Nutrizione azotata e contenuto di derivati dell`acido caffeico in

UNIVERSITA’ DI PISA
Facoltà di Agraria
Corso di Laurea Specialistica in
Biotecnologie Vegetali e Microbiche
Tesi di Laurea
Nutrizione azotata e contenuto di derivati
dell’acido caffeico in Echinacea
angustifolia D.C. coltivata in idroponica
Relatore:
Candidato:
Chiar.mo Prof. A. Pardossi
Francesco Galluzzo
Anno Accademico 2007-08
INDICE
1. INTRODUZIONE
1.1 Fitoterapia e piante medicinali
Preparati a base di piante medicinali
3
3
10
1.2 Metaboliti secondari
12
2. IL GENERE ECHINACEA
15
2.1 Inquadramento botanico
15
Echinacea angustifolia
17
Echinacea purpurea
19
Echinacea pallida
20
2.2 L’Echinacea come pianta medicinale
20
Derivati dell’acido caffeico
22
Flavonoidi
23
Polisaccaridi
24
Alchilammidi
24
Glicoproteine
24
Composti volatili
26
2.3 Impiego farmaceutico dell’Echinacea
26
3. PARTE SPERIMENTALE
29
3.1 Introduzione
29
Floating system
31
Le colture idroponiche per le piante medicinali
32
3.2 Obiettivi della ricerca
34
3.3 Materiali e metodi
35
Materiale vegetale
35
Tecnica di coltivazione idroponica (floating system)
35
Determinazioni sperimentali
39
Analisi chimiche
40
3.4 Risultati e discussione
42
Analisi di crescita
42
Contenuto di metaboliti secondari
49
3.5 Conclusioni
54
BIBLIOGRAFIA
58
RIASSUNTO
69
2
Capitolo 1
INTRODUZIONE
1.1 FITOTERAPIA E PIANTE MEDICINALI
La fitoterapia è una pratica medica che si occupa, sin dalla preistoria, dello studio delle
piante medicinali ed i loro estratti per la cura delle malattie o per il mantenimento del
benessere. L’uomo scoprì casualmente e sperimentò i vari effetti curativi e/o tossici
delle piante cibandosi di bacche e radici spontanee ed è per questo che può essere
annoverata come uno fra i primi esempi di pratiche terapeutiche.
Nell’antichità l´utilizzo delle piante era associato a riti magici o religiosi ed infatti,
spesso la loro raccolta, preparazione e somministrazione era riservata a varie figure
rilevanti all’interno della comunità come streghe, maghi, anziani, sacerdoti, le cui
conoscenze derivavano da una lunga tradizione orale.
Testimonianze dell’uso di specie vegetali a scopi terapeutici, sono presenti in numerose
parti del mondo; ad esempio in Egitto, dove è stato ritrovato il papiro di Ebers, datato
1500 a.C. che presenta la descrizione di alcuni medicamenti a base d´erbe
(www.erbemedicinali.eu). L’uso di oppio (contenente morfina) da parte di molti popoli
risale a molto prima invece: sappiamo per certo che già i Sumeri 5.000 anni fa
conoscevano bene le proprietà del Papaverum somniferum e ne tramandarono l'utilizzo
e
le
conoscenze
alle
successive
civiltà
caldea
e
assiro-babilonese
(it.wikipedia.org/wiki/Oppio). Un altro evento da ricordare è sicuramente la morte di
Socrate, avvenuta nel 399 a.C. dopo che il filosofo bevve un estratto di cicuta (Conium
maculatum) che conteneva coniina (da Montanari, 2006).
La prima classificazione scientifica di piante medicinali fu fatta dal greco Ippocrate
(460 a.c.), che descrisse più di 200 specie vegetali; questi “primi” erbari rappresentano
già i primi esempi di letteratura etnobotanica, in quanto raccolgono testimonianze sugli
utilizzi delle piante da parte delle popolazioni. In questo senso possono essere lette le
varie farmacopee delle tradizioni mediche più strutturate, come la cinese, l’ayurvedica,
la medicina greco-romana ed islamica ed i testi medievali europei (da Montanari, 2006).
Dal settecento in poi, dopo l’elevato utilizzo di piante medicinali nei secoli precedenti,
prima con l’industrializzazione (con la concezione del rifiuto dei sistemi tradizionali),
quindi con l’inizio della sintesi di farmaci chimici, si arrivò gradualmente fino agli anni
3
’70 ad un minore interesse verso le erbe, usate soltanto per l´estrazione di principi attivi
singoli o precursori per sintesi chimiche di farmaci (da Annaheim, 2008).
Questo calo drastico non si è però verificato nei paesi asiatici, dove le varie farmacopee
come quella cinese, indiana o russa continuano ancora oggi ad utilizzare estratti
provenienti da migliaia di piante (Serafini, 2000).
Papaverum somniferum L. e Conium maculatum L.
La World Health Organization (WHO) ha stimato che più dell’80% della popolazione
dei paesi in via di sviluppo affida la cura di malattie all’utilizzo di erbe medicinali, e che
4
nei paesi sviluppati il loro consumo è sempre più in crescita (Bannerman et al., 1983).
All’incirca due terzi delle 50 mila specie di piante medicinali in uso sono raccolte allo
stato spontaneo e solo una piccola parte risulta essere coltivata (in Europa non più del
10% delle specie commercializzate) (Canter et al, 2005).
Lo scenario dunque negli ultimi 30 anni è cambiato radicalmente; il mercato degli Stati
Uniti ad esempio è cresciuto del 380% in meno di dieci anni. Nel Regno Unito, la
fitoterapia costituisce oggi la più popolare pratica medica fra tutte le terapie
complementari, ed in Germania una media annuale del 65% della popolazione fa ricorso
a farmaci vegetali (Frias, 2004).
Un grosso problema legato ai dati citati in precedenza è l’approvvigionamento del
materiale vegetale in quanto la maggior parte delle piante è raccolta allo stato spontaneo
senza alcuna regolamentazione; ciò comporta il rischio di estinzione di molte specie con
conseguente perdita di biodiversità. Attualmente sono state identificate circa 150 specie
di piante medicinali a rischio di estinzione per eccessiva raccolta; per esempio la Adonis
vernalis (il cui principio attivo Adoniside è usato come cardiotonico) è praticamente
estinta in Italia e in Olanda ed è a serio rischio di estinzione in Germania, Slovacchia,
Svezia e Svizzera.
Adonis vernalis L.
5
L’interesse sempre maggiore per la coltivazione di piante medicinali al posto della
raccolta indiscriminata, è dovuto proprio alla volontà e necessità di garantire al mercato
un approvvigionamento costante sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo
(Falcone, 1990).
Un altro fenomeno importante da tenere sotto osservazione è il fatto che negli ultimi
tempi con un commercio più globalizzato, sono arrivate (prevalentemente da paesi
orientali) piante nei paesi industrializzati totalmente sconosciute a varie farmacopee. Di
queste piante non si ha alcun genere di nozione riguardo la determinazione botanica, la
sicurezza e le possibili interazioni con farmaci di sintesi (Serafini, 2000).
Negli ultimi decenni però, il ritorno al “naturale” ha suscitato un forte interesse da parte
dell’industria farmaceutica; il progresso della scienza ha determinato lo sviluppo di
nuove tecniche di identificazione, di estrazione e di analisi che hanno permesso ai
ricercatori di trasformare l´interesse per le piante terapeutiche, in una disciplina vera e
propria, basata su evidenze scientifiche (Tabella 1.1).
Tabella 1.1. Piante medicinali i cui estratti fitoterapici possiedono documentati effetti
terapeutici per particolari sindromi.
Specie botanica
Sindrome
Riferimento
claudicatio intermittens
(Pittler, 2000)
morbo di Alzheimer
(Ernst 1999)
Hypericum perforatum
depressione lieve e media
(Linde 2002)
Allium sativum
Ipercolesterolemia
(Stevenson, 2000)
Echinacea purpurea
Immunostimolante
(Block, 2003)
Menta piperita
colon irritabile
(Pittler, 1998)
Glycine max
sindrome climaterica
(Chen, 2004)
Ginkgo biloba
Aesculus hippocastanum insufficienza venosa
(MacKay, 2001)
Vitex agnus castus
sindrome premestruale
(Schellenberg R., 2001)
Yohimbee
disfunzione erettile
(Riley, 1994)
Serenoa repens
ipertrofia prostatica
(Boyle, 2004)
Panax ginseng
immunostimolante, adattogeno
(Lim, 2004)
Tanacetum parthenium
Emicrania
(Ernst, 2000)
Zingiber officinale
prevenzione nausea e vomito
(Vishwakarma, 2002)
Valeriana officinalis
Insonnia
(Hallam, 2003)
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Queste piante sono perciò importanti perché i loro principi attivi aiutano a curare e
prevenire il rischio di insorgenza delle malattie cosiddette del “terzo millennio”: tumori,
ansia, depressione, malattie neurodegenerative, anoressia, bulimia (Singh et al. 2003).
Fra queste possiamo citarne quattro fra le più consumate sul mercato, indicando
brevemente anche le sostanze attive e le patologie che contrastano: Echinacea spp.,
Allium sativum, Valeriana officinalis, Panax ginseng.
Echinacea è in assoluto una delle piante più studiate per quanto riguarda la ricerca di
molecole immunomodulanti ed i cui estratti sono usati da migliaia di persone in Europa
e nelle Americhe per curarsi da malattie periodiche quali raffreddore, influenza, tosse
(Bauer e Wagner, 1991).
Echinacea purpurea L.
Allium sativum contiene allicina che deriva dalla alliina e una serie di composti sulfurei.
L’uso di estratti di questa pianta spazia dalla prevenzione contro il cancro alla cura
dell’arteriosclerosi, dalla prevenzione dell’infarto all’attività antimicrobica. Sono state
anche studiate le sue proprietà come regolatore del metabolismo lipidico. Un composto
sulfureo, l’aioene, si è dimostrato un potente agente antitrombico (Roncali, 2001).
Valeriana officinalis è un tranquillante del sistema nervoso e per gli stati di ansietà e
insonnia. I principi attivi sono dei terpenoidi iridoidi indicati con il termine generico di
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valepotriati di cui il principale è il valtrato. Sono presenti anche l’acido isovalerico, ma
l’attività sedativa pare essere dovuta ai componenti dell’olio essenziale come l’acido
valerenico e il valeranone (Upton, 2001).
Panax ginseng o Ginseng i cui estratti sono utilizzati per il trattamento di un gran
numero di malattie compresa l’anemia, il diabete, la gastrite, l’insonnia e l’impotenza, è
considerato un adaptogeno, essendo in grado di aiutare il corpo ad adattarsi alle
situazioni di stress. Contiene un gran numero di terpenoidi, soprattutto saponine, definiti
ginsenosidi (Brun, 1998).
Valeriana officinalis L.
Oggi, i prodotti fitoterapici oltre ad essere esenti da contaminanti (pesticidi, metalli
pesanti, sostanze tossiche), devono avere concentrazioni di principi attivi costanti, in
modo da garantirne l´efficacia. Questo risultato può essere ottenuto attraverso un
processo di standardizzazione del fitoterapico ed un rigoroso controllo di qualità durante
tutto il processo produttivo, dalla coltivazione delle piante sino al confezionamento del
prodotto finito. Recentemente molti governi europei e nord americani hanno proposto
regolazioni più restrittive riguardo questi prodotti; la legislazione canadese ad esempio,
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ha inserito alcuni punti per migliorarne la sicurezza, la qualità e l’efficacia e richiesto
che i produttori stessi provvedano ai prodotti standardizzati liberi da contaminanti
(Health Canada, 2004).
Tabella 1.2. Rischi collegati all’automedicazione non controllata.
• Ritardo nella diagnosi e/o terapia sicura ed efficace
• Aggravamento per sostituzione della terapia convenzionale
• Uso di erbe prive di qualunque ricerca scientifica (preclinica o clinica)
• Preparazioni tradizionali o popolari di sola valenza empirica (tisane, succhi, ecc.)
• Prodotti privi dei requisiti minimi (nome botanico, tipo di estratto, concentrazione di
principi attivi …)
• Presenza di numerose erbe (anche 50 !)
• Uso di estratti non pertinenti
• Dosaggio inappropriato
• Uso improprio (es.: ingestione di oli essenziali per uso esterno)
• Ricorso a prodotti qualitativamente non controllati
La fitoterapia non deve essere considerata come una medicina priva di rischi, solo
perchè di origine naturale, infatti, non tutto ciò che naturale è innocuo, vista la presenza
di sostanze biologicamente attive (Menniti-Ippolito et al.,2002).
Le piante medicinali presentano proprietà terapeutiche importanti, ma anche effetti
collaterali, controindicazioni e interferenze con altre cure farmacologiche (un esempio è
l´interazione del Ginkgo con anticoagulanti, che se somministrati insieme aumentano la
fluidità del sangue con maggiore rischio di emorragie); è perciò sempre bene consultare
esperti del settore per sfruttare al meglio le loro potenzialità, riducendo così i pericoli
per la salute.
L’automedicazione non controllata, infatti, consente la diffusione di pratiche non
validate e l’impiego di prodotti che appartengono alle medicina popolare piuttosto che
alla Medicina, privi anche di adeguata regolamentazione (Larimore, 2004). Il dato però
più significativo è rappresentato dal fatto che oltre il 50 % dei soggetti che pratica
l’automedicazione non controllata con erbe medicinali, ha dimostrato cure inappropriate
o inutili, evidenziando una serie di rischi (Tabella 1.2) (Firenzuoli, 2003).
