In giallo i dubbi, che si dovrebbero controllare, e le indicazioni di servizio
Potrei fornire piante di luoghi e battaglie di questo capitolo.
CAPITOLO 6
LA GRECIA NELL’ETÀ CLASSICA
IL TEMPO: 499-362 a.C.
L’età classica
Con il V secolo a.C. inizia l’età classica che si protrae fino al 323 a.C., quando si fa iniziare l’età
ellenistica. Dell’ultima fase dell’età classica, quando comincia la decadenza delle poleis, noi
parleremo nel prossimo capitolo. In questo affronteremo, invece, il periodo più splendido della
civiltà greca, ma anche il più tormentato dalle guerre. La prima è rappresentata dallo scontro con un
gigante orientale, l’impero persiano.
LE GUERRE PERSIANE
IL TEMPO: 480-479 a.C.
La situazione dell’Asia Minore nel VI secolo a.C.
Nel VI secolo a.C., le città greche da secoli insediate sulle coste dell’Asia Minore finirono sotto il
dominio di Creso, il re del ricco regno di Lidia, che sorgeva nell’entroterra, alle spalle degli
insediamenti greci, in posizione strategica, e aveva come capitale Sardi. I greci, però, sotto Creso
non persero del tutto la propria autonomia economica, perché l’atteggiamento del sovrano fu
tollerante e aperto alla cultura greca, tanto che egli, famoso per le sue enormi ricchezze, inviava
offerte e ricchissimi doni al santuario di Delfi e ai templi di numerose altre città greche. Così,
quando il re dei persiani Ciro « mandò degli araldi in mezzo agli Ioni, per tentare di staccarli da
Creso, […] gli Ioni non si lasciarono convincere» (Erodoto, I, 76).
Alla fine del VI secolo a.C. le città greche dovettero invece fare i conti con l’impero persiano,
l’ultimo grande impero del Vicino Oriente, destinato a dominare per oltre due secoli (v. cap. 3???).
Uno scontro di civiltà
Col desiderio di realizzare il grande sogno dell’impero universale, il re persiano Dario I intraprese,
alla fine del VI secolo a.C., la conquista anche dell’occidente e, inevitabilmente, si scontrò col
mondo greco. La lotta contro il gigante persiano assunse per i greci un valore epico e fu considerata
la più grande impresa mai affrontata nella loro storia, sulla quale essi fondarono la propria identità:
le due guerre persiane divennero una vera epopea nel loro ricordo.
La voce che meglio seppe narrare quell’avventura è quella dello storico greco Erodoto, nato ad
Alicarnasso, nella Ionia, nel 484 a.C., proprio nel periodo delle guerre contro l’impero persiano.
Nelle pagine delle sue Storie egli non narra solo lo scontro di due popoli, ma l’opposizione radicale
di due culture e di due modi di concepire la politica e la società, con un punto di vista certamente
“ellenico-centrico” (G), che tuttavia è il punto di vista con cui i greci vedevano quella vittoria. Per i
persiani, invece, si trattò di un’esperienza piuttosto marginale che, se bloccò l’avanzata verso
occidente, non scalfì l’enorme potere del loro impero.
Scheda Tra storia e leggenda su Erodoto?? Cantarella p. 265
GEOSTORIA
Inserire carta neutra dell’impero
La vastità dello spazio imperiale
L’impero di Dario si estendeva dalla regione del delta dell’Indo al Golfo Persico, alle coste del
Mediterraneo, del Mar Nero e del Mar Caspio, compreso il Caucaso. L’impero controllava anche il
Bosforo, il Mar di Marmara e lo stretto dei Dardanelli, che i Greci chiamavano Ellesponto e che era
essenziale ai loro commerci con le colonie sorte sulle coste del Mar Nero. Ma Dario estese il
controllo anche al di là dell’Ellesponto, alla Propontide che si affaccia sul mar di Marmara, al
Chersoneso tracico che Atene, nel VI secolo a.C., aveva cominciato a colonizzare perché era una
regione ricca di grano, e all’isola di Taso, ricca di miniere d’oro.
LA STORIA
La Ionia nell’impero
Con la conquista persiana della Lidia, nel 540 a.C. erano passate sotto il controllo persiano anche
le città greche della costa dell’Asia Minore (v. capitolo 3???). Esse mantenevano le proprie
istituzioni e la propria indipendenza, ma erano costrette a versare tributi e a prestare servizio
militare per il Gran Re. Il vero controllo persiano sulle città ioniche si attuava però soprattutto
attraverso l’instaurazione di tiranni appoggiati dai satrapi (G) e dal governo centrale. I loro traffici
commerciali nel Mediterraneo erano danneggiati dalla concorrenza dei fenici, appoggiati dal Gran
Re, e la conquista persiana della Tracia ostacolava i traffici nel mar Nero. Alla fine del VI secolo
a.C., era tiranno di Mileto Aristagora, il quale per una sconfitta subita nel tentativo di conquistare
l’isola di Nasso, temeva che il satrapo di Sardi Artaferne (o Artafrene), che aveva fornito
finanziamenti per la spedizione, gli avrebbe tolto la signoria su Mileto. Pensò dunque di ribellarsi al
potere del Gran Re.
Carta piatta della prima guerra persiana
La preparazione della rivolta ionica: la richiesta di aiuto a Sparta
«In primo luogo, rinunciando, a parole, alla tirannide, instaurò a Mileto l’uguaglianza dei diritti,
affinché spontaneamente i cittadini si ribellassero insieme con lui. Poi, estese anche al resto della
Ionia questo stesso regime: alcuni tiranni furono scacciati […]. E il dominio tirannico nelle varie
città ebbe fine.» (Erodoto,V, 37-38)
Poi Aristagora cercò l’appoggio di una potente alleata e giunse a Sparta, dove presentò la guerra
contro i persiani come un’impresa facile perché il nemico era un “barbaro” (v. par. La scoperta
di sé e degli altri ) e come tale incapace di eroismo, impacciato nell’abbigliamento e sprovvisto di
armi adeguate, e vantaggiosa perché avrebbe ridato la libertà ai greci, e permesso di conquistare le
immense ricchezze dell’impero. Ma Sparta non accettò perché, come sempre, gli spartani non
potevano allontanarsi per lunghi periodi dalla propria terra rischiando di veder esplodere ribellioni
di iloti (v. cap. Sparta e Atene, pp.???).
La preparazione della rivolta ionica: la richiesta di aiuto ad Atene
Ad Aristagora non restava che rivolgersi all’altra grande potenza, Atene. I rapporti della città attica
con i persiani erano tesi. Ippia, l’ultimo tiranno di Atene, cacciato dalla città nel 510 a.C. e
rifugiatosi in Persia (v. cap. 5??) non appena «pose piede in Asia, usava ogni mezzo per mettere in
cattiva luce gi Ateniesi agli occhi di Artafrene, facendo di tutto perché Atene ritornasse soggetta a
lui e fosse sotto il potere di Dario» (p. 64-65). L’atteggiamento di Ippia rivela una costante della
storia greca: di fronte alle esigenze di un singolo o di una città, i greci non si facevano scrupolo di
rivolgersi ad una potenza straniera, anche a costo di finire sotto il suo dominio.
Quando Artaferne impose agli ateniesi di riaccogliere Ippia ad Atene, essi si rifiutarono e si
prepararono alla guerra.
Proprio allora (era il 499 a.C.) Aristagora di Mileto arrivò al Atene e, presentatosi all'assemblea
popolare, ripeté le stesse cose che aveva detto a Sparta, e aggiunse che i milesi erano ioni come gli
ateniesi ed era naturale che essi, tanto potenti, li proteggessero. Riuscì a persuadere l’ecclesia, che
deliberò di inviare in aiuto degli Ioni una piccola flotta di venti navi, alle quali si aggiunsero
cinque navi fornite da Eretria, la principale città dell’Eubea.
L’incendio di Sardi
Ottenuto l’aiuto di Atene e l’alleanza delle città ioniche, Mileto diede vita alla rivolta. Ben presto
gli insorti giunsero a Sardi, la presero e la incendiarono.
Dario, informato che ateniesi e ioni avevano incendiato Sardi, chiese chi mai fossero gli Ateniesi,
tanto era sconosciuta la piccola città greca e irrilevante di fronte all’immensità dell’impero. E
ovviamente decise di punire gli insorti, cominciando col sottomettere alcune città ribelli, inviando
anche degli araldi qua e là nelle varie regioni della Grecia, con l’ordine di pretendere terra e acqua
a nome del re, di chiedere cioè la sottomissione totale, per mare e per terra, al Gran Re. Le isole
dell’Egeo e alcuni stati-etnici accettarono la richiesta, il re di Macedonia dichiarò la propria
sottomissione al Gran Re. Ma Dario non inviò la richiesta agli ateniesi e agli spartani perché
«quando, in precedenza, ve li aveva mandati Dario, a questo stesso scopo, gli Ateniesi avevano
scaraventato i messi nel “baratro” [una voragine dietro l’acropoli di Atene, dove si gettavano i
condannati a morte] e gli Spartani li avevano scaraventati in un pozzo, ordinando loro di prendervi
terra e acqua da portare al re» (Erodoto, VII, 133).
Aristagora di Mileto allora fuggì in Tracia, dove morì durante una spedizione militare (497 a.C.).
La caduta di Mileto e di Eretria
Le città ioniche però resistettero ancora, fino a quando subirono una grave sconfitta navale ad
opera dei fenici, alleati dell’impero, e i persiani cinsero d'assedio Mileto per terra e per mare. Nel
494 a.C. vinsero la sua resistenza e la espugnarono da cima a fondo, trucidando o vendendo come
schiavi gli abitanti. Le altre città ioniche invece ebbero un trattamento mite perché i persiani
ritennero sufficiente, come deterrente contro futuri tentativi di rivolta, la distruzione di Mileto.
Dario, spinto da Ippia, inviò poi contro Eretria e contro Atene, un esercito di fanteria, numeroso
e bene equipaggiato, al comando del generale Dati, e una flotta per trasportare l’esercito al
comando dell’ammiraglio Artaferne, figlio del satrapo omonimo. Giunti ad Eretria e fatta
irruzione nella città, i persiani ne spogliarono i templi e li incendiarono, vendicandosi così dei
santuari che erano stati bruciati a Sardi. Quindi ridussero in schiavitù alcuni cittadini e altri ne
deportarono in Asia.
Tra storia e leggenda
Tragedie da tacere
Gli ateniesi furono molto scossi dalla caduta di Mileto, la città allora più prestigiosa di tutto il
mondo ellenico e simbolo della cultura greca. «Tra l’altro, in particolare, siccome il poeta Frinico
aveva composto e fatto rappresentare una tragedia sulla presa di Mileto e il teatro tutto era
scoppiato in pianto, lo condannarono a pagare una multa di 1000 dramme, perché aveva ricordato
sventure cittadine e ordinarono che nessun altro mai potesse far rappresentare quella tragedia.» (p.
90). Al contrario, quando vent’anni dopo Eschilo metterà in scena, con la sua tragedia I Persiani, la
vittoria di Atene, conseguirà il successo.
La spedizione contro Atene
Dopo essersi impadroniti di Eretria, i persiani, accompagnati da Ippia, fecero vela verso l'Attica e si
fermarono, proprio su suggerimento dell’antico tiranno di Atene, a Maratona, la pianura più adatta
alle evoluzioni della potente cavalleria persiana e la più vicina a Eretria.
Ma appena gli ateniesi ne furono informati, per chiedere aiuto mandarono a Sparta, come
messaggero, Filippide, un "corriere" di professione (v. Tra storia e leggenda). Egli, dopo aver
percorso in 36 ore ben 230 km, giunto nella città laconica non riuscì a ottenere l'aiuto dagli spartani
perché, secondo il racconto di Erodoto (v. scheda Tra storia e leggenda), la luna non era ancora
piena! Mentre, dunque, questi aspettavano il plenilunio, Ippia guidava i “barbari” verso Maratona.
Gli ateniesi, al comando dello stratega Milziade, il cui padre era stato fatto assassinare da Ippia,
decisero di non aspettare il nemico ad Atene, che non era facilmente difendibile, e di accorrere da
soli a difendere il loro paese.
Milziade era un abile comandante e un valoroso guerriero, che era stato, come il padre, tiranno di
una città della Tracia e aveva militato per i persiani: quindi conosceva bene la loro tattica militare.
Tra gli altri strateghi a Maratona c’era anche Aristide, un aristocratico che aveva preso parte alle
riforme di Clistene.
dida per l’immagine della battaglia
La piana di Maratona
Maratona, letteralmente “campo dei finocchi”, era un villaggio posto sulla costa orientale della
penisola dell’Attica, in una valle abbastanza stretta, lunga 10 e larga poco più di 3 km.
Tra storia e leggenda può diventare dida per l’immagine della stele del corridore di Maratona in
Clemente p. 164
Corrieri eccezionali
Fidippide (o Filippide), che giunse a Sparta percorrendo 100 km al giorno, era un hemeródromo, un
“corridore giornaliero”, addestrato a “correre per un intero giorno”, come indica la parola, anche per
lunghe distanze e su terreni disagevoli, adibito soprattutto a portare messaggi agli eserciti.
Tesi di Mosconi: Un messaggero simile, di nome Thersippo o Euclea, spesso confuso con Filippide,
secondo la tradizione avrebbe percorso, dopo la famosa battaglia, i 42 km da Maratona ad Atene ad
una velocità tale che ebbe il tempo di dire solo “Abbiamo vinto” prima di cadere morto per lo
sforzo compiuto. All’episodio si ispira la moderna maratona, che si svolge su 42,195 km.
Tesi di Gentile: la battaglia probabilmente avvenne il 12 agosto e non il 20 settembre, perciò il
corriere sarebbe morto per il caldo
Tesi di Clemente: il corridore di Maratona era lo stesso che prima era andato a Sparta a chiedere
aiuto, era subito dopo tornato a Maratona e poi ad Atene: quindi morì per lo sforzo eccessivo, però
mi sembra che non ci stiamo con le date e neppure con i km eccessivi. Qualcuno riesce a risolvere
l’enigma? Si dovrebbe anche parlare della nascita della maratona moderna e in generle della nascita
delle Olimpiadi moderne: dove?.
Tra storia e leggenda
Questione di luna e di feste
Una prescrizione religiosa, vietava agli spartani di intraprendere qualsiasi azione militare finché non
finiva il plenilunio che seguiva le feste di Apollo Carneo, che si svolgevano a cavallo tra agosto e
settembre. Secondo gli storici, in quell’anno 490 a.C., il plenilunio cadeva il 15 settembre, così gli
spartani poterono arrivare ad Atene solo tre giorni dopo il plenilunio, troppo tardi per prender parte
allo scontro con i persiani, ormai sconfitti dagli ateniesi il 12 settembre. Potranno solo elogiare gli
ateniesi, per la loro eroica impresa, e prendere la via del ritorno.
In vista della battaglia
Privi dell’aiuto spartano, gli ateniesi ricevettero però aiuto da Platea, città della Beozia, che aveva
ottenuto da Atene aiuti e protezione contro Tebe, la potente città che predominava in Beozia e che
per odio verso gli ateniesi si era schierata coi persiani. Platea inviò 1000 dei suoi opliti, ad
affiancare i 10.000 opliti ateniesi a Maratona.
Le fonti invece non concordano sul numero dei persiani, che si fa variare da 200.000 fino a
600.000. Il comando della spedizione contro Atene era stato affidato a Ippia, che sperava di
riottenere la tirannide, una volta conquistata la città.
A Maratona, Milziade schierò l’esercito sulle pendici dei colli che sovrastano la piana. La posizione
era favorevole agli ateniesi e i persiani indugiarono inutilmente per una quindicina di giorni
aspettando che essi scendessero in campo aperto. I comandanti ateniesi, com’è tipico della
democrazia, discutevano animatamente sulle decisioni da prendere. «Tra gli strateghi ateniesi i
pareri erano discordi, poiché alcuni non volevano che si attaccasse battaglia (erano troppo pochi,
dicevano, per tener fronte all'esercito dei Medi! [così i greci chiamavano i persiani]); altri, invece, e
tra essi Milziade, insistevano per sferrare l'attacco.» (Erodoto, VI,109).
La battaglia di Maratona e la geniale tattica ateniese
Milziade riuscì a far passare dalla sua parte l’arconte polemarco e ad assumere egli stesso la
responsabilità da far prevalere la propria linea e ad assumere egli stesso la responsabilità
dell’attacco. Il 12 settembre del 490 a.C., Milziade diede improvvisamente il segnale e gli opliti
ateniesi, per impedire che i persiani potessero usare la potente cavalleria e i loro formidabili arcieri,
si slanciarono di corsa sulla piana caricando il nemico in formazione compatta. I Persiani, al vederli
arrivare di corsa, li consideravano pazzi, visto anche il loro scarso numero, e senza cavalli né
arcieri. Gli ateniesi erano infatti i primi ad adottare la tattica della corsa contro i nemici e «i primi,
racconta Erodoto, che sopportarono di vedere l'esercito persiano, mentre fino allora ai Greci
incuteva terrore anche solo sentire il nome dei Medi» (Erodoto, VI, 112).
La battaglia durò a lungo, ma alla fine la falange oplitica ateniese con la sua formazione compatta
ebbe la meglio sulle truppe persiane che combattevano in ordine sparso e senza un adeguato
coordinamento (v. par. La scoperta di sé e degli altri). Gli ateniesi inseguirono i fuggiaschi fino
all’accampamento e si impadronirono di sette navi nemiche. Con le altre i persiani doppiarono il
Capo Sunio, cercando di giungere in città prima degli ateniesi.
A marce forzate verso Atene
Ma Milziade riportò in città l’esercito a marce forzate e nella stessa giornata della battaglia riuscì a
giungere ad Atene prima che vi arrivassero i nemici. Pare che il piano originario dei persiani,
sventato dagli ateniesi con il rapido ritorno ad Atene, prevedesse proprio l'attacco alla città e che lo
scontro di Maratona dovesse servire soltanto come diversivo per distogliere da Atene il grosso
delle truppe. Una volta fallito il progetto, i persiani «giunsero in vista del Falero (era questo, allora,
il porto di Atene); ma dopo aver fermato le navi al largo di esso, ripresero per mare la via del
ritorno in Asia.» (Erodoto, VI, 116).
