le radici cristiane dell`europa

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FONDAZIONE CASSAMARCA
Convegno Internazionale di Studi
Piazza S. Leonardo, 1 - 31100 Treviso
e-mail: [email protected]
LE RADICI CRISTIANE DELL’EUROPA
LE RADICI CRISTIANE
DELL’EUROPA
TREVISO
6-7 febbraio 2004
Casa dei Carraresi
Convegno internazionale di studi
Le radici cristiane
dell’Europa
Treviso, Casa dei Carraresi
6-7 febbraio 2004
Indice
Pag. 7
Relazione introduttiva
AVV. ON. DINO DE POLI
Presidente della Fondazione Cassamarca
Relazioni
Pag. 9
Una frontiera per l’Europa. Dove?
PROF. ARMANDO RIGOBELLO
Professore Emerito di Filosofia
Università “Tor Vergata”, Roma
Docente della stessa disciplina
nella Libera Università
“Maria SS. Assunta” LUMSA, Roma
Pag. 19
Secolarizzazione e Laicità
GIUSEPPE DALLA TORRE
Rettore della Libera Università
“Maria SS. Assunta” LUMSA, Roma
Pag. 35
Cristianesimo ed Europa. Una storia millenaria
PROF. PAOLO SINISCALCO
Ordinario di Storia del Cristianesimo
Università “La Sapienza”, Roma
Pag. 57
Le radici cristiane dell’Europa e le “religioni politiche”
dell’Ottocento e del Novecento
PROF. DANILO VENERUSO
Ordinario di Storia Contemporanea
Università di Genova
Pag. 75
Ragione e fede alle origini dell’Europa cristiana
PROF. ADOLF ANSELM SCHURR
Professore Emerito di Filosofia
Università di Regensburg (Germania)
Pag. 95
L’apporto all’Europa dell’Oriente cristiano
PROF. BOGHOS LEVON ZEKIYAN
Associato di Lingua e Letteratura Armena
Università “Ca’ Foscari”, Venezia
Pag. 125
La relazione tra Cristianesimo e filosofia
come essenza europea
PROF. JOSEP M. ESQUIROL
Ordinario di Filosofia
nell’Università Centrale di Barcellona (Spagna)
Pag. 133
Pace e Solidarietà internazionale
nell’identità cristiana dell’Unione Europea
PROF. LUCIANO TOSI
Ordinario di Storia dei trattati e politica internazionale
Università di Perugia
AVV. ON. DINO DE POLI
Presidente Fondazione Cassamarca
Treviso
Un saluto cordialissimo anzitutto ai Vescovi qui presenti
e, se mi consentite, soprattutto ai giovani perché in questo
tempo, che rifiuta le radici per affermare libertà rispetto al
futuro, che sarebbe così impossibile amministrare e governare.
Per questo è importante parlare da parte nostra delle
radici cristiane.
Quando parliamo di radici cristiane c’è sempre di mezzo
la Francia, alla quale culturalmente sono personalmente
sempre debitore.
Eravamo giovani quando, alla fine della guerra, per
poterci costruire culturalmente ricorrevamo ai grandi filosofi
francesi: Maritain, Mounnier per tutti, i grandi Vescovi francesi e ai fiorentissimi studi teologici.
Erano momenti molto difficili in cui eravamo anche
ammoniti a non guardare troppo alla teologia d’oltre Alpe,
perché sembrava che la garanzia della ortodossia fosse il
pessimismo. Dunque: se sei pessimista sei cristiano, se sei
ottimista vai alla ricerca di alleanze con non credenti ritenute impossibili.
Ma la Francia è l’Illuminismo e l’Illuminismo è una corrente filosofica laica. Dunque siamo laici ma non laicisti, vale
a dire che la laicità è fisiologica ma non dogmatica, ma il
nostro tempo, a mio parere, non ci dice con sufficiente
influenza dove va il nostro tempo: non si sa dove va e verso
che cosa.
Radici cristiane non vuol dire solo radici cattoliche;
anche il protestantesimo rientra fra le radici cristiane.
In Europa sta entrando anche l’Europa dell’Est e a me
piace richiamare e intravedere sempre il reincontro
dell’Impero Romano d’Occidente e l’Impero Romano
d’Oriente, riprendendo così un dialogo fra cattolici e grecoortodossi.
Le radici cristiane così più ampiamente intese sono dun7
que le radici di tutta l’Europa. Non sono le radici di una parte
sola di essa, di un interesse solo parziale.
Questo andare alle radici vuole dire respirare in profondo, guardare avanti, guardare oltre: capire chi siamo, dove
andiamo, cosa facciamo.
Noi abbiamo ritenuto, come Fondazione, di portare alla
nostra attenzione questo tema.
Siamo ancora in tempo, se si vuole, per trovare nella
Costituzione Europea, nelle premesse o altrove, il riconoscimento delle nostre radici cristiane.
È importante far sentire la propria voce, è importante
riconoscere le identità perché il pluralismo delle culture, il
pluralismo della convivenza non significano azzeramento
delle culture.
Ecco quindi il valore di questo convegno.
Soprattutto per Voi giovani valga la speranza, l’ammonimento, l’auspicio che guardiate alle radici cristiane come al
futuro. Le radici implicano un futuro giacché non stanno
ferme, ma crescono. Sulle radici cresce l’albero e da quelle
radici, da quell’albero, si producono frutti.
Noi parliamo di quelle radici perché vogliamo la salute
dell’albero, della comunità umana.
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ARMANDO RIGOBELLO
Professore emerito di Filosofia nell’Università
“Tor Vergata” di Roma, docente della stessa disciplina
nella Libera Università “Maria SS. Assunta” LUMSA di Roma
Una frontiera per l’Europa. Dove?
1. La dinamica di un concetto prospettico di frontiera.
2. Una ulteriore precisazione storiografica.
3. La prospettiva crociana e i suoi limiti.
4. Le “radici cristiane”: valori religiosi e valori “laici”.
5. Considerazioni conclusive.
1. La dinamica di un concetto prospettico di frontiera
“Una frontiera per l’Europa. Dove?”, è questo il titolo dell’intervento dell’allora cardinale Karol Wojtyla ad un dibattito
su la rivista “Humanistas” di Brescia, in un numero dedicato
all’Europa che risale agli anni del Concilio. L’opinione del futuro Giovanni Paolo II era che la frontiera dell’Europa, più
che costituire una questione geopolitica, forse è una questione culturale e di storia religiosa. I confini dell’Europa non
delimitano soltanto la parte occidentale del continente, la
sua identità sta invece nel confronto tra Occidente ed
Oriente, un confronto che risale all’età di Costantino, al
periodo ellenistico, all’impero di Bisanzio. Quel confronto è
una linea di sviluppo e di scambio, ed anche di conflitto tra
due modi di tradurre in termini etico-politici la cristianizzazione del mondo. La fede cristiana diviene patrimonio comune ma anche luogo di comparazione e di scontro sui modi
di concepire l’arduo rapporto tra il potere e il messaggio
evangelico. Il nucleo centrale del discorso è, da un lato, il
rifiuto di un concetto di Europa che si identifichi sostanzialmente con l’Europa occidentale, dall’altro l’affermazione
che, senza l’apporto del Cristianesimo come elemento centrale dell’identità europea, l’Europa non avrebbe la sua fisionomia spirituale e morale, né un’ethos comune.
Occorre quindi, aggiungiamo noi, rispondere alla
domanda iniziale elaborando un concetto prospettico e
9
dinamico di confine, nel senso di un profilo situato a diversi
livelli, non sempre tra loro omogenei, e in un contesto complesso. Si tratta di un incontro tra esperienze differenti
mediate dalla fede cristiana che anima un quadro di valori,
anche al di fuori del loro configurarsi sul piano ecclesiale, e
dà forma ad una pluralità di criteri organizzativi ed istituzionali della società civile. La fede comune si apre ad ideali
cosmo-politici, o meglio, universalistici, pur in accentuate
tensioni spirituali e temporali. È questa la società medievale
con le sue luci, spesso non adeguatamente approfondite, e
le sue ombre, talvolta unilateralmente sottolineate.
Queste radici lontane dell’Europa cristiana, lontane ma
che si situano all’inizio, alla genesi della nostra civiltà, hanno
ancora un rilievo caratterizzante, sono ancora elementi
essenziali dell’identità europea? Se ci limitassimo ad una
indagine descrittiva e statistica ci troveremmo certamente di
fronte a situazioni e contesti molto diversi, ma ciò che dobbiamo evitare è di porre immediatamente, senza mediazione storica, un confronto.
Occorre partire da quel concetto di frontiera delineato
sopra e immergerlo, per così dire, nella vicenda storica
secolare, anzi millenaria, che ci separa dai tempi del Sacro
Romano Impero carolingio e poi “di nazione germanica” e
dal De monarchia di Dante. L’essenza di quella frontiera
come profilo dell’Europa sopra delineata sta nell’incontro, a
volte conflittuale, tra Occidente ed Oriente, tra fede metastorica e sua parziale trascrizione in forme etico-politiche,
istituzionali. Questa trascrizione fin dalle origini ha messo in
luce una tensione problematica tra fede religiosa e sua
oggettivazione in termini temporali, tensione che diviene
elemento costitutivo dell’identità europea. Questo contesto
dottrinale e pratico, teologico e politico, che è anche fecondo di originali movimenti spirituali, costituisce uno degli
aspetti più interessanti del confronto tra Occidente ed
Oriente.
Sia pure per rapidi cenni, possiamo indicare alcuni
momenti significativi dell’itinerario accennato. Oltre
l’Occidente romano-germanico e l’Oriente bizantino e successivamente slavo, vanno ricordati la Riforma protestante e
la Controriforma cattolica, l’Illuminismo e la secolarizzazione, la laicità e l’interiorizzazione dell’esperienza religiosa, lo
stesso rapporto problematico tra fede religiosa e azione
politica. Sono atteggiamenti di pensiero e di costume,
espressione di un serrato confronto con il messaggio cristiano, le sue stesse interpretazioni unilaterali sono ricondu10
cibili alla comune radice. Anche il marxismo ha potuto essere considerato come una “eresia cristiana”. Le stesse identità nazionali spesso si sono costituite in Europa, nel rapporto che sia era venuto a costabilire tra loro e il Cristianesimo
come visione del mondo e come istituzione ecclesiale.
La nozione di “radici cristiane”, quindi, sembra non
doversi intendere limitatamente al periodo tardo-antico e
medievale. Non si tratta di fondarsi su un’ortodossia, su una
conformità disciplinare (per verificare le quali vi sono criteri
del tutto estranei alle enunciazioni di una costituzione politica), ma è un riconoscimento che non ha alcuna immediata
rilevanza giuridica, ma che riafferma una continuità storica,
un radicamento, sia pure problematico e talvolta polemico.
Si tratta di una dimensione storica senza la quale le enunciazioni solenni rischiano di divenire perorazioni prevalentemente formali.
La memoria storica è invece uno dei contributi all’interpretazione delle enunciazioni costituzionali, non unico ma
necessario o, per lo meno, opportuno. Il concetto genetico,
dinamico, prospettico di frontiera per l’Europa rimane quindi un modello di ricerca e di interpretazione operante anche
oggi, pur nelle ampie differenziazioni che secoli di esperienza storica sono andati disegnando.
2. Una ulteriore precisazione storiografica
Un qualche contributo all’approfondimento della questione può venire dal confronto tra quanto si è detto e un
articolo, del 9 settembre 2003, apparso su il “Corriere della
Sera” a firma di uno storico insigne Giuseppe Galasso. Il
titolo. Non possiamo non dirci protestanti, islamici, ebrei
richiama quello di un noto saggio di Benedetto Croce, che
risale al 1945, Perché non possiamo non dirci cristiani (in
Discorsi di Filosofia, Bari 1945-1959, voll. 1, pp. 11-23).
La tesi dell’articolo di Galasso è che le radici cristiane
dell’Europa medievale, specie del periodo romano-barbarico
e poi carolingio, sono innegabili, per quanto vada tenuto
conto dell’apporto degli Arabi, almeno fino al XIV secolo e di
quello ebraico, connesso al Cristianesimo stesso. L’ Europa
moderna, però, dopo l’ampio movimento di secolarizzazione che dalla Riforma all’Illuminismo giunge fino a noi, propone valori autonomi in una distinzione di campo tra valori
civili e valori religiosi. Questa distinzione ha informato di sé
gli ultimi secoli della storia europea ed è presente anche in
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ampia parte della cultura e della classe politica di ispirazione cristiana. Riconoscimento quindi di radici storiche cristiane, ma non loro esclusività. La questione è più complessa e quindi è più opportuno parlare di un pluralismo di radici. Di lì il titolo dell’articolo.
Il discorso di Galasso è equilibrato e sereno, vorremmo
tuttavia proporre alcune considerazioni che, a nostro avviso,
ne riducono la rilevanza storica. La prima riguarda l’Islam, lo
stesso Galasso ne riconosce il limite temporale al Trecento.
La cultura araba è stata creativa nella fase di espansione
mediterranea e nel confronto con il mondo ellenistico e latino, ma si arresta con l’emarginazione e la morte di Avveroè.
L’Islam più che dar vita a sottili dottrine teologiche ha creato scuole giuridiche per l’interpretazione del Corano e delle
sue prescrizioni pratiche. Si aggiunga che l’Islam, non avendo una vera e propria Chiesa è in difficoltà a legittimare una
distinzione tra potere politico e potere religioso. L’Islam non
ha conosciuto il processo di laicizzazione e secolarizzazione che è proprio della Europa moderna. Dopo l’espansione
mediterranea, dopo l’arresto del pensiero speculativo con la
morte di Avveroè, il pensiero islamico si sposta ad Oriente,
in Persia, dando vita ad una grande fioritura mistica; alla
ragione autonoma succede la ragione estatica. L’ Europa è
ormai lontana. Il Cristianesimo, invece, è stato l’ininterrotto
tessuto connettivo della civiltà europea dalla sua formazione
al contesto speculativo e pratico entro cui si sono andate
formando, anche polemicamente, le varie famiglie spirituali
e scuole di pensiero dell’Europa.
Una seconda considerazione riguarda la distinzione tra
valori laici e valori religiosi. Certamente diversa è la rilevanza del valore in una coscienza indipendente dalle convinzioni religiose, della rilevanza che lo stesso valore assume
nella coscienza i cui principi si fondino in una Parola che ci
precede e ci supera.
Ma il valore in quanto tale, i valori fondamentali di
libertà, di eguaglianza, di fraternità sono, in quanto principi, gli stessi.
Il dibattito interiore può essere diverso in una coscienza
religiosamente attenta e in una compiutamente autonoma,
ma sul piano del loro contenuto essenziale che rinvia alla
genesi storica del loro riconoscimento pubblico nella
coscienza moderna, è innegabile l’apporto decisivo del
diffondersi del messaggio cristiano. Della libertà, ad esempio, i Greci ed i Romani ebbero una prevalente concezione
giuridica e politica, la sua compiuta interiorizzazione nasce
12
nella crisi della polis nell’età ellenistica, contemporanea al
diffondersi del messaggio cristiano. Sul piano speculativo la
libertà e gli altri valori fondamentali hanno il loro fondamento nella ragione naturale autonoma cui la concezione cristiana dell’uomo conferì un’ulteriore giustificazione. La diffusione del Cristianesimo nel mondo tardo antico è comunque
all’origine dell’ampio riconoscimento di tali valori in quel
contesto geo-politico ed etico-religioso in cui l’Europa andava prendendo forma.
3. La prospettiva crociana e i suoi limiti
Si è accennato sopra al saggio di Benedetto Croce, che
risale al 1945, Perché non possiamo non dirci cristiani (cit.),
da cui Galasso ha mutuato il titolo del proprio articolo.
Anche ai nostri giorni, osserva Croce, “come i primi cristiani, ci travagliamo pur sempre nel comporre i sempre rinascenti ed aspri e feroci contrasti tra immanenza e trascendenza, tra morale della coscienza e quella del comando e
delle leggi, fra l’eticità e l’utilità, tra la libertà e l’autorità, tra
il celeste e il terrestre che sono nell’uomo” (p. 23). Questo
sarebbe il carattere proprio della esperienza cristiana, e
conclude entrando nel nucleo speculativo del discorso: «E
il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie
lo chiamano Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi
stessi: e, se noi non lo adoriamo più come mistero, è perché
sappiamo che sempre esso sarà mistero all’occhio della
logica astratta ed intellettualistica, immeritatamente creduta
e significata come “logica umana”, ma che limpida verità
esso è all’occhio della “logica concreta”, che potrà ben dirsi
“divina”, intendendola nel senso cristiano come quella alla
quale l’uomo di continuo si eleva, e, che, di continuo congiungendolo a Dio, lo fa veramente uomo” (ibid.).
Il discorso di Croce che emerge da quest’ampia citazione, è sereno e accorato, carico forse di qualche nostalgia
per una fede che comunque viene ricondotta ad un’esperienza storica valutata con una razionalità che non trascende, come portatrice di valori perenni, lo svolgimento dei fatti,
ma ne è interno criterio di sviluppo e interna giustificazione.
Si noti come il “Dio cristiano”, come oggetto di fede religiosa, sia tale solo di fronte ad una “logica astratta” e non “propriamente umana”. “Il Dio cristiano è ancora il nostro” nel
senso che si identifica, alla luce di una “logica concreta” e
nel contesto di “affinate filosofie”, con lo Spirito, con un pen13
sare assoluto che vive nel processo storico. Il “congiungimento” dell’uomo con Dio, verità essenziale del messaggio
cristiano, viene accolto ma ricondotto alla dialettica della
vita spirituale immanente alla storia. Il titolo del saggio è,
d’altra parte, significativo: non indica una compiuta adesione ad una fede religiosa, ma ad una religiosità implicita nell’esperienza umana che il Cristianesimo ha espresso in termini di mistero e che il filosofo neoidealista, che “non può
non dirsi cristiano”, pensa di aver razionalmente chiarito sul
piano di una logica immanente alla vicenda storica.
Questa compiuta comprensione razionale è la “storia
come pensiero”, cioè la storia raccontata, ossia mediata
dalla struttura logica di una razionalità “concreta”. Nel
distacco del racconto emergono le linee di una dinamica
interna, la funzione vitale degli eventi, la loro intrinseca e
dialettica razionalità. La “storia come azione” è invece la storia nel suo effettivo svolgimento, la storia vissuta, luogo in
cui le passioni, le crudeltà, gli atti di eroismo si incontrano e
si intrecciano (la dantesca aiuola che ci rende tanto feroci).
La storia come pensiero è in fondo la storia come pensiamo
possa apparire alla mente di Dio, il suo sviluppo richiama un
disegno provvidenziale, ma il Dio di cui parla lo storicismo
crociano non è persona e il suo disegno non è un mistero
per l’uomo (se non nell’ambito del suo dibattersi come protagonista di una “storia come azione”), ma dominabile dialetticamente, con la pura razionalità.
Non è questa la sede per approfondire la prospettiva
teoretica sottesa alla concezione crociana della storia, ricca
di verità ma non condivisibile, almeno da parte mia, nel suo
nucleo speculativo centrale. L’“esercizio di Cristianesimo”,
per usare la nota espressione che Kierkegaard pone come
titolo ad un suo libro, comporta una prospettiva che presenta analogie con la “storia come pensiero”, ma che richiede
un impegno nel fervore del vissuto cui solo la “storia come
azione” può fornire i mezzi e il luogo ove realizzarsi. La dicotomia si compone solo se il rapporto tra Dio e l’uomo si configuri come rapporto interpersonale e la concretezza storica
mantenga la sua problematicità, pur tra nuclei di intelligibilità ed isolotti di senso.
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4. Le “radici cristiane”: valori religiosi e valori “laici”
Ai fini del nostro discorso, le considerazioni di Croce nel
saggio preso in esame sono di notevole rilievo. Da esse
emergono due affermazioni fondamentali: da un lato i valori
espressi dal Cristianesimo sono indicati come valori essenziali per la nostra civiltà; questi valori, d’altra parte, non sono
esclusiva verità delle confessioni religiose cristiane, ma
patrimonio comune del mondo moderno; anzi animando
dall’interno il patrimonio ideale della tradizione più antica,
costituiscono il tessuto connettivo della nostra cultura anche
prescindendo da una professione di fede religiosa e da una
conseguente trascendente speranza. Ci troviamo di fronte
ad una posizione ben diversa da quella sostenuta nell’articolo di Giuseppe Galasso, sopra citato. Galasso registra un
pluralismo culturale in atto oggi in Europa e, nella prospettiva di un ulteriore sviluppo multietnico, ritiene inopportuno il
richiamo alle radici cristiane dell’Europa stessa. Il saggio di
Croce si muove su una diversa dimensione culturale, anzi,
speculativa. Potremmo in proposito ritornare alle considerazioni di partenza di questa relazione: la frontiera prospettica
e dinamica. Lo scenario non è più descrittivo soltanto, ma si
articola nella complessità attraverso la considerazione
genetica e approfondendo l’itinerario storico, cogliendo l’intreccio di idee e di avvenimenti nel nucleo speculativo su cui
si fondano.
Le frontiere dell’Europa non sono solo geografiche ed
etniche, sono percorse, se colte in prospettiva, da uno sviluppo unitario, sia pure dialettico. Il messaggio cristiano
giunge in Europa come messaggio di salvezza religiosa, ma
si articola poi in visione globale di civiltà.
Il substrato cristiano della nostra civiltà europea (europea perché nata in Europa e poi diffusasi nel mondo) non è
infatti misurabile con l’appartenenza confessionale ad una o
altra confessione ma informa di sé quei valori di libertà di
coscienza, di eguaglianza, di trascendenza della persona
sullo Stato che sono alla base di una concezione umanistica e democratica, nell’esercizio di una razionalità critica ed
insieme radicata nella concretezza del vissuto singolo e collettivo. La stessa vicenda degli ultimi secoli, la rivoluzione
liberale e quella marxista hanno tentato di realizzare i valori
del messaggio cristiano, l’una la libertà, l’altra la giustizia.
Separatamente hanno prodotto anche tragiche unilateralità,
ma il messaggio cristiano ha in sé una dimensione spirituale per superare entrambe in una fraternità che è ideale rego15
lativo mai adeguatamente compiuto. La fraternità infatti non
ha dato luogo finora ad una rivoluzione, la sua rivoluzione è
interiore e quindi sempre in corso, è una continua contestazione dell’esistente in nome di un orizzonte più ampio e più
alto. Una compiuta organizzazione della società politica
secondo fraternità costituisce un ideale, un progetto regolativo, non un concreto e determinato ordinamento giuridico e
politico. La sua realizzazione storica come “società personalistica e comunitaria, secondo Emmanuel Mounier, che
del personalismo comunitario è l’ideatore e l’apostolo, se
realizzata senza resti sarebbe la peggiore delle dittature, la
dittatura spirituale.
Le conquiste di libertà, di democrazia, di solidarietà
sostanziano di sé l’ethos dell’Europa moderna, sono maturate nella tensione dialettica tra l’equilibrio umanistico e il
radicalismo illuministico. Ideali di libertà ed utopie socialiste
hanno la loro ampia matrice nel messaggio cristiano che
non si esprime soltanto nella vita e cultura medievale, ma
percorre dialetticamente la nostra storia fino ad oggi. I singoli valori, isolati nella loro astratta formulazione, possono
esaurirsi in enunciazioni retoriche. Se invece vengono
inscritti nel loro processo di formazione e considerati “à la
source”, alle loro sorgenti cristiane, dalle origini alla contemporaneità, possono animare strategie nuove e tradursi in
finalità operative. Sebbene, come si accennava poco fa,
non possono mai superare i limiti intrinseci alla condizione
umana di singoli e di collettività, pena il dar luogo a quella
dittatura esorcizzata da Emmanuel Mounier.
5. Considerazioni conclusive
Ci avviamo alla conclusione riassumendo le considerazioni fatte ed indicando anche quale ulteriore riferimento sull’opportunità di una esplicita menzione delle radici cristiane
nella costituzione europea. L’unità della cultura europea,
concepita in una qualche analogia con l’unificazione politica, economica e monetaria, sembra essere frutto di un artificio, di una semplificazione che enuncia i principi e i valori
nella loro asettica formulazione finale. Ciò lascia nel vago lo
specifico significato del termine, spesso di quelli su cui l’interpretazione è complessa. È questo il prezzo di una concordanza postulata e formale. Ciò accade anche perché si
prescinde dal processo storico che ha portato a formulare
principi e valori. Ci troviamo così di fronte un modello che,
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prescindendo dal processo della sua formazione, risulta
bloccato nella sua configurazione illuministica.
La cultura europea è più articolata, la sua convergenza
su determinati valori (dignità della persona, libertà di
coscienza, ecc.) si è sviluppata in costante confronto con
prospettive diverse, secondo diverse esperienze storiche.
Certamente l’Europa, nel suo formarsi dall’antichità classica
e dall’età medievale ad oggi, presenta elementi comuni, sia
pure in tensione dialettica, spesso feconda di originali
apporti. II Cristianesimo è stato il tessuto connettivo di tali
elementi in quanto contesto speculativo e pratico entro cui
si sono confrontate le varie famiglie spirituali e culturali
dell’Europa: l’Occidente latino-germanico, l’Oriente bizantino e successivamente slavo, la Riforma protestante e la
Controriforma cattolica, la laicità e la interiorizzazione dell’esperienza religiosa e lo stesso rapporto problematico tra
fede religiosa e politica, ed infine il marxismo “ultima eresia
cristiana”. Tutto ciò ha determinato un ampio contesto culturale e morale, atteggiamenti di pensiero e di costume, e talvolta ha contribuito a determinare le stesse identità nazionali.
Questo ampio e articolato contesto rischia di venire
depauperato della esperienza di lunghi secoli ed avviarsi ad
una omogeneizzazione che finisce per ridurre la cultura
europea pressoché tributaria di culture da essa derivate e
fornite di minore memoria storica, senza tuttavia far propri i
ricorrenti slanci ideali di quelle più giovani culture.
Se volessimo riassumere schematicamente le argomentazioni svolte in questa relazione potremmo formularle nel
modo seguente. Il retroterra assiologico (cioè i valori) della
civiltà europea si trova in un plesso di eventi, di dottrine, di
conflitti e di processi di assimilazione riconducibili alle radici umanistiche e cristiane, greco-latine ed ebraiche (mediate dal Cristianesimo, in un primo tempo, in forma autonoma
ma non estranea dalla diaspora in poi).
Ignorarle, interromperne la continuità storica, significherebbe ridurre l’efficacia dell’affermazione dei valori stessi,
favorirne una recezione prevalentemente formale con il
rischio di un loro uso astratto e retorico e quindi sostanzialmente evasivo.
Detto tutto ciò, va tuttavia ricordato che i valori fondamentali, riconducibili alle origini cristiane, sono presenti sebbene senza riferimenti all’origine nel progetto di carta costituzionale della Comunità europea. Per i cristiani rimane,
comunque si concluda l’iter statutario, il compito di una ade17
guata presenza, nella vita civile e nell’impegno politico, e di
una convinta partecipazione. Potremmo citare tanti esempi
e tanti Autori per sottolineare la necessità dell’impegno, ma
scegliamo una drammatica testimonianza per riflettere “su
che cosa significhi possedere un passato e una eredità interiore che non dipendono dal mutare dei tempi e degli eventi”. Si tratta di un brano di una lettera che il teologo luterano
Dietrich Bonhoeffer scrive ai genitori dal carcere nazista di
Tegel qualche tempo prima della sua impiccagione. “Voi ci
avete preparato – scrive Bonheffer – per decenni di feste di
Natale meravigliose che il loro ricordo riconoscente è abbastanza forte da illluminare anche questo Natale buio.
È in tempi come questi che si dimostra veramente che
cosa significhi possedere un passato e una eredità interiore
che non dipendono dal mutare dei tempi e degli eventi...”
(Resistenza e resa; Lettere ed appunti dal carcere, a cura di
I. Mancini, Bompiani, Milano 1969; pp. 118-119). Era il
Natale 1943.
Aggiungiamo un’ultima annotazione che risale al XIX
secolo ed è contenuta in una relazione riservata del
Cardinale Gibbson, Arcivescovo di Filadelfia al papa Leone
XIII, in data 20.2.1887: «il secolo futuro sarà il secolo, in cui
la Chiesa non si accorderà con i Principi o con i Parlamenti,
ma si accorderà con le grandi masse popolari” (cit. in E.
Solderini, Il pontificato di Leone XIII, 3 voll., Milano 19321933, I, p. 366).
In realtà, a più di un secolo di distanza l’auspicio è ancora lontano da realizzarsi, per lo meno nel nostro vecchio
continente.
