Capitolo X L’OTTOCENTO: LA CORSA VERSO LE CODIFICAZIONI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. Il Code Napoléon L’organizzazione giudiziaria napoleonica Uno sguardo ravvicinato al Code Napoléon (o Code Civil) : genesi e successo La struttura del Code Napoléon L’applicazione e le resistenze al Code Napoléon in Italia. L’applicazione e l’eco del Code in Europa Gli sviluppi dottrinali in Francia. La scuola dell’esegesi L’Austria e il Codice civile del 1811 (ABGB). La scuola storica tedesca Il processo di codificazione in Germania Il codice civile tedesco (“Bürgerliches Gesetzbuch”, o “BGB”). La questione della completezza dei codici Il rapporto tra codificazione commerciale e codificazione civile I codici dell’Italia della Restaurazione (1814-1859). L’Italia unita e il Codice civile del 1865. 1 6 8 11 14 16 17 21 23 27 28 30 33 37 48 1. Il Code Napoléon La monarchia francese grazie al suo assolutismo aveva mediato (o meglio: tentato di mediare, perché non riuscì nell’intento, come dimostrò la Rivoluzione) gli interessi di nobiltà e borghesia, e in tal modo aveva potuto 1) accentrare lo Stato dal punto di vista amministrativo assai prima di Napoleone, come capì subito Alexis de Tocqueville, acuto politico e scrittore del primo Ottocento, e 2) unificare (statizzandolo) il diritto commerciale già con Luigi XIV e poi, grazie all’opera del cancelliere Deguesseau entro la metà del ’700, certe materie del diritto privato. Per il resto il diritto era ancora gestito interamente dai giuristi e dai tribunali. Fu la Rivoluzione a porsi il problema della codificazione per motivi politici contro i privilegi di ceto, e quindi a fare un passo ulteriore. Solo la Rivoluzione del resto avrebbe potuto metter mano a un’area del diritto privato altrimenti intangibile, come matrimonio e famiglia, fino ad allora in gran parte sotto l’influsso della Chiesa tridentina. Il risultato duraturo della Rivoluzione fu appunto la ‘laicizzazione’ dello Stato, che poteva così intervenire anche in questi settori prima preclusi. Perciò il matrimonio contrattuale statale - inesistente per il diritto della Chiesa - entrò a far parte della vita quotidiana come vi entrò addirittura la possibilità del divorzio, che fu introdotto allora col Code Napoléon per la prima volta (e quindi anche, sia pure per pochi anni, in Italia); ugualmente, divenne normale l’anagrafe civile, prima curata invece dai parroci. Perciò anche i rapporti patrimoniali tra coniugi trovarono ora la loro completa regolamentazione nella legge, la quale individuò la famiglia come la prima cellula autoritaria della società, posta sotto l’autorità del padre e marito, che deve sovrintendere alla attività giuridica della moglie, ritenuta non all’altezza delle sottigliezze giuridiche. L’operazione di ‘statizzazione’ del diritto privato riesce dunque in Francia, grazie alla Rivoluzione che l’aveva prevista tra le sue riforme, col Code civil approvato nel 1804, detto poi Napoléon per ossequio all’Imperatore dei Francesi, che del resto intervenne attivamente alle riunioni per la sua redazione. Il Codice nell’intenzione di Napoleone doveva costituire una sorta di ‘Bibbia del cittadino’, un libro che l’avrebbe accompagnato negli affari giuridici dalla nascita alla morte, un libro che doveva essergli comprensibile - e perciò fu scritto chiaramente e nella lingua nazionale contro tutte le astruserie del diritto d’Ancien régime. Napoleone vuole assicurare anche il superamento degli estremismi di sinistra del passato e le inconcludenze del governo del Direttorio. Il Codice vuole dare l’idea di una società pacificata e unificata, basata sul consenso (e egli ne ricevette certamente tantissimo: è il c.d. ‘bonapartismo’ che tormenterà l’acutissimo Marx), sicura perché ordinata, popolata di proprietari (molti dei quali hanno comprato i beni ‘nazionali’ tolti a chiese e monasteri) e al tempo stesso buoni mariti e padri con a disposizione gli strumenti giuridici per far valere il loro buon senso patriarcale. Il Codice è perciò incentrato essenzialmente sulla proprietà (e, come vedremo in seguito nel presente capitolo, essenzialmente sulla proprietà immobiliare), sui suoi modi di acquisto e di trasferimento da parte del ‘cittadino’, che è la nuova figura astratta creata dalla Rivoluzione e accortamente non rinnegata da Napoleone. Non più nobili, borghesi, mercanti e preti per la legge, ma l’unico soggetto di diritto: il cittadino. Napoleone imperatore creerà una sua nobiltà, così come il clero, i militari e i commercianti continueranno ad esistere naturalmente, ma lo status soggettivo non doveva comportare regole diverse ai fini privatistici. Sul piano pubblicistico le differenze continuarono però ad esistere, dato ad esempio che le leggi elettorali assicuravano l’elettorato solo a chi aveva un certo ‘censo’, ossia una certa ricchezza. Ma il ricco, il nobile, il clochard (il barbone, pron. ‘closciar’) avevano ora tutti uguali strumenti a disposizione dal punto di vista privatistico, ed essi erano chiaramente rinvenibili nel grande Code. Strumenti, si badi, a disposizione di chiunque in tutte le parti del Paese. Per la prima volta nella storia francese, ora non ci sarebbero più state differenze tra Bretoni e Provenzali etc., ma un unico diritto privato uguale per tutti, che eliminava l’antica divisione tra Paesi di diritto scritto e di diritto consuetudinario. Val la pena di sottolineare quanto ciò abbia giovato al senso di Nazione dei Francesi e quanto anche alla penetrazione della propaganda portata all’estero da Napoleone? Il Code mirava a una società nuova, perché dava concretezza alla libertà e all’uguaglianza (solo giuridica) se non proprio alla fratellanza in concreto. I Francesi riescono così a costruirsi l’immagine di coloro che si sacrificano, anche a prezzo della vita, per portare ovunque il nuovo Verbo, per spezzare le catene che hanno vincolato per tanto tempo le energie ‘naturali’ degli uomini. La novità di questa ideologia è dimostrata dalla relativa facilità con cui essa trovò accoglienza - almeno in un primo tempo - all’estero, sollecitando contro le dinastie di diritto divino regnanti (terrorizzate dall’egualitarismo diffuso dai Francesi) il sorgere di nuclei di ‘patrioti’ pronti a trasferire localmente il Verbo rivoluzionario (moderato ormai, ma sempre rivoluzionario di fronte ai regimi d’Antico regime) per creare la Grande Nation affratellata contro il passato oscurantista. È questo il germe ancora confuso da cui si svilupperanno i moti liberali e risorgimentali anche in Italia. Anche se i Francesi furono poi localmente quanto mai autoritari e a favore del centralismo parigino al punto da provocare presto risentimenti estesi sfocianti anche in sanguinose rivolte - soprattutto per non aver rispettato le tradizioni religiose profondamente radicate (pensiamo ai moti ‘sanfedisti’ al Sud, o ai Viva Maria in Toscana) -, non c’è dubbio che la loro martellante propaganda a favore dei diritti dei ‘cittadini’ e dei ‘popoli’ in rivolta contro i governi dispotici di un tempo, contro i ‘signori’ feudali e i nobili del passato, e a favore di una fratellanza che andava al di là delle Nazioni storiche, dei confini, delle differenze di religione, di lingua e di storia, contribuirono enormemente alla diffusione entro il senso comune, di tutti, del razionalismo moderno ed egualitario prima appannaggio soltanto di ristrette élites. Anche se di fatto (un po’ com’è successo spesso nella storia della Chiesa) tradirono gli ideali da essi stessi propagandati, con i fermenti introdotti ovunque in Europa, i Francesi finirono per contribuire potentemente, in pochi anni, direttamente o meno, e anche solo per reazione, a creare l’orizzonte ideale che sostanzia la civiltà contemporanea. Contro semplicistiche e/o frettolose sottovalutazioni della Rivoluzione apparse in occasione del II centenario celebrato pochi anni fa, si può certamente dire che la Rivoluzione e Napoleone, con i sommovimenti materiali e ideali che hanno provocato in Europa, sono direttamente collegabili agli eventi grandiosi dell’Ottocento e del Novecento, ai movimenti nazionali, italiani, tedeschi etc., liberali e democratici e così via ovunque radicatisi e stimolo di vicende diversissime - e anche drammatiche: vedi il caso del ‘socialismo’ sovietico -, ma con un minimo comun denominatore: 1) la dimensione di massa dei fenomeni sociali, a cominciare dalla diffusione delle ideologie e, 2), il loro ‘temporalizzarsi’, secolarizzarsi - ossia l’essere ormai ancorate saldamente ai problemi terreni, di ogni giorno ed entro un quadro politico dato, ‘regionale’, crollate le prospettive di salvezza universale del Cristianesimo. Ma il Code è da un certo punto di vista anche più importante delle Costituzioni francesi portate dalle truppe (in particolare quella dell’anno III, imitata quasi ovunque a cominciare dall’Italia napoleonica), perché le costituzioni mutarono con relativa frequenza, in relazione ai mutamenti politicoistituzionali decisi a Parigi (prima Repubbliche locali, poi monarchie collegate all’Impero napoleonico), mentre il Code espresse subito una normativa in accordo con bisogni sociali profondi. La politica con le sue necessità congiunturali modificava (e modifica oggi) in continuazione gli equilibri giuspubblicistici, anche se già allora diffuse potentemente l’idea che ogni Paese civile deve avere una ‘sua’ costituzione, mentre il diritto privato può apparire ‘immobile’, ‘naturale’, una volta che esso è riuscito - appunto con il codice napoleonico - ad esprimere l’ordine della natura descritto da Domat e dai Fisiocratici. Operazione ideologica di enorme portata, quindi, con la traduzione sul piano ‘privatistico’ delle aspirazioni illuministe, che avevano presente un uomo astratto, ‘naturale’, al di là delle sue qualificazioni socio-economiche. Operazione bollata come ‘conservatrice’ naturalmente da chi si rende conto oggi che il ‘soggetto unico’ del codice è pura forma mistificante, perché comporta la conseguenza di oscurare le disuguaglianze reali presenti nella società, dato che il clochard non avrà mai modo di utilizzare né i contratti del codice né il testamento, visto che non ha proprietà di cui disporre. Ma intanto si è creato un quadro legislativo favorevole alla libertà economica, perché si può comprare e vendere liberamente tutto, ora che finalmente si sono aboliti feudi, grandi manomorte, primogeniture e fedecommessi. La proprietà venne ‘socializzata’ nel senso che viene messa sul mercato, a disposizione di chi volesse investire e intraprendere. Da qui viene fuori anche quel ceto di piccoli e medi proprietari rurali (spesso conservatori) che ha avuto un’importanza enorme nella storia di Francia: si pensi che il Code è tanto individualistico e ‘borghese’ che non solo valorizza la autonomia privata con la libertà contrattuale, col consenso che basta a trasferire la proprietà, ma guarda con sfavore alla comproprietà, perché si riteneva che non consentisse una buona gestione dei patrimoni. È quindi il codice del ‘mercato’com’era pensato allora, essenzialmente agricolo, che lancia un segnale politico inequivocabile. Non a caso durante la Restaurazione laddove esso fu conservato o imitato (e fu questa la regola), pur in ordinamenti ridivenuti ‘assolutistici’, cioè privi di libertà politiche, il Codice fu riguardato come un baluardo di importanza ‘costituzionale’, perché garantiva almeno un certo quadro ‘civile’, di libertà socio-economiche, anche se non accompagnate da quelle politiche come la libertà di stampa, di associazione etc. Tra l’altro, i governi ‘restaurati’ non fecero tesoro soltanto di queste innovazioni rivoluzionarie (guardandosi bene ad esempio dal restaurare i feudi), ma presto cominciarono a guardare ad altre novità giuspubblicistiche francesi molto utili al rafforzamento dei poteri centrali. Il prefetto ad esempio, l’onnipotente e onnipresente commissario governativo sovrintendente alle autonomie locali, divenne per tutti i governi un modello da copiare, come lo erano altre novità ‘rivoluzionarie’. Si pensi ad una conseguenza importantissima della separazione dei poteri, come quella per cui si comincia a pensare che gli atti amministrativi non potevano essere sindacati dal giudice ordinario e che portò anche alla tesi che non si potevano neppure inquisire penalmente i funzionari amministrativi, perché sarebbe equivalso a ledere la loro immunità derivante dalla separazione dei poteri! Così le materie amministrative più interessanti per il governo (quelle fiscali ad es.) vennero sottoposte a giudici speciali dipendenti dal governo stesso: siamo alle origini dell’attuale giustizia amministrativa, di cui il Consiglio di Stato è il frutto ottocentesco migliore. Per le stesse questioni civili, invece dei Parlements, che erano state corti sovrane decentrate indipendenti una dall’altra, si organizzarono corti dipendenti burocraticamente l’una dall’altra, con in cima la Corte di Cassazione. 2. L’organizzazione giudiziaria napoleonica Quel che é certo é che le linee dell’organizzazione amministrativa e giudiziaria create in Francia nel periodo consolare ebbero grande successo non solo in Francia, ma furono esportate in Italia e in altre zona d’Europa e seguite in seguito come modelli di razionalizzazione e semplificazione laddove in precedenza allignavano caos o costanti sovrapposizioni di competenze. Le riforma giudiziaria é coeva di quella amministrativa: la prima é datata 18 marzo1800, la seconda 17 febbraio dello stesso anno. Entrambe sono frutto di un decreto consolare. Il protagonista della nuova amministrazione sarà senza dubbio il prefetto, rappresentante dello stato centrale nel dipartimento e superiore gerarchico rispetto alle varie branche dell’amministrazione locale. La nuova organizzazione giudiziaria, invece, pur rispondendo alle istanze di separazione dei poteri fatte proprie dalla Rivoluzione (che già nel novembre 1789 aveva abolito quegli organi misti amministrativi/giudiziari di grande influenza che erano i Parlements), instaurerà una giustizia basata su una chiara e ben disciplinata pluralità di gradi di giurisdizione ma composta questa volta di personale non più eletto dal popolo (come aveva previsto la prima grande legge di riforma giudiziaria, quella varata tra il 16 e 24 agosto 1790), ma nominato dal governo e inamovibile solo dopo un certo numero di anni (5)di esercizio professionale, la qual cosa non scoraggerà le famose epurazioni della magistratura effettuate dal Bonaparte (e che rimarranno una costante della storia francese sino ad oggi!). Il decreto del 18 marzo 1800 prevede, alla base della piramide giudiziaria, il giudice di pace, figura “vicina al popolo”, con funzioni sia giudicanti vere e proprie che di arbitrato tra la parti. In materia civile, é competente in unica istanza per le cause fino a 50 franchi di valore, con appello fino a 100 franchi. In materia penale, é competente per i reati di più lieve entità. In seconda istanza, é poi creato un tribunale (collegiale) di “arrondissement” (distretto, circoscrizione del dipartimento), formato da un minimo di tre giudici secondo l’importanza e la popolazione del distretto: ha competenza in civile per cause fino a mille franchi, e oltre tale soglia solo in prima istanza, in penale invece per reati comportanti pene correzionali e in ogni caso non superiori ai due anni di reclusione. Infine, sono creati dei tribunali d’appello (chiamati “corti d’appello” dal 1804, “corti imperiali” dal 1810) costituiti da una o più sezioni e a competenza unicamente civile, in ragione di uno per ogni tre dipartimenti e giudicanti in appello le sentenze emesse dai tribunali civili d’arrondissement. In penale, si ha la creazione di tribunali criminali giudicanti anch’essi in appello dalle sentenze penali dei tribunali di distretto, o, in istanza unica, sulle pene più gravi (le c.d. “pene infamanti”) previste dalla legge penale (il Code pénal del 1791, cui succederà il Code pénal napoleonico del 1810). Si tenga inoltre presente : a) che presso ogni tribunale di distretto e tribunale criminale funzionava una giuria, analoga alle attuali giurie popolari. Tale giuria era presieduta da un “direttore della giuria” che era normalmente uno dei magistrati che componevano il relativo organo giudicante; b) che presso ogni tribunale (salvo che presso i giudici di pace) era presente, come rappresentante del pubblico interesse, un pubblico ministero, chiamato “commissario del governo”. A partire dal periodo imperiale (dopo il 1804), esso prenderà il nome di procuratore imperiale (procuratore generale per i tribunali/le corti d’appello); c) che, nonostante tutto, si ricorrerà spesso, in periodo napoleonico (specialmente a Napoli), all’istituzione di tribunali “speciali” e militari deroganti alla competenza dei normali tribunali criminali e volti a reprimere reati quali il brigantaggio, la renitenza alla leva ecc. Vertice assoluto della piramide era l’importantissima Cour de cassation sedente a Parigi, creata nel 1790 e giudice, come si é detto, di mera legittimità. E’ utile tenere presente questo rapido schema, poiché esso attraverserà la penisola durante tutto il periodo napoleonico, resterà durante la Restaurazione e costituirà un precedente importante del decreto 6 dicembre 1865 sull’organizzazione giudiziaria del Regno d’Italia. Infatti, l’organizzazione giudiziaria dell’Italia unita – che ormai suona familiare alle nostre orecchie di contemporanei con la sua articolazione in giudici conciliatori, pretori monocratici, tribunali di circondario, corti d’appello e d’assise e corti di cassazione (la cassazione unica verrà creata solo nel 1923) recava ancora i segni evidenti della razionalizzazione napoleonica. 