9
Preparati a base di piante medicinali
L’uso di prodotti a base di piante medicinali è sempre più diffuso in tutte le fasce della
popolazione per una serie di motivi, tra cui la maggiore attenzione per la salute, il
benessere individuale e l’interesse per il naturale che in quanto tale è considerato, anche
se erroneamente, sicuro. I prodotti a base di piante reperibili in commercio vengono
indicati come fitoterapici, prodotti erboristici, integratori alimentari ed altro ancora,
spesso in maniera del tutto intercambiabile; ma si possono trovare poi anche unguenti,
oli ed infusi.
I prodotti erboristici ai fini dell’autorizzazione all’immissione in commercio, si
configurano come integratori alimentari, anche se ad essi vengono attribuiti effetti
compatibili con un’attività farmacologica. Dal punto di vista farmacologico i prodotti a
base di piante medicinali si possono riunire in tre gruppi:
1) preparati aventi un’efficacia dimostrata: di essi si conoscono i principi attivi e i
dosaggi necessari;
2) preparati con efficacia probabile, ma non chiaramente dimostrata: contengono
sostanze farmacologicamente attive sulla base delle quali vengono standardizzati.
E’difficile per questi definire il dosaggio ottimale;
3) preparati con efficacia incerta, ma con una tradizione d’impiego consolidata che
possono pertanto essere utili in disturbi di lieve entità: le modalità del loro impiego
dovrebbero rispecchiare fedelmente l’uso tradizionale.
La maggior parte dei prodotti a base di piante medicinali oggi classificati come
integratori alimentari rientra nel secondo e terzo gruppo (Mazzanti, 2005). Un preparato
a base di piante medicinali ha una composizione complessa essendo costituito da una
parte di pianta (droga) o da un suo derivato; la droga è quindi in genere il risultato della
frantumazione della pianta, raccolta nel periodo conveniente della stagione (tempo
balsamico), spesso preceduta o seguita da essiccamento. Tale composizione è inoltre
variabile in funzione di una serie di fattori che riguardano la droga di partenza stessa
(fattori genetici, fattori ambientali, momento della raccolta, ecc.) e il metodo di
preparazione conseguente.
Il preparato in polvere è quello che meglio rispecchia la composizione della droga di
partenza, ma ha un basso contenuto di principi attivi; un infuso o un decotto contengono
principalmente la frazione idrosolubile della droga e in quantità piuttosto basse, mentre
un estratto idroalcolico, che origina una soluzione conosciuta come tintura madre,
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contiene sia i principi idrosolubili che quelli liposolubili, anche se in concentrazione
variabile in funzione del metodo di ottenimento (nella tintura il rapporto droga di
partenza/estratto è 1/5 che corrisponde a 1 g di droga in 5 ml di estratto, mentre
nell’estratto fluido è 1/1 che corrisponde a 1 g di droga in 1 ml di estratto; l’estratto
secco è ancora più concentrato in quanto il solvente è stato quasi completamente
eliminato per evaporazione); infine un olio essenziale contiene soltanto la frazione
volatile dei principi e in forma concentrata. Per fronteggiare il problema della variabilità
di composizione dei prodotti ottenuti da piante medicinali e garantire che la
composizione sia, almeno entro certi limiti costante, si effettua una standardizzazione;
gli estratti si possono chiamare difatti “standardizzati” quando sono preparati in modo
da contenere costantemente quantità percentuali fisse di determinati principi attivi o
costituenti chimici.
Spesso accade che all’interno delle droghe vegetali i principi attivi non siano stati
identificati; in questi casi l’attività del preparato viene attribuita all’intero fitocomplesso
(insieme dei principi contenuti nella droga). Questo fatto rende ovviamente più
difficoltosa la standardizzazione del prodotto che in assenza di principi noti, attivi
clinicamente, viene fatta sulla base di marker che si possono distinguere in marker attivi
farmacologicamente e marker analitici (Busse, 2000). I primi sono costituenti chimici
caratteristici della droga, dotati di attività farmacologica, che possono contribuire
all’efficacia della droga, ma di cui non esiste dimostrazione che essi siano i soli
responsabili dell’efficacia clinica; ad esempio i glicosidi flavonici e i lattoni terpenici
per il ginkgo, le procianidine oligomeriche per il biancospino, i ginsenosidi per il
ginseng. I marker analitici sono costituenti chimici caratteristici della droga, ma privi di
attività farmacologica o con attività farmacologica non dimostrata; ad esempio, i
derivati dell’acido caffeico per l’echinacea, l’acido rosmarinico per la melissa, i
glucosidi lignanici per l’eleuterococco (Mazzanti, 2005). Ovviamente l’uso di marker
nella standardizzazione non garantisce la riproducibilità dell’effetto.
Le varie nazioni hanno sviluppato già a partire dall’epoca della rivoluzione industriale
delle regole che prevedono l’impossibilità di commercializzare i prodotti farmaceutici
prima che essi abbiano subito un esame preliminare rivolto a certificare che essi
posseggano determinati requisiti. Le stesse nazioni si sono trovate d’accordo nello
stabilire che tali requisiti debbano principalmente essere la qualità, la sicurezza e
l’efficacia (Falvo, 2004).
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Anche le moderne Farmacopee sono degli standard qualitativi di riferimento ai quali i
produttori sono obbligati ad attenersi. Esse sono generalmente costituite da una parte
generale, in cui vengono indicati i metodi analitici ufficialmente accettati per il
riconoscimento e la determinazione quantitativa dei principi farmacologicamente attivi,
degli eccipienti e delle rispettive più comuni impurezze; inoltre, sono presenti
monografie di farmaci, in cui sono indicati i requisiti analitici che ciascuno di essi deve
possedere, inclusi i limiti delle impurezze (Falvo, 2004).
Lo sviluppo delle Farmacopee è, infine, dettato dall’introduzione sia di nuove
metodiche analitiche, più affidabili delle precedenti, sia di nuove monografie
ogniqualvolta un nuovo farmaco esca dal periodo di protezione brevettuale.
1.2 METABOLITI SECONDARI
I benefici effetti medicinali delle piante provengono tipicamente dalla combinazione dei
prodotti del metabolismo secondario dei vegetali.
I metaboliti secondari sono composti sintetizzati dalle piante che, a differenza dei
metaboliti primari, non svolgono ruoli fondamentali nelle funzioni vitali di base quali
divisione cellulare, crescita, respirazione, riproduzione; per questo è stata loro attribuita
per molto tempo una funzione di scarto, detossificazione, accumulo o eccesso di
produzione di vie metaboliche primarie. Kossel (1891) fu il primo a definire questi
composti come opposti ai metaboliti primari ed in seguito Czapek (1921) li definì
“endproduckt” in quanto sosteneva che derivassero dal metabolismo dell’azoto, grazie a
“modificazioni secondarie” quali, ad esempio, le deamminazioni.
Oggi sappiamo che questi composti chimici svolgono un ruolo chiave nelle interazioni
delle piante con l’ambiente che le circonda e risultano perciò indispensabili per il
mantenimento della specie (Falvo, 2004). Negli ultimi 50 anni la ricerca ha mostrato il
loro ruolo centrale nell’ecofisiologia della pianta: in special modo queste molecole,
eterogenee dal punto di vista chimico, hanno compiti come la difesa contro erbivori o
attacchi patogeni, possono fungere da sostanze allelopatiche e attrattive verso pronubi o
organismi simbionti. Inoltre i metaboliti secondari hanno anche un’azione protettiva
contro stress abiotici come quelli associati a shock termici e idrici, esposizione agli UV,
cambiamenti nutritivi. Recenti lavori indicano anche un certo ruolo nelle piante come
modulatori di espressione genica e nella cascata di segnale (Briskin, 2000).
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Numerosi composti secondari hanno però anche un effetto benefico sull’organismo
umano, e ciò ha reso molte piante fonte primaria di sostanze naturali di notevole
interesse applicativo nel settore alimentare (riguardo ad esempio sapori, colori ed
aromi), cosmetico e farmaceutico. Tali principi attivi sono classificati in base ai loro
percorsi biosintetici, nelle grandi famiglie molecolari degli alcaloidi, terpenoidi
(sesquiterpeni, saponine, carotenoidi e steroidi), fenoli (come tannini, chinoni e lignine),
i loro glucosidi e peptidi. Sono anche di interesse gli oli essenziali e le resine, che
spesso contengono composti appartenenti alle classi prima citate (Tyler et al., 1988;
Pengelly, 1996).
I metaboliti secondari, a differenza di quelli primari che devono essere mantenuti stabili
sia per concentrazione che per struttura chimica per assicurare l’integrità strutturale e
funzionale delle cellule, hanno un “elevato grado di libertà” per quanto riguarda
struttura e concentrazione (Maffei, 1999; Collin, 2001). Ad esempio, il contenuto in
flavonoidi nelle piante, oltre che dal genotipo, dipende strettamente dalle condizioni
ambientali, soprattutto dalla radiazione luminosa; è noto, ad esempio, che in molte
specie le radiazioni UV inducono significativi incrementi nel contenuto fogliare di
flavonoidi (Lercari et al, 1997). I metabolici secondari sono sintetizzati in quantità
molto bassa: rappresentano meno dell’1% del carbonio totale, sono spesso organo o
tessuto-specifici, assolvono precise funzioni e sono peculiari nelle diverse specie
vegetali. Sono caratterizzati, infatti, da una sorprendente variabilità intra-specifica:
comprendono migliaia di composti e solo le recenti tecniche chimico-analitiche hanno
permesso di accrescere le nostre conoscenze a riguardo. Il metabolismo secondario
impiega gli stessi enzimi del metabolismo primario, ma anche quelli originatisi in
seguito a duplicazioni geniche e variazioni alleliche (Pichersky et al. 2000). L’insieme
di queste mutazioni ha permesso, nel corso dell’evoluzione, la generazione di un
insieme ricco ed eterogeneo di composti secondari.
Si assiste ad un’armoniosa regolazione delle varie vie biosintetiche che sono integrate
nel metabolismo primario. Secondo Bu’lock (Maffei, 1999) infatti, l’accumulo di
metaboliti primari ha indotto la formazione di “valvole di sfogo” divergenti e la
conseguente produzione di migliaia di molecole diverse. Questa risposta è fondamentale
per il metabolismo della pianta in quanto l’accumulo di un composto intermedio può
avere effetti di inibizione retroattiva, bloccare e rallentare altre vie metaboliche.
Mediante la produzione di vie alternative il problema è superato ma si ripresenta nei
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prodotti finali della via neo-formata. Ecco così che il fenomeno si ripete e nascono
nuove vie parallele in grado di “drenare” gli accumuli. Fra le attività più importanti di
alcune molecole c’è quella antiossidante, in grado di contrastare la formazione di ROS e
l’azione di enzimi che ossidano membrane cellulari, lipidi e proteine (MartinezValverde et al. 2000). Molti composti secondari interagiscono con canali ionici di
membrana e sono impiegati nella cura dell’asma; vari alcaloidi hanno strutture simili ai
neurotrasmettitori endogeni e possono mimarne le attività e fungere così da trasduttori
cellulari (Falvo, 2004).
Alcune piante producono composti che stimolano l’attività delle cellule del sistema
immunitario in modo da renderle più pronte ad affrontare una situazione di pericolo e
contenere le infiammazioni. I flavonoidi e gli isoflavonoidi sono responsabili di svariati
effetti benefici: prevengono diversi tipi di carcinogenesi (Singh et al.2003) come quella
della cavità orale (Sagami et al. 1999), della prostata e il cancro al seno (Peeters et al.
2003), quest’ ultima azione è dovuta alle proprietà estrogeniche dei flavonoidi che
garantiscono protezione anche nei confronti delle malattie renali croniche quali
glomerulo-sclerosi e fibrosi medullare interstiziale (Ranich et al. 2001); inoltre, i
flavonoidi riducono il rischio di aterosclerosi e delle malattie cardiovascolari (O’Prey et
al. 2003), hanno effetti vasodilatatori sulla microcircolazione (Nestel et al. 2003) e
riducono i livelli di colesterolo LDL nel sangue (Nestel et al. 2003). Gli alcaloidi
garantiscono bassi livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue, stimolano il sistema
immunitario, hanno effetti analgesici, antileucemici, vasocostrittori, molti sono
allucinogeni o narcotizzanti (Falvo, 2004).
Possiamo quindi considerare le piante (quelli medicinali in particolar modo) come dei
contenitori di sostanze chimiche, talvolta isolate ed utilizzate come tali in terapia, in
altri casi fonti di materia prima per la produzione di farmaci emisintetici, oppure come
base per la produzione di fitoterapici veri e propri, nei casi in cui all’attività
farmacologica dell’estratto concorrano più sostanze in esso presenti.
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Capitolo 2
IL GENERE ECHINACEA
2.1 INQUADRAMENTO BOTANICO
Il nome linneiano del genere Echinacea è Rudbeckia, in onore di O.Rudbeck, botanico
svedese del XVII secolo. Il genere fu poi rinominato da Moench nel 1794 Echinacea,
dal greco echinos (riccio), per le brattee pungenti del capolino secco.
Si tratta di piante erbacee perenni appartenenti alla famiglia delle Asteraceae e
originarie dell’America settentrionale dove sono ancora stanziali; sono anche
denominate purple coneflower per la conformazione conica del ricettacolo (Lust, 1974;
Bauer e Wagner, 1990).