18
GIUSEPPE DALLA TORRE
Rettore della Libera Università “Maria SS. Assunta” LUMSA
Roma
Secolarizzazione e laicità
1. Una navigazione difficile
Il termine "secolarizzazione" ed il termine "laicità" appaiono, nell'uso corrente, affetti da una singolare contraddizione:
alla loro sempre più frequente ricorrenza, in particolare del
secondo di essi, risponde una sempre maggiore genericità
che sfocia in una evidente polisemia. Si tratta di un fenomeno che induce curiosamente ad accostare le dinamiche evolutive del linguaggio alle dinamiche dell'economia monetaria, di cui è nota la legge per la quale ad un accentuarsi progressivo della circolazione della moneta si coniuga una progressiva perdita di valore specifico da parte di questa.
In effetti secolarizzazione e laicità sono venuti progressivamente ad assumere, nel linguaggio comune ma anche in
quello specialistico, una varietà tale di significati, che da più
parti ci si è infine posti la domanda se non sia venuto il
momento di abbandonare tali termini, in quanto con la loro
pluralità di significati verrebbero a risultare in ultima analisi
inutili nella ricerca scientifica1.
La polisemia dei due termini è, tra l'altro, frutto di una
sorta di moltiplicatore dovuto a due fattori ben precisi: da un
lato il tempo, giacché la pluralità di significati si coglie sia in
una prospettiva diacronica che in una prospettiva sincronica; dall'altro lato l'ambito disciplinare, giacché ad un diverso approccio scientifico possono corrispondere sensi diversi dei termini in questione.
Dunque parlare di secolarizzazione e laicità, in sé e nei
loro intimi nessi, importa una navigazione difficile tra significati diversi e tra diverse discipline, come quella programmata ed intrapresa sulla base di un portolano medievale, dai
confini non sempre certi e dalle numerose lacune. A fronte
della babele di senso degli ultimi tempi, soprattutto in tema
di laicità, si impone in alcuni casi una navigazione "a vista",
diretta a mappare le nuove dimensioni dei fenomeni sottesi
ed a tentare il disegno di una carta nautica – di un
Conpasso de navegare, per usare la denominazione del
19
primo portolano conosciuto (prima del 1296)2 – più precisa
di quella che ora abbiamo a disposizione.
Per orientarci in una navigazione difficile, che sarà
comunque limitata e poterà conseguentemente a risultati
parziali, seguiremo due coordinate specifiche.
La prima è data dalla riduzione della indagine alla prevalente prospettiva giuridica, di contro ad una pluralità di
prospettive disciplinari in cui la questione della secolarizzazione e della laicità può essere inquadrata (storica, filosofica, teologica, sociologica, antropologico-culturale ecc.) e
nella consapevolezza che solo un'indagine interdisciplinare
potrebbe fornire una mappatura adeguata e fedele di un
mare dalle coste così frastagliate.
La seconda coordinata è costituita dal contesto in cui si
muove questo Convegno Internazionale di Studi, e cioè "Le
radici cristiane dell'Europa". Perché si cercherà di individuare il fil rouge che fornisce un senso, seguendo una precisa
linea ideale, ai fenomeni della secolarizzazione e della laicità. E ciò pur nella consapevolezza che tali fenomeni sono
frutto di una molteplicità di fattori e di una pluralità di tradizioni culturali.
La preoccupazione in altre parole è quella di raffigurare
in scala, ancorché per spunti e frammenti, aspetti di quel
mare magnum di fenomeni che, è bene notarlo subito, sono
propri dell'Europa (anche se poi esportati in realtà più legate alla cultura europea, come quella latino-americana) e
della modernità3.
2. Secolarizzazioni e secolarizzazione
S'è detto della pluralità di significati del termine "secolarizzazione", che in linea molto generale è stata definita come
quel "processo tramite il quale settori della società e della
cultura sono sottratti all'autorità delle istituzioni e dei simboli religiosi"4. Una definizione che abbisognerebbe di specificazioni e di precisazioni e che, nonostante la sua apparente neutralità, si presta ad interpretazioni ambivalenti. Nel
senso che parlare di sottrazione di ambiti socio-culturali alla
religione può significare al contempo alienazione ed oscuramento del fattore religioso dalla vita sociale, ovvero riconduzione del fattore stesso nell'ambito suo proprio.
In un progressivo avvicinamento, nell'esame del fenomeno, al fil rouge che lo riallaccia alle radici cristiane, si può
cogliere innanzitutto un primo significato del termine. Esso
20
sta ad indicare "l'abbandono di comportamenti di tipo sacro,
l'allontanamento da schemi tradizionali, da posizioni dogmatiche e aprioristiche"; più specificamente in questa prospettiva secolarizzazione significa "fine del tradizionalismo e
della superstizione e inizio di un processo che porta gli
uomini ad agire in modo sperimentale e pragmatico, razionale e basato su conoscenze scientifiche, che possono
essere sottoposte a verifica e abbandonate non appena si
rivelino inadeguate"5.
Nel senso indicato, dunque, la secolarizzazione è pensata nella contrapposizione tra religione, che sarebbe favola, mito, superstizione, e ragione, che troverebbe nella
scienza sperimentale la sua esplicazione ed il suo trionfo;
nella contrapposizione tra dogma, cioè formulazione indiscutibile ed immodificabile, e verità scientifiche, caratterizzate dalla loro discutibilità e provvisorietà; nella contrapposizione, infine, fra tradizionalismo, per sua natura connotato
da fissità, e modernità, aperta al mutamento ed all'innovazione.
Si tratta di un approccio al problema che sembra ignorare immani sforzi di pensiero, come quelli di un Agostino o
di un Tommaso, tesi a dimostrare la possibile concordia fra
religione e ragione. Nella esperienza storica esso tende ad
evolversi in forme secolaristiche, nel senso che partendo da
una originaria impostazione "etiamsi Deus non daretur" più
spesso giunge ad approdi segnati da una forte ideologizzazione. L'uomo e la società non solo fanno programmaticamente a meno di Dio, ma addirittura si propongono di cancellarlo: ciò non solo nella prospettiva sincronica, ma anche,
in qualche modo retroattivamente, nella prospettiva diacronica6.
Nella prospettiva delle "radici cristiane dell'Europa"
appare più prossimo un secondo modo di intendere la secolarizzazione, quale fenomeno che non si può comprendere
al di fuori di una prospettiva religiosa e, più precisamente,
cristiana. La secolarizzazione, in altri termini, è un processo
che si instaura all'interno della civiltà cristiana e che può
essere compreso solo partendo dal quadro di riferimento
della religione cristiana che, per lungo periodo di tempo, ha
plasmato l'identità degli europei, la loro cultura, la loro
civiltà, pur giungendo alfine alle conclusioni di una emancipazione da questo retaggio, soprattutto nelle sue configurazioni istituzionali ecclesiastiche7.
Dunque non contrapposizione tra religione e ragione, tra
mito e storia, tra superstizione e scienza, ma una modernità
21
razionale e scientifica che procede necessariamente da un
milieu socio-culturale cristiano.
Un terzo approccio, più propriamente religioso, si ricollega alle radici ebraiche che la cultura europea possiede
grazie soprattutto alla mediazione cristiana.
Basti riflettere al riguardo al senso profondo dei primi
passaggi del libro che è, dal punto di vista topografico e
logico-cronologico, il primo dei testi biblici: il libro della
Genesi. In effetti, nella apparente semplicità di un racconto
destinato ad essere compreso da tutti, dotti o meno, la
Genesi segna l'inizio del processo di secolarizzazione con
la creazione stessa. Già con le parole di apertura, "In principio..." (Gn 1, 1), che stanno ad indicare l'origine del tempo
storico, si viene a significare l'autonomia rispetto al Creatore
delle realtà create, secolari, rette da chrónos. Al tempo è
pertanto connesso il "Creò..." (Gn 2, 2), cioè l'atto con il quale
si danno forma, norme ed autonomia rispetto a Dio alle cose
terrene. Una autonomia delle realtà temporali che viene sottolineata anche dalla cura con cui il testo sacro precisa che
Dio al settimo giorno, compiuta la creazione, si riposò.
Il tema del riposo, infatti, esalta l'alterità del creato rispetto al Creatore, come bene intuirono i Padri. "Dio – scrive ad
esempio Beda – anche dopo che ebbe creato il mondo non
riposò nelle opere che aveva fatto, ma da tutte le opere che
aveva fatto"8.
Considerazioni analoghe possono farsi per altri passaggi del testo, come quello che indicando la signoria dell'uomo sul creato nel racconto dell'imposizione del nome agli
animali da parte di Adamo, vuole sottolineare l'autonomia
del creato rispetto a Dio9.
L'ebraismo dunque dona alla cultura europea un elemento importante: la secolarizzazione è e rimane nel tempo
un prodotto proprio della religione.
Il Cristianesimo rafforza considerevolmente questi elementi. La pagina evangelica della distinzione tra Cesare e
Dio è troppo nota, per dover essere riletta in questa sede10.
Altrettanto noti sono quei passaggi evangelici nei quali, sottolineandosi che il regno di Cristo "non viene da questo
mondo"11, si sottolinea, con l'alterità rispetto al Regno dei
Cieli dei regni di questa terra, l'autonomia (relativa) di questi
ultimi12.
Ma il Cristianesimo offre un contributo del tutto originale
ad un'idea di secolarizzazione intesa non come contrapposizione alla religione o quantomeno come ignoranza di questa, né come mero processo storico che si diparte dalla reli22
gione per giungere però alla fine a conclusioni agnostiche o
addirittura irreligiose.
Fondamentale a questo riguardo è il principio dell'incarnazione, essenza del credo cristiano, per il quale Dio nella
sua potenza ed eternità assume natura umana, nella sua
storicità e finitudine; principio che diviene paradigma del
realizzarsi cristiano nella storia.
In questa prospettiva eminentemente teologica la secolarizzazione è termine che indica il fenomeno positivo dell'incarnarsi di principi di verità rivelata dal messaggio cristiano nel divenire della storia; principi di verità che si fanno
saeculum al punto tale, che se ne perde progressivamente
la consapevolezza delle origini cristiane. La secolarizzazione è assunta così come un fenomeno positivo, che segna la
tensione dinamica tra il già e non ancora; fenomeno dunque
distinto dal secolarismo, espressione di una degenerazione
che spiega il mondo da sé stesso, senza Dio o addirittura
contro Dio.
Come fenomeno positivo la secolarizzazione vuol dire,
per usare incisive espressioni di Paolo VI nell'esortazione
apostolica Evangelii nuntiandi del 1975, "lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede o con la
religione, di scoprire nella creazione, in ogni caso o in ogni
evento dell'universo, le leggi che li reggono con una certa
autonomia, nell'intima convinzione che il Creatore vi ha
posto queste leggi"13.
3. Le derive della laicità
Dal punto di vista storico, la laicità ha conosciuto un processo del tutto inverso a quello sopra descritto per la secolarizzazione. Di essa, infatti, sono certe e ben note le origini
cristiane, così approfonditamente investigate da un famoso
contributo di Congar, che mantiene tuttora intatta la sua originalità14.
In effetti laicità deriva dal greco laos, cioè popolo, termine con cui originariamente veniva indicato nel linguaggio
ecclesiastico il nuovo popolo di Dio, complessivamente considerato e distinto dagli altri popoli della terra.
Successivamente quel termine greco venne ad indicare non
più l'intera comunità dei battezzati, ma solo quella porzione
di essa, ancorché la più numerosa, costituita da semplici cristiani non investiti di ministeri ordinati e non dediti, nello
stato religioso, alla testimonianza dei beni a venire. In que23
sto senso il termine è tuttora conservato nella Chiesa, come
testimonia il can. 207 del vigente codice di diritto canonico
per la Chiesa latina, laddove afferma che "per istituzione
divina vi sono nella Chiesa i ministri sacri, che nel diritto
sono chiamati anche chierici; gli altri fedeli poi sono chiamati anche laici", ed aggiunge che "dagli uni e dagli altri provengono fedeli i quali, con la professione dei consigli evangelici mediante voti o altri vincoli sacri, riconosciuti e sanciti dalla Chiesa, sono consacrati in modo speciale a Dio e
dànno incremento alla missione salvifica della Chiesa".
Nel linguaggio teologico-canonistico pertanto laicità è
termine che sta tuttora ad indicare la condizione propria dei
fedeli laici15.
Ma è noto altresì che nel corso della storia i termini laico
e laicità hanno subìto progressivamente un mutamento di
significato che li ha condotti alfine ad approdi di senso affatto diversi.
Si tratta di un mutamento che inizia a svolgersi, significativamente sul terreno politico-giuridico, già in età medievale. Nel contesto della lotta per le investiture, e più in generale dell'annoso conflitto fra papato ed impero, il termine
laico viene progressivamente ad indicare il fedele che in
quanto non chierico e non monaco o religioso è legittimato
ad agire nella realtà temporale. Nel contesto della lotta per
le investiture, in altre parole, la giusta rivendicazione della
libertas Ecclesiae nei confronti del potere civile ebbe un
grande influsso anche sulla distinzione fra chierici e laici.
Rivendicazione giusta, ma che fatalmente indusse ad un
processo di identificazione della Chiesa col ceto clericale e
del potere politico col laicato, e di conseguenza al perseguimento della libertà della Chiesa attraverso la progressiva
emarginazione dei laici anche all'interno dell'ordinamento
canonico, nel quadro di una visione invero confusa tra
società e ordinamenti – quello ecclesiastico e quello civile –
teoricamente distinti, ma fatalmente sovrapposti nella realtà
politico-religiosa della medievale respublica gentium christianarum.
Insomma: da qual momento laico e laicità cominciano a
designare realtà che sono fuori della Chiesa e, progressivamente, realtà che prescindono da essa o addirittura con
essa confliggono, toccando le derive del laicismo.
Si tratta di fenomeni troppo noti per dover essere ripresi
e ripetuti in questa sede.
Certo è che oggi, e non solo nel linguaggio comune,
laico e laicità sono sinonimici di laicista e laicismo, termini
24
non facilmente definibili ma che hanno dal punto di vista filosofico il senso della integrale autosufficienza della ragione e
dal punto di vista politico il senso della opposizione alla presenza operante della religione nella vita pubblica. Con specifico riferimento al Cristianesimo ed alla Chiesa, il laicismo
diviene anticlericalismo, che è l'inverso speculare del clericalismo.
Per quanto più specificamente attiene alla prospettiva
assunta nella presente indagine, cioè quella giuridico-istituzionale, si deve notare che oggi viene ad affermarsi la laicità
come uno degli attributi (che dovrebbero essere) propri
dello Stato.
Alla luce di quanto detto poc'anzi, bisogna osservare
subito che questo riferimento alla laicità dello Stato può
essere carico di ambiguità. La dottrina giuspubblicistica
afferma che il moderno Stato di democrazia pluralista non
può essere che laico, nel senso che la laicità costituirebbe
uno degli elementi che entrano a qualificare – identificandola – la forma di Stato denominata appunto di "democrazia
pluralista", caratterizzante le società occidentali e considerata al presente come il modello avanzato e "progressivo" di
organizzazione della comunità politica. Ma nel linguaggio
giuridico-politico secolare il termine "laicità" è sfuggente nei
contenuti e potenzialmente carico di significati, alcuni dei
quali addirittura confliggenti con gli altri. In alcuni casi, infatti, laicità è termine col quale più propriamente si intende il
laicismo; in altri casi essa è intesa come aconfessionalità,
per indicare cioè lo Stato che non abbia una religione ufficiale. Più spesso il termine laicità viene inteso nel senso di
neutralità dello Stato dinnanzi alle diverse opzioni religiose o
ideologiche.
Anche quest'ultima è una accezione ambigua. Si pensi
al caso in cui la neutralità dello Stato è stata invocata per
significare il rifiuto dello Stato stesso di riconoscersi sottomesso a norme ad esso estranee, come i diritti umani, o
superiori, come il diritto naturale. In questi casi, infatti, lo
Stato è inesorabilmente tentato ad evolversi verso forme di
Stato etico, cioè di soggetto produttore di valori etici, il che
risulta essere in palese contraddizione col concetto di neutralità o di laicità.
Più spesso oggi il principio di neutralità è invocato per
giustificare l'assunzione da parte dell'ordinamento giuridico
statale dei principi comuni alle diverse opzioni etiche sussistenti nel corpo sociale (il cosidetto "minimo etico" comune),
ovvero nel senso di tolleranza delle varie opzioni etiche.
25
Anche in questi casi non si sfugge ad ambiguità e contraddizioni: si pensi soltanto all'eventualità che gli orientamenti
etici diffusi nel corpo sociale siano in insanabile conflitto con
i diritti umani (diritto alla vita, all'integrità personale, alla
libertà personale, alla salute, ecc.). D'altra parte la tolleranza delle varie opzioni etiche da parte dell'ordinamento dello
Stato, significa in concreto affermazione del primato di una
visione dell'uomo e del mondo, rispetto alle altre possibili.
Ad esempio la tolleranza, da parte dell'ordinamento, di pratiche come l'interruzione volontaria della gravidanza, l’eutanasia o certe forme di procreazione medicalmente assistita,
che da alcuni è ricondotta al principio di laicità o di neutralità, è in realtà violazione di tale principio, nella misura in cui
comporta l'assunzione da parte dell'ordinamento statale di
una fra le tante visioni del mondo e della vita.
A ben guardare tuttavia il riferimento alla laicità dello
Stato può significare altro: ad esempio il principio di autonomia dell'ordine temporale rispetto a quello spirituale e viceversa. Questo risulta essere il senso autentico ricavabile dal
contesto di una citata allocuzione di Pio XII, che nel 1958
parlava di "sana laicità dello Stato", ed in questo senso si
può anche dire che il principio di laicità costituisce uno dei
capisaldi della moderna dottrina della Chiesa sui rapporti
con la comunità politica. Non mancano del resto ordinamenti giuridici statali che in tal senso affermano il principio
di laicità.
Si deve notare in proposito come, in tema di qualificazione dello Stato dal punto di vista religioso o ideologico, nei
documenti del magistero sociale della Chiesa non si usi mai
l'aggettivo "laico" o il sostantivo "laicità", se si fa eccezione
della ricordata allocuzione pacelliana. Semmai si incontra
talvolta il riferimento al laicismo, inteso quale moto politicogiuridico volto a sottrarre le istituzioni civili e sociali a qualsiasi influsso religioso16.
Piuttosto il termine "laicità" si riscontra nei documenti
magisteriali in rapporto al riconoscimento dei valori del
mondo profano. Come ad esempio affermava nel 1968
Paolo VI, la Chiesa "oggi distingue fra laicità, cioè tra la
sfera propria delle realtà temporali, che si reggono con
princìpi propri e con relativa autonomia derivante dalle esigenze intrinseche di tali realtà – scientifiche, tecniche,
amministrative, politiche – e il laicismo, che dicevamo l'esclusione dell'ordinamento umano dai riferimenti morali e
globalmente umani, che postulano rapporti imprescrittibili
con la religione"17.
26
Concludendo pare di poter dire che, dal punto di vista
giuridico, la secolarizzazione attiene ai profili oggettivi di un
determinato fenomeno, laddove la laicità riguarda invece i
profili soggettivi: la società e la cultura sono secolarizzate,
laico è invece lo Stato e laiche devono essere le istituzioni
pubbliche. Per altro aspetto la secolarizzazione attiene alla
sociologia, anche se storicamente le esperienze del giurisdizionalismo sia nella versione confessionista sia soprattutto nella versione laicista hanno prodotto quella secolarizzazione dei beni ecclesiastici, che è ben noto fenomeno giuridico. Viceversa la laicità attiene al diritto, essendo una qualificazione dello Stato e delle sue istituzioni.
Sussiste comunque un nesso tra secolarizzazione e laicità, perché si tratta in definitiva di aspetti del medesimo
processo, anche se il termine secolarizzazione sembrerebbe essere il più che contiene in sé la laicità18.
4. "Mos gallicus" e "mos italicus"
In altra occasione ho parlato di un mos gallicus e di un
mos italicus di intendere la laicità, per mettere in evidenza
le differenze riscontrabili nell'esperienza francese, dove la
laicità in senso moderno è nata, rispetto all'esperienza italiana19.
La prima, come noto, è stata a lungo caratterizzata, per
quanto attiene ai profili giuridico-istituzionali, da alcuni elementi quali: la sovranità dello Stato, intesa quale autorità
suprema non soggetta ad alcuna altra autorità o ad apparati normativi (etici o giuridici) superiori, con conseguente
piena autonomia dello Stato dalla autorità ecclesiastica; la
separazione dello Stato dalla Chiesa, così come da qualsiasi altra confessione religiosa, e la soggezione del fenomeno
religioso organizzato all'autorità statale; la neutralità dello
Stato dinnanzi alla religione, ricondotta nell'ambito della
sfera personale e privata, con esclusione di ogni sua rilevanza pubblica; l'orientamento dell'intervento statale, con i
servizi pubblici, verso un individuo considerato solo nella
sua dimensione meramente temporale, nei suoi bisogni
materiali, con una ignoranza della sua dimensione spirituale
e dei suoi bisogni religiosi, nel contesto di un marcato indifferentismo.
La laicità alla francese, radicata dal punto di vista culturale in concezioni razionalistiche ed immanentistiche, di
umanesimo assoluto, dal punto di vista politico si è tradotta
27
storicamente in opposizione alla presenza operante della
religione nella vita pubblica, assumendo corpose forme di
laicismo e di anticlericalismo (la cosiddetta laicité de combat). Anche se in tempi più vicini si è venuta evolvendo in
forme più "morbide": quelle di una laicità intesa come "neutralità rispettosa" del fattore religioso20 e della laïcisation de
la laïcité; quelle di una laicità de l'intelligence, secondo cui
lo Stato ha il dovere di comprendere il fatto religioso, rispetto alla tradizionale laïcité de l'incompétence, secondo cui il
fatto religioso non riguarda per nulla lo Stato21. Le evoluzioni
dell'esperienza francese sono di recente giunte fino alla proposizione, da parte di alcuni, di un diverso modello di rapporti fra Stato e religioni, caratterizzato dal riconoscimento
di prerogative di diritto pubblico a queste ultime e, quindi,
da un notevole avvicinamento all'esperienza di ordinamenti
come quello tedesco e quello italiano22.
Siffatto modo di intendere la laicità, dal punto di vista
giuridico-istituzionale, appare invero assai distante dal
modo italiano. Qui la laicità come connotazione delle istituzioni pubbliche e dell'ordinamento giuridico è principio non
formalmente enunciato ma sotteso alle disposizioni costituzionali, il quale, come ho avuto modo di notare in altra occasione, si è venuto disvelando progressivamente nell'esperienza giuridica maturata nei cinquant'anni di vita della
Repubblica italiana23 fino ad essere proclamato come principio supremo dell'ordinamento costituzionale dalla
Consulta24.
La laicità all'italiana ha tra le sue radici culturali anche la
dottrina sociale cattolica, con le sue tesi sull'indipendenza
ed autonomia reciproche della Chiesa e della comunità politica, ed ha potuto fruire dell'esperienza politica concordataria del novecento, che in qualche modo conferma ed esplicita quelle tesi25. Pur partendo da un principio di distinzioneseparazione fra Stato e Chiese, questo modo di intendere la
laicità non esclude forme di collaborazione e coordinamento, nonché "norme specifiche di protezione religiosa (...) purché senza discriminazione"26. Si tratta di una laicità che riconosce una rilevanza pubblica del fatto religioso, tant'è che
nell'art. 2 del vigente concordato con la Santa Sede è esplicitamente sancito che "la Repubblica italiana riconosce alla
Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione
pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di
santificazione", aggiungendosi significativamente che "in
particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magi28
stero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in
materia ecclesiastica". Sulla scorta del principio di eguaglianza inteso non solo formalmente ma anche sostanzialmente, tale laicità presuppone un obbligo dello Stato di
intervenire positivamente per rimuovere gli ostacoli che di
fatto possono impedire il concreto esercizio della libertà
religiosa, in maniera sia individuale che associata.
L'intervento economico, ma non solo economico, dello
Stato a favore della religione, che può rilevarsi in molti
ambiti della vita – dal sostentamento del clero all'assistenza spirituale, dall'insegnamento religioso nelle scuole alla
tutela dei beni culturali religiosi ecc. –, si inscrive precisamente in questo quadro27.
In luogo dell'indifferentismo e di un separazionismo non
collaborazionista, la laicità all'italiana persegue forme collaborative tra lo Stato e le confessioni religiose, in vista del
bene comune dei cittadini. Assai significativo al riguardo
appare il disposto dell'art. 1 del vigente concordato italiano,
secondo il quale, tra l'altro, lo Stato e la Chiesa sono impegnati "alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del paese"28. Si tratta di una disposizione
che, com'è stato incisivamente notato, "riconosce la pienezza della presenza ecclesiale nel mondo", ed "effettua un
riconoscimento grandioso della legittimità, nell'ordine profano, dell'azione religiosa della Chiesa nel suo insieme"29.
La ragione della rilevata diversità tra mos gallicus e mos
italicus è certamente da ricercarsi nelle differenti matrici culturali e filosofiche che ispirano l'ordinamento francese e l'ordinamento italiano30. Ma la ragione di quella diversità è da
ricercarsi anche nei due modelli di Stato che caratterizzano
i due Paesi: il modello dello Stato come unità e sovranità, nel
caso della Francia; il modello di Stato come equilibrio e
mediazione, nel caso dell'Italia. Il primo – come bene è stato
notato – "implica una concezione gerarchica tra le varie istituzioni sociali (in nome dell'unità che si riassume nello
Stato), che si riflette nel controllo assoluto delle fonti del diritto da parte del potere politico"; il secondo che "presuppone
una somma di istituzioni, riconducibili a campi diversi (economico, sindacale, religioso) dotate di forza tale per cui, al
di là di una comune prassi normativa fondata su valori
essenziali per la convivenza, (...) non accettano imposizioni
di disciplina che non trovino il loro consenso"31. È evidente,
in questo secondo caso, la forza dell'influenza della dottrina
sociale della Chiesa nella formazione e nell'evoluzione dell'ordinamento giuridico italiano, per rapporto a quella con29
cezione organicistica che si traduce nel riconoscimento formale, a livello costituzionale, delle formazioni sociali e del
loro ruolo insopprimibile di tutela della persona umana e del
suo sviluppo (art. 2 Cost.).
A ben vedere nel primo caso, quello francese, l'idea di
laicità ha il suo fondamento nella sovranità dello Stato,
"insofferente di fronte ai condizionamenti derivanti da altri
poteri sociali"; nel secondo, quello italiano, la laicità ha il suo
fondamento piuttosto nel riconoscimento del ruolo della
società civile, nelle sue diverse articolazioni, e quindi nella
"neutralità" dello Stato rispetto ai vari poteri sociali. Nel primo
caso ha il suo fondamento nell'idea, tipica del pensiero politico moderno, dello Stato come societas perfecta, cioè
come società che ricomprende e riassume in sé tutte le
altre, soggette alla sua sovranità; nel secondo caso ha il suo
fondamento nell'idea dello Stato come societas imperfecta,
cioè come autorità che non ha una competenza assoluta ma
limitata a definiti ambiti (l'ordine temporale, si direbbe canonisticamente), con l'esclusione in particolare dell'ambito religioso, sul quale si esercita un'altra sovranità ed un'altra
autorità. Il che a ben vedere è la negazione dell'idea propria
di sovranità, intesa come autorità suprema, esclusiva e non
derivata, quindi non limitata da altre autorità32.
Siffatta connotazione dello Stato italiano si desume chiaramente dalla riconosciuta sovranità della Chiesa nell'ordine
suo (art. 7, primo comma, Cost.), che se da un lato sottrae
alla sovranità statale porzioni di realtà sociale, dall'altro lato
postula uno Stato che – come ha detto la Corte costituzionale – rispetto alla religione o ad un particolare credo non
risponde a postulati astratti di estraneità, ostilità o confessionalità, "ma si pone a servizio di concrete istanze della
coscienza civile e religiosa dei cittadini"33.
5. Quale laicità per l'Europa?
È opinione diffusa che in Europa il modello francese di
laicità – che peraltro non trova attuazione in Alsazia-Mosella,
dove vige il Concordato napoleonico del 1801 – sia progressivo mentre quello italiano sia regressivo; così come è
convinzione diffusa che il modello francese sia dominante,
rispetto a quello italiano o ad alcuni altri ancora più limitati
ed arretrati.
A ben vedere le cose non sembrano stare propriamente
così. Invero dal punto di vista formale la situazione degli
30
ordinamenti degli Stati facenti parte dell'Unione Europea
appare abbastanza variegata. Esiste, infatti, una chiara
distinzione tra Stati che hanno una Chiesa di Stato (come
l'Inghilterra, la Danimarca, la Grecia, la Finlandia, la Svezia);
Stati in cui vige un formale sistema di separazione (Francia,
Portogallo); Stati con connotazioni confessioniste, ancorché
attenuate (come l'Irlanda); Stati con un sistema non formale
ma sostanziale di separazione (i Paesi Bassi); Stati con pluralismo confessionale e sistemi di accordi con le Chiese
(Italia, Belgio, Lussemburgo, Austria, Spagna, Germania)34.