La vittoria di Maratona ha lasciato un ricordo indelebile anche nella nostra cultura, oltre che in
quella greca, come di un’impresa quasi impossibile. Tuttavia occorre precisare che gli ateniesi si
batterono non contro tutto l’esercito persiano, ma solo contro un corpo di spedizione relativamente
modesto, che Dario aveva inviato per sistemare una questione per lui marginale.
Dida dell’immagine del tumulo
A futura memoria
«In questo scontro di Maratona, morirono da parte dei Barbari circa 6.400 uomini, da parte ateniese
192», racconta Erodoto, che, però, forse non tiene conto delle perdite dei Plateesi e degli schiavi.
Eppure in loro memoria, nel luogo della battaglia, fu elevato un tumulo oggi scomparso. È ancora
visibile invece un piccolo colle artificiale chiamato “La tomba”, che era il tumulo, più alto rispetto a
quello dei plateesi, innalzato per gli ateniesi caduti in battaglia, i cui nomi furono scritti in cippi
collocati sul colle per conservarne la memoria in eterno.
La reazione alla vittoria e la riforma della costituzione ateniese
L’eco della vittoria di Atene a Maratona fu enorme: una piccola città, in cui la democrazia con le
sue risse interminabili sembrava rendere fragile il potere, era riuscita a reagire compatta e a
sconfiggere, quasi completamente da sola, un nemico potentissimo. Da allora Atene assunse un
ruolo egemone nel mondo greco, contendendolo alla più forte potenza bellica, Sparta.
Intanto Milziade volle sfruttare la vittoria per conquistare le isole Cicladi e impedire che i persiani
le usassero come base per invadere la Grecia. Ma l’impresa fallì, Milziade fu ferito e in patria fu
accusato di aspirare alla tirannide. Morì poco dopo a seguito delle ferite.
Ma per evitare nuovi tentativi di tirannide, furono apportate modifiche alla riforma di Clistene:



la carica di arconte fu assegnata per sorteggio e perse prestigio, togliendo ulteriormente
potere agli aristocratici che soli potevano accedervi.
Per la prima volta nel 487 a.C. fu applicato l’ostracismo, un mezzo per allontanare dalla
città personaggi sospettati di attentare alla democrazia, e furono allontanati i promotori di un
attacco fallito contro l’isola di Egina. Tra loro era Santippo che, imparentato con la famiglia
degli Alcmeonidi, aveva preso parte alle riforme di Clistene, aveva sposato una sua nipote,
Agariste, da cui ebbe Pericle, il futuro grande statista di cui parleremo tra breve.
Fu votata la legge navale, che prevedeva la costruzione di una flotta e favoriva i ceti meno
abbienti (v. par. la reazione …).
Carta piatta della II guerra persiana
I grandiosi preparativi di Serse
In Persia Dario non si rassegnava alla sconfitta e iniziò i preparativi per riprendere le ostilità. Forse
fu subito dopo la battaglia di Maratona che Ippia morì, ma al seguito del re restarono alcuni suoi
figli e parenti, pronti a consigliargli di riprendere la guerra contro Atene.
Dopo aver designato il figlio Serse come suo successore, però, proprio mentre si accingeva alla
guerra, nell’autunno del 486 a.C. morì anche il Gran Re.
Dalla primavera del 484 a quella del 480 a.C., fu Serse a preparare una imponente spedizione contro
la Grecia, chiamando a raccolta truppe e mezzi da tutto l’impero. Per potere trasportare la cavalleria
e un esercito imponente, non bastava la flotta, come nella guerra voluta da Dario. Quindi il re
predispose sia un esercito da inviare a piedi sia una flotta d’appoggio, che avrebbe navigando lungo
la costa. Siccome una prima spedizione al comando del generale Mardonio, che aveva tentato di
doppiare il promontorio dell’Athos, la più orientale delle tre sporgenze della penisola Calcidica,
aveva subito un disastro, Serse intraprese il taglio dell’istmo che collega il promontorio alla
terraferma, in modo da non doverlo doppiare. Intanto faceva costruire ponti sull’Ellesponto, con
barche legate insieme, perché i soldati potessero passare a piedi sulla sponda europea.
Completati i lavori di costruzione dei ponti, del taglio del canale dell’Athos e delle dighe che
dovevano impedire che il flusso dell’acqua ostruisse il canale, nella primavera del 480 a.C. Serse
mosse l’esercito, probabilmente di oltre 100.000 uomini e più di 1000 navi, anche se Erodoto parla
di milioni di uomini e migliaia di navi. Giunto sullo stretto, il re si fermò ad ammirare estasiato le
sue truppe. «Alla vista di tutto l’Ellesponto coperto delle sue navi e di tutta la spiaggia del mare e la
pianura di Abido piena dei suoi soldati, allora sì che Serse si considerò felice.» (Erodoto, VII, 45).
Occorsero 7 giorni e 7 notti perché l’intero esercito attraversasse i ponti di barche costruiti sullo
stretto.
La reazione dei greci di fronte al pericolo
Serse procedette quindi verso la Grecia, costringendo tutti i popoli che via via incontrava e che
erano già tributari dell’impero a unirsi al suo corpo di spedizione. Parallelamente la flotta procedeva
lungo la costa. Le poleis greche non erano unite nella volontà di resistere all’invasore, anzi molte
erano favorevoli ai persiani e persino l’oracolo di Delfi, a cui Serse aveva inviato ingenti donativi,
sconsigliava di resistere. Neanche dentro Atene i pareri erano concordi. Tra i sostenitori di un
accordo con la Persia era il conservatore Aristide, che, portavoce dell’aristocrazia terriera, non
vedeva vantaggi in una guerra contro l’impero, ma solo lo svantaggio di avere i campi devastati e la
città distrutta. Per il ceto medio di imprenditori e commercianti invece la libertà coincideva con la
stessa sopravvivenza: libertà di commerci in un mare libero dalla concorrenza, soprattutto di quei
fenici tanto favoriti dai persiani (v. capitolo impero persiano??? Non so se ne parleremo).
Temistocle
A far prevalere la propria opinione fu però Temistocle, che già in precedenza era riuscito a far
approvare la legge navale, convincendo l’ecclesia a investire le enormi ricchezze che affluivano
dalle miniere del Laurio, scoperte solo nel 483 a.C. nella zona montuosa dell’Attica meridionale,
per allestire una flotta di duecento triremi, le navi da guerra, di recente costruzione, più moderne,
veloci, agili nelle manovre ed efficienti. Gli ateniesi avevano rinunciato alle dieci dracme, che
sarebbero toccate a ciascuno di loro, per costruire la flotta. Ora Temistocle proponeva di costruire
un porto al Pireo (allora era attivo solo il porto del Falero) e aggiungere altre navi, anche a spese dei
privati più ricchi, e con una potente flotta sfidare Serse. Per avere il campo libero da opposizioni,
Temistocle riuscì nel 482 a.C. a far ostracizzare il rivale Aristide, anche se l’onestà dello stratega
di Maratona era nota a tutti, tanto da valergli il soprannome di “giusto”.
L’ostracismo si rivelò così un’arma micidiale. Poiché si otteneva con una semplice votazione
dell’assemblea contro personaggi ritenuti pericolosi sulla base di dicerie, senza prove certe e senza
un regolare processo, l’ostracismo divenne un’arma facilmente sfruttabile contro gli avversari
politici.
La scelta di Temistocle di basare la guerra sulla flotta di triremi aveva un risvolto sociale e politico
fondamentale, che l’aristocratico Aristide non poteva condividere: infatti ad essere ingaggiati come
rematori erano i teti, la classe più povera, che trovava nella spedizione militare una fonte di
guadagno e un nuovo ruolo sociale, che, coinvolgendoli nella difesa della città, avrebbe garantito
loro maggiori diritti.
Proprio per favorire la classe meno abbiente e ottenerne il favore in assemblea, Temistocle costruì
la flotta più potente del Mediterraneo, con un numero di navi eccezionalmente alto: la flotta di
Samo, il centro navale più potente fino a quel momento, non superava infatti le quaranta navi.
Alla ricerca di alleanze
Le trentuno città greche che concordavano con la scelta di affrontare il gravissimo pericolo
rappresentato da Serse posero fine alle inimicizie e alle guerre, che li mettevano gli uni contro gli
altri e, convenute a Corinto, conclusero un’alleanza, una Lega panellenica, alla cui testa si mise
Sparta col consenso di Atene. Per porre fine anche ai conflitti interni fu proclamata un’amnistia
generale che permise ad Aristide e a Santippo di rientrare ad Atene. Non aderirono invece alla
Lega Argo, la grande nemica di Sparta, e le regioni settentrionali perché, troppo esposte all’attacco
persiano, preferirono sottomettersi spontaneamente al Gran Re.
Gli alleati mandarono anche ambasciatori in Sicilia, presso Gelone, per esortarlo a venire in
soccorso della Grecia. I tesori di Gelone, tra l’altro, si diceva fossero immensi, di gran lunga
maggiori di quelli d'ogni altro popolo greco e sarebbero stati preziosi per vincere. Ma Gelone era
impegnato, insieme a Terone, tiranno di Agrigento, contro i cartaginesi, che avevano intrapreso una
politica espansionistica, sobillati proprio dal re di Persia, che voleva tenere occupati i greci della
Sicilia, i sicelioti, e impedire loro di portare aiuto alla madrepatria. Gli inviati dei greci non
riuscirono quindi a ottenere aiuti da Siracusa, e neppure da Creta e da Corcira, a cui pure li
avevano chiesti nella speranza che tutto il mondo greco costituisse un blocco compatto contro
l’aggressore.
La linea del fronte
I greci dovettero a quel punto deliberare dove porre la difesa per non permettere al nemico di
penetrare in Grecia. Prevalse l’opinione di presidiare il passaggio delle Termopili, sia perché era
più stretto di quello che dalla Macedonia portava in Tessaglia, sia perché era più vicino alle città
della Lega. Si decise anche che, per impedire alle navi persiane di approdare in Attica, la flotta delle
200 navi ateniesi e delle 70 navi dei loro alleati solcasse il mare nei pressi dell’Artemisio, che si
trova così vicino alle Termopili che si poteva facilmente ricevere notizie di quello che avveniva in
un posto e nell’altro.
Serse, invece, pose l’accampamento nella Malide, che si affaccia sulla parte nord del golfo Maliaco,
su cui si affacciano, da sud-est, anche le Termopili.
Box-dida (immagine in Lessico classico, ma che risale al 1800!)
La geografia delle Termopili
All’epoca della famosa battaglia la costa, che si affaccia da est sul golfo Maliaco, all’altezza delle
Termopili era molto più arretrata di oggi e il passo era molto stretto perché una sporgenza del monte
Eta si affacciava immediatamente sul mare. Era l’unica via che permetteva di passare dalla
Tessaglia alla Locride, ma il passaggio era reso difficile dalla presenza di tre strettoie: due sono
strettissime e permettevano il passaggio di un solo carro, la terza, più larga, era sbarrata dal muro
costruito dai focesi per difendersi dai tessali. Il luogo era percorso da numerosi fiumi e il suo nome
deriva dalle fonti termali sulfuree, quindi calde (in greco thermái), e dalle porte (pylai), che si
aprivano sul muro dei focesi. Oggi la costa è avanzata e le alluvioni del fiume Spercheo hanno
creato delle paludi (da controllare)
La battaglia delle Termopili (giorno e mese agosto? 480 a.C.)
Viandante, se giungi a Sparta annuncia ai Lacedemoni che noi riposiamo qui, per obbedire alle
loro leggi.
Occorre controllare l’iscrizione, ho usato la frase del racconto di Böll, perché mi piace di più
Malgrado avesse promesso il suo aiuto, in realtà Sparta aspettava ancora una volta che si
concludessero, il 21 agosto, le feste in onore di Apollo, e perciò inviò alle Termopili solo i
Trecento, un corpo scelto, quasi una guardia del re. Li comandava uno dei due re spartani,
Leonida. Anche gli altri alleati avevano in programma di intervenire solo quando si fossero
conclusi i Giochi Olimpici, che cadevano proprio in quel periodo: duravano solo cinque giorni, ma
prevedevano la sospensione delle attività belliche per un intero mese. Il problema era quindi
essenzialmente la scarsa coesione delle varie città nell’affrontare il nemico e le feste erano solo una
scusa per non intervenire a difesa delle Termopili.
Anche i greci schierati alle Termopili, quando i Persiani si avvicinarono al passo, cominciarono a
discutere sull'opportunità di ritirarsi. I peloponnesiaci preferivano porre la difesa sull’istmo di
Corinto in modo da salvare il Peloponneso, abbandonando le regioni continentali ai persiani;
Leonida, invece, decise di rimanere, ma anche di mandare dei messaggeri nelle varie città a
sollecitare aiuti, poiché erano troppo pochi per poter respingere l’esercito dei persiani.
Serse lasciò passare quattro giorni, sperando che i greci si ritirassero, poi al quinto giorno, li attaccò.
I difensori del passo resistettero tre giorni, poi un abitante della zona, un certo Efialte, segnalò a
Serse un sentiero che permetteva di aggirare le Termopili e prendere i greci alle spalle. Quando
Leonida fu informato dell’arrivo dei persiani congedò le truppe degli alleati e rimase a difendere il
passo coi suoi Trecento. Accanto a loro rimasero anche i perieci, armati alla leggera, e gli iloti che
fungevano da scudieri e attendenti di campo. Degli alleati restarono con Leonida i 700 tespiesi, che
non vollero abbandonare il re spartano fino alla morte, e i 400 tebani che egli costrinse a restare per
punire Tebe favorevole ai persiani, ma fuggirono appena fu loro possibile Pertanto il numero dei
combattenti greci alle Termopili doveva aggirarsi sui 2000. «Mentre accanitamente si difendevano
con le spade (quelli tra essi che si trovavano ancora ad averle), con le mani e con i denti, i Barbari
li seppellirono di dardi, gli uni incalzandoli di fronte, dopo aver abbattuto l'ostacolo del muro; gli
altri, che li avevano circondati, premendo da ogni parte intorno.» (pp. 266-268). I Trecento di
Leonida morirono tutti, insieme al loro comandante, riscattando con la loro morte la sconfitta e la
vile scelta della loro città.
Una morte annunciata
Di fronte alla scelta di Sparta di inviare un contingente di soldati così esiguo, gli storici si sono
sempre interrogati. Gli spartani, a quanto pare, non erano del tutto convinti sull’utilità per loro di
bloccare l’avanzata di Serse così a nord. Il loro intento era, come per gli altri peloponnesiaci,
piuttosto quello di fortificare l’istmo di Corinto. Tanto più che essi erano sempre restii ad
impegnare l’esercito troppo lontano dalla città. Probabilmente quindi il sacrificio di Leonida e dei
suoi trecento era previsto e necessario a mantenere l’alleanza con Atene. D’altro canto, l’eroismo
che essi mostrarono nella lotta e nell’affrontare una morte certa avrebbe portato la fama di Sparta
alle stelle.
Dida con immagine in Lessico classico,
Il sentiero del tradimento
Il sentiero attraverso cui Efialte condusse i persiani era detto Anopea e partiva dal fiume Asopo, nel
punto in cui scorre attraverso la gola del monte, e correva lungo il monte stesso fino alla città di
Alpeno. A difesa di questo sentiero erano state schierate truppe dei focesi.
Dopo la battaglia
Serse, trovato sul campo di battaglia il cadavere di Leonida, gli fece mozzare la testa e la infisse su
un palo. In onore di Leonida invece i greci innalzarono sul posto un leone in pietra, sia perché il
nome dell’animale alludeva al nome del re, Leonida appunto, sia perché un leone era lo stemma dei
re di Sparta. In onore di tutti gli spartani fu incisa un’iscrizione che diceva: «Viandante, se giungi a
Sparta annuncia ai Lacedemoni che noi riposiamo qui, per obbedire alle loro leggi».
Nel 440 a.C. poi gli spartani trasporteranno in patria le ossa di Leonida e innalzeranno ai caduti una
colonna con incisi i nomi di tutti i morti alle Termopili.
Occorre precisare che anche i persiani ebbero gravissime perdite, ben 20.000 navi stando a quanto
riferisce Erodoto. Controllare altre opinioni
Dall’Artemisio a Salamina
La flotta ancorata all’Artemisio ebbe maggior fortuna e, dopo tre giorni di combattimenti, inflisse
una grave sconfitta alle navi persiane che avevano già subito danni e perdite per una violenta
tempesta.
Intanto le truppe di terra di Serse avanzavano dirette ad Atene, mentre la flotta dei greci partita
dall'Artemisio gettò le ancore a Salamina, per trarre in salvo dall'Attica vecchi, donne e bambini che
trasferirono a Egina, a Trezene e, in parte, sull’isola stessa di Salamina. Qui si radunarono molte più
navi che all'Artemisio, provenienti da più città: senza contare le pentecontere, a 50 remi, il loro
numero ammontava a 378. Di esse il contingente di gran lunga più numeroso e che meglio teneva il
mare era quello fornito da Atene, ma il comandante in capo era Euribiade, cittadino spartano.
La distruzione di Atene
Arrivato ad Atene, Serse la trovò deserta, a parte un piccolo gruppo di cittadini che si era rifugiato
nel santuario dedicato ad Atena e ad Eretteo sull’acropoli. Serse trucidò i difensori, espugnò i
templi e li incendiò insieme all’intera acropoli e alla città. Dall’isola di Salamina gli ateniesi
assistettero impotenti alla distruzione delle loro case.
