la democrazia ad Atene. Nel 408 a.C., dopo aver ottenuto una serie di vittorie navali contro Sparta, il comandante fu richiamato in patria e, accolto con tutti gli onori, ottenne i pieni poteri, restaurò la democrazia e ridiede nuovo vigore alla città, malgrado la presenza degli spartani stanziati a Decelea, sul suolo attico. Il suo prestigio era tale che gli strati più umili gli chiesero di assumere la tirannide, che sembrava riacquistare l’originaria funzione di garanzia del demo, ormai deluso dai politici. Alcibiade avrebbe preferito seguire la linea di Pericle e farsi rieleggere stratega ogni anno per garantirsi i pieni poteri senza diventare tiranno, ma l’opposizione fece in modo di allontanarlo di nuovo e definitivamente da Atene. Le ultime battaglie (406-404 a.C.) Anche senza più Alcibiade, nel 406 a.C. Atene riuscì a sconfiggere la flotta spartana alle isole Arginuse, di fronte a Mitilene, nella più impegnativa battaglia navale di tutta la guerra, con ingenti perdite umane anche da parte ateniese. Una tempesta dopo la battaglia rese impossibile il recupero dei naufraghi e dei cadaveri dei soldati caduti in battaglia. I generali, pur vincitori, furono allora processati in modo sommario e non del tutto legale e condannati a morte, sebbene si fosse opposto alla decisione il filosofo Socrate (v. scheda) che in quei giorni faceva parte della pritania. La condanna era un modo per gettare discredito su Alcibiade che con quei generali aveva collaborato. La vittoria alle Arginuse non fu sufficiente a salvare Atene. Nel 405 a.C. ad Egospotami, nel Chersoneso tracico, il generale spartano Lisandro distrusse completamente la flotta ateniese, che era stata per altro mal governata e forse persino tradita dai suoi ammiragli. Poi bloccò Atene per terra e per mare, la pose sotto assedio per nove mesi e nella primavera del 404 a.C. la costrinse alla resa per fame. Le conseguenze della guerra “totale” Alla fine, la guerra del Peloponneso si concluse grazie al ribaltamento strategico della città vincitrice. Lo spartano Lisandro, infatti, poté sconfiggere Atene solo grazie alla scelta di Sparta di riconvertirsi in una potenza marittima per vincere l’avversaria proprio sul terreno in cui si considerava (ed era stata per lungo tempo) imbattibile. La rivoluzione nel modo di fare la guerra fu una conseguenza – e forse la più importante – della scelta di combattere una guerra “totale”, cioè una guerra in cui erano entrati in gioco l’egemonia e i modelli politici delle due potenze. Per questo Lisandro nel momento della vittoria finale pretese anche il cambio di regime nella città sconfitta. La fine della guerra (404 a.C.) Tebe e Corinto, alleate di Sparta e acerrime nemiche di Atene, ne chiesero la distruzione totale, ma «gli Spartani replicarono che non avrebbero ridotto in schiavitù una città greca che aveva fatto molto bene nel momento dei maggiori pericoli corsi dalla Grecia. E perciò stipularono un accordo sulla base delle seguenti clausole: abbattere le Grandi Mura e il Pireo; consegnare tutte le navi tranne dodici; far rientrare gli esuli; avere gli stessi amici e gli stessi nemici degli Spartani; accettare la loro guida per terra e per mare» (Senofonte, Elleniche, II, 2, 1-23). LA FINE DELLE POLEIS Vincitrice per un anno (404-403 a.C.) Con la fine della supremazia ateniese, sembrò che toccasse a Sparta sostituire la rivale nell’egemonia sul mondo greco. E in effetti la città vincitrice del conflitto prese il controllo politico di tutte le città greche, abbatté le costituzioni democratiche, instaurò e appoggiò regimi oligarchici in diverse poleis, stanziando sul loro territorio presidi spartani armati, e affidò spesso il loro governo ad armosti, cioè a governatori militari. Ad Atene, sotto il controllo del comandante Lisandro e di una guarnigione spartana in armi, fu ancora una volta l’ecclesia, ormai dominata dagli oligarchici, ad abbattere la democrazia, eleggendo i Trenta, una magistratura straordinaria incaricata di scrivere una nuova costituzione. Quando ne prese la direzione Crizia, i Trenta diedero vita a un regime truce, che operò arresti arbitrari e ingiustificate condanne a morte, che valsero loro