3. Uno sguardo ravvicinato al Code Napoléon (o Code Civil) : genesi e successo Promulgato il 21 marzo 1804, il Code Napoléon (all’epoca chiamato “Code Civil des Français”) è senza dubbio un traguardo storico non solo per la storia del diritto francese, ma europea in senso lato. Esso chiude per sempre l’era – più che millenaria – del cosiddetto “diritto comune” (quella fondamentale fonte di diritto, costituita dal complesso del diritto giustinianeo a cui si era aggiunta e sedimentata, col passare dei secoli, la massa delle opinio iuris, delle sentenze delle supreme giurisdizioni, degli editti imperiali ecc.) e costituisce il punto di partenza ( o perlomeno uno dei punti di partenza) del diritto contemporaneo. In Francia, più d’un giurista d’antico regime aveva auspicato l’unificazione di un diritto privato già diviso territorialmente tra “pays des coutumes” (nord della Francia, ove era in vigore un diritto consuetudinario, originariamente non scritto, di origine germanica, pur se costantemente influenzato dal diritto comune) e “pays de droit écrit” (sud della Francia a partire grosso modo dalla Loira, ove il diritto comune scritto era fonte di diritto a pieno titolo, pur se accanto alle consuetudini locali). In fondo, le grandi opere di giuristi come Domat e Pothier miravano ad una tale unificazione nel nome della “raison écrite” romana, sebbene rimangano circoscritte al piano dottrinale, e non a quello “de iure condito”. Nonostante una Francia dell’89 ancora localistica e legata alla tradizione non formulasse quasi nessun auspicio agli Stati generali per un’unificazione del diritto civile (mentre nel penale si auspicava abolizione della tortura, la trasparenza delle procedure etc.), l’Assemblea Costituente scaturita dalla Rivoluzione dell’Ottantanove decreterà invece che “sarà fatto un Codice di leggi civili comune a tutto il Regno”. Per realizzare una tale ambizione, uno dei più noti giuristi francesi, il Cambacérès, aveva presentato tre progetti – rispettivamente nel 1793, 1794 e 1796 – naufragati però di fronte all’incalzare degli eventi rivoluzionari e all’instaurazione del Terrore robespierriano. Nel nuovo clima di “legge ed ordine” instaurato dal Consolato, Bonaparte Primo Console, può ‘riprendere l’opera codificatoria. E soprattutto, quel che più conta, egli può disporre dell’appoggio di gran parte dei giuristi, desiderosi di collaborare con il nuovo regime. Si tratta di nomi spesso famosi, come Tronchet, Target, Cambacérès e altri, caduti in disgrazia a rischio della vita durante il Terrore (1792-1794), e che credono nella necessità di un ristabilimento dell’ordine (nel linguaggio odierno, seppure approssimativamente, potremmo parlare di desiderio di “svolta moderata”) e della concordia nazionali. Bonaparte appare ai loro occhi come l’incarnazione di questo auspicio politico. Tale singolare contesto psicologico, che ha reso così gradita agli occhi della classe dei giuristi la figura del Bonaparte, è stata oggetto di recenti ricerche, tra l’altro ad opera di JeanLouis Halperin in Francia (il quale, nel suo volume “L’impossibile Codice Civile” ben ha messo in evidenza come Napoleone abbia “sbloccato” una situazione giuridico-politica che in precedenza non si prestava certo alla redazione di un nuovo codice civile in tempi rapidi, nonostante l’unificazione del diritto in Francia fosse un’aspirazione di vecchia data dei pratici del diritto, pur “affezionati” alle loro consuetudini locali) e di Adriano Cavanna in Italia. Bonaparte può quindi riprendere l’iniziativa : un nuovo progetto di codice è affidato, nell’anno 1800, alle cure di una commissione governativa comprendente quattro grandi nomi del diritto francese : Tronchet (lo sfortunato difensore ufficiale di Luigi XVI nel processo intentatogli dalla Convenzione nel 1792, e che si concluderà, per un solo voto di maggioranza, con la sua condanna a morte), Portalis, Bigot de Préameneu e Maleville. Il loro lavoro durerà cinque mesi. Successivamente, il progetto di Codice è trasmesso ai tribunali e rivisto dal Consiglio di Stato nel corso di una serie di un centinaio di sedute (a buona parte delle quali lo stesso Bonaparte interverrà attivamente), per poi essere sottoposto per parere e voto finale ad altri importanti organi costituzionali quali il Tribunato ed il Corpo Legislativo. L’opposizione di parte dei Tribuni e del Legislatori (gli odierni deputati) sarà superata dal Bonaparte grazie ad epurazioni e al voto finale da parte di assemblee completamente sottomesse alla sua volontà (1802-1803). Anche per questo motivo, il Code può ben meritare l’appellativo di Code Napoléon che gli fu dato qualche anno dopo! Il Code, come accennato sopra, unisce desiderio di codificazione unitaria e culto della legge. Sarà figlio della Rivoluzione nelle sue norme di libertà giuridica ed eguaglianza (“ogni francese godrà dei diritti civili”, proclama l’articolo 8 confermando così l’abolizione di ogni privilegio di casta o classe e tirando un tratto di penna rivoluzionario su tutto l’Antico Regime), laicità (il matrimonio esclusivamente civile ed il divorzio sono introdotti) e trionfo della proprietà, ma si coniugherà nondimeno con un quadro politico napoleonico di autoritarismo (riflettuto, curiosamente, nel microcosmo familiare costruito nel Code : le disposizioni sulla famiglia sono infatti improntate nettamente alla rigida supremazia maritale). In Francia, per ottanta anni, il Code non sarà oggetto di alcuna modifica di rilievo. La prima in ordine di tempo sarà la reintroduzione del divorzio, abolito durante la Restaurazione e ripristinato appunto nel 1884 (peraltro in forma ristretta, essendo la sua esperibilità limitata a casi – es. adulterio – tassativamente prescritti) . Ma occorrerà attendere il secondo dopoguerra per assistere ad un’importante opera di novellazione su un testo ancora vigoroso pur nel suo progressivo invecchiamento. Attualmente, si calcola che circa la metà delle sue originarie 2281 disposizioni siano ancora in vigore nella forma primigenia. Al di fuori della Francia, il Code ha avuto, per buona parte del XIX secolo, grande successo, sia come testo adottato in molti paesi a seguito dell’occupazione o influenza francese su buona parte dell’Europa tra il 1800 e il 1814 e sopravvissuto alla bufera napoleonica (conclusasi definitivamente nel 1815), sia come modello ispiratorio di ulteriori codificazioni civilistiche. Nel primo caso, occorre ricordare la sua sopravvivenza nei territori della Renania fino al 1900 (anno dell’entrata in vigore del BGB tedesco), nel Cantone di Ginevra sino al 1912, in Polonia e in Romania sino al 1945. Nel Belgio e nel Lussemburgo, poi, entrato in vigore con l’occupazione napoleonica, esso vi è tuttora in vigore (e incarna una sorta di -- parziale “unità del diritto” dei paesi francofoni d’Europa). In Italia, fu mantenuto in vigore nel Principato di Lucca sino al 1865, a Napoli sino al 1819 e a Genova sino al 1837. Ma ben più importante fu il suo fungere da modello per codificazioni successive. E qui, l’esempio italiano è quanto mai significativo : il primo codice civile dell’Italia unificata, il Codice Pisanelli del 1865 (così chiamato dal nome del Guardasigilli dell’epoca) si pone, per la sua struttura e parte delle sue disposizioni, nel solco del Code. 4. La struttura del Code Napoléon Tecnicamente, il Code si presenta diviso in tre libri (seguendo così da vicino l’antica ripartizione in personae, res e actiones cara al diritto romano) : il primo è dedicato alle persone, il secondo alla proprietà, il terzo ai modi di trasmissione o modifica della stessa. In realtà, il terzo libro é comprensivo di norme sulle obbligazioni, i contratti, le successioni ecc. tutte però viste e accorpate sotto l’angolo visuale della proprietà come manifestazione concreta e fisica della nuova “libertà” acquisita dal cittadino e sanzionata nelle Costituzioni dell’epoca rivoluzionaria e post-rivoluzionaria, in America e in Francia. Il primo libro del Code crea un diritto delle persone improntato all’eguaglianza e alla libertà individuale : il cittadino è ora libero di possedere, di disporre e godere dei suoi beni senza più vincoli o limiti derivanti dalla sua appartenenza a ceti, caste o classi, e senza più discriminazioni. Ogni privilegio in tal senso è abolito. Un’impostazione certo rivoluzionaria, perché, opponendosi al “passato prossimo” di un Antico Regime popolato da privilegi e vincoli individuali, feudali e territoriali di ogni sorta, crea una società di “eguali”, o meglio di cittadini “liberi nell’eguaglianza”, le cui differenze sono ora date unicamente dalle singole possibilità economiche. E’ per questo che si è spesso parlato e si parla tuttora di un Codice “borghese”, intendendo con tale espressione una codificazione indubbiamente funzionale alle aspirazioni di una borghesia fondiaria e commerciale (non ancora però industriale, agli albori del XIX secolo in una Francia ancora agricola al 90%) in ascesa, ora libera di comprare e intraprendere, in gran parte acquirente dei “beni nazionali” e desiderosa di consolidare il proprio ruolo sociale. Ma attenzione : tale espressione di Codice “borghese”, ahimè usata e abusata, non deve risolversi in una generica banalizzazione, poiché in prospettiva storica non è da perdere di vista il grande e rivoluzionario progresso di libertà del codice rispetto alle angustie feudali degli anni precedenti al 1789 (sempre che si voglia adottare tale data come spartiacque tra un “prima” e un “dopo”). Alla libertà “esterna” nella società corrispondeva comunque, nel Code, una “autorità interna” che era quella dell’uomo nel microcosmo familiare. Napoleone fu spinto a tale “maschilismo” familiare per sue presunte convinzioni antifemministe? Gli storici hanno azzardato anche tale ipotesi, tra le altre. Comunque stiano le cose, é certo che la famiglia disegnata dal Code si presenta estremamente squilibrata a favore dell’uomo. L’uomo, come sposo e padre, era capofamiglia unico e unico titolare della patria potestà; alla donna – secondo il tradizionale concetto giuridico dell’inferiorità femminile - era imposto un dovere di obbedienza e di seguire il marito ovunque egli intendesse stabilirsi, ed eventuali trasgressioni agli obblighi di fedeltà (adulterio) erano sanzionati più severamente per la donna che per l’uomo. Inoltre, fatto di non poco rilievo, la donna abbisognava dell’autorizzazione maritale per ogni atto di natura patrimoniale (eccetto il testamento) ed era esclusa da ogni autorità sui figli, mentre l’uomo deteneva nei loro riguardi ampi poteri disciplinari ed era peraltro usufruttuario dei loro beni. A tale riguardo, occorre però, con senso della storia, notare due elementi : a) tali disposizioni, oggi ovviamente totalmente anacronistiche e in stridente contrasto col comune sentire sociale, sono state abolite nel corso dei decenni da una costante modifica per novellazione (norme di produzione legislativa che si inseriscono nel Codice modificandolo settorialmente) che ha finito per creare progressivamente la parità tra i coniugi. E non molto tempo fa: si pensi ad esempio che l’autorizzazione maritale è stata abolita in Francia, parzialmente, solo nel 1938 e, definitivamente, nel 1967 (in Italia l’autorizzazione fu abolita ipso iure nel 1919). b) nonostante questo, persino la materia familiare presentava notevoli progressi e innovazioni rispetto all’antico regime : pensiamo all’introduzione dell’istituto del divorzio (esperibile anche da parte femminile), pur se con una portata limitata nell’originaria versione del Code, o al fatto che i doveri di assistenza e fedeltà familiare avevano pur sempre una valenza reciproca (imponendo così doveri anche all’uomo), o alla possibilità per la donna di ricorrere al giudice in caso di ingiustificato rifiuto dell’autorizzazione maritale. Infine, i poteri sui figli non erano vitalizi ma avevano fine con la maggiore età: né il Code prevedeva più nei riguardi dei figli, come talune codificazioni europee di antico regime, una crudele casistica di pene corporali (la “Züchtigung” di prussiana memoria, lett. “castigo” inflitto dal padre). In tema di proprietà, il Code innova ovviamente in profondità. Nella sua ispirazione liberale, il Code considera la proprietà come un diritto individuale per antonomasia, e non più come un diritto spettante, collettivamente, a gruppi o famiglie. Essa è, secondo l’articolo 544, “il diritto di godere e disporre delle cose nel modo più assoluto, purché se ne faccia un uso lecito secondo le leggi o i regolamenti”. Una definizione che non potrebbe essere più chiara e intelligibile! Ne consegue che il proprietario può escludere il diritto altrui, e proteggere il bene contro possibili intrusioni : l’espropriazione ha carattere eccezionale. Nel 1804,anno di nascita del Code, il padre di famiglia, che abbiamo visto protagonista del Libro I, è un buon padre di famiglia se è proprietario e se lascia in eredità dei beni ai figli. Il Code è, in fondo, dedicato a lui : a questo padre di famiglia/proprietario, saggio, buon padre e buon cittadino, marito e padre, attento ad aumentare il capitale che possiede per poterlo, un giorno, trasmettere ai propri discendenti. Ma gli artefici del Code hanno esplicitamente voluto richiamarsi ad una falsariga di proprietà individuale già tracciata dal diritto romano. Il diritto romano aveva infatti conosciuto e regolamentato una proprietà unitariamente concepita e intesa come dominium (l’odierno diritto di godere, e di disporre, di un bene), che poi il diritto feudale, per sue esigenze di organizzazione della società, aveva scisso nel dominium eminens del titolare del diritto e nel dominium utile di chi concretamente lo utilizza. Orbene, il Code (pur non ignorando forme di “scissione” della proprietà, quali l’usufrutto) vuole rompere col diritto feudale e ritornare ad una concezione unitaria del dominium, che non però poteva non essere quanto di più funzionale si potesse porre in essere in omaggio al principio – sancito dal già citato articolo 544 - della illimitata facoltà di disporre di un bene. E alla lettura di tale norma, è inevitabile il pensiero di quanto essa abbia influenzato le codificazioni successive (ivi compresa, in fin dei conti, quella vigente attualmente in Italia)! La disciplina del possesso, poi, qualificato dall’articolo 2228 del Code, in senso estremamente liberale, come “la detenzione di un bene che è in nostro possesso o il godimento di un diritto esercitato da noi stessi o per mezzo di un altro che detiene la cosa o esercita tale diritto in nostro nome”, forse più di ogni altra norma di codificazioni moderne o contemporanee permetterà e avvallerà il crearsi e consolidarsi della nuova classe dei proprietari. Gli sconvolgimenti patrimoniali verificatisi in Francia e in Europa a seguito degli eventi rivoluzionari con l’espropriazione e la vendita dei “beni nazionali” (proprietà ecclesiastiche ecc. fino ad allora inalienabili) trovavano ora, infatti, una base giuridica che consentiva una legittimazione all’acquisto di tali beni. E una legittimazione alla loro libera circolazione : per i nuovi proprietari, infatti, il possesso varrà titolo, dato che l’articolo 2279 permetterà il trasferimento di proprietà di un bene mobile mediante la semplice consegna, anche nel caso il cui l’alienante non ne sia proprietario!! Il regime successorio, infine, visto non in sé (come nel codice attualmente vigente, che gli dedica un intero libro), ma come pura “tecnica” di trasmissione della proprietà , veniva anch’esso grandemente semplificato : era abolita, ad esempio, l’accettazione di eredità, e gli eredi potevano direttamente entrare in possesso dei beni (a tal proposito si innovava rispetto al passato, poiché veniva creata eguaglianza tra eredi di sesso maschile e femminile). Non solo, ma con la disposizione dell’articolo 732 (“la legge non considera, ai fini della successione, né la natura né l’origine dei beni”) tutti i beni venivano dichiarati libero oggetto di successione. 