La scelta del sito della battaglia
Ormai era giunto il momento dello scontro sul mare. Allorché si seppe che l’armata persiana aveva
a disposizione ancora più di 1200 navi, che assediavano il porto ateniese del Falero, gran parte degli
alleati voleva spostare la flotta sull’istmo di Corinto, ma Temistocle sapeva che non ci sarebbe stata
salvezza per Atene se non si fosse combattuto subito e perciò cercò di convincere il comandante in
capo Euribiade a restare, ma invano.
Nel frattempo l’esercito di terra dei persiani si metteva in marcia verso il Peloponneso, ma qui gli
abitanti, appena conosciuto l’esito della battaglia delle Termopili, avevano cominciato ad erigere un
muro sull’istmo, al comando di Cleombroto, fratello di Leonida.
Il piano di Temistocle
A Salamina i pareri continuavano ad essere discordi, finché Temistocle inviò di nascosto un finto
traditore a Serse per spingerlo ad attaccare lui battaglia. Il Gran Re preparò quindi l’accerchiamento
delle navi ateniesi alla fonda a Salamina. I greci ne vennero informati e Temistocle, che conosceva
meglio i luoghi, le correnti e i venti, diede ordine di arretrare le navi verso la terraferma, ma con la
prua rivolta al nemico, in modo da attirare la flotta persiana nello stretto di mare tra la costa
attica e la penisoletta di Cinosura (letteralmente “coda di cane”) che si protende dall’isola di
Salamina verso la costa dell’Attica. Qui le agili e moderne triremi greche, secondo Temistocle,
potevano sperare di avere la meglio sulle grandi navi persiane, che erano prevalentemente quelle
fenicie di qualità inferiore rispetto alle triremi ateniesi ed erano in mare da molto tempo, perciò le
loro attrezzature erano logore. Inoltre la flotta era costituita anche da contingenti greci della Ionia
che combattevano controvoglia per il re di Persia e si potevano spingere a defezionare.
La battaglia di Salamina (20 settembre 480 a.C.)
La tattica geniale di Temistocle si rivelò vincente: quando le navi greche, mentre arretravano
fingendo di volersi sottrarre allo scontro, videro le navi nemiche disgregare il loro schieramento per
inseguirle, fecero un rapido cambiamento di rotta e si slanciarono al contrattacco. Le navi persiane,
guidate dal generale Mardonio, per sfuggire si ingolfarono, come aveva previsto Temistocle, nello
spazio di mare troppo stretto per manovrare e finirono con lo speronarsi a vicenda.
Dall’alto di un’altura su cui si era fatto costruire un trono dorato (o d’oro???), Serse assistette al
disastro della sua flotta. «Gemiti e urla coprivano ovunque la distesa del mare, sinché li assopì il
volto oscuro della notte», scrisse qualche anno dopo il poeta tragico Eschilo, che aveva partecipato
alla battaglia.
Il prezioso trono di Serse fu collocato nell’acropoli di Atene, come magnifico trofeo della vittoria.
Scheda sul passo di Eschilo Cant. antico p. 274???
Box? Le tattiche di battaglia navale Cantarella antico p. 270
La battaglia di Imera (20 settembre 480 a.C.)
Il caso volle che, nello stesso giorno della battaglia di Salamina secondo la tradizione, il 20
settembre 480 a.C., in Sicilia, presso il fiume Imera, sulla costa settentrionale dell’isola, Gelone e
Terone vincessero i cartaginesi, che da allora non furono più in grado di competere coi greci per il
controllo della Sicilia. Con le due contemporanee vittorie i greci si avviavano a diventare i padroni
del Mediterraneo, soprattutto dopo che, nel 474 a.C. la flotta di Gelone sconfisse a Cuma quella
degli etruschi, sobillati contro i greci ancora una volta dai persiani. Da allora la potenza etrusca
cominciò a decadere.
La fuga dei persiani
Dopo la sconfitta di Salamina, il generale Mardonio, vedendo Serse gravemente depresso e deciso a
ritornare in patria, gli propose di lasciarlo in Grecia, per poterla conquistare a suo nome. Serse
acconsentì e Mardonio, con una parte dell’esercito, tra cui tutti i diecimila Immortali, il corpo scelto
della guardia reale (v. cap. 3???), accompagnò il re in Tessaglia, da dove Serse avrebbe proseguito
per tornare in patria, mentre Mardonio stesso e le sue truppe rimasero a svernare nella regione
greca.
Il nuovo attacco ad Atene
Trascorso l’inverno in Tessaglia, Mardonio marciò in direzione di Atene. Gli spartani non avevano
mandato truppe in Beozia per bloccare il passaggio al generale persiano, come avevano richiesto gli
ateniesi. Adducevano ancora una volta la scusa di esserne impediti dalla celebrazione di una festa
sacra, ma in realtà, malgrado la parola data agli ateniesi, non volevano impegnarsi nella difesa
dell’Attica perché si sentivano protetti dal muro che avevano nel frattempo finito di erigere
sull’istmo di Corinto.
Mardonio quindi pregustava già la soddisfazione di informare Serse d’aver conquistato Atene, ma
quando giunse nella città a metà giugno del 479 a.C. la trovò ancora una volta deserta: gli abitanti,
proprio come dieci mesi prima, si erano rifugiati a Salamina o sulle navi.
A questo punto però gli ateniesi minacciarono Sparta che avrebbero fatto accordi col nemico se non
avesse portato loro aiuto. E finalmente gli efori inviarono 5000 opliti affiancati da 7 iloti ciascuno e
5000 soldati con armatura pesante, scelti tra i perieci. A comandarli era Pausania, reggente e tutore
del piccolo figlio di Leonida, l’eroe delle Termopili.
Mardonio, sentita la notizia dell’arrivo dei rinforzi spartani, non volle più rimanere in Attica, perché
il terreno non era adatto allo spiegamento di forze di cavalleria e, in caso di sconfitta, la ritirata non
era possibile se non per luoghi così stretti, che anche pochi uomini sarebbero bastati a sbarrargli il
passo. Così, prima che Pausania e i suoi entrassero nell'istmo, si ritirò di nascosto, dopo aver dato
alle fiamme Atene e aver completamente abbattuto quello che ancora restava in piedi delle mura,
degli edifici privati e dei templi. Era, dunque, sua intenzione di ripiegare verso Tebe e impegnare
battaglia nelle vicinanze d'una città amica e in un luogo dove potesse spiegare la sua cavalleria.
La battaglia di Platea (479 a.C.)
Lo scontro tra i 40.000 greci, spartani guidati dal generale spartano Pausania e ateniesi al comando
di Aristide, contro i 100.000 soldati di Mardonio fu predisposto nella pianura di Platea, dove
Mardonio poté schierare la potente cavalleria.
Siccome però gli auspici erano sfavorevoli, i due eserciti restarono accampati di fronte per dieci
giorni senza combattere. Poi alcuni degli alleati greci abbandonarono lo schieramento e i persiani
attaccarono. Ma fu ancora una volta la sconfitta, quando Mardonio fu ucciso e i persiani si
sbandarono e fuggirono verso il loro accampamento fortificato, mentre i greci li inseguivano e ne
facevano strage: dei soldati di Mardonio, neppure 3000 riuscirono a salvarsi. Dei Lacedemoni,
perirono nello scontro 159 soldati in tutto. I greci vincitori assediarono Tebe e i capi della fazione
favorevole ai persiani vennero giustiziati.
Preparativi per la battaglia di Micale
«Volle il caso che proprio nello stesso giorno in cui subivano la disfatta in Platea, i Barbari
subissero anche quella a Micale, nella Ionia.» (Erodoto, IX, 90).
Infatti, mentre una flotta greca se ne stava all'ancora nelle acque di Delo, vennero dei messaggeri
ioni che esortavano i greci a liberarli dai persiani. La flotta, comandata da Santippo, si spostò allora
nei pressi di capo Micale, dove intanto si erano appostate le navi persiane, tratte in secco e riparate
dagli scudi di vimini ricoperti di pelli, messi insieme dai persiani per farne un baluardo.
Proprio quando giunse notizia della vittoria di Platea, «i Greci, dopo aver abbattuto la maggior parte
dei Barbari, o mentre resistevano con le armi in pugno, o mentre si davano alla fuga, diedero fuoco
alle navi e a tutto il muro di difesa; prima, però, avevano trasportato il bottino sulla spiaggia e vi
avevano trovato dei forzieri pieni di oggetti preziosi. Incendiate le navi e il muro, ripresero il mare
per il ritorno» (Erodoto, IX, 106).
La liberazione della Ionia
I greci dovettero poi risolvere il problema della Ionia, che era difficile da difendere e temevano
perciò potesse ricadere in mano persiana. C’era chi voleva evacuarla e trasferire gli abitanti n
Grecia, ma gli ateniesi si opposero e accolsero le isole nella Lega.
Si concludeva così la lotta degli ioni verso la libertà, cominciata esattamente 20 anni prima.
Da quel momento i persiani non tentarono più di conquistare la Grecia e persero il controllo del
Mediterraneo.
La spiegazione della vittoria
Le ripetute vittorie delle piccole città greche contro il gigante asiatico appaiono ancora oggi come
un miracolo a cui si stenta a credere. Gli storici hanno però cercato di individuarne le ragioni.
Mentre la vittoria di Maratona può essere spiegata con la scarsa importanza che Dario annetteva
all’impresa, la spedizione di Serse era stata preparata con grande cura e la presenza dello stesso re
sul campo di battaglia mostra quanta importanza egli attribuisse all’impresa. Forse fu proprio la
grandezza dell’impero, la presenza di tante genti disparate, che parlavano lingue diverse e spesso
non si capivano tra loro, a impedire di mobilitare tutte le forze dell’impero e di coordinarle. Al
contrario le piccole poleis che lottavano per la propria sopravvivenza, proprio per le loro ridotte
dimensioni, potevano mettere in campo tutte le proprie energie e fare conto sull’impegno di ciascun
cittadino, sulla compattezza e sulla superiorità tecnica della falange oplitica e della flotta, sulla
conoscenza dei luoghi, che ai persiani erano invece poco noti.
La scoperta di sé e degli altri
Le guerre persiane segnarono una svolta tra la cultura arcaica, in cui i greci non aveva ancora la
piena coscienza della propria identità nazionale, e l’acquisizione di una consapevolezza che porterà
alle creazioni più alte della cultura classica.
La lotta comune di quasi tutte le città a sud della Tessaglia contro un comune nemico e le
straordinarie vittorie diedero ai greci la consapevolezza di essere un unico popolo – perciò si
definirono sempre più spesso col nome di elleni, prima usato solo sporadicamente – e di avere
radici comuni molto forti, che li contrapponevano ad altri popoli stranieri, di cui quello persiano
divenne l’emblema.
I greci, che in epoca omerica onoravano lo straniero ponendolo sotto la tutela di Zeus, finirono col
vedere in lui il pericolo, colpiti dalla sua diversità fisica (statura, colore della pelle e dei capelli) e
linguistica. Per una cultura fondata sulla parola, l’impossibilità di comunicare era un ostacolo
insormontabile. Lo straniero era il “barbaro” (termine onomatopeico inteso a riprodurre suoni
incomprensibili, “bar-bar”), «colui che balbetta»: insomma era barbaro chi non parlava greco. Si
trattava quindi di una discriminazione culturale, non biologica.
Però, come osservava Tucidide, Omero non chiamava mai «greci» o «elleni» i greci che assediano
Troia, né «barbari» i loro nemici, perché evidentemente per Omero greci e troiani appartenevano
allo stesso mondo morale e civile. Ed Erodoto apprezza usi e costumi di popolazioni che solo da un
punto di vista linguistico definisce «barbari». Fu dopo la vittoria nelle guerre persiane che cominciò
a maturare l'idea di una profonda differenza culturale rispetto agli altri popoli, tra un «noi», civili, e
gli «altri», arretrati e barbari.
I greci si sentivano separati quindi da un'abissale distanza dagli stranieri, e in particolare dai
persiani, una distanza non solo linguistica e culturale, ma anche politica, ideologica, economica e
militare.
 I persiani avevano costituito uno stato di sudditi di nazionalità diverse soggetti al
dispotismo di un uomo che compiva atti di superbia e di tracotanza (hybris) (v. schede
Orgoglio e pregiudizio e Flagellare il mare) e imponeva usanze intollerabili agli occhi dei
greci, come la pratica della proskynesis, la genuflessione davanti al sovrano, o, più in
generale, l'omaggio con gesti troppo riverenti verso chi copriva cariche pubbliche. Secondo i
greci erano atteggiamenti che denotavano la mancanza del senso della libertà, dunque
erano indegni di un uomo;
 i greci avevano un’unità etnica, che comprendeva territori diversi, dalla Grecia all’Asia
Minore alle colonie occidentali, ed erano liberi cittadini che si autogovernavano ed erano
sottoposti solo all’autorità delle leggi che essi stessi si erano dati.


I persiani ubbidivano passivamente agli ordini,
i greci discutevano e si confrontavano in modo paritario.






I persiani non avevano proprietà privata, solo il sovrano aveva il pieno diritto di disporre
dei beni e delle terre, anche di quelle date in uso ai privati,
i greci godevano della proprietà privata che era la base dei loro diritti.
I persiani, dediti alla ricerca del piacere, vivevano nel lusso e nelle mollezze (v. scheda
L’assurda impresa di Serse), perciò erano incapaci di affrontare fatiche e sofferenze; gli
stessi “immortali” andavano in battaglia con vesti e armi preziose e si facevano
accompagnare da concubine e servi, che portavano vettovaglie su carri e cammelli;
i greci e, in particolare, gli spartani vivevano con sobrietà, in modo sano e perciò erano forti
e robusti.
L’esercito persiano, costituito da soldati di tutto l’impero, si schierava in battaglia per
gruppi etnici, per popoli e non per ragioni tattiche, ma, mentre i persiani erano ben
addestrati, gli altri popoli non lo erano altrettanto; perciò si affidavano alla forza del loro
numero, senza coesione né collaborazione tra i reparti, combattevano in modo disordinato
e caotico e solo perché obbligati dal sovrano;
i greci, malgrado la loro frammentazione politica, riuscirono a concordare una strategia
militare comune perché tutti combattevano per un ideale comune, la difesa della propria
terra e della libertà, ubbidendo alle leggi; erano tutti ben addestrati, disciplinati e
compatti nella formazione della falange oplitica, che coinvolgeva tutti i cittadini:
l’aristocrazia di un tempo non avrebbe potuto sostenere una guerra simile. (v. scheda Un
barbaro e un greco a confronto)
Sarebbe meglio la seguente tabella?
Differenze
Politiche
Ideologiche
Economiche
Culturali
Persiani
avevano costituito uno stato di sudditi
di nazionalità diverse soggetti al
dispotismo di un uomo che compiva
atti di superbia e di tracotanza (hybris)
(v. schede Orgoglio e pregiudizio e
Flagellare il mare) e imponeva usanze
che costituivano un orrore agli occhi
dei greci, come la pratica della
proskynesis, la genuflessione davanti
al sovrano, o, più in generale,
l'omaggiare con gesti troppo riverenti
chi copriva cariche pubbliche.
Secondo i greci erano atteggiamenti
che denotavano la mancanza del
senso della libertà, dunque era
indegni di un uomo
ubbidivano passivamente agli ordini
non avevano proprietà privata, solo
il sovrano aveva il pieno diritto di
disporre dei beni e delle terre, anche di
quelle date in uso ai privati
I persiani, dediti alla ricerca del
piacere, vivevano nel lusso e nelle
mollezze (v. scheda L’assurda
Greci
avevano un’unità etnica, che
comprendeva territori diversi, dalla
Grecia all’Asia Minore a tutte le colonie
occidentali, ed erano liberi cittadini che
si autogovernavano ed erano sottoposti
solo all’autorità delle leggi che essi stessi
si erano dati.
discutevano e si confrontavano
i greci godevano della proprietà privata
che era la base dei loro diritti.
i greci e, in particolare, gli spartani
vivevano con sobrietà, in modo sano e
perciò erano forti e robusti.
Militari
impresa di Serse), perciò erano
incapaci di affrontare fatiche e
sofferenze; gli stessi “immortali”
andavano in battaglia con vesti e armi
preziose e si facevano accompagnare
da concubine e servi, che portavano
vettovaglie su carri e cammelli;
L’esercito costituito da soldati di tutto
l’impero si schierava in battaglia per
gruppi etnici, per popoli e non per
ragioni tattiche, ma, mentre i persiani
erano ben addestrati, gli altri popoli
non lo erano altrettanto; perciò si
affidavano alla forza del loro numero,
senza coesione né collaborazione tra
i reparti, combattevano in modo
disordinato e caotico e solo perché
obbligati dal sovrano;
i greci, malgrado la loro frammentazione
politica, riuscirono a concordare una
strategia comune perché tutti
combattevano per un ideale comune, la
difesa della propria terra e della libertà,
sottomessi solo alla legge; erano tutti
ben addestrati, disciplinati e compatti
nella formazione della falange oplitica,
che coinvolgeva tutti i cittadini:
l’aristocrazia di un tempo non avrebbe
potuto sostenere una guerra simile. (v.
scheda Un barbaro e un greco a
confronto)
Orgoglio nazionale e imperialismo
Le differenze divennero per i greci segno della propria superiorità e dell’inferiorità dei persiani, la
cui visione limitata del proprio essere uomini, secondo i greci, fu una delle principali cause della
disfatta di Serse. Il loro giudizio si estese in generale a tutti gli stranieri, che non avevano la
“superiore” cultura greca. E i greci non persero occasione di utilizzare e strumentalizzare la
propria presunta superiorità in chiave politica, ogni volta che intendevano giustificare la volontà
di entrare in conflitto con popoli "barbari". Su questo senso di superiorità i greci fondarono dunque
un'ideologia imperialistica, e pretesero di essere il punto di riferimento culturale per ogni altro
popolo che, secondo loro, volesse dirsi civile.
Metterei almeno le seguenti schede Tra storia e leggenda per esemplificare le affermazioni di cui
sopra.