Ma dal punto di vista sostanziale la situazione è ben
diversa. Con eccezione forse della Grecia, che manifesta
ancora segni confessionistici, tutti gli altri Paesi esprimono
una laicità intesa come imparzialità delle istituzioni pubbliche rispetto alla pluralità di posizioni dinnanzi al fenomeno
religioso. Nonostante il fatto che la regina sia il Capo della
Chiesa anglicana, che il sovrano debba essere calvinista o
che il luteranesimo sia posto a religione ufficiale, non sono
meno laici della Francia l'Inghilterra o gli Stati scandinavi.
Nessuno di questi Stati si fa braccio secolare di qualche istituzione religiosa, anche se maggioritaria nel Paese, ma tutti
si preoccupano di salvaguardare attivamente la libera convivenza di diverse visioni religiose.
In realtà la laicità della Francia, che per le ragioni dette
rinuncia ad ogni simbologia religiosa e non ammette una
rilevanza pubblica della religione, è il modello minoritario
all'interno di una realtà europea che si muove in maniera
diversa pur assicurando la neutralità delle istituzioni pubbliche35. Come bene è stato osservato, "uno Stato che rinunci
ad ogni simbologia religiosa non rappresenta una posizione
più neutrale di uno Stato che aderisca a determinate forme
di simbologia religiosa", così come il negare ogni rilevanza
pubblica alla religione non significa assicurare la neutralità
dello Stato. Significa, in realtà, "privilegiare (...) una visione
del mondo rispetto ad un'altra, facendo passare tutto questo
per neutralità"36.
A fronte di questi due modelli, l'ordinamento europeo si
muove con ambiguità. In particolare a fronte della Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione Europea (Nizza 2000), che
tace al riguardo, nella Dichiarazione annessa al Trattato di
Amsterdam (1997) si era giunti ad affermare che "l'Unione
europea rispetta e non pregiudica lo status previsto dalle
leggi nazionali, di Chiese e associazioni o comunità religiose negli Stati membri".
La stessa ambiguità si ritrova nel progetto di Trattato che
31
istituisce una Costituzione per l'Europa. In esso il principio di
Amsterdam è riprodotto (art. I-51), ma alla mancata menzione delle radici cristiane – denunciata da parte di autorevole
dottrina come "un silenzio tonante, questo sì ideologicamente caricato"37 –, si aggiunge una formulazione del Preambolo
che sembra contrapporre religione e ragione, e che ricollega i valori della dignità umana, dell'eguaglianza, della
libertà, dei diritti umani, ad una sola delle tradizioni culturali
europee, quella umanista, e non anche all'altra, quella religiosa (giudaico-cristiana).
In conclusione, giova ricordare che, nonostante le diversità di tradizioni politiche e giuridiche, tra i diversi Stati europei c'è un principio che accomuna tutti: si tratta del principio di distinzione dell'ordine politico, e quindi anche dell'ordine giuridico, rispetto all'ordine religioso e spirituale, e
quindi della coscienza.
È questa distinzione che fonda la laicità, la "sana" laicità.
È questa distinzione che, a ben vedere, fonda i diritti di
libertà, a cominciare dalla libertà religiosa e di coscienza.
Senza quella distinzione la stessa tematica dei diritti fondamentali, intesi quale ambito sottratto alla sovranità di
Cesare, verrebbe ad essere fortemente indebolita. Sicché
vale la pena di ricordare ancora una volta quali sono le origini storiche di quel principio: il Cristianesimo, con la nota
distinzione fra Cesare e Dio tramandataci nella citata pagina evangelica del tributo.
Dunque la laicità dello Stato nasce dal pensiero cristiano.
Ma se laicità è frutto del Cristianesimo, è assai difficile
poterla pensare fuori o a prescindere da esso. Tanto meno
è possibile realizzarla senza di esso. Lo stanno bene a
dimostrare i fondamentalismi che agitano, oggi, i nostri
sonni. Lo hanno tragicamente dimostrato le grandi dittature,
dal nazismo allo stalinismo, che proprio l'Europa ha generato quanto ha obliato le sue origini cristiane; quando cioè ha
permesso che Cesare potesse arrogarsi nuovamente ciò
che è di Dio38.
Possibile che la storia non debba mai essere maestra di
vita?
32
Note
(1) Cfr., per la secolarizzazione, le considerazioni iniziali di P. Grassi nella voce
Secolarizzazione, in Dizionario delle idee politiche, diretto da E. Berti e G.
Campanini, Roma 1993, p. 764. Quanto alla laicità rinvio al riguardo al mio saggio, dal titolo volutamente provocatorio, Laicità dello Stato. A proposito di una
nozione giuridicamente inutile, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1991,
2, p. 274 ss. e ora in Il primato della coscienza. Laicità e libertà nell’esperienza
giuridica contemporanea, Roma 1992, p. 35 ss.
(2) Cfr. P. Gautier Dalché, Portolano, in Dizionario enciclopedico del
Medioevo, diretto da A. Vauchez, ed. it. a cura di C. Leonardi, III, Roma 1999,
p. 1517 s.
(3) Per una efficace ricostruzione storica cfr. R. Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea, tr. it., Roma-Bari
1999. Un confronto con la realtà nord-americana in G. Haarscher, La laïcité
n’est pas une notion irrémédiablement confuse, in Aa.Vv., Quelle laïcité en
Europe?, Institut d’Histoire du Christianisme, Université Jean Moulin – Lyon 3,
2003, p. 31 ss.
(4) Così P. Berger, La sacra volta, ed. it., Milano 1984, p. 119.
(5) G. Pasquino, Secolarizzazione, in Dizionario di politica, diretto da N.
Bobbio e N. Matteucci, Torino 1976, p. 904.
(6) Cfr. ancora P. Grassi, Secolarizzazione, cit., p. 766 ss.
(7) In tal senso già E. Troeltsch, Il protestantesimo nella formazione del
mondo moderno, tr. it., Firenze 1974, p. 6 s. Nella medesima prospettiva può
cogliersi il significato profondo della famosissima opera di M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it., Firenze 1945.
(8) Cfr. in Genesi, a cura di U. Neri, prefazione di G. Dossetti, Torino 1986,
p. 29.
(9) “Allora il Signore Dio plasmò al suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti
gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati;
in qualunque modo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva
essere il suo nome” (Gn 2, 19).
(10) Cfr. Mc 12, 13-17; Mt 22, 15-22; Lc 20, 20-26).
(11) Così ad esempio Gv 18, 28-37.
(12) Per più approfondite considerazioni al riguardo rinvio a G. Dalla Torre,
La città sul monte. Contributo ad una teoria canonistica sulle relazioni fra
Chiesa e Comunità politica, 2ª ed., Roma 2002.
(13) Paolo VI, es. ap. Evangelii nuntiandi, n. 55. Su questo documento cfr.
J. Lopez-Gay, Evangelii nuntiandi, in Dizionario di missiologia, Bologna 1993,
p. 239 ss.
(14) Y.-M. Congar, Per una teologia del laicato, tr. it., Brescia 1966.
(15) Al riguardo la letteratura canonistica è ormai assai ampia. Cfr. per tutti
Aa.Vv., I laici nel diritto della Chiesa, Città del Vaticano 1987.
(16) Cfr. ad esempio Pio XII, lett. enc. Summi Pontificatus, 20 ottobre 1939,
§ 14/a.
(17) Cfr. discorso del 22 maggio 1968: L’impegno ardente e primario d’ogni credente in Insegnamenti di Paolo VI, VI Città del Vaticano, 1968, p. 796.
(18) Per una identificazione tra secolarizzazione e laicità/laicizzazione cfr.
R. Minnerath, La laïcité dans le droit européen, in Aa.Vv., Quelle laïcité en
Europe?, cit., p. 109 ss., ma anche G. Haarscher, La laïcité n’est pas une
notion irrémédiablement confuse, ivi, p. 38 s.
(19) G. Dalla Torre, Europa. Quale laicità?, Cinisello Balsamo 2003, p. 94.
(20) F. Vecchi, L’evoluzione del sistema di diritto ecclesiastico francese fra
falliti tentativi concordatari e legislazione recente di “attenuato separatismo”,
in Il diritto ecclesiastico, 1998, I, p. 358.
(21) Di passaggio dalla laïcité de l’incompétence alla laïcité de l’intelligence ha parlato Régis Debray, come ricorda J.-D. Durand, Introduction, in Aa.Vv.,
Quelle laïcité en Europe?, cit., p. 11.
(22) Cfr. A. Christnacht, La loi de 1905 est-elle dépassée?, in Aa.Vv.,
Quelle laïcité en Europe?, cit., p. 95 ss.
33
(23) G. Dalla Torre, Europa. Quale laicità?, cit., p. 76 ss.
(24) Cfr. Corte cost., sent. 11-12 aprile 1989, n. 203, in S. Domianello,
Giurisprudenza costituzionale e fattore religioso. Le pronunzie della Corte
costituzionale in materia ecclesiastica (1987-1998), Milano 1999, p. 597 ss.
(25) G. Dalla Torre, La città sul monte, cit., p. 63 ss.
(26) G. De Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Bologna 1999,
p. 448.
(27) Rinvio al riguardo a G. Dalla Torre, Lezioni di diritto ecclesiastico, 2ª
ed., Torino 2002.
(28) Cfr. G. Dalla Torre, La “filosofia” di un Concordato, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2004, p. 81 ss.
(29) Così S. Cotta, Intervento, in I nuovi accordi fra Stato e Chiesa.
Prospettive di attuazione, Atti del XXXVI Convegno nazionale di studio
dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani: Roma, 6-8 dicembre 1985, Milano 1986, p.
53 s.
(30) Sulla laicità nella cultura italiana cfr. P. Scoppola, Laïcité dans la culture italienne, in Aa.Vv., Quelle laïcité en Europe?, cit., p. 17 ss. Ma cfr. anche
Aa.Vv., Laicità. Problemi e prospettive, Milano 1977.
(31) A. Vitale, Laicità e modelli di Stato, in Aa.Vv., Il principio di laicità nello
Stato democratico, a cura di M. Tedeschi, Soveria Mannelli 1996, p. 236.
(32) Sul concetto di sovranità cfr. N. Matteucci, Sovranità, in Dizionario di
politica, cit., p. 973 ss.; A. Tarantino, Sovranità, in Dizionario delle idee politiche, cit., p. 852 ss.
(33) Corte cost., sent. 11-12 aprile 1989, n. 203, cit.
(34) Cfr. G. Barberini, Lezioni di diritto ecclesiastico, Torino 2000, p. 291 ss.
(35) Ed è l’unico modello di laicità tentato da un proselitismo pan-europeo:
R. Minnerath, La laïcité dans le droit européen, cit., p. 115, il quale sottolinea la
reale distanza tra questa laicità ed il resto d’Europa (p. 120).
(36) J.H.H. Weiler, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, con prefazione di A. Barbera, Milano 2003, p. 68-69.
(37) Id., op. cit., p. 74.
(38) Come bene è stato notato, si deve “ad alcuni intellettuali cattolici (citiamo in particolare J. Maritain, E. Mounier, L. Sturzo) la capacità di comprendere,
proprio negli anni ‘30, che i totalitarismi non andavano interpretati come una
sorta di degenerazione dello Stato laico. Essi rappresentavano piuttosto una
totale sconfessione di quei principi laici (rispetto della persona, tutela dei diritti
individuali, riconoscimento dell’uguaglianza giuridica...) che, seppur fondati su
presupposti “naturalistici”, erano nondimeno consentanei con la visione cristiana
dell’uomo e della società” (L. Caimi, Laicità, in Dizionario delle idee politiche,
cit., p. 421).
34
PAOLO SINISCALCO
Ordinario di Storia del Cristianesimo
Università “La Sapienza”, Roma
Cristianesimo ed Europa:
una storia millenaria
Quale è l’identità dell’Europa? È questa una domanda che
ha avuto ed ha corso particolarmente ai nostri giorni nei quali
è stata preparata ed a lungo discussa dagli stati membri la
‘carta costituzionale’ della Comunità europea. Domanda che
senza dubbio richiede una risposta articolata e complessa, che
tenga conto della storia, che è la nostra storia1. Qui in particolare vorrei concentrare l’attenzione su quei lunghi secoli che
hanno visto scontrarsi e confrontarsi genti di diverse origini,
perché è da quel crogiolo straordinariamente ricco e variato
che è nata l’identità dell’Europa. Il che non impedirà di accennare all’età successive, fino all’oggi.
Limite spaziale e profilo ideale
del continente europeo
Intanto ci si può domandare da quando si ebbe, almeno
germinalmente, l’idea del continente Europa. Già i geografi
ionici, Anassimandro ed Ecateo, a cominciare dal VI secolo
a.C. ne danno una prima configurazione asserendo che essa si
estende a nord del mare Mediterraneo, mentre riservano il
nome di Asia alle terre che ne sono situate a sud, tra le quali
tuttavia tengono separata la Libia: in tal modo delineano quella triparzione dell’oikoumene, tra Europa, Asia e Africa, che per
lungo tempo rimane tradizionale. Più precisamente gli antichi
individuavano il confine occidentale dell’Europa delimitato
dall’Oceano Atlantico (il Mare externum), che pensavano la cingesse anche a settentrione, mentre ponevano il confine orientale sul Bosforo Cimmerio o sul fiume Don (Tanais) o sul Phasis
(fiume della Georgia, l’antica Colchide), che supponevano si
gettasse nel Mar Nero (il Ponto Eusino).
Accanto al limite spaziale e fisico gli antichi avevano pure
tracciato un profilo ideale. Stando alle espressioni di Esiodo,
nella Teogonia2 Europa è, insieme ad Asia, una delle Oceanine
dalle “sottili caviglie”, le quali “sorvegliano la terra e gli abissi del
35
mare”. Secondo il mito, che del resto si presenta in molte
varianti, mentre Europa sta cogliendo fiori tra le sue compagne
nelle terre di Tiro e Sidone e dunque sulla costa asiatica del
Mediterraneo, Zeus la scorge e subito se ne invaghisce, prende la forma di un giovane torello e si stende ai suoi piedi. La
fanciulla arditamente monta sulla sua groppa. Ma l’animale,
d’un subito, entra nel mare e la porta fino all’isola di Creta, la
prima terra a nord dell’Asia che da lei appunto prende il nome
di Europa. Ivi si unisce con lei; poi la dà in sposa ad Asterione,
re di Creta, cui ella genera tre figli: Minosse, Sarpedone e
Radamanto.
Una rappresentazione poetica che pone in luce almeno
quattro elementi caratteristici che possono applicarsi
all’Europa: l’elemento della divinità, della sete di avventura,
della femminilità e della maternità.
Da parte sua Eschilo nei Persiani parla di un sogno avuto
dalla regina Atossa, quando Serse, suo figlio, muove alla conquista della Ionia: le appaiono due sorelle, belle a vedersi, l’una
vestita di abiti persiani, l’altra di pepli dorici; delle due la prima
compare sulla sponda asiatica, l’altra sulla sponda greca, ossia
in Europa. Tra di loro nasce un dissidio, che Serse, gran re,
cerca di dirimere. Egli le aggioga ad un carro, ma mentre la
prima obbedisce docile alla briglia, la seconda scalcia, lacera i
finimenti fino a rovesciare il carro e a fare cadere Serse: non
suddita a nessuno, rivendica la propria libertà e, se non le è
accordata, se la procura. È chiaro il gioco di confrontare il
mondo persiano, sottoposto all’arbitrio di despoti che pretendono onori divini, con il mondo greco che si basa sulla ragione
e coltiva la filosofia. Tale almeno è l’autocoscienza che i greci
hanno della propria civiltà, tale il giudizio che essi danno di altri
organismi politici diversi dal loro.
Così, profeticamente, l’uomo europeo scopre che la sua
vocazione è quella di spingersi oltre i limiti che gli sono imposti, a rischio di compiere un viaggio pericoloso che lo conduce
alla libertà, oltre un limite che pareva insuperabile. Al suo
demone ha sempre chiesto dove andare, la sua meta è sempre apparsa più lontana, nel momento stesso in cui sembrava
potere esser raggiunta.
Alcune figure, meglio di altre, connotano la fisionomia intima di colui che è viandante, viator: quella di Abramo che lascia
per sempre la sua patria per avviarsi verso una terra ancora
sconosciuta, affacciata al Mediterraneo, o quella di Ulisse
omerico o dantesco, con la sua vigile curiosità e il suo inesausto desiderio di avventura (ma E. Levinas, in La traccia
dell’Altro, contrappone il mito di Ulisse che torna a Itaca, con
36
la storia di Abramo che lascia la sua terra e osserva che nei
due eroi si profilano le due anime culturali dell’Europa mediterranea e dell’Occidente). Di loro, attraverso i secoli, sembrano
seguaci ed eredi i Marco Polo e i Cristoforo Colombo, mossi
da un’ansia interna ad andare oltre per scoprire l’ignoto. Sono
gli stessi uomini che, in un‘altra dimensione, sperimentano con
Agostino d’Ippona l’inquietudine del cuore umano, sapendo
che nelle ricerca cresce l’amore di cio che si è cercato.
Il giudaismo e il primo affermarsi del Cristianesimo
Si sa che Gesù Cristo è ebreo, vive ed opera in Palestina in
una terra che è bagnata dal Mediterraneo nella sua sponda
orientale. Si sa che i primissimi discepoli di Cristo, o meglio, gli
apostoli e “gli altri che sono con loro” – secondo la parola degli
Atti – dopo la sua passione e resurrezione, si riuniscono a
Gerusalemme, che ha titolo per essere considerata sede della
Chiesa-madre, essa che era il centro religioso di Israele e che
era considerata dalle Scritture quale punto ove sarebbe avvenuta alla fine dei tempi la manifestazione gloriosa del Signore.
Questo per dire che il movimento cristiano inizia dalla città
di Gerusalemme, che i suoi membri mostrano attaccamento al
Tempio giudaico (cf. Atti 2, 46), lo frequentano e continuano a
praticare consuetudini e riti del popolo da cui provengono. Si
usa infatti denominare la prima comunità gerosolimitana come
comunità giudeo-cristiana, per sottolineare un fatto evidente:
l’origine giudaica dei suoi membri.
Come l’ebraismo, il movimento cristiano crede in un unico
Dio, crede in una ‘rivelazione’ che ritiene sia stata fatta conoscere da Dio all’uomo, la quale è incorporata in un insieme di
scritti che costituiscono le Sacre Scritture. Il Cristianesimo
appunto fa proprio il libro sacro dell’ebraismo e a quello
aggiunge la ‘rivelazione’ che il suo fondatore ha recato, coronamento e perfezionamento della ‘prima rivelazione’. Giacché i
cristiani, fin dall’inizio, assumono l’Antico Testamento a cui
affiancano, dopo averne costituito il canone, il Nuovo
Testamento.
La radice essenziale del Cristianesimo è dunque incontestabilmente ebraica, anche se questo fatto non vieta di riconoscere in Cristo il Messia, colui che porta a compimento le promesse di Dio, non in quanto condottiero politico che libera
dalla schiavitù di imperi terreni, ma in quanto sovrano universale e Figlio avente una relazione unica con Dio.
Ora l’ebraismo, da cui scaturisce il giudeo-Cristianesimo,
37
rappresenta un momento centrale dell’identità europea: esso
propone, per esempio, la nozione di creazione o quella dell’assoluta alterità di Dio rispetto al mondo o ancora il principio dello
scarto tra il divenire storico e la realizzazione metastorica del
Regno di Dio; nozioni e principi che il Cristianesimo fa suoi,
nella prospettiva dell’evento Gesù Cristo, che meglio rivela la
realtà di Dio-Padre, di Dio-Amore. E si potrebbe dire che uno
dei motivi della crisi del pensiero cristiano nel tempo moderno
e contemporaneo deriva dall’avere troppo trascurato queste
categorie.
La missione verso i pagani
Il Cristianesimo poi ha un carattere universalistico: religione
dell’unico Dio si afferma come destinata a tutta l’umanità.
L’effusione dello Spirito nel giorno di Pentecoste – senza volere qui affrontare il discorso relativo alla storicità del fatto – apre
la missione alle ‘nazioni’. Ancora dagli Atti degli Apostoli sappiamo che a Gerusalemme la comunità era formata da discepoli palestinesi (i quali parlavano aramaico) e da altre persone
provenienti dalla diaspora guidaica (le quali, pur dimorando
nella città santa, parlavano greco). Un episodio riferito da Luca
(cf. Atti 10, 1 ss.) narra della conversione di una centurione
della coorte italica, Cornelio, un pagano, un “timorato di Dio”,
avvenuta tra Giaffa e Cesarea di Palestina: il che destò meraviglia tra i circoncisi che erano insieme a Pietro, per il fatto che il
dono dello Spirito Santo si fosse effuso sopra gente pagana. A
segno della novità che quel fatto, che è stato definito “piccola
Pentecoste” o “Pentecoste dei gentili”, portava con sé.
È un dato che ben presto il messaggio di Cristo si diffonde
non solo in Palestina, ma anche in Siria – da Antiochia a
Damasco – e poi in Asia Minore, per giungere in Grecia e di là
a Roma. Basti pensare ai viaggi dell’apostolo Paolo e ai paesi
che tocca per evangelizzarli. Queste almeno le notizie storiche
più sicure che si hanno. Non mancano tuttavia tradizioni ben
consolidate che dimostrano quanto fervorosa sia stata l’attività
missionaria ad Occidente della Palestina verso le terre
dell’Egitto o dell’Africa settentrionale e ad Oriente verso la
Mesopotamia e forse verso l’India. In altre parole l’annuncio
cristiano di trova a contatto con altri contesti umani, ed inevitabilmente entra in dialogo con questi.
38
Logos greco e logos cristiano
Il contatto risulta particolarmente intenso con la Grecia e
con Roma. Molto è stato scritto sull’incontro con la civiltà
greca e non è il caso di riprendere il tema nella latitudine dei
suoi elementi. Basterà mettere in luce che l’andare di Paolo
cui, in una visione, appare un macedone che lo invita a dirigersi verso la Grecia e l’Occidente – e non verso l’Oriente – (cf. Atti
16, 9 ss.), facilita l’incontro tra il Logos cristiano, e al suo interno tra la tradizione ebraica (che già attraverso la diaspora
aveva avuto rapporti frequenti con il mondo greco) e il logos
della filosofia.
Per il greco il logos consiste nella facoltà razionale dell’essere umano che può divenire il riflesso di quel Logos che è il
principio intellegibile e armonico del tutto. In tal senso il pensiero dell’uomo è in grado di ricercare e di tentare di comprendere quali siano le leggi che regolano il cosmo e di delineare
quelle che regolano la vita della polis. Lasciatasi alle spalle il
mito, la cultura greca era passata al logos ed il passaggio non
era stato indolore. Proprio per l’incontro con il pensiero greco,
la fede cristiana saprà esprimere se stessa in maniera concettualmente chiara ed elaborata: l’esito di questo cammino è
reso palese dall’opera compiuta dai grandi concili, da Nicea a
Calcedonia, che si valgono di categorie diverse da quelle originarie delle Scritture, per fare intendere il messaggio a un
mondo che non è quello giudaico.
Ma l’influsso della civiltà greca si estende a molti campi. Si
pensi al riconoscimento del sistema della paideia classica che
ha origine in Grecia (per parecchi secoli la Chiesa non istituisce
proprie scuole, ma si vale di quelle esistenti che conservavano
un’impostazione pagana3), o all’assunzione dell’insegnamento
retorico, essenziale per comunicare efficacemente il messaggio rivelato.
Per parte sua il pensiero cristiano pone in luce qualcosa
che fino ad allora non era stato mai espresso. Il prologo del
Vangelo di Giovanni riconosce nel Logos, nel Verbo, il Figlio di
Dio, mettendone in evidenza la preesistenza eterna, il suo
essere presso o in Dio, il distinguersi da Colui presso cui si
trova. Qui si vede la distanza tra la concezione filosofica antica
e la concezione giovannea, ma non la loro opposizione.
Cristo infatti è identificato con la ‘ragione totale’, con la
‘ragione disseminata nel mondo’, come dice l’apologeta
Giustino poco dopo la metà del II secolo d.C. Non per nulla egli
riconosce nel Cristianesimo la vera philosophia, la filosofia perfetta (da intendere non solo come disciplina da esercitare a
39
livello teoretico, ma anche come disciplina che illumina, a livello della prassi, il vivere e il morire dell’uomo). In forma più matura e approfondita Clemente di Alessandria e Origene parleranno di ‘razionalità della fede’. E più ancora : il Logos che si incarna è, sì, il Dio della ragione, ma non meno è il Dio dell’amore.
“La via della ragione è la stessa che la via dell’amore”4.
Comincia in questo modo a definirsi l’identità cristiana grazie al
contributo del logos greco.
Circa un secolo fa alcuni studiosi hanno affermato che l’incontro tra le due culture aveva portato ad una ellenizzazione
del Cristianesimo, altri hanno scorto nel Cristianesimo, a
cominciare dalla metà del III secolo, una religione perfettamente costituita come la religione sincretistica per eccellenza. E
l’hanno accostata alla religione neoplatonica (congiunta al
culto solare) e al manicheismo5. Considerazioni poi smentite
dal procedere degli studi.
La civiltà romana
Un secondo incontro, non meno importante del primo,
avviene per l’universo della Chiesa e delle Chiese antiche con
il mondo romano; di solito si parla dell’incontro con il diritto
romano, invocando le espressioni di Polibio, scrittore greco,
che aveva individuata la causa del permanere di un governo
duraturo come quello romano nel fatto di possedere Roma istituzioni giuridicamente salde e sapientemente organizzate.
Certamente il lascito maggiore di Roma alla cultura europea è costituito dallo ius romano. Ma in vero l’eredità classica
romana si estende ben oltre il recepimento della lex naturalis,
dello ius gentium o dello ius civile e la codificazione di norme
etiche e canoniche, tra l’altro, diversamente mutuate in
Occidente e in Oriente. Per non fare che pochi esempi, ci si
rammenti degli influssi che hanno avuto movimenti come quello stoico, nel dominio filosofico, opere come quelle di Virgilio
nel dominio letterario, o sistemi civili come quello dell’organizzazione politica di Roma, in parte assunto dalla Chiesa, adattato alle proprie esigenze. E ancora non si dimentichi l’influenza esercitata dalla civiltà romana per quanto riguarda, per rammentare un altro caso, l’architettura: il modello della basilica e
della sua trasposizione e trasformazione in ambito cristiano è
certamente significativo. Negativamente, ci si ricordi di ciò che
ha rappresentato dalla fine del IV secolo l’intervento delle autorità civili, anche tramite il braccio secolare, in questioni religiose, o, nell’ambito della spiritualità, il ridursi della carica escato40
logica del messaggio per l’invadenza delle cose mondane.
Particolarmente rilevante è il rapporto con la res publica romana. Ben presto infatti le comunità dei credenti si organizzano
istituzionalmente. Le cose ultime, gli eschata, non sono più
attese come imminenti. Con Costantino comincia la ‘cristianizzazione’ dell’Impero; l’imperatore stesso si induce a considerare l’unità dottrinale della Chiesa come fattore di ordine pubblico; perciò egli emana leggi per condannare quanti rifiutano o
si allontanano dall’ortodossia della fede cristiana: L’intreccio tra
Cristianesimo e civitas terrena si fa, talvolta, a motivo di certi
personaggi politici o ecclesiastici, troppo stretto e problematico. Di qui lo scaturire dei ripetuti conflitti tra religione e politica
che già presenti in età tardo antica, si moltiplicano nel
Medioevo fino ad esplodere in tempi successivi.
La distinzione prima e la divisione poi
tra Oriente e Occidente
Per tornare a noi, vi è dunque un nucleo, quello costituito
dall’ebraismo, dal quale il Cristianesimo nasce, e vi sono almeno due civiltà, quella greca e quella romana, con cui esso si
confronta per il fatto che in modo non esclusivo, ma prevalente, si propaga nel loro ambito geografico e culturale.
Nel IV-V secolo due fatti, destinati a recare molte conseguenze nella storia dell’Europa prendono corpo; il primo concerne la divisione tra l’Oriente e l’Occidente cristiano; il secondo riguarda le invasioni dei popoli del Nord e dell’Est verso il
Sud e l’Ovest del continente.
Quando nel 395 Teodosio muore, dispone che l’Impero sia
diviso tra i suoi due figli, Onorio diviene Augusto d’Occidente,
Arcadio Augusto d’Oriente. Altre volte nel corso del IV secolo
parti dell’immenso organismo romano si erano trovate ad
obbedire a diversi imperatori, ma sempre avevano ritrovato l’unità. Non così questa volta: le due parti si ritrovano non solo
distinte, ma tendono a separarsi e anche in seguito non partecipano più ad un’unità reale se non in forme caduce e per
brevi momenti. Comincia un raffronto più profondo che qualche volta è scambio e qualche volta si muta in conflitto, essendovi alla base dei due corpi ecclesiastici e sociali concezioni
etico-politiche diverse. Non vi è dubbio tuttavia che la fede cristiana, nel suo cuore più vero, risulta essere sui due versanti
patrimonio comune, anche quando, più tardi ai bizantini seguiranno gli slavi.