la nomea di Trenta tiranni. Ma le società non si possono reggere con la forza e Sparta non aveva altro che il suo esercito, per altro assai ridotto per le innumerevoli perdite subite nel lungo conflitto. Sparta era ormai una città isolata sia geograficamente sia culturalmente: conservatrice e ostile a qualsiasi progresso, aveva un numero ristrettissimo di cittadini dotati di pieni diritti (ridotti ora a non più di duemila individui), non conosceva i commerci internazionali, non aveva neppure una propria moneta. La sua classe dirigente, educata ad un rigido ideale guerresco, non era adatta a soddisfare le esigenze di una società aperta ai commerci e alle espressioni più raffinate della cultura; e non aveva né la mentalità né le risorse economiche per governare un impero, come aveva fatto Atene. Il mare Egeo, senza il controllo delle navi ateniesi, era infestato dai pirati, le rotte commerciali non erano più sicure. Occorrevano pace, sicurezza e ripresa dell’economia, che Sparta non poteva garantire. I fautori della democrazia rialzarono la testa un po’ ovunque. Quelli capeggiati da Trasibulo iniziarono la riscossa di Atene, riuscirono a uccidere Crizia, a ottenere l’appoggio del re spartano Pausania che si opponeva a Lisandro, a concludere la guerra civile con un’amnistia generale, e a restaurare la democrazia nel 403 a.C. Ma il ceto dei non-possidenti aveva ormai perso l’antico potere e contava sempre meno, tanto che si cercava di abbassare il livello del popolo a quello degli “schiavi pubblici” (Aristotele, Politica, II, 1266 a 39 sgg. ecc. V. Canfora p. 159). La democrazia aveva funzionato perché il demo si spartiva le entrate imperiali. Finito l’impero, i conflitti sociali divennero endemici e filosofi e autori di teatro elaborarono forme di governo ideali (v. box polis utopica). Tra storia e leggenda La condanna di Socrate (399 a.C.) La pacificazione nella restaurata democrazia era solo un’illusione e numerose condanne si abbatterono su coloro che venivano considerati nemici della democrazia. Nel 399 a.C. fu processato anche il filosofo Socrate, accusato di essere stato vicino agli ambienti oligarchici. Ma Socrate non si era mai occupato di politica e la colpa che gli si imputava in realtà era quella di essere stato il maestro di Crizia, a capo dei Trenta, e anche di Alcibiade, che tanti problemi aveva causato ad Atene. Ed era contro costoro che era diretta la condanna di Socrate. Egli, pur avendo la possibilità di fuggire, volle affrontare la morte per dimostrare ancora una volta la sua ubbidienza alle leggi, su cui aveva fondato la sua morale e il suo insegnamento. In nome dei suoi principi bevve serenamente la cicuta, il veleno che gli diede la morte. A narrare i suoi ultimi istanti furono Senofonte e Platone, che, con altri affezionati discepoli del maestro, avevano assistito alla sua morte. Tra storia e leggenda oppure Cultura? Una polis utopica: soluzioni senza speranza La delusione per il fallimento di tutti i diversi regimi delle poleis, la sfiducia sempre più diffusa nella classe politica modificarono profondamente la mentalità del cittadino nel IV secolo a.C. Platone dedicò la sua opera maggiore, La Repubblica, a delineare le caratteristiche che avrebbe dovuto avere uno stato ideale. Tutte le forme di governo realizzate fino a quel momento gli apparivano imperfette e capaci di generare solo individui perversi: il governo di pochi produce infatti il tipo di “uomo oligarchico”, feroce e intollerante; la democrazia il tipo di “uomo democratico”, individualista, corrotto, desideroso solo di soddisfare i propri bisogni; la tirannide, con il suo “uomo tirannico”, pronto a qualsiasi delitto, è poi la forma peggiore di governo. I cittadini devono essere educati invece ai migliori sentimenti e, per evitare tensioni sociali, causate dal desiderio di possesso, occorre abolire la proprietà privata e la famiglia. Il governo di uno stato ideale non può che essere affidato, secondo Platone, ai migliori tra i cittadini, gli uomini saggi, i filosofi, capaci di ricercare il “sommo bene”. Il problema della giustizia sociale compare anche nel teatro comico, nell’ultima produzione di Aristofane: in