Tabella 2.1. Inquadramento botanico di Echinacea angustifolia
Phylum: SPERMATOPHITAE
Sottodivisione: ANGIOSPERMAE
Classe: DICOTYLEDONES
Sottoclasse: SYMPETALAE
Ordine: CAMPANULALES
Famiglia: ASTERACEAE (COMPOSITAE)
Sottofamiglia: ASTEROIDAE (TUBULIFLORAE)
Genere: RUDBECKIA L. (ECHINACEA)
Specie: ANGUSTIFOLIA L.
Echinacea ha un areale molto vasto che si estende dalla regione dei grandi laghi del
nord America fino alle zone costiere del golfo del Messico, interessando un gran
numero di stati (Mc Gregor, 1968; Mc Keown, 1999).
Queste piante crescono spontaneamente sia nelle zone di pianura che ad alta quota (fino
ad oltre 1500 m di altitudine), privilegiando aree aperte e soleggiate, senza esigenze
particolari di terreno e acqua anche se prediligono suoli moderatamente fertili, ben
drenati e tendenti al sabbioso, come quelli delle grandi praterie nordamericane.
15
Areale di origine di piante del genere Echinacea.
Il genere Echinacea secondo la classificazione ufficiale, si divide in nove specie e due
varietà (Mc Gregor, 1968):
•
E. angustifolia DC. var. angustifolia
•
E. angustifolia DC. var. strigosa McGREGOR
•
E. atrorubens NUTT.
•
E. laevigata (BOYNTON & BEADLE) BLAKE
•
E. pallida (NUTT.) NUTT.
•
E. paradoxa (NORTON) BRITTON var. paradoxa
•
E. paradoxa (NORTON) BRITTON var. neglecta McGREGOR
•
E. purpurea (L.) MOENCH
•
E. simulata McGREGOR
•
E. sanguinea NUTT.
•
E. tennesseensis (BEADLE) SMALL
Le specie che vengono impiegate per scopi fitoterapici sono E. angustifolia, E.
purpurea e E. pallida; è da sottolineare come il loro areale nell’insieme sia nettamente
più esteso rispetto a quello di tutte le altre, indice probabile della loro grande adattabilità
alle varie condizioni ambientali (Aiello e Bezzi, 1999).
16
Echinacea angustifolia
Echinacea angustifolia (su cui è stato condotto lo studio) ha un apparato radicale
fittonante di color bruno chiaro e steli per lo più semplici di altezza fino a 50 centimetri,
lisci o provvisti di peli nella parte bassa e con peli irsuti o ispidi nella parte alta.
Le foglie, dalla cui forma deriva il nome angustus (stretto) e folium (foglia), si
presentano da lineari-lanceolate ad ellittiche con margine intero, hanno peli irsuti o
ispidi, colore verde scuro e 3-5 nervature. Hanno dimensioni che sono variabili a
seconda della posizione che occupano sulla pianta: quelle della rosetta sono lunghe 5-27
cm e larghe 1-4 cm mentre quelle della parte basale dei fusti lunghe 4-15 cm e larghe
0,5-3,8 cm; quelle della parte alta sono inoltre sessili.
I capolini sono lunghi fino a 3 cm e larghi 1,5-2,5 cm, senza i fiori ligulati. Questi ultimi
sono più o meno distesi, hanno una dimensione massima 3,8 per 0,8 cm e sono di colore
bianco, rosa o porporino. Il polline è invece di colore giallo intenso.
Brattee pungenti del capolino di Echinacea angustifolia
Gli acheni sono di forma quadrangolare, lunghi 4-5 mm, di colore variabile dal
biancastro al bruno chiaro, con una pigmentazione più accentuata nella parte terminale.
Il ciclo biologico della pianta è caratterizzato da una fase di sviluppo vegetativo
primaverile, da una fase riproduttiva estiva, con fioritura da giugno a luglio, e da un
riposo vegetativo invernale preceduto dal disseccamento dell’apparato epigeo nel tardo
autunno. Il numero cromosomico è 2n = 22 (diploide).
17
Piante di Echinacea angustifolia
18
Echinacea purpurea
Echinacea purpurea ha un apparato radicale fascicolato di colore rosso-bruno, steli
diritti, spesso ramificati nella parte terminale e alti 60-180 cm. Le foglie hanno una
forma ovata o lanceolata, il margine seghettato, peli molto corti, colore verde scuro e 25 nervature.
I capolini sono piatti o leggermente emisferici con i fiori ligulati più o meno pendenti,
biancastri, rosei o porporini e lunghi fino a 3 cm. Il polline è di colore giallo e la
fioritura avviene da giugno a settembre.
Gli acheni sono di forma quadrangolare come in angustifolia ma non pigmentati
all’apice. Il numero cromosomico è 2n = 22 (diploide).
Pianta di Echinacea purpurea
19
Echinacea pallida
Echinacea pallida invece ha un apparato radicale fittonante di color bruno chiaro, steli
semplici e alti fino a 90 cm con peli fitti in alto e radi in basso. Le foglie della rosetta, a
margine intero e di forma lanceolata – ellittica, sono lunghe 10-35 cm e larghe fino a 4
cm. I capolini sono invece emisferici con i fiori ligulati lunghi e stretti (dimensione
massima 9 cm per 1 cm), pendenti, porporini, rosa o bianchi; il polline è di colore
bianco e la fioritura si manifesta da maggio a luglio. Gli acheni sono praticamente della
stessa forma e pigmentazione di quelli di angustifolia. Il numero cromosomico è 2n =
44 (tetraploide) (Mc Gregor, 1968; Bauer e Wagner, 1990; Foster, 1991; Mc Keown,
1999; Peng, 1999).
Pianta di Echinacea pallida
2.2 L’ECHINACEA COME PIANTA MEDICINALE
I benefici effetti di Echinacea furono scoperti in origine dalle diverse tribù d’indiani
d’America; masticando prevalentemente le radici ne sfruttavano infatti i principi attivi
per curare tosse, raffreddore, tonsilliti, mal di testa, stomaco e denti ma anche ferite,
20
ustioni o punture di insetti (Hobbs, 1994, Kindscher, 1992). Addirittura traevano
benefici anche contro il morso dei serpenti; intuirono cioè le varie proprietà
antinfiammatorie,
immunostimolanti,
antiossidanti,
cicatrizzanti,
antibatteriche,
antifungine ed antivirali che oggi riscuotono un enorme successo nel nostro mercato.
Le echinacee furono importate in Europa nel secolo scorso principalmente per scopi
ornamentali, soprattutto in Francia e Germania dove si diffusero con grande rapidità.
Gli studi sulla composizione e sulle proprietà farmacologiche presero avvio proprio
dalla Germania nel 1930, e, nei successivi 30 anni, le ricerche hanno dato luogo ad una
solida base che ha permesso la riscoperta di questa pianta in ogni paese del mondo
occidentale.
Le parti utilizzate sono rappresentate dalle radici o dalle parti aeree fresche o essiccate
delle tre specie menzionate in precedenza; queste contengono numerosi composti
chimici, caratterizzati da solubilità estremamente diverse, e in qualche caso distribuiti in
maniera diversa tra le varie specie.
Tabella 2.2. Principali metaboliti secondari nei tessuti di Echinacea spp.
COMPOSTI POLARI
POLISACCARIDI
Echinacina B
Arabinogalattano
DERIVATI
AC.CAFFEICO
Ac. Caffeico
Cinarina
Ac. Cicorico
Ac. Clorogenico
Ac. Caftarico
Echinacoside
FLAVONOIDI
Apigenina
Luteolina
Quercetina
Rutina
Kamferolo
COMPOSTI POLARI
ALCHILAMMIDI
Echinaceina
Isobutilammidi
COMPOSTI
VOLATILI
Terpeni (Cariofilleni)
Alfa- e beta- pinene
Umulene
Beta-farnesene
Echinolone
Borneolo
ALTRI
Vitamine
Glicoproteine
Alcaloidi
21
I costituenti attivi considerati di interesse (Tabella 2.2) sono una frazione polare
(idrofila) costituita da derivati dell’acido caffeico (Cheminat et al., 1988), flavonoidi e
polisaccaridi (Wagner et al., 1988), e una frazione apolare comprendente alchilammidi,
poliacetileni (principalmente chetoalcheni e chetoalchini) (Bauer e Reminger, 1989),
glicoproteine (Classen et al., 2000) e dei composti volatili come un olio essenziale
composto da derivati sesquiterpenici (borneolo e α-pinene) presente in quantità dello
0,1% in E. pallida e 2% in E. angustifolia (Li, 1998).
Derivati dell’acido caffeico
I CADs sono composti polifenolici (Grassi, 2007) e conferiscono il vero valore medico
all’Echinacea (Tozzini, 2006). Possono essere classificati come:
1. derivati dell’acido chinico, come acido clorogenico e cinarina
2. derivati dell’acido tartarico, come l‘acido cicorico
3. fenilpropanoidi glicosidi, come verbascoside, echinacoside
Ac. caftarico
Ac. caffeico
Ac. clorogenico
Cinarina
Ac. cicorico
Echinacoside
Figura 2.1. Struttura chimica dei principali derivati dell’acido caffeico.
In E. angustifolia ed in E. pallida, la maggior concentrazione di echinacoside, il primo
composto ad essere stato isolato, si trova nelle radici (rispettivamente con lo 0.3-1.3% e
lo 0.4-1.7%; Stoll et al., 1950), mentre è praticamente assente nell’estratto di E.
purpurea; è, inoltre, presente in E. simulata ed E. paradoxa (la quale, peraltro, presenta
un contenuto in metaboliti secondari molto simile a quello di E. pallida) (Barberini,
22
2007). La cinarina è presente esclusivamente in E. angustifolia ed in E. tennesseensis.
L’acido cicorico si trova solo in tracce nelle radici di E. angustifolia e di E. pallida, in
misura leggermente maggiore (fino allo 0.3%) nelle foglie e nei fiori della prima ed in
quantità ben più consistente (0.7-1.7%) nei fiori nella seconda, mentre trova la sua
massima concentrazione nei fiori (1.3-3.0%), foglie (0.4-1.6%) e radici (0.7-2.1%) di E.
purpurea (Barberini, 2007).
Flavonoidi
Sono presenti in tutte e tre le principali specie di Echinacea. E’ stato dimostrato che
foglie di E. purpurea e di E. angustifolia contengono quercetina rispettivamente allo
0.38% e 0.48% (Barberini, 2007).
Figura 2.2. Struttura chimica dei principali flavonoidi contenuti da Echinacea spp.
23
Polisaccaridi
Sono stati isolati numerosi polisaccaridi con peso molecolare fino a 75000 dalton; è
stata isolata la frazione polisaccaridica dalle radici di E. angustifolia ma i singoli
costituenti non sono stati caratterizzati completamente (Wagner et al., 1985). Molte
ricerche sono state condotte anche su E. purpurea dove sono state isolate sia in vivo che
in vitro due molecole dalle grandi proprietà immunostimolanti:
glucoarabinoxilano
e
acido
arabinoramnogalactano
(Bauer,
4-O-metil-
Wagner,
1991).
Quest’ultimo è oggi prodotto biotecnologicamente su scala industriale (Wagner, 1999).
Alchilammidi
Rappresentano la parte lipofila dei composti di interesse farmaceutico; sono costituite
da catene di acidi grassi contenenti uno o più doppi legami.
Le alchilammidi sono costituenti specifici delle radici di E. purpurea ed E. angustifolia
anche se sono strutturalmente diverse fra le due specie; queste ne contengono una
quantità esigua anche nelle parti aeree dove non vi presentano invece differenze
strutturali (Bauer e Reminger, 1989); E. pallida invece ne è totalmente priva
(Kabganian et al., 2002a). In E. angustifolia le alchilammidi riportate in letteratura sono
soprattutto di tipo acetilenico, insieme ad un certo numero di strutture puramente
olefiniche; ne sono state caratterizzate all’incirca 15 di cui le due più significative sono
la Dodeca -2E,4E,8Z,10Z -tetra acido isobutilammide e la Dodeca -2E,4E,8Z,10E –
acido tetranoico isobutilammide (Bauer et al., 1989).
Glicoproteine
Le glicoproteine dal punto di vista chimico sono proteine a cui sono legati dei
carboidrati; il legame può avvenire con un residuo di asparagina (si parla di Nglicosilazione) o con un residuo di idrossiprolina, idrossilisina, serina o treonina (si
parla di O-glicosilazione). Alcuni estratti di Echinacea hanno mostrato come queste
molecole svolgano un’attività immunostimolante inducendo la produzione di citochine e
la loro attività mitogenica (Bauer, 1993 e 1994). In radici di E. angustifolia sono state
isolate inoltre tre glicoproteine con peso molecolare fra 17000 u e 30000 u, contenenti
circa il 3% di proteine (da Annaheim, 2008).
24
Figura 2.3. Struttura chimica delle principali alchilammidi contenute in Echinacea spp.
25
Composti volatili
Tutti i tessuti, indipendentemente dalla specie, mostrano elevati livelli di acetaldeide,
campfene, beta-pinene e limonene: le aldeidi, specialmente propanali e butanali,
costituiscono il 41-57% della componente volatile nei tessuti radicali, il 19-29% nei
tessuti fogliari e solo il 6-14% in fiori e steli; i terpenoidi (tra cui campfene, alfa- e
beta-pinene, limonene, mircene, ocimene e terpinene) costituiscono l’81-91% della
componente volatile in tessuti di fiori e steli, il 45-68% nelle foglie e soltanto il 6-21%
nei tessuti radicali (Mazza e Cottrell, 1999).