Orgoglio e pregiudizio
«Secondo il mio modo di vedere, trovo che fu per orgoglio che Serse fece fare quello scavo
[dell’istmo dell’Athos], volendo egli dimostrare la sua potenza e lasciare ricordi insigni; infatti,
mentre gli sarebbe stato possibile, senza che i soldati facessero alcuna fatica, traghettare le navi
attraverso l'istmo, egli diede ordine di aprire verso il mare un canale così largo che vi potessero
insieme navigare due navi spinte dai rematori.» (pp.176)
Erodoto non manca di sottolineare la hybris di Serse, che lo spinge ad intraprendere un’azione di
violenza sulla natura, quando avrebbe potuto, come facevano i greci sull’istmo di Corinto per
passare da un mare all’altro, tirare in secco le navi e trasportarle su dei rulli fino all’altra sponda. Lo
storico dimentica però di dire che le navi greche non avevano le enormi dimensioni di quelle
persiane.
Flagellare il mare
Più grave atto di tracotanza apparve un’altra reazione di Serse. Mentre era in viaggio verso Abido
sull’Ellesponto, «quelli cui era affidato il lavoro gettavano i ponti: i Fenici con funi di lino bianco,
gli Egiziani con cavi di papiro; tra Abido e la riva opposta vi sono 7 stadi [1300 m circa]. Era
appena stato stabilito il passaggio che una violenta tempesta, scatenatasi, distrusse tutte quelle
attrezzature e le disperse.
Quando lo venne a sapere Serse, irritato contro l'Ellesponto, ordinò che lo si flagellasse con 300
colpi di sferza e si calasse in mare un paio di ceppi [per indicare che il mare era di sua proprietà].
Ho pure sentito dire che, insieme con i flagellatori, Serse mandò anche dei marchiatori, perché
bollassero a fuoco l'Ellesponto [come uno schiavo fuggitivo?]. È certo che, mentre lo flagellavano,
ordinò che dicessero queste parole barbare e insensate: “Onda amara, il mio signore ti infligge
questo castigo perché l'hai offeso, senza aver da lui ricevuta offesa alcuna. Il re Serse ti varcherà,
che tu voglia o che non voglia. È ben giusto che nessuno fra gli uomini ti offra sacrifici, perché tu
non sei che un fiume torbido e salmastro”.
Al mare, dunque, fece infliggere questo castigo e a quelli che avevano diretto i lavori
sull'Ellesponto fece tagliare la testa.» (p.180)
Un barbaro e un greco a confronto
Per sottolineare ancora una volta la profonda distanza che separa la cultura e la civiltà greca da
quella dei “barbari”, Erodoto immagina un dialogo tra Serse sul punto di partire alla volta della
Grecia e Demarato, il re di Sparta che, detronizzato, si era rifugiato alla corte di Persia.
«Ordunque, dimmi questo; se, cioè, i Greci avranno il coraggio di alzar le mani contro di me.
Infatti, a mio parere, neppure se tutti i Greci e gli altri uomini che abitano a occidente si
coalizzassero tra loro, sarebbero in grado di resistere al mio attacco, a meno che non fossero molto
uniti. […] Demarato parlò cosi : « O re, poiché mi ordini di dirti la verità, parlando in modo che tu
non abbia in seguito a cogliermi come mentitore, sappi che ai Greci è stata sempre compagna
assidua la povertà; ma ad essa s'è aggiunto il coraggio, frutto di temperanza e di salde leggi: con
questo la Grecia si difende contro la povertà e l'asservimento. Ora io lodo tutti i Greci che abitano in
quelle regioni doriche; non però a tutti vanno le parole che io dirò, ma agli Spartani soltanto: prima
di tutto, non sarà mai che essi accettino le tue proposte che apportano schiavitù alla Grecia; in
secondo luogo, si opporranno a te in campo aperto, anche se gli altri Greci tutti si dovessero
schierare dalla tua parte. Quanto al numero, non chiedere quanti sono per osare di agire in questo
modo: si trovino pure ad essere in 1000 schierati in campo o anche meno di 1000, o più, questi ti
daranno battaglia ».
103. All'udir queste parole Serse scoppiò a ridere e disse: « O Demarato, come hai potuto dire che
1000 uomini possono combattere contro così grande esercito? […] Come potrebbero mai 1000
uomini, o sia pure 10.000, o anche 50.000, che siano tutti liberi allo stesso modo e non sottomessi
all'autorità d'uno solo, come potrebbero opporsi a un così grande esercito? Infatti, se quelli sono
5000, noi siamo più di 100 contro ciascuno di essi. E poi, se fossero sottomessi all'autorità di uno
solo, come è d'uso tra noi, potrebbero forse, per paura di questo padrone, dimostrarsi più valorosi
che non comporti la loro stessa natura, e, costretti dallo scudiscio, andrebbero contro avversari più
numerosi, pur essendo in meno. Ma sbrigliati così verso la licenza, non potrebbero fare né l'una
cosa, né l'altra. Per conto mio, sono del parere che, anche se fossero a essi pari per numero, ben
difficilmente i Greci potrebbero lottare contro i Persiani soli. Presso di noi, piuttosto, solo da noi, si
possono trovare quelli che tu dici e sono tuttavia poco numerosi, anzi rari: ci sono, effettivamente,
tra i Persiani della mia guardia del corpo di quelli che accetteranno di combattere contro tre
avversari greci contemporaneamente: e siccome tu non li conosci, vai dicendo molte ingenuità».
104. A questo Demarato replicò: « O re, […] gli Spartani quando combattono singolarmente a
nessuno al mondo sono inferiori; uniti, poi, sono i più valorosi di tutti gli uomini. Poiché, se è vero
che sono liberi, non sono poi liberi in tutto: domina su di loro un padrone, la legge, di cui hanno
timoroso rispetto molto più ancora che i tuoi sudditi non l'abbiano per te e fanno tutto quello che
essa comanda ed essa sempre la stessa cosa comanda: di non fuggire dal campo di battaglia
qualunque sia la caterva dei nemici e, rimanendo saldi al proprio posto, vincere o morire.» (p. 205207).
L’assurda impresa di Serse
82. Si racconta, poi, anche questo: che Serse, ormai in fuga dalla Grecia, lasciò le proprie
suppellettili a Mardonio. Pausania, dunque, vedendo la tenda di Mardonio splendidamente adorna
d'oro, d'argento, di tappeti e tende a vari colori, diede ordine a quelli che facevano il pane e ai
cuochi di allestire un banchetto identico a quello che solevano fare per Mardonio. Quando quelli
ebbero eseguito il comando, allora Pausania, al vedere i letti d'oro e d'argento accuratamente distesi
e le stoviglie pure d'oro e d'argento e gli arredi magnifici del banchetto, pieno di stupore per la
profusione di lusso che aveva davanti agli occhi, comandò ai suoi servi, per ischerno, di preparargli
un pasto alla maniera spartana. E poiché, quando questo fu preparato, grande era la differenza fra i
due, Pausania, ridendo, fece chiamare i capi dei Greci e giunti che furono disse loro, mostrando
l'uno e l'altro apparato del banchetto: “Uomini di Grecia, volevo mostrarvi la stoltezza del Meda, il
quale, avvezzo a un tale tenore di vita, è venuto qui da noi, per portarci via questa nostra cosi misera
cena”. Tali parole, a quel che si racconta, disse Pausania ai comandanti dei Greci.» (399-400)
Tattiche militari a confronto
si fecero incontro ai Greci i Persiani, quelli che il re chiamava gli "Immortali" comandati da
Idarne: c'era la convinzione che, essi almeno, l'avrebbero facilmente fatta finita. Ma quando anche
questi vennero a contatto con i Greci, ebbero lo stesso risultato, non certo migliore, di quello
ottenuto dai Medi, in quanto la battaglia si svolgeva in un luogo stretto, avevano delle lance più
corte dei Greci e non trovavano modo di mettere a profitto il loro numero. Gli Spartani, invece,
combattevano in modo degno di essere ricordato, dimostrando in molti modi di saper bene usare
delle armi tra uomini che non lo sapevano, soprattutto quando voltavano le spalle e tutti insieme
simulavano la fuga: i Barbari, al vederli fuggire, si davano ad inseguirli urlando e schiamazzando,
ma essi, quando stavano per essere raggiunti, sempre si rivolgevano, sì da far fronte ai Barbari e con
queste improvvise conversioni abbattevano un numero incalcolabile di Persiani. Anche da parte
degli stessi Spartani in quel luogo ne cadde un piccolo numero
TABLET
Proposte:
percorso di lettura con ampi brani di Erodoto
storia per immagini. Il Partenone per raccontare la vittoria come in Bettini Giganti, p. 164
L’IMPERIALISMO ATENIESE
IL TEMPO: 480-430 a.C.
L’ASSETTO DELLA GRECIA DOPO LE GUERRE PERSIANE
Le guerre persiane non si conclusero con la battaglia di Micale e i rapporti dei greci con la Persia
restarono tesi ancora per qualche decennio, ma la fase acuta era comunque finita.
La svolta impressa dalle guerre persiane
Lo scontro con l’impero persiano rappresentò per il mondo greco una svolta radicale. Fino a quel
momento ad avere un ruolo di primo piano era stata Sparta, col suo potentissimo esercito, la sua
stabilità politica, l’immagine di un potere saldo e consolidato nel tempo. La città non aveva subito
trasformazioni radicali che ne mettessero in discussione l’assetto, come invece era accaduto ad altre
poleis e soprattutto ad Atene. Al momento dello scoppio della rivolta ionica (499 a.C.), Atene si era
appena liberata dalla tirannide (510 a.C.) e si era data con Clistene (508 a.C.) una costituzione
assolutamente innovativa, che aveva dato il via alla democrazia. La città doveva però ancora trovare
una propria identità politica e un proprio ruolo nel mondo greco, che le desse anche visibilità
internazionale. Lo trovò proprio nelle guerre persiane, in gran parte provocate dalle sue stesse scelte
politiche.
I due seguenti sono paragrafi di ripasso, che mi sembrano però molto utili per capire sia le guerre
persiane sia l’argomento che segue.
Alla base delle scelte di Sparta…
La differente reazione di Sparta e Atene alla richiesta di aiuto di Mileto, e durante tutto il corso
delle guerre persiane, sono spiegabili con il diverso assetto politico che le due poleis avevano
raggiunto.
Sparta era un’oligarchia, dominata da un’aristocrazia guerriera, gli spartiati, che:
 detenevano in esclusiva il diritto di cittadinanza;
 esercitavano il potere escludendone qualsiasi altra classe;
 fondavano il proprio benessere sulle rendite fondiarie derivanti dall’agricoltura, affidata al
lavoro degli iloti, e su modeste attività commerciali praticate dai perieci;
 trovavano la sua forza nella coesione della intera classe;
 attribuivano un ruolo all’individuo solo in quanto appartenente ad una famiglia e a una
stirpe e solo se se ne dimostrava degno attraverso atti di valore;
 esercitavano un’unica professione, la guerra, in cui eccellevano su tutti gli altri popoli, e
sui cui principi fondavano la propria rigorosissima morale (che era quella tipica della
cultura di vergogna, per cui v. p.??? nel capitolo sulla cultura omerica, ma anche con
qualche episodio delle Termopili).
Il ruolo dominante di Sparta nel mondo greco era, quindi, fondato proprio ed esclusivamente sulla
forza del suo esercito che poteva garantire sicurezza e protezione alle città alleate, le quali, in
cambio, accettavano di essere governate da regimi oligarchici appoggiati e, in qualche misura,
assoggettati a Sparta. La città laconica era perciò diventata modello e supporto di tutte le
aristocrazie greche, ma non poteva permettersi un’espansione al di fuori del Peloponneso per non
compromettere la sicurezza e la stabilità del suo potere. Pochi guerrieri, sia pure eroici, non
avrebbero potuto controllare un impero ampio, né potevano allontanarsi troppo e troppo a lungo
dalla patria senza rischiare l’insurrezione dei popoli sottomessi. Né, d’altro canto, avevano interesse
a farlo: l’economia di Sparta non necessitava di un’espansione, era sufficiente la terra della
Laconia e della Messenia a garantire benessere agli aristocratici, né c’erano altre forze sociali che
potessero avanzare richieste di allargamento dei confini. Pertanto la politica di Sparta fu:
 conservatrice, per mantenere i privilegi della classe dominante e la stabilità politica e
sociale;
 chiusa entro confini territoriali ristretti,


contraria al progresso, all’apertura e allo sviluppo culturale;
pronta a combattere per la libertà e l’indipendenza, ma anche ad allearsi con potenze
straniere se queste garantivano libertà all’aristocrazia spartana;
 contraria a guerre imperialistiche, di espansione territoriale ed economica.
Si spiega così perché l’atteggiamento di Sparta durante le guerre persiane fosse essenzialmente
difensivo e il suo intervento, nei limiti imposti dall’alleanza con Atene, circoscritto a tutelare il
Peloponneso e ad evitare la devastazione dei campi.
Nel Peloponneso stesso, del resto, il potere diretto di Sparta si esercitava solo sulla Laconia e la
Messenia ed era per il resto fondato su accordi con le altre città del Peloponneso con le quali aveva
costituito un’alleanza militare, la Lega o Simmachia Peloponnesiaca.
Le guerre persiane e l’eroismo dimostrato dai suoi soldati servirono certamente a rafforzare e a
consolidare il ruolo egemonico di Sparta nella Lega e l’immagine di potenza invincibile, ma non
apportò altri vantaggi.
… e di Atene
Ben diversi furono gli effetti delle guerre persiane sulla politica e sul ruolo di Atene.
La lunga evoluzione della costituzione ateniese era stata determinata dai profondi cambiamenti
dell’assetto sociale della città. L’economia ateniese, fondata inizialmente sull’agricoltura, si era via
via allargata agli scambi commerciali e aveva perciò favorito la nascita e l’espansione di un ceto di
artigiani e commercianti. Di fronte alla richiesta di aiuto di Mileto, Atene reagì in modo
confacente con i propri interessi: una grande potenza come Mileto voleva liberarsi dai vincoli
imposti alla libertà di commercio dal giogo straniero, occorreva aiutarla per garantire la libertà dei
traffici nel Mediterraneo. Certo la svolta impressa dalla costituzione democratica non era ancora,
nel 499 a.C., così decisiva e Atene inviò aiuti insufficienti a sostenere la rivolta ionica, aiuti che per
altro ben presto, di fronte alle prime sconfitte, ritirò. Tuttavia la città dimostrò di essere pronta ad
affrontare il rischio della reazione persiana. Nel 490 a.C. a Maratona, Atene affrontò da sola i
persiani e vinse, ma non era ancora sufficiente ad ottenere la sicurezza dei commerci. Fu
Temistocle, il geniale spregiudicato astuto stratego che, nel 480 a.C., ebbe il coraggio di
continuare la guerra, affermando che la potenza di Atene risiedeva nella flotta, perché:
a. l’economia e la ricchezza di Atene erano ormai fondate sugli scambi commerciali via mare
e solo una flotta potente poteva garantirli;
b. occorreva dare lavoro e ruolo agli strati più poveri della popolazione, per evitare conflitti:
la flotta ingaggiava un enorme numero di teti come rematori;
c. si doveva creare uno strumento in grado di fondare un impero economico: la flotta
assicurava protezione militare agli alleati;
d. era indispensabile garantire la libertà degli scambi nel Mediterraneo, con un numero di navi
tali da esercitare un controllo costante contro la concorrenza.
La flotta ateniese, moderna, agile, tecnologicamente avanzata, che Temistocle aveva ottenuto
convincendo l’ecclesia a rinunciare ai proventi delle miniere d’argento con la sua straordinaria
abilità di oratore e che usò con grande spregiudicatezza, gli consentì di sconfiggere i persiani,
liberare le colonie dell’Asia Minore e tutto il Mediterraneo, ma soprattutto di presentare Atene
come la salvatrice della Grecia e da quel momento il punto di riferimento per tutte le poleis a
economia commerciale.
La politica ateniese presentava pertanto caratteri diversi rispetto a quella spartana:
 affrontava la guerra per espandere la propria sfera d’influenza economica, fino a creare un
vero impero;
 estendeva in questo modo anche i propri confini culturali ed era pronta alle innovazioni;
 aspirava al progresso in tutti i campi.
La Lega delio-attica (477 a.C.)
Temistocle seppe sfruttare molto bene il pericolo che ancora la Persia rappresentava, per costituire,
su richiesta delle città della costa asiatica, la Lega di Delo. Era un’alleanza tra tutte le città e le isole
greche dell’Egeo (v. carta), finalizzata alla reciproca tutela nel caso di un nuovo prevedibile e
probabile attacco persiano. Naturalmente l’egemonia della Lega era affidata ad Atene che, con la
sua potentissima flotta, aveva dimostrato di essere in grado di difendere gli alleati. Era però
necessario che tutte le città contribuissero alle spese per mantenere in efficienza e potenziare la
flotta e pagare rematori, soldati, tecnici, carpentieri ecc. Si costituì pertanto un tesoro della Lega a
cui tutte le città contribuivano in modo paritario e che venne custodito a Delo, una piccolissima
isola delle Cicladi, nel tempio dedicato ad Apollo (v. figxx).
Ben presto Atene assunse nella Lega un ruolo tanto determinante, che l’alleanza è passata alla storia
come Lega delio-attica. Infatti era obbligo per tutte le città alleate contribuire alla difesa comune
fornendo tutto quanto fosse necessario alla flotta. Però c’era anche la possibilità, per evitare di
impegnare i cittadini lontano dalla patria, di versare un tributo per le spese navali. Molte città
preferirono appunto questa soluzione e, siccome la flotta era quella ateniese, i tributi finirono di
fatto per rappresentare un asservimento delle alleate alla città egemone.