5. L’applicazione e le resistenze al Code Napoléon in Italia. Per un certo tempo, il Code divenne legge vigente anche in Italia. Questo accadde a seguito dell’occupazione e annessione diretta all’Impero napoleonico, dal 1802 al 1810, di vaste parti della penisola (Piemonte, Liguria, Parma, Toscana, Lazio), nonché a seguito della creazione di Stati italiani satelliti della Francia (regno d’Italia, con capitale Milano, dal 1805 ; Regno di Napoli dal 1806). Per il regno d’Italia napoleonico, ad esempio, Bonaparte dispone la messa in vigore del “suo” Code a partire dal 1° gennaio 1806, data che poi “slitterà” al primo aprile dello stesso anno (Terzo Statuto costituzionale del Regno, articolo 56). Grande attenzione è riservata all’elemento linguistico, e per evitare problemi se ne dispone la traduzione in italiano (“Il Codice sarà in seguito stampato e pubblicato in latino, in italiano e in francese. La sola traduzione italiana potrà essere citata nei tribunali, ed avere forza di legge”). La vigenza del Code durò pochi anni, poiché nel 1814 gli antichi sovrani tornarono sui loro troni restaurati e richiamarono più o meno tutti in vigore (ad eccezione di Lucca e Genova) le antiche leggi prenapoleoniche; cionondimeno, tale esperimento ebbe grande importanza se non altro come “laboratorio di prova” per la formazione di una nuova classe di giuristi, teorici e pratici, nonché per gli echi futuri che tale testo susciterà, allorquando, due generazioni più tardi, sarà ripreso a modello della codificazione dell’Italia unita. In vigore dunque su gran parte della penisola per un arco di tempo di poco meno di un decennio, il Code sarà ben accetto, in generale, ma susciterà talora anche resistenze. Ben accetto innanzitutto e sostanzialmente, con le sue norme in tema di famiglia ma anche di circolazione dei beni, ad una società “borghese” portatrice, anche in Italia – almeno nelle sue regioni più avanzate -, di quelle stesse esigenze di certezza giuridica e libertà economica, ma anche di ordine gerarchico, domestico e sociale, già viste in precedenza in Francia. Ma ben accetto anche ai “tecnici” : la classe dei giuristi chiamati a gestirlo si renderà infatti ben presto conto degli enormi vantaggi in termini di semplificazione del diritto applicabile, rispetto alla molteplicità di fonti normative del diritto comune (spesso una vera e propria giungla : chi non ricorda l’Azzeccagarbugli, riuscita caricatura manzoniana di tale caos giuridico?). E alla facile critica del carattere “straniero” del Code, essi replicheranno in gran parte che, certo, esso proviene innegabilmente d’Oltr’alpe, ma che sostanzialmente, nei suoi istituti (es. la disciplina della proprietà), esso riprende, razionalizza e semplifica una tradizione romanistica nata, sviluppatasi e fiorita innanzitutto in Italia prima di partire alla conquista dell’Europa e diventarne patrimonio comune. Se resistenze al Code vi furono, esse riguardarono essenzialmente taluni istituti forse più difficilmente “digeribili” dal punto di vista sociale nell’Italia – ancora scarsamente laicizzata – dell’epoca : é il caso del divorzio, o della comunione dei beni. Vi furono in effetti su questi punti vaste perplessità ovunque, e, soprattutto nel regno di Napoli, proposte di ritardarne l’applicazione o addirittura di emendarlo, stralciando il divorzio. A Bologna, nel 1806, il Senato cittadino ebbe a protestare pubblicamente di fronte al prefetto. In generale, si può dire che relativamente pochi furono –secondo un ormai celebre scritto di Croce degli inizi del secolo – i casi di divorzio nell’Italia napoleonica. La lingua non rappresentò minimamente un problema di comprensibilità tale da suscitare resistenze o perlomeno perplessità poiché, salvo nelle regioni direttamente annesse, in cui il francese era più o meno conosciuto (Piemonte), furono rapidamente approntate traduzioni in lingua italiana facenti fede in ogni circostanza. E nel 1810 Napoleone, forse memore delle sue origini corse, dispone, che nella Toscana da poco annessa all’impero francese, le disposizioni del Code faranno fede in italiano. In definitiva, se resistenze da parte dei giuristi vi furono, esse poterono provenire non già dai teorici, ma dai pratici del diritto: resistenze “semiclandestine”, ed esempio, di magistrati formatisi alla scuola del diritto comune, e quindi abituati da sempre ad utilizzarlo : essi, presumibilmente, potrebbero aver continuato, per mentalità o abitudine inveterata, a usare, nelle loro sentenze, lo ius commune come fonte sussidiaria del Code. Tale ipotesi, ampiamente dimostrata e fondata per certe aree della Germania (Renania) non é pero ancora dimostrata per l’Italia e attende di essere suffragata da future ricerche sull’immenso materiale giudiziario dell’epoca. 6. L’applicazione e l’eco del Code in Europa Analogamente, e come accennato sopra, il Code Napoléon ebbe una vasta eco in ambito europeo : fu applicato direttamente (o “in fotocopia” tradotta, come nel Baden nel 1806) in territori annessi o satelliti dell’impero francese nel decennio 1804-1814 (es. Belgio, Olanda, Renania, Svizzera, Polonia, Italia come già visto), ed é servito in seguito, più in generale, come punto di riferimento di una prima riuscita codificazione. La sua fortuna declinò poi con l’emergere, alla fine del XIX secolo, di altri codici di grande rilievo : primo fra tutti, il BGB tedesco. Un’analisi storica compiuta di quello che rappresentò il Code Napoléon in Europa non può però prescindere - soprattutto nel momento attuale in cui ci si accinge a celebrarne il bicentenario dell’esistenza in Francia, Belgio, Lussemburgo e in molti altri paesi europei ed extraeuropei, come quelli d’America Latina – dalla considerazione di base che, se da un lato esso fu funzionale alla nuova libertà economica legata all’ascesa della borghesia commerciale, dall’altro si scontrò, anche in Europa e non solamente quindi in Italia, con le resistenze dei “pratici” : spesso giudici che malvolentieri rinunciavano dall’oggi al domani ad applicare lo ius comune (essenzialmente, il corpus del diritto giustinianeo) e che quindi hanno continuato, nella loro attività quotidiana, ad integrare (contra legem, s’intende) il Code con tale fonte di diritto. Un esempio è stato oggetto di ricerche esaustive : la giurisprudenza della Corte d’Appello di Treviri, competente in materia civile per tutti i territori renani annessi alla Francia napoleonica. Vi sono frequentissime sentenze, già in piena vigenza del Code, la cui base legale è costituita non solo da articoli di tale testo, ma anche (come in piena età del diritto comune) dalle disposizioni del Codex giustinianeo, o dalla menzione di principi tratti dal diritto romano quale “ragione scritta” che s’impone sempre e comunque al legislatore. 7. Gli sviluppi dottrinali in Francia. La scuola dell’esegesi Il Codice napoleonico è stato esaltato come un capolavoro giuridico e linguistico. Stendhal ne raccomandava la lettura a Balzac proprio da questo punto di vista. In realtà c’è molto di vero in questo ‘mito’ codicistico. Esso ha infatti avuto un successo enorme, venendo presto imitato anche in America latina e poi nei Paesi socialisti, oltreché in Europa continentale, dove viene portato subito dalle armate napoleoniche. Perché? Esso si presenta come ‘legge di ragione’, approvata dalla ‘volontà generale’ del popolo più che dai giuristi (anche se fu preparato da giuristi), di cui la Rivoluzione diffidava considerandoli controrivoluzionari. Le Facoltà di giurisprudenza vennero persino chiuse per un certo tempo e si auspicarono sistemi di giustizia privi di tecnici del diritto! Il codice doveva fornire un argine ai poteri dei giudici, che dovevano divenire bouche de la loi (bocca della legge), ma anche le leggi dovevano intanto operare in questo senso. Il Code è il frutto di un’opera di semplificazione di quattro diversi progetti, alcuni giudicati troppo casistici, altri troppo astratti. Esso risulta dunque un punto di equilibrio tra questi due estremi, ed è rimasto come modello di redazione delle norme giuridiche ancora oggi seguito nella tradizione giuridica continentale, detta di “civil law”. La ‘regola’ codicistica non deve essere troppo generale, perché se così fosse non fornirebbe nessuna guida, ma neppure troppo casistica dovendo applicarsi a una categoria intera di situazioni. Il codice non può risolvere tutte le questioni che si presenteranno, ma deve accogliere un insieme di regole che nel loro complesso, viste complessivamente - in sistema - lo consentano. Esso deve essere senza lacune e contraddizioni, per evitare di creare quell’incertezza del diritto che darebbe di nuovo spazio ai giudici. In realtà il codice non è privo di ambiguità e lacune, come osservarono presto anche i pandettisti. Il diritto di proprietà - si dice ad esempio - è al centro del codice, che lo definisce come ‘diritto assoluto’, ma poi si aggiunge che regolamenti e atti amministrativi per necessità pubbliche possono consentirne l’esproprio o modificare l’uso del bene, e quindi lo possono annullare. Nell’art. 1108 per il contratto, che si dice libero e autonomo, si prescrive una ‘causa lecita’ che all’art. 1133 si precisa esserci quando il contratto non è contro i buoni costumi o l’ordine pubblico: ma come vanno intesi i due concetti che sono causa di invalidità del contratto? Rimane incerta, in sostanza, la validità di qualsiasi accordo. La responsabilità civile viene basata sulla colpa, ma che cosa è la faute (pronuncia fot, colpa) codicistica? Non sarà da riempire di contenuti in base a certi criteri che non sono indicati? Il mito del codice autosufficiente, completo, non regge alla critica storica odierna, eppure venne già alimentato dai giuristi che lo applicarono per primi - quelli che furono poi detti giuristi della École de l’exégèse, ossia della Scuola dell’esegesi, che tanta importanza ha avuto in Italia fino alla seconda metà dell’Ottocento. Essi infatti temerono di essere tacciati di manipolare il diritto sotto veste di equità come avevano fatto i giudici dei Parlements e i ‘dottori’ secondo le accuse degli illuministi, ma in realtà per fini clientelari e politici. Perciò accettarono in toto la teoria ‘positivistica’ delle fonti proposta dalla Rivoluzione, ossia 1) del primato assoluto della legge e 2) della riduzione ad essa del diritto. Essi si presentarono infatti come semplici ‘esegeti’, burocrati del codice, facendo continue affermazioni di rispetto per la lettera della legge e della volontà del legislatore. Non vollero pertanto assumersi (almeno esteriormente) responsabilità politiche, come avevano fatto invece i giuristi di diritto comune con la loro interpretatio (estensiva o restrittiva), ma si presentarono come meri esecutori della legge, accettando l’assunto che tutto il diritto fosse nella legge. È appunto un carattere precipuo della Scuola dell’Esegesi, ossia il mos (= lo stile) francese ottocentesco di interpretare il codice, in opposizione netta alla Scuola storica tedesca. In realtà le cose andarono ben diversamente, perché i giuristi anche francesi (giudici compresi) in pratica usarono tutte le tecniche interpretative elaborate nel corso dei secoli a partire dalla ‘rinascita’ bolognese. Gli esegeti perciò non furono affatto succubi della norma codicistica. Per cui: 1) salvo novità di grande rilievo politico (come il divorzio) c’è una certa (e per certi aspetti notevole) continuità di contenuti, ossia di disciplina concreta, tra ius commune e diritto codificato. Il Codice napoleonico infatti fonde la tradizione romanistica, per la proprietà e le obbligazioni in particolare, con quella di diritto consuetudinario (famiglia e successioni), mettendo a livello legislativo quello che a livello dottrinale aveva ‘combinato’ il Pothier, che aveva armonizzato le varie fonti del diritto francese tradizionale. Ma c’è anche 2) qualcosa di più profondo che bene colgono gli studiosi stranieri, in particolare gli anglo-americani, guardando al problema del rapporto diritto comune-diritto codificato: ossia che il sistema introdotto dal Code Napoléon voleva fare completamente a meno del diritto comune, l’esecrato diritto dell’Ancien régime, ma in realtà continuò per certi aspetti quel sistema. Certo, non c’è più da riferirsi ora, nelle sentenze, alle leggi del Corpus iuris quanto invece agli articoli del Code, ma si continuò il sistema nel senso che vi continuò ad avere una larga parte l’interpretazione dei giuristi. Questo è in fondo il grande contrassegno dei sistemi di civil law, cioè quelli di origine romanistica dell’Europa continentale: il ruolo importantissimo che vi ha sempre svolto (in misura più o meno ampia in base alle circostanze) il giurista, ossia la dottrina, a differenza di quanto avviene nei sistemi di common law, a sviluppo giurisprudenziale in senso giudiziario, ossia guidato dai ‘giudici’, più che dal legislatore e dal ‘dottore’. La discontinuità quindi tra ius commune e Code è da un lato nei modi della formulazione delle norme, ora raccolte in un unico testo e formulate in modo generale ed astratto, e dall’altro nel ruolo della legge, che vi appare come fonte assoluta di produzione normativa, e perciò non ‘eterointegrabile’. Il codice quindi richiama e si fonda su quello stesso sistema che era stato costruito dai giuristi sulla base del Corpus iuris. Quanto alla responsabilità civile, ad esempio, all’art. 1382 dichiara che “il danno obbliga chi lo ha commesso per sua colpa a ripararlo”. Una formula tanto ampia favorì in pochi anni, di fatto, l’affermazione della regola opposta, che cioè di regola invece non si risarcisce il danno. Questa interpretazione venne giustificata con il fatto che se l’art. 1382 si trovava nel capitolo dedicato ai ‘delitti e quasi delitti’, ai fini del risarcimento si doveva innanzitutto avere un atto illecito. Ogni volta quindi bisognava rintracciare una norma proibitiva di un dato comportamento! Solo in un secondo tempo si ampliarono progressivamente le ipotesi di responsabilità civile, ma come si vede sempre (e inevitabilmente!) per via interpretativa. Insomma, i giuristi francesi furono dei tecnocrati molto abili, la cui opera trasformò profondamente il codice, ma essi accreditarono comunque il mito che il codice fosse organico e completo come richiesto dall’opportunità politica e dalla cultura del tempo! Essi operarono abilmente tra principi generali e regole di decisione, ad un