2.3 IMPIEGO FARMACEUTICO DELL’ECHINACEA
Echinacea è oggi utilizzata nel mercato per la realizzazione di molti prodotti quali
creme cosmetiche o per la cura dei capelli (Smeh, 1995) ma anche per la preparazione
di alimenti; l’attività farmacologica è però quella prevalente. Si ritiene che la sua azione
determini un aumento delle difese immunitarie endogene attraverso la stimolazione del
sistema immunitario, soprattutto mediante l’attivazione della fagocitosi e dei fibroblasti
e la stimolazione della produzione di interleuchine ed interferoni. E’accertato che questa
azione è legata alla presenza di glicoproteine, polisaccaridi (echinacina B e
arabinogalattani), alchilammidi e acido cicorico; quest’ultimo è il composto fenolico
principale in Echinacea purpurea ma non nelle altre due specie, dove quello prevalente
è l’echinacoside (Perry et al., 2001), a cui si attribuisce una forte attività antiossidante: è
noto infatti l’effetto protettivo contro la degradazione indotta dai radicali liberi sul
collagene (Facino, 1993). L’attività antiossidante è data anche da altri derivati
dell’acido caffeico, quali cinarina e acido cicorico e come l’echinacoside risulti avere
davvero una buona capacità antinfiammatoria e cicatrizzante (Speroni et al., 2002).
E’ stata dimostrata anche un’ottima capacità batteriostatica e virustatica da parte di
estratti di Echinacea contro il diffondersi di numerose infezioni causate da vari ceppi
batterici e virali come Herpes simplex ed influenza A e B oltre che di Trichomonas,
Candida e Listeria (Binns et al., 2000). L’attività è da attribuirsi prevalentemente alla
frazione polisaccaridica ed alchilammidica. Acido clorogenico e acido caffeico
costituiscono invece una sorta di barriera meccanica contro la penetrazione di batteri
attraverso la cute; si determina così un’aumentata capacità dell’organismo di opporsi
allo sviluppo di infezioni acute ed un’accelerazione della guarigione delle ferite.
26
Le alchilammidi polinsature isolate dalle varie specie hanno mostrato inoltre un’attività
di inibizione in vitro della 5-lipossigenasi e della ciclossigenasi, due enzimi chiave nel
metabolismo dell’acido arachidonico, responsabili della formazione rispettivamente di
leucotrieni e prostaglandine, mediatori del processo infiammatorio (Müller-Jakic, 1994).
Echinacea angustifolia contiene infine anche composti che sono insetticidi;
l’echinolone ad esempio, ha la capacità di interferire e sconvolgere lo sviluppo degli
insetti (Hartzell 1947; Jacobson 1954; Voaden, Jacobson 1972). Ricercatori del
dipartimento di orticoltura dell’università del South Dakota stanno attualmente tentando
di identificare germoplasma di Echinacea angustifolia, contenente alti livelli di
echinolone, per creare insetticidi da utilizzare in numerose colture di girasoli (Foster,
1991).
Il mercato legato all’industria fitofarmaceutica ed erboristica del nord America ha
subito in questi ultimi anni un incremento superiore del 60%, realizzando vendite
annuali che hanno superato i 10 miliardi di dollari USA. L’Echinacea compare al primo
posto come la pianta più venduta, con circa 1 miliardo di dollari corrispondente a quasi
il 10 % dell’intero mercato (Pedneault et al., 2001). Da un’indagine condotta negli Stati
Uniti è emerso che l’Echinacea è il rimedio erboristico più popolare e si calcola che il
7% degli americani l’abbia usata, con un consumo valutato intorno ai 300 milioni di
dollari, cioè il 9% del totale venduto (3,6 miliardi di dollari) (Young, 1999). Secondo
un’altra indagine condotta negli USA da Information Resources Inc. nel 2001, nella
vendita di integratori alimentari a base di erbe (indagine ristretta ai soli food store, drug
store e mass market retail), l’Echinacea nel 2000 ha subito una flessione del 20,4%
(58,4 milioni di dollari su un totale di 590,9) collocandosi al quarto posto, dietro
Ginkgo, ginseng asiatico ed aglio (Blumenthal, 2001).
Sono stati raccolti alcuni dati riguardo la superficie investita ad Echinacea nei paesi
dove è più commercializzata: nel Canada occidentale gli ettari coltivati nel 2000 sono
stati 40-100; negli USA gli ettari investiti a E. angustifolia nel 1999 sono stati superiori
a 40 e la domanda di radice, proveniente soprattutto da raccolta spontanea, è stata di 50200 tonnellate (Little, 1999).
In Europa l’Echinacea, soprattutto E. purpurea, è coltivata in maniera “non uniforme”;
ci sono infatti stati, quali Spagna, Portogallo o Svizzera dove la superficie investita è
molto limitata. Ci sono al contrario altri stati dove la coltivazione risulta importante,
come Germania, Polonia ed Italia. La Germania è in assoluto il maggior produttore ed
27
utilizzatore europeo di Echinacea, con una superficie investita di 85 ettari nel 2001 e
più precisamente: 60 ha di E. purpurea, 20 ha di E. pallida e 5 ha di E. angustifolia. I
prezzi delle radici secche si sono aggirati sui 13 Euro/Kg per E. angustifolia e sui 7
Euro/Kg per le altre due specie (Bomme, 2002).
Un esempio di farmaco a base di Echinacea.
In Italia nel 2001 la superficie investita ad Echinacea è stata sui 30 ha, per la gran parte
condotta in biologico, con una prevalenza di E. pallida, seguita da E. purpurea ed E.
angustifolia. La superficie ha subito una diminuzione, in quanto gli ettari due anni
prima erano 35 (Vender, 2001). Le regioni principalmente interessate a queste colture
sono la Toscana, l’Umbria, il Veneto ed il Piemonte. Il fabbisogno nazionale di radici
può essere stimato in circa 20 tonnellate; nel 1999 tale fabbisogno era stimato in 30-35
tonnellate. Da questi dati emerge come attualmente il mercato sia leggermente in
ribasso, soprattutto sul venduto di E. pallida mentre rimane un certo interesse per E.
angustifolia. I prezzi infine sono estremamente variabili ed orientativamente si possono
indicare 10-15 Euro/Kg per le radici di E. angustifolia, mentre per quelle delle altre due
specie 6-8 Euro/Kg (Isafa, 2002).
28
Capitolo 3
PARTE SPERIMENTALE
3.1 . INTRODUZIONE
Le piante selvatiche non sono in grado di soddisfare una richiesta continua da parte
dell’industria né di fornire un prodotto sempre omogeneo, qualitativo e uniforme
geneticamente (Falcone, 1990); ciò ha portato la ricerca ad elaborare e approfondire
sempre più nuovi metodi di coltivazione e sistemi produttivi biotecnologici molto
avanzati e spesso costosi, come le colture di cellule e tessuti vegetali, per la produzione
diretta di metaboliti secondari. Quest’ultimo sistema potrebbe essere applicato per la
produzione su larga scala, visto il grande vantaggio di poter disporre di un sicuro e
continuo approvvigionamento di questi prodotti naturali e vista la possibilità, per mezzo
delle camere di crescita, di escludere l’alternanza di produzione legata alle variazioni
climatiche e stagionali. Le colture cellulari, comunque, comportando spese
considerevoli, sono utilizzate di solito solo per produrre molecole di noto rilievo
economico o medicinale come la vincristina, composto antitumorale derivato da
Catharantus (Balandrin e Klocke, 1988).
I sistemi produttivi principali oggi sono, comunque, di tipo intensivo, sempre più
controllato direttamente dalle società farmaceutiche ed indirizzato verso la produzione
di materia grezza a basso costo, ed un altro con caratteristiche più sostenibili, spesso
condotto secondo i criteri dell’agricoltura biologica o integrata e rivolto soprattutto
verso il mercato erboristico (Verlet, 1994).
Fra i metodi di coltivazione ci sono senz’altro le colture fuori suolo, in cui due
scienziati tedeschi, Sachs (1860) e Knop (1861), considerati i veri padri dell’idroponica,
ampliarono studi sulla nutrizione delle piante del chimico Von Liebig e di altri studiosi
del secolo precedente. I loro studi sull’influenza degli elementi minerali sulla crescita
delle piante dimostrarono che lo sviluppo normale poteva essere conseguito
aggiungendo all’acqua alcuni elementi minerali e in particolare azoto, fosforo, potassio,
zolfo, calcio e magnesio.
Le colture fuori suolo sono quindi tutti quei sistemi di coltivazione realizzati senza
l’utilizzo del terreno e che prevedono l’impiego dell’acqua come veicolo per il trasporto
delle sostanze nutritive (da qui il termine idroponica, letteralmente “lavoro dell’acqua”,
29
dal greco “hydro”, acqua, e “ponos”, lavoro). Si possono distinguere due gruppi: le
colture in soluzione nutritiva a radice nuda (senza substrato) e quelle in contenitore su
substrato, naturale o artificiale; fra i substrati maggiormente utilizzati troviamo in
ordine d’importanza la torba, la perlite, la lana di roccia, la pomice, il lapillo o altre
rocce vulcaniche e la fibra di cocco. Sono da ricordare anche altri materiali legati però
a realtà locali come le vinacce e le alghe marine (utilizzate, ad esempio, in Sardegna).
Le distinzioni possono essere fatte poi anche sul sistema di irrigazione (irrigazione a
goccia oppure subirrigazione) e al recupero o meno della soluzione nutritiva
somministrata: se questa non viene recuperata si parla di sistema aperto, altrimenti se
viene raccolta, riarricchita e somministrata di nuovo si parla di sistema chiuso.
Il mercato sta sempre più sfruttando queste tecniche vantaggiose ed in continua
evoluzione; esse permettono infatti a settori come quello ortoflorovivaistico di superare
le difficoltà legate all’eccessiva intensificazione colturale, alla stanchezza dei terreni e
al contenimento delle malattie delle piante senza trascurare ovviamente la possibilità di
un calendario di raccolta più ampio con rese produttive e qualitative superiori.
Fondamentale anche l’opportunità di controllare la sintesi e l’accumulo di principi attivi
tanto cari all’industria farmaceutica, variando le normali condizioni di crescita quali la
nutrizione minerale ed il controllo del clima. Molti studi hanno fatto pensare infatti che
regolando la composizione della soluzione nutritiva, tipo testando vari rapporti tra
forma nitrica ed ammoniacale dell’azoto (Marschner et al., 1996), si possa stimolare in
maniera più o meno accentuata sia l’accrescimento vegetativo sia soprattutto la sintesi
di metaboliti (Demeyer e Dejaegere, 1989; Letchamo et al., 1993; Aoki et al., 1997; ElGengaihi et al., 1998; Magalhaes et al., 1996; Park et al., 1999; Mairepetyan et al.,
1999; Briskin et al., 2000; Maia et al., 2001).
Importanti studi di ricerca sulla coltivazione idroponica sono stati condotti su Taxus x
media e Taxus cuspidata per la produzione di taxolo, un potente chemioterapico
(Wickremesinhe e Arteca, 1994) e su Hypericum perforatum, per la produzione dei
composti attivi ipericina, pseudoipericina ed iperforina (Murch et al., 2002). Anche su
Echinacea sono stati condotti vari studi sulla coltivazione fuori suolo e sono emersi
davvero buoni risultati perlomeno dal punto di vista della produzione di biomassa
(Letchamo et al., 2002).
I sistemi di coltura senza suolo presentano, comunque, delle lievi difficoltà nella
gestione del rifornimento idrico e minerale e il maggior rischio di diffusione degli
30
agenti di malattie del colletto e delle radice attraverso la soluzione nutritiva ricircolante;
questi ostacoli stanno leggermente frenando la diffusione dei cicli chiusi verso cui si sta
indirizzano la ricerca per ridurre al minimo l’impatto ambientale. Fra i più importanti
troviamo l’NFT, la coltura in contenitore su substrato artificiale, l’aeroponica ma
soprattutto il floating system, che interessa da vicino questo studio condotto su
Echinacea e dove di seguito vengono riportate le caratteristiche.
Floating system
La tecnica del floating system, è un sistema idroponico nel quale le piante sono allevate
su pannelli di polistirolo, fessurati o alveolati, galleggianti su di una soluzione nutritiva
all’interno di vasche dotate di un impianto di areazione. Si tratta di un sistema per lo più
statico, con possibilità di gestione della soluzione a ciclo chiuso o aperto. Questo genere
di coltivazione, attuato all’interno di serre, consente di non essere più legati al terreno
agrario per poter seminare: è una soluzione tecnica che pone come primo obiettivo
quello di ridurre l’impatto ambientale e limitare al minimo l’utilizzo di sostanze
chimiche. La semina è effettuata con pochissimo terriccio o substrato. Uno dei substrati
al momento più utilizzati è la lana di roccia (Grodan®), materiale innovativo avente una
ritenzione idrica ottimale ed un perfetto rapporto aria/acqua. Le piante si sviluppano in
apposite fessure o alveoli di pannelli di polistirolo precedentemente sterilizzati con
acqua ossigenata, i quali devono trascorrere dei giorni in una sala di germinazione,
caratterizzata da altissima umidità e temperatura costante attorno ai 20 °C. Di seguito,
una volta che le piante sono nate, i pannelli vengono posti a galleggiare nelle vasche
contenenti la soluzione nutritiva completa di macro e micronutrienti. Vengono utilizzati
volumi particolarmente elevati di soluzione nutritiva (fino a 300 L m-2), per assicurare
un elevato potere tampone al sistema; riduce, ad esempio, le escursioni termiche a
livello radicale e consente di ridurre la frequenza del controllo e della reintegrazione
della soluzione nutritiva. Le radici crescono attraverso appositi fori, traendo gli elementi
nutritivi disciolti nell'acqua sottostante. E’ un sistema particolarmente utilizzato per gli
ortaggi da foglia per il mercato della quarta gamma (lattuga, lattughino, rucola,
valeriana, spinacio, indivia ecc.); dopo circa 3-4 settimane infatti la coltura, cresciuta in
maniera uniforme, è pronta per la raccolta.