forma di satira (G), nella commedia Le donne all’assemblea, in cui il commediografo sbeffeggia l’idea dell’abolizione della proprietà privata, di cui a quanto pare si discuteva non solo a livello filosofico; in forma di utopia sociale (G) nel Pluto, in cui il dio della ricchezza, Pluto appunto, accecato da Zeus perché distribuiva la ricchezza senza riguardo al merito, riacquista la vista e ridona prosperità al popolo. Diversa la soluzione prospettata dallo storico Senofonte. Quando, intorno al 360 a.C. l’imposizione di migliaia di coloni ateniesi (cleruchi) nelle città alleate della seconda Lega ateniese ripropose lo stesso sfruttamento e la diseguaglianza nell’alleanza che aveva causato il crollo del primo impero, fu evidente che a spingere Atene a tale comportamento era ancora una volta la povertà delle masse popolari. Di fronte al crollo anche del secondo impero ateniese, Senofonte prospettò allora la possibilità per gli ateniesi di mantenersi con le proprie risorse, soprattutto con quelle fornite dalle miniere del Laurio, con cui si sarebbero potuti acquistare migliaia di schiavi pubblici e dare nuovo impulso all’economia. Anche questa, come le altre soluzioni proposte, era un’utopia, che non teneva conto dell’egoismo dei ricchi possidenti. Per costringerli a contribuire all’equità sociale si propose una tassa sui patrimoni, ma Demostene fece notare: «In città ci sono ricchezze, oserei dire, quante in tutte le altre città messe insieme. Ma se anche tutti gli oratori si sforzassero di impaurire i ricchi dicendo che sta arrivando il Re di Persia, anzi che è già arrivato e se con gli oratori ci si mettessero anche gli indovini a fare la stessa previsione, i ricchi non solo non verserebbero un bel niente, ma non le farebbero nemmeno vedere le loro ricchezze, anzi non riconoscerebbero nemmeno di possederle» (Sulle Simmorie, 25). La proposta dei ricchi era piuttosto quella di ridurre la cittadinanza. Ci riusciranno quando avranno i macedoni come garanti e potranno allora restringere il corpo civico a soli novemila cittadini, riconosciuti tali sulla base del censo. (Canfora, p. 462) Ritorno al passato (403-386 a.C.) Il ritorno di Atene alla democrazia non faceva paura a Sparta, perché l’antica rivale era ridotta a ben poca cosa, però voleva strapparle il ruolo che manteneva nel ricordo dei greci: quello di baluardo contro la Persia. All’impero persiano Sparta, negli ultimi anni del conflitto peloponnesiaco, aveva lasciato campo libero sulle città ioniche in cambio di una flotta e di aiuti (v. Sparta si prepara alla vittoria). Ma ora la città lacedemone aveva bisogno di presentarsi come protettrice degli interessi del mondo greco contro l’antico nemico comune. Appoggiò quindi l’invio di mercenari greci a Ciro, figlio del re persiano Dario II, morto nel 404 a.C., che intendeva contendere al fratello Artaserse il trono di Persia. In cambio dell’aiuto, Sparta si aspettava da Ciro la restituzione delle città ioniche. Il tentativo di Ciro però fallì (v. scheda). Allora il re spartano Agesilao sbarcò in Asia per liberare personalmente le città ioniche. Artaserse fu costretto in un primo tempo ad accettare una tregua, poi però seppe sfruttare ancora una volta i conflitti interni al mondo greco. Se nell’ultima fase della Guerra del Peloponneso l’impero aveva stretto un’alleanza con Sparta contro Atene, adesso Artaserse appoggiò il tentativo di Atene di risollevarsi: elargì grandi finanziamenti per ricostruire le Lunghe mura (v. scheda), fornì la flotta che, al comando dell’ateniese Conone, nel 394 a.C. distrusse la flotta spartana a Cnido (nella Doride, sulle coste meridionali dell’Asia Minore). Molte città si liberarono dei presidi spartani e dei regimi oligarchici e si allearono con Atene. Le stesse tradizionali alleate di Sparta, come Tebe e Corinto, vessate dagli ingenti tributi imposti dalla città egemone, defezionarono e si allearono anch’esse con Atene. Ma a questo punto il re persiano si rese conto del pericolo che un’Atene di nuovo potente avrebbe costituito per l’impero e tornò ad allearsi con Sparta. Le due potenze imposero a tutte le città greche una pace di compromesso, detta pace del Gran Re o