livello diverso da quello del legislatore, usando entrambi i livelli e con sinergie tra dottrina e giurisprudenza. Il che fu possibile perché gli stessi autori del codice erano dei pratici, profondi conoscitori della giurisprudenza (dei dottori e dei tribunali). Ad esempio, consigliere di Napoleone fu il Merlin, poi Procuratore generale presso la Cassazione fino alla Restaurazione, che non lo perdonò di aver votato la condanna a morte di Luigi XVI nel 1793. Dal Merlin prende avvio comunque un dialogo tra dottrina e giurisprudenza, che operò in modo molto libero, ma senza darlo a vedere, con prudenza. Il che fu possibile perché i tribunali, in particolare la Cassazione, da subito seguendo un po’ la prassi dei Parlements soppressi dalla Rivoluzione, motivò con un’unica frase, il tipico attendu que (‘atteso che’, detto stile del jugement à phrase unique, ‘giudizio a frase unica’), che fa mostra di applicare il sillogismo giuridico, ma in realtà consente di operare molto liberamente. La motivazione di questo tipo è un ottimo modo per tenere lontano occhi indiscreti, ma impedisce che si formi una giurisprudenza consolidata, anche perché tace sui fatti, per cui non si può ricostruire il distinguishing, l’arte di distinguere, ossia come si sono differenziate le fattispecie. Essa dà solo la decisione nel caso concreto. La dottrina in sostanza provvede a sistematizzare gli indirizzi della giurisprudenza. Non per niente la migliore opera, ancora oggi utilizzabile, dell’École de l’Exégèse, è quella di due giuristi dell’Università di Strasburgo, Aubry e Rau (pron. ‘obrì’ e ‘ro’), nata dall’opera in tedesco di Zachariae von Lingenthal (‘Zacarie fon linghental’), professore a Heidelberg. Questi aveva scritto un manuale di diritto francese, dato che il codice continuò ad applicarsi in alcuni territori della Germania pur dopo la Restaurazione; l’opera, fortemente sistematica, alla tedesca, fu dai due francesi tradotta e ampliata al punto di renderla un’opera nuova, autonoma: ebbene, essa è stata ancora riedita nel 1933 e a suo tempo, nel corso dell’800, tradotta in italiano! Tuttavia, mentre la sistematica della Pandettistica tedesca fu rigorosa, perché faceva discendere le applicazioni dai principi primi, quella della scuola francese dovette sempre fronteggiare la giurisprudenza dei tribunali, per cui faceva delle regole e poi ammetteva come eccezioni gli indirizzi giurisprudenziali dissenzienti. Ad esempio, Aubry e Rau alla III edizione cessarono di sostenere una certa tesi in tema di azioni possessorie perché - ammisero - la giurisprudenza era in senso contrario. Altre volte furono più duri e criticarono aspramente la giurisprudenza. Nel complesso, comunque, la dottrina fu molto vivace e anche polemica al proprio interno: ciò che importava era convincere i giudici a dare certe interpretazioni. Si ebbe così una vera e propria fioritura della letteratura giuridica. Si contano ben 17 trattati di diritto civile della Scuola, di cui uno, quello del Laurent (pron. ‘loràn’), in ben 33 volumi! Il codice portò insomma a complesse interazioni tra dottrina, legge e giurisprudenza. Particolare importanza poi rivestì la Corte di Cassazione, che si discostò raramente dai propri precedenti, pur non essendo obbligata a seguirli (come anche in Italia), e che nel giro di pochi decenni dominò le Corti d’Appello che si ostinavano a interpretare in modo libero, sentendosi soggette solo alla legge! 8. L’Austria e il Codice civile del 1811 (ABGB). Ben diverso fu il contesto nel quale si sviluppò e vide la luce il codice civile austriaco del 1811. Esso é il portato e la conseguenza dell’opera riformatrice instancabile di Maria Teresa prima (1740-1780) e del figlio Giuseppe II poi (1780-1792), opera volta a razionalizzare e semplificare il diritto dei paesi facenti parte della Casa d’Austria (tra cui é da annoverare ovviamente anche, dal 1714, la Lombardia). Una prima tappa é raggiunta nel 1776 grazie al cosiddetto Codex Teresianus ; però, a partire dal 1780, Giuseppe II si convince che la codificazione – in cui (come nelle compilazioni tipiche del ‘700 quali Modena, 1723, o il Piemonte, 1770-71) ampio spazio trovavano ancora il riconoscimento dei diritti locali e il diritto comune - necessita di una fase ulteriore di modernizzazione. Il suo obbiettivo, del quale la codificazione rappresenta una parte, seppure importante, é infatti più vasto : la riduzione o eliminazione dei privilegi nobiliari ed ecclesiastici e il consolidamento del potere centrale. In effetti, negli anni ’80 del ‘700, l’instancabile sovrano emana una serie di provvedimenti che anticipano, in un quadro di riforme pacifico e ordinato, le turbolente e spesso convulse conquiste della Rivoluzione francese di quasi un decennio successive : nel 1781, un editto di tolleranza pone le basi della separazione tra Stato e chiese e dell’eguaglianza dei sudditi/credenti di fronte alla legge, nel 1783 é “creato” il matrimonio civile, nel 1785 sono ridotti i privilegi nobiliari in materia successoria ed é varato un editto sulla libertà di commercio (1786) e infine, in quel 1789 rivoluzionario in cui nella turbolenta Francia i contadini indigenti per la carestia daranno l’assalto alle dimore feudali, é adottata invece in Austria una legge sui riscatti delle terre feudali che consente ai contadini l’affrancamento e la loro trasformazione in affittuari ereditari. Nel 1787 fu poi emanato il primo libro di un Codice che conteneva la disciplina delle persone e della famiglia e a cui avrebbe dovuto seguirne un secondo dedicato alla proprietà, ma che rimarrà incompleto. La morte di Giuseppe II e le vicende legate alle guerre contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica bloccheranno per diversi anni il completamento dell’opera civilistica, che vedrà la luce solo nel 1811 per entrare poi ufficialmente in vigore, nei vasti, eterogenei e multilingui domini della Casa d’Austria, il 1° gennaio 1812 col nome di “Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch” (letteralmente “codice civile generale”). Il codice civile austriaco costituisce, nel campo del diritto, una vera e propria alternativa ideale rispetto al Code Napoléon. Innanzitutto, esso é grandemente legato all’influsso che il diritto naturale – nella sua grande tradizione del XVII-XVIII secolo in Inghilterra e nei paesi germanofoni, tradizione legata a Locke, Thomasius, Pufendorf e Wolf - ebbe sui giuristi che ne curarono la redazione, primi fra tutti lo Horten e il Martini. Contrariamente alla concezione – giuridica e codicistica - francese, ancor oggi fortemente statualistica, secondo cui il legislatore crea ed istituisce diritti individuali prima inesistenti, l’idea alla base dell’ABGB é che un corpo di leggi (statali) non é se non il migliore strumento per dare attuazione a diritti soggettivi già preesistenti ma che senza una trasposizione in norma positiva non avrebbero certezza giuridica. Inoltre, pur inaugurando anch’esso la serie dei codici “moderni” che escludevano – come il Code Napoléon - ogni possibilità di integrazione esterna da parte del diritto comune, l’ABGB consente (una sua disposizione lo prevede esplicitamente) un accoglimento di “principi tratti dal diritto naturale” in caso di lacuna. Nella struttura, poi, pur seguendo la tradizionale suddivisione in una (breve) parte generale, una prima parte sul diritto delle persone, una seconda parte sul diritto delle cose, e una terza parte (di circa 160 articoli) dedicata alle “disposizioni generali”, l’ABGB é anche qui ben diverso rispetto al suo (quasi) coetaneo omologo francese : a) in primo luogo, é ben più breve e conciso di questo (700 articoli in meno : 1502 contro 2281); b) inoltre, la terza parte dell’ABGB prefigura per la prima volta, seppure per sommi capi, quella figura del negozio giuridico che avrà poi enorme fortuna nella dottrina giuridica continentale grazie soprattutto all’elaborazione fattane dalla Pandettistica; c) infine, l’ABGB lascia più largo margine di quanto ne lasci il Code al lavoro dell’interprete. Anche per questo motivo, la dottrina giuridica non si limiterà ad essere, in Austria (e ancor più in Germania), una semplice “scuola dell’esegesi” all’ombra di un invadente codice monocentrico, ma assumerà iniziative molto più autonome nell’ambito dell’elaborazione, innovazione e riforma del diritto. Occorre poi dire, da ultimo, che l’ABGB é stato anch’esso parte integrante della storia del diritto italiana, in quanto fu introdotto nel Lombardo-Veneto a partire dal 1° gennaio 1816 (Restaurazione) e vi rimase in vigore fino alla vigilia dell’Unità d’Italia. 9. La scuola storica tedesca Il Giusnaturalismo in Francia – nella misura in cui ebbe un seguito tra i giuristi - fu gestito, oltreché da filosofi, da giuristi operanti a stretto contatto con la giurisdizione nazionale, per cui ebbe riflessi molto pratici e politici. In Germania invece fu sviluppato da professori d’Università e da governanti, in una situazione di frammentazione politica e giurisdizionale. I giusnaturalisti tedeschi erano lontani dalla pratica, per cui l’insegnamento loro rimase lontano dall’usus modernus del foro e collegato piuttosto alla giurisprudenza c.d. elegante di tipo umanistico, molto in uso tra i giuristi olandesi del Seicento. La ‘Scuola storica’ nacque e crebbe nello spazio lasciato da questa lacuna della dottrina. La Scuola storica, per quanto nata in contrapposizione al giusnaturalismo, ora a distanza di tempo è vista accanto ad esso come manifestatosi in Germania. L’una e l’altra corrente elaborarono una dogmatica fondata sulla sistematica giuridica e sul metodo induttivo (scuola storica) e deduttivo (filosofica): diritto soggettivo, diritto oggettivo, negozio giuridico sono elementi di studio comuni a entrambe le scuole. Dove si ha una divergenza è nell’apriorismo del giusnaturalismo, che la scuola storica non condivide affatto; inoltre nel fatto che Savigny è un vero positivista, perché parte dal diritto ‘dato’, perché ritiene che il giurista debba occuparsi solo del diritto positivo - bandendo diritto naturale etc. Egli sosteneva che le Università - come quella di Berlino, di nuova fondazione, 1810, sulla base del programma riformatore di von Humboldt - si dovessero occupare di nuovo seriamente di diritto positivo per formare davvero dei buoni giuristi (che la Germania aveva solo in misura limitatissima allora). Così le Università forgiarono i concetti raffinati con cui affrontare i problemi nuovi degli Stati liberali e dell’economia capitalistica. Secondo la Scuola storica tedesca infatti (portando alle estreme conseguenze le dottrine di Thomasius e Montesquieu) il diritto non risulta dalla natura dell’uomo - come vogliono i giusnaturalisti - ma dalla storia di ogni popolo, o meglio dalle sue forze latenti, indicate nell’espressione Volksgeist (‘spirito del popolo’, pron.: ‘folksgaist’), ma non da intendersi in modo democratico, perché la scuola fu piuttosto aristocratica, elitaria, politicamente conservatrice, attenta alla consuetudine. Infatti, per loro il popolo non si esprime direttamente, ma solo per il tramite dei giuristi, che sono gli unici tecnici abilitati a capire che cosa il popolo stesso ha prodotto. Quindi questi studiano il diritto del proprio popolo per stabilire quale è il ‘patrimonio’ che si deve amministrare, e in sostanza spetta a loro definire come ‘ringiovanirlo’, come renderlo attuale. Quindi il giurista deve essere anche storico e ricostruire la letteratura giuridica della Nazione, che permette di conoscerne il diritto. Orbene, tale letteratura era di tipo romanistico, perché è vero che tra i fondatori della scuola ci furono anche degli studiosi di diritto germanico antico, ma gli studi in questo campo erano allora appena agli inizi, per cui inizialmente non poterono influire in modo efficace. Savigny invece ebbe subito una grande fortuna e fu considerato fondatore della scuola, anche se a dire il vero iniziatore era stato un professore dell’Università di Gottinga, Gustav Hugo (1764-1844). Savigny però fu subito molto noto anche per lo stile: il suo famoso scritto contro la codificazione, ossia Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza, venne considerato una delle prose più belle della letteratura tedesca. Savigny era un romanista, per cui lavorò sulle fonti romanistiche in modo dotto, come nella giurisprudenza elegante e umanistica, ripudiando il lavoro farraginoso dei Commentatori italiani, che giudicava negativamente - come già avevano fatto gli umanisti prima di lui -, perché a suo avviso avevano corrotto il diritto romano. Egli passava direttamente dai Glossatori ai Culti nel tentativo di meglio capire il diritto giustinianeo e la sua genesi (capire quel diritto per applicarlo ammodernato e sistematizzato nel presente). Inizia da qui la c.d. giurisprudenza dei concetti, che dal nome dato ai libri prodotti, cioè i manuali di Pandette, prese anche il nome di pandettistica. Gli esponenti più celebri, oltre a Savigny e al suo allievo Georg Friederich Puchta (m. l846), furono Brinz, Arndts, Dernburg e soprattutto Bernhard Windscheid (m. 1892), il cui manuale di Pandette compendiò il lavoro di tutta la scuola: sette edizioni durante la vita dell’autore! Idea base della pandettistica è che l’ordinamento giuridico costituisca un sistema completo, chiuso. Il che si adattava molto bene al nazionalismo dell’Ottocento e all’idea d’uno Stato sovrano, non comunicante con gli altri Stati che in modo formale, tramite le istituzioni legittimate a farlo. Quindi le eventuali lacune delle leggi non erano anche lacune del sistema che aveva sempre, nelle sue strutture logiche, i mezzi per colmarle. Il giurista non doveva far altro che ‘trovare’ la soluzione già presente nel sistema. Quest’ultimo ha in sé la propria validità in quanto la sua logicità è garanzia di giustizia. In ciò si vede un chiaro influsso dell’idealismo del filosofo Hegel: vera realtà sono i concetti e le proposizioni dommatiche. Che il dominio (proprietà) sia ‘elastico’ è non una conseguenza di quanto dice la legge, ma un carattere reale della proprietà! Una critica ad essi mossa fu che, conoscendo anche il diritto romano pregiustinianeo, i pandettisti nel loro lavoro dommatico armonizzarono fonti diverse, costruendo un diritto romano che non ha mai avuto vigenza storica. Essi cioè misero assieme, entro il tessuto connettivo della sistematica, un diritto romano ‘meta-storico’, al di là della storia, fittizio. In particolare ciò emerse nell’elaborare la parte generale (Allgemeiner Teil), ossia i concetti base del diritto privato, in cui andarono ben oltre l’elaborazione dei giusnaturalisti e dell’ABGB (pronuncia ‘abeghebé’), ossia il Codice civile austriaco del 1811. Un’altra critica riguardò il loro formalismo, la loro insensibilità per i bisogni della pratica e la pretesa di fissità del loro sistema, che portava al quietismo legislativo (“si lascino fare i giuristi”). Critiche furono mosse ad esempio da Rudolf von Jhering (‘fon ierin’, m.1892) e da Otto von Gierke (‘fon ghirke’, m.1921) nonché dalla Scuola del socialismo giuridico, e sboccarono nella giurisprudenza degli interessi. In Serio e faceto nella giurisprudenza (1884, ed. ital. 1954), Jhering immaginò che nell’aldilà ci fosse un paradiso dei concetti giuridici in cui venivano ammessi in eterna beatitudine solo i giuristi dogmatici; gli eletti dovevano essere abili ad usare la macchina spacca-capello. Paradiso rimasto a lungo vuoto, ma poi con l’ingresso di Puchta, nel 1846, esso cominciò finalmente ad essere popolato di giuristi tedeschi; lo stesso Savigny, però, morto dopo il suo allievo, nel ‘61, rischiò di non essere ammesso! Egli infatti aveva paventato la sistematica astratta e la separazione di teoria e prassi, difetti propri del giusnaturalismo, ma i suoi allievi si fecero prendere la mano dagli strumenti che il Savigny stesso aveva loro consegnato e finirono per ricadere in difetti del genere. Tra le opere del Savigny - oltre a Della vocazione già citato - ricordiamo: La dottrina del metodo giuridico, corso tenuto a Marburg nel 1802-03 ove ebbe due allievi d’eccezione, i fratelli Grimm (proprio loro: quelli delle fiabe!), che presero degli appunti alle lezioni del Savigny poi ritrovati e editi soltanto nel 1951; Il diritto del possesso (I ed. del 1803), dove con metodo rigoroso, costituì un modello per ricerche successive; la Storia del diritto romano nel medioevo (in 7 voll. usciti tra il 1815 e il 1831 in I ed.), opera ancora oggi utile per lo studio della giurisprudenza medievale (tradotta in italiano dalla I ed. soltanto); il Sistema del diritto romano attuale (8 voll., 1839-49, solo parte generale); il Diritto delle obbligazioni (che è una parte speciale dell’opera precedente). I suoi Scritti vari occupano 5 voll., in buona parte pubblicati sulla “Rivista per la giurisprudenza storica” da lui fondata e che si continua ancor oggi col titolo di Rivista della Fondazione Savigny per la storia del diritto (si chiama infatti “Zeitschrift für Rechtsgeschichte der Savigny-Stiftung”). Tra gli scritti programmatici importante il Della vocazione già citato, del 1814, scritto polemico contro un altro del Thibaut, professore a Heidelberg, scritto in favore della codificazione anche in Germania, sempre del 1814. Lo scritto di Savigny è un po’ la carta programmatica della sua scuola. La Scuola è quindi molto diversa da quella esegetica francese, che trionfò in Italia almeno fino al codice del 1865 e agli anni ’70 dell’Ottocento. Ma c’è anche qui una fondamentale esigenza positivistica che consentiva la saldatura della Pandettistica con le correnti liberali del tempo e fece sì che in Germania la codificazione si svolgesse alla sua insegna. Inoltre non va dimenticato che la Pandettistica ha svolto la funzione storica primaria di unificare culturalmente i giuristi tedeschi ben prima che la Germania lo fosse grazie all’opera di Bismark, con la proclamazione del Reich nel 1871! 