Da un lato si costituisce l’Oriente greco-bizantino e dall’al41
tra l’Occidente latino. Motivi geografici, storici, linguistici, culturali, e pure spirituali provocano una differenza che con il tempo
andrà aumentando. Due città, con diversi destini, sono il punto
di riferimento di due mondi: Roma e Costantinopoli. La prima
diventa ben presto sede del papato romano, la seconda, fondata da Costantino nella terza decade del IV secolo, diventa la
capitale politica dell’Impero che si definisce romano d’Oriente.
Roma subisce un tracollo già con il 410 allorché Alarico,
dopo pochi giorni di assedio, penetra nella città, che per la
prima volta è in mano a un nemico, e con il 476 vede la scomparsa dell’istituto imperiale, la deposizione di Romolo
“Augustolo” e l’acclamazione di Odoacre quale re, figlio di un
generale di Attila, appartenente a una popolazione di stirpe
germanica, stanziata originariamente in prossimità del Ponto
Eusino. Costantinopoli al contrario, continua a vivere una
splendida sorte. Gli imperatori, tra i quali si annovera una figura come quella di Giustiniano (527-565), si avvicendano regolarmente per un millennio, fino al 1453 quando la città sarà piegata dalla potenza islamica, con l’impresa di Maometto II, che
metterà fine all’Impero romano d’Oriente.
L’Oriente ha una tradizione ecclesiastica che comporta una
pluralità di espressioni e di realtà – in seguito l’autocefalia ne
sarà una riprova –, ha una visione teologica che privilegia lo
Spirito Santo, che esalta la dimensione dossologica, se non
apofatica, ispirandosi ai Padri cappadoci per giungere agli esicasti, rende evidente il Cristo, ma il Cristo Risorto, reso presente dallo Spirito.
L’Occidente si concentra di più sulla figura di Cristo, dal
Cristo glorioso del Sacro Romano Impero al Cristo sofferente
del Medioevo, pone attenzione alla lex Christi, in grado di rendere la ‘città’ cristiana una, mette al centro il Papa come ‘vicario’ di Cristo, predilige il valore della razionalità concettuale nell’esercizio dell’attività teologica. Anche nei rapporti tra potere
politico e potere religioso in Occidente sembra che Cristo si
incarni nel sacerdote, in Oriente nell’imperatore. Donde l’impronta unitaria, petrina che riflette la Chiesa occidentale di fronte all’impronta giovannea propria dell’orientale. È un fatto che,
dalla dottrina alle istituzioni ecclesiastiche, dalla lingua alla liturgia, dalla pietà popolare all’ideale monastico alla spiritualità, le
due parti conducono cammini che si distinguono nettamente.
In breve, se si volesse indicare la tendenza dell’Oriente nei
primi mille anni della nostra era si potrebbe dire che, all’interno
del fenomeno cristiano, l’Oriente è meglio rappresentato dalla
ricerca e dalla realizzazione di forme sempre nuove di pluralità,
mentre l’Occidente ha incarnato nell’ambito dell’istituzione
42
ecclesiastica (ma non in altri ambiti) l’unità. Dall’una e dall’altra
tendenza sono scaturite nel corso del tempo molteplici conseguenze positive e negative. A distanza di tanti secoli, si comincia ad avvertire ora che le due tradizioni non sono tra loro in
opposizione, ma piuttosto risultano complementari e che il loro
lascito, se vissuto nelle distinzioni delle identità a partire dall’unità, è in grado di portare molti frutti non solo alle comunità cristiane, ma alla stessa comunità umana. È in ogni modo fuori di
dubbio che l’Europa ha da essere costituita e dall’Occidente e
dall’Oriente, nelle loro molteplici espressioni, se vuole rispondere alla sua vocazione storica.
Le invasioni dei popoli del Nord e dell’Est europeo
La diversità di cui si diceva è favorita anche da una situazione esterna alle Chiese: mi riferisco alle invasioni dei popoli
del Nord e dell’Est nel Sud e nell’Ovest del continente europeo.
Il fenomeno era iniziato prima del IV secolo, ma in quel tempo
esso si era intensificato enormemente. Già alla fine del II secolo i romani, al tempo Commodo, avevano dovuto fronteggiare
nella Dacia i vandali e i goti, tribù originarie della Scandinavia
che si erano spostate in direzione Sud-Est. Di fronte alla nuova
situazione si erano fatte luce in Roma due tendenze: la prima si
proponeva di combattere le popolazioni che si affacciavano ai
confini per respingerli e, se possibile, annientarli. Un progetto
che tuttavia appariva di difficile attuazione dato lo smisurato
impegno dell’esercito romano stanziato lungo un limes di
migliaia di chilometri, data la crisi che cominciava ad attanagliare la res publica e le lotte intestine dei suoi capi che si contendevano il potere.
La seconda tendenza, più realisticamente si prefiggeva di
concludere con i “barbari” trattati. Caracalla all’inizio del III
secolo, dinanzi alla pressione minacciosa dei goti, ne acquista
la “benevolenza” con somme di denaro da pagarsi in monete
d’oro; in cambio i goti si impegnano a fornir un contingente di
truppe da impiegare a fianco dei romani in operazioni belliche.
Tale operazione si ripeterà molte volte in quei tempi e non
poche tribù barbariche diverranno “federate” dei romani, che
daranno loro, senza diritto di sovranità, le terre e che richiederanno contingenti militari. Nel IV secolo altre popolazioni vengono alla ribalta e spesso, premendo su quelle già stanziate
entro i confini dell’Impero, le spingono oltre.
È certo che la romanità non può fare a meno di confrontarsi
con la nuova situazione e lo fa con difficoltà e con fatica.
43
Occorrerebbe qui richiamare l’opera di molti vescovi e di papi
(da Avito di Vienne a Remigio di Reims, da Cesario di Arles a
Leandro e Isidoro di Siviglia a Gregorio Magno) per comprendere i motivi che inducono re e popoli nuovi a convertirsi da
pagani o da ariani a cristiani cattolici.
Nella rapida sintesi che si sta delineando, la cultura germanica e la cultura celtica hanno larga parte in un “tessuto” originario nel quale la Chiesa di Roma diviene punto di riferimento
essenziale, dando forma, con le grandi figure che la animano,
a una nuova civiltà. In un processo che dura secoli si passa dal
Tardo antico al Medioevo che, mantenendo lo spirito universalistico proprio del Cristianesimo, si presenta come un’unità –
eppur composta da una miriade di popoli – sia a livello di valori civili che a livello di modelli istituzionali pubblici e privati.
Ma il movimento è più complesso. Come è stato scritto, «i
nuovi poteri politici, le rinnovate tensioni ideologiche e le forze
economico-sociali prodottesi nelle società romano-germaniche, danno vita e tentano la conciliazione di due opposti principi di organizzazione della società: il massimo di universalismo
in campo ideologico, con l’affermazione del nuovo potere
imperiale strettamente connesso con quello ecclesiastico; ed il
massimo di autarchia in campo materiale, con l’organizzazione
feudale, le strutture politico amministrative e il tentativo di promuovere la diffusione generalizzata della cosiddetta economia
curtense»6. È il modello plasmato e realizzato da Carlo Magno
che intende riunificare l’Occidente sotto il principio cristiano,
secondo un modello ormai del tutto estraneo all’Impero romano d’Oriente, modello da cui nasce l’Europa moderna che si
ispira ad un principio unitario, nella varietà delle sue espressioni e delle sue manifestazioni. Non si può dimenticare infatti che
esso accoglie pure quell’aspirazione all’infinito recata dallo spirito dei popoli germanici che si esprime, come è stato detto,
“religiosamente nel carattere della mitologia nordica e storicamente nelle incessanti migrazioni e spedizioni militari dei germani” appunto7.
L’Islam in Europa
Mentre maturano i fatti cui abbiamo fatto cenno, nel VII
secolo ha luogo un evento di grande rilievo per l’area mediterranea ed sudeuropea. Nel 631 Maometto, un anno prima di
morire, entra vittorioso a Mecca e pone le premesse per l’unificazione della penisola arabica. La storiografia mussulmana
vuole che il suo successore Abu Bakr mandi quattro emiri
44
verso i quattro punti cardinali. Nel 636 l’Islam si affaccia sulle
rive mediterranee. Già nel 630 l’imperatore cristiano d’Oriente,
Eraclio, aveva ricevuto una lettera di Maometto che lo invitava
a sottomettersi e ad accogliere l’islam e qualche tempo dopo
tenta di trovare uno sbocco anche nell’Europa meridionale
ispanica. Per le difficoltà in cui si dibattono i Visigoti, con una
certa facilità penetra nella penisola iberica e poi giunge più a
Nord fino a Tour e a Poitiers. Nel 732 i franchi arrestano l’attacco degli arabi. Che tuttavia nei tempi successivi non cessano di minacciare l’Europa meridionale. Nel IX secolo si impossessano della Sicilia, dove il loro dominio rimane fino ai tempi
dei Normanni, prendono Malta e, a Bari, per tre decenni,
dall’841 all’871, stabiliscono un emirato.
Non vi è dubbio che la presenza dei arabi in Spagna e in Italia
ha lasciato tracce in molti campi – e altre non meno profonde ne
lascia nei secoli successivi specialmente nel Sud-Est europeo
dove fino all’inizio del XX secolo dominerà l’Impero ottomano. Se
nel 1453 Costantinopoli, l’ultimo lembo del contenente europeo
è nelle mani di Mehmed II, capo dei Turchi ottomani, nel 1526 il
regno di Ungheria è rovesciato dai mussulmani, che poi cingono
d’assedio Vienna e solo dopo il 1683, cioè dopo il secondo
assedio della città e dopo i trattati di pace di Karlowitz, la potenza ottomana cominciare lentamente a declinare.
Alla fine del primo millennio e all’inizio del secondo si colgono influssi islamici nell’architettura, nell’arte, nella letteratura.
Proprio il campo artistico mette in luce un carattere specifico
dell’islam (anche se bisogna osservare che la rilevanza della
cultura araba in Europa ha luogo per un periodo relativamente
breve, non prolungandosi oltre il XIV secolo). L’arte mussulmana si traduce in moduli unificati, almeno in apparenza, ai quali
testimonia fedeltà sia nel tempo che nello spazio: l’unità è ciò
che la distingue. Mentre l’arte cristiana è segnata dalla diversità: le espressioni artistiche bizantine, carolingie, romaniche,
gotiche, che scandiscono le tappe della storia della cristianità,
non solo sono differenti le une dalle altre, ma danno luogo a stili
regionali diversi8. Ancora una volta emerge l’anima variegata e
mossa dell’Europa, in special modo dell’Europa occidentale.
Ed a proposito dell’architettura – ma l’osservazione vale non
meno per la pittura, la scultura, la musica –, ci si può chiedere
che cosa sarebbe ciascuna di queste discipline se fosse
depauperata dei lasciti, delle realizzazioni, degli esiti che il
Cristianesimo ha ispirato attraverso le età fino al presente.
Forse non sono anche queste le radici che danno l’identità
all’Europa di oggi? Certo non sono le uniche, e lo si è visto, ma
sono le prevalenti e in ogni maniera non ignorabili.
45
L’evangelizzazione dell’Est europeo
L’opera di evangelizzazione, cui si è accennato, attuata
nell’Occidente, in relazione ai popoli dell’Est e del Nord migrati verso l’Ovest e il Sud e che ha il proprio centro in Roma, trova
in certo modo la propria corrispondenza nel grandioso movimento che, partendo da Costantinopoli, si rivolge ai popoli balcanici e slavi. Già nel IV secolo, partendo appunto dalla capitale sul Bosforo, Ulfila, di confessione ariana, opera numerose
conversioni tra i goti a Nord del Danubio e dà la prima traduzione in gotico antico del Nuovo Testamento (e giusto tramite
le prolungate ed estese incursioni dei goti nei paesi europei si
diffonde la fede ariana).
Più tardi, nel secolo IX i fratelli Cirillo e Metodio, originari di
Tessalonica ed educati a Costantinopoli, svolgono una missione religiosa e forse anche canonica presso i Chazary, per poi
recarsi, inviati dall’imperatore romano d’Oriente Michele III nella
Grande Moravia, ove evangelizzano gli Slavi, traducendo in
paleo-slavo la Bibbia e le formule della liturgia greca. Nel frattempo altre popolazioni dell’Est europeo conoscono il messaggio di Cristo: gli sloveni e i croati tra il VII e l’VIII secolo; i bulgari dalla metà del IX, al tempo del principe Boris I; gli slovacchi nel medesimo periodo. Si aprono in tal modo alla predicazione della Chiesa terre non comprese nei confini dell’Impero
romano, ma pur sempre europee. Verso la fine del X secolo
Vladimir accoglie il Cristianesimo nelle terre della Rus’. In
Ungheria la missione ha inizio sotto il principe Geza e vede
all’alba del Millle la conversione di Stefano.
La Polonia è raggiunta dall’annuncio cristiano durante la
dinastia dei Piasti. Imponente è dunque il movimento di cristianizzazione dal quale tutta l’Europa è interessata in quei secoli.
Così il Cristianesimo diviene anche per le terre slave il tessuto
connettivo della civiltà europea entro cui si formano le varie
nazioni come le differenti spiritualità.
Intanto era accaduta la rottura tra la Chiesa di Roma e la
Chiesa di Costantinopoli del 1054. L’avevano provocato cause
politiche (il primato di ciascuna delle due sedi), ecclesiastiche
(la diversa posizione delle due Chiese di fronte alle autorità civili), dottrinali (la questione del Filioque nel Simbolo di Nicea ne è
un segno, tra altri). La cesura fu netta, anche se altre Chiese,
la georgiana, per esempio, la minimizzò, scorgendosi solamente lo scontro tra i personaggi interessati.
46
La sintesi medievale in Occidente
Già preparato da secoli precedenti e perfezionato nei successivi, in quell’età ha vigore nell’Occidente latino un tempo
grandiosamente unitario; l’uomo crede alla rivelazione; essa lo
rende sicuro di una realtà divina superiore al mondo. Punto di
riferimento sono le auctoritates che si incarnano nei vari campi
e che sono tutte ispirate dalle auctoritates religiose. A differenza dell’uomo antico che non oltrepassa i limiti del mondo e non
conosce nessun punto esterno al mondo stesso, l’uomo
medievale prende distanza da esso, stabilisce una base fino ad
allora ignota dell’esistenza, che non deduce né dall’elemento
mitico né dal pensiero filosofico.
È l’epoca delle grandi cattedrali gotiche che vogliono essere una biblia pauperum, per tutti, anche per gli analfabeti (quelle cattedrali che ancora oggi nobilitano molte città), è l’epoca
dei grandi monasteri, che dicono della fioritura del monachesimo; è l’epoca delle scuole eccclesiastiche e delle Universitates
studiorum, che tendono ad armonizzare e ad organizzare il
sapere gerarchicamente ed a far coesistere l’universalismo cristiano con le identità culturali localistiche molteplici e diverse.
All’esterno si alternano le Crociate contro i mussulmani per
la liberazione della Terra Santa, che non conseguono risultati
durevoli e che, come si sa, nel XIII secolo costituiscono motivo
di più profondo dissidio anche con i cristiani d’Oriente.
Ma la sintesi medievale presenta pure punti deboli. Da una
parte il contrasto ripetuto tra imperium e sacerdotium, che si
manifesta in forme ora di cesaropapismo ora di teocrazia, per
cui la società risulta essere rigidamente piramidale tanto da
soffocare quelle espressioni di uguaglianza e di libertà sempre
più frequenti. D’altra parte la funzione del profano è ridotta al
servizio del sacro; la teologia fa sì che ogni altra scienza divenga sua ancella; non si rispetta lo statuto specifico della realtà
con cui si ha a che fare, la legge intrinseca a ciascuna di esse,
che pure sono opera creata da Dio9.
L’età moderna
Di qui, e non solo di qui, nascerà una reazione che si profilerà chiara nell’età del Rinascimento: essa da un lato favorirà
la secolarizzazione del potere politico e dall’altro promuoverà
l’autonomia di ogni disciplina professata. Del resto un tale
movimento era cominciato in precedenza, quando si era allargato il campo delle libertates, richieste da un numero crescente di persone, quando nel XII secolo erano nati i Comuni, men47
tre si affermavano sempre più le potenti monarchie europee,
che approfittavano del frantumarsi dei poteri signorili e feudali
per allargare la propria autorità e potenza.
Pertanto già partire dai secoli XII-XIII avvengono mutamenti sociali, culturali, economici, religiosi e spirituali di grande rilievo. Anche per il convergere di cause esteriori: carestie, epidemie, guerre, le campagne si spopolano, l’attività manufatturiera ha un tracollo, i commerci rallentano. I Comuni, con il loro
ordinamento democratico, lasciano il posto a Signorie,
Principati o tirannie, almeno in Italia, mentre le monarchie
trans-alpine resistono nella loro struttura e cominciano a plasmare le forme dello stato moderno. Le rivolte dei ceti più
poveri falliscono.
Nel secoli XIV e XV si disegna in maniera sempre più netta
la moderna rappresentazione del mondo. Progressivamente e
lentamente si vengono precisando modi differenti di guardare
alla realtà (che qui si indicano in modo sommario). La sete di
conoscere si volge direttamente alle cose e non bada più alle
fonti che hanno autorità. Si vuole toccare con mano, vagliare
con l’intelligenza, formulare un giudizio critico. A poco a poco
le scienze naturali acquistano un dominio autonomo nel campo
culturale, rivendicando la propria indipendenza di fronte all’elemento religioso. Anche nel campo economico il desiderio di
guadagno diviene più libero e sviluppa l’impresa economica
che ha base e impulso nel credito: l’interdizione canonica del
prestito è gradualmente eliminata. Iniziano a delinearsi i prodromi del sistema capitalistico. La politica appare sempre più
come avente norme proprie non solo di fatto, ma anche in linea
di principio. L’invenzione della stampa a caratteri mobili da
parte di Gutemberg rivoluziona la società, rappresentando il
primo passo significativo nell’accelerazione dei rapporti tra gli
uomini, la cultura antica, classica e cristiana, diminuisce di
importanza10. La terra si fa più grande: l’impresa di Cristoforo
Colombo, che scopre l’America, rivela una dimensione antropologica e mentale fino ad allora sconosciuta: si avverte la possibilità di percorrere terre e mari, si subisce il fascino del nuovo
che si esplora per scoprirlo e conquistarlo. Pure le concezioni
cosmologiche mutano, l’immagine tolemaica lascia il posto alla
scoperta e alle elaborazioni copernicane. L’uomo si sente più
solo, più piccolo in un cosmo che non è più concepito come
un qualcosa di armonioso, di finito, oggetto di contemplazione
religiosa. Forse anche per questo afferma con prepotenza la
propria personalità e tutto fa dipendere da sé. Sono poste le
premesse a che nasca l’uomo padrone del mondo che intraprende a costruire la vita come opera propria11.
48
Ciò che succede successivamente ci è più familiare. La
riforma protestante e i movimenti ad essa collegati si estendono rapidamente soprattutto in Svizzera, in Germania e nella
Scandinavia, mentre nello stesso periodo in Scozia e in
Inghilterra si afferma l’anglicanesimo: è la rivolta contro la
Chiesa di Roma considerata corrotta e centralizzatrice; è una
grave ferita all’unità della Chiesa che nasce nel seno stesso
della cristianità. A questo grandioso fenomeno corrisponde la
risposta della cattolicità con il movimento della cosiddetta
Controriforma o Riforma cattolica. Indubbiamente un conflitto
tanto grave, consumatosi intra moenia, apre la strada ad altri
esiti: molti non si esimono dal condividere uno spirito scettico
o a formulare una critica radicale alla Rivelazione ed a ogni tipo
di costruzione teologica. Si diffonde il teismo, vale a dire una
religione ridotta a pochi principi generali e fondata sulla ragione; si fa più vigoroso l’ateismo che propone una visione materialistica e sostiene non esservi motivo per ricorrere all’ipotesi
di un Dio per “leggere” la realtà dell’uomo e del mondo.
Il XVIII è il secolo dei “lumi”, della ragione che combatte
apertamente la Chiesa e critica ogni espressione religiosa; è
l’età del dispotismo illuminato, ma anche dell’assolutismo che
si chiude con la Rivoluzione francese, spazza la monarchia in
Francia, stabilisce la Repubblica Giacobina e il terrore fino all’ascesa di Napoleone, al suo trionfo in Europa, alla sua sconfita
ed alla sua abdicazione. Non sfugge che proprio la Rivoluzione
francese riassumendo in tre parole – libertà, uguaglianza, fraternità – le proprie idealità e il grande progetto politico della
modernità, richiama valori espressi dal Cristianesimo, indubbiamente in un quadro di riferimento differente, fin dal suo sorgere; valori che lo stesso mondo moderno ha sviluppato in
modo asimmetrico, direi discendente, molto tenendo alla
libertà (ma non di tutti gli uomini), meno all’uguaglianza e meno
ancora alla fraternità.
Il XIX secolo assiste ad un’altra grandiosa trasformazione:
“Nessuna rivoluzione è stata così drammaticamente rivoluzionaria come la rivoluzione industriale, salvo forse la rivoluzione
neolitica (…). (Quest’ultima) trasformò l’umanità da un insieme
slegato di selvagge bande di cacciatori (…) in un insieme di più
o meno interdipendenti società agricole. La rivoluzione industriale trasformò l’uomo da agricoltore-pastore in manipolatore
di macchine azionate da energia inanimata»12 (e oggi, o meglio,
ormai ieri, si è parlato di una terza rivoluzione in atto, quella
legata all’informatica).
Con la rivoluzione industriale che si diffonde nell’Europa
continentale, a seguito della prima esperienza inglese, nasce il
49
capitalismo maturo, che trova nel liberalismo la propria espressione politica, la quale tende a realizzare la libertà. E ugualmente si forma la classe operaia. Su questo terreno sorgono
dapprima il socialismo utopico, poi quello scientifico che si propone di attuare l’uguaglianza.
Il materialismo storico ed il materialismo dialettico aprono
una nuova via di critica radicale alla religione, ossia al cristianeismo, e un nuovo cammino verso l’ateismo. Con il 1917 e la
rivoluzione d’ottobre si instaura in Russia il regime sovietico
che ufficialmente fa dell’ateismo una delle basi sulle quali si
regge lo stato.
Nel frattempo rivalità economiche e nazionalismi innescano
la prima guerra mondiale (1914-1918) che produce una enorme carneficina e che porta nel tormentato dopoguerra ai regimi dittatoriali del fascismo in Italia e del nazismo in Germania.
In particolare l’ideologia nazista elimina ogni principio giudaico
e cristiano, per fare trionfare il mito della superiorità della razza
ariana. La seconda guerra mondiale (1939-1945) vede opposte l’Italia e la Germania, con il Giappone, alle nazioni in cui vige
la democrazia. Si scatena una guerra particolarmente spietata
che colpisce anche in maniera pesante la popolazione civile.
L’intervento degli Stati Uniti la conclude favorevolmente per le
nazioni democratiche, al prezzo, tra l’altro, dell’impiego della
bomba atomica che distrugge due città giapponesi nel 1945.
Il dopoguerra vede la spartizione del mondo in due zone
determinate tra l’URSS e gli stati democratici. All’opposizione
frontale del Cristianesimo, operata dall’ateismo sovietico, si
contrappone in Occidente un crescente consumismo, non
meno deleterio per la fede cristiana. Ha inizio un altro tipo di
guerra, la “guerra fredda”, che ha termine nel 1989 con la
“caduta del muro” di Berlino e il crollo del comunismo in URSS,
episodi su cui hanno influito anche la Ostpolitik del Vaticano e
l’azione religiosa di Giovanni Paolo II.
Proprio nei momenti di maggiore tensione tra Est e Ovest,
l’elezione al soglio pontificio di Giovanni XXIII porta un soffio di
aria rinnovata nel cattolicesimo e nel mondo: l’indizione e il
primo svolgimento del Concilio Vaticano II, l’opera diplomatica
del Papa e la sua enciclica Pacem in terris danno un nuovo
respiro alla Chiesa. Si intensifica e si sviluppa con alterne vicende il dialogo ecumenico tra le Chiese cristiane. Gli anni postconciliari sono di nuovo difficili. La convizione di molti, intorno
al movimento del 1968, che la religione cristiana stia ormai
estinguendosi sotto i colpi di maglio della secolarizzazione e del
secolarismo è smentita dalla realtà dei fatti. Tra l’altro, lo dimostra a sufficienza il vigore che prendono negli ultimi decenni i
50
movimenti ecclesiali che Giovanni Paolo II riconosce come
appartenenti all’ordine del carisma, distinto, ma certo non contrapposto all’ordine dell’istituzione, oggi esistenti nella Chiesa
cattolica e in una più ampia costellazione di altre confessioni
cristiane. Siamo così giunti ai nostri giorni.
Per concludere
Vorrei terminare questa ormai lunga disamina con tre brevi
osservazioni. La prima. Troppo spesso nelle storie nazionali o
europee è trascurato un argomento che dal punto di vista
sociale – non solo religioso – ha avuto un rilievo notevole: quello concernente l’opera di personaggi che nel loro operare
verso la società si sono espressamente richiamati ai principi
cristiani ed hanno realizzato nei vari campi grandi opere. Penso
a figure nel tempo antico come quelle cui si è fatto cenno, da
Cesario d’Arles a Isidoro di Siviglia, da Metodio e Cirillo a
Gregorio Magno; penso a Benedetto da Norcia, Francesco di
Assisi, Domenico di Guzman, o ancora a Caterina da Siena,
Brigida di Svezia, Ignazio di Loyola; o in epoche a noi più vicine penso a Federico Ozanam, Giovanni Bosco, Benedetto
Cottolengo; e ancora a Edith Stein, che muore in un campo di
concentramento nazista perché ebrea, ma come monaca cristiana, Robert Schuman, Alcide De Gasperi, Giorgio La Pira,
Madre Teresa. Per ciascuna delle figure menzionate, alle quali
non sarebbe difficile aggiungerne altre, si potrebbero con facilità discernere i frutti delle azioni civili o sociali o politiche da loro
compiute a beneficio delle comunità o degli ambiti in cui sono
vissute. Esse hanno attuato in concreto quei valori che la civiltà
europea ieri come oggi condivide, spesso iniziando profeticamente, voglio dire anticipando, opere ritenute in tempi successivi indispensabili per una più degna convivenza. E lo hanno
fatto per la fedeltà al messaggio di Cristo, traducendo loro
interventi in opere di civiltà.
La seconda osservazione vuole sottolineare che nei due
millenni della nostra storia non si è potuto fare a meno di confrontarsi o di scontrarsi con il Cristianesimo, spesso in tensione dialettica, che ha non di meno fatto nascere apporti originali. Sul piano del giudizio storico il Cristianesimo e l’ebraismo,
dopo essere entrati in contatto con le civiltà greca e romana e
con il mondo germanico prima e slavo poi, si sono posti nell’ambito dell’Europa come elemento di riferimento non eliminabile e senza dubbio hanno costituito le radici, nel senso corrente del termine, ma anche l’humus da cui è nata e si è svi51
luppata la civiltà europea. I valori laici, a cominciare da quelli
promossi dalla modernità, altro non sono che valori cristiani
secolarizzati, per cui la stessa identità dell’Europa laica diviene
incomprensibile se si disconosce o si passa sotto silenzio questo dato di fatto; in altre parole significa ignorare o fingere di
ignorare la nostra storia, fino ad oggi. Come ha bene osservato T.S. Eliot: «Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto
produrre un Voltaire o un Nietzsche. Non credo che la cultura
dell’Europa potrebbe sopravvivere alla sparizione completa
della fede cristiana. E ne sono convinto non solamente come
cristiano, ma come esperto di biologia sociale. Se il
Cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura»13.
La terza osservazione riguarda la responsabilità delle cristianità e del Cristianesimo nei confronti di quella che può definirsi la ‘modernità’ (in senso largo, perché comincia nel
Medioevo), che è tempo non solo di profonde trasformazioni,
ma anche e soprattutto di crisi. Sarebbe necessario fare un
lungo discorso (ma qui ci si ridurrà a dare qualche brevissima
nota) che riguarda la storia del pensiero e la storia della prassi,
ossia dell’agire concreto dei cristiani europei attraverso i secoli. Una storia che condurrebbe a un esame di coscienza e ad
un riconoscimento di limiti e di errori. Occorre prendere le
mosse dall’epoca patristica, dal tempo in cui, poco dopo l’inizio del IV secolo, appare quell’intreccio tra religione cristiana e
politica per cui l’unità dottrinale della prima – all’interno di una
concezione monoteistica – diviene agli occhi dell’imperatore
un’esigenza di ordine pubblico cui l’imperatore stesso provvede, “indicendo concili e usando della sua legislazione per condannare eretici e apostati a tutela dell’ortodossia”; un intreccio
che andrà nel corso dei secoli mutando forme e che vedrà
paradossalmente, in una sorta di eterogenesi dei fini, proclamare e attuare la regola: cuius regio et eius religio, all’alba dei
tempi moderni. Certamente “l’annodamento di religione e politica ha ingenerato conflitti che sono stati sedati faticosamente
e dolorosamente solo al compimento di processi di secolarizzazione”14. È il nodo costituito dal rapporto tra verità e libertà,
alla cui soluzione il Concilio Vaticano II si è posto come tappa
grandemente significativa.