Dida per immagine del santuario di Delo
L’isola del tesoro
Il tesoro della Lega era custodito nel tempio di Apollo senza altra protezione che la sacralità e
l’inviolabilità del luogo. Nel santuario del tempio si tenevano anche le riunioni del Consiglio
federale, costituito dai rappresentanti di tutte le città aderenti, in cui le decisioni della Lega
venivano prese democraticamente, anche se ad Atene spettava la presidenza, come il comando di
eventuali operazioni militari. Ateniesi erano anche coloro che amministravano il tesoro comune, gli
ellenotami.
Inserire carta sulla divisione del Mediterraneo tra le due Leghe
EVOLUZIONE DELLA POLITICA ATENIESE (480-460 a.C.)
La politica antispartana di Temistocle
Per mantenere salda l’alleanza intorno ad Atene, Temistocle prospettava di continuo la minaccia di
un altro attacco persiano e nel contempo rafforzava le difese della città. Fece ricostruire le mura
cittadine distrutte da Serse, fortificò il porto del Pireo e, soprattutto, avviò la costruzione delle
Lunghe mura [v. box)
Anche in questa scelta Temistocle si dimostrò previdente. Egli intuì che il vero pericolo per Atene
non era in realtà la Persia, con cui egli stabilì accordi commerciali, ma Sparta che vedeva una
minaccia nell’espansione dell’antica alleata e ne temeva influenza sulle città della Lega
Peloponnesiaca.
Alla potenza degli opliti spartani, gli ateniesi non potevano opporre un esercito di terra altrettanto
forte. Sparta avrebbe potuto quindi assediare Atene e prenderla per fame, senza che i suoi soldati
potessero difenderla adeguatamente. La salvezza doveva venire dal mare: rendendo sicuro il
collegamento tra la città e il suo porto, Atene avrebbe potuto ricevere approvvigionamenti dalle
città alleate e resistere all’infinito ad un eventuale assedio. Sul mare Sparta mai avrebbe potuto
competere con la flotta ateniese.
Dida inserire immagine: disegno con dida anche sulla fortificazione del Falero e foto dei resti: si
dovrà decidere se cambiare la presentazione nel cap. Sparta e Atene, spiegando che la strada per il
Pireo era affiancata da due muri paralleli, uno sett. e uno meridionale e così anche quella per il
Falero ecc., oppure scrivere qui.]
Le Lunghe mura
Le Lunghe mura volute da Temistocle, partendo dal centro di Atene, proteggevano da nord e da sud
la strada che dalla città conduceva per quasi 7 chilometri al porto. La costruzione delle mura venne
completata da Pericle e da allora il Pireo divenne il porto commerciale principale della Grecia,
fornito di cantieri per 400 navi, mentre al Falero erano ancorate le navi da guerra e Munichia era un
porto militare.
L’ostracismo di Temistocle (471 a.C.)
I metodi e lo scarso rispetto della legalità con cui Temistocle sembrava gestire il suo potere, ma
soprattutto l’ostilità di Sparta diedero motivo alla fazione degli aristocratici, appoggiata dai
Lacedemoni, di mettere in dubbio l’onestà del vincitore di Salamina. Nel 471 a.C. Temistocle
venne così ostracizzato dall’ecclesia. (inserire immagine dell’ostrakon col suo nome). Si rifugiò in
diverse città, finché giunse proprio nell’impero persiano, presso Artaserse, che nel 465 a.C. era
succeduto al padre Serse, il nemico contro cui Temistocle aveva combattuto, ma che si era anche
premunito di rendersi amico (v. cap. prec., se lasciamo la notizia là oppure nella scheda Tra storia e
leggenda oppure si riassume qui). Morì poco dopo, nel 461 a.C., a 65 anni.
La storia in breve
Gli avvenimenti dalla caduta di Temistocle all’ascesa di Pericle (471-461 a.C.)
A far perdere credibilità a Temistocle fu il suo antico avversario, il conservatore Aristide, mentre
un altro conservatore, Cimone, figlio si Milziade, il vincitore di Maratona, ne ottenne l’ostracismo.
 Cimone riprese le ostilità contro la Persia, liberò le coste della Tracia e prese il controllo di
Bisanzio sul Bosforo, nel 469 a.C. distrusse la flotta persiana presso la foce del fiume
Eurimedonte e garantì così ad Atene il dominio sull’Egeo. Verso Sparta, invece, fece una
politica di alleanza, tanto che condusse 4.000 opliti ateniesi in aiuto della città alle prese con
una ribellione di iloti: in occasione di un terremoto nel 464 a.C., gli insorti si erano infatti
arroccati nel santuario fortificato del monte Itome in Messenia, da cui Sparta aveva
difficoltà a snidarli. Visto il lungo protrarsi dell’assedio divenne troppo costoso mantenere il
contingente ateniese e Sparta lo rispedì in patria. Fu uno scacco alla politica filo spartana e
conservatrice di Cimone, che venne ostracizzato nel 461 a.C., dieci anni dopo Temistocle.
 Gli succedette Efialte (da non confondere col traditore delle Termopili) che, a capo del
partito radicale, diminuì drasticamente il potere dell’areopago per eliminare il baluardo del
potere aristocratico, ma pagò con la morte la decisione.
 Anche Sparta colpì uno degli eroi delle guerre persiane, Pausania, che dopo aver riportato
in patria le ossa di Leonida, si lasciò influenzare dallo sfarzo dei persiani ed era pronto a
mettersi a capo delle rivolte degli iloti, che minacciavano di esplodere approfittando del
disordine creato dalla guerra. Per sfuggire alla condanna Pausania si rifugiò nel tempio di
Atena a Sparta, ma lì fu murato vivo.
Taccio della graphé: box???
L’ETÀ DI PERICLE (461-429 a.C.)
LA STORIA
L’ascesa di Pericle (461 a.C.)
Dopo un decennio in cui in Atene si alternarono al potere la fazione conservatrice e quella radicale,
nel 461 a.C. venne eletto stratega, a soli trent’anni, Pericle, figlio di Santippo, il vincitore della
battaglia di Micale, che aveva preso parte alle riforme di Clistene, e imparentato per parte di madre
con Clistene e quindi con la famiglia degli Alcmeonidi.
Uomo intelligente e colto, Pericle diede una svolta radicale alla democrazia e alla cultura ateniese
di cui è diventato l’emblema storico.
La politica estera di Pericle (461-445 a.C.)
Il primo decennio del potere di Pericle fu caratterizzato da una politica imperialista e aggressiva.
Militarmente però non si può dire che Pericle abbia ottenuto grandi successi.
…nei confronti della Persia
Contro l’impero persiano appoggiò la rivolta di un principe locale di nome Inaro, scoppiata in
Egitto nel 460 a.C. e conclusa nel 454 a.C. con la sconfitta dei ribelli e dell’esercito ateniese, che
perse 200 navi e migliaia di uomini. Pericle capì che gli conveniva chiudere il fronte antipersiano e
concluse con l’impero, nel 449 a.C., la pace di Callia (dal nome del cittadino ateniese che condusse
le trattative): Atene rinunciava ad espandersi verso oriente, la Persia si impegnava a non intervenire
più nell’Egeo.
…nei confronti di Sparta
Per contrastare Sparta Pericle agì sulle città alleate, nel tentativo di sottrarle alla Lega
Peloponnesiaca.
 Aiutò Argo, tradizionalmente avversaria di Sparta.
 Attrasse Mantinea e Megara nella Lega Delio- attica, provocando la reazione di Corinto,
alleata di Megara nei commerci.
 Si alleò con la Beozia.
Nel 455 a.C. l’impero ateniese raggiunse il culmine della sua estensione (inserire carta con dida dei
confini)
L’atteggiamento di Pericle provocò la reazione spartana nel 457 a.C. e lo scoppio della prima
guerra del Peloponneso che, dopo una decina d’anni di scontri poco significativi, nel 445 a.C. si
concluse con una tregua trentennale con cui Atene dovette rinunciare all’alleanza con Megara, la
Beozia, la Locride e la Focide, e le due poleis rivali stabilirono le reciproche sfere di influenza,
limitandole alle città delle due rispettive Leghe. Il disegno di innalzare Atene a potenza terrestre
aveva fatto naufragio e Atene dovette accontentarsi di essere potenza marittima, stringendo legami
sempre più stretti con gli alleati della Lega.
…nei confronti della Lega Delio-attica
Il campo in cui più evidentemente si rivelò l’imperialismo ateniese fu proprio nei confronti degli
alleati. I rapporti di Atene con la Lega Delio-attica si sbilanciarono sempre più a favore della
fondatrice dell’alleanza, che trasformò la sua “egemonia” in arché, “impero”, rendendo sudditi i
liberi alleati:
 le contribuzioni delle città alleate per il mantenimento della flotta e le spese di guerra
divennero veri e propri tributi, che Pericle usò per finanziare i suoi progetti;
 il tesoro comune fu spostato da Delo ad Atene (454 a.C.), dove veniva amministrato dagli
ellenotami senza darne più conto alla Lega;
 il Consiglio direttivo della Lega non fu più convocato e le decisioni furono prese
dall’ecclesia ateniese;
 il tribunale d’appello fu quello ateniese: in questo modo, Atene controllava anche la
giustizia delle alleate, che persero così la loro autonomia;
 si proibì agli alleati di coniare moneta e si impose l’uso della dracma ateniese, che così
manteneva il controllo dei mercati e dell’economia;
 si impedì alle città alleate di uscire dalla lega e ogni tentativo di rivolta fu duramente
represso;
 nelle zone che avevano tentato di ribellarsi furono fondate cleruchíe, cioè colonie, in cui
trovava sfogo l’incremento demografico ateniese, ma che erano anche presidi militari per
controllare da vicino le città formalmente alleate, ma in realtà ormai suddite.
La democratica Atene si trasformò quindi in una città tiranno nei confronti degli alleati.
LE ISTITUZIONI
Pericle primo cittadino (461-429 a.C.)
«Per tutto il tempo che fu a capo della città in periodo di pace, governò sempre con moderazione,
garantì la sicurezza della città, la quale sotto di lui raggiunse il massimo splendore. […] Il suo
potere si fondava sulla considerazione di cui godeva. Quando si accorgeva che quelli [i cittadini in
assemblea] si abbandonavano a sconsiderata baldanza, li colpiva con le sue parole, portandoli allo
sgomento, per ricondurli poi ad uno stato d’animo di rinnovato coraggio, se li vedeva in preda ad
una paura irrazionale. Di nome, a parole era una democrazia, di fatto il potere del primo
cittadino.» (Tucidide, II, 65, 5-9 in Canfora, p. 114)
Tucidide delinea chiaramente che il potere di Pericle, di fatto il potere di uno solo in un regime
ormai soltanto apparentemente democratico, era fondato sul suo carisma. Tale era la sua abilità nel
condurre il popolo senza mai lasciarsi trascinare dalle passioni popolari che riuscì a farsi rieleggere
per trent’anni alla strategia, cioè alla massima carica elettiva, che gli permetteva di governare
ogni aspetto della vita della polis. Non solo la rielezione consecutiva gli permise di portare a
termine il suo vasto programma politico, ma anche di non doverne render conto al popolo. Infatti
allo scadere di ogni magistratura bisognava affrontare un processo, il rendiconto, con cui si
verificava la correttezza e l’efficacia dell’operato del magistrato. Pericle però poté rinviare di anno
in anno il rendiconto perché continuava ad essere rieletto anche per l’anno successivo.
Egli non agiva tuttavia in nome dei propri interessi personali, quanto per l’ambizione di
accrescere il potere di Atene, per renderla egemone su tutto il mondo greco. Non è improbabile
che aspirasse addirittura a creare uno stato unitario sotto la guida di Atene.
La politica interna di Pericle
Anche se può apparire un paradosso, l’imperialismo ateniese in politica estera fu lo strumento di
cui Pericle si servì per rafforzare la democrazia nel governo della città. Per garantirsi il consenso
più ampio possibile, infatti, lo stratega aveva bisogno di ampliare la base degli elettori, favorendo la
partecipazione politica degli strati più bassi della popolazione che, tradizionalmente, si occupavano
poco di politica perché non potevano trascurare il proprio lavoro, che dava loro da vivere. Pericle
pertanto fece varare leggi e provvedimenti che modificarono la costituzione di Clistene in senso
sempre più democratico. Così:
- furono retribuite le attività, finora gratuite, di magistrati, membri del Consiglio dei
Cinquecento, giudici popolari;
- furono assegnate per sorteggio e non per elezione, tutte le magistrature, anche l’arcontato,
escluse quelle per le quali erano necessarie conoscenze specifiche: stratega, arconte
polemarco, e poche altre soprattutto di carattere finanziario;
- fu ridotto, con una legge del 451 a.C., il numero di coloro che avevano diritto alla
cittadinanza ateniese, riservata da quel momento solo a quelli che avevano entrambi i
genitori ateniesi. Era un provvedimento teso ad evitare che si dovesse spartire il denaro
pubblico tra troppi cittadini, riducendone la quantità per ciascuno. Ad Atene, su una
popolazione stimata di 250.000 persone, furono considerati cittadini solo 30-40.000
individui e di questi solo pochissimi potevano aspirare alle magistrature per le quali erano
necessarie competenze precise. Con questa legge, però, né Temistocle né Cimone avrebbero
potuto essere cittadini ateniesi, visto che non avevano madre ateniese.
Solo alla fine del secolo invece fu introdotto anche un gettone di presenza per chi partecipava alle
adunanze dell’ecclesia (per compensare la giornata di lavoro persa) e l’essere cittadino divenne un
vero e proprio “mestiere”, suscitando scandalo presso i benpensanti aristocratici.
La politica di Pericle tese a potenziare l’importanza dell’ecclesia e dell’eliea, il tribunale popolare,
ma, per evitare eccessive tensioni con l’aristocrazia, mantenne in vita l’areopago, limitandone le
funzioni a quelle di tribunale per i reati di sangue, mentre lo privò della prerogativa di controllare
sull’operato dei magistrati. Siccome in tribunale va a finire ogni tipo di conflitto, soprattutto quelli
riguardanti la ricchezza e la correttezza della gestione politica, sottrarre l’organo più importante
della città all’assemblea che rappresentava l’aristocrazia, cioè l’areopago, e affidarlo ai ceti
popolari, e soprattutto ai teti ingaggiati nella flotta, significava spostare decisamente il potere verso
le classi “basse”.
La democrazia imperialista
Le riforme di Pericle erano evidentemente molto costose e le casse dello stato andavano
rimpinguate costantemente. Nel mondo greco non esisteva un sistema di tassazione e la ricchezza
derivava allo stato ateniese dalle tasse portuali (circa il 2% del valore delle merci), dallo
sfruttamento delle miniere del Laurio e del Pangeo, da una tassa a carico degli stranieri, dalle
multe. Le cifre così ottenute non erano però sufficienti alla politica di crescita democratica voluta
da Pericle: servivano altri fondi: furono forniti dai tributi degli alleati. L’imperialismo divenne
quindi strumento della democrazia. Sia pure con tutt’altro tipo di meccanismi, qualcosa di simile è
accaduto in epoche assai più recenti (v. Usa a fine capitolo)
ECONOMIA E SOCIETÀ
In cambio di voti, posti di lavoro… e arte
Per realizzare le opere pubbliche, erano sempre stati gli aristocratici a fornire le liturgíe
(letteralmente “servizi per la comunità”), una forma di autotassazione con cui i nobili si
assumevano il peso di finanziare varie attività di pubblico interesse: organizzare feste, cerimonie
religiose e spettacoli teatrali (coregía), allestire navi da guerra (trierarchía) ecc. La liturgia era
un’usanza antica e risaliva all’epoca in cui le famiglie nobili traevano prestigio dalla dimostrazione
di generosità nei confronti della collettività. Pericle rese obbligatoria la liturgia per i più ricchi.
Tuttavia il suo piano di sviluppo era assai ambizioso e il provvedimento non era sufficiente a
finanziarlo. Egli intendeva infatti incrementare decisamente i lavori pubblici con due finalità:
1. dare lavoro ai teti, ai nullatenenti, per ampliare ulteriormente il consenso popolare alla sua
politica e ottenere in assemblea la maggioranza per le sue proposte: per questo fine, come
sospetta qualche critico, i lavori per il completamento dell’acropoli durarono molto a lungo,
mantenendo vivo il consenso popolare;
2. dare alla città un aspetto nuovo e prestigioso di fronte agli occhi del mondo intero.
Era chiaro che Pericle non poteva ottenere ulteriori finanziamenti da nobili suoi avversari politici e
praticamente ormai esclusi dalla politica. Ancora una volta furono gli introiti della Lega a
permettergli di trasformare Atene nella capitale della cultura e di dare inizio all’epoca classica della
grecità.
Box su Aspasia??? (Canfora, p. 122) Ambiguo malanno p. 70 e altri
Affiancato dalla sua compagna, l’etera Aspasia, che fondò un circolo di intellettuali, Pericle si
circondò e finanziò letterati, artisti come Fidia, storici come Erodoto, filosofi come Anassagora e
Protagora. Da completare
CULTURA
LA CULTURA AL SERVIZIO DELLA POLITICA
Tutti i campi della cultura furono coinvolti dalla profonda trasformazione operata da Pericle.
L’arte del bello (potrebbe anche essere una semplice dida)
Pericle completò la ricostruzione della città e in particolare dell’acropoli affidandola allo scultore e
architetto Fidia che ne fece il capolavoro indiscusso dell’intero mondo greco: Propilei, Eretteo,
Partenone, statua gigantesca d’oro e avorio di Atena sono ancora oggi, con il loro equilibrio e la
loro perfezione formale, i monumenti simbolo dell’Atene periclea e della stessa cultura occidentale.
(v. tablet). Oltre all’amore per l’arte, a spingere lo statista erano ragioni politiche: Atene doveva
mostrare al mondo la sua potenza attraverso lo splendore e la ricchezza dei suoi monumenti.