10. Il processo di codificazione in Germania All’inizio dell’Ottocento infatti, quando operava il Savigny, la Germania si presentava ancora politicamente disunita ben più dell’Italia. Il Sacro Romano Impero (ed il Tribunale camerale dell’Impero) era stato dichiarato estinto dall’imperatore asburgico nel 1806. Il Deutscher Bund (la lega tedesca, ‘doiccer bunt’) che uscì dal Congresso di Vienna invece dei preesistenti 400 Stati fu composto ancora di ben 40 stati sovrani (35 principati più 5 città libere), di cui due in forte contrasto tra loro: Prussia e Austria, entrambi con un loro codice, rispettivamente l’ALR (letteralmente ‘diritto territoriale generale’) del 1794 e ABGB (letteralmente: ‘libro della legge civile generale’) del 1811; la Renania e il Baden conservarono il Code Civil. Nonostante il frazionamento politico, la coscienza nazionale si rafforzava e Thibaut esprimeva appunto l’idea dei progressisti liberali che lottavano per l’unificazione del Paese pensando che il codice l’avrebbe favorita, così come avrebbe modernizzato il Paese. Savigny replicava nella Vocazione in modo molto articolato. Per lui i codici erano da considerare un intervento o inutile o dannoso, perché sono i giuristi gli interpreti dello spirito popolare e non il legislatore; loro devono cercare nella storia le soluzioni migliori. Roma l’ha mostrato chiaramente: il diritto si evolvette praticamente in assenza di legislazione grazie ai suoi giuristi e fu il migliore mai esistito! I codici per lui erano modesti, anche l’ABGB - che pure è ancora in vigore oggi in Austria. Comunque i giuristi tedeschi erano per lui ancora impreparati a predisporre un codice, perché non l’avrebbero potuto fare veramente ‘tedesco’. Si dovevano a suo avviso studiare prima il diritto vigente, la recezione e il diritto romano, che è poi il diritto dell’Europa universale, che avrebbe salvato la Germania dal provincialismo e dal particolarismo. Il discorso del Savigny, anche se abile, non era privo di contraddizioni: il diritto romano veniva proposto come fulcro delle tradizioni tedesche, perché così i giuristi tedeschi sarebbero stati i più universali, i primi in Europa. Comunque il suo scritto ebbe successo anche perché, per motivi politici, un codice unitario non era possibile. Tuttavia anche in Germania ci furono momenti legislativi importanti, come la legge cambiaria del 1848 (rimasta in vigore fino dopo la Convenzione internazionale di Ginevra del 1930), ma poi soprattutto il Codice generale di commercio del 1861, adottato entro il ’65 da tutti gli Stati. Esso ovviamente favoriva i rapporti interstatali e commerciali ed ebbe un taglio molto pratico; fu sostituito solo nel 1900 da un nuovo codice di commercio - ancora in vigore. 11. Il codice civile tedesco (“Bürgerliches Gesetzbuch”, o “BGB”). Il BGB, codice civile tedesco, entrò in vigore nel 1900 dopo lavori preparatori durati più decenni, e a quasi trent’anni di distanza dall’unificazione del paese. Nel 1873, due anni dopo l’unificazione della Germania, fu varata una legge che stabiliva per la prima volta una competenza legislativa a livello federale, rompendo così la competenza fino allora esclusiva dei singoli stati tedeschi. Era la premessa indispensabile per partire alla carica con un nuovo codice civile nazionale: nel 1874 si insediò una prima commissione formata da otto eminenti esperti, col compito di presentare un progetto di codice civile unitario. Tale progetto, elaborato in più di settecento sedute della commissione, fu presentato ben tredici anni dopo (1887), ma subito si presto’ a energiche critiche. Von Gierke e altri non mancarono di rilevarne l’eccessiva astrattezza, la lontananza dalla prassi, nonché il fatto di non rispettare le tradizioni tedesche, cioè di essere troppo romanistico, mentre Menger, un esponente del socialismo giuridico, lo bollava come codice del capitalismo. Apprezzamenti vennero invece sul piano linguistico, per la precisione dei concetti esposti e delle espressioni utilizzate. Le critiche obbligarono a continuare i lavori : una seconda commissione si insediò, lavorando dal 1891 al 1895. Il nuovo progetto fu presentato al Reichstag (il parlamento tedesco) sotto forma di progetto di legge il 17 gennaio 1896, fu approvato e fu pubblicato nella gazzetta ufficiale in agosto dello stesso anno. La sua entrata in vigore (che pose il suggello alla definitiva unificazione giuridica della Germania) avvenne il 1° gennaio 1900. Con i suoi 5 libri, articolati in parte generale, diritto delle obbligazioni, diritti reali, di famiglia e successioni, finisce l’epoca di formale vigenza delle norme romanistiche in Europa! La sua parte generale, con una sezione apposita sul negozio giuridico, divenne stimolo per la dottrina giuridica di tutta Europa e non solo. Il BGB fu copiato, ad esempio, dalla Grecia e dal Giappone (che pur aveva prima chiamato un francese per modernizzare le proprie tradizioni giuridiche), perché si ritenne tale codice tecnicamente migliore. In effetti è di grande livello, ma certo diversissimo da quello napoleonico. Questo era per i cittadini, quello si dirige espressamente ai tecnici, perché ha un linguaggio estremamente difficile, dato che è un tedesco derivato dal linguaggio scientifico romanistico; inoltre è anche molto poco maneggevole perché essendo una specie di trattato dottrinale sistematico (ed infatti è detto anche “il piccolo Windscheid” per indicare che è una specie di riassunto del trattato pandettistico di quest’autore!), per seguire la disciplina di un singolo contratto bisogna prima andare alle regole generali sulla capacità d’agire, poi a quelle generali sui contratti, poi a quelle specifiche sul singolo contratto! Con tutto ciò (e veniamo all’oggi), il BGB è ancora in vigore, ma con enormi modifiche. Se infatti si può affermare che la versione iniziale costruisse e contenesse concetti cari all’economia liberale – l’assoluta libertà negoziale – o riprendesse nella sua purezza concetti già cari al Code Napoléon – es. la proprietà come diritto assoluto -, é però anche vero che ormai da decenni il BGB va soggetto ad un’incessante opera di modifica e di riforma (per impulsi nazionali e soprattutto europei), tanto da renderne irriconoscibili intere e ampie parti. E’ stato grandemente modificato il diritto di famiglia, certo, che è quello che più ha risentito, in tutta Europa, del riconoscimento dell’uguaglianza dei coniugi e della pari loro responsabilità nei confronti dei figli. Ma mutate sono anche – per fare alcuni esempi - la materia societaria, quella delle condizioni generali di contratto e quella, introdotta nel BGB per recezione di direttive della UE, della (accresciuta) tutela del consumatore. Certi concetti-base cari al liberalismo, poi, come quello della proprietà “assoluta”, sono stati profondamente ripensati nel segno di una maggiore sensibilità sociale : si pensi alla materia delle locazioni e alla forte tutela del locatario ivi contenuta - in uno stato, la Germania, in cui la costituzione vigente (“Grundgesetz”) richiama espressamente il concetto di “economia sociale di mercato”. 12. La questione della completezza dei codici Generalmente si dice che il diritto comune cessò di aver vigore quando entrarono in funzione i codici (1804 Francia; 1811 Austria; 1900 Germania). Il codice civile austriaco caduto Napoleone venne introdotto nel Regno Lombardo-Veneto, per cui si tratta di un codice che riguardò direttamente la storia del diritto in Italia. I codici statalizzarono il diritto, per cui ufficialmente non vi fu più spazio per il diritto di formazione giurisprudenziale, sia in senso dottrinale che giudiziaria. Con il codice si entrava ufficialmente nel regno dello ‘Stato di diritto’; ciò voleva dire che non solo le attività delle amministrazioni erano regolate dalla legge, ma che ci devono essere la costituzione a fissare i diritti dei cittadini e delle leggi (e non atti governativi) a disciplinare l’attività delle amministrazioni. Il cittadino è tutelato nei confronti dell’attività di Governo, può ricorrere all’attività giudiziaria ordinaria per far valere le sue pretese, e alla giustizia amministrativa per le violazioni nella sua sfera giuridica da parte di atti amministrativi. Tutto nel rispetto della divisione dei poteri, perché dove non c’è questa, non ci sarebbe neanche lo Stato di diritto, dato che un potere prevarrebbe sull’altro - come aveva insegnato Montesquieu, notissimo nell’Ottocento. Corollario di questa visione è il giudice ritenuto “bouche de la loi” (bocca della legge), secondo l’espressione che troviamo già in Montesquieu. A metà Settecento infatti si diceva polemicamente che perché il diritto fosse rispettato era necessario che il giudice, nel pronunziare una sentenza applicasse semplicemente il diritto, non mettendoci niente di suo, a differenza di quello che facevano i giudici di Ancien régime, che con le loro decisioni sviluppavano giurisprudenzialmente il sistema. Ora invece abbiamo una visione nettamente positivistica, dove l’unico diritto è quello positivo, dato dal legislatore, per cui il giudice non può aggiungere niente. Il principio di legalità dell’amministrazione che si va creando in questo periodo sancisce la preminenza della legge. Questo fu il quadro delle fonti tipicamente ottocentesco, che si chiama anche dell’assolutismo giuridico o legislativo, diverso da quello politico (Luigi XIV: “Lo Stato sono io”, e pertanto sono anche momento di unificazione dei poteri statuali). Quest’ultimo era incompatibile con una costituzione, perché il sovrano si riteneva libero da vincoli secondo la massima già vista: Princeps legibus solutus. L’assolutismo giuridico invece è quello della legge, dove questa è vista come fonte da cui dipende non solo l’esecutivo e il giudice, ma anche la dottrina (perciò ‘esegetica’, alla francese). Conformemente a questa idea c’era quella del sillogismo giudiziario: il giudice deve soltanto trovare la norma che include la fattispecie concreta e sussumerla nella fattispecie generale, applicandola meccanicamente. I codici hanno così portato a due conseguenze: sono completi e non sono eterointegrabili. Eterointegrabile significa che un codice non può essere colmato, quando si trova una lacuna, ricorrendo a principi esterni al codice stesso. Questo è vietato perché si darebbe al giudice un grimaldello per modificare il codice riferendosi a principi che non vi sono dentro. Un appiglio a sostenere questa tesi esisteva nel Codice civile napoleonico che, all’art. 4, disciplinava il diniego di giustizia, secondo cui il giudice non poteva rifiutarsi di amministrare la giustizia (“Il giudice che rifiuterà di giudicare sotto pretesto di silenzio, di oscurità o di insufficienza del diritto potrà essere perseguito come colpevole di diniego di giustizia”); ebbene, sulla base di questo articolo si disse che se il giudice non poteva ‘denegare’, era ovvio che ci fosse sempre una norma da applicare. L’idea era quella di contenere l’arbitrio dei giudici, ma già nell’opera di un commentatore si cominciò a dire che qualora ci fosse stata una lacuna ‘completa’ bisognava ricorrere all’equità. Ebbene, questo dell’equità è evidentemente un criterio di eterointegrazione, perché con esso si consente al giudice di seguire propri criteri equitativi, esterni (‘etero’ rispetto) al codice. Una cosa era quindi la teoria ufficiale delle fonti, secondo cui dottrina e giurisprudenza non facevano diritto, ed altra cosa fu la prassi giudiziaria concreta, tanto è vero che le lacune e contraddizioni del codice vennero risolte in parte dalla dottrina ed in parte dalla giurisprudenza, e in particolare dalla corte di Cassazione, grande novità delle riforme giudiziarie francesi. Essa fu istituita proprio per garantire l’esatta applicazione del codice, per cui non fu (e non è) che una corte di legittimità, perché non entra nel ‘merito’ delle sentenze pronunciate dai giudici di prima istanza e di appello, e quindi opera solo sulle interpretazioni che i giudici hanno dato. La sua principale funzione è appunto di ‘cassare’ la sentenza quando i giudici hanno interpretato male la legge, e in questo modo essa assicura l’uniforme interpretazione della legge (funzione c.d. nomofilattica). Le sue decisioni, che circolarono ampiamente, riuscirono ad integrare le lacune del codice napoleonico e a coordinarne le varie parti. Il Codice austriaco invece, come si é detto in precedenza, aveva un articolo sull’eterointegrazione che recitava: “Qualora un caso non si possa decidere né secondo le parole, né secondo il senso naturale della legge, si avrà riguardo ai casi consimili (analogia)... rimanendo nondimeno dubbioso il caso si dovrà decidere secondo i principi del diritto naturale ....”, che fungevano quindi da norme integrative del codice. Una situazione del genere si ha oggi in Irlanda, che esplicitamente ammette l’integrazione giusnaturalistica, il che poi non meraviglia molto tenuto conto che è un Paese cattolico in modo anche più netto del nostro. Altro punto da notare. Abbiamo ripetuto che il diritto comune con i codici muore, ma va ricordato che spesso nei commenti che vennero fatti ai codici nel corso dell’Ottocento per capire meglio la norma del codice si utilizzò anche il diritto romano, perché c’erano dei concetti non spiegati nel codice. Classico l’articolo del Codice napoleonico in questioni di beni mobili: “il possesso equivale a titolo”, ci dice, ma chi ci spiega cos’è il possesso, il ‘titolo’ ecc.? Questa idea che il Codice richiedesse solo esegesi letterale anziché un vero e proprio lavoro di interpretazione è quindi un’idea ingenua, ma tornava bene alla congiuntura politica e alle polemiche dei pandettisti, i quali in Germania sostenevano che, fatto il codice, fosse finito il lavoro del giurista. Questo invece fu appieno valorizzato in Germania non essendo più vigente in nessun Land (salvo poche limitate eccezioni) un codice di tipo francese. In questo modo il giurista rispondeva alle domande più ardue in caso di lacune o di conflitti tra norme locali sulla base della logica giuridica e dei principi che discendevano della sistematica dottrinale pandettistica. I