Se ci si chiede perché ciò sia avvenuto, è forse opportuno
risalire a certe categorie interne, teologiche del pensiero cristiano, che hanno fortemente influenzato anche l’ordine dell’azione. È vero che dopo Cristo, il vertice del cammino cui approda il pensiero non è più l’Assoluto. “La riflessione cristiana si è
trovata ‘gettata’ in un nodo teoretico assai difficile: pensare un
Assoluto Trino, un Uno-molteplice (se così si può dire), senza
52
che nessuno dei due termini sia in contraddizione con l’altro o
lo cancelli o lo riduca a sé con una dialettica che di fatto nega
la realtà di uno dei due (...). Il pensiero cristiano, seguendo
Cristo, dirà: L’Uno, siamo. «Io e il Padre siamo uno» (Giovanni
10, 30). È questo mistero che sfida e angoscia ed esalta il pensiero dell’Occidente. La risposta è aperta proprio nell’abbandono del Cristo, dove la Natura divina è rivelata, ‘al di là’
dell’Essere, Amore. E poiché la Natura divina è Amore, essa si
apre in una Trinità di soggetti”15. Ora la tradizione cristiana antica ha affrontato questo arduo tema, i grandi concili lo hanno
definito, formulando il Simbolo trinitario. Ma, così a me sembra
di potere dire, i guadagni compiuti dai Padri e dai pensatori
successivi in relazione alle concezioni cristologiche e trinitarie,
non si sono calate a sufficienza in linee antropologiche capaci
di dare forza a nuovi stili di vita a livello sociale e personale.
Anche di qui sono derivate le tensioni non risolte – cui si faceva cenno in precedenza – che hanno preso corpo fin dal Tardo
antico, per trasmettersi poi al Medioevo e esplodere in età
moderna. Si consideri la rilevanza che una concezione dell’Uno
Assoluto (e non dell’Uno-Trino) ha avuto lungo i secoli nei confronti del potere e di chi lo deteneva.
Allora si comprende il motivo per cui Giovanni Paolo II
abbia detto, nell’ottobre del 1982 durante il V simposio dei
Vescovi europei: «Le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi
della cultura cristiana. Ancor più profondamente possiamo
affermare che queste prove non solo interpellano il
Cristianesimo e la Chiesa dal di fuori come una difficoltà o un
ostacolo esterno (...), ma in un certo senso vero sono interiori
al Cristianesimo e alla Chiesa. Scopriamo forse non senza
meraviglia che le crisi e le tentazioni dell’uomo europeo e
dell’Europa sono crisi e tentazioni del Cristianesimo e della
Chiesa in Europa. In questa luce il Cristianesimo può scoprire
nell’avventura dello spirito europeo le tentazioni e i rischi che
sono propri dell’uomo nel suo rapporto essenziale con Dio in
Cristo». E ugualmente si comprende il motivo per cui Giovanni
Paolo II abbia chiesto ripetutamente perdono per i mali commessi nel passato dai cristiani.
Se è vero ciò che si è qui appena sfiorato, non si può negare che, anche per questo, il Cristianesimo sia stato e sia punto
irrinunciabile di riferimento per il nostro continente (e più
ampiamente per l’Occidente). Donde la conclusione che solo
non smarrendo la propria memoria, la quale racchiude elementi positivi insieme ad altri negativi, l’Europa può guardare
con fiducia al futuro, riconoscendo in pari tempo il valore delle
53
diversità, che formano la sua immensa e irripetibile ricchezza, e
il bene ancora più straordinario della sua unità, che sta con fatica costruendo o, se si vuole, che sta realizzando tramite l’unità
nella distinzione e la distinzione nell’unità.
Note
(1) Nel redigere la presente relazione ho tenuto presente miei lavori precedenti dei quali do qui i riferimenti: I grandi mutamenti storici del mondo occidentale e l’ateismo, in AA.VV., Il problema ateismo. Per una comprensione del fenomeno, Roma 1986, pp. 97-133; Il Cristianesimo in Oriente e in Occidente nel
primo millennio. Alcune prospettive, in Il giorno di festa. Origini e tradizione, a
cura di M. Naldini, Firenze 1997, pp. 9-32; I Padri della Chiesa e i fondamenti spirituali e culturali di una Europa unita, in Orientamento spirituale dell’Europa. Il
contributo del Cristianesimo orientale e occidentale. Atti del simposio intercristiano. Alessandropoli, 3-7 settembre 1995, Thessaloniki 1997, pp. 67-83;
Mediterraneo-Europa: luci ed ombre di una storia millenaria, in MediterraneoEuropa. Dalla multiculturalità all’interculturalità. Convegno internazionale, Bari 1416 marzo 1995, a cura di F. Massimeo-A. Portoghese-P. Selvaggi, Bari 1997, pp.
25-42. A questi contributi si rimanda per indicazioni bibliografiche più ampie
rispetto a quelle essenziali date nel presente intervento.
(2) Cf. Esiodo, Catalogo delle donne II, 76a e 67 b.
(3) Cf. H.-I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, trad. ital., Roma
1950, pp. 431 ss. Le scuole monastiche ed episcopali sono originariamente solo
ordinate alla vita religiosa. Quando il complesso dell’edificio politico e sociale
della romanità viene meno e con esso il sistema scolastico classico, allora la
Chiesa comincia ad occuparsi della istruzione dei ragazzi; ma si è ormai al VI-VII
secolo d.C. e il cammino è appena iniziato.
(4) Cf. I. Giordani, La via della ragione nel settimanale ‘La Via’ del 29. 1.
1949, p. 1.
(5) Cf., per esempio, A. von Harnack, Missione e propagazione del
Cristianesimo nei primi tre secoli, trad. ital., Cosenza 1986, pp. 12 ss. (la prima
edizione dell’opera fu pubblicata a Lipsia nel 1902).
(6) G. Scaramellini, Europa ed Europe. Realtà territoriali e spazi culturali tra
Medioevo e età moderna, in L’identità culturale europea tra germanesimo e latinità, a cura di A.Krali, Milano 1988, p.69 cit. da P. Coda, vd. infra, nota 9.
(7) R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, trad. ital., Brescia 1993, p. 18.
(8) Cf. H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Paris 1948; D. Talbot Rice,
L’art de l’Islam, trad. francese, Paris 1994.
(9) Cf. L’articolo ricco di indicazioni e riflessioni di P. Coda, La vicenda della
cultura europea: le tappe, le sfide, le promesse. Una chiave di lettura storico-teologica, in “Nuova Umanità” XIII, n. 73, gennaio-febbraio 1991, pp. 19-80 (47 e
passim).
54
(10) Cf. Mc Luhan, in P. Babin-McLuhan, Uomo nuovo, cristiano nuovo nell’era elettronica, trad. ital., Roma 1979, pp. 31 s. e 41.
(11) Cf., tra l’altro, R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, pp. 36 ss.
(12) C. Cipolla, La rivoluzione industriale, in AA.VV., Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo, vol. V, Torino 1972, p. 11.
(13) Traggo questa citazione di T.S. Eliot da un articolo di G. Reale apparso
sul “Il sole-24 ore” del 31 agosto 2003, p. 32.
(14) F. Casavola, Da Gesù al Cristianesimo. Le complesse radici dell’Europa
contemporanea, in Studium 99 (2003), pp. 843-850 (845 e 850).
(15) G.M. Zanghì, Quale uomo per il terzo millennio, in Nuova Umanità n°
134, 23 (2001), pp. 247-277 (264. 266). Si vedano pure le osservazioni in proposito fatte da Massimo Cacciari in occasione di una conversazione, tenuta nel
1988 a Pordenone, su Cristologia-teologia nell’Idealismo. Hegel-Schelling, riportate nell’articolo sopra menzionato alle pp. 264-265.
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DANILO VENERUSO
Ordinario di Storia Contemporanea
Università di Genova
Dalla crisi della relazionalità alla formazione
delle “religioni politiche” in Europa
Definizione del termine
In questa sede per la definizione di “religione politica” non
si intende entrare nel tradizionale dibattito sulla “politicità” della
religione quale fattore fondante della costruzione, della gestione, dello sviluppo della polis, né in quello sul problema, ancora diverso, della “religione civile” e neppure in quello della
distinzione, tutta contemporanea, tra religione e fede1. Si intende viceversa affrontare la fase delle “religioni politiche”, secondo il metodo storico a posteriori che consente di seguire una
questione nella sua genesi e nel suo svolgimento. Esse, dopo
un periodo di incubazione che risale fino alla crisi del medio
evo, finiscono per caratterizzare l’età contemporanea nel terreno che è stato arato dal Cristianesimo.
Il punto di partenza del discorso
Il punto di partenza della consapevolezza di un fenomeno
più antico, per quanto mantenuto su un terreno soltanto empirico, è quello della grande fucina-laboratorio delle idee e dei
movimenti dell’età contemporanea che è stata l’età della
Restaurazione (1815-1848). Il dibattito culturale prende l’avvio
dalla critica al giacobinismo rivoluzionario e alla sua appendice
napoleonica. Il giacobinismo e il bonapartismo vengono criticati da una parte per la loro attestazione in un’assolutizzazione
ancora più esclusiva di quella delle monarchie prerivoluzionarie
e, dall’altra, per la loro posizione quali “religioni politiche” con il
proposito di sostituire le religioni rivelate.
Se, in prima battuta, tale critica è finalizzata alla legittimazione delle monarchie assolute, essa però apre la strada ad un
recupero del Cristianesimo a tutto campo, che non può esaurirsi, come pure vorrebbero i sovrani, nel mero sostegno all’ordine costituito. Per combattere veramente l’assolutismo nella
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sua radice che è il monismo in qualsiasi forma esso si presenti, si comincia a comprendere che occorre attestarsi laddove
sia assicurato il rapporto di complementarità tra identità e
diversità. D’altra parte, questo rapporto non è affatto un corpo
arbitrario o estraneo dal modo di pensare, dalla mentalità e dal
modo di agire del cristiano, in quanto deriva direttamente dal
duplice problema teologico della complementarità tra tempo
ed eternità da una parte e, dall’altra, della complementarità
teandrica, vale a dire tra il divino e l’umano, del Verbo
Incarnato. Dalla dialettica della complementarità si dipana nella
storia, partendo dall’Assoluto, la serie illimitata, arricchente e,
pertanto, progressiva delle ricerche, delle scoperte, delle
acquisizioni in quella convergenza e in quella pace che sono
assicurate dalla Grazia quale presenza e sintesi di Logos
(Ragione) e Agape (Amore).
C’è anche un luogo di partenza per questo processo, ed è
l’Europa. Fin dal 1799 Novalis ha infatti indicato nel Vecchio
Continente il centro di diffusione di quella che ha definito
Christenheit, termine allora non limitativo in quanto la “cristianità” è generalmente considerata come il luogo di formazione,
di elaborazione e di diffusione di quanto vi possa essere di progressivo nella storia, in primis del Cristianesimo quale religione
dell’umanità”2.
Così il dibattito insorto nell’età della Restaurazione si presenta tra i più ricchi e fecondi nella storia del terreno arato dal
Cristianesimo. Proudhon che pure, alla fine del suo percorso,
sfocia nella dialettica antitetica che contrappone il
Cristianesimo alla rivoluzione, all’inizio della sua parabola, al
pari di Hegel, non può fare a meno di partire dal nesso tra la
cultura postrivoluzionaria e il recupero del Cristianesimo. Così
quando, alla fine di questo processo, ne traccia un bilancio sul
campo, non solo può affermare che ogni problema politicosociale dell’età contemporanea, nel suo fondo, non è che un
problema teologico3, ma si pronuncia a favore della federazione italiana con una posizione che sarebbe incomprensibile
senza l’assimilazione dei princìpi fondamentali della dialettica
della mediazione che comporta la complessità e la pluralità nel
contesto della relazionalità4. Un giudizio analogo viene espresso, un secolo più tardi, nel bilancio storiografico tracciato da
Adolfo Omodeo, uno dei più importanti studiosi della
Restaurazione nei suoi termini europei5. Egli, che prima di dedicarsi agli studi contemporaneistici si è dedicato a indagini sul
Cristianesimo delle origini, spiega un passaggio che sembra
inconsueto con la predilezione che ha sempre avuto per le “primavere del genere umano”, come tali gli sono sembrate tanto
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il sorgere del Cristianesimo quanto l’età della Restaurazione
dalla quale emerge il “risorgimento” dei popoli6.
A questo punto risulta chiaro che il Cristianesimo preso in
considerazione dalle personalità e dalle correnti più vive dell’età
della Restaurazione non può essere quello che serve per ridare il potere a monarchi in difficoltà di consenso. C’è anzi nel
suo recupero qualche cosa di radicalmente diverso, ed è il proposito di fare del Cristianesimo la religione dell’umanità che lo
stesso Hegel ha recepito da Novalis7 e, in generale, dal movimento dello Sturm und Drang. Da ogni versante del Vecchio
Continente si muovono in questa direzione i cristiani, guidati
anche dalla generale aspirazione, molto avvertita in quel periodo, di ricostruire un solo ovile con un solo pastore. A questa
atmosfera giova l’impianto e lo sviluppo della “leggenda di Pio
VII”, il papa che, mite nell’apparenza esterna e nella missione
evangelica, durante il dispotismo napoleonico ha difeso la
libertà non soltanto della Chiesa e dei fedeli, ma anche di tutti
i popoli 8. I cristiani dell’età della Restaurazione si differenziano
non solo dai neo-giacobini che interpretano il Cristianesimo
recuperato secondo il monismo politico-sociale del Nouveau
Christianisme di Saint-Simon9, oppure secondo la proiezione
politico-sociale di Strauss e di Feuerbach ma anche dall’integralismo letteralmente panteistico di de Maistre10, che giunge
alle stesse conclusioni del monismo immanentistico della
cosiddetta “teologia liberale” protestante11. È proprio di questi
cristiani adottare la dialettica di una complementarità inclusiva
capace di mettere in rapporto l’identità con la diversità e di dar
ragione dell’illimitata rete relazionale che evita l’uniformità che
nasce dall’identificazione tra Dio e mondo. Tale dialettica, che
culmina nella convergenza segnata dalla sintesi tra la ragione e
l’amore, evita anche il mero fideismo di de Bonald per cui la
fede contraddice la ragione. Viceversa il rapporto di complementarità che mette in relazione identità e diversità è veicolato
dalla libertà che è via (metà odos, in senso letterale), vettore dei
contenuti del Cristianesimo che possono diffondersi ovunque.
In questa sintesi di fede, speranza e carità il Cristianesimo, con
il suo rapporto di complementarità tra eternità e tempo, può
così diffondere il suo messaggio di salvezza anche nella sfera
temporale senza contraddire le distinzioni evangeliche tra l’area
di Dio e l’area di Cesare perché da questa complementarità
deriva la distinzione di ambiti di competenze e di azione che
non è separazione tra santità della Chiesa e laicità dello Stato.
Dalla complessità e dalla ricchezza della cultura della
Restaurazione che ha posto al suo centro il Cristianesimo
comincia però, a poco a poco, a delinearsi una frontiera, un
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limite tra l’assolutezza esclusiva della tradizione giacobina
quale “religione politica” e la relazionalità della complementarità
inclusiva. L’assolutezza esclusiva conduce infatti alla divinizzazione della politica, che storicamente si esprime con l’impianto
e lo sviluppo dello Stato etico o, per dirla in altri termini, della
“religione politica”. La dialettica mediatrice che nasce dalla
Incarnazione del Verbo e prevede complementarità tra Dio e
mondo per la sintesi provvidenziale esercitata da Logos ed
Agape è capace di distinzione in quanto conserva il rapporto
tra Creatore e creato, tra eternità e tempo: tuttavia tale dialettica non può mantenersi quando, attraverso il monismo, la
complementarità inclusiva si trasforma in assolutezza esclusiva
che non permette il rapporto, ovvero il passaggio, tra l’area
dell’identificazione e l’area della diversità. Pertanto il sé non
può uscire da se stesso per entrare in rapporto con l’altro da
sé. Così l’assolutezza esclusiva non solo non può essere guidata dalla dialettica mediatrice, ma deve essere necessariamente guidata dalla dialettica antitetica, la quale, invece di
mediare le diversità considerandone la ricchezza, tende ad eliminarle. La dialettica antitetica, infatti, difetta proprio nel nodo
fondamentale del rapporto, che può essere conoscitivo o pratico, tra l’individuato ed il contesto, vale a dire tutto ciò che,
non essendo individuato, può entrare in rapporto con esso. Se
nella dialettica mediatrice soltanto poche combinazioni nella
molteplice serie delle possibilità possono appartenere alla serie
della diminuzione o al limite della distruzione dell’individuato
attraverso l’antitesi della verità e del bene da una parte e della
menzogna e il male dall’altra, nella dialettica antitetica viceversa la binarietà del rapporto si trasforma in un dualismo per cui
si danno soltanto due possibilità: identificatoria, per cui il contesto emerge come identità della tesi, oppure antitetica, per cui
sorge la lotta per l’eliminazione o della tesi o del contesto
emerso come antitetico. Pertanto la dialettica antitetica trasforma la distinzione tra diversi in separazione, elimina o riduce a
mera tautologia il rapporto che nasce, genera il monismo, vale
a dire riduce la realtà ad una sola dimensione, e precisamente
alla sola dimensione del mondo, produce l’immobilismo che
nasce dalla tautologia, vale a dire dall’impossibilità dell’essere
di uscire da se stesso. Inoltre l’antitesi ha la proprietà di generare il “rovesciamento” per cui, come ha osservato Adriano
Tilgher, “i principi politici hanno natura dialettica: lasciati a se
stessi, liberi di svilupparsi fino in fondo, trapassano nel contrario di se stessi (libertà, eguaglianza, potenza)”12. Da ciò deriva,
come prima conseguenza, che l’aspirazione a cogliere l’immediatezza dell’assoluto lo trasforma in relativismo assoluto, allo
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stesso modo che trasforma in assoluto il contingente particolare che intende promuovere. In ogni caso viene meno l’assoluto come fonte del relativo o, per meglio dire, del relazionale.
Un’altra conseguenza è che, come si è visto nel processo storico caratterizzato dalle rivoluzioni contemporanee, i sostenitori del principio di nazionalità come assoluto, rovesciandolo nel
contrario, lo rendono improponibile quale fattore di convergenza del genere umano, allo stesso modo che, a loro volta, i
sostenitori del principio di eguaglianza come assoluto lo rovesciano nel contrario, come rovesciano la libertà in potere della
forza i sostenitori della libertà come principio assoluto. Inoltre
l’assolutizzazione del particolare genera faziosità, settarismo e
particolarismo in modo tale che l’idea di nazione, in origine universale, ossia valida per tutti, si trasforma in particolare, per
cui, dopo la rivoluzione del Quarantotto, ogni patriota lotta solo
per la propria patria, considerando avversarie tutte le altre. Per
questo motivo, una volta raggiunti i propri obiettivi, sono proprio gli Stati-nazione a opporsi con tutti i mezzi a che altri popoli
non ancora investiti dallo stesso principio possano ascendere
al livello di Stati-nazione: lo dimostrano i casi dell’Italia, della
Germania, dell’Ungheria, del Giappone, che abbandonano l’area originaria dell’autodeterminazione dei popoli per attestarsi
in quella dell’imperialismo colonialista che sbarra la strada ai
propri successori. Infine la dialettica antitetica rende la guerra
condizione permanente della storia. L’elemento assunto dalla
conoscenza e dall’azione non resta infatti isolato ma è capace
di entrare in rapporto con il contesto intessuto dalla ricca trama
delle combinazioni utili, di cui quella della distruzione, pur
essendo soltanto una delle tante e, fra le tante, l’extrema ratio,
viene indebitamente e costantemente privilegiata.
Così il panorama culturale della Restaurazione caratterizzato, in profondità, dalla lotta per il linguaggio nel senso più alto
del termine che coinvolge quel passaggio dal Logos all’Agape,
dalla ragione all’azione vitale, che è proprio del Cristianesimo
quale religione rivelata, sfocia in un risultato monistico, “mondano” ed immanentistico quando il sistema filosofico di Hegel,
al termine di una riflessione neo-giacobina della rivoluzione
francese e strutturalistica-materialistica delle scienze della
natura, rovescia nel contrario l’orientamento del Cristianesimo,
da cui pure era partito, per cui, nel testo del Quarto Vangelo,
“la luce vera, che illumina ogni uomo che viene al mondo, a
quanti lo accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede
il potere di diventare figli di Dio, i quali non sono nati dal sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio”13.
I cristiani europei, che avvertono il pericolo della “religione
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politica” tanto in versione panteistica integralistica quanto in
versione mondana ed immanentistica senza trascendenza,
nello stesso tempo non mancano di avvertire la serietà e l’importanza dei problemi sollevati dall’Historismus, che comporta
la valorizzazione della storia e della storiografia attraverso la
riflessione di Hegel capace di arricchire e di integrare la secchezza dell’a priori di Kant erede, a sua volta, di tanto patrimonio teologico. Per opporsi ai monismi che si riaffacciano all’orizzonte ad onta delle drammatiche esperienze di un recente
passato, si produce allora una dislocazione ad opera di quei
cristiani, soprattutto cattolici ma anche protestanti (in modo
particolare britannici e russi), che hanno un occhio di riguardo
per la ricostruzione dell’unità della Chiesa. Essi intendono operare sul piano della piena lealtà alle loro confessioni religiose,
ma nello stesso tempo rifiutano ogni forma di monismo, tanto
panteistico alla de Maistre quanto mondano alla Saint-Simon.
I nomi di Manzoni, Rosmini, Balbo, i due Cavour (Gustavo e
Camillo)14, Pellico, D’Azeglio, Gioberti, Ventura, D’Ondes
Reggio, Tommaseo, Mamiani, sono generalmente noti quali
sostenitori del movimento di liberazione nazionale di cui sono
protagonisti. Tuttavia, sarebbe riduttivo considerare la loro presenza e la loro attività nella sola visuale del movimento di liberazione nazionale il quale, almeno fino ad una certa fase, costituisce solo una parte di un più generale moto di rinnovamento
che consiste nel mettere in relazione con il Cristianesimo quale
“luce del mondo” quanto l’uomo moderno riesce a costruire
nella sua autonomia e nella sua capacità di comprendere e di
trasformare il mondo. Si presenta così un complesso scenario
di distinzioni di aree, di piani, di livelli aperti alla libera circolazione del vento di Dio che è spirito15 nella storia e nella memoria del rapporto fondamentale di distinzione tra Creatore e
creato, tra eternità e tempo16.
Una proposta “relazionale”
per la legittimazione della vita politica
Le soluzioni provocate dal generale processo di dislocazione conducono, negli anni Quaranta dell’Ottocento, ad una
sorta di alternativa. Da una parte si presenta la prospettiva
mediatrice della complementarità tra eternità e tempo, tra
Regno di Dio e Regno dell’uomo, e, dall’altra, emerge la prospettiva di un blocco unico di natura strutturalistica che rifiuta
la complementarità tra teologia e scienza della natura allo stesso modo che rifiuta la complementarità originaria tra eternità e
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tempo, tra Dio e mondo17. In questo decennio, per effetto degli
orientamenti della filosofia idealistica o, per meglio dire, storicistica, si può notare una lento ma significativo processo di
dislocazione dalla dialettica mediatrice alla dialettica antitetica.
Così Gioberti, che nelle prime opere filosofiche degli anni
Trenta, fino al Primato morale e civile degli Italiani del 1844, era
stato sostenitore di una complementarità ontologica speculare
all’identificazione tra storia del Cristianesimo e storia della
Chiesa, a partire dal 1846, ammantandosi di una critica sempre più accentuata contro gesuiti e spirito gesuitico denunciati
quali corruttori del genuino Cristianesimo, comincia a colorarsi
sempre più decisamente della tinta hegeliana dell’identificazione tra Dio e mondo18. Questo mutamento genera sconcerto tra
le fila di coloro che, fino ad un certo tratto, erano stati compagni di strada dell’abate torinese, per correggere il quale
Massimo d’Azeglio, a nome di un gruppo sempre più ristretto
ma altrettanto determinato nell’esposizione delle idee, lancia
una sorta di contromanifesto alle ultime opere polemiche del
Gioberti, i Prolegomeni al Primato morale e civile degli Italiani e
Il Gesuita moderno. Si tratta della Proposta di un programma
per l’opinione nazionale italiana, apparso a Firenze nel 1847
per i tipi della tipografia di Felice Le Monnier. Tale programma,
anche se evidentemente ha come interlocutore il Gioberti, si
distacca volutamente dai toni polemici che l’abate torinese ha
usato nelle sue pubblicazioni più recenti. D’Azeglio, infatti, è
consapevole della necessità di fare i conti con l’Historismus
che ha trovato il suo alfiere nel messaggio hegeliano che,
comunque lo si giudichi, non può essere ignorato. In tutto lo
scritto del D’Azeglio circola infatti la convinzione che l’a posteriori della storia è integrazione, non contraddizione con l’a priori che circola nella filosofia di Kant: l’uno e l’altro mostrano
come il Cristianesimo possa e debba essere predicato e realizzato tra gli uomini attraverso la conservazione e lo sviluppo
della complementarità tra Dio e il mondo, tra il Logos e
l’Agape, tra il tempo e l’eternità e per conseguenza, come sottolinea ripetutamente l’intellettuale piemontese, tra la ragione e
la morale.
Contro l’assolutismo esclusivo e perfino separatista che
comincia a circolare tra i sostenitori dell’emergente movimento
nazionale, D’Azeglio pone il movimento per l’identificazione
della nazione italiana e per la costruzione dello Stato nazionale
ad essa correlativo all’interno non di se stesso, bensì del processo di liberazione dell’umanità intera in virtù della forza convertitrice e rinnovatrice del Cristianesimo quale religione dell’umanità. Per lui, pertanto, vano e del tutto sterile sarebbe il ten63
tativo di attribuire alla questione nazionale una soluzione soltanto istituzionale e particolare al popolo italiano. La proposta
per la “nazionalizzazione” del popolo italiano ha infatti significato e valore come uno dei tanti elementi che entrano in un contesto palingenetico.
In virtù di questa proposta, la “politica nazionale” che sta
emergendo all’orizzonte della storia viene affermata, ma non
assolutizzata. In particolare, viene storicamente, vale a dire
concretamente, coordinata a quell’Assoluto che, con Cristo,
garantisce la presenza e l’efficacia del Logos e dell’Agape nella
loro incarnata concretezza. Così, per l’intellettuale piemontese,
“l’idea di una giustizia universale, d’un rispetto generale al diritto si vien dilatando in tutti gli ordini della società: e sembra
prossima ad avverarsi una nuova e grande applicazione del
principio cristiano, di quel principio che, per rivestir la giustizia
d’un più nobile e quasi divino carattere e formarne un vincolo
d’amore tra gli uomini, le ha trovato il nome di carità”19.
Ponendosi il problema del “fine della politica”, D’Azeglio lo definisce come “il perfezionamento morale”20, da intendere nel
modo cattolicamente più ortodosso, vale a dire come “l’intera
sottomissione dell’intelligenza alla verità, e della volontà al
dovere di trarne tutte le logiche e pratiche conseguenze che ne
derivano”. Questa morale non è vaga e rapsodica giustapposizione di norme convenzionali per la cosiddetta retta convivenza. L’uomo politico piemontese auspica “che il Vangelo dia la
sola vera, la sola utile direzione al senso morale” in quanto
anche le finalità della politica, vale a dire “la grandezza e la
potenza, sono vere e durevoli finché non si scostano dal senso
morale”21 che politicamente si esprime nello “spirito di legalità”
esteso a tutti i membri della società, dal principe ai sudditi22. È
soprattutto per questa convergenza che l’Europa ha acquisito
il suo titolo di “superiorità” sulle altre parti del mondo23: come
osserva Vito d’Ondes Reggio, un altro componente del gruppo, la storia sta passando dal particolarismo della “cristianità”,
condannata a restare nei limiti spazio-temporali di una zona
ristretta del globo24, all’universalità del Cristianesimo diffuso
fino ai più remoti angoli della terra come Chiesa e come
civiltà25. Per questo il riferimento della vita sociale e politica ai
valori del Vangelo è la condizione storica capace di assicurare
a quella parte di umanità che li promuove il cammino verso un
rinnovamento universale: “Crediamo che fra le nazioni cristiane
ai mali sociali sia sempre apparecchiato un rimedio … Ci sembra vedere apparire i segni premonitori d’una più estesa applicazione del principio evangelico. Crediamo che dallo stato di
mal essere, sentito generalmente nella società, e prodotto dal
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conflitto accanito degli egoismi e degli interessi materiali,
debba presto emergere il bisogno di un interesse più alto, più
universalmente benefico, il senso del sacrificio, il senso morale: crediamo perciò nello sviluppo della pace”, vale a dire nel
trionfo del diritto e della pacifica opinione sulla forza. Questa
nuova deferenza del forte verso il debole è indubbiamente il
maggiore sviluppo del più nobile tra i princìpi cristiani, la carità.