Non si può dire, d’altro canto, che non fosse anche previdente e forse anche preoccupato del futuro
della città, ben sapendo a quale avventura la stava preparando: lo scontro con Sparta. Nel
Partenone, il più splendido tempio greco, dedicato alla dea vergine (parthénos) Atena, protettrice
di Atene, egli conservò un tesoro di mille talenti, una somma eccezionale, che per decreto stabilì
non si dovesse spendere se non in caso di pericolo estremo, in cui fosse a rischio la stessa
sopravvivenza della città. La sua scelta ha sapore profetico, perché il tesoro verrà effettivamente
utilizzato proprio per salvare la città nel corso della guerra da Pericle stesso avviata.
Box lessicale
Il talento ateniese
Il talento ad Atene era d’argento e valeva 26,2 kg. I mille talenti di Pericle erano 26,2 tonnellate
d’argento che con la quotazione attuale dell’argento??? Corrispondono a??? euro: completare
4.2 La filosofia della parola politica
Se Atene fu in grado di diventare la capitale della cultura fu perché fu cosmopolita e la sua ricerca
aperta ai contatti con altri popoli, cui l’avvicinavano i commerci, la aprì ad altre culture e modi di
pensare e sviluppò il suo senso critico, mise in discussione le certezze, fino a dar vita a nuove
forme di pensiero con la filosofia, creazione tutta ateniese.
Come sappiamo, il luogo ufficialmente deputato al dibattito e alle decisioni politiche era ad Atene
l’ecclesia, in cui vigevano i principi della parrhesía, la libertà di parola, e dell’isegoría, la parità di
diritto a prendere la parola. Per ottenere, tuttavia, l’approvazione di una propria proposta, chi
prendeva la parola, l’oratore, doveva avere la capacità di convincere la maggioranza dell’ecclesia.
Per questo erano le persone in genere più colte ad avere la meglio.
Con l’estendersi dei poteri dell’assemblea un maggior numero di persone sentì l’esigenza di
imparare le tecniche necessarie per convincere gli altri e avere la meglio in assemblea e nei
tribunali. Nacquero allora dei veri maestri della parola, i sofisti (letteralmente “sapienti”), filosofi
che insegnavano la retorica, l’arte della parola: per la prima volta la filosofia divenne una
professione retribuita, e anche profumatamente, da quanti volevano fare carriera politica.
Nel contempo, i sofisti modificarono definitivamente il corso della filosofia. Mentre fino a quel
momento i filosofi erano essenzialmente studiosi della natura, scienziati potremmo definirli oggi,
con i sofisti la filosofia cominciò ad affrontare i grandi temi dell’umanità e a studiare il pensiero.
Essi non affrontarono però i temi del bene e del giusto, anzi scardinarono le idee tradizionali per
affermare un assoluto relativismo (G): «L’uomo è la misura di tutte le cose» sosteneva Protagora,
uno dei massimi filosofi sofisti, amico di Pericle: non esiste una verità oggettiva, ma solo opinioni
soggettive. Tra esse prevarrà quella che sarà espressa nel modo più convincente.
Dalla democrazia alla demagogia
Le conseguenze politiche delle teorie dei sofisti non si fecero sentire finché il potere fu nelle mani
di Pericle, che «governò sempre con moderazione» perché «era personaggio potente, per prestigio e
lucida capacità di giudizio, assolutamente trasparente e incorruttibile, reggeva saldamente il popolo
senza però violar la libertà e non si faceva guidare da esso più di quanto non lo guidasse lui, poiché
non cercava di conseguire il potere con mezzi impropri e perciò non era costretto a parlare per
compiacere l’uditorio.» (Tucidide, II, 65, 5-9 trad. Canfora???, p. 114).
Ma quando Pericle morì, il potere finì nelle mani di coloro che «presero per ambizioni personali
altre iniziative» (Tucidide) e la democrazia degenerò nella demagogia, nel potere di chi sapeva
“condurre il popolo” (questo è il significato del termine) dove voleva, facendo leva sui desideri più
bassi delle masse.
In particolare, i lavoratori impegnati nella flotta che si ritenevano, in un certo senso, i fondatori
dell’impero ateniese, visto che erano essi, in pace, a creare il benessere dei ricchi col proprio lavoro
e, in guerra, a difenderlo, aspiravano sempre più a governare direttamente lo Stato. Non era difficile
per chi sapeva usare la parola averli dalla sua parte. L’antidoto alla degenerazione della democrazia
sarebbe potuto essere un innalzamento del livello culturale e delle capacità critiche del “popolo”,
anche se, bisogna dire, rispetto ad altri popoli gli ateniesi non erano del tutto incolti.
Il grado di alfabetizzazione degli ateniesi
Il popolo di Atene non era analfabeta: intorno al 500 a.C. quasi tutti gli Ateniesi, anche quelli
poveri, sapevano leggere e scrivere. Anche se non esistevano scuole statali, le scuole private erano
economiche e per una cifra modesta un maestro insegnava a leggere e a scrivere. Anche la
partecipazione alle assemblee popolari, in cui venivano discusse le questioni politiche all’ordine del
giorno, contribuiva a istruire anche i nullatenenti.
Il teatro come dibattito
L’espressione più alta della cultura e della democrazia ateniese fu rappresentata dal teatro. Tragedia
e commedia, generi nati da poco, si svilupparono proprio nella democrazia, per dare voce alla città
con le sue contraddizioni, i suoi conflitti, i suoi problemi, attraverso testi che traevano spunto
dall’attualità, come La presa di Mileto di Frinico o i Persiani di Eschilo (v. Tra storia e leggenda
prec.), ma anche quando la trama era tratta dal mito. Gli spettacoli avevano carattere religioso e si
celebravano in occasione delle feste in onore di Dioniso, ma assunsero presto un significato
politico, come momento di discussione così importante per la vita della città che Pericle istituì il
teoricón, un fondo per il teatro che forniva ingressi gratuiti per i poveri.
Mentre all’ecclesia partecipava di fatto un numero ridotto di cittadini (in media 5-6000) e il loro
diritto alla parola si riduceva spesso solo alla possibilità di interrompere la parola altrui con l’urlo,
lo schiamazzo, perché non tutti avevano le capacità oratorie dei più colti, il teatro era il luogo in cui
enormi masse popolari si affollavano e si affrontavano per discutere i temi più sentiti e attuali, dalla
politica, alla morale, alla guerra. Spesso era il luogo dove meglio potevano esprimere la propria
critica alla democrazia e alle sue degenerazioni (ad esempio con la satira delle commedie di
Aristofane) anche gli oppositori del regime democratico e i nobili, esautorati del loro potere
nell’assemblea, che essi ormai disertavano quasi sempre. Accanto all’assemblea e ai tribunali, il
teatro fu il pilastro del funzionamento politico della città: fu in queste tre sedi che la comunicazione
fu davvero generale e immediata.
Da inserire sul tablet anche La scienza e Ippocrate ???? e la storiografia: Erodoto e Tucidide ?????
inizio del percorso sulla democrazia che hanno alcuni manuali recenti:Airoldi, Marisaldi p. 153,
Brancati 137, Bettini???
Che cos’è la democrazia per gli ateniesi?
Il primo a citare la parola “democrazia” fu Erodoto, che parlava di una “costituzione democratica”
(VI, 43, 3) e della nascita del regime democratico con Clistene (VI, 131,1), ma è Tucidide (VI, 89) a
fare la distinzione tra “demos”, come antitesi della tirannide, e “democrazia” come forma
degenerata e, come dice Alcibiade, nella sua autodifesa davanti a Sparta, “impazzita” del regime
popolare.
È probabile che il termine demokratia sia stato coniato dai nemici del demos, per esprimere la
prevalenza di una parte più che la partecipazione paritetica di tutti indistintamente alla vita della
città, che i greci indicavano piuttosto con isonomia.
Anche Platone considera la democrazia il potere dei più poveri e non della maggioranza, che si
indica con plethos, non con demos.
Per demokratia i greci intendevano quindi la prevalenza incontrollata del demo che aveva ottenuto
con la democrazia numerosi privilegi, tra cui il salario minimo per tutti. Quando però la guerra del
Peloponneso metterà in crisi Atene, gli oligarchici sosterranno che soltanto ai cittadini in grado di
equipaggiarsi per la guerra, non più di cinquemila, avrebbero dovuto avere il diritto a un salario.
Con la fine delle poleis la democrazia diventerà un ricordo.
Box sul discorso di Pericle di Tucidide??? Feltri p. 190 Calvani p. 252
La democrazia nasce solo quando il popolo la difende dal tentativo di Isagora???
Geo Attualizzazione: La politica imperialista della più grande democrazia moderna: Gli USA
LA GUERRA DEL PELOPONNESO
IL TEMPO: 431-362 a.C.
In grigio le parti che si potrebbero tagliare
Inserire una o più carte con indicazione di tutti i luoghi citati nel testo
L’ANTEFATTO
La guerra narrata da un testimone
La guerra che sconvolse il mondo greco e avviò la decadenza delle poleis, la seconda guerra del
Peloponneso, ci è stata tramandata dal racconto, quasi in presa diretta, dello storico ateniese
Tucidide, che cominciò a scriverla «subito al suo sorgere e immaginandosi che sarebbe stata grande
e la più importante di tutte quelle avvenute fino ad allora. Lo immaginava deducendolo dal fatto che
le due parti [Sparta e Atene] si scontrarono quando entrambe erano al culmine di tutti i loro mezzi
militari e vedendo che il resto della Grecia si univa all’uno o all’altro dei due contendenti, gli uni
subito, e gli altri ne avevano l’intenzione. Certo, questo è stato il più grande sommovimento che
sia mai avvenuto fra i Greci […]. Mai tante città furono conquistate e spopolate […] né mai
avvennero tanti esili e tante stragi, […] grandi siccità e, in conseguenza di esse, carestie, e
quell’epidemia che produsse non piccoli danni e distruzioni, la peste: tutto questo ci assalì insieme
a questa guerra. La iniziarono Ateniesi e Peloponnesi, rotta la tregua dei trent’anni […]. Il
motivo più vero, ma meno dichiarato apertamente, penso che fosse il crescere della potenza
ateniese e il suo incutere timore al Lacedemoni, sì da provocare la guerra.» (Tuc I,1,1-2 e 23,1-5)
La fase di preparazione
Tucidide, col suo fine intuito, individuò esattamente la responsabilità che i suoi concittadini ebbero
nello scoppio del conflitto. Per garantire il consenso popolare alla sua politica e trovare i fondi
necessari a mantenere l’enorme massa di cittadini che ormai dipendevano dallo stato, Pericle
doveva ampliare l’impero e non poteva farlo senza affrontare una guerra. Ma doveva farlo al più
presto, prima che l’impero stesso fosse indebolito da ribellioni e defezioni delle città alleate,
appoggiate da Sparta.
Occorre dire che fino a quel momento Pericle non aveva ottenuto grandi vittorie contro gli avversari
storici di Atene: con l’impero persiano aveva dovuto stipulare un trattato di pace (pace di Callia del
449 a.C.) e con Sparta una tregua (che concludeva la prima guerra del Peloponneso nel 445 a.C.).
Con quei trattati aveva tuttavia garantito alla città attica libertà di commerci nell’Egeo. Ben presto
le attività commerciali ateniesi cominciarono però a collidere con quelle dell’altra grande potenza
commerciale, Corinto, alleata di Sparta. Fu allora che tra le due potenze scoppiò la lotta per il
controllo dei mercati.
Cancellare???
Per danneggiare la rivale Corinto, Pericle, nel 433-432 a.C.:
 appoggiò Corcyra (l’attuale isola di Corfù) che si era ribellata contro la madrepatria
Corinto;
 assediò e conquistò Potidea, colonia corinzia nella penisola Calcidica, che aveva aderito alla
Lega Delio-attica, ma voleva uscirne dopo l’aumento del tributo stabilito da Atene: Pericle
ne fece abbattere le mura e la costrinse ad accogliere una cleruchia ateniese (v. p. cap.
prec.).
Lo stratega ateniese attaccò poi anche un’altra alleata di Sparta, Megara, sull’istmo di Corinto,
contro cui fece varare in assemblea un decreto che chiudeva ai suoi commercianti tutti i mercati
controllati da Atene (un vero e proprio embargo (G), che soffocava l’economia di Megara). Corinzi
e megaresi si rivolsero a Sparta, che si rese conto che non potevano coesistere due imperi, come di
fatto erano diventate le due Leghe, concorrenti nella stessa area geopolitica. Uno dei due era
destinato a soccombere. La ripresa della guerra era inevitabile e scoppiò nel 431 a.C., ben prima
della scadenza della tregua dei trent’anni, stipulata nel 445 a.C. (v. prec.???)
La strategia lungimirante di Pericle aveva già indicato una direttiva ad Atene: chiusi tutti i cittadini
tra le mura imprendibili che proteggevano la città, protetta la via di comunicazione col Pireo dalle
Lunghe mura, salvi i rifornimenti via mare, abbandonati i campi al saccheggio degli spartani, gli
ateniesi avrebbero potuto resistere all’infinito ad un assedio e avrebbero continuato a dominare sul
mare, mantenendo salda la propria economia. La strategia periclea era però impopolare,
soprattutto presso i contadini che vedevano i loro campi in costante pericolo. La speranza era che
Sparta, la quale basava la propria ricchezza sull’agricoltura e aveva meno risorse economiche di
Atene, si logorasse in una guerra lunga e dispendiosa.
1.3 La guerra “mondiale” (431-404 a.C.)
La seconda guerra del Peloponneso coinvolse l’intero mondo greco in modo capillare e devastante,
perché non contrappose soltanto le due avversarie e le loro rispettive alleate, ma ebbe effetti anche
all’interno delle singole città, dove le fazioni contrapposte di aristocratici e democratici si
scontrarono in guerre civili micidiali.
«A tal segno progredì la spirale atroce della lotta civile; e sanguinò più acerba la ferita inflitta alla
coscienza del mondo, poiché fu quello il primo di una catena lunga d'orrori che in un progresso di
tempo implicò e travolse fino agli estremi confini, si può dire, l'universo greco. Dovunque si
ergevano armati, l'uno contro l'altro, i condottieri dei partiti popolari e di quelli oligarchici che
mettevano capo rispettivamente all'appoggio di Atene e di Sparta. In periodo di pace questi paesi
non disponevano di pretesti ragionevoli, né quindi della volontà politica per appellarsi alle potenze
egemoni. Mentre quando s'aprì il conflitto divenne anche più consueta e piana la pratica, per chi
coltivava e metteva a frutto in ogni città i germi rivoluzionari, di ricorrere con successo
all'intervento delle due rispettive coalizioni alleate, per indebolire le parti avverse e, al tempo stesso,
migliorare le proprie prospettive. Le interne scosse segnarono a fondo le città con le infinite tracce
del tormento e del sangue» (Tuc III, 82 da Internet, devo controllare di chi è la trad.?)
La guerra “totale”
È sulla scorta di quanto narra Tucidide che anche gli storici moderni preferiscono parlare di
un’unica guerra per i tre diversi conflitti che si svolsero nell’arco di ventisette anni ed ebbero la
durata più lunga tra tutti quelli della storia greca. Prima di allora (a parte la leggendaria e remota
guerra di Troia), i conflitti si risolvevano in poco tempo e con poche battaglie (si pensi, ad esempio,
alle guerre persiane). Nel caso della guerra del Peloponneso invece si creò per quasi un trentennio
uno stato di tensione permanente tra le due città che si contendevano il dominio sull’intero mondo
greco, con periodi di scontri più impegnativi e momenti di scontri marginali e con il continuo
tentativo di ampliare il numero dei propri alleati. Era come se ognuna delle due potenze belligeranti
aspettasse il momento in cui imporre all’avversario lo scontro risolutivo, nelle condizioni a lui più
sfavorevoli, per distruggerlo definitivamente: in questo senso si può parlare di guerra totale. Ma la
vittoria totale comportava anche la distruzione del sistema politico-sociale dell’avversario.
LA PRIMA FASE DELLA GUERRA (FASE ARCHIDAMICA, 431-421 a.C.)
La prima catastrofe
La strategia di Pericle si rivelò subito perdente perché provocò un effetto imprevisto. Inizialmente
avvenne esattamente quello che lo stratega aveva previsto: le truppe di Sparta, guidate dal re
Archidamo (che diede il nome a questa prima fase della guerra) dilagarono ripetutamente in Attica,
saccheggiarono e devastarono le campagne, ma tutti gli abitanti della regione si rifugiarono
all’interno delle mura di Atene, riforniti dalle merci che arrivavano al Pireo e venivano trasportate
in città sulla strada protetta dalle Lunghe mura. Quando però scoppiò un’epidemia di peste, dopo
appena un anno di guerra, l’assembramento in spazi tanto ristretti e in condizioni igieniche precarie
alimentò spaventosamente il contagio. Tucidide ne parla con toni tanto drammatici da trasformare il
suo racconto storico in un testo narrativo di grande efficacia, modello della rappresentazione della
peste di tutti i tempi.
Inserire passo di Tucidide in scheda Tra storia e leggenda
La morte di Pericle e i suoi successori (429 a.C.)
Moltissimi gli ateniesi colpiti dal morbo e tra essi lo stesso Pericle che morì nel 429 a.C. A capo
della fazione democratica gli succedette Cleone che segnò il deterioramento della democrazia. Egli
fu considerato dai suoi contemporanei come colui che più di ogni altro contribuì a corrompere il
demo, colui che per primo «si mise ad urlare alla tribuna, a vomitare ingiurie, a parlare scoprendosi
in modo scomposto», come afferma Aristotele (Athenaion Politeia, 28,3 citata in Canfora, p. 130:
inserire qualche brano???). Anche peggiori le accuse che gli rivolse il commediografo Aristofane.
Cleone, spinto da ambizioni personali, era fautore della guerra ad oltranza e riusciva a far leva sugli
istinti peggiori del demo. Per dieci la guerra si protrasse senza eventi decisivi (v. La storia in breve):
ogni estate gli spartani dilagavano nelle campagne dell’Attica, ritirandosi alla fine della stagione,
ma Atene sopravviveva grazie ai proventi dei suoi commerci, e attaccava a sua volta le coste del
Peloponneso, senza affrontare però Sparta sulla terraferma. La fase si concluse con la pace di Nicia
del 421 a.C.