giuristi vissero in questo clima di diritto comune - e non per niente proseguirono i consilia dati dalle Facoltà giuridiche - fino all’entrata in vigore del codice, nel 1900, applicando quindi, quand’era il caso, un diritto dottrinario elaborato a tavolino sulla base della storia, lo stesso diritto che, per il singolare prestigio di questi giuristi, diresse l’opera dei legislatori e la stessa interpretazione delle singole leggi. Il diritto comune quindi è stato ufficialmente superato da noi, anche se vive nella cultura giuridica - e lo si è visto nella decisione delle Sezioni unite riportata a suo tempo. Ma ci sono Paesi in cui per circostanze varie è ancora possibile far riferimento esplicito a principi del diritto comune europeo precodificatorio. Pensiamo alla Repubblica di San Marino, a quella di Andorra, ma anche a realtà ben più corpose, come il Sud Africa - che per essere stato colonizzato dagli olandesi ricevette il diritto romano-olandese del ’700, conservato poi nonostante l’occupazione inglese -, oppure il Quebec, in Canada - che ha conservato il legame con l’antico diritto europeo come momento di identità culturale -, oppure ancora alla Lousiana, che è una mixed jurisdiction, un Paese cioè in cui convivono con grande difficoltà tradizione romanistica europea locale e common law in conseguenza delle giurisdizioni federali. Non a caso a New Orleans esiste una Bartolus’ Society, per coltivare il ricordo del grande giurista di Sassoferrato, ignoto in Italia; si pensi piuttosto ancora alla Scozia (Edinburgo è un centro di studi romanistici importante), che recepì nella propria cultura giuridica il diritto continentale dal ’500, quando i suoi giovani cominciarono a formarsi una cultura nel Continente, evitando l’Inghilterra proprio per non perdere un’identità sempre minacciata dalla egemonia inglese. Ora in questi Paesi il diritto comune ha uno spazio naturalmente residuale può essere invocato solo in casi rari, con molte differenze però da un posto all’altro -, ma rimane come rivendicato contrassegno di significato più che altro culturale. In che senso? Perché qui non c’è stato o non ha avuto grande importanza l’illuminismo, né ciò che esso ha significato, ossia il tentativo razionalistico e antistoricistico di far tabula rasa del passato. Non c’era un problema politico di lotta contro i giudici, per cui non si sentì neppure bisogno di fare una lotta culturale anti-romanistica - come si sentì invece in Paesi che avrebbero avuto ben maggiori motivi di rimanere aderenti al diritto comune! È uno dei tanti paradossi della storia, e non meraviglia più di tanto. Ma bisogna almeno esserne consapevoli. 13. Il rapporto tra codificazione commerciale e codificazione civile Il Codice civile non fu l’unico codice napoleonico. In pochi anni si susseguirono gli altri, ossia quello penale a quelli di procedura penale e criminale, fino a quello di commercio. Con essi il principio codificatorio si impose nei vari rami del diritto relativo ai privati, che erano i più interessati a superare la incertezza ed arbitrarietà dell’Ancien régime e della sua discutibilissima giustizia. Tuttavia i codici per il solito fatto di metter per scritto in modo precettivo e chiaro i comportamenti richiesti davano maggior garanzia di certezza (e di nuovo furono imitati come modello negli altri Paesi anche dopo o durante la Restaurazione), specie quello penale, ma non è sempre detto che fossero anche innovativi come quello civile. Quelli di procedura derivarono da una semplice razionalizzazione e modernizzazione delle Ordonnances di Luigi XIV (ma la Rivoluzione portò la novità della giuria, importante come momento di valorizzazione del ‘cittadino’, che veniva così giudicato dai suoi ‘pari’), come anche quello di commercio. E qui bisogna richiamare il discorso già fatto per l’Inghilterra, che unificò il diritto delle obbligazioni in anticipo rispetto a tutti - noi ci siamo arrivati col 1942 e si vedrà come -, favorendo così lo sviluppo del capitalismo. La dicotomia dei due codici invece è rimasta sia in Francia che in Germania, e con un significato diverso. In Francia il Codice di commercio napoleonico fu solo in parte innovativo, perché dipende ampiamente dall’Ordinanza del commercio e della marina di Luigi XIV. Ma perché si conservò a parte? Perché il Codice civile rappresentava la normativa per il cittadino ‘normale’, che era (quando gli andava bene) un (nobile o borghese) proprietario terriero, che comprava per sé e la famiglia, e non per speculare. Perciò su quella proprietà era incentrato il codice. Esso rifletteva pertanto una società ancora agricola, come era il Continente a quel tempo. Tanto è vero che quando a metà Ottocento comincerà a diffondersi la società industriale, il Codice era per alcuni aspetti invecchiato: si pensi che non prevedeva una disciplina specifica per il rapporto di lavoro, ancora inteso come una particolare locazione (d’opera, come nel diritto romano), e perciò cominciò ad attirarsi anche le critiche, sempre piú incisive verso la fine del secolo, del c.d. socialismo giuridico. La società più dinamica dei traffici, rappresentata dalla borghesia degli affari e del capitale mobiliare, era appunto prevista dalla normativa commercialistica, ma ancora come disciplina speciale rispetto a quella ordinaria del codice civile in Francia. Ciò significa che i valori civilistici erano largamente prevalenti e quelli commerciali ancora in netta minoranza. Comunque, il codice di commercio francese non poteva aspirare ad assumere l’importanza di quello civile, perché disciplinava 1) solo gli atti di commercio, ossia di speculazione, anche se da chiunque compiuti (disciplina oggettiva, quindi, e non più soggettiva come in passato), come le compere per rivendere, i cambi, le operazioni di banca, le mediazioni, le costruzioni; e, 2) i commercianti, intendendo per tali coloro che facessero quegli atti professionalmente, e che quindi venivano sottoposti a regole soggettive particolari a tutela del pubblico dei contraenti, come le regole sul fallimento e sui libri di commercio nella tradizione di Luigi XIV. Ma che fosse una disciplina secondaria, per così dire, quella commercialistica lo fa vedere bene come si svolgeva la concorrenza tra i due diritti. Se l’attore d’una causa era un commerciante contro un altro commerciante nulla quaestio: si andava al tribunale di commercio (ove sono presenti dei commercianti); se era contro un cittadino doveva invece convenirlo nel tribunale civile, che in ogni caso riceveva gli appelli contro il tribunale di commercio; se poi era un cittadino l’attore, egli poteva invece scegliere a quale corte rivolgersi, e se andava in quella di commercio si applicava comunque in prima istanza il codice civile e solo per quanto non disposto (contratti appunto commerciali) il codice di commercio. Le corti commerciali naturalmente erano più accessibili, perché più rapide e meno costose, potendosi anche evitare il patrocinio del legale, ma ciò non toglie che il diritto commerciale fosse poco sviluppato, un diritto veramente ‘sussidiario’ in Francia, e che quindi non ledeva l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Questa situazione si ricreò in Italia con i due codici unitari, civile e di commercio del 1865, largamente tributari di quelli francesi. Ma intanto era venuto fuori un nuovo modello ben diverso, ossia quello tedesco del 1861accettato da tutti gli Stati tedeschi entro il 1865. È molto significativo che la Germania ancora prima dell’unificazione politica potesse conseguire quella del diritto commerciale. Il fatto ci conferma che, come di solito nella storia, il diritto commerciale è stato un diritto ‘speciale’ più dinamico, che ha anticipato quello che poi sarebbe avvenuto nel diritto civile, il quale è un diritto più tradizionale, più lento a modificarsi e ad accettare delle novità. In Germania così, in piena Pandettistica, grazie all’accordo doganale tra gli Stati si impose una disciplina uniforme delle obbligazioni commercialistiche che rappresenta un passo in avanti rispetto al modello francese; modello molto significativo, perché il codice tedesco disciplinava per intero - dovendo applicarsi tra ‘commercianti’ di Stati diversi nei quali il diritto privato aveva differenti discipline - i rapporti obbligatori, e creava quindi una disciplina esaustiva, parallela a quella privatistica. Con in più due regole che indicavano in che direzione si voleva andare, cioè a favore dello sviluppo mercantile e industriale anche a sfavore dei semplici cittadini: 1) che cioè il diritto commerciale si applicava anche quando uno solo dei contraenti era un commerciante. Nasce da qui una disparità di trattamento, perché il cittadino non commerciante viene sottoposto alla giurisdizione mercantile sempre, in deroga al suo giudice ‘naturale’; 2) in mancanza di precise regole commercialistiche, prima delle norme privatistiche si applicavano gli usi commerciali, naturalmente creati dai commercianti e pertanto tendenzialmente a loro favore. Questo è il modello che fu recepito in Italia quando nel 1882 fu riformato il Codice di commercio, ed è facile immaginare le polemiche cui dette l’avvio. È chiaro che si trattava di favorire la circolazione delle merci, favorire la conclusione dei contratti e i creditori in modo che potessero reinvestire e così via, ma proprio in quegli anni veniva fuori in tutta evidenza la questione operaia (che portava in quell’anno alla costituzione del partito operaio e poi ai primi deputati di vera opposizione al sistema politico e al governo), per cui ci furono i giuristi che, sensibili al clima da ‘socialismo giuridico’ gridarono allo scandalo. Ma come, si disse, ci sono cittadini di serie A e di serie B? È un diritto di classe quello commerciale, e ad esso sacrifichiamo l’uguaglianza tra i cittadini? Perciò alcuni, primo tra tutti un commercialista validissimo come il Vivante, cominciarono a richiedere con forza l’unificazione del diritto privato mediante un codice unico in modo da avere un’uguale normativa per tutti, che assicurasse un equilibrio tra esigenze dei traffici e della vita ‘normale’, e quindi la solidarietà tra le classi. È quanto riuscì a fare proprio allora, nel 1883, la Svizzera, con il Codice unico delle obbligazioni, ma l’Italia rimase sulla vecchia strada come ci rimase la Germania, che solo nel 1900 si dette un nuovo codice anche di commercio molto moderno, che proiettò il Paese sui mercati internazionali, favorendo un diritto commerciale uniforme a livello internazionale, a disposizione dei professionisti degli scambi. In Italia il Codice di commercio del 1882 si fuse con quello civile solo nel 1942, alla fine dell’epoca fascista, non certo per una esigenza di uguaglianza dei cittadini, ma perché il fascismo era contrario alla lotta di classe, che la duplicità dei codici quasi sottointendeva, e per svecchiare la società ancora rurale. Solo che l’unificazione del diritto delle obbligazioni in tal modo effettuata, fatta per integrare il corpo sociale, avvenne a scapito del diritto civile, perché nel codice del ’42 i principi del Codice di commercio furono talvolta recepiti ed imposti a tutta la società, attuandosi la c.d. commercializzazione del diritto privato. Si era eliminata così la polemica contro gli “atti unilateralmente commerciali”, per cui bastava che una delle parti fosse un commerciante perché la norma applicabile fosse quella del codice di commercio, più favorevole ai commercianti, ma ora tutti erano sottoposti alle regole ‘mercantili’. Francesco Galgano, un commercialista che ha studiato a lungo questi temi, segnala in particolare questi punti: - la disciplina dell’acquisto ‘a non domino’ di cose mobili, che non ha riscontro in altre discipline, protegge dal ’42 l’acquirente di buona fede anche quando trattasi di cose rubate o smarrite; - la norma che subordina l’azione di annullamento del contratto alla riconoscibilità dell’errore, per cui si è vincolati al contratto non voluto; - o che subordina l’annullamento del contratto dell’incapace alla prova della malafede dell’altro contraente; - o che rende la simulazione inopponibile al terzo acquirente di buona fede; - o quando si fanno salvi i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede. 14. I codici dell’Italia della Restaurazione (1814-1859). In seguito al crollo del sistema napoleonico nel 1814, dappertutto in Italia (a Torino, Milano, nei Ducati padani, a Firenze, nello Stato della Chiesa, a Napoli) fecero ritorno i sovrani “restaurati”, vale a dire coloro che detenevano il potere anteriormente all’irruzione delle armate napoleoniche in Italia. Con alcune eccezioni, però : ad esempio, il Congresso di Vienna decretò la fine delle Repubbliche di Genova (annessa al Piemonte) e di Venezia (che fu annessa alla Lombardia già austriaca, per formare il c.d. Regno Lombardo-veneto), e alcune modifiche minori (es. il Ducato di Parma e Piacenza fu affidato all’arciduchessa Maria Luisa d’Austria, già seconda moglie di Napoleone). Un passo indietro, tale da cancellare il passato recente, politico e giuridico? Seppure in apparenza sembrerebbe così (a leggere ad esempio il brano delle memorie del piemontese Massimo D’Azeglio sul ritorno a Torino dei “codini” del seguito della corte di re Vittorio Emanuele I), in realtà il colpo di spugna sul passato era di ben difficile realizzazione. Gli storici (come A. Saitta) già da decenni parlano di una “impossibile Restaurazione”, per significare che il fermento provocato nelle coscienze degli italiani dal periodo napoleonico (su più aspetti : ideale, politico, anche militare visti i tanti italiani che avevano valorosamente combattuto nelle armate napoleoniche) era destinato a dar ben presto i suoi frutti. Sul piano della storia del diritto il discorso é analogo, sebbene più “tecnico”, e si può riassumere in una constatazione di fondo : il dato dell’esperienza codicistica (civile, penale, di procedura) era ormai ineliminabile in buona parte d’Italia, e un ritorno all’epoca del diritto comune o delle compilazioni settecentesche era impossibile. L’elemento “codice” era ormai acquisito, oltreché uno strumento efficace aumentare il proprio potere e accentuare nei loro domini il già annoso processo di “statualizzazione” del diritto. Per Carlo Ghisalberti, acutamente, “la forza stessa delle cose finiva con l’imporre il mantenimento di quella soluzione codicistica realizzata nell’intera penisola durante la dominazione napoleonica e, persino, progettata nella Sicilia in quegli anni restata sotto la sovranità borbonica. Il fatto che anche in quell’isola dove non era stato evidentemente possibile recepire dalla Francia un sistema normativo codificato se ne fosse studiata egualmente l’introduzione, offriva senza dubbio una prova della generale diffusione di quelle istanze codicistiche alle quali non avrebbero più potuto sottrarsi i sovrani della Restaurazione”. Eppoi, in fin dei conti, anche ragioni di buon senso militavano a favore di un’accettazione del modello codicistico in buona parte degli stati italiani : i sovrani più “illuminati” si rendevano infatti conto che un nuovo sconvolgimento nel modo di legiferare avrebbe nuociuto notevolmente alla certezza del diritto e quindi alla stabilità dei domini recentemente recuperati, e questo non era certo nel loro interesse. Insomma, il dato “codice” fu culturalmente ineliminabile, anche se non vi furono dappertutto codici nella penisola. Ma quel che è interessante è che anche nel contenuto della codificazione i codici degli stati italiani preunitari si rivelano in buona parte “figli” della codificazione napoleonica. Essi infatti riprendono non pochi (e importantissimi) elementi di derivazione francese : si pensi all’uguaglianza giuridica e civile (e all’eliminazione di privilegi di casta), già comunque concettualmente non ignota e al centro dei dibattiti e delle riforme settecentesche, o alla disciplina dei beni, e segnatamente della proprietà – seppure tale scelta di rendere “assoluta” la proprietà è giustificata riferendosi alla tradizione