E crediamo sia appunto quello del rispetto del diritto del debole, il principio cristiano rinnovato ed ampliato nella sua applicazione”26.
La distinzione istituzionale tra Chiesa e Stato, capace di
condurre tutti alla legalità, è sottolineata da Terenzio Mamiani in
termini tali per cui “lo Stato e la Chiesa, separatissimi negli uffici e nell’autorità, congiuntissimi sono d’animo, d’intendimento
e di zelo”27. Proprio la dimensione della distinzione quale elemento del rapporto di identità e diversità derivante dall’applicazione storica della dialettica mediatrice rende possibile il
superamento del principio machiavelliano dell’assoluta autonomia della politica che dà legge a se stessa. È in virtù della frequentazione di quel gruppo che Pasquale Stanislao Mancini,
anche quando sarà passato al liberalismo tout court, continuerà a respingere il distacco della politica dalla morale: pur
riconoscendo al Machiavelli un grande ruolo nella fondazione
della politica come scienza, non può fare a meno di rimproverargli “un grave e rovinoso errore, quello cioè di considerare
possibile un compiuto sistema di politica, escludendo dal suo
campo il problema morale e facendo astrazione dal fine della
giustizia”28.
Così il distacco dalle monarchie assolute restaurate oltrepassa le circostanze e le opportunità per assumere i tratti di
scelta di fondo. Si tratta di raggiungere obiettivi e di costruire
mentalità attraverso l’immersione nello spirito fatto di ragione e
di carità. D’Azeglio insiste molto sulla carità che, nella sua
sostanza, è la perfezione del rispetto verso tutti gli uomini
capace di ricorrere a processi di pensiero e a metodi di azione
che ne assicurano la promozione anche quando si muove in
una sfera che non è quella direttamente ecclesiale delle relazioni con Dio, della vita spirituale e sacramentale e della salvezza. Nella sua parte positiva, il riferimento esplicito e senza
riserve alla libertà quale veicolo della carità impedisce che la
presa in considerazione dell’uomo nella sua integralità possa
sfociare nell’integralismo. L’integralismo, infatti, è l’esito di un
panteismo che è anch’esso un monismo. Esso deriva dall’assolutizzazione di una realtà identificata immediatamente e direttamente con Dio senza quella mediazione e quella comple65
mentarità che evidenziano la sua diversità dal mondo. Nella sua
parte critica, il riferimento immediato è alla politica legibus
absoluta, che non risponde ad altri che a se stessa dei suoi
obiettivi e del suo operare e che ha il suo modello nel
Machiavelli. Nelle sue radici più profonde, il riferimento è critico
verso la concezione immanentistica che attribuisce al mondo le
medesime proprietà dell’Assoluto.
Il gruppo che si forma dalla dislocazione verso la libertà, la
diversità e la capacità di relazione della cultura della
Restaurazione si colora di ottimismo perché ritiene che sia questa la corrente vincente. Così, parlando a nome degli amici,
Massimo d’Azeglio, nella sua proposta del 1847, crede di percepire indizi sicuri che “la filosofia del sensualismo sia al tramonto, e quella dello spiritualismo all’aurora”. Con riferimento
alla critica di De Maistre allo scientismo di Francis Bacone,
crede inoltre “impossibile all’umanità l’eseguire il semisuicidio di
morir nello spirito e rimaner viva soltanto nella materia”. Crede
di trovare la prova di questa “aurora” “nella tendenza che s’avanza universalmente verso un maggiore rispetto al diritto
comune”, nella lotta contro la schiavitù, nella maggiore sollecitudine verso il povero e il debole, nella maggiore attenzione
verso l’infanzia. Crede infine che “dal medesimo principio” della
carità, vale a dire del senso universale della comprensione e del
rispetto reciproco, “ogni dì più esteso nell’opinione”, nascano
“le progressive modificazioni dell’ordine politico, le successive
concessioni e transazioni tra governanti e governanti”29.
Il fallimento della proposta
Non passa un anno da questo atto di speranza e lo scoppio della “rivoluzione nazionale”, la prima delle grandi rivoluzioni che si succederanno dal 1848 fino al Novecento inoltrato,
mostrerà esiti ben diversi, che faranno temere la prevalenza
delle correnti del sensualismo, del materialismo e dell’amoralità
tanto nella scienza della natura e della tecnica quanto nella
scienza e della prassi della politica che d’Azeglio riteneva, o
almeno sperava, esorcizzate. Riprendendo nel 1860 la questione del rapporto tra Cristianesimo e questione nazionale dal
punto di vista della questione italiana, dopo Villafranca e i plebisciti che hanno “piemontesizzato” l’Italia centro-settentrionale, né il linguaggio di D’Azeglio né il panorama politico sono più
gli stessi30. Il neo-guelfismo, sconfitto definitivamente dopo
Villafranca e le annessioni, non è più all’ordine del giorno e,
pertanto, l’unità italiana non avverrà più secondo i termini di
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una relazionalità capace di affratellare le popolazioni italiane
divise da quasi millecinquecento anni. La congiunzione tra politica nazionale e vita morale, che sembrava ovvia tredici anni
prima, non è più così sicura, se non altro perché una separazione si è nel frattempo venuta a creare tra dogma ecclesiatico e “principio cristiano”: “principio cristiano e non fede cristiana perché questa espressione non ci parve esatta. Sarebbe
infatti per lo meno inesatto il dire che la fede nel domma è più
esteso e forte oggi di quel che altre volte non fosse, mentre noi
osserviamo che il principio cristiano, in quanto riguarda l’applicazione sociale delle massime e de’ precetti dell’Evangelo, non
aveva mai gittato ne’ cristiani così profonde radici”31. Ancora
“oggi gli organi più rispettati delo comune pensiero, i più eminenti uomini di Stato si fanno i diffusori di questa forma importante dell’eguaglianza nata da domma cristiano, del principio
vo’ dire delle nazionalità; e i partiti, al par dei governi, che dall’interesse sono spinti ad avversare ostinatamente quel principio, si trovano costretti dalla voce potente dell’opinione a colorire la loro guerra con pretesti e mezzi termini altra volta a loro
ignoti”32. D’Azeglio continua ad essere fedele all’impostazione
che aveva espresso negli anni Quaranta: come allora, trova
infatti collegamento tra il “principio delle nazionalità” e la “legge
sociale”, vale a dire tra la rivoluzione nazionale e la rivoluzione
sociale che egli considera ancora nei termini dell’integrazione e
non dell’opposizione33 e il percorso di pace come il modo per
far trionfare il “diritto dei deboli” come “consacrazione del diritto cristiano”34. Come allora, di fronte all’alternativa tra “persuasione” e “forza” per ottenere lo scopo di “mantenere gli uomini
in associazione politica”, vale a dire per “costituire e far durevole uno Stato”35, non ha dubbi: è la persuasione il solo metodo degno di scaturire dal principio cristiano. Per questo la
volontà di far prevalere il principio della forza per mantenere la
società politica è contraria al Cristianesimo, per questo “due
principii sono ora in lotta: il cristiano e il pagano: quello s’addentra sempre più nelle coscienze, questo domina troppo
spesso ne’ fatti”36. Tra questi fatti che troppo spesso accadono c’è l’atteggiamento dell’Impero asburgico che, pur proclamandosi cristiano ed anzi difensore del Cristianesimo e della
Chiesa, in realtà segue il principio “pagano” della forza e dell’impero. Per questo le “nazioni cristiane”, ora chiamate a chiarire il loro atteggiamento davanti alla “questione italiana” in cui
concorrono insieme i princìpi cristiani della diversità (nazionalità) e dell’eguaglianza (socialità e difesa dei “deboli” che costituiscono la maggioranza della popolazione)37, devono necessariamente chiarire in primo luogo l’atteggiamento da tenere
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verso l’Austria che, pur dichiarandosi cristiana, fa una politica
“pagana” in quanto fa una politica imperialistica.
Tuttavia, le previsioni e le speranze dell’intellettuale piemontese sono ancora una volta frustrate dal fatto che dal moto
di pensiero sancito dalla filosofia di Hegel emerge una dialettica simmetricamente antitetica a quella derivante dalla teologia
del Verbo Incarnato. Essa si trasferisce alle varie generazioni di
“rivoluzionari” nati dagli esiti della cultura della Restaurazione,
come si può osservare da “continuatori” come Marx e Gentile,
per i quali la relazionalità del reale è espunta allo stesso modo
che è espunta la relazionalità tra il Creatore e il creato. Quando
non si può fare a meno di prenderla in considerazione, viene
dichiarata illusoria in Marx con il rapporto fittizio tra struttura e
sovrastruttura, in Croce e in Gentile con l’individuazione quale
mera funzione arbitraria dello Spirito o, ancora più radicalmente, dell’Io assoluto. Per la simmetria del rovesciamento, la dialettica di Logos e di Agape è sostituita dalla dialettica della
forza che si impone con la lotta. Per lo stesso motivo e con lo
stesso metodo ogni relazione di complementarità tende all’amputazione dell’elemento che si diversifica da quello che si vuole
affermare e promuovere. Per questo le grandi rivoluzioni, emerse per sostituzione e per rovesciamento della praxis proprio nel
terreno arato dal Cristianesimo, tendono a risolvere nel conflitto per eliminazione la loro originaria complementarità. Così si
dissolvono le relazioni reciproche nelle quali la “rivoluzione
nazionale”, la “rivoluzione sociale” e la “rivoluzione della
libertà”38 erano in grado di comprendersi e di interagire nella
pace e nella solidarietà39. Nello stesso tempo, con Lamarck,
Comte e Darwin, si affermano le soluzioni strutturaliste del
positivismo evolutivo e della selezione della specie, saldandosi
all’immanentismo di Hegel. Così sono proprio le nazioni liberate dal precedente imperialismo a infilarsi nel tunnel di un nuovo
imperialismo. In virtù di questi esiti, anche il gruppo di cui
Massimo D’Azeglio era stato espressione finisce per dislocarsi
nell’area della dialettica antitetica. Gli stati nazionali, liberati dai
precedenti imperialismi, si preoccupano infatti di costruire
nuovi imperialismi, che come tali sono diretti proprio ad impedire l’applicazione del principio di nazionalità quale parte del più
generale processo di liberazione di persone, di popoli, di gruppi sociali e religiosi a favore coloro che ancora non vi si sono
inseriti. Altrettanto avviene per la rivoluzione sociale: la
Rivoluzione d’Ottobre emerge nel 1917 dalle ceneri di un impero per costruire un impero ancor più monolitico, caratterizzato
dalla “sovranità limitata” di Stati, movimenti e partiti ancorché
omogenei al marxismo dominante.
68
Chi abbandona con lucidità e chiarezza l’area della dialettica mediatrice subito dopo lo scoppio della rivoluzione del
Quarantotto è Camillo Benso conte di Cavour. Egli passa così
dal cosiddetto cattolicesimo liberale al liberalismo nazionale e
dinastico e dalla dialettica della convergenza per distinzione tra
l’area politica e l’area religiosa alla dialettica della separazione
foriera di allontanamento. Nel 1848 si accorge dell’utilità immediatamente politica della dialettica antitetica proprio per la sua
capacità di liquidare tutto ciò che può ostacolare la formazione
dello Stato etico come autosufficiente a se stesso. Subito
dopo di lui, o addirittura alla sua scia, sono molti i cattolici liberali che passano al liberalismo nazionale, da Francesco De
Sanctis a Pasquale Stanislao Mancini. In questa posizione, lo
statista piemontese, al Congresso europeo convocato a Parigi
nel 1856 per porre termine alla guerra russo-turca, indica ai
monarchi la via della “rivoluzione nazionale” per stornare il pericolo della “rivoluzione sociale”, ben più grave per il loro potere40 e, nello stesso tempo, per trasformarsi in nuclei di aggregazione dei nuovi imperialismi attraverso l’adozione di un neogiacobinismo funzionale al modello dello Stato accentratore e
al militarismo di stampo bonapartistico. Lo stesso D’Azeglio,
alla fine della sua vita, appare attestato lontano dalla dialettica
della mediazione che pur aveva con perseveranza difeso:
quando egli pronuncia il celebre aforisma che “ormai l’Italia è
fatta: ora bisogna fare gli italiani”, manca in esso il rapporto con
la parte che si riferisce a quella universalità che era presente,
ed anzi predominante, tanto nella Proposta del 1847 quanto
nell’opuscolo del 1860 sulla relazione tra La politica e il diritto
cristiano considerati riguardo alla questione italiana41. Questa
dimenticanza è storicamente significativa quando si pensi che
essa è al capolinea del processo che, di tappa in tappa, conduce al tentativo di Mussolini che, al suo estremo, intende fare
degli italiani i guerrieri di una rivoluzione nazionale diventata
assoluta, esclusiva e permanente. Così, per successive dislocazioni sempre nella medesima direzione, si consumano i fallimenti della “moderazione” del Balbo e del trasformismo di
Depretis, liquidati come moderati, il logoramento della politica
di pace europea di Bismarck, nonché lo scacco di ogni “centrismo” da Giolitti a De Gasperi. Questi metodi vengono liquidati come incompatibili alla dialettica secolarizzante, assolutistica e antitetica, carica di minacce per la costruzione di sistemi politici per la solidarietà e per la pace di popoli, di classi, di
partiti, di gruppi di potere e di Stati nella rivoluzione nazionale,
nella rivoluzione sociale e nella rivoluzione liberaldemocratica,
originariamente congiunte ma ora separate per l’introduzione
69
della dialettica antitetica. In tanta varietà di situazioni e di comportamenti, il panorama è quello dello scatenamento di guerre,
di disordini interni o di confronti militari, tesi alla debellatio, vale
a dire alla distruzione dell’avversario. È questo il motivo che
induce Pio IX, già nell’aprile 1848, ad abbandonare la causa di
un movimento nazionale ormai talmente privo di universalità da
volerlo fare cappellano di un movimento nazionale italiano
esclusivo e assolutista.
Affermazione e crisi delle “religioni politiche”
generate dalle grandi rivoluzioni nel terreno arato
dal Cristianesimo
Pertanto, nella storia contemporanea, i movimenti, le correnti culturali, i partiti e le istituzioni nati dalle tre grandi rivoluzioni (nazionale, sociale e liberaldemocratica) si sono presentati in insiemi che possono essere definiti come “religioni politiche” in quanto hanno programmaticamente inteso sostituire le
religioni rivelate nelle loro funzioni ispiratrici, alimentatrici e
fecondatrici senza potervi riuscire in quanto, nel terreno arato
dal Cristianesimo caratterizzato dal rapporto relazionale tra
Assoluto e creature quale origine di illimitate serie relazionale,
hanno tratto solo da se stesse la loro ragione d’essere. Ed è
per questo che sta entrando in crisi anche la democrazia per
l’indebolimento, e talvolta anche per l’aperto rifiuto, di quella
democrazia mediatrice che è la versione parallela e laica della
dialettica cristiana del Verbo Incarnato, come si può vedere
nella sostituzione con il dualismo separatore ed eliminatore
della binarietà del rapporto dal quale emerge l’illimitata serie di
relazioni per la solidarietà e la pace dell’intero genere umano.
È noto che l’applicazione della dialettica antitetica fino alle
sue estreme conseguenze distruggitrici (quelle che D’Azeglio
definiva già come “semisuicidio della umanità”)42, associata agli
sviluppi che oggi hanno raggiunto la scienza e la tecnica, nonché alla tendenza all’assolutizzazione da parte dei loro cultori,
viene spesso indicata come eredità delle antiche guerre di religione. Da quasi quattro secoli queste però sono state prima
fermate e poi ripudiate dalle diverse confessioni cristiane, con
particolare riferimento a quella cattolica la quale da quasi due
secoli, vale a dire dal pontificato di Pio IX, pone la pace al centro della propria tradizione teologica e spirituale. A questo
riguardo sembra che le confessioni cristiane proprio da queste
esperienze non abbiano mancato e non stiano tuttora mancando di trarre materia utile a liquidare ogni forma di integrismo
70
che, a sua volta, può definirsi non solo quale religione politica,
ma anche come modello storico di ogni religione politica in
quanto, incapace di costruire reti coerenti ed integrate di relazioni guidate dall’amore, dalla solidarietà, dalla condivisione e
dalla pace, nonché di ricercare e di trovare il proprio punto di
riferimento fuori di sé, tende, nella sua condotta, ad adottare,
più o meno consapevolmente, la dialettica antitetica che, come
si è notato, è il rovesciamento simmetrico della dialettica del
Verbo Incarnato. La fase decisiva deve però ancora venire.
Come nell’età della Restaurazione, in cui non a caso è stata
fortemente avvertita l’aspirazione alla costruzione di un “solo
ovile e di un solo pastore”, tende oggi a farsi universale la consapevolezza che, come è uno lo Spirito, così è una la Chiesa.
La laicità come conseguenza necessaria
della crisi delle religioni politiche
È a questo punto che giungono a maturazione i nodi connessi alle religioni politiche. Il loro assolutismo esclusivo, che
impedisce l’impianto e lo sviluppo di relazioni effettive, è contradditorio rispetto alla loro pretesa di produrre valori propri che
non possono essere comunicati che secondo il metodo conflittuale: rimanendo chiuse in se stesse, mancano di universalità, di validità per tutti. Così, per pretendere tutto, mancano di
realizzare il possibile e girano a vuoto per ripetitività prive di sviluppo. Non riuscendo a superare il settarismo che deriva dall’assolutizzazione del particolare, finiscono per presentarsi con
atti spettacolari dai contenuti sempre più polemici e conflittuali
diffusi e ampliati da strumenti di comunicazione di massa
capaci di manifestarne e di comunicarne la presenza in un
tempo reale che è contraffazione dell’eterno presente di Dio.
Affermare che la dimensione politica non riesca ad attingere valori universali che non possono essere prodotti dall’assolutizzazione del particolare non significa affatto sminuire e tanto
meno disprezzare la sua funzione. Significa invece riportarla a
quel livello di concretezza storica che le consenta di presentarsi con còmpiti e con caratteristiche di vitale importanza nell’ampio, illimitato contesto relazionale nel quale si colloca,
garantito dai valori universali, validi per tutti, della sintesi ragione-amore fonte di esistenza, di identità, di crescita, di autonomia che l’atto di potere della dimensione politica può togliere
ma non dare. In questa virtù di modestia illuminata dalla consapevolezza del limite che è insieme fonte di responsabilità, lo
stato e, in genere, i poteri pubblici sono chiamati a trovare il
71
coraggio e la forza di rinunciare alla violenza e al terrore per
adempiere le loro funzioni specifiche. In questa consapevolezza consiste anche la loro laicità, la quale interpella anche la
Chiesa, l’insieme dei credenti di Cristo. Essi sono invitati a non
cedere alla tentazione di farsi stato per non cadere nelle maglie
dell’assolutizzazione del particolare. Si può ricordare, a questo
proposito, quanto sia accaduto al progetto della libertas
Ecclesiae quando essa, nel contesto più generale della Sancta
Romana Respublica, non si è contentata di regnare, vale a dire
di indicare come si possa vivere il Cristianesimo in un determinato contesto storico, ma ha voluto anche governare.
Possiamo anche ricordare la sterilità sostanziale, a tempi lunghi, degli stessi partiti cattolici dell’età contemporanea, nonostante la capacità mediamente soddisfacente dei suoi dirigenti, dei suoi militanti e di molti dei suoi leaders. Non è stato un
caso che molti pontefici dell’età moderna e contemporanea, a
cominciare da Pio IX, non siano stati favorevoli a partiti cattolici, giudicando che, mentre la religione unisce, la politica divide.
La Chiesa ha qualche cosa di meglio che farsi mondo ed è
adoperarsi per essere luce del mondo43.
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Note
(1) Cfr. V. Grossi, La storia della Chiesa tra Tradizione e coscienza storica, in
AA. VV., Cristianesimo e storia. Rapporti e percorsi, a cura di P. Siniscalco,
Roma, Studium, 2002 (e bibliografia ivi compresa e citata).
(2) Cfr. D. Veneruso, Le rivoluzioni secolarizzate moderne e postmoderne.
Dalla “morte di Dio” alla crisi dell’uomo, in Studium, a. 85 (1989), pp. 771-773,
ora in D. Veneruso, Stato, nazione, democrazia. Percorsi culturali e processi politici nell’Italia dell’Otto-Novecento, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 2001, pp. 19-46.
(3) Cfr. P.J. Proudhon, La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, a cura di
M. Albertini, Torino, UTET, 1968, pp. 75-110 (Discorso preliminare). L’edizione
originale, in prima edizione, è stata pubblicata a Parigi, dall’editore Garnier, in tre
volumi.
(4) Cfr. P.J. Proudhon, La fédération et l’unité en Italie, Paris, Dentu, 1862.
(5) Cfr. A. Omodeo, Studi sull’età della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1970.
(6) Cfr. A. Omodeo, Trentacinque anni di lavoro storico, in Il Mercurio, 1945,
n. 13. poi in A. Omodeo, Il senso della storia, a cura di L. Russo, Torino, Einaudi,
1955, pp. 3-7 (citaz. a p. 6). Per il significato da lui attribuito al termine “risorgimento”, cfr. A. Omodeo, L’età del risorgimento italiano, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, 1965 (prima ediz. 1931).
(7) Cfr. M. Borghesi, La figura di Cristo in Hegel, Roma, Studium, 1991; M.
Borghesi, L’età dello spirito in Hegel. Dal Vangelo” storico” al Vangelo “eterno”,
Roma, Studium, 1996.
(8) Cfr. D. Veneruso, Pio VII nella storiografia francese e italiana, in Diocesi di
Savona e Noli, Il prigioniero itinerante. Da Venezia a Savona. Pio VII nel bicentenario dell’elezione (1800-2000). Artti del convegno tenuto a Savona dal 2 al 4
marzo 2000, a cura di F. Molteni, Savona, Centro Italiano di Studi storici sulle
devozioni, 2002, pp. 89-117.
(9) Si veda l’introduzione di M.T. Bovetti Pichetto a C.H. Saint-Simon, Opere,
Torino, UTET, 1975. L’opera più famosa di Saint-Simon, Le Nouveau
Christianisme, scritta all’estremo della sua vita al culmine della Restaurazione
(1825), ha esercitato una considerevole influenza anche in Italia (basti pensare a
Garibaldi), come si può vedere dalle sue numerose edizioni.
(10) Cfr. J. De Maistre, Du Pape, Lyon, Rusand, 1817 (prima ediz.).
(11) Cfr. J. De Maistre, De l’église gallicane dans son rapport avec le
Souverain Pontife, pour servir l’ouvrage intitulé «Du Pape», Lyon-Paris, RusandBeaucé, 1821.
(12) Cfr. A. Tilgher, Diario politico 1937-1941, a cura di L. Scalero, Roma,
Adriatica, 1946, pp. 71-72.
(13) Cfr. Gv., 1, 9-13.
(14) Sulle caratteristiche e i limiti dell’appartenenza di Camillo Cavour ai cattolici che, più che cattolici liberali, potrebbero essere definiti cattolici novatori, si
veda il passo del suo discorso in onore di Richard Cobden pubblicato in Il
Commercio, a. X, n. 29, 14 luglio 1847, cit. in R. Romeo, Cavour e il suo tempo,
cit., 1852-1854, tomo I, p. 232: “Les plus nobles et les plus élévées (des idées)
sont certainement, après les idées religieuses, les idées de patrie et de nationalité”. Non è neppure da trascurarsi il fatto che egli, trovandosi a Parigi durante i
violenti attacchi che Michelet e Quinet lanciano contro i gesuiti (1842-1843: ibidem, p. 236), abbia in quell’occasione maturato l’idea di un separatismo tra area
religiosa e area politica come il solo rimedio contro i conflitti di natura teologica.
(15) Cfr. Gv., 4, 24.
(16) In questo contesto Massimo d’Azeglio nel 1847 sostiene che lo spirito
di libertà, che attribuisce il più alto valore a ciò cui si associa, “stabilirà la necessaria e razionale distinzione tra l’intolleranza verso le opinioni, indelebile carattere
del nostro convincimento, e l’intolleranza verso gli uomini che le professano,
carattere egualmente indelebile dell’ignoranza e della barbarie” (cfr. M. d’Azeglio,
Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana, Firenze, Le Monnier,
1847, pp. 54-59).
(17) Cfr. J. De Maistre, Examen de la philosophie de Bacon, où lon traite
73
différentes questions de philosophie (œuvre postume), Paris, Poussielguet –
Rusand – Librairie, 1836 (due voll.).
(18) Cfr. D. Veneruso, Il significato storico del pensiero e dell’azione di
Vincenzo Gioberti. I: L’itinerario intellettuale e politico, in Nuova secondaria, a. IV,
n. 6 (15 febbraio 1987), pp. 61-63; II: Il secondo Gioberti e il rovesciamento della
praxis, ibidem, a. IV, n. 8 (15 aprile 1987), pp. 75-77.
(19) Cfr. M. d’Azeglio, Proposta di un programma, cit., pp. 22-23.
(20) Ibidem, p. 27.
(21) Ibidem, p. 32.
(22) Ibidem, p. 36.
(23) Ibidem, p. 29.
(24) Cfr. P. Scoppola, La nuova cristianità perduta, Roma, Studium, 1985.
(25) Cfr. V. D’Ondes Reggio, Introduzione ai princìpi delll’umana società.
Opera da servire ai prolegomeni dello statuto sardo, Genova, Lavagnino, 1857,
p. 395.
(26) Cfr. M. d’Azeglio, Proposta di un programma, cit., p. 56.
(27) Cfr. T. Mamiani, Di un nuovo diritto europeo, Torino, Giuseppe
Marzorati, 1859, p. 346.
(28) Cfr. P.S. Mancini, Diritto internazionale con un saggio su Machiavelli,
Napoli, Marghieri, 1873, pp. 221-318, citaz. a p. 317.
(29) Cfr. M. d’Azeglio, Proposta di un programma, cit., p. 56.
(30) Cfr. M. d’Azeglio, La politica e il diritto cristiano considerati riguardo alla
questione italiana. Traduzione italiana del dott. S. Bianciardi, con l’aggiunta di una
lettera del traduttore, Firenze, a spese dell’autore, 1860.
(31) Ibidem, p. 9.
(32) Ibidem, p. 10.
(33) Ibidem.
(34) Ibidem, p. 13.
(35) Ibidem, p. 17.
(36) Ibidem, p. 9.
(37) Ibidem, pp. 3-5 (Proemio).
(38) Cfr., oltre M. d’Azeglio, Proposta di un programma, cit., pp. 54-59,
anche A. De Tocqueville, Discorso sulla libertà religiosa, in Scritti politici, a cura
di N. Matteucci, I, Torino, UTET, 1969, pp. 228-233; A. De Tocqueville, L’antico
regime e la rivoluzione, ibidem, pp. 744-747; A. De Tocqueville, La democrazia
in America, ibidem, II, pp. 343-346.
(39) Cfr. D. Veneruso, Dalla religione dell’umanità alla democrazia. Un percorso della cultura europa negli ultimi due secoli, in Studium, a. 90 (1994), pp.
17-39 ora in D. Veneruso, Stato, nazione, democrazia, cit., pp. 47-74.
(40) Cfr. A. Omodeo, L’opera politica del conte di Cavour (1848-1857),
Milano-Napoli, Ricciardi, 1968, pp. 301-345; R. Romeo, Cavour e il suo tempo,
vol. III, Roma-Bari, Laterza, 1977; D. Veneruso, La crisi della pace dall’ordinamento europeo secondo il principio di nazionalità al “concerto” delle grandi
potenze, in Gli orizzonti della pace. La pace e la costruzione dell’Europa (17131793), a cura di M.G. Palumbo e R. Repetti. Atti del convegno internazionale De
la guerre paix, de paix abundance. L’organisation de la paix et l’edification de
l’Europe: les projets de l’abbé de Saint-Pierre au tournant de l’histoire (17131993), tenuto a Genova dal 5 al 7 maggio 1994, Genova, ECIG, 1996, pp. 185194.
