lettura critica | L’interpretazione figurale della realtà La Commedia […] è fondata in tutto e per tutto sulla concezione figurale. Nel mio studio su Dante, poeta del mondo terreno (1929) ho cercato di mostrare che nella Commedia Dante ha voluto “presentare tutto il mondo terreno-storico… già sottoposto al giudizio finale di Dio e quindi già collocato nel luogo che gli compete nell’ordine divino, già giudicato, e non in modo tale che nelle singole figure, nella loro sorte escatologica finale, il carattere terreno fosse soppresso o anche soltanto indebolito, ma in modo da mantenere il grado più intenso del loro essere individuale terreno-storico, e da identificarlo con la sorte eterna”. Per questa concezione, che si trova già in Hegel e sulla quale si fondava la mia interpretazione della Commedia, mi mancava a quel tempo la precisa base storica; nei capitoli introduttivi del libro essa era più intuita che riconosciuta. Ora io credo di aver trovato questa base: è l’interpretazione figurale della realtà, che domina le concezioni del medioevo europeo, sia pure in lotta continua con le tendenze meramente spiritualistiche o neoplatoniche; secondo essa la vita terrena è bensì assolutamente reale, della realtà di ogni carne in cui è penetrato il Logos, ma con tutta la sua realtà è soltanto “umbra” e “figura” di ciò che è autentico, futuro, definitivo e vero, di ciò che, svelando e conservando la figura, conterrà la realtà vera. In questo modo ogni accadimento terreno non è visto come una realtà definitiva, autosufficiente, e neppure come anello di una catena evolutiva in cui da un fatto o dalla concorrenza di più fatti scaturiscono fatti sempre nuovi, ma viene considerato innanzi tutto nell’immediato nesso verticale con un ordinamento divino di cui esso fa parte e che in un tempo futuro sarà anch’esso un accadimento reale; e così il fatto terreno è profezia o “figura” di una parte della realtà immediatamente e completamente divina che si attuerà in futuro. Ma questa non è soltanto futura, essa è eternamente presente nell’occhio di Dio e nell’aldilà, dove dunque esiste in ogni tempo, o anche fuori del tempo, la realtà vera e svelata. L’opera di Dante è il tentativo di una sintesi insieme poetica e sistematica, vista a questa luce, di tutta la realtà universale. All’uomo abbandonato alla confusione terrena e minacciato di rovina – questa è la cornice della visione – viene in aiuto la grazia delle forze celesti. Fin dalla prima giovinezza egli godeva di una grazia particolare perché era destinato a un compito particolare; di buon’ora aveva potuto vedere la rivelazione incarnata in un essere vivente, in Beatrice – e qui, come spesso, la struttura figurale e il neoplato­nismo si compenetrano a vicenda – che gli aveva accordato una particolare distinzione, sia pure velatamente, da viva col saluto degli occhi e della bocca, e morendo in una maniera inespressa e miste­riosa. La morta, ora beata, che era stata per lui la rivelazione incarnata, trova ora per l’uomo smarrito l’unica via di salvezza che ci sia; essa è la guida che, prima indirettamente e in Paradiso direttamente, gli mostra l’ordine rivelato, la verità delle figure terrene. Quel che egli vede e impara nei tre regni è realtà vera, concreta, tale appunto che vi è contenuta e interpretata la “figura” terrena; vedendo, ancora vivo, la verità adempiuta, egli è personalmente salvato e nello stesso tempo diventa capace di annunciare al mondo la sua visione e di indicargli la retta via. La figura di Beatrice La comprensione del carattere figurale della Commedia non offre certo un metodo universalmente valido per spiegare tutti i passi controversi ma essa fornisce alcuni principî per l’interpretazione. Si può essere certi che ogni personaggio storico o mitologico che appare nel poema deve significare qualche cosa che ha uno stretto rapporto con ciò che Dante sapeva della sua esistenza storica o mitica, e precisamente il rapporto di adempimento e figura; ci si deve guardare dal togliere al personaggio tutta la sua esistenza storico-terrena per assegnargli soltanto un valore allegorico-concettuale. Ciò vale in particolare per Beatrice. Dopo che nel XIX secolo si era troppo accentuata la concezione romantico-realistica dell’umanità di Beatrice, con la tendenza a fare della Vita Nova una specie di romanzo sentimentale, ora per reazione si cerca di dissolverla completamente in concetti teologici sempre più precisi. Anche qui non è questione di un aut-aut. Per Dante il senso letterale o la realtà storica di un personaggio non contraddice