locale e quindi allo ius comune. E non solo questo: sul lungo periodo i codici preunitari svolgono storicamente anche una funzione - importantissima - di “cinghia di trasmissione”: come ha infatti brillantemente ipotizzato A. Padoa Schioppa, essi hanno costituito il tramite attraverso il quale l’idea stessa di codice, con quanto essa comportava riguardo al sistema delle fonti del diritto privato e al rapporto tra legge, dottrina e giurisprudenza, si è trasmessa al futuro stato unitario. Dove ci si discosta dal dato napoleonico, è unicamente nel tentativo di resuscitare, ma sempre nel corpus dei codici, taluni vieti istituti di antico regime (rafforzamento della patria potestà, limitazione della posizione successoria della donna). Eccezioni alla tendenza ad adottare nuovi codici ? Non mancarono. Il regno di Sardegna vivrà un processo codificatorio assai lento, durato due decenni ma pur alla fine riuscito ; il Ducato di Modena e il Granducato di Toscana, pur percorrendo vie diverse, si risolveranno estremamente tardi ad una codificazione moderna, quando ormai i rivolgimenti politici che avrebbero accelerato l’unificazione della penisola erano alle porte. Lo Stato Pontificio, non da ultimo per l’intrinseca commistione - giuridica e politica - tra elemento civile e religioso, sarà incapace fino all’ultimo di varare codici modernamente intesi. In tutti gli altri stati, invece, il processo codificatorio procederà più o meno speditamente. Se il modello è indiscusso, va però tenuta presente una differenza di contenuti tra codificazione civile e codificazione penale: così, se nel campo del diritto civile l’autorità del Code Napoléon è più difficilmente discutibile, non così sarà per le norme severe del Code pénal francese del 1810 (che ai fini della pena non distingueva, ad esempio, tra reato tentato e consumato, o ancora irrogava la pena capitale in una serie estesa di casi), da cui i codificatori preunitari, pur emanando anch’essi codici penali, si discosteranno spesso. Insomma, ben presto i due codici finiranno per godere di un prestigio ineguale! Fatte queste premesse, esaminiamo ora più da vicino i codici dei principali stati italiani preunitari, percorrendo la penisola da nord a sud. a) Il regno Lombardo-veneto. Creato dal Congresso di Vienna nel 1815 e formato dall’unificazione delle terre lombarde, sotto il controllo dell’Austria fin dal 1714, con l’antico territorio della Repubblica di Venezia (che però già nel 1797 a Campoformio aveva perso la sua millenaria indipendenza), il Lombardo-Veneto viene integrato ai domini della Casa d’Austria. Vi viene introdotta tout court la legislazione austriaca, civile e penale, e segnatamente, dal 1° gennaio 1816, l’ABGB del 1811 (cfr. paragrafo 7). il Lombardo-Veneto non vedrà quindi nascere una codificazione autoctona. Come ha giustamente notato il Bonini, “si tratta di un singolare gioco del destino, in forza del quale proprio nei territori che avevano costituito il centro intellettuale, sociale ed economico del precedente Regno d’Italia il codice francese veniva soppiantato dal suo grande rivale austriaco, senza sopravvivere di conseguenza, come in altri territori italiani, neppure a livello di fonte d’ispirazione”. b) Il Regno di Sardegna. Formato da territori estremamente eterogenei geograficamente e linguisticamente, venuti ad aggregarsi progressivamente ai primitivi nuclei piemontese e savoiardo, il Regno di Sardegna ottenne il territorio di Genova dal Congresso di Vienna – e quindi uno sbocco sul mare - come sorta di “risarcimento” per la lunga occupazione francese. Ed é proprio qui, in odio alla dominazione francese, che il sovrano restaurato, Vittorio Emanuele I, sembra voler realizzare allo stato puro l’idea di un ritorno integrale al passato: un editto del 21maggio 1814 cancella d’un tratto l’intero corpus delle leggi francesi e richiama in vigore il diritto anteriore, vale a dire le Regie Costituzioni del 1771, gli statuti locali, il diritto comune. Ma tale involuzione giuridica si realizzerà a prezzo del sacrificio dell’unità legislativa del Regno : a Genova, infatti, il potere centrale si rassegnerà a lasciare in vigore non solo il Code Napoléon, ma anche il Code de commerce che sopravvivranno poi ancora per vent’anni (fino al 1837): un fatto, questo, pressoché unico in Italia (se si esclude il principato di Lucca), nonché paradossale se si pensa che é accaduto nel regno più “reazionario” d’Italia ! Peraltro, il re di Sardegna, in una prammatica del 1817, si era ripromesso di addivenire ben presto alla redazione di nuovi codici, abbandonando così le leggi di antico regime. Ma tale progetto, viste le notevoli resistenze, non potrà compiersi che nel 1837, dopo 20 anni di immobilismo pressoché assoluto, rotto unicamente da un compilazione locale sarda (le “Leggi civili e criminali” del 1827) valida localmente e per niente innovativa sotto il profilo tecnico. Fino agli anni Trenta dell’Ottocento, quindi, i territori piemontesi, la Savoia e la Contea di Nizza saranno rette dal diritto di antico regime ; a Genova resistevano invece il Code Napoléon e il Code de commerce ; in Sardegna vigeva la compilazione del 1827. L’avvento al trono, nel 1831, di Carlo Alberto – più aperto dei suoi predecessori - sbloccherà la situazione e consentirà l’emanazione di nuovi codici che daranno finalmente al Regno quell’unità giuridica mancata (in terraferma) : il Codice civile del 1837 (la cui denominazione ufficiale sarà “Codice civile per gli Stati in terraferma del Re di Sardegna”), il Codice penale del 1839, il Codice di commercio del 1842 e il Codice di procedura penale del 1847. Il tutto fu frutto di un imponente, lungo e arduo lavoro di riforma, affidato da Carlo Alberto ad eminenti giuristi tra cui quel Federico Sclopis che sarà l’autore, agli albori dell’Unità, di una famosa “Storia della legislazione italiana” e che difenderà contro ogni attacco, all’indomani della sua entrata in vigore il 1° gennaio del 1838, il “suo” Codice civile. Visto il regime bilingue del Regno e il rapido approntamento di una versione francese del Codice civile, esso era quello che più si prestava, infatti, ad essere letto a conosciuto all’estero. E critiche non mancheranno, tra l’altro, dall’ormai vecchio Portalis (l’autore del famoso “Discorso Preliminare” al Code Napoléon, vi ricordate?) sulle norme di privilegio per la chiesa cattolica (come la dichiarazione iniziale, ripresa un decennio dopo nello Statuto, della religione cattolica “religione dello Stato”) e sull’indebolimento della posizione successoria delle figlie rispetto ai dettami del Code Napoléon ( che nel frattempo – come si sa – era pur sempre in vigore in Francia, sebbene senza più divorzio). Il Codice civile piemontese del 1837 segue la partizione napoleonica in tre libri. Tra le sue norme – molte delle quali poi sorpassate dalla successiva laicizzazione e modernizzazione del regno a partire dagli anni ’50 dell’Ottocento (cfr. infra) – la più nota resta senza dubbio quella, iniziale, del richiamo ai “principi generali del diritto” come metodo per colmare eventuali lacune ; una norma che fece scuola e che esiste ancor oggi nel Codice vigente! Quanto al codice penale del 1839, esso è portatore di alcune importanti modifiche rispetto al Code pénal francese del 1810 : una più ristretta applicazione della pena di morte, la distinzione, ai fini delle pene da irrogare, tra delitto tentato e consumato, una maggiore articolazione dell’imputabilità a seconda della situazione del reo, maggiori poteri affidati al giudice nello stabilire le pene (con possibilità di applicare le circostanze attenuanti) rispetto alla rigidità applicativa del Code pénal (di cui spesso il magistrato diveniva semplice esecutore meccanico), e infine il computo della custodia preventiva nella durata globale della pena. Il codice penale risente dei principi, cari ai riformatori piemontesi dell’epoca, della rieducazione ed emenda del reo, per cui rilevante diventa la condizione carceraria e l’importanza di migliorarla. Dal preambolo al codice è utile leggere che l’intento del Codice penale, a detta dei suoi compilatori, era infatti quello di dettare “leggi penali che, eguali per tutti, e fondate su regole certe, e tra di esse coordinate, dessero ai giudici sicure norme nell’applicazione delle pene, lasciando loro però nella misura di esse quella discreta latitudine che la molteplice varietà di circostanze, non tutte dalla legge prevedibili, consiglia di confidare al prudente loro arbitrio. Ebbimo pure di mira di stabilire un’equa proporzione tra i reati e le pene, e che queste non solo inserissero al pubblico esempio, ma (…) pel miglioramento dei luoghi di detenzione fossero dirette all’emendazione dei colpevoli..” (Vinciguerra, p.356). Particolarmente dura resta comunque, in omaggio alla stretta compenetrazione tra Stato e chiesa, la repressione dei reati contro la religione cattolica. Il codice del 1839 fu riformato nel novembre 1859 per renderlo adeguato ai tempi : il Piemonte si era nel frattempo in buona parte laicizzato (leggi Siccardi, cfr. infra), e l’unificazione politica in corso imponeva uno sforzo di uniformizzazione con le leggi penali di altre regioni italiane. Il nuovo codice penale, entrato in vigore il 1° gennaio 1860, riprenderà però in gran parte le norme di quello precedente e costituirà la base della legislazione penale vigente in Italia (salvo che in Toscana) fino all’entrata in vigore del Codice Zanardelli (cfr. capitolo seguente, par. 13). c) Il Ducato di Parma Retto per un trentennio (1816-1847) dall’arciduchessa Maria Luisa d’Austria, seconda moglie di Napoleone, il Ducato di Parma potrà evitare, grazie ad una classe dirigente illuminata, gli eccessi del “ritorno al passato” del Piemonte: la codificazione napoleonica vi resterà infatti in vigore senza soluzione di continuità fino all’emanazione dei nuovi codici civile, penale e di procedura, nel 1820. Il codice civile parmense, giudicato da taluni studiosi (Ghisalberti, Padoa Schioppa) come il più pregevole tra tutti i codici preunitari, pur seguendo strutturalmente e ratione materiae il modello del Code Napoléon se ne allontana in talune parti (per Parma, vista la provenienza dell’arciduchessa e del suo consigliere, il conte Neipperg, occorre parlare infatti di influenza di modelli austriaci) : ad esempio, è abolito l’obbligo della dote per le figlie, e il regime patrimoniale dei coniugi ridiventa (conformemente alla tradizione generale di ius commune) la separazione dei beni. Quanto al (coevo) codice penale (adottato il 5 novembre 1820 e in vigore dal 1° gennaio 1821), gli storici ne hanno a volte sottolineato (alla stregua di quello piemontese) una certa durezza, specie nei reati contro la religione, ma anche una estrema articolazione in fattispecie ignote tanto al Code pénal del 1810 che al codice penale del Regno delle Due Sicilie (1819) : la previsione del sordo-mutismo come causa di diminuzione dell’imputabilità, le modalità di conversione delle pene pecuniarie in detentive, una specifica disciplina – con dovizia di distinzioni – della complicità nella commissione dei reati (il Code pénal invece irrogava quasi invariabilmente la stessa pena all’autore e al complice, e non distingueva tra più tipologie di complici) o ancora, nella parte speciale, le specifiche fattispecie del duello, della falsa moneta e dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il legislatore penale piemontese del 1839 si ispirerà a tali fattispecie che, accoltevi, si trasmetteranno, seppure mediatamente, nella legislazione penale del Regno d’Italia. d) Il Ducato di Modena Il Ducato di Modena si risolverà ad una codificazione moderna pochi anni prima dell’Unità con un codice civile, del 1852, e un codice penale, del 1855, emanati per volontà dell’ultimo duca, Francesco V. Quest’ultimo ebbe pertanto almeno il merito di mitigare in extremis la severissima legislazione penale e di polizia estense durata fino ad allora e provvida di fattispecie in cui era in uso la tortura giudiziaria. Modena fu quindi retta per quasi tutto il periodo della Restaurazione da quelle “Leggi e costituzioni per gli Stati Estensi” (detti comunemente “Codice Estense”) emanate nel 1771 e richiamate in vigore nel 1814. Taluni storici del diritto tendono a vedere nella estrema modernità del settecentesco Codice Estense una sorta di “mitigazione” nella durezza di questo ritorno all’ancien régime modenese. Come infatti ha acutamente notato il Bonini, il Codice Estense si presentava già al suo nascere nel 1771 come un codice moderno e pionieristico in quanto, contrariamente alle altre consolidazioni settecentesche di materiali preesistenti, esso conteneva norme positive nuove e organicamente strutturate. e) Il Granducato di Toscana Nel Granducato di Toscana (annesso all’impero napoleonico dal 1808 al 1814) fu richiamato in vigore, alla caduta di Napoleone, il complesso delle antiche leggi granducali unitamente al diritto comune: ma il tutto si accompagnò (diversamente da Modena o dai primi anni della restaurazione piemontese) ad un’intensa opera di riforma da cui si poteva chiaramente capire che il passato regime giuridico era orami tramontato: furono infatti aboliti i fedecommessi, gli statuti municipali, i feudi. Il Code de commerce, introdotto nel 1808, vi fu mantenuto, e fu, questo, un dato di grande importanza per la vita commerciale e mercantile della Toscana. L’intento riformatore fu quindi presente e si accentuò con l’ultimo duca, Leopoldo II il quale, pur non riuscendo a varare un nuovo codice civile, emanerà almeno un codice penale in piena linea con la tradizionale mitezza della penalistica toscana risalente all’ormai celeberrimo Codice Leopldino del 1786 (primo nell’abolire la pena di morte : cfr. capitolo seguente, par. 13). Questo codice penale “illuminato” (da cui sarà poi stralciata la pena di morte per decreto del governo provvisorio toscano costituitosi nel 1859 in attesa dell’annessione al Regno d’Italia) resterà in vigore in Toscana fino al 1890 e avrà un profondo valore propulsivo del diritto penale postunitario: esso starà ad indicare che là, in Toscana, e contrariamente al resto d’Italia, si era concretizzata una alternativa penale “progressista”. Le pene vi erano nettamente più miti che negli altri codici della Restaurazione e nel Codice piemontese/italiano del 1859; i reati non erano più distinti, secondo la loro gravità, in crimini e delitti, ma considerati tutti, egualitariamente di fonte alla legge, come delitti – segno, anche questo, di maggiore mitezza e dell’assenza di un “preconcetto punitivo”; contrariamente all’archetipo francese e secondo la tradizione toscana si adottava quindi il criterio della bipartizione, e non più tripartizione dei reati; la pena capitale quando era prevista (e fino al 1859, come si è detto), lo era solo in rari casi (es. omicidi compiuti con particolare efferatezza); dovunque, infine, allignava poi l’idea dell’emenda, e non già della punizione esemplare del colpevole. f) Lo Stato della Chiesa Nello Stato della Chiesa, come giustamente ha notato il Ghisalberti, “non si accompagnò mai l’attuazione di un disegno legislativo di rifondazione di un organico sistema giuridico”, e né Papa Pio VII e l’illuminato cardinale Consalvi riuscirono mai “a portare innanzi l’elaborazione di codici, opera questa naturalmente più difficile nello Stato Pontificio che il altri Stati anche per il peso che vi esercitava il diritto canonico nella vita civile e per la conseguente rilevanza assunta tradizionalmente da questo nel sistema delle fonti del diritto”. Mancò, sostanzialmente, in quello che possiamo senza ombra di dubbio definire il “fanalino di coda” giuridico tra tutti gli Stati preunitari, l’idea di voler riformare in senso moderno ( e laico) il diritto. Mancarono poi anche quei dibattiti e (a volte) scontri tra “progressisti” e “conservatori” che altrove (come in Piemonte), seppure in ambito ristretto, avevano già caratterizzato e accompagnato la nascita dei codici preunitari. Videro la luce, certo, un