(41) Cfr. M. d’Azeglio, I miei ricordi. Nuova edizione condotta nell’autografo
da A.M. Ghisalberti, Torino, Einaudi, 1949, pp. 35-42 (Origine e scopo dell’opera).
(42) Cfr. M. d’Azeglio, Proposta di un programma, cit., p. 56.
(43) Un recente, utile contributo alla questione della “laicità” è quello di M.
Toso, Per una laicità aperta. Laicità nello Stato e legge naturale, San CataldoCaltanissetta, Centro Studi A. Cammarata, 2002.
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ADOLF ANSELM SCHURR
Professore Emerito di Filosofia
Università di Regensburg (Germania)
Ragione e fede all’origine
dell’Europa cristiana
Premessa
L’Europa va ormai assumendo una sua ben precisa configurazione politica e istituzionale, che rinsaldi la preesistente
unificazione economico-finanziaria e monetaria. Alla partecipazione, alla passione, all’entusiasmo delle classi politiche si contrappone talora l’incredulità, lo scetticismo e addittura l’ostilità
del comune cittadino nei diversi paesi dell’area europea.
Soprattutto si guarda con sospetto all’ampliamento imminente
dell’Unione europea verso est, a paesi considerati tradizionalmente marginali, situati oltre quella linea di demarcazione che
si chiamava in passato ‘cortina di ferro’.
Accanto all’opera tenace dei politici, una classe intellettuale consapevole avverte in quella discrepanza un certo disagio
e sente perciò sempre più viva l’esigenza di mettere in evidenza una identità europea, uno spirito europeo, una coscienza
europea, al fine di evitare un’Europa come un aggregato di
nazioni contigue, coordinato da interessi puramente economici, politici e contingenti.
Nessuno potrà negare che l’Europa unita è una necessità
storica e che solo una Europa politicamente e istituzionalmente coordinata può essere competitiva, e affrontare le sfide del
mondo di oggi e di domani, come la difesa delle disponibilità
energetiche, la fame nel mondo, il disarmo comune, il terrorismo ecc.
Ma aspirare ad una integrazione spirituale e culturale, che
tenga conto delle esigenze più autentiche e profonde dell’uomo, significa andare alla ricerca dello spirito europeo, recuperare un mondo di valori, prendere coscienza delle nostre radici
culturali.
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Qual è la forma, la dimensione spirituale dell’Europa? Esiste
al di là della pluralità linguistica, della molteplicità delle tradizioni, delle particolarità nazionali, una identità europea, che la
caratterizza e la contraddistingue da altre entità culturali?
Non è facile per il comune cittadino dell’Europa rintracciare questa identità culturale, senza una precisa e vigile sensibilità storica.
Certamente la storia dell’Europa appare come una storia di
esasperati particolarismi politici, di conflitti religiosi, di lotte egemoniche e dinastiche, di rivalità e di sangue, fino ai risvolti aberranti delle dittature totalitarie e dei nazionalismi aggressivi. E
anche i periodi di pace nella storia erano sempre caratterizzati
da difficili equilibri e da complicate diplomazie, nel concerto
delle potenze europee.
Eppure, malgrado ciò, nessuno potrà negare al di là delle
pluralità linguistiche e nazionali, delle varietà di forme ed espressioni, uno sviluppo analogo e sorprendentemente parallelo nelle
manifestazioni del pensiero, delle scienze, delle arti figurative,
della musica, dei sistemi politici e degli istituti giuridici.
Tutte queste sorprendenti analogie di sviluppo riguardano
l’Europa dello spirito, lo spirito dell’Europa, e si spiegano soltanto nella consapevole considerazione delle nostre radici, che
sole giustificano la nostra identità culturale. Non esitiamo a
chiamare tutto ciò patrimonio spirituale europeo, occidentale,
frutto della razionalità europea di antico retaggio e di una visione religiosa di matrice cristiana.
1. Le forze spirituali dell’Europa
L’Europa è nata dalla simbiosi spirituale dei valori del
mondo classico e del Cristianesimo. Le forze spirituali che le
hanno dato vita sono:
la filosofia greca
il diritto romano
la religione cristiana.
Senza di esse o senza una sola di esse, l’Europa sarebbe
impensabile. È compito degli intellettuali, dei pensatori, degli
insegnanti, e infine dei mezzi di informazione insistere su questo punto, oggi più che mai.
76
Certamente esiste un rapporto di continuità tra il pensiero
greco e la tradizione filosofica dell’Europa moderna e
dell’Occidente in genere. La riflessione, la trascendenza, la
verità, l’assoluto, l’immortalità dell’anima, la libertà, la dignità
dell’uomo, sono momenti e aspetti ineliminabili del pensiero
antico e moderno.
Ma ad un certo momento della storia il pensiero razionale
antico si era trovato a dover fronteggiare un evento straordinario: la realtà della Rivelazione, il fatto dell’Incarnazione.
Il messaggio di Cristo si presentava al mondo essenzialmente come messaggio di fede. Ma il suo contenuto di fede
celava elementi essenziali di dottrina che andavano approfonditi in chiave filosofica: la ricerca della verità, il problema di Dio
e il problema più proprio dell‘uomo, cioè il senso dell’esistenza
in dimensione escatologica.
I primi che si assunsero il compito di diffondere il nuovo
verbo (tra essi c’erano Paolo e Giovanni) erano permeati di spirito e di cultura greca: essi annunciarono il nuovo messaggio
non nella lingua dei profeti, ma nei termini della filosofia classica. La profondità dei problemi filosofici emergenti dal nuovo
messaggio (il problema trinitario, l’Incarnazione, il rapporto
fede-ragione) poteva essere espressa adeguatamente solo
mediante un apparato concettuale e metafisico, consolidato e
maturato nella tradizione del pensiero razionale antico.
Nell’area culturale greca i Padri della Chiesa, formati nello
spirito della sapienza e retorica greca, hanno contribuito in
maniera fondamentale e definitiva ad elaborare sistematicamente e razionalmente i contenuti della dottrina cristiana. La
loro familiarità con la speculazione razionale antica spiega l’ampio margine che essi assegnano alla razionalità.
La filosofia infatti
1. fornisce le armi per difendere la fede dalle dottrine gnostiche ed eretiche, che insidiano la dottrina cristiana;
2. aiuta ad approfondire la fede e
3. aiuta a dare una sistemazione razionale alla verità rivelata.
Nell’area culturale di eredità latina verrà approfondito il problema del rapporto tra ratio e verità rivelata, tra ragione e fede.
77
La prima sintesi tra spirito speculativo e messaggio cristiano, in
ambito spirituale romano, trova la sua massima espressione in
S. Agostino.
L’Europa delle origini si cristallizza come tale dalle rovine
dell’impero romano, come un complesso di etnìe prevalentemente latino-germaniche. In questo nuovo contesto culturale
gradualmente maturerà una sintesi
di atteggiamento teoretico e di credo religioso,
di razionalità e di contenuti di fede
di mentalità giuridica romana e di fervore religioso, nella
legge divina dell’amore.
L’elemento religioso, alle origini dell’Europa cristiana, risulta
preponderante ed ha avuto una enorme forza di integrazione
tra i popoli. Fu la chiesa cristiana a raccogliere l’eredità del
mondo antico e a ricostruire una unità spirituale. – È naturale
che sorgesse proprio lì l’esigenza di mettere a raffronto il pensiero razionale e la dottrina della salvezza, la sapienza antica e
l’insegnamento di Cristo.
2. Il concetto e la realtà dell’Europa cristiana
Il problema del rapporto ‘ragione-fede’ è così profondo e
complesso che può sembrare impresa ardua comprendere
l’essenza di entrambi e la loro complementarità, il loro reciproco rapporto, sia in riguardo alla realizzazione dell’esistenza
umana individuale, sia in riguardo alla concezione di una
Europa cristiana, considerata nel passato e nel presente.
Due tipi di critica sono stati rivolti alla concezione di una
Europa cristiana, con argomenti di questo tipo:
1. Sostenere oggi la concezione di una Europa cristiana significherebbe penetrare in un pensiero articolato in epoche
passate, ‘un pensiero limitato e idealizzato in senso romantico, del tutto estraneo alla mentalità di oggi’1. (È sottintinteso qui il riferimento al Novalis e al suo programma di unità
religiosa e culturale: Die Christenheit oder Europa2).
2. Se si parte da una certa posizione filosofica contemporanea che rifiuta drasticamente la metafisica e che dichiara
‘tutte le affermazioni metafisiche come insensate’3, la rivendicazione metafisica di una Europa cristiana, con tutta la
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sfera del trascendente, dovrebbe essere considerata come
vacua e infondata.
Di fronte a siffatte riserve siamo noi a porre due domande:
1. È lecita l’affermazione secondo cui un pensiero filosofico
articolato nel passato sia da considerare privo di valore per
il presente?
2. Come dobbiamo giudicare l’atteggiamento assunto in
merito alla dimensione metafisica del credo religioso-cristiano, le cui affermazioni – che riguardano verità appartenenti a una sfera sovrasensibile – sarebbero da considerare ‘vacue e insensate’ e non verificabili?
Anzitutto sarà bene non farci fuorviare da frettolosi pregiudizi e neppure da valutazioni consolidate nell’opinione corrente. Inoltre è auspicabile ripercorrere criticamente il pensiero
altrui con il nostro proprio pensiero.
Direi che ciò è addirittura doveroso, perché stiamo riflettendo su una problematica che investe in maniera fondamentale l’esistenza e la coscienza dell’uomo, oltre che il futuro
aspetto dell’Europa. Infatti nessuno – neppure il non-credente – potrà sottrarsi al problema che riguarda il senso dell’esistenza.
Se dimostriamo che il pensiero, con l’intima forza della sua
coerente logicità, è identico a se stesso nel passato come nel
presente, non potremo rifiutare un pensiero filosofico del passato, squalificandolo come limitato, superato, estraneo alla
nostra mentalità.
Nel recepire un pensiero razionale, ognuno potrà rendersi
conto del suo carattere di identità con se stesso nel tempo e
nello spazio e di apertura verso la dimensione metafisica: dunque, di fronte alla tesi della cosiddetta insensatezza delle proposizioni metafisiche – non accetteremo passivamente l’abbandono dell’indagine metafisica. Sarà il nostro pensiero, con
la sua assoluta facoltà argomentativa e razionale, a dare fondamento e giustificazione alla sfera sovra-sensibile, alla realtà
trascendente, che l’uomo avverte nell’animo come insopprimibile e ineliminabile.
Se nell’ambito dell’esperienza di fede, la Rivelazione si
impone come messaggio di salvezza, e come tale risponde alla
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domanda esistenziale di significato, di senso dell’ esistenza, la
ragione si sentirà spronata a corroborare con il ragionamento
logico tale proposta di salvezza, a dare una spiegazione razionale a quanto si tiene fermo per fede.
Tale intervento della ragione, nel coerente svolgimento logico del pensiero, fornirebbe in chiave filosofica, fondamento e
giustificazione anche a quel complesso di valori che – in considerazione della loro universalità e necessità – devono considerarsi imprescindibili per il futuro assetto dell’Europa.
I princìpi ispiratori e i criteri informatori della realtà politica
europea potranno sottrarsi alla taccia di arbitrarietá solo se
potranno attuarsi in conformità di un fondamento razionale giustificato; il che contrasta con l’opinione corrente, secondo cui
i valori altro non siano che dei postulati autonomi della libertà
umana, data l’impossibilità o l’inesistenza di valori universali e
immutabili.
Il problema della conformità o meno del credo religioso alla
ragione va risolto in chiave filosofica. Ma ciò esige una chiarificazione del termine ‘filosofico’.
3. Il concetto di filosofia4
In considerazione dei molteplici indirizzi, scuole e posizioni
filosofiche nella storia della cultura, è difficile fissare il concetto
stesso di ‘filosofia’. Certamente essa, in quanto scienza delle
scienze, oltrepassa i limiti del sapere contingente e i confini
delle scienze particolari e il suo aspetto più caratteristico e qualificante è la sua pretesa di universalità.
È innegabile che l’uomo tende a riflettere su se stesso e sul
mondo che lo circonda. Ciò avviene comunemente in maniera
immediata e spontanea, in genere senza incanalare il pensiero
in formulazioni concettuali-argomentative. È la filosofia poi che
organizza pensieri e idee in termini di razionalità concettuale e
in argomentazioni conseguenti e rigorose. Entro questi termini
appunto la filosofia affronta il problema riguardante l’essere
dell’uomo e il senso dell’esistenza.
Noi sappiamo che sono state date al proposito le risposte
più svariate, oggi e in passato. Ma è possibile dare a questo
problema una risposta tale che non lasci adito a dubbi?
80
Affrontare un problema in chiave filosofica in senso filosoficocritico, implica il riferimento dell’argomentazione a dati immediatamente evidenti per l’attività di pensiero, cioè a quei dati necessari del pensiero puro, indipendenti dell’esperienza. Solo in tal
modo la filosofia si costituisce come pura scienza della ragione;
le sue affermazioni in campo conoscitivo possiedono – in virtù
del carattere di stringente coerenza con le premesse e col metodo – un valore di assoluta universalità e validitá.
Una ricerca filosofica di questo tipo non potrà esaurirsi nella
descrizione della realtà, ma tenderà alle comprensione integrale della realtà e implicherà i seguenti momenti epistemologici:
La premessa necessaria e ineliminabile dell’argomentazione è l’essere della coscienza.
L’oggetto è il complesso dei principi che devono essere
necessariamente pensati come costituenti la realtà.
Il metodo è la necessità del pensiero puro.
La conoscenza che si persegue ha carattere di apodittica
certezza.
4. Il credo religioso cristiano
presso Agostino e Anselmo
Il credo cristiano nell’Incarnazione e Rivelazione assume un
significato fondamentale per la storia dell’Europa. Come viene
inteso e interpretato nella storia dello spirito europeo l’evento
del mistero dell’Incarnazione? – Sotto il profilo filosofico bisogna necessariamente rifarsi alla fine del IV secolo, alle
Confessioni di S.Agostino. Ma già prima della sua straordinaria
biografia spirituale, egli aveva redatto il suo scritto De vera religione. Qui, nella sua appassionata ricerca di Dio è contenuta la
celebre frase:
Noli foras ire, in te ipsum redi,
In interiore homine habitat veritas.5
Non andare fuori, rientra in te stesso,
la verità abita nell’interno dell’uomo.
Questa ardente ricerca della verità viene compiuta scrutando la propria interiorità e verrà precisata nelle Confessioni
come segue:
81
Cercavo la via […] e non la trovavo, finchè abbracciai lui,
‘l’uomo, l’uomo Gesù Cristo’, che è Dio sopra tutte le cose,
lui che chiama e dice: “Io sono la via, la verità e la vita.”6 [1
Tim 2,5]
Lo sforzo di comprensione razionale del credo cristiano,
quale si manifesta in S. Agostino, viene ripreso da Anselmo di
Aosta. Egli si chiede:
se ciò che teniamo fermo per fede […] possa esser dimostrato con argomentazioni necessarie, senza l’autorità della
Sacra Scrittura.7
Quali sono i presupposti da cui parte Anselmo per dimostrare il carattere di verità razionale, insito nella Sacra Scrittura,
1. senza l’autorità della Scrittura
e
2. mediante necessarie argomentazioni razionali?
Il presupposto fondamentale che sta alla base del suo
intento conoscitivo è racchiuso nella tesi seguente: Il credo religioso non è in contrasto con la ragione. Infatti se fede e ragione fossero in contraddizione tra loro, il contenuto di verità implicito nel credo religioso non lo si potrebbe né afferrare né dimostrare mediante la ragione. E del resto, la condizione della possibilità della reciproca relazione tra esperienza di fede e atto
razionale, risiede già nel fatto che entrambi, presi di per sé tendono ad un solo e unico fine: alla verità.
Anselmo era ben consapevole che la sua tesi sulla relazione reciproca intercorrente tra fede e ragione non era del tutto
accettata e condivisa.
Egli intende rivolgersi anzitutto a coloro che ostentano un
atteggiamento di radicale scetticismo, cioè “scendere in
campo a difesa della nostra fede contro coloro che, non volendo credere ciò che non comprendono, deridono i credenti.”8
Nello stesso tempo egli intende dissolvere ogni ombra di
dubbio, ancora persistente in alcuni, in merito alla presunta
inconciliabilità di fede e ragione: “benchè in essi la fede abbia
la preminenza sulla ragione [ragione che sembra loro contrastare con la fede], non mi pare superfluo dissolvere e vanificare la loro permanente insicurezza.”9 Sia il radicale atteggiamento scettico di alcuni verso la fede religiosa, sia la persistente
82
ombra di incertezza di altri, inducono Anselmo – nella seconda
metà del secolo XI – a riprendere le considerazioni già esposte
da Agostino – a cavallo tra il IV e il V secolo – e dare loro una
ulteriore sistemazione razionale, secondo i seguenti aspetti
sistematici: La relazione fede-ragione, il problema di Dio e il
problema dell’Incarnazione.
5. Il rapporto fede-ragione
L’intenzione di Anselmo era di provare che i contenuti di
verità, insiti nel credo cristiano, potevano trovare giustificazione e fondamento nel pensiero razionale. L’attività razionale ha
valore costitutivo, è insita nella natura stessa dell’uomo:
“Nessun uomo può essere inteso come tale, senza la
facoltà razionale.”10 Cioè “ogni uomo è necessariamente
dotato di ragione.”11 Tale costatazione è ”di per sé così evidente, che parrebbe irrazionale volerla dimostrare.”12
Dalla indiscussa razionalità di ogni uomo, da cui non può
essere escluso neppure il credente, Anselmo deduce come
logica conseguenza: “mi pare una negligenza, se non ci sforziamo di comprendere ciò che crediamo.”13
Ciò che Anselmo pone come presupposto, non è altro che
l’estrinsecarsi di quella facoltà di cui ognuno dispone: il lume
della ragione. Si tratta della facoltà di riflettere su se stessi, sulla
propria esistenza.
Il postulato di un credo raziocinante non serve per Anselmo
soltanto ad attribuire alla ragione una funzione apologetica,
non serve soltanto a fornire al credente le armi per combattere l’incredulità degli scettici e dei nemici della fede.
Il ruolo preminente della ‘ratio’ ha una ulteriore dimensione.
In considerazione della portata esistenziale del credo cristiano
con la sua promessa de salvezza, il ruolo della ‘ratio’ consisterà
piuttosto in un autocomprendersi, in un atto di riflessione su se
stessi e sulla propria esistenza. La fede non sarà soltanto un
semplice garante della verità della dottrina, ma sarà in concomitanza con la ragione, una scelta esistenziale e impegno totale.
83
Il credo cristiano, come convinzione di un irrinunciabile vincolo che lega l’uomo a Dio, ha pertanto un duplice aspetto:
1. credo ut intelligam, ove il credo viene inteso come incentivo per l’attività logica della ragione. Il credo perfeziona la
ragione, ne accresce la forza, la dispone alle cose più alte.
2. intelligo ut credam, ove la chiarezza razionale, nella sua attività di riflessione e di intendimento consapevole, si accende all’atto di fede, per poi realizzarla secondo la sua
responsabilità personale.
L’impegno conoscitivo, secondo Anselmo, può essere inteso solo come fondamento e giustificazione razionale della fede
in vista della realizzazione dell’esistenza. Qui è racchiusa anche
la legittimazione di tale atto conoscitivo: esso non serve solo a
soddisfare una pura esigenza intellettuale, ma è soprattutto
scelta esistenziale, scelta di un modello di vita nella fede.
6. Conquista della fede tramite la ragione
Nel prologo del Monologion, Anselmo fornisce delle indicazioni sul movente e sul metodo delle sue considerazioni:
“Alcuni fratelli [cioè monaci dell’abbazia di Bec di cui
Anselmo era priore] mi hanno ripetutamente e insistentemente
pregato di trascrivere per loro come esempio di meditazione,
certe cose che avevo loro esposto oralmente in linguaggio
comune, intorno alla essenza divina e altre questioni […] e mi
hanno imposto questa forma;
[1] che assolutamente nulla vi fosse raggiunto con l’autorità
della Scrittura, ma che l’esito di ogni ricerca fosse, in uno
stile semplice e con argomenti comuni,
[2] brevemente concluso dalla necessità della ragione e
[3] con argomenti manifestati dalla chiarezza della verità.
Hanno anche voluto che non disdegnassi di rispondere alle
eventuali obiezioni, anche a quelle semplici e banali.”14
Una tale esattezza nel delineare l’oggetto della ricerca e i
passi da seguire nel processo conoscitivo, come è espressa
nel Prologo della sua opera, sarebbe auspicabile per ogni ricerca, specialmente quando si affrontano problemi rilevanti ed
essenziali.
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Al di là del chiaro intento pedagogico, Anselmo precisa in
maniera inequivocabile il modo con cui deve essere affrontato
il problema metafisico dell’Assoluto come essenza divina
(essentia divinitatis) cioè:
senza l’autorità della Scrittura (sine auctoritate scripturae)
solo con argomenti dettati da necessità della ragione (rationis necessitas).
Come Agostino anche Anselmo si ritira nell’interiorità:
“Tutto ciò che io dissi, lo esposi in qualità di uno che interroga se stesso e esplora, nella introspezione, quelle cose di
cui non si era accorto prima”.15
Prendere coscienza delle proprie facoltà razionali, costituisce il primo passo nell’attività conoscitiva, un passo che può
essere compiuto – dice Anselmo – anche da un uomo di
mediocre talento o da un insipiente: “penso che anche uno di
mediocre ingegno possa intendere con la ragione le cose [che
noi crediamo]”.16
Il credo cristiano culmina nell’affermazione della realtà di un
Dio personale e dell’Incarnazione nella storia. È possibile dimostrare a lume di ragione queste due verità, con i due criteri
addotti da Anselmo, sola cogitatione e rationes necessariae?
7. Il problema dell’esistenza di Dio
Il problema dell’Assoluto (in prospettiva cristiana diremo:
dell’esistenza di Dio) costituisce il problema fondamentale di
tutta la storia della filosofia occidentale. Non è possibile in questo contesto andare alla ricerca dei diversi modi di intendere e
definire l’assoluto nel corso della storia. Certamente si può
escludere e separare dal vero concetto di assoluto tutto ciò
che non può essere inteso come realtà assoluta, anche se nell’opinione dei più è considerata come tale. Non è un problema
che si possa risolvere in termini di concordanza di pareri o di
unanimità. È un problema che va risolto unicamente per il tramite del puro pensiero.
Naturalmente anche noi, come i confratelli di Anselmo, ci
domandiamo: Ma è proprio possibile concepire nella mente il
85
concetto di assoluto con il puro intervento del pensiero, e dargli una giustificazione razionale?
Nel proemio del Proslogion Anselmo ci racconta la drammatica ricerca e scoperta dell’argomento unico (unum argumentum) per provare la razionalità della fede. Nell’introspezione
tesa alla disperata ricerca della verità di Dio, egli scrive:
“Rivolgo spesso con impegno il mio pensiero su questo
punto [scil.: che Dio esiste veramente] e talvolta mi sembrava di poter afferrare quanto cercavo, talvolta invece
sfuggiva del tutto all’acume della mia mente, alla fine, privo
di speranza, volli cessare la ricerca di una cosa che sembrava impossibile trovare. Ma quando volevo escludere
completamente da me quel pensiero, affinché non impedisse alla mia mente, occupandola inutilmente, di impegnarsi in altri pensieri nei quali potessi fare progressi, proprio allora quel pensiero cominciò sempre più ad imporsi,
con una certa importunità, a me che non lo volevo e lo
respingevo. Mentre dunque un giorno, fortemente mi affaticavo nel resistere alla sua insistenza, nel conflitto stesso
dei pensieri mi si presentò ciò di cui avevo disperato, sì da
farmi applicare con passione a quel pensiero che mi ero
preoccupato di respingere.”17
Queste parole documentano sia la serietà e l’impegno nella
ricerca del vero, sia le difficoltà incontrate nel risolvere il problema della conoscenza di Dio:
“ho cominciato a chiedermi se per caso fosse possibile trovare un argomento unico, tale che per essere dimostrato
non avesse bisogno di altro, ma solo di se stesso, e che
fosse da solo sufficiente a stabilire che Dio esiste veramente, che è il sommo bene di nessun altro bisognoso e di cui
tutte le cose hanno bisogno per essere e per ben essere,
e tutto ciò che crediamo della divina sostanza.”18
Ma in che cosa consiste l’unum argumentum addotto per
risolvere il problema di Dio? Esso consiste nella precisazione
del vero concetto di assoluto, formulato nel modo seguente:
“crediamo che tu sia
qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande”
credimus te esse
aliquid quo nihil maius cogitari possit.19
86
La riflessione sulle necessarie implicazioni di pensiero dell’unum argumentum risolve nello spirito umano il problema di
Dio. La sua esplicazione conduce nel Proslogion anselmiano ai
seguenti risultati:
1. “Dio esiste veramente” – Quod vere sit deus. (cap. II)
2. “Non si può pensare che Dio non esista” – Quod non possit cogitari non esse. (cap. III)
3. “Dio è maggiore di quanto si possa pensare” – Quod maior
sit quam cogitari possit. (cap. XV)
Il procedere di Anselmo risulta immediatamente evidente.
Se riusciamo in via razionale a provare che la relazione dell’uomo rispetto a un Dio personale è costitutiva e ineliminabile,
vedremo profilarsi un concetto di uomo lontano da ogni definizione ideologica e arbitraria o legato a una dimensione di pura
immanenza.
8. L’Incarnazione di Dio nella storia umana
Nella sua ultima opera fondamentale Anselmo affronta il
punto centrale della fede cristiana: l’Incarnazione. – Nessuno,
prima di lui e dopo di lui, ha toccato questo argomento con lo
stesso rigore razionale, e con la sua semplice chiarezza. Il suo
Cur deus homo non affronta questa verità di fede come fatto
storico, ma compie il tentativo di comprenderla nella sua possibilità e necessità.
Come per la prova dell’esistenza di Dio, Anselmo conduce
anche qui una argomentazione strettamente razionale (filosofica, non teologica), secondo il criterio di necessità di pensiero.
Nella Praefatio egli dichiara di dimostrare la possibilità e la
necessità dell’Incarnazione, sola cogitatione e con rationes
necessariae, non tenendo conto di Gesù Cristo:
“allontanato Cristo, come se egli non ci fosse mai stato,
dimostra con rationes necessariae.”20
L’atto razionale che dimostra il contenuto di fede, viene formulato come segue:
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“è necessario che si compia per l’uomo ciò per cui egli è
stato creato”
e questo è solo possibile “attraverso Dio fattosi uomo.”21
Le argomentazioni razionali condotte da Anselmo per spiegare le due verità fondamentali della Rivelazione cristiana, sono
in linea di principio aperte alla comprensione di ognuno.
Raggiungere tale grado di astrazione non è ovviamente sempre possibile. Ciò non vuol dire che una autentica comprensione dell’uomo e della realtà assoluta (Dio) non sia possibile in
altro modo e per altra via (per esempio nell’arte).
Naturalmente una conoscenza data o acquisita la si può
semplicemente constatare, o la si può tradurre in atto, cioè
assumerla come principio informatore della realtà. Per esempio
della realtà politica e spirituale dell’Europa che si va costruendo, nella dimenticanza più o meno consapevole dei valori spirituali di una tradizione millenaria.
9. La concezione di una comunità europea
I nostri riferimenti alle radici cristiane dell’Europa sono stati
motivati dalle seguenti ragioni:
1. All’inizio del terzo millennio della storia occidentale non si
potranno cancellare le sue radici cristiane, a meno che non
si voglia rinunciare all’identità stessa dell’Europa.
2. Se è possibile dimostrare che quelle radici spirituali hanno
valore costitutivo ed intrinseco per l’ esistenza umana in
generale, dovremo concludere che la loro eliminazione sia
da considerare come una violazione del fine ultimo dell’uomo.
3. Una tale conclusione non sarebbe il risultato di un rigorismo ideologico, ma significherebbe una rinuncia alla
dimensione metafisica del credo religioso-cristiano.
Pertanto valori umani e immanenti, intesi come assoluti,
assumerebbero il ruolo di fondamento generale della
comunità europea.
Per quanto concerne l’applicazione dei suddetti principi,
razionalmente dimostrabili ci chiediamo se nel processo di uni88
ficazione europea prevarranno aspetti puramente politici ed
economici oppure quei valori che costituiscono l’essenza spirituale dell’Europa, valori che è ancora possibile percepire nella
religione e nella cultura dell’occidente.
Per questo problema di scottante attualità, facciamo riferimento a due voci della storia del pensiero, in cui si manifesta
sia la dimensione umanistico-classica, sia la dimensione cristiana della tradizione europea.
L’eredità umanistico-classica dell’Europa
illustrata da Edmund Husserl
In una conferenza, tenuta alla Università di Vienna nel 1935,
Husserl avvertiva una crisi dei valori dello spirito, la crisi spirituale dell’Europa, che si manifestò nelle sue esperienze più
crudeli negli anni immediatamente successivi.