La tecnica del floating risulta quindi molto vantaggiosa in quanto consente di poter
controllare e gestire con semplicità tutte le varie fasi colturali, ottimizzando le risorse
31
irrigue e i costi legati ai consumi energetici. Permette così, con cicli di produzione
ridotti e continui, di poter destagionalizzare le varie colture con un’elevata e qualitativa
resa per m2.
Impianto di floating system in una serra commerciale specializzata nella produzione di
basilico per la IV gamma.
Le colture idroponiche per le piante medicinali
Uno degli obiettivi principali dell’industria farmaceutica è l’estrazione dei principi attivi
dalle piante medicinali e notevoli sono gli sforzi per arrivare alla standardizzazione dei
prodotti che ne derivano. Questi prodotti, infatti, proprio perché a base di piante
medicinali caratterizzate da un grado più o meno esteso di variabilità, possono avere
una composizione assai variabile da lotto a lotto. Questo fatto può, ad esempio, rendere
difficile la dimostrazione delle proprietà farmacologiche dei vari principi attivi, sempre
difficili da dimostrare (Mazzanti, 2005). Per una stessa droga vegetale si trovano in
commercio prodotti molto diversi per composizione e ciò implica che questi possano
conferire effetti farmacologici anche molti differenti fra di loro. Spesso poi la raccolta
spontanea e la coltivazione agricola non sono sufficienti per produrre una quantità di
biomassa utile all’estrazione dei principi attivi richiesti dal mercato. Inoltre le piante
coltivate con metodi tradizionali, vanno spesso incontro a problemi di disomogeneità di
32
crescita e la necessità di tenere sotto controllo tutta una serie di parametri, influenti sulla
qualità finale del prodotto, si fa sempre più forte. L’applicazione di sistemi idroponici
alla coltivazione di piante medicinali segue quindi le richieste dell’industria, inerenti
l’estrazione di principi attivi fitoterapici: l’ottenimento di rese elevate attraverso una
intensivizzazione della coltura, l’accorciamento del ciclo produttivo nonché il
miglioramento di tutti gli aspetti qualitativi del materiale grezzo da sottoporre a processi
di estrazione industriale.
E.angustifolia in aeroponica
(http://ag.arizona.edu/ceac/photolib/pics/aero/echroots.jpg)
L’idroponica consente poi di poter controllare strettamente tutti i parametri di crescita
della coltura e di poter stimolare il metabolismo secondario delle piante attraverso
l’induzione di stress. Si presenta così come una valida alternativa ai sistemi tradizionali
di coltura in suolo e può consentire di ottenere una standardizzazione del materiale
vegetale prodotto a partire da una standardizzazione del protocollo di coltivazione.
33
3.2 . OBIETTIVI DELLA RICERCA
La specie medicinale oggetto della tesi sperimentale è Echinacea angustifolia, coltivata
per le numerose proprietà (soprattutto, immunostimolante e antinfiammatoria) conferite
dai suoi metaboliti (v. Capitolo 2). In particolare, si è voluto identificare, in due
successivi esperimenti di coltivazione in serra realizzati ad un mese di distanza l’uno
dall’altro, la soluzione nutritiva più idonea per la coltura in floating di questa specie.
Sono state così poste a confronto tre soluzioni nutritive diversificate per il rapporto
molare tra nitrato e ammonio (NO3- / NH4+ nei rapporti 100:0, 75:25, 50:50), con una
concentrazione totale di azoto in soluzione di 8 mmol L-1. Sono state esaminate le
differenze in termini di produzione di biomassa e di contenuto di derivati dell’acido
caffeico, sia nelle radici che nelle foglie, in piante di due o tre mesi. Nel nostro studio,
la determinazione dei metaboliti di interesse è stata effettuata via HPLC.
In letteratura è possibile trovare lavori sull’effetto della nutrizione azotata sulla crescita
e/o la resa in principi attivi di piante medicinali. Bonomelli et al. (2005) coltivando in
vaso piante di Echinacea purpurea, ha studiato la produzione di biomassa fresca e secca
in relazione a vari livelli di fertilizzazione azotata (0, 33, 100 kg·ha-1 di azoto). I risultati
ottenuti mostravano che piante nutrite con dosi maggiori di azoto sviluppavano una
maggiore biomassa rispetto a quelle nutrite con quantitativi inferiori, ma i dati non
erano comunque statisticamente significativi. La fertilizzazione azotata diminuiva la
proporzione delle radici in relazione alle parti aeree; il contenuto totale di sostanza
secca (organi epigei ed ipogei) invece risultava intorno al 25-26%, rimanendo simile per
piante nutrite con differenti dosi di azoto.
Lo studio di Hagimori et al. (1982), invece, ha riguardato la coltura in vitro di radici di
Digitalis purpurea L. condotta con varie modificazioni del mezzo di crescita
Murashige-Skoog (MS); in particolare, è stato verificato l’effetto di varie concentrazioni
di alcuni elementi nutritivi, fra cui l’azoto (in forma nitrica ed ammoniacale), e ormoni
sulla produzione di digitossina. La riduzione di un terzo della concentrazione di base
dell’azoto ha aumentato il contenuto di digitossina senza effetti sulla crescita di crescita.
Il rapporto ottimale fra azoto nitrico ed azoto ammoniacale è risultato quello 2:1, quello
tipico di MS.
L’effetto dei vari rapporti dell’azoto in forma nitrica ed ammoniacale sono stati indagati
anche in colture cellulari di Panax notoginseng da Zhang et al. (1996) riguardo
soprattutto alla produzione di saponine e polisaccaridi. Le sospensioni contenevano
34
azoto totale fino a 60 mM; i risultati indicano che il passaggio dal nitrato all’ammonio
aveva una grande influenza sulla crescita cellulare, sul consumo delle risorse di
carbonio ed azoto e sulla produzione di metaboliti secondari: l’ammonio ha ridotto la
formazione di saponina. La produzione massima di saponina e polisaccaridi è stata
raggiunta quando il nitrato era la sola forma azotata; tale forma garantiva anche un
maggior crescita cellulare.
Un altro studio sugli effetti dell’azoto ammoniacale, in presenza anche dell’azoto
nitrico, è stato condotto su Chrysanthemum coronarium L. coltivata in un sistema
idroponico sotto serra (Yang et al., 2005). In questo studio sono stati testati quattro
livelli di azoto ammoniacale (0, 2.5, 5.0, 7.5 mM); al diminuire del NO3- / NH4+ si è
avuto una riduzione della crescita ma un aumento del contenuto di lattoni
sesquiterpenici.
3.3 MATERIALI E METODI
Materiale vegetale
I semi delle piante di Echinacea angustifolia utilizzate per le prove di coltivazione in
floating (Gold Nugget Seed®, Jelitto Staudensamen GmbH, Schwarmstedt, Germany).
erano stati pre-trattati per rompere la dormienza ed accelerare così la germinazione che,
nel genere Echinacea, non sempre avviene in maniera semplice ed omogenea. La
dormienza di questo genere di semi può essere rotta sia con mezzi fisici (luce,
raffreddamento, scarificazione) che con mezzi chimici (solitamente etilene); ciò lascia
pensare che nel fenomeno possano essere implicati sia fattori meccanici che non
meccanici: i primi risiedono sicuramente negli involucri più esterni dei semi; per quanto
riguarda i fattori non meccanici invece non è ancora chiaro quale sia il tipo di inibizione
rimosso dall’etilene, ma sembra possibile che esso stimoli la sintesi o il rilascio di
promotori di crescita necessari per l’instaurarsi del processo di germinazione (Pistelli e
Venturi, 2004).
Tecnica di coltivazione idroponica (floating system)
Sono stati effettuati due esperimenti analoghi, rispettivamente alla metà dei mesi di
marzo e aprile 2007, seguendo per entrambi lo stesso protocollo sperimentale. Per
l’intero ciclo colturale sono stati utilizzati pannelli alveolari in polistirolo contenenti
plug di lana di roccia. La semina è stata eseguita collocando un singolo seme in ogni
35
alveolo precedentemente bagnato e ricoprendo con un fine strato di vermiculite. La
germinazione è avvenuta in camera di crescita, dove i semi, quotidianamente irrigati,
sono stati mantenuti per dieci giorni alla temperatura di 23±1°C, in condizioni di
intensità luminosa di 200 W/m2 e fotoperiodo 16:8 luce-buio. Successivamente i
pannelli con le plantule sono stati spostati in serra e mantenuti per altre tre settimane su
appositi bancali sollevati da terra per garantire il ricircolo d’aria, con una regolare
irrigazione tramite nebulizzazione. In questo arco di tempo è avvenuta l’emissione delle
prime foglie vere e si è osservata un‘iniziale fuoriuscita delle radici dal substrato.
Le piante sono state trasferite su pannelli alveolari di grandezza 52 cm x 33 cm. Si sono
utilizzate 40 piante per ogni pannello, con una densità teorica di 233 piante m-2
(indicativamente 160 piante m-2, espressa in base alla superficie lorda) avendo cura di
lasciare un alveolo vuoto fra pianta e pianta per permetterne uno sviluppo migliore.
Per prevenire i problemi (es. sporcizia, consumo di ossigeno, ecc.) legati allo sviluppo
delle alghe nella soluzione nutritiva contenuta nelle vasche, sviluppo chiaramente
dipendente dalla luce, si è provveduto ad incollare sulla superficie dei pannelli un film
plastico bucato solo in prossimità degli alveoli ospitanti le piante, in modo da oscurare
completamente la soluzione nutritiva.
Uno degli impianti sperimentali utilizzati per la coltivazione di E. angustifolia.
36
Alle vasche usate per gli esperimenti, tutte di materiale plastico e contenenti 65 litri di
soluzione, sono stati montati due rubinetti (uno a metà vasca e l’altro nella parte bassa)
aventi funzioni differenti: quello inferiore di semplice svuotamento; nell’altro invece,
rigirato su se stesso, è stato inserito un cilindro graduato nella bocchetta. In tal modo,
aprendo il rubinetto, la parte liquida penetra nel cilindro salendo fino ad un certo valore
(corrispondente all’altezza della soluzione nel recipiente), che, rimisurato dopo un
tempo stabilito permette di vedere l’abbassamento del livello interno alla vasca, indice
del consumo ed evaporazione della soluzione. Il consumo d’acqua ha raggiunto valori
fino a 3.3 L vasca-1 ( 0.095 L pianta-1) per settimana.
Il sistema idroponico era dotato anche di un sistema di aerazione, costituito da un
insieme di tubi plastici collegati ad un compressore con una pietra porosa da acquario
all’estremita, in modo da garantire un contenuto di ossigeno di almeno 5-6 mg L-1.
La composizione di macro- e micro-elementi nelle tre soluzioni nutritive poste a
confronto nei due esperimenti e differenziate per il rapporto NO3-/NH4+ è riportata nella
tabella 3.1. Ogni trattamento veniva replicato tre volte, quindi in tutto c’erano nove
vasche. Alle soluzioni di ogni vasca si sono aggiunti anche 0.8 g di una miscela di
micronutrienti, Mix 5 SG (Valagro SpA, Chieti, Italy) e 0.8 g di ferro chelato al 6%.
Particolare della vasca idroponica; ogni vasca costituiva un replicato.
37
Particolare dell’apparato radicale di piante di E. angustifolia coltivate in idroponica.
Tabella 3.1. Concentrazione dei macroelementi nelle tre soluzioni nutritive poste a
confronto negli esperimenti di coltivazione idroponica di E. angustifolia.
Concentrazione (meq/L)
100 NO3
75 NO3
50 NO3
N-NO3-
8.0
6.0
4.0
P-H2PO4-
1.0
1.0
1.0
S-SO42-
2.0
4.0
6.0
Cl-
8.0
10.0
12.0
Concentrazione totale di anioni
19.0
21.0
23.0
N-NH4+
0.0
2.0
4.0
Ca
4.0
4.0
4.0
K
5.0
5.0
5.0
Mg
2.0
2.0
2.0
Na
8.0
8.0
8.0
Concentrazione totale di cationi
19
21
23
38
Il pH delle vasche è stato corretto inizialmente e ad ogni cambio di soluzione al valore
ottimale 5.5-6 con acido cloridrico ed è stato monitorato e corretto settimanalmente
insieme alla conducibilità elettrica. Nelle tesi con l’azoto ammoniacale si è verificato,
come del resto era prevedibile, una tendenza alla acifidicazione che in alcuni casi ha
portato i valori del pH fino a 4.0 circa. Al contrario, nella tesi 100 NO3 il pH tendeva a
salire fino a valori superiori a 7.0. La soluzione nutritiva contenuta in ogni vasca è stata
sostituita mensilmente. L’andamento dei valori di conducibilità elettrica (EC) registrati
durante il secondo esperimento, scelto come esempio, è riportato nella Fig. 3.1.