di Antalcida, dal nome dell’ambasciatore spartano che la stipulò nel 386 a.C. Il vero arbitro della pace fu però il Gran re che stabilì che le città greche dell’Asia Minore ritornassero sotto l’impero persiano, mentre tutte le altre, pur restando libere, non avrebbero potuto più ricostituire le Leghe. Solo la Lega Peloponnesiaca restava in vita e Sparta diventava il gendarme del mondo greco agli ordini dei persiani. Dopo un secolo veniva così vanificata la gloriosa vittoria ottenuta con le guerre persiane, eroicamente combattute da Atene e dalla Grecia intera. Scheda Tra storia e leggenda oppure dida per un’immagine delle mura? Le Lunghe mura, la democrazia e l’impero Le Lunghe mura ebbero un ruolo determinante nella storia di Atene e di tutta la Grecia. A volerle, dopo la vittoria di Salamina, fu Temistocle che riuscì a costruirle malgrado l’opposizione di quella che allora era l’indiscussa città egemone del mondo greco, Sparta. Le mura furono concepite e divennero effettivamente il baluardo della democrazia e dell’impero, che nacquero contemporaneamente proprio in quel momento. Dal momento della costruzione delle mura ebbe però di fatto inizio anche la guerra del Peloponneso, che sarebbe scoppiata solo cinquant’anni dopo, ma fu generata proprio dalla scelta di Temistocle di fare di Atene la potenza antagonista di Sparta: contro di essa, appunto, le mura dovevano costituire una difesa invincibile. Perciò furono, al momento della capitolazione di Atene nel 404 a.C., il principale bersaglio dei vincitori e l’oggetto di disperata e vana difesa da parte dei vinti. Ed è proprio la loro ricostruzione nel 394 a.C. a segnare l’inizio di una seconda, sia pure breve, avventura imperiale. Scheda Tra storia e leggenda La spedizione di Senofonte in Asia (401 a.C.) Senofonte è un altro importante storico greco. Ateniese, aristocratico, discepolo di Socrate, si imbarcò per l’Asia al seguito delle truppe mercenarie greche ingaggiate da Ciro. La scelta di Senofonte di arruolarsi e il suo atteggiamento successivo, che lo portava a rinviare continuamente il suo ritorno ad Atene, rivela il difficile rapporto dello storico con la patria. È probabile infatti che egli, simpatizzante delle idee oligarchiche, si fosse compromesso con il regime dei Trenta tiranni e, dopo la sua caduta, preferisse tenersi lontano da Atene. Al seguito di Ciro, partecipò, nel 401 a.C., alla battaglia di Cunassa, presso Babilonia, nella quale Ciro perse la vita. Poco dopo vennero uccisi anche i comandanti del contingente greco e i mercenari si trovarono isolati in un territorio ostile. Senofonte fu scelto insieme ad altri per condurre la ritirata. Tra mille peripezie i diecimila superstiti riuscirono a raggiungere il mar Nero, dove alcuni si imbarcarono, mentre Senofonte con altri proseguì via terra fino a raggiungere la costa mediterranea, dove i pochi sopravvissuti furono raccolti dal contingente spartano di Agesilao sbarcato per combattere Artaserse. Senofonte non tornò ad Atene, ma si trattenne al servizio degli spartani. Egli, che si era arruolato come privato cittadino, con l’aria di un curioso “giornalista”, coinvolto in un’esperienza drammatica, ne lasciò memoria nella sua Anabasi, un vero e proprio appassionante diario di guerra. Lo storico descrive, tra l’altro, la decadenza del glorioso impero persiano, incapace di fermare una massa di sbandati mercenari privi di una guida esperta. A Senofonte si deve anche la narrazione, nelle Elleniche, della fine della guerra del Peloponneso per la quale attinse forse ad appunti che Tucidide non era riuscito ad inserire a completamento delle sue Storie. La fine della potenza spartana (371 a.C.) La posizione affidata a Sparta dall’impero persiano creava scontento in tutte le poleis. Ad Atene il governo democratico, che aveva assunto un carattere moderato, strinse patti di alleanza con numerose città e isole dell’Egeo, fino a stipulare nel 377 a.C. un’alleanza navale (la seconda Lega marittima a cento anni esatti dalla fondazione della Lega delioattica) che riuniva, in condizione di parità, almeno 75 poleis. La formula della parità tra le alleate aggirava il divieto di ricostituire le leghe. In