il suo significato più profondo, ma ne è la figura; la realtà storica non è abolita dal significato più profondo, ma ne è confermata e adempiuta. La Beatrice della Vita Nova è una persona storica: essa è realmente apparsa a Dante, lo ha realmente salutato, più tardi gli ha realmente negato il saluto, lo ha deriso, ha pianto un’amica perduta e il padre ed è realmente morta. È vero che questa realtà poté essere reale soltanto nell’esperienza di Dante, giacché un poeta forma e trasforma nella sua coscienza ciò che gli accade, e bisogna prendere le mosse solo da quel che vive nella sua coscienza, non da una realtà esteriore. E bisogna altresì tenere presente che per Dante anche la Beatrice terrestre è fin dal primo giorno della sua apparizione un miracolo mandato dal cielo, un’incarnazione della verità divina. La realtà della sua persona terrena non è dunque desunta da certi dati di una tradizione storica, come nel caso di Virgilio o di Catone, ma dalla propria esperienza, e questa esperienza la faceva apparire a Dante come un miracolo. Ma un’incarnazione, un miracolo, sono cose 1 che accadono realmente; i miracoli accadono soltanto sulla terra, e l’incarnazione è carne. Gli studiosi moderni, per i quali la concezione medioevale della realtà è una cosa estranea, sono stati indotti a non tenere distinte la figurazione e l’allegoria e per lo più hanno capito soltanto la seconda. Persino un così capace interprete teologico come il Mandonnet conosce soltanto due possibilità: Beatrice può essere o una pura allegoria (e questa è la sua opinione) o la petite Bice Portinari che provoca la sua ironia. Anche senza tener conto che questo giudizio disconosce la natura della realtà poetica, è soprattutto sorprendente che egli veda un abisso così profondo fra realtà e significato. Forse che la “terrena Jerusalem” non è una realtà storica perché è “figura aeternae Jerusalem”? Nella Vita Nova Beatrice è dunque una persona vivente della reale esperienza di Dante, così come nella Commedia essa non è un “intellectus separatus”, un angelo, ma una persona umana beata il cui corpo risorgerà il giorno del giudizio. D’altra parte non c’è alcun concetto teologico di scuola che possa realmente comprenderla del tutto; diversi fatti della Vita Nova non convengono ad alcuna allegoria, e per la Commedia c’è in più anche la difficoltà di distinguerla con esattezza da varie altre figure del Paradiso come gli apostoli esaminatori o san Bernardo. Per questa via non si può affatto comprendere in maniera soddisfacente la particolarità del suo rapporto con Dante. I più vecchi commentatori vedevano di solito in Beatrice la teologia, i più moderni hanno proceduto con metodi più precisi; ma ciò provoca eccessi ed errori: anche il Mandonnet, che applica a Beatrice il concetto di “ordre surnaturel” desunto dalla contrap­posizione con Virgilio, diventa troppo pedante nelle suddivisioni, commette errori e forza i concetti. La funzione che Dante le assegna appare del tutto chiara nelle sue azioni e nelle definizioni della sua persona. Essa è figura o incarnazione della rivelazione (Inf., II, vv. 76 sgg. sola per cui / l’umana specie eccede ogni contento / di quel ciel che ha minor li cerchi sui; Purg., VI, v. 45 che lume fia tra il vero e l’intelletto), che la grazia divina manda per amore (Inf., II, v. 72) all’uomo per salvarlo, e che diventa per lui guida alla “visio Dei”. Il Mandonnet dimentica di dire che si tratta appunto di un’incarnazione della rivelazione divina, non della rivelazione semplicemente, benché egli citi i passi corrispondenti della Vita Nova e di Tommaso, nonché l’apostrofe sopra citata: O donna di virtù, sola per cui ecc. Non si può apostrofare in questo modo l’“ordine soprannaturale” come tale, ma soltanto la sua rivelazione incarnata, ossia quella del piano divino della redenzione che è appunto il miracolo in virtù del quale gli uomini sono sollevati al disopra di tutte le altre creature terrene. Beatrice è incarnazione, è “figura” o “idolo Christi” (i suoi occhi rispecchiano la sua duplice natura, Purg., XXXI, v. 126) e dunque è anche una persona umana. Queste spiegazioni naturalmente non bastano per esaurire la sua umanità; il suo rapporto con Dante è tale che non può essere espresso a fondo per mezzo di considerazioni dogma­ti­che. Le nostre spiegazioni devono soltanto mostrare che l’interpretazione teologica, sempre utile e indispensabile, non ci costringe affatto ad escludere la realtà storica di Beatrice: al contrario. (E. Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1966) 2