5
100% NO3
75% NO3
50% NO3
EC (mS cm-1)
4
3
2
Rinnovo
1
0
0
10
20
30
40
50
60
Tempo (giorni dal trapianto)
Figura 3.1. Valori della conducibilità elettrica (EC) registrati durante il secondo
esperimento con piante di E. angustifolia D.C. coltivate in idroponica sotto serra. La
semina è stata effettuata il 20 aprile ed il trapianto un mese dopo.
Determinazioni sperimentali
Le piante coltivate in floating sono state campionate nel giugno e luglio 2007, con cicli
colturali di tre mesi per il primo esperimento e di due o tre mesi per il secondo; al
momento dei prelievi nessuna delle piante campionate presentava strutture fiorali
differenziate. Il materiale vegetale è stato inizialmente privato del substrato, lavato in
acqua potabile e quindi in acqua deionizzata, e alla fine asciugato con carta assorbente.
39
Ogni singola pianta è stata suddivisa in parte aerea e radici. Ogni campione, costituito
da due piante, è stato pesato ed essiccato a 50°C in stufa ventilata. La determinazione
del peso secco è stata effettuata tramite essiccazione in stufa ventilata a 75°C fino a
peso costante.
I dati di crescita e di contenuto dei vari metaboliti d’interesse preventivamente scelti
sono stati poi esaminati dal punto di vista statistico tramite l’analisi della varianza
(ANOVA) ad una via, per verificare eventuali differenze significative legate all’impiego
di soluzioni nutritive diversificate, appunto, per il rapporto molare NO3- / NH4+. Le
medie sono state separate con il test della minima differenza significativa.
Analisi chimiche
Le procedure di estrazione dei campioni essiccati a 50 gradi hanno seguito il protocollo
di Luo et al. (2003) opportunamente modificato (Annaheim, 2008), cioè usando un
solvente acidificato con HCl. I campioni essiccati sono stati mantenuti una notte in
essiccatore prima della macinazione. Il tessuto vegetale secco è stato pesato, posto in
mortaio di porcellana sotto cappa e rapidamente addizionato di 5.0 ml di solvente di
estrazione (MeOH/H2O/HCl, 70:29:1, v/v), quindi è stato macinato. Ogni campione era
costituito da circa 0,2 g di tessuto secco. Il materiale vegetale con il solvente di
estrazione è stato trasferito in tubi di plastica, mantenuti poi una notte a –20°C, quindi il
giorno seguente ben agitati a mano e posti su agitatore magnetico per quattro ore. I tubi
sono stati centrifugati per 2 minuti a 2700 g; il liquido surnatante è stato raccolto in
nuovi tubi di plastica e conservato a –20°C. Al tessuto sono stati aggiunti altri 5.0 ml di
solvente di estrazione e la procedura è stata ripetuta. Infine, le due aliquote di surnatante
sono state riunite e conservate a –20°C. Le soluzioni ottenute hanno poi subito la
filtrazione per mezzo di un filtro da siringa Chromafil® da 0,45 µm con membrana in
PTFE, del diametro di 2.5 cm (Macherey - Nagel, Düren, Germany) ed in seguito
conservate a - 20°C prima dell’analisi HPLC.
Il materiale vegetale in eccesso rispetto a quello utilizzato per l’estrazione è stato
raccolto in provette e trasferito in stufa ventilata a 75°C per la determinazione del peso
secco di ciascun campione.
Per la quantificazione dei derivati dell’acido caffeico si sono utilizzati composti
standard chimicamente puri: echinacoside, cinarina, acido cicorico e caftarico (Phytolab
GmbH & Co. KG, Vestenbergsgreuth, Germany); acido clorogenico, caffeico, p40
cumarico e ferulico (Sigma-Aldrich, Milano, Italia). La preparazione degli standard ha
avuto luogo pesando 2 mg delle varie sostanze tramite bilancia analitica Handy H110
(Sartorius, Goetteingen, Germany). Si sono utilizzati solventi puri per HPLC (Carlo
Erba Reagenti SpA, Rodano, Italia).
Le soluzioni stock (10 ml) si sono realizzate sciogliendo le sostanze solide pesate in una
soluzione costituita da metanolo e acido fosforico allo 0.1% (70:30 v:v) La precisione
richiesta per le pesate iniziali, ci ha imposto di confermare la concentrazione delle
soluzioni
standard
preparate,
tramite
determinazione
spettrofotometrica
con
registrazione degli spettri UV-Vis ed il confronto con spettri analoghi ottenuti da
soluzioni a concentrazione nota utilizzate in lavori precedenti (Tozzini, 2006). Le
soluzioni stock sono state diluite 1:10 con metanolo puro in modo che la massima
assorbanza fosse di circa 0.8 e sono stati registrati gli spettri di assorbimento fra 200 nm
e 500 nm con uno spettrofotometro UV-Vis a doppio raggio Lambda 35 (Perkin Elmer
Beaconfield, England),utilizzando metanolo puro come soluzione di riferimento.
Sono state realizzate poi le curve di calibrazione tramite l’interpolazione di tre punti
sperimentali; per l’echinacoside, la cinarina e l’acido cicorico ne sono invece stati
utilizzati solo due. Le curve sono state poi ulteriormente verificate per confronto con
altre curve standard analoghe registrate in prove precedenti.
L’analisi chimica vera e propria è stata condotta utilizzando un’apparecchiatura HPLC
(Jasco, Tokyo, Giappone) costituita da una pompa quaternaria di gradiente a bassa
pressione modello PU-2089 e da un rivelatore UV/Vis multicanale modello UV-2077.
Le analisi sono state condotte con una colonna Macherey-Nagel C18 250/4.6
Nucleosil® 100-5, munita di precolonna ed a flusso 1 ml min-1, usando come eluenti
acetonitrile (A) e una soluzione acquosa di acido o-fosforico allo 0.1% (B). L'eluizione
in gradiente è stata così programmata: 0.0-0.4 minuti, B 95%; 0.4-0.5 minuti, B 9585%; 0.5-10 minuti, B 85-80%; 10-20 minuti, B 80-60%; 20-21 minuti, B 60-5%; 21-25
minuti, B 5%; 25-26 minuti, B 5-95%; 26-30 minuti, B 95%.
Le lunghezze d’onda alle quali sono stati registrati i cromatogrammi sono 280 nm, 300
nm, 325 nm e 350 nm; il volume di ogni iniezione è stato di 20 µl e le analisi sono state
portate avanti a temperatura ambiente (20-25°C). I derivati dell’acido caffeico sono stati
identificati confrontando i tempi di ritenzione con quelli dei rispettivi standard analitici
e quantificati per integrazione dell’area dei picchi e confronto con le rispettive curve di
calibrazione.
41
3.4 RISULTATI E DISCUSSIONE
Analisi di crescita
L’ammonio e il nitrato sono le principali fonti di azoto utilizzate dalle piante.
Nonostante l’assimilazione di NO3– sia alquanto dispendiosa in termini energetici (la
sua riduzione richiede sia ATP sia NADPH), di solito NH4+ non è la forma preferita
dalle piante (Salsac et al., 1987). Ciò trova spiegazione nel fatto che l’assorbimento
dell’ammonio, da solo o ad alti livelli, può eccedere la capacità di organicazione
causando tossicità (Maynard e Barker, 1969). Pertanto, l’ammonio può indurre
importanti cambiamenti fisiologici se somministrato in quantità maggiori di quelle
tollerate dalla specie e provocare stentata crescita, decolorazione, clorosi e necrosi delle
foglie, nonché lesioni sugli steli.
Diversamente, l’esclusiva o la prevalente disponibilità (nel mezzo di crescita) dell’azoto
in forma nitrica, piuttosto che ammoniacale, favorisce l’accumulo di nitrato, qualora il
processo di assorbimento di NO3– sia più rapido del processo di assimilazione. Questo
fenomeno può avere riflessi negativi sulla produzione delle colture, ad es. può
determinare un aumento del contenuto di nitrati liberi (potenzialmente tossici per
l’organismo umano) in molti ortaggi da foglia (Gonnella et al., 2002). La preferenza
nell’uso di una forma o l’altra dipende da diversi parametri: specie, età della pianta,
condizioni ambientali, rapporto tra le due forme chimiche dell’azoto e concentrazione
degli altri elementi nutritivi nel mezzo di crescita. Normalmente, nelle colture
idroponiche la forma nitrica è l’unica presente o comunque quella predominante,
essendo l’azoto ammoniacale usato in percentuali (rispetto all’azoto totale) assai ridotte
(<10%) (Pardossi et al., 2006).
Non mancano, comunque, in letteratura lavori dai quali emerge una maggiore crescita
delle radici ed in generale della pianta quando questa è coltivata somministrando l’azoto
sia in forma nitrica che ammoniacale, rispetto all’impiego della sola forma nitrica (Sady
et al. 1995; Schortemeyer and Feil 1996). Il rapporto NO3–/NH4+ ottimale dipende dalla
specie e dalle condizioni di sviluppo (Marschner 2002); tale rapporto incide non solo
sullo sviluppo e sulla morfologia delle radici, ma anche sulla produzione di biomassa
delle radici stesse (Woolfolk and Friend 2003). Un’altra ricerca ha mostrato anche come
il rapporto fra queste due forme azotate possa cambiare la proporzione fra radici e parte
aerea (Bar-Tal et al. 2001).
42
60
100% N-NO3
75% N-NO3
g pianta
-1
50% N-NO3
40
20
g pianta
-1
0
30
-1
RADICI
TOTALE
FOGLIE
RADICI
TOTALE
FOGLIE
RADICI
TOTALE
20
10
0
30
g pianta
FOGLIE
20
10
0
Figura 3.2. Effetto del rapporto tra la concentrazione di azoto nitrico e azoto totale
nella soluzione nutritiva sul peso fresco delle foglie, delle radici e totale determinato, in
due esperimenti successivi, dopo due o tre mesi dal trapianto, in piante di E.
angustifolia D.C. coltivate in idroponica sotto serra. Alto: esp. 1, piante di tre mesi
(dalla semina); medio: esp. 2, piante di due mesi; basso: esp. 2, piante di tre mesi. Le
differenze tra i vari trattamenti non sono statisticamente significative.
43
10
100% N-NO3
75% N-NO3
g pianta
-1
50% N-NO3
5
FOGLIE
RADICI
TOTALE
FOGLIE
RADICI
TOTALE
FOGLIE
RADICI
TOTALE
g pianta
-1
0
5.0
2.5
g pianta
-1
0.0
5.0
2.5
0.0
Figura 3.3.. Effetto del rapporto tra la concentrazione di azoto nitrico e azoto totale
nella soluzione nutritiva sul peso secco delle foglie, delle radici e totale determinato, in
due esperimenti successivi, dopo due o tre mesi dal trapianto, in piante di E.
angustifolia D.C. coltivate in idroponica sotto serra. Alto: esp. 1, piante di tre mesi
(dalla semina); medio: esp. 2, piante di due mesi; basso: esp. 2, piante di tre mesi. Le
differenze tra i vari trattamenti non sono statisticamente significative.
44
La simultanea presenza di nitrati e ammonio può, inoltre, risultare utile dal punto di
vista tecnico per mantenere l’equilibro elettro-chimico della soluzione nutritiva, quindi
del pH, che le piante invece tendono a modificare in seguito all’assorbimento
differenziale di ioni inorganici di diversa natura (cationi e anioni) (Lea-Cox et al., 1999;
Savvas et al., 2003; Sigg et al., 2006). Ciò è particolarmente importante nel floating
system dove le piante sono cresciute in una soluzione nutritiva stagnante e gli
aggiustamenti del pH possono risultare più complessi rispetto ad altri sistemi idroponici
con soluzione nutritiva ricircolante (es. nutrient film tecnique) raccolta in un deposito
dove l’operazione di correzione del pH può essere addirittura automatizzata.
Nel nostro studio, non sono emerse differenze significative tra i tre diversi regimi
nutrizionali (cioè, diversi rapporti NO3–/NH4+ nella soluzione nutritiva) per quanto
riguarda la produzione di biomassa fresca (Fig. 3.2) o secca (Fig. 3.3), sia per quanto
riguarda le radici che la parte aerea.
Le nostre osservazioni confermano, almeno in parte, i risultati di Zheng et al. (2006).
Questi autori hanno condotto una serie di esperimenti in serra con piante di Echinacea
angustifolia ed Echinacea purpurea coltivati in floating o in vasetti con diversi substrati
(sabbia o un miscuglio di torba, perlite e vermiculite) con diversi rapporti NO3-/NH4+
nella soluzione nutritiva (3:1, 5:1, 7:1, corrispondenti rispettivamente al 75, 83.3 e
87.5% dell’azoto nitrico sull’azoto totale, pari a 16 mM) e due diversi regimi di
irrigazione in modo da stressare leggermente le piante, in un caso.
Nell’esperimento di Zheng et al. (2006a), nel quale è stata adottata una densità colturale
inferiore (22 piante m-2) a quella del nostro lavoro (circa 160 piante m-2) con un sistema
simile a quello qui utilizzato, nella maggior parte dei casi e in entrambe le specie i vari
rapporti NO3-/NH4+ non avevano effetti significativi sulla crescita in nessuna delle due
specie, in tutti i vari sistemi di coltivazione. Quando però gli effetti erano significativi,
questi suggerivano un ruolo positivo della forma nitrica; infatti, con rapporti più alti fra
azoto nitrico ed ammoniacale nella piante, soprattutto di E. purpurea, si aveva un’area
fogliare più sviluppata, una maggiore biomassa totale e radicale ed anche un rapporto
maggiore (sost. secca) tra le radici e la parte aerea.