codice di procedura civile nel 1817 e un codice di commercio nel 1827, e, sotto il papato di Gregorio XVI (1831-1846) si vararono una riforma della procedura civile e penale nel 1831, e, nel 1835, addirittura un “Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili”. Il fatto è però che tale opera ebbe sostanzialmente un carattere compilativo di stampo settecentesco, che non abrogava il diritto comune, né gli statuti locali e il diritto canonico. Né la breve vita della Repubblica romana del 1849 (cfr. capitolo seguente) riuscirà a sradicare tale stato di cose, ché si prolungherà sino all’annessione al regno d’Italia nel 1870. g) Il Regno delle Due Sicilie Si é scelto l’approccio geografico da nord a sud per parlare dei codici degli stati italiani preunitari, ma occorre ora tenere ben presente che il Regno di Napoli, qui trattato per ultimo, fu invece il primo in ordine cronologico a darsi una codificazione civile, penale, di procedura. E fu una codificazione per molti aspetti non troppo retrograda rispetto all’archetipo francese in vigore sino al 1815. Ovvio, quindi, che tale codificazione fosse poi imitata in altri Stati della penisola (specie in Piemonte). A Napoli, nonostante il ritorno dei Borboni sul trono nel 1815 e la fine del periodo di regno del cognato di Napoleone, Gioacchino Murat (e contrariamente a quanto accadde in Piemonte, a Modena o a Roma) non vi fu alcun greve revival di passati ordinamenti: semplicemente, i codici francesi poterono restare in vigore (ad eccezione delle norme sul divorzio, subito abrogate) fino a quando non furono sostituiti, nel 1819, da un corpo di leggi civili, penali e di procedura chiamato, nel suo insieme, “Codice per lo Regno delle Due Sicilie”. Nel regno che la pubblicistica italiana successiva (influenzata dagli eventi del 1848-48 e dalle repressioni poliziesche degli anni seguenti) dipinse come la quintessenza della “reazione” e dell’anti-liberalismo, il modello codicistico di importazione francese ( e austriaca) fu dunque accettato senza riserve, riprodotto e ....imitato in altri stati ! Re Ferdinando I istituì il 2 agosto 1815 una commissione incaricata di redigere una nuova codificazione. Ne fecero parte anche giuristi attivi durante il decennio napoleonico (come Donato Tommasi, ex allievo di Gaetano Filangieri). Già questo fatto, oltre all’incarico della commissione illustrato nel testo del decreto reale di nomina, rende evidente che non si voleva ritornare tout court al passato; al contrario, il futuro corpus di leggi avrebbe dovuto essere “adatto all’indole dei nostri popoli, allo odierno stato della civilizzazione”, e garantire “ il grande oggetto della sicurezza delle persone e della proprietà”. Anche dal punto di vista formale, e nell’impianto strutturale, le analogie con gli archetipi francesi sono evidenti. Basti dire che il “Codice per lo Regno delle Due Sicilie”, proprio come i cinq codes francesi di epoca napoleonica, si suddivideva in cinque parti (civile, penale, di procedura “ne’ giudizi civili”, e di procedura “ne’ giudizi penali”, commerciale) ma si presentava formalmente in veste unitaria. Nella sostanza, poi, si può rilevare come il “Codice”, perlomeno nella parte civilistica, accetti di mantenere in vita quanto delle nuove conquiste civili non era incompatibile con la Restaurazione. I suoi redattori non potevano certo, a Napoli, ignorare le novità del decennio napoleonico (1806-1814) di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, e in particolare l’abolizione degli istituti feudali! Così, per citare due esempi, le “Leggi civili” mantengono il regime di libera proprietà oramai instaurato, rendendolo di fatto irreversibile, e garantiscono l’eguaglianza civile e giuridica. E accolgono, disciplinandolo negli effetti e forme di pubblicità, una tipologia di matrimonio civile incompleto e meno articolato rispetto a quello regolato dalla famosa “patente” di Giuseppe II del 1783 nonché rispetto al Code Napoléon, ma pur sempre distinto dal matrimonio canonico. Quanto alle “Leggi penali”, esse seguono la falsariga del Code pénal del 1810 (con ad esempio la tripartizione dei reati in crimini, delitti e contravvenzioni), discostandosene in taluni punti come le pene (severe) per i reati contro la religione e la (diffusa) applicazione della pena di morte. Vengono tuttavia introdotte figure che, totalmente inesistenti nel Code pénal, diverranno poi, per imitazione ed accoglimento in altri codici, patrimonio comune della penalistica italiana : ci riferiamo alla distinzione, ai fini delle pene, tra reato consumato e reato tentato (o addirittura mancato), alla dettagliata disciplina della complicità nel reato (in cui i complici si suddividono in varie categorie : mandanti, istigatori ecc.), ed infine alla rinuncia alla pena fissa, cara al Code pénal, con una articolata previsione di circostanze attenuanti oggetto di più libera valutazione da parte del giudice. Concludendo questa veloce disamina dei codici della Restaurazione, possiamo focalizzare alcuni punti importanti : a) la derivazione, come si é ampiamente visto, da modelli francesi, ben presto imitati largamente e quindi sempre meno posti in discussione col tempo anche negli stati più “reazionari”. E qui, l’esempio “propulsore” e di “accettazione” di tali modelli fornito dal Regno di Napoli già nel 1819 é innegabile; b) il maggiore prestigio goduto dal Code Napoléon rispetto al Code pénal : i legislatori italiani, primo fra tutti quello di Napoli – per non parlare della Toscana e della sua grande tradizione penalistica – non esiteranno ad opporre infatti al Code pénal del 1810 figure ed istituti totalmente inesistenti oltr’Alpe (lo si é detto : bipartizione dei reati, distinzione tra reato consumato e tentato, complicità, disciplina più dettagliata dei vari casi di imputabilità, a volte riduzione drastica dei casi di previsione della pena capitale ecc.). c) La presenza, in materia penale, di norme “antiliberali”, che rivelano un forte influsso della religione dominante e hanno il sapore di una sorta di “braccio secolare” - nel senso dell’alleanza trono-altare : si pensi, ad esempio, alla dura punizione del prestito ad usura, modellata sulla perdurante condanna canonistica del prestito ad interesse. Tutti i codici penali preunitari sanzionano l’usura (seguendo peraltro una falsariga punitiva tracciata dalla legge francese del 1807), e occorrerà giungere all’unità d’Italia e alla “laicizzazione” del diritto e dello stato perché tale sanzione cada in nome del principio della libertà di contrarre, e della libera fissazione degli interessi (lasciando peraltro insoluta questa grave piaga sociale). d) Infine, la totale inadeguatezza politica di tali opere codificatorie con il progredire del Risorgimento italiano e l’affermarsi di ideali politici più schiettamente liberali e costituzionali. Come ebbe a scrivere uno dei più famosi teorici del costituzionalismo moderno, Benjamin Constant, commentando la “Scienza della Legislazione” di Gaetano Filangieri, é vana speranza pretendere che “delle buone leggi bastino ad assicurare la sicurezza e la generale prosperità, senza bisogno di istituzioni costituzionali volte a proteggere queste stesse leggi. Sarebbe come pretendere che le fondamenta di un edificio siano superflue per la sua solidità”. 15. L’Italia unita e il Codice civile del 1865. Gli eventi che portarono all’unificazione politica dell’Italia subirono, come é ben noto, una rapida accelerazione tra il 1859 e il 1860 : dapprima la guerra contro l’Austria del 1859, e successivamente, tra il 1859 e il 1860, l’instaurazione di governi provvisori nell’Italia centrale abilmente diretti dietro le quinte dal Cavour e dai suoi collaboratori (con la forzata, ma tutto sommata benevola acquiescenza della Francia di Napoleone III, poi “ricompenasata” con l’annessione della Savoia e di Nizza) e la dirompente Spedizione dei Mille garibaldina – anch’essa alla fine ricondotta nell’alveo della politica di annessione diretta dal Piemonte – fecero si’ che, il 17 marzo del 1861, con la proclamazione dell’unità italiana da parte del Parlamento riunito a Torino, un nuovo, eterogeneissimo paese si aggiungesse al contesto europeo. Ben si espresse allora il D’Azeglio con la famosa frase “fatta l’Italia, occorre fare gli italiani”, per sintetizzare la situazione di un paese che necessitava in tempi rapidi dell’allestimento di una solida intelaiatura giuridica volta a cementare e rendere irreversibile l’unificazione politica raggiunta. Come unificare giuridicamente l’Italia? Diciamo subito che, nel campo del diritto penale, l’unificazione si farà attendere per un trentennio, vale a dire fino al 1° gennaio 1890, data dell’entrata in vigore del Codice Zanardelli (per questi aspetti, cfr. il capitolo seguente, paragrafo 13). Per il diritto commerciale (per cenni esaustivi in tale materia cfr. il paragrafo precedente), il diritto civile e la vasta legislazione amministrativa (tra cui farà spicco la legge abolitrice del contenzioso amministrativo, cfr. capitolo seguente), invece, l’opera poté dirsi compiuta già nel 1865, ma le scelte da compiere per giungervi non furono scontate. Occupiamoci in particolare della codificazione civile, che avrà a suo coronamento il Codice Pisanelli del 1865. Come ci si arrivò? Diverse opzioni, pure teoricamente possibili, furono scartate : così, non si rinunciò ad un diritto codificato, ché tale esperienza durava in Italia da ormai un cinquantennio ; né si sceglierà come codice unitario – opzione politicamente impraticabile - uno dei codici ancora in vigore negli stati preunitari ( é noto che Federico Sclopis, già protagonista della codificazione piemontese, aveva proposto, con grande imparzialità di scegliere il codice napoletano!), o addirittura lo “straniero” Code Napoléon. Scartata fu anche, dopo poco tempo, una delle ipotesi più “solide”, consistente nell’estendere il codice civile piemontese del 1837 al resto del territorio italiano. Il codice piemontese fu esteso unicamente alle province pontificie conquistate e annesse nel 1860 (Romagna, Marche, Umbria), visto il vuoto legislativo che colà esisteva, ma fu una mera soluzione transitoria in attesa di un codice unico, poiché gli altri territori poterono mantenere in vigore i codici preunitari. Man mano che i rappresentanti dei territori annessi al nuovo regno confluirono poi a Torino e cominciarono a partecipare alle discussioni su un codice unico, non mancarono polemiche e dure prese di posizione contro l’eccessiva “piemontesizzazione”, per cui si paventava – e alla fine si rintuzzò – il pericolo di un’estensione ipso facto del codice piemontese. I progetti di codice civile unico, comunque, si succedettero alla Camera dei deputati e al Senato (siti a Torino fino al trasferimento della capitale a Firenze nel 1865), presentati volta a volta dai guardasigilli Cassinis, Miglietti, Pisanelli, Vacca. La svolta si ebbe nel 1864, allorché, per accelerare i tempi, si ricorse (per la prima volta nel neonato Regno d’Italia) allo strumento della leggedelega (é noto che tale metodo diverrà poi prassi; se ne ricorrerà costantemente, dal Codice Zanardelli sino al recente codice di procedura penale del 1989). In tal modo, promulgato nel gennaio del 1865, il Codice civile (chiamato “Codice Pisanelli” dal nome dell’ex guardasigilli che ne fu relatore in Parlamento) poté entrare in vigore il 1° gennaio 1866. Nel frattempo, erano entrati in vigore la legge sull’unificazione legislativa (2 aprile 1865) e, nello stesso anno, il nuovo codice di commercio, modellato su quello piemontese del 1842. Tecnicamente, il Codice Pisanelli riecheggia immediatamente l’archetipo del Code Napoléon (che a sua volta ha però alla base, lo ripetiamo, lo schema romanistico della tripartizione in personae, res et actiones). Comunque sia, all’epoca non si mancherà di evidenziare che la derivazione del nuovo Codice dal modello napoleonico nasceva da una “adesione” di entrambi allo schema romanistico, presentato da una parte non trascurabile della nostra pubblicistica come “diritto patrio”, di tradizione cioé schiettamente italiana). L’opera é divisa in tre libri, dedicati rispettivamente alle persone (libro primo), ai beni e alla proprietà (libro secondo) e ai modi di trasmissione dei beni, della proprietà e degli altri diritti (libro terzo). Anche nel Codice Pisanelli, infatti, la proprietà, diritto assoluto, ha sicuramente un ruolo da protagonista ; e purtuttavia, qualcosa si riesce ad innovare anche rispetto al Code francese: ad esempio, si introduce il concetto di proprietà intellettuale, e si disciplina la trascrizione a garanzia della certezza del diritto nei trasferimenti immobiliari. In tema di diritto di famiglia, il Codice Pisanelli innova rispetto alle scelte eccessivamente retrive di taluni codici preunitari. Il Bonini ha osservato che esso si colloca “a mezza via fra i principi più avanzati del Code Napoléon e i ritorni all’”indietro registratisi all’epoca della Restaurazione”. Così, il divorzio non vi é introdotto. In omaggio però al principio, liberale e cavouriano, della separazione tra Stato e chiesa, vi trova spazio (e nasce così nell’Italia unita) una compiuta disciplina del matrimonio laico civile, totalmente slegato e affrancato da qualsiasi ipoteca religiosa (si tenga presente, d’altronde, che spesso nella storia dell’Italia liberale l’opposizione al divorzio fu giustificata adducendo una maggiore tutela per la donna, in una società in cui il lavoro femminile oltre le mura domestiche non era certo ancora moneta corrente). Non fu soppressa l’autorizzazione maritale (presente nel Code francese, ma assente nell’ABGB austriaco e quindi, fino ad allora, anche in Lombardia e Veneto), ma (novità assoluta) fu riconosciuta alla donna una compartecipazione alla patria potestà, seppure in subordine al marito o in caso di sua impossibilità ad esercitarla. La comunione dei beni di napoleonica memoria fu rigettata, e si mantenne l’istituto romanistico tradizionale della dote già presente nei codici preunitari. La patria potestà, infine, fu temperata da talune norme innovative : fu bandita ad esempio (e mai più ripristinata in Italia) la diseredazione, e semplificata la procedura per ottenere il consenso paterno al matrimonio. Si deve infine all’iniziativa di Pasquale Stanislao Mancini (eminente studioso di diritto internazionale nonché uomo politico della Sinistra) l’articolo che disponeva la parificazione dello straniero al cittadino quanto al godimento dei diritti civili. All’adozione del Codice Pisanelli – che sarebbe quindi banale e riduttivo considerare una mera imitazione del Code, viste le novità apportate - seguirà una relativa stasi nella riforma del diritto civile italiano, quasi che la civilistica si reputasse paga del risultato raggiunto. La prima modifica avvenne nel 1877, con la legge che aboliva l’arresto per debiti (mentre la diffusa piaga dell’usura, cadute ormai le norme di derivazione canonistica accolte spesso nei codici preunitari e sancita la libertà dei tassi di interesse come corollario della libertà negoziale, non trovava più una sanzione specifica se non nella classica norma sulla rescissone dei contratti per lesione ultra dimidium). In seguito, non mancheranno – soprattutto - progetti di legge sul divorzio, presentati con cadenza quasi regolare ma mai coronati da successo, e, dagli anni Ottanta dell’Ottocento, si acuirà la critica “sociale” ad un codice che sarà ormai accusato di ignorare, con la sua “divinizzazione” della proprietà, l’emergere dirompente della “questione sociale”. Occorrerà attendere la fine della prima guerra mondiale – in un contesto politico-sociale totalmente mutato, caratterizzato da una mutata sensibilità per la “questione sociale”, dallo sviluppo di norme sul c.d. “welfare” e dall’irruzione delle “masse” nella vita politica, preludio tuttavia al fascismo per assistere ai primi organici disegni di riforma del diritto civile, forieri della preparazione di quel codice civile del 1942 che é tuttora il codice vigente in Italia.