La storia in breve
Scontri senza fine
I rari scontri non furono mai risolutivi. Nel 425 a.C. gli ateniesi inflissero una sconfitta a Sparta
conquistando la piccola isola di Sfacteria, posta nel golfo di Pilo sulla costa sud-occidentale del
Peloponneso, e catturando il contingente spartano che la presidiava.
Sparta riuscì però a impadronirsi di alcune alleate ateniesi nella penisola Calcidica, raggiunta via
terra dagli opliti al comando di Brasida, un comandante geniale che per primo portò un esercito
spartano a combattere per un lungo periodo lontano dal Peloponneso.
Ma poi, nella battaglia di Anfipoli in Tracia, nel 422 a.C. morirono entrambi i generali Cleone e
Brasida. Ad Atene prevalse allora Nicia, un aristocratico che perseguiva una politica moderata di
alleanze con gli spartani. Fu lui a condurre le trattative che portarono alla cosiddetta pace di Nicia
nel 421 a.C., che stabiliva la reciproca rinuncia delle due città alle conquiste fatte a danno
dell’avversaria e la restituzione dei prigionieri.
Scheda Tra storia e leggenda
Melo: un falso storico?
I patti stabiliti dalla pace di Nicia non furono del tutto rispettati, e le due potenze «si colpivano
reciprocamente altrove evitando di attaccare direttamente il territorio avversario, in uno status di
tregua insicura» (Tucidide), ma fu soprattutto un episodio a passare alla storia come un esempio
increscioso dello spietato imperialismo ateniese. Secondo il racconto di Tucidide l’isoletta di Melo,
fino ad allora neutrale, fu costretta ad entrare nella Lega di Delo perché era intollerabile agli
ateniesi che un’isola dell’Egeo non ne facesse parte come tutte le altre. Al suo rifiuto, l’isola venne
espugnata, i suoi abitanti maschi massacrati e donne e bambini venduti come schiavi. Nell’antefatto
dell’episodio, Tucidide costruisce un dialogo che sarebbe avvenuto tra gli ambasciatori di Melo e
quelli ateniesi.
Inserire testo
Recentemente uno studioso italiano, Luciano Canfora, ha dimostrato che Tucidide, nella
ricostruzione dell’episodio, tace particolari essenziali per spiegare le ragioni della decisione di
Atene, che ci sono invece pervenuti da altre fonti:
1. Melo era precedentemente entrata nella Lega Delio-attica, aveva continuato a pagare i suoi tributi
fino al 425 a.C., sebbene nel 426 a.C. avesse subito incursioni ateniesi sul suo territorio;
2. poi aveva però defezionato, con la guerra ancora in corso, ed era passata decisamente dalla parte
di Sparta, fornendo aiuti finanziari a sostegno dello sforzo bellico spartano;
3. la punizione di Melo avvenne però nel 416 a.C., ben cinque anni dopo la stipula della pace di
Nicia del 421 a.C.;
4. a volerla fu Alcibiade, che stava preparando la spedizione contro Siracusa (approvata
dall’assemblea solo qualche settimana dopo) e quindi prevedeva la ripresa delle ostilità contro
Sparta. È probabile quindi che Alcibiade ritenesse indispensabile che tutto l’Egeo fosse sotto il
controllo ateniese: la punizione di Melo doveva essere, in quel momento cruciale, un monito per le
altre città della Lega a non defezionare.
I particolari che lo storico greco tace cambiano radicalmente la prospettiva con cui da secoli si
guarda a quell’episodio: Melo non sarebbe, infatti, l’isola neutrale ingiustamente aggredita da
Atene, come sostiene Tucidide, ma una ex alleata punita, come altre, perché ha defezionato, ha
fornito aiuti a Sparta e perché Alcibiade voleva riprendere la guerra e assicurarsi la fedeltà della
Lega.
Ma perché Tucidide ha taciuto? Secondo Canfora perché voleva assumere «l’eccidio dei Melii
come emblema della deriva tirannica dell’impero ateniese. Che è uno dei fili conduttori, forse il più
rilevante, dell’intera sua opera.» (Il mondo di Atene, Editori Laterza, Bari 2012, p. 175). Tacendo le
responsabilità di Alcibiade nell’eccidio, inoltre, Tucidide faceva risalire, ancora una volta come
sempre in tutta la sua opera, le responsabilità dell’eccidio soltanto al popolo ateniese e non ai
politici che lo governavano. La sua visione della democrazia è quella del potere tirannico del demo
(v. cap. L’età di Pericle e il percorso).
LA SECONDA FASE DELLA GUERRA (LA SPEDIZIONE IN SICILIA, 415-413 a.C.)
La guerra mediterranea
Dopo un periodo di tregua armata, o infida come la definisce Tucidide, in cui le ostilità si
manifestavano con scontri “delocalizzati” (v. scheda su Melo), il conflitto riprese quando Atene
decise di estendere l’impero anche al Mediterraneo occidentale. Aveva già tentato di intervenire in
Sicilia nel 426 e nel 422 a.C., ma fu quando pervenne una richiesta di aiuto della città siciliana di
Segesta in guerra contro Selinunte e Siracusa, alleate di Sparta, che la guerra del Peloponneso
divenne guerra mediterranea, e si estese da Siracusa al Bosforo, all’Egeo, alle isole dell’Asia
occidentale.
A volere riaprire le ostilità fu un giovane aristocratico, Alcibiade, parente di Pericle, che lo aveva
allevato nella sua casa a contatto con i più grandi intellettuali dell’epoca. Il giovane spregiudicato,
bellissimo, dalla vita sregolata e affascinante, maniaco dei cavalli e delle feste, risentiva
dell’influsso dei sofisti (v. cap. precedente) ed era spinto ad assumere un ruolo politico più dalla
personale ambizione che dall’interesse dello stato. Per mettersi in luce e contrastare il potere del
moderato Nicia, presentò all’ecclesia una spedizione in Sicilia in aiuto di Segesta, cioè di una
colonia greca, come un’impresa legittima, facile e assai vantaggiosa: avrebbe permesso di
impadronirsi della più fiorente colonia greca dell’Occidente, Siracusa, e in prospettiva di
contendere a Cartagine il controllo sulla zona occidentale dell’isola.
Nicia, che si presentava come il custode della direttiva di Pericle di non mettere a repentaglio lo
stato con imprese imperialistiche, era contrario all’impresa. Ma Alcibiade, che aveva il vantaggio di
essere parente proprio di Pericle, convinse l’assemblea: Nicia fu costretto ad accettare l’incarico di
comandante della spedizione insieme ad Alcibiade e Lamaco. Si allestì una flotta di 134 navi e
30.000 uomini, ma quando, nella tarda primavera del 415 a.C., l’esercito stava per salpare scoppiò
uno scandalo.
Lo scandalo delle Erme (415 a.C.)
Una notte vennero mutilate quasi tutte le Erme, cioè le statue del dio Ermes che adornavano, come
custodi e portafortuna, strade, piazze, incroci e facciate delle case private. Era un sacrilegio che
faceva temere l’ira degli dei, un presagio di sventura per la spedizione. Dilagò un clima di terrore.
Nel popolo sorse il sospetto che giovani aristocratici famosi per la loro vita dissoluta stessero
preparando una congiura contro la democrazia: il timore della tirannide ad Atene era un vero
incubo, un’angoscia cronica da quando erano stati cacciati i Pisistratidi nel 510 a.C. (v. cap???).
Circolarono voci che fosse implicato Alcibiade, poco amato per la sregolatezza del suo
comportamento. Egli chiese di essere processato subito per scagionarsi, ma gli avversari temevano
che l’esercito pronto a salpare potesse sostenerlo e garantirgli l’assoluzione. Così lo lasciarono
partire. In sua assenza ad Atene i sospetti su di lui crebbero a dismisura. Una volta che Alcibiade
giunse in Sicilia, dunque, Atene inviò la Salaminia, la nave dello stato, a prelevarlo per condurlo ad
un processo-farsa, il cui verdetto di morte probabilmente era già stato stabilito. Egli riuscì a fuggire
e a rifugiarsi presso amici a Sparta, e da allora fornì alla città nemica utili consigli contro Atene.
Box Storia di parole
Differenti modi di vedere la tirannide
Nell’aggressione a Siracusa gli ateniesi non si posero il problema che la città era greca e aveva un
governo simile al proprio. Infatti, a Siracusa vigeva, sì, una tirannide, ma il termine in Sicilia
manteneva il suo significato originario. La tirannide, come abbiamo già sottolineato (v. par. su
nascita poleis), nasceva in momenti di stasis in cui un individuo si faceva carico di risolvere i
problemi delle categorie emarginate, che chiedevano maggiori diritti ed erano pronte alla rivolta
sociale e alla guerra civile per ottenerli. Il tiranno diventava il garante delle classi escluse dal potere,
di solito oligarchico, e talvolta provvedeva persino ad abbattere l’oligarchia. Il termine tirannide
aveva avuto invece ad Atene un’evoluzione ed aveva assunto un significato diverso. Come si vede
nello scandalo delle Erme, il popolo ateniese «temeva una congiura oligarchica e tirannica» (Tuc.
VI, 60, 1): associava quindi l’idea di tirannide a quella dell’oligarchia.
A Siracusa, come in tutte le colonie greche in Sicilia e nella Magna Grecia, invece era la
democrazia a sfociare nel potere personale di uno, cioè in una tirannide, che tendeva a reprimere i
ceti alti, e questo può spiegare come mai questa forma di governo durasse presso di loro molto più a
lungo che in Grecia.
L’assedio di Siracusa (415-413 a.C.)
In assenza del maggior fautore della spedizione, il comando delle operazioni militari restò a Nicia,
che non credeva nell’impresa e condusse l’assedio di Siracusa con molta cautela, puntando più sulle
trattative che sulle azioni militari. Tuttavia nel 214 a.C. la città era ormai quasi completamente
conquistata sia per terra sia per mare, quando improvvisamente un contingente spartano, su
consiglio di Alcibiade, venne in aiuto di Siracusa e riorganizzò la resistenza sulla terraferma, mentre
una flotta, inviata in soccorso da Corinto, tolse agli ateniesi il dominio sul mare.
Le truppe ateniesi, accampate in terreni paludosi e malsani, colpite dalla malaria, chiesero rinforzi.
Gli aiuti da Atene arrivarono però solo nella primavera del 413 a.C. Un loro attacco contro Siracusa
fallì e i siracusani bloccarono anche la flotta ateniese in un luogo da cui non riuscì a prendere il
largo. Inutile anche il tentativo delle truppe di fuggire via terra: furono raggiunte poco lontano da
Siracusa e sconfitte. Nicia fu ucciso (Lamaco aveva già perso la vita in un precedente
combattimento), ben settemila soldati fatti prigionieri furono gettati nelle cave di pietra chiamate
latomie, dove morirono di stenti.
Dida immagine delle latomie e volendo dell’orecchio di Dionisio, con l’indicazione che a dare il
nome, secondo la tradizione, pare sia stato Michelangelo
LA TERZA FASE DELLA GUERRA (LA GUERRA DECELEICA, 413-404 a.C.)
Sparta si prepara alla vittoria
Nella decennale ricerca della vittoria finale, parve a Sparta che fosse giunto il momento dell’attacco
finale contro un’Atene prostrata dalla disfatta in Sicilia. Su suggerimento di Alcibiade, il comando
spartano adottò una nuova strategia.
 Fortificò la località di Decelea, posta nella Diacria, a 120 stadi a nord-est di Atene che da lì
si poteva vedere; vi insediò un presidio permanente in modo da tenere sotto assedio



costante Atene e bloccare le comunicazioni terrestri, anche verso le miniere d’argento del
Laurio, principale fonte di reddito per la città.
Si alleò con il Gran Re persiano che voleva approfittare della debolezza di Atene per
riconquistare le città ioniche.
Con l’oro ricevuto dall’impero persiano allestì una flotta in grado di fronteggiare la rivale
anche sul mare.
Favorì la defezione delle alleate di Atene dalla Lega Delio-attica.
La strenua resistenza di Atene
La sconfitta totale avrebbe significato per Atene la fine della Lega Delio-attica e quindi della
democrazia, che non avrebbe più potuto essere sostenuta dai tributi delle alleate. Fu il demo
pertanto a volere la prosecuzione ad oltranza della guerra, attingendo al tesoro dei mille talenti
d’oro, che Pericle aveva depositato nel Partenone per le situazioni di grave emergenza (v. L’età di
Pericle). Col denaro si poté ricostruire la flotta e continuare la guerra.
L’instaurazione di un governo oligarchico (411 a.C.)
Gli aristocratici non concordavano con la scelta dell’assemblea popolare e nel 411 a.C. una
congiura oligarchica riuscì a mettere a tacere il demo col terrore e misteriosi assassini. Pur
mantenendo in vita la costituzione democratica, svuotò di significato le sue istituzioni perché
l’assemblea decideva solo quello che stabilivano i congiurati, come la creazione di un Consiglio dei
Quattrocento cittadini scelti, cui fu affidato il governo cittadino. Il Consiglio provvide ad inviare
subito a Sparta proposte di pace immediata. Ma la città rifiutò le trattative perché non si fidava di
un governo privo di un reale appoggio popolare ed era convinta che il popolo ateniese avrebbe
ripreso il potere. Molte alleate della Lega Delio-attica passarono dalla parte di Sparta, sapendo che
Atene non aveva più la forza militare per attaccarle. Alcibiade, che inizialmente aveva ispirato la
congiura ma poi si era allontanato da Sparta, tentò di stipulare un’alleanza tra Atene e il Gran Re,
ma neanche il re persiano si fidava degli oligarchi ateniesi e rimase alleato fedele di Sparta.
Incapaci di concordia, come spesso accadeva tra gli oligarchi, il governo dei Quattrocento decadde
dopo solo quattro mesi, in seguito alla perdita dell’Eubea, conquistata dagli spartani.
Il ritorno di Alcibiade e la restaurazione della democrazia (408 a.C.)
Alcibiade si mise allora a capo della flotta ateniese stanziata presso Samo che voleva restaurare la
democrazia ad Atene. Nel 408 a.C., dopo aver ottenuto una serie di vittorie navali contro Sparta, il
comandante fu richiamato in patria e, accolto con tutti gli onori, ottenne i pieni poteri, restaurò la
democrazia e ridiede nuovo vigore alla città, malgrado la presenza degli spartani stanziati a
Decelea, sul suolo attico. Il suo prestigio era tale che gli strati più umili gli chiesero di assumere la
tirannide, che sembrava riacquistare l’originaria funzione di garanzia del demo, ormai deluso dai
politici. Alcibiade avrebbe preferito seguire la linea di Pericle e farsi rieleggere stratega ogni anno
per garantirsi i pieni poteri senza diventare tiranno, ma l’opposizione fece in modo di allontanarlo
di nuovo e definitivamente da Atene.
Le ultime battaglie (406-404 a.C.)
Anche senza più Alcibiade, nel 406 a.C. Atene riuscì a sconfiggere la flotta spartana alle isole
Arginuse, di fronte a Mitilene, nella più impegnativa battaglia navale di tutta la guerra, con ingenti
perdite umane anche da parte ateniese. Una tempesta dopo la battaglia rese impossibile il recupero
dei naufraghi e dei cadaveri dei soldati caduti in battaglia. I generali, pur vincitori, furono allora
processati in modo sommario e non del tutto legale e condannati a morte, sebbene si fosse opposto
alla decisione il filosofo Socrate (v. scheda) che in quei giorni faceva parte della pritania. La
condanna era un modo per gettare discredito su Alcibiade che con quei generali aveva collaborato.
La vittoria alle Arginuse non fu sufficiente a salvare Atene. Nel 405 a.C. ad Egospotami, nel
Chersoneso tracico, il generale spartano Lisandro distrusse completamente la flotta ateniese, che
era stata per altro mal governata e forse persino tradita dai suoi ammiragli. Poi bloccò Atene per
terra e per mare, la pose sotto assedio per nove mesi e nella primavera del 404 a.C. la costrinse alla
resa per fame.
Le conseguenze della guerra “totale”
Alla fine, la guerra del Peloponneso si concluse grazie al ribaltamento strategico della città
vincitrice. Lo spartano Lisandro, infatti, poté sconfiggere Atene solo grazie alla scelta di Sparta di
riconvertirsi in una potenza marittima per vincere l’avversaria proprio sul terreno in cui si
considerava (ed era stata per lungo tempo) imbattibile. La rivoluzione nel modo di fare la guerra fu
una conseguenza – e forse la più importante – della scelta di combattere una guerra “totale”, cioè
una guerra in cui erano entrati in gioco l’egemonia e i modelli politici delle due potenze. Per questo
Lisandro nel momento della vittoria finale pretese anche il cambio di regime nella città sconfitta.
La fine della guerra (404 a.C.)
Tebe e Corinto, alleate di Sparta e acerrime nemiche di Atene, ne chiesero la distruzione totale, ma
«gli Spartani replicarono che non avrebbero ridotto in schiavitù una città greca che aveva fatto
molto bene nel momento dei maggiori pericoli corsi dalla Grecia. E perciò stipularono un accordo
sulla base delle seguenti clausole: abbattere le Grandi Mura e il Pireo; consegnare tutte le navi
tranne dodici; far rientrare gli esuli; avere gli stessi amici e gli stessi nemici degli Spartani; accettare
la loro guida per terra e per mare» (Senofonte, Elleniche, II, 2, 1-23).
LA FINE DELLE POLEIS
Vincitrice per un anno (404-403 a.C.)
Con la fine della supremazia ateniese, sembrò che toccasse a Sparta sostituire la rivale
nell’egemonia sul mondo greco. E in effetti la città vincitrice del conflitto prese il controllo politico
di tutte le città greche, abbatté le costituzioni democratiche, instaurò e appoggiò regimi oligarchici
in diverse poleis, stanziando sul loro territorio presidi spartani armati, e affidò spesso il loro
governo ad armosti, cioè a governatori militari.