Tornando a commentare i risultati dei nostri esperimenti, occorre dire che, nelle due
prove condotte, eseguite ad un mese di distanza l’una dall’altra, si sono ottenuti risultati
assai variabili, come indicato ad esempio dai valori del coefficiente di variabilità (CV)
della media del peso secco delle radici e delle foglie calcolati per i vari prelievi nei due
esperimenti (Tab. 3.2); il CV in alcuni casi è stato addirittura di quasi il 90%. In effetti,
45
ad un’uniformità iniziale delle piantine, si è poi contrapposta al momento dei prelievi
(quindi, dopo due o tre mesi dalla semina) una variabilità assai marcata (v. foto pagina
seguente).
Tabella 3.2. Coefficiente di variabilità delle medie dei pesi secchi determinati su
campioni di foglie o di radici raccolti in diversi esperimenti con piante di E. angustifolia
D.C. coltivate in idroponica sotto serra usando soluzioni nutritive differenziate per la
percentuale di azoto nitrico sull’azoto totale.
FOGLIE
RADICI
TOTALE
Esp. I
Esp. II
Esp. II
3 mesi da semina
2 mesi da semina
3 mesi da semina
100 NO3
30.8
9.3
31.4
75 NO3
59.9
18.7
17.0
50 NO3
47.7
34.9
31.3
100 NO3
89.2
9.8
52.0
75 NO3
30.7
18.1
48.5
50 NO3
45.0
30.1
50.2
100 NO3
52.3
9.7
39.8
75 NO3
50.4
17.7
26.7
50 NO3
29.3
31.6
40.9
Tale variabilità potrebbe avere mascherato gli effetti della nutrizione azotata per quanto
riguarda il livello di crescita delle piante. Infatti, quando si considerano le piante
campionate alle fine dei due esperimenti, cioè dopo due mesi dal trapianto (tre dalla
semina), l’aumento della concentrazione di azoto NH4+ si associava ad una certa
riduzione della crescita delle radici e della parte aerea (Figg. 3.2 e 3.3).
Inoltre, in entrambi gli esperimenti, si è rilevata una percentuale di sopravvivenza delle
piante, rispetto a quelle effettivamente trapiantate, pari mediamente al 42% nella tesi 50
NO3 mentre nelle altre due tale percentuale si attestava intorno al 78%; cioè, la mortalità
46
delle piante è stata decisamente superiore quando la metà dell’azoto in soluzione era
sotto forma ammoniacale. Le ragioni della moria delle piante erano costituite da un
grave marciume prima del colletto e quindi delle radici, d’eziologia ignota non essendo
stati condotti studi fitopatologici in tal senso, ma verosimilmente provocata da agenti
patogeni come ad es. Pythium.
Piante di E.angustifolia coltivata in idroponica due (sx) o sei (dx) settimane dopo il
trapianto: alla uniformità iniziale si contrappone una notevole difformità nella crescita
in uno stadio più avanzato dello sviluppo.
47
E’ stata osservata anche una notevole variabilità tra esperimento e esperimento.
Mediamente, il peso fresco e secco di una singola pianta dopo due mesi dal trapianto si
aggirava sui 25.8 g e 3.4 g, rispettivamente, nel primo esperimento e raggiungeva i 12 g
e 1.9 g nel secondo. Questi valori sono simili a quelli di Zheng et al. (2006a) che nel
loro articolo riportano valori del peso secco totale delle piantine di E. angustifolia, tre
mesi dopo il trapianto (cinque dopo la semina) inferiori a 4-5 g pianta-1.
Anche per il contenuto di sostanza secca sulla biomassa tal quale al momento della
raccolta si sono registrati valori molto variabili, oscillando fra il 10.0 % ed il 17.9%;
anche questi valori sono simili a quelli di Zheng et al. (2006a).
Esp. 1
Temperatura (°C)
Radiazione (MJm -2giorno -1)
40
Esp. 2
30
20
Temperatura
10
Radiazione
0
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90
Tempo (giorni dal primo trapianto)
Figura 3.4. Valori medi giornalieri della temperatura dell’aria e della radiazione
incidente registrati nei tre mesi dopo il trapianto (a partire dal 20 aprile 2007) in cui
sono stati condotti i due esperimenti con piante di E. angustifolia D.C. coltivate in
idroponica sotto serra. Il primo esperimento è iniziato con la semina il 20 marzo; le
piante sono state trapiantate il 20 aprile. Il secondo esperimento è stato posticipato di un
mese per quanto riguarda sia la semina sia il trapianto. La temperatura media dell’aria
all’interno della serra è stata di 22.5°C per la prima prova e di 24.6°C per la seconda; la
radiazione incidente media invece si attestava a 9.5 MJ/m2 nel primo esperimento e
10.0 MJ/m2 nel secondo.
48
Considerando l’uniformità delle condizioni edafiche garantite dalla tecnica idroponica e
un andamento dei parametri climatici più importanti (temperatura e radiazione; Fig. 3.4)
praticamente identico nei due esperimenti, che peraltro in parte erano condotti
parallelamente, le ragioni della variabilità nella crescita delle piante sono probabilmente
riconducibili alla variabilità genetica nel lotto di semi utilizzato.
Contenuto di metaboliti secondari
La caratterizzazione chimica (via HPLC) dei campioni raccolti nei due esperimenti ha
previsto l’impiego di otto diversi standard. Di questi,solo quattro sono stati rintracciati
in quantità significative, cioè superiori al livello di rilevabilità del metodo analitico
impiegato (pari a 0.05 mg g-1 di peso secco): acido clorogenico, echinacoside, cinarina,
a. cicorico, elencati in ordine crescente del tempo di eluizione. In tutti i campioni
analizzati, invece, il contenuto degli altri metaboliti considerati (a. caftarico, a. caffeico,
a. p-cumarico e a. ferulico) è stato inferiore o appena al di sopra del limite di rilevabilità
e pertanto non è stato considerato nella determinazione del contenuto totale di
metaboliti d’interesse.
Pur in minore misura rispetto a quanto osservato per l’analisi di crescita, anche per la
concentrazione dei derivati dell’acido caffeico è stata osservata una certa variabilità dei
risultati che era intorno al 13%, con valori fino al 62%. I rilievi sull’echinacoside erano
quelli che rivelavano il coefficiente di variabilità minore.
Molti lavori in letteratura, del resto, riportano che il contenuto di principi attivi in E.
angustifolia è assai variabile, essendo influenzato da molti fattori spesso non
controllabili come l’andamento climatico, o come il genotipo impiegato (Aiello et al.,
2002a, 2002b, 2002c; Bomme et al. 1992, Bauer, 1998; Letchamo et al., 2002).
L’echinacoside, il composto comunemente utilizzato come parametro di riferimento per
la titolazione degli estratti reperibili in commercio, è quello che ha fatto rilevare la
concentrazione più elevata fra quelli presi in esame (Figg. 3.5 e 3.6) e sembra essere
prodotto in quantità maggiore nelle foglie rispetto alle radici. Questo risultato è per certi
versi sorprendente, in quanto solitamente sono le radici a contenere di più delle foglie
questo composto, come riportato anche da (Tozzini, 2006; Montanari et al., 2008;:
Zheng et al., 2006).
49
Tabella 3.3. Coefficiente di variabilità delle medie del contenuto di alcuni derivati dell’acido caffeico determinati in campioni di foglie o
di radici raccolti in diversi esperimenti con piante di E. angustifolia D.C. coltivate in idroponica sotto serra usando soluzioni nutritive
differenziate per la percentuale di azoto nitrico sull’azoto totale.
Esp.1, 3 mesi
FOGLIE
RADICI
Esp.2, 2 mesi
FOGLIE
RADICI
Esp.2, 3 mesi
FOGLIE
RADICI
Ac.clorogenico
Echinacoside
Cinarina
Ac.cicorico
Totale
100 NO3
18
7
14
19
4
75 NO3
24
6
26
15
5
50 NO3
32
6
29
12
4
100 NO3
16
7
2
12
6
75 NO3
11
3
2
14
4
50 NO3
12
6
5
10
8
100 NO3
4
11
21
9
9
75 NO3
14
8
26
9
6
50 NO3
8
9
28
12
7
100 NO3
6
3
3
10
1
75 NO3
9
3
4
11
2
50 NO3
11
5
3
13
7
100 NO3
24
9
33
13
8
75 NO3
14
8
29
23
7
50 NO3
26
7
62
31
5
100 NO3
7
3
1
11
3
75 NO3
7
3
2
16
2
50 NO3
9
4
12
12
4
50
Nel nostro lavoro l’echinacoside rappresenta nelle foglie la quasi totalità dei metaboliti
cercati. Nel primo esperimento raggiungeva un valore medio di 5002 µg g-1 (nel
trattamento col solo azoto nitrico si arriva a 5499 µg g-1) mentre gli altri metaboliti
venivano rilevati tutti sotto i 500 µg g-1. Nell’altro esperimento, invece, i rilievi di
echinacoside arrivavano fino a concentrazioni medie di 3635 e 3649 µg g-1,
rispettivamente in foglie di due mesi e tre; in quest’ultime col trattamento75 NO3 si
raggiungeva 4372 µg g-1.
In questo esperimento, l’acido clorogenico, la cinarina e l’acido cicorico erano presenti
per entrambi i rilievi a concentrazioni simili alla prima prova. Lo stesso esperimento,
dunque, si caratterizzava per avere concentrazioni equiparabili di tutti i metaboliti in
piante di età diverse. Solo in quelle di tre mesi però la nutrizione azotata sembrava
avere influenzato la produzione di echinacoside, che è risultata significativamente
inferiore nella tesi col 50% di azoto nitrico. Per le foglie delle piante di due mesi e di
quelle del primo esperimento, non si sono osservate invece differenze significative fra le
tesi a confronto.
Per quanto riguarda le radici (Fig. 3.6), l’echinacoside era presente alle concentrazioni
medie di 2137 µg g-1 (il valore più alto, 3154 µg g-1, si è avuto con 75 NO3) nel primo
esperimento e di 3778 µg g-1 (5814 µg g-1 con 75 NO3) nelle piante di tre mesi del
secondo, nettamente superiore al rilievo delle piante più giovani (1249 µg g-1). Gli altri
tre metaboliti, in particolare la cinarina, erano presenti nelle radici in quantità molto più
elevate rispetto alle foglie.
Mettendo a confronto radici della stessa età, si nota dalla figura 3.6 come i contenuti di
metaboliti determinati nel secondo esperimento risultino più alti rispetto al primo; la
concentrazione media di cinarina per esempio era di 2317 µg g-1, mentre nel primo
esperimento era di 1284 µg g-1 (nel trattamento con solo nitrato si arrivava a 1799 µg
g-1). L’effetto della concentrazione di azoto risulta influente, in quanto la tesi 75 NO3 è
quella dove, in tutti e tre i prelievi, la quantità di echinacoside è sempre
significativamente più alta rispetto agli altri due trattamenti. In generale, l’uso del 50%
dell’azoto in soluzione in forma ammoniacale tendeva ad influenzare in modo negativo
l’accumulo dei metaboliti più significativi (echinacoside e cinarina), come del resto
visto anche in precedenti esperimenti (Tozzini, 2006; Montanari et al., 2008) condotti
con lo stesso materiale genetico usato in questo lavoro e in condizioni ambientali e
colturali praticamente identiche.
51
8000
75% NO3
100% NO3
50% NO3
7000
a
b
3000
b
A
.C
.C
LE
a
a
a
a,b
b
b
3000
b
1000
A
.C
6000
A
.C
C
ic
in
or
ic
o
ar
in
a
de
si
co
Ec
hi
na
ge
ni
co
lo
ro
7000
a b a,b
a b a,b
a b a
0
8000
To
ta
le
2000
5000
a
a
a
a
4000
b
b
3000
b
1000
a a a
A
.C
ic
or
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o
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in
a
C
co
si
de
na
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hi
A
.C
lo
ro
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ni
co
0
a a b
b a c
le
2000
To
ta
-1
ic
in
5000
4000
or
ic
o
ar
in
a
e
id
os
A
6000
Ec
hi
na
c
ge
ni
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lo
ro
7000
a a a
a b b
TO
TA
a a a
0
8000
µg g PS
b
4000
1000
-1
b
a
5000
2000
µg g PS
a
a
C
µg g PS
-1
6000
Figura 3.5. Effetto del rapporto tra la concentrazione di azoto nitrico e azoto totale
nella soluzione nutritiva sul contenuto di alcuni derivati dell’acido caffeico (per singolo
metabolita e totale) determinato, in due esperimenti successivi, dopo due o tre mesi dal
trapianto, nelle foglie di piante di E. angustifolia D.C. coltivate in idroponica sotto
serra. Alto: esp. 1, piante di tre mesi (dalla semina); medio: esp. 2, piante di due mesi;
basso: esp. 2, piante di tre mesi.