Beozia, Tebe, a cui Sparta aveva imposto un regime oligarchico, accolse i democratici, tornati dall’esilio al comando dello statista Pelopida e del generale Epaminonda, che, sostenuti da Atene, cacciarono il presidio spartano insediato sull’acropoli di Tebe e ricostituirono la Lega beotica. Sparta, che pure aveva tollerato la rinascita dell’egemonia di Atene sul mare, non poteva accettare una rivale sul continente. Inviò quindi in Beozia l’esercito al comando del re Cleombroto, che nel 371 a.C. si scontrò a Leuttra con la falange obliqua di Epaminonda. Il generale tebano aveva apportato una variante innovativa alla tradizionale falange oplitica, rafforzando l’ala sinistra (v. immagine e dida da Bettini, Giganti, p. 196). L’esercito spartano subì la sua prima clamorosa sconfitta in una battaglia di terra. Era la fine di un mito. La strada per il Peloponneso era aperta ed Epaminonda vi penetrò, liberò i messeni dal dominio secolare di Sparta e, con la liberazione degli iloti, segnò la fine della potenza lacedemone. (v. Sparta e Atene, gli iloti p.???) Da inserire anche battaglione sacro Scheda Tra storia e leggenda Il crollo del modello spartano Se fino alle guerre persiane Sparta era stata indiscutibilmente modello della grande potenza fondata sull’armata di terra e sull’identità cittadino-guerriero, lo stesso modello dell’Atene di Milziade e della prima guerra persiana, con la nascita della flotta di Temistocle e dell’impero ateniese e con l’affermazione del modello democratico, il ruolo di Sparta come centro del mondo greco si era infranto producendo guerre e conflitti, fino al crollo del modello stesso di polis. Senofonte, che ammirava a tal punto l’ordinamento spartano da lasciare Atene per andare a vivere a Sparta, vide la causa del crollo della sua potenza nell’essersi allontanati dall’eunomia, dal buon governo stabilito da Licurgo. Eppure la superiorità di quel modello spartano è per Senofonte ancora valida ed è per questo che lo propone ai suoi concittadini ateniesi, in preda alla corruzione politica, all’avidità, agli eccessi giudiziari. Un solo breve decennio di egemonia tebana (371-362 a.C.) La Lega beotica che sembrava destinata a diventare egemone su tutto il mondo greco, non aveva la struttura dell’antica Lega delio-attica, in grado di dominare sul mare e controllare i traffici commerciali, né un’organizzazione militare efficiente come quella di Sparta, in grado di garantire la sicurezza degli alleati. La Beozia era, per di più, un paese povero e le lunghe assenze di tanti giovani chiamati alle armi lontano dalla patria rappresentava uno sforzo eccessivo per la sua scarsa economia, limitata all’agricoltura. L’egemonia tebana risiedeva solo sui suoi leader ed era quindi destinata a durare solo quanto loro. Ma Pelopida morì in battaglia nel 364 ed Epaminonda nel 362 a.C. cadde nella battaglia decisiva contro Sparta, a Mantinea. Malgrado l’esercito tebano avesse vinto anche in questa battaglia, la morte del generale determinò il tracollo della supremazia tebana. L’intera Grecia era ormai allo sbando e la fine delle poleis si avvicinava. L’ultima potenza greca in Occidente Non erano solo le poleis della Grecia a vivere gli ultimi anni della loro vita, era l’intero mondo greco a veder crollare il modello della città-stato. In Sicilia, dopo la vittoria su Atene, Siracusa riuscì a realizzare quello che forse era stato il sogno di Pericle: la formazione di uno stato unitario. Cartagine, in conflitto con Siracusa, aveva distrutto nel 409 a.C. Selinunte, alleata di Siracusa, Agrigento e Gela e puntava alla conquista della stessa Siracusa. Ma nel 406 a.C. divenne tiranno della grande città greca lo stratega Dionisio che, forte di un esercito di mercenari, riuscì a sconfiggere ripetutamente la potenza africana, divenne signore di tutta la parte della Sicilia non controllata dai cartaginesi e avviò la conquista dell’Italia meridionale. Tra il 397 e il 367 a.C. riuscì a creare uno stato territoriale che comprendeva la Sicilia orientale e la Calabria meridionale e si proclamò re di Sicilia. Eppure anche questo stato era destinato al tracollo in breve tempo. Mercenari (v. Bettini p. 197-8, e altri)