Ad Atene, sotto il controllo del comandante Lisandro e di una guarnigione spartana in armi, fu
ancora una volta l’ecclesia, ormai dominata dagli oligarchici, ad abbattere la democrazia,
eleggendo i Trenta, una magistratura straordinaria incaricata di scrivere una nuova costituzione.
Quando ne prese la direzione Crizia, i Trenta diedero vita a un regime truce, che operò arresti
arbitrari e ingiustificate condanne a morte, che valsero loro la nomea di Trenta tiranni.
Ma le società non si possono reggere con la forza e Sparta non aveva altro che il suo esercito, per
altro assai ridotto per le innumerevoli perdite subite nel lungo conflitto.
Sparta era ormai una città isolata sia geograficamente sia culturalmente: conservatrice e ostile a
qualsiasi progresso, aveva un numero ristrettissimo di cittadini dotati di pieni diritti (ridotti ora a
non più di duemila individui), non conosceva i commerci internazionali, non aveva neppure una
propria moneta. La sua classe dirigente, educata ad un rigido ideale guerresco, non era adatta a
soddisfare le esigenze di una società aperta ai commerci e alle espressioni più raffinate della
cultura; e non aveva né la mentalità né le risorse economiche per governare un impero, come
aveva fatto Atene. Il mare Egeo, senza il controllo delle navi ateniesi, era infestato dai pirati, le rotte
commerciali non erano più sicure. Occorrevano pace, sicurezza e ripresa dell’economia, che Sparta
non poteva garantire.
I fautori della democrazia rialzarono la testa un po’ ovunque. Quelli capeggiati da Trasibulo
iniziarono la riscossa di Atene, riuscirono a uccidere Crizia, a ottenere l’appoggio del re spartano
Pausania che si opponeva a Lisandro, a concludere la guerra civile con un’amnistia generale, e a
restaurare la democrazia nel 403 a.C.
Ma il ceto dei non-possidenti aveva ormai perso l’antico potere e contava sempre meno, tanto che si
cercava di abbassare il livello del popolo a quello degli “schiavi pubblici” (Aristotele, Politica, II,
1266 a 39 sgg. ecc. V. Canfora p. 159). La democrazia aveva funzionato perché il demo si spartiva
le entrate imperiali. Finito l’impero, i conflitti sociali divennero endemici e filosofi e autori di teatro
elaborarono forme di governo ideali (v. box polis utopica).
Tra storia e leggenda
La condanna di Socrate (399 a.C.)
La pacificazione nella restaurata democrazia era solo un’illusione e numerose condanne si
abbatterono su coloro che venivano considerati nemici della democrazia. Nel 399 a.C. fu processato
anche il filosofo Socrate, accusato di essere stato vicino agli ambienti oligarchici. Ma Socrate non si
era mai occupato di politica e la colpa che gli si imputava in realtà era quella di essere stato il
maestro di Crizia, a capo dei Trenta, e anche di Alcibiade, che tanti problemi aveva causato ad
Atene. Ed era contro costoro che era diretta la condanna di Socrate. Egli, pur avendo la possibilità
di fuggire, volle affrontare la morte per dimostrare ancora una volta la sua ubbidienza alle leggi, su
cui aveva fondato la sua morale e il suo insegnamento. In nome dei suoi principi bevve serenamente
la cicuta, il veleno che gli diede la morte. A narrare i suoi ultimi istanti furono Senofonte e Platone,
che, con altri affezionati discepoli del maestro, avevano assistito alla sua morte.
Tra storia e leggenda oppure Cultura?
Una polis utopica: soluzioni senza speranza
La delusione per il fallimento di tutti i diversi regimi delle poleis, la sfiducia sempre più diffusa
nella classe politica modificarono profondamente la mentalità del cittadino nel IV secolo a.C.
Platone dedicò la sua opera maggiore, La Repubblica, a delineare le caratteristiche che avrebbe
dovuto avere uno stato ideale. Tutte le forme di governo realizzate fino a quel momento gli
apparivano imperfette e capaci di generare solo individui perversi: il governo di pochi produce
infatti il tipo di “uomo oligarchico”, feroce e intollerante; la democrazia il tipo di “uomo
democratico”, individualista, corrotto, desideroso solo di soddisfare i propri bisogni; la tirannide,
con il suo “uomo tirannico”, pronto a qualsiasi delitto, è poi la forma peggiore di governo. I
cittadini devono essere educati invece ai migliori sentimenti e, per evitare tensioni sociali, causate
dal desiderio di possesso, occorre abolire la proprietà privata e la famiglia. Il governo di uno stato
ideale non può che essere affidato, secondo Platone, ai migliori tra i cittadini, gli uomini saggi, i
filosofi, capaci di ricercare il “sommo bene”.
Il problema della giustizia sociale compare anche nel teatro comico, nell’ultima produzione di
Aristofane:
 in forma di satira (G), nella commedia Le donne all’assemblea, in cui il commediografo
sbeffeggia l’idea dell’abolizione della proprietà privata, di cui a quanto pare si discuteva non
solo a livello filosofico;
 in forma di utopia sociale (G) nel Pluto, in cui il dio della ricchezza, Pluto appunto, accecato
da Zeus perché distribuiva la ricchezza senza riguardo al merito, riacquista la vista e ridona
prosperità al popolo.
Diversa la soluzione prospettata dallo storico Senofonte. Quando, intorno al 360 a.C. l’imposizione
di migliaia di coloni ateniesi (cleruchi) nelle città alleate della seconda Lega ateniese ripropose lo
stesso sfruttamento e la diseguaglianza nell’alleanza che aveva causato il crollo del primo impero,
fu evidente che a spingere Atene a tale comportamento era ancora una volta la povertà delle masse
popolari. Di fronte al crollo anche del secondo impero ateniese, Senofonte prospettò allora la
possibilità per gli ateniesi di mantenersi con le proprie risorse, soprattutto con quelle fornite dalle
miniere del Laurio, con cui si sarebbero potuti acquistare migliaia di schiavi pubblici e dare nuovo
impulso all’economia.
Anche questa, come le altre soluzioni proposte, era un’utopia, che non teneva conto dell’egoismo
dei ricchi possidenti. Per costringerli a contribuire all’equità sociale si propose una tassa sui
patrimoni, ma Demostene fece notare: «In città ci sono ricchezze, oserei dire, quante in tutte le
altre città messe insieme. Ma se anche tutti gli oratori si sforzassero di impaurire i ricchi dicendo
che sta arrivando il Re di Persia, anzi che è già arrivato e se con gli oratori ci si mettessero anche gli
indovini a fare la stessa previsione, i ricchi non solo non verserebbero un bel niente, ma non le
farebbero nemmeno vedere le loro ricchezze, anzi non riconoscerebbero nemmeno di possederle»
(Sulle Simmorie, 25). La proposta dei ricchi era piuttosto quella di ridurre la cittadinanza. Ci
riusciranno quando avranno i macedoni come garanti e potranno allora restringere il corpo civico a
soli novemila cittadini, riconosciuti tali sulla base del censo. (Canfora, p. 462)
Ritorno al passato (403-386 a.C.)
Il ritorno di Atene alla democrazia non faceva paura a Sparta, perché l’antica rivale era ridotta a ben
poca cosa, però voleva strapparle il ruolo che manteneva nel ricordo dei greci: quello di baluardo
contro la Persia. All’impero persiano Sparta, negli ultimi anni del conflitto peloponnesiaco, aveva
lasciato campo libero sulle città ioniche in cambio di una flotta e di aiuti (v. Sparta si prepara alla
vittoria). Ma ora la città lacedemone aveva bisogno di presentarsi come protettrice degli interessi
del mondo greco contro l’antico nemico comune. Appoggiò quindi l’invio di mercenari greci a
Ciro, figlio del re persiano Dario II, morto nel 404 a.C., che intendeva contendere al fratello
Artaserse il trono di Persia. In cambio dell’aiuto, Sparta si aspettava da Ciro la restituzione delle
città ioniche.
Il tentativo di Ciro però fallì (v. scheda). Allora il re spartano Agesilao sbarcò in Asia per liberare
personalmente le città ioniche. Artaserse fu costretto in un primo tempo ad accettare una tregua,
poi però seppe sfruttare ancora una volta i conflitti interni al mondo greco. Se nell’ultima fase della
Guerra del Peloponneso l’impero aveva stretto un’alleanza con Sparta contro Atene, adesso
Artaserse appoggiò il tentativo di Atene di risollevarsi: elargì grandi finanziamenti per ricostruire
le Lunghe mura (v. scheda), fornì la flotta che, al comando dell’ateniese Conone, nel 394 a.C.
distrusse la flotta spartana a Cnido (nella Doride, sulle coste meridionali dell’Asia Minore). Molte
città si liberarono dei presidi spartani e dei regimi oligarchici e si allearono con Atene. Le stesse
tradizionali alleate di Sparta, come Tebe e Corinto, vessate dagli ingenti tributi imposti dalla città
egemone, defezionarono e si allearono anch’esse con Atene.
Ma a questo punto il re persiano si rese conto del pericolo che un’Atene di nuovo potente avrebbe
costituito per l’impero e tornò ad allearsi con Sparta. Le due potenze imposero a tutte le città
greche una pace di compromesso, detta pace del Gran Re o di Antalcida, dal nome
dell’ambasciatore spartano che la stipulò nel 386 a.C. Il vero arbitro della pace fu però il Gran re
che stabilì che le città greche dell’Asia Minore ritornassero sotto l’impero persiano, mentre tutte
le altre, pur restando libere, non avrebbero potuto più ricostituire le Leghe. Solo la Lega
Peloponnesiaca restava in vita e Sparta diventava il gendarme del mondo greco agli ordini dei
persiani. Dopo un secolo veniva così vanificata la gloriosa vittoria ottenuta con le guerre
persiane, eroicamente combattute da Atene e dalla Grecia intera.
Scheda Tra storia e leggenda oppure dida per un’immagine delle mura?
Le Lunghe mura, la democrazia e l’impero
Le Lunghe mura ebbero un ruolo determinante nella storia di Atene e di tutta la Grecia. A volerle,
dopo la vittoria di Salamina, fu Temistocle che riuscì a costruirle malgrado l’opposizione di quella
che allora era l’indiscussa città egemone del mondo greco, Sparta. Le mura furono concepite e
divennero effettivamente il baluardo della democrazia e dell’impero, che nacquero
contemporaneamente proprio in quel momento.
Dal momento della costruzione delle mura ebbe però di fatto inizio anche la guerra del
Peloponneso, che sarebbe scoppiata solo cinquant’anni dopo, ma fu generata proprio dalla scelta di
Temistocle di fare di Atene la potenza antagonista di Sparta: contro di essa, appunto, le mura
dovevano costituire una difesa invincibile. Perciò furono, al momento della capitolazione di Atene
nel 404 a.C., il principale bersaglio dei vincitori e l’oggetto di disperata e vana difesa da parte dei
vinti. Ed è proprio la loro ricostruzione nel 394 a.C. a segnare l’inizio di una seconda, sia pure
breve, avventura imperiale.
Scheda Tra storia e leggenda
La spedizione di Senofonte in Asia (401 a.C.)
Senofonte è un altro importante storico greco. Ateniese, aristocratico, discepolo di Socrate, si
imbarcò per l’Asia al seguito delle truppe mercenarie greche ingaggiate da Ciro. La scelta di
Senofonte di arruolarsi e il suo atteggiamento successivo, che lo portava a rinviare continuamente il
suo ritorno ad Atene, rivela il difficile rapporto dello storico con la patria. È probabile infatti che
egli, simpatizzante delle idee oligarchiche, si fosse compromesso con il regime dei Trenta tiranni e,
dopo la sua caduta, preferisse tenersi lontano da Atene.
Al seguito di Ciro, partecipò, nel 401 a.C., alla battaglia di Cunassa, presso Babilonia, nella quale
Ciro perse la vita. Poco dopo vennero uccisi anche i comandanti del contingente greco e i mercenari
si trovarono isolati in un territorio ostile. Senofonte fu scelto insieme ad altri per condurre la ritirata.
Tra mille peripezie i diecimila superstiti riuscirono a raggiungere il mar Nero, dove alcuni si
imbarcarono, mentre Senofonte con altri proseguì via terra fino a raggiungere la costa mediterranea,
dove i pochi sopravvissuti furono raccolti dal contingente spartano di Agesilao sbarcato per
combattere Artaserse. Senofonte non tornò ad Atene, ma si trattenne al servizio degli spartani.
Egli, che si era arruolato come privato cittadino, con l’aria di un curioso “giornalista”, coinvolto in
un’esperienza drammatica, ne lasciò memoria nella sua Anabasi, un vero e proprio appassionante
diario di guerra. Lo storico descrive, tra l’altro, la decadenza del glorioso impero persiano, incapace
di fermare una massa di sbandati mercenari privi di una guida esperta.
A Senofonte si deve anche la narrazione, nelle Elleniche, della fine della guerra del Peloponneso
per la quale attinse forse ad appunti che Tucidide non era riuscito ad inserire a completamento delle
sue Storie.
La fine della potenza spartana (371 a.C.)
La posizione affidata a Sparta dall’impero persiano creava scontento in tutte le poleis.
 Ad Atene il governo democratico, che aveva assunto un carattere moderato, strinse patti di
alleanza con numerose città e isole dell’Egeo, fino a stipulare nel 377 a.C. un’alleanza
navale (la seconda Lega marittima a cento anni esatti dalla fondazione della Lega delioattica) che riuniva, in condizione di parità, almeno 75 poleis. La formula della parità tra le
alleate aggirava il divieto di ricostituire le leghe.
 In Beozia, Tebe, a cui Sparta aveva imposto un regime oligarchico, accolse i democratici,
tornati dall’esilio al comando dello statista Pelopida e del generale Epaminonda, che,
sostenuti da Atene, cacciarono il presidio spartano insediato sull’acropoli di Tebe e
ricostituirono la Lega beotica.
Sparta, che pure aveva tollerato la rinascita dell’egemonia di Atene sul mare, non poteva accettare
una rivale sul continente. Inviò quindi in Beozia l’esercito al comando del re Cleombroto, che nel
371 a.C. si scontrò a Leuttra con la falange obliqua di Epaminonda. Il generale tebano aveva
apportato una variante innovativa alla tradizionale falange oplitica, rafforzando l’ala sinistra (v.
immagine e dida da Bettini, Giganti, p. 196). L’esercito spartano subì la sua prima clamorosa
sconfitta in una battaglia di terra. Era la fine di un mito. La strada per il Peloponneso era aperta
ed Epaminonda vi penetrò, liberò i messeni dal dominio secolare di Sparta e, con la liberazione
degli iloti, segnò la fine della potenza lacedemone. (v. Sparta e Atene, gli iloti p.???)
Da inserire anche battaglione sacro
Scheda Tra storia e leggenda
Il crollo del modello spartano
Se fino alle guerre persiane Sparta era stata indiscutibilmente modello della grande potenza
fondata sull’armata di terra e sull’identità cittadino-guerriero, lo stesso modello dell’Atene di
Milziade e della prima guerra persiana, con la nascita della flotta di Temistocle e dell’impero
ateniese e con l’affermazione del modello democratico, il ruolo di Sparta come centro del mondo
greco si era infranto producendo guerre e conflitti, fino al crollo del modello stesso di polis.
Senofonte, che ammirava a tal punto l’ordinamento spartano da lasciare Atene per andare a vivere a
Sparta, vide la causa del crollo della sua potenza nell’essersi allontanati dall’eunomia, dal buon
governo stabilito da Licurgo. Eppure la superiorità di quel modello spartano è per Senofonte ancora
valida ed è per questo che lo propone ai suoi concittadini ateniesi, in preda alla corruzione politica,
all’avidità, agli eccessi giudiziari.
Un solo breve decennio di egemonia tebana (371-362 a.C.)
La Lega beotica che sembrava destinata a diventare egemone su tutto il mondo greco, non aveva la
struttura dell’antica Lega delio-attica, in grado di dominare sul mare e controllare i traffici
commerciali, né un’organizzazione militare efficiente come quella di Sparta, in grado di garantire la
sicurezza degli alleati. La Beozia era, per di più, un paese povero e le lunghe assenze di tanti
giovani chiamati alle armi lontano dalla patria rappresentava uno sforzo eccessivo per la sua scarsa
economia, limitata all’agricoltura. L’egemonia tebana risiedeva solo sui suoi leader ed era quindi
destinata a durare solo quanto loro. Ma Pelopida morì in battaglia nel 364 ed Epaminonda nel 362
a.C. cadde nella battaglia decisiva contro Sparta, a Mantinea. Malgrado l’esercito tebano avesse
vinto anche in questa battaglia, la morte del generale determinò il tracollo della supremazia tebana.
L’intera Grecia era ormai allo sbando e la fine delle poleis si avvicinava.
L’ultima potenza greca in Occidente
Non erano solo le poleis della Grecia a vivere gli ultimi anni della loro vita, era l’intero mondo
greco a veder crollare il modello della città-stato. In Sicilia, dopo la vittoria su Atene, Siracusa
riuscì a realizzare quello che forse era stato il sogno di Pericle: la formazione di uno stato unitario.
Cartagine, in conflitto con Siracusa, aveva distrutto nel 409 a.C. Selinunte, alleata di Siracusa,
Agrigento e Gela e puntava alla conquista della stessa Siracusa. Ma nel 406 a.C. divenne tiranno
della grande città greca lo stratega Dionisio che, forte di un esercito di mercenari, riuscì a
sconfiggere ripetutamente la potenza africana, divenne signore di tutta la parte della Sicilia non
controllata dai cartaginesi e avviò la conquista dell’Italia meridionale. Tra il 397 e il 367 a.C. riuscì
a creare uno stato territoriale che comprendeva la Sicilia orientale e la Calabria meridionale e si
proclamò re di Sicilia. Eppure anche questo stato era destinato al tracollo in breve tempo.
Mercenari (v. Bettini p. 197-8, e altri)