52
8000
75% NO3
100% NO3
50% NO3
7000
a
µg g PS
-1
6000
5000
b
b
4000
a
3000
b
2000
a
c
a a a
1000
a
b
c
b b
µg g PS
-1
A
.C
LE
TO
TA
ar
in
a
in
C
A
.C
ic
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ic
o
6000
Ec
hi
na
co
si
de
lo
ro
7000
ge
ni
co
0
8000
5000
a
4000
b b
3000
2000
a
1000
b
b
a
a
b c
c
a
a a
b
µg g PS
-1
LE
TA
a
TO
A
.C
ic
or
ic
o
ar
in
a
C
in
Ec
hi
na
co
si
de
A
.C
lo
ro
10000
ge
ni
co
0
12000
b
8000
a
6000
c
4000
b
b
c
a
a
2000
c
b c
a b
b
LE
TO
TA
A
.C
ic
or
ic
o
ar
in
a
in
C
in
Ec
h
A
.C
lo
ro
ge
ni
co
ac
os
id
e
0
Figura 3.6. Effetto del rapporto tra la concentrazione di azoto nitrico e azoto totale
nella soluzione nutritiva sul contenuto di alcuni derivati dell’acido caffeico (per singolo
metabolita e totale) determinato, in due esperimenti successivi, dopo due o tre mesi dal
trapianto, nelle radici di piante di E. angustifolia D.C. coltivate in idroponica sotto
serra. Alto: esp. 1, piante di tre mesi (dalla semina); medio: esp. 2, piante di due mesi;
basso: esp. 2, piante di tre mesi.
53
Zheng et al. (2006b) riportano, per piante di Echinacea angustifolia coltivate in sistemi
idroponici simili ai nostri, risultati in parte diversi. Ad es., nello studio di questi autori
canadesi le foglie risultavano contenere meno metaboliti rispetto alle radici.
La concentrazione di echinacoside, inoltre, sembrava essere influenzata dal tipo di
coltivazione: nelle foglie, il floating faceva registrare contenuti di circa 600 µg g-1
decisamente più alti rispetto alle coltivazioni in vaso su sabbia o su di un miscuglio di
torba, perlite e vermiculite; nelle radici coltivate sui due substrati invece, i valori sono
stati assai più alti (fino a circa 7000 µg g-1) rispetto a quelli del floating (circa 3500 µg
g-1). Nel floating, inoltre, i due rapporti NO3-/NH4+ pari a 3:1 e 7:1 (corrispondenti al 75
e 87.5% di azoto nitrico sull’azoto totale) facevano registrare concentrazione di
metaboliti più alti nelle radici. Anche per la cinarina le concentrazioni nelle radici era
più alte che nelle foglie; in queste ultime si arrivava al massimo a circa 400 µg g-1.
In generale, le concentrazioni dei derivati dell’acido caffeico nelle radici e nelle foglie
rilevate nei nostri campioni rientravano nel range di valori riportati in letteratura per E.
angustifolia (Aiello, 2002; Berti et al., 2002; Kabganian et al, 2002a, 2002b; Li and
Wardle, 2001; Li and Wardle, 2001; Pellati et al, 2005; Zheng et al., 2006b;).
Parziale eccezione deve esser fatta per l’acido cicorico. Infatti, Zheng et al. (2006b)
riportano che il range di concentrazioni di acido cicorico nelle radici di E.angustifolia
coltivata in floating system superano 6000 µg g-1 in peso secco e che la cinarina e
l’acido clorogenico sono presenti a concentrazioni radicali più alte, fino a 2000-2500 µg
g-1, rispetto ai nostri esperimenti.
3.5 CONCLUSIONI
C’è un crescente interesse per la coltivazione idroponica di piante medicinali
(Wikremesinhe and Arteca, 1994; Borisjuk, 1999; Gontier et al., 2002; Murch et al.,
2002; Pedneault et al., 2002; Zheng et al., 2006a, 2006b), che è generalmente usata per
le colture orticole in serra e per la produzione all’aperto di semenzai (Pardossi et al.,
2006).
Le colture senza suolo, in particolare il floating, offrono alcuni vantaggi rispetto alle
coltivazioni tradizionali, come il processo di produzione standardizzato, una crescita più
sostenuta delle piante, una maggiore produzione nell’unità di tempo, un preciso
monitoraggio delle piante e dei raccolti e l’alta qualità del prodotto grezzo che risulta
54
più pulito (ad es. con minor rischi di contaminazione da inquinanti o microrganismi) e
quindi più facile da elaborare; inoltre, questa tecnica richiede investimenti relativamente
bassi investimenti (Pardossi, 2006). Se l’idroponica è utilizzata insieme ad un rigido
controllo climatico (mediante serra, fitotroni o camera di crescita), potrebbe essere
allestito una sorta di stabilimento dove il materiale vegetale viene sia prodotto che
elaborato.
Così un sistema di coltivazione artificiale permette la regolazione del metabolismo
secondario attraverso particolari manipolazioni delle condizioni di crescita. Infatti è
stato ripetutamente dimostrato che la sintesi di molecole farmacologicamente attive può
essere modificata variando la composizione della soluzione nutritiva fornita alle piante
(Demeyer and Dejegere, 1989; Park et al., 1999; Briskin, 2000). Inoltre, con la coltura
idroponica può essere applicata la cosiddetta “tecnologia a due fasi (Shain, 1996).
Questa pratica è basata sul coinvolgimento del metabolismo secondario nella risposta
delle piante agli stress biotici ed abiotici (Kaufmann et al., 1999): Seguendo l’approccio
dei due stadi, inizialmente la crescita della pianta viene stimolata da una particolare
gestione del clima o della nutrizione minerale; in seguito, l’applicazione di una forma
moderata di stress può essere utilizzata per la sintesi di composti attivi.
Tra le varie tecniche idroponiche, particolarmente interessante è il floating system
utilizzato in maniera crescente per il ciclo breve, l’alta densità (fino ad alcune centinaia
di piantine per m2 di area coltivata), la coltivazione in serra di erbe e vegetali a foglia,
specialmente per i prodotti della quarta gamma (Nicola et al., 2005; Pardossi et al.,
2006; Paschold and Mayer, 2002; Tyson et al., 1999). Dorais et al. (2001) hanno
riportato alcuni risultati che suggeriscono la redditività del floating system per la
produzione di radici e foglie di piante medicinali come Achillea millefolium, Artemisia
vulgaris, Inula helenium, Stellaria media, Taraxacum officinalis e Valeriana officinalis.
Nel nostro lavoro, sull’E. angustifolia coltivata in idroponica, le concentrazioni dei vari
derivati dell’acido caffeico rilevati nei vari campioni (Fig. 3.7) sono state simili a quelle
determinate in esperimenti precedenti (Tozzini, 2006; Montanari et al., 2008) o riportate
in letteratura (e.g. Zheng et al., 2006b). In particolare, il contenuto di echinacoside,
l’unico metabolita rintracciato in concentrazione maggiore nelle foglie rispetto alle
radici, non ha mai superato i 7000 µg g-1 (0.7%) e quindi non si è mai raggiunto lo
standard minimo di qualità dell’1% stabilito per il materiale di E. angustifolia destinato
alla lavorazione industriale (S. Fulceri, Aboca Erbe, com. pers.), anche se per molte
farmacopee il valore minimo è di 5000 µg g-1 (0.5 %), ad es. per la farmacopea europea
55
(European Directorate for the Quality of Medicines and Health Care, 2002).
I motivi potrebbero essere legati alla scarsa idoneità genetica del materiale utilizzato
nello studio (certamente all’origine della grande variabilità osservata sia per quanto
riguarda la crescita sia in termini di concentrazione di metabolici) e/o alla scarso
adattamento di questa specie ad una coltivazione intensiva come quella idroponica,
caratterizzata da un ciclo di sviluppo molto rapido e condizioni edafiche sicuramente
diverse da quelle tipiche in cui la specie si è evoluta e dove tutto sommato sembra poter
esprimere al meglio il potenziale di pianta medicinale. Le radici, in particolare,
sembrano dotate di uno scarsa capacità di adattamento a cicli relativamente lunghi in
idroponica. Sia nel nostro che in altri esperimenti condotti in precedenza (Tozzini,
2006), le radici dopo due o tre mesi di coltivazione hanno manifestato fenomeni più o
meno gravi di marciume del colletto e delle radici, che in alcuni casi hanno provocato
una mortalità elevatissima delle piante ben prima dell’epoca prevista di raccolta.
7000
Foglie
µ g g DW-1
6000
Radici
5000
4000
3000
2000
1000
LE
A
TO
or
ic
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.C
TA
o
a
in
ar
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C
co
hi
na
Ec
A
.C
lo
ro
ge
si
ni
de
co
0
Figura 3.7. Contenuto di derivati dell’acido caffeico nelle foglie o nelle radici di piante
di E. angustifolia D.C. coltivate in idroponica sotto serra per due mesi. Media dei valori
rilevati nei tre trattamenti sperimentali a confronto nei due esperimenti.
56
Concludendo, anche alla luce di precedenti lavori condotti su questa specie al
Dipartimento di Biologia delle Piante Agrarie di Pisa o da alcuni autori canadesi (Zheng
et al, 2006a, 2006b), sembrano scarse le possibilità di ottenere per mezzo
dell’idroponica una produzione rapida di biomassa con un titolo interessante di
metaboliti secondari (es. almeno 1% di echinacoside), per lo meno con il materiale
genetico attualmente a disposizione. È possibile che le caratteristiche fisiologiche
dell’E. angustifolia siano tali da rendere la pianta interessante dal punto di vista
farmaceutico in stadi di sviluppo (età) avanzati, che d’altra parte appaiono difficili da
raggiungere con un sistema idroponico come il floating, che nasce e rimane una tecnica
per colture da realizzare in tempi brevissimi (nel caso specifico, due o tre mesi).
.
57
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RIASSUNTO
L’utilizzo di prodotti a base di piante medicinali negli ultimi trenta anni è sensibilmente
cresciuto, soprattutto prevalentemente nei paesi industrializzati; per questo motivo
siamo passati dalla raccolta spontanea alla coltivazione vera e propria di questo genere
di piante.
Fra queste troviamo l’Echinacea, pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia
delle Compositae e originaria del nord America ma da molto tempo coltivata anche in
Europa; è costituita da nove specie, ma solo tre di queste hanno le proprietà
farmacologiche tanto apprezzate dal mercato: E. angustifolia, E. purpurea, E. pallida.
Gli estratti di radici e parti aeree, fresche od essiccate di tale pianta, sono impiegati per
via della loro attività immunostimolante, antinfiammatoria, antivirale e antiossidante
conferita da diverse classi di composti: alchilammidi, polisaccaridi, glicoproteine,
flavonoidi, derivati dell’acido caffeico. Quest’ultimi, in particolare, contengono
molecole, quali echinacoside, cinarina ed acido cicorico molto utilizzate nell’industria
farmaceutica e considerate in letteratura come marker dalla qualità di questa pianta.
I metodi di coltivazione dell’Echinacea non sono stati ancora ottimizzati; ecco come si
spiega la frequente scarsa resa produttiva dal punto di vista sia qualitativo che
quantitativo. L’impiego di sistemi di coltura fuori suolo come l’idroponica potrebbe
venire incontro a tali problemi apportando vantaggi quali il miglioramento della qualità
del materiale vegetale e l’incremento della standardizzazione dei metaboliti di interesse,
fondamentale per poter immettere sul mercato prodotti che presentino contenuti costanti
di principi attivi.
Il presente lavoro è consistito nella coltivazione idroponica in serra, in particolare con la
tecnica del floating system, di piante di Echinacea angustifolia allevate con tre soluzioni
nutritive, distinte fra loro per il diverso rapporto fra azoto nitrico e ammoniacale (NO3- /
NH4+ nei rapporti 100:0, 75:25, 50:50). Si sono studiate in due esperimenti analoghi
l’adattabilità a tale sistema e le differenze nella concentrazione dei derivati dell’acido
caffeico (acido clorogenico, echinacoside, cinarina, acido cicorico) mediante analisi
HPLC degli estratti secchi di radici e della porzione aerea di piante di due e tre mesi.
Il dato principale che emerge è la grande variabilità nelle piante campionate che
potrebbe aver mascherato gli effetti della nutrizione azotata sia sulla crescita sia sulla
concentrazione dei metaboliti. E’ stata comunque osservata una minor crescita delle
piante quanto erano allevate con concentrazioni relativamente elevate di azoto
ammoniacale (riscontrato nel peso fresco e nel peso secco di piante di tre mesi, ma non
in quelle di due mesi). Le concentrazioni dei derivati dell’acido caffeico non sono
risultate sostanzialmente diverse da quelle rilevate su piante coltivate in esperimenti
precedenti (Tozzini, 2006) o riportate in letteratura (Zheng et al., 2006b). In particolare,
il contenuto di echinacoside (superiore nelle foglie rispetto alle radici) non supera mai
lo 0,7% in peso secco, confermando i risultati di altri lavori condotti sulla coltivazione
idroponica di Echinacea (Tozzini, 2006; Zheng et al., 2006b). I motivi potrebbero
essere legati alla scarsa idoneità genetica del materiale (semi fornita da una nota ditta
sementiera internazionale) utilizzato nello studio e/o alla scarso adattamento della
specie ad una coltivazione intensiva come quella idroponica, caratterizzata da un ciclo
di sviluppo molto rapido e condizioni edafiche sicuramente diverse da quelle tipiche in
cui la specie si è evoluta e dove tutto sommato sembra poter esprimere al meglio il
potenziale di pianta medicinale.
69
Vorrei ringraziare sentitamente il prof. Alberto Pardossi per avermi seguito ed aiutato
nella realizzazione di questo lavoro e tutta la sezione di ortofloricoltura del
dipartimento di biologia delle piante agrarie, in particolare le dottoresse Silvia Pacifici
e Rita Maggini, per l’aiuto e la pazienza avuta nel seguirmi durante questo percorso.
70