Per Husserl il destino dell’Europa coincide con il destino
della filosofia. La crisi della vita europea ha due vie d’uscita:
o il tramonto dell’Europa con l’oscurarsi dei valori dello spirito e con la ricaduta in uno stato di barbarie,
oppure la rinascita dell’Europa nello spirito della filosofia
mediante l’eroismo della ragione.
Il più grande pericolo dell’Europa è la stanchezza – Husserl
aggiunge – e contro questa stanchezza noi Europei dobbiamo
combattere valorosamente una interminabile battaglia. Solo
così, dalle ceneri di un rovinoso incendio dell’incredulità, risorgerà come una fenice una nuova spiritualità europea, perché
solo lo spirito è immortale.22
Con lucidità e penetrazione Husserl interpreta la debolezza
dell’Europa come il tramonto dei valori dello spirito. Il destino
dell’Europa coincide con il destino della filosofia; ed io agguingerei: e con il destino della religione.
In una coerente riflessione sulla tradizione culturale europea, nella presa di coscienza delle nostre radici culturali, non
possiamo perdere di vista l’altra componente essenziale: il
Cristianesimo. Non solo la filosofia, anche il Cristianesimo sem89
bra aver perduto la sua funzione di colonna portante dell’edificio spirituale dell’Europa. Il credo religioso appare relegato
oggi al rango di ’questione privata e personale’ (Privatsache).
La religione ha perduto il suo carattere di impegno vincolante
per le classi politiche. Pare improbabile che nella costituzione
europea si faccia spazio a un riferimento diretto alle radici cristiane dell’Europa.
Prima del vertice di Brüssel del dicembre 2003, i partiti
tedeschi della destra hanno avanzato nel Bundestag una proposta da inoltrare a Brüssel, di introdurre nella Costituzione
Europea questa formula: “Nella consapevolezza della responsabilità di fronte a Dio, agli uomini, e al patrimonio della tradizione spirituale e culturale dell’Europa, l‘Unione si fonderà sui
valori indivisibili e universali della dignità della persona, della
libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà”23. La maggioranza
nel Bundestag ha rifiutato di accettare questa formulazione.
Secondo la promessa del credo religioso cristiano, comprovabile per via razionale, la realizzazione dell’esistenza
umana culmina nel nesso relazionale con un Dio personale.
Anche nel caso in cui la relazione tra l’uomo e la realtà assoluta, venga posta come ipotesi – come è nel caso del non-credente – anche in questo caso dunque, non si potrà negare
che, proprio a causa della più propria comprensione dell’uomo, questa relazione meriterebbe di essere considerata come
‘oggetto di capitale importanza’.
La base generale di un fondamento spirituale e intellettuale di una comunità europea può consistere esclusivamente in
una idea originariamente classica e cristiana di una Europa
unita. In tale contesto si suole fare riferimento al saggio del
Novalis Die Christenheit oder Europa.
L’eredità cristiana dell’Europa
nella convinzione morale e intellettuale del Novalis
“Il risultato del modo di pensare moderno venne chiamato
filosofia e le venne attribuito tutto quello che si opponeva all’antico e quindi, soprattutto, ogni idea contro la religione.”24
“Questa storia dell’irreligiosità moderna è singolarissima ed
è la chiave di tutti i giganteschi fenomeni dell’epoca moderna.”25
90
“Solo la religione può risvegliare l’Europa e dar sicurezza ai
popoli e insediare la Cristianità, visibile sulla terra, con nuova
magnificenza nel suo antico ufficio di operatrice di pace.”
26
“La Cristianità deve tornare ad essere ancora vitale e operosa, e ricostruirsi una Chiesa visibile […], che accolga nel suo
seno tutte le anime che hanno sete di ultraterreno e diventi
volentieri mediatrice fra il vecchio mondo e il nuovo. Essa deve
di nuovo riversare sui popoli l’antica cornucopia della benedizione. Dal sacro grembo di un degno concilio europeo si leverà
la Cristianità, e il compito del risveglio religioso verrà condotto
secondo un piano divino universale.”27
“Ma quando? Presto? Questo non si deve chiedere [...] e
fino ad allora siate sereni e coraggiosi nelle avversità del
tempo, compagni della mia fede, annunciate in parole e azioni
il Vangelo divino e restate fedeli alla fede vera, infinita. fino alla
morte.”28
Note
(1) Jaspers, K.: Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung,
München 1962, p. 62.
(2) Novalis, Die Christenheit oder Europa, Geschrieben im Jahre 1799. In:
Schriften. Die Werke Friedrich von Hardenbergs. [1772-1801], hrsg. v. P.
Kluckhohn und R. Samuel, Stuttgart 1983, Vol. 3. p. 495-524)
(3) Ayer, A.J. Language, truth and logic, London 196717, p. 41: “that all
metaphysical assertions are nonsensical”.
(4) Cfr. Schurr, A., Einführung in die Philosophie. Existentielle und wissenschaftstheoretische Relevanz erkenntnis-kritischen Philosophierens., (problemata frommann-holzboog 68) Stuttgart-Bad Cannstatt 1977. – Cfr. Schurr, A,
Philosophie als System bei Fichte Schelling und Hegel. Fromann, Stuttgart-Bad
Cannstatt 1974.
(5) Augustinus, La vera religione, Introduzione, note e apparati di Onorato
Grassi, Testo latino a fronte, Milano 1997, p. 128/129-130/131.
(6) Augustinus, Confessiones, Lib. VII, p. 18, 24: quaerebam viam […] nec
inveniebam, donec amplecterer ‘mediatorem dei et hominum, hominem
Christum Iesum’’, ‘qui est super omnia deus […] vocantem et dicentem: »ego
sum via et veritas et vita«.
(7) Anselmus, Epistola de incarnatione verbi, ed. Schmitt, Opera omnia II, p.
20, 18-19: ut quod fide tenemus […] necessariis rationibus sine scripturae auctoritate probari possit.
(8) Anselmus, Epistola de incarnatione verbi, ed. Schmitt, Opera omnia II, p.
21, 1-2: posui ad respondendum pro fide nostra contra eos, qui nolentes credere quod non intelligunt deriderent credentes.
(9) Anselmus, Epistola de incarnatione verbi, ed. Schmitt, Opera omnia, II,
p. 6, 2-4: etiam si fides in illis superet rationem quae illis fidei videtur repugnare,
non mihi videtur superfluum repugnatiam istam dissolvere.
91
(10) Anselmus, De grammatico, ed. Schmitt, Opera omnia, I, p. 151,26-27:
nullus homo potest intelligi homo sine rationalitate.
(11) Anselmus, De grammatico, ed. Schmitt, Opera omnia, I,147, 25-26:
Omnis [...] homo rationalis est ex necessitate.
(12) Anselmus De grammatico, ed. Schmitt, Opera omnia, I, 148,1: per se
notae, ut imprudentia sit eas probare.
(13) Anselmus, Cur deus homo, Praefatio, ed. Schmitt, Opera omnia, II, 48,
17-18: negligentia mihi videtur, si [...] non studemus quod credimus intelligere.
(14) Anselmus, Monologion, Prologus, Schmitt, Opera omnia, I,1-12:
Quidam fratres saepe me studioseque precati sunt, ut quaedam, quae illis de
meditanda divinitatis essentia et quibusdam aliis huiusmodi meditationi cohaerentibus usitato sermone colloquendo protuleram, sub quodam eis meditationis
exemplo descriverem. [...] hanc mihi formam praestituerunt:
[1] quatenus auctoritate scripturae penitus nihil in ea persuaderetur, sed
quidquid per singulas investigationes finis assereret, id ita esse plano stilo et vulgaribus argumentis simplicique disputatione et
[2] rationis necessitas breviter cogeret et
[3] veritatis claritas ostenderet.
Voluerunt etiam, ut nec simplicibus paeneque fatuis obiectionibus mihi
occurrentibus obviare contemnerem.
(15) Anselmus, Monologion, Prologus, Schmitt, Opera omnia, I, p. 8,18-20:
Quaecumque autem ibi dixi, sub persona secum sola cogitatione disputantis et
investigantis ea, quae prius non animadvertisset, prolata sunt.
(16) Anselmus, Monologion, Schmitt, Opera omnia, I cap.1, 13,10-11: puto,
quia ea [quae credimus] si vel mediocris ingenii est, potest ipse sibi saltem sola
ratione persuadere.
(17) Anselmus, Proslogion, Prooemium, Schmitt, Opera omnia, I, p. 93, 1019: Ad quod [quia deus vere est] cum saepe studioseque cogitationem converterem, atque aliquando mihi videtur iam posse capi quod quaerebam, aliquando
mentis aciem omnino fugeret: tandem desperans volui cessare velut ab inquisitione rei quam inveniri esset impossibile. Sed cum illam cogitationem, ne mentem meam frustra occupando ab aliis in quibus proficere possem impediret,
penitus a me vellem excludere: tunc magis ac magis nolenti et defendenti se coepit cum importunitate quadam ingerere. Cum igitur quadam die vehementer eius
importunitati resistendo fatigarer, in ipso cogitationum conflictu sic se obtulit
quod desperavam, ut studiose cogitationem amplecterer, quam sollicitus repellebam.
(18) Anselmus, Proslogion, Prooemium, Schmitt, Opera omnia, I, p. 93, 410: coepi mecum quaerere, si forte posset inveniri unum argumentum, quod
nullo alio ad se probandum quam se solo indigeret, et solum ad astruendum,
quia deus vere est et quia est summum bonum nullo alio indigens, et quo omnia
indigent ut sint et ut bene sint et quaecumque de divina substantia sufficeret.
(19) Anselmus, Proslogion, cap. 2, Schmitt, Opera omnia, I, p.101,5. - Cfr.
SCHURR, A., Explikation des ‚ontologischen Arguments’ in: Die Begründung der
Philosophie durch Anselm von Canterbury. Eine Erörterung des ontologischen
Gottesbeweises. Stuttgart, Kohlhammer, 1966.
(20) Anselmus, Cur deus homo, Praefatio, Schmitt, Opera omnia, II, p.42,
12-13: remoto Christo, quasi numquam aliud fuerit de illo, probat rationibus
necessariis.
(21) Anselmus, Cur deus homo, Praefatio, Schmitt, Opera omnia, II,p.42,1643,1-2: necesse esse ut hoc fiat de homine propter quod factus est, sed non nisi
per hominem-deum.
(22) Cfr. Husserl, E., Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die
transzendentale Phänomenologie. Husserliana VI, hrsg. v. W. Biemel, Ges.
Werke, Den Haag 1962, S. 320 f.: „Die Krise des europäischen Daseins hat nur
zwei Auswege: Den Untergang Europas in der Entfremdung gegen einen rationalen Lebenssinn, den Verfall in Geistfeindschaft und Barbarei, oder die
Wiedergeburt Europas aus dem Geiste der Philosophie durch einen den
Naturalismus endgültig überwindenden Heroismus der Vernunft. Europas größte
Gefahr ist die Müdigkeit. Kämpfen wir gegen diese Gefahr der Gefahren als ‚gute
Europäer’ in jener Tapferkeit, die auch einen unendlichen Kampf nicht scheut,
92
dann wird aus dem Vernichtungsbrand des Unglaubens, dem schwelenden
Feuer der Verzweiflung an der menschlichen Sendung des Abendlandes, aus der
Asche der globalen Müdigkeit der Phönix einer neuen Lebensinnerlichkeit und
Vergeistigung auferstehen, als Unterpfand einer großen und fernen
Menschenzukunft: denn der Geist allein ist unsterblich.”
(23) Cfr. Mitteldeutscher Rundfunk, aktualisiert am 13.12.2003, zum Thema
‚EU-Verfassung - Worum wird gestritten?’ ‚Gottesbezug in der Verfassung?’
‚Union scheitert im Bundestag’, ‚Unmittelbar vor dem Gipfel in Brüssel hatten
CDU und CSU vergeblich versucht, im Bundestag eine Entscheidung für den
Gottesbezug herbeizuführen. Nach ihrem Willen sollte das Parlament der
Bundesregierung folgenden Formulierungsvorschlag mit auf den Weg nach
Brüssel geben:
„In dem Bewusstsein der Verantwortung vor Gott, den Menschen und dem,
was Europa seinem geistig-religösen Erbe schuldet, gründet sich die Union auf
die unteilbaren und universellen Werte der Würde des Menschen, der Freiheit,
der Gleichheit und der Solidarität.“ ‚Die Mehrheit im Bundestag lehnte es ab.
(24) Novalis, Die Christenheit oder Europa, Geschrieben im Jahre 1799. In:
Schriften. Die Werke Friedrich von Hardenbergs. [1772-1801], hrsg. v. P.
Kluckhohn und R. Samuel, Stuttgart 1983, Vol. 3, p. 515.
(25) ibid. „Höchst merkwürdig ist die Geschichte des modernen Unlaubens,
und der Schlüssel zu allen ungeheuren Phänomenen der neuern Zeit.“ p.516.
(26) ibid. „Nur die Religion kann Europa wieder aufwecken und die Völker
sichern und die Christenheit mit neuer Herrlichkeit sichtbar auf Erden in ihr altes
friedenstiftendes Amt installiren.“ Vol. 3, p. 523.
(27) ibid. „Die Christenheit muß wieder lebendig und wirksam werden, und
sich wieder eine sichtbare Kirche [ ..] bilden, die alle nach dem Ueberirdischen
durstigen Seelen in ihren Schooß aufnimmt und gern Vermittlerin, der alten und
neuen Welt wird. Sie muß das alte Füllhorn des Seegens wieder über die Völker
ausgießen. Aus dem heiligen Schooße eines ehrwürdigen europäischen
Consiliums wird die Christenheit aufstehn, und das Geschäft der
Religionserweckung, nach einem allumfassenden, göttlichen Plane betrieben
werden.“ Vol. 3, p. 524.
(28) ibid. „Wann und wann eher? Darnach ist nicht zu fragen. […] und bis
dahin seyd heiter und muthig in den Gefahren der Zeit, Genossen meines
Glaubens, verkündigt mit Wort und That das göttliche Evangelium, und bleibt
dem wahrhaften, unendlichen Glauben treu bis in den Tod.“ Vol. 3, p. 524. –
(Traduzione italiana del „Novalis, La cristianità o Europa“ di Alberto Reale, Milano,
Rusconi, 1995).
93
BOGHOS LEVON ZEKIYAN
Associato di Lingua e Letteratura Armena
Università “Ca’ Foscari”, Venezia
L’apporto all’Europa dell’Oriente cristiano
Tommaso d’Aquino, uno dei maggiori pensatori della storia, e non solo del Medioevo o della cristianità, iniziando, appena trentenne, quel suo capolavoro, forse il più originale, certamente il più emblematico del suo pensiero, che è l’opuscolo
De ente et essentia, non solo poneva apertamente il discorso
del metodo al principio del sapere, sulla scia dei sommi geni
che l’avevano preceduto sulla questione del metodo e quasi a
garanzia di continuità con quanti gli si sarebbero susseguiti nel
tempo, ma ne additava anche la strada maestra indicandola
nel chiarimento e nella precisazione dei concetti che farebbero
da cardine alle sue ricerche successive.
Credo, perciò, che non sia fatica inutile impostare la nostra
riflessione sull’arduo tema che ci proponiamo attraverso il chiarimento dei concetti intorno cui si tesserà la trama del nostro
discorso. Anzi, man mano che i relativi concetti, cioè i termini
della questione diventeranno più trasparenti, si farà pure più
riconoscibile il tracciato di sentiero per una migliore comprensione sia del rapporto in genere fra l’Europa e le Chiese
d’Oriente sia delle possibili risposte al nostro quesito specifico.
Tale procedimento ci offrirà pure una valida premunizione
contro le imboscate del duplice rischio, alle soglie in simili casi,
da una parte di un approccio archeologizzante e, dall’altra, di
un approccio meramente estetizzante: il primo mirerebbe le
Chiese d’Oriente in un’ottica simile a quella che si ha trattando
delle antiche culture morte, come l’egizia o l’assiro-babilonese,
più semplicemente in un’ottica mummificante; il secondo
approccio le mirerebbe invece come oggetti estetici, quasi da
museo, in un trasporto estetico-mistificante. Credo che ambedue gli approcci siano da evitare, con chiara consapevolezza e
scrupolosa cura.
Le varie tematiche che faranno l’oggetto della nostra riflessione sono state, sotto certi aspetti, già toccate o alluse nelle
relazioni presentate ieri, in particolare in quelle dei Professori
Rigobello e Siniscalco. I singoli contributi si pongono quindi in
un rapporto di complementarietà e di reciproco supporto.
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Chiarimenti preliminari
1. Oriente/Occidente
Sembra luogo comune, da rasentare quasi la banalità,
distinguere Oriente e Occidente, civiltà orientale e civiltà occidentale. Però ciò che è diventato per uso e sopruso luogo
comune o rischia di esserlo, non di rado racchiude in sé lembi
di verità e saggezza insospettati. Ed è un caso simile quello che
stiamo per trattare.
Rileviamo anzitutto più che la relatività, la sostanziale convenzionalità dei concetti di ‘oriente’ e di ‘occidente’ su cui
sarebbe difficile sospettare qualche dissenso1. Né possiamo
ignorare la loro origine − o se si vuole ‘invenzione’, come qualcuno preferisce, la quale invenzione sarebbe poi nel caso specifico l’invenzione dell’Oriente da parte dell’Occidente2 − piuttosto recente quali categorie socio-culturali, nonostante una
lunga tradizione del loro uso nel linguaggio ecclesiale-liturgico
in un senso che non è meramente geografico. Neppure possiamo ignorare o sorvolare il fenomeno ancora più significativo
dell’intersezione delle culture.
Mi pare nondimeno che non si possa non riconoscere dei
tratti comuni ad intere aree culturali. Perciò non sarebbe azzardato ridurle, per le culture maggiormente sviluppate, ad alcuni
archetipi fondamentali, tra cui quelli appunto definibili come
Oriente e Occidente, prima che per altri motivi, per una comodità percettiva risalente alla nostra ecumene classica. Ciò,
senza ignorare affatto, semplicisticamente e in modo riduttivo,
la sconfinata varietà all’interno di ciascuno di essi, e le indefinite possibilità d’incroci inter- e correlazioniali tra le varietà stesse. Ma soprattutto senza alcuna implicazione di superiorità, né
di una qualsiasi valutazione maggiore di uno dei termini di raffronto rispetto all’altro; e senza la minima implicazione, in ogni
caso, di trovarci − come è stato giustamente e avvedutamente sottolineato − di fronte ad “un mondo diviso in due: da una
parte l’Occidente, attivo, che studia, civilizza, conquista e dall’altro l’Oriente, passivo, che viene civilizzato, studiato, conquistato”3.
Vi è certamente un problema di ‘modelli culturali’ e del loro
rapporto con la realtà della vita. Da quando pensatori, filosofi,
antropologi quali Wilhelm Dilthey, Oswald Spengler, Ruth
Benedict, Claude Lévi-Strauss, Jurij Lotman, sino a Élemire
Zolla ed altri hanno parlato di modelli, tipi, archetipi culturali, si
è costituita una lunga tradizione, nelle scienze filosofiche e
umane in genere, di ‘modelli’ variamente concepiti ed applica96
ti alle relazioni sociali, alle differenze culturali, ai diversi aspetti
delle attività e comportamenti umani.
Un principio metodologico imperativo, tra gli altri, nell’analisi e nella trattazione di tali modelli, mi pare sia quello di non
cedere alla duplice tentazione né delle facili schematizzazioni
né dell’idealizzazione; quanto dire che non si può trattare i
modelli in questione quasi fossero teoremi geometrici o tavole
logaritmiche, né pensare ad una loro aderenza perfetta alla
realtà concreta la quale, inafferrabile nella sua irripetibile singolarità, per sua natura sfugge ad ogni rigida definizione e ad ogni
concettualizzazione astratta.
Non è questa la sede congrua per addentrarci in una disamina storico-teorica di tale complessa, anzi assai complessa,
questione della definibilità concettuale d’Oriente e d’Occidente
e del loro reciproco rapporto. Non essendo però possibile,
senza una simile premessa, delineare in termini sufficientemente intelligibili l’ambito e il tema del discorso cui ci stiamo accingendo, mi permetto di riferirmi qui, riassumendone per sommi
capi le tesi fondamentali, ad un mio studio precedente su
Oriente e Occidente quali modelli e tipologie culturali4.
Pare che l’intero discorso su Oriente e Occidente abbia le
sue ultime radici nel fatto che fu quella realtà che viene comunemente definita come Occidente a staccarsi, ad un certo
momento della storia, dal ceppo comune per percorrere una
sua strada diversa e nuova; la quale strada, nonostante i molteplici sincretismi, a partire da quello ellenistico − forse il più
fecondo e dagli effetti più durevoli −, e non rare inversioni di
rotta nel lunghissimo arco dei secoli, resterà suo retaggio,
quasi esclusivo, fino a tempi recenti. Tale distacco avviene nell’antica Grecia intorno al VII secolo a.C.: è la nascita del Logos
quale realtà autonoma, cioè svincolata da ogni supporto, relazione, finalizzazione a checchessia al di fuori di sé e delle proprie norme, dei propri principi e criteri, dei propri obiettivi e interessi. È stato giustamente osservato: anche le civiltà dell’antico Egitto e della Babilonia sebbene avessero raggiunto, e assai
prima dei Greci, traguardi notevoli di conoscenze aritmetiche,
esse vi si erano fermate tuttavia per più di un millennio senza
registrare alcun progresso, perché non interessate direttamente alla conoscenza in sé, in quanto tale, bensì ai suoi risultati e
alle sue applicazioni pratiche5. Altrettanto si potrà dire delle
eccezionali conquiste linguistiche degli antichi Indù, tutte dominate però da preoccupazioni religiose e rituali, aventi come
unico scopo quello di “garantire la conservazione della lingua
sacra, lingua degli dèi, lingua perfetta (sanscrito = perfetto)”,
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senza l’intrusione del “minimo errore o difetto nell’enunciazione
e nella stessa articolazione delle formule rituali”6.
Il logos si afferma così nella sua propria specificità differenziando sostanzialmente, e non per circostanze accessorie, il
proprio ethos culturale ed il corrispettivo ambiente dal resto. È
tale resto che sarà in seguito considerato, nell’ecumene antica
e medievale, come l’Oriente. Lungi, però, come già rilevato,
dall’essere una realtà omogenea, questo Oriente è assai variopinto, come d’altronde lo sarà l’Occidente stesso. Gli stessi
termini geografici, usuali, di epoche successive, di Vicino,
Medio e di Estremo Oriente suggeriscono di per sé le varie
configurazioni interne della realtà orientale nella sua indefinita
complessità.
Dunque, l’Occidente in questione si presenta, in sostanza,
come una realtà che si allaccia all’antica cultura greca ed alle
sue varie derivazioni e diramazioni.
In tal contesto è da rilevare che il ‘resto’ di cui si è parlato,
l’Oriente, assumeva fin dalle culture primitive delle valenze particolari. Qualora volessimo condensarle in due parole, queste
valenze, diremmo che si presentano esse come delle manifestazioni, delle varianti tematiche di un immaginario, di una concezione cosmoteandrica che, in una infinita gamma di tonalità
e di sfumature, si costituiscono in una immensa ‘mitologia’ e
‘mistagogia’ della luce: così a partire dalla collocazione
dell’Eden “ad oriente”, per rifarci ad un esempio che stia nell’ambito delle tradizioni giudeo-cristiane, maggiormente attinenti al nostro tema. Ricordiamo pure, tra innumeri altri esempi attingibili alla fenomenologia religiosa, l’usanza assai arcaica
e comune nella storia delle religioni, di pregare rivolti verso l’oriente.
La civiltà greca raggiungerà il mondo occidentale dei secoli
successivi attraverso la mediazione di Roma, che a sua volta
imprimerà all’Occidente alcuni dei suoi tratti più tipici: praticità
e pragmaticità, senso di organizzazione che si rispecchierà
soprattutto nell’amministrazione statale, e non per ultimo il
concetto del diritto, lo jus, elemento cardine e più specificatamente caratterizzante dell’intera ideologia romana7, soprattutto
nel suo assetto di normativa pratica e casisticamente definita,
determinante i rapporti e comportamenti sociali.
Ovviamente Roma immetterà ancora parecchi altri elementi fondamentali nel patrimonio culturale dell’Occidente: per
esempio il senso e l’ambizione imperiali, spesso finemente travisati dall’apparato e dalle apparenze dello jus. La stessa compagine strutturale della Chiesa Cattolica Romana rispecchia
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senza dubbio in grandissime proporzioni l’antica eredità di
Roma. Tant’è profondo l’impatto di questa sull’Occidente che
non a caso una delle opere più colossali che mai siano state
progettate su Roma, la sua civiltà ed eredità, la tubinghese collana Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, si presenta
effettivamente come una storia del mondo occidentale attraverso i secoli, contemplato nella illuminante prospettiva dell’eredità romana.
Quanto detto mi sembra sufficiente ai fini del nostro intento, nonostante la vastità del soggetto, per enucleare, da una
parte, la fisionomia concettuale delle idee di ‘Oriente’ e di
‘Occidente’, e per mettere, d’altra parte, in chiaro il nucleo del
particolare rapporto tra l’antica Roma e l’Occidente dei secoli
successivi.
Purtroppo non possiamo prendere ora in esame, neppure
a mo’ di riassunto di ricerche condotte in altra sede, le molteplici questioni riguardanti le caratteristiche, i modelli comportamentali, i punti di forza e le lacune, le conquiste e le defezioni
delle rispettive tipologie. Queste verranno però a galla allorché
affronteremo di petto la questione specifica del contributo
all’Europa delle Chiese d’Oriente.
2. L’Occidente, il Cristianesimo e le grandi religioni
Passiamo quindi alla considerazione, sempre in termini
generali, dell’essenza e della natura dell’apporto, certamente
notevole, del Cristianesimo ai processi di formazione, di consolidamento e di metamorfosi della civiltà occidentale. Sarà
pure questa un’altra importante premessa nell’itinerario ideale
che ci porta verso il cuore del tema assegnato al presente
intervento: l’apporto all’Europa dell’Oriente cristiano.
Come prima osservazione in merito, in base a quanto già
detto, mi riferirò ad una espressione, che ritengo felice, di
Emanuele Severino. Ciò che abbiamo visto essere stato la propria invenzione, la singolare creatività dello spirito greco, vale a
dire, la scoperta, la nascita del logos, è ciò che apre lo spazio,
dà l’impronta primordiale a quella che sarà l’affascinante
avventura dell’Occidente. Parafrasando liberamente il seguito
del discorso cui mi riferisco, direi che lo stesso Cristianesimo è
divenuto, per fatalità storica, ciò che esso è nella sua elaborazione metafisico-teologica, nel bene e nel meno bene, in virtù
di quella sua struttura concettuale portante che si è formata a
partire dalla prima riflessione cristiana sulla Parola quale impal99
catura architettonica, per servire ad essa da ricettacolo. Tale
struttura è appunto quella costituita dallo spazio originariamente aperto dal pensiero greco.
È vero che non tutti sarebbero d’accordo con tale approccio, credendo di vedervi una diminuzione, o almeno riduzione,
dell’originalità del Cristianesimo8. Mi pare invece che la novità
fondamentale, apportata dal Cristianesimo alla cultura occidentale, e non solo ad essa, e giustamente sottolineata da parecchi pensatori, sia una novità che riguarda soprattutto i contenuti, relativi al senso dell’essere e della vita, del bene e del male,
al destino dell’uomo e dell’universo. Peraltro ciò non sta in contrasto con l’apertura iniziale impressa dal pensiero greco alla
cultura occidentale né rompe l’intima e profonda continuità tra i
due, anche per il fatto che si trattava d’impulsi e di fattori agenti, quanto ai rispettivi nuclei centrali, su piani diversi. Infatti, l’apertura e l’originalità sostanziale dell’arché greca si colloca
soprattutto sul piano del modo, della struttura del pensare, dell’atto stesso del filosofare, come direbbe Jaspers9, mentre la
grande novità del Cristianesimo è, ripeto, nei suoi contenuti. Né
sta in contrasto quanto stiamo dicendo con la visione tomistica,
che è pure la nostra, del rapporto tra etica umana ed etica cristiana: vale a dire che la seconda non comporta rispetto alla
prima alcuna novità sostanziale di contenuto normativo se non
la fondamentale novità della finalità, del modello e del modo di
adempiere a quella stessa normativa.
Quanto abbiamo affermato del Cristianesimo, varrebbe,
penso, fatte le debite proporzioni, anche delle altre due grandi
religioni storiche dell’ecumene mediterranea, nel loro rapporto
con l’Occidente: il giudaismo e l’Islam. Mi riferisco al primo,
considerandolo sia nelle sue radici storico-culturali sia nei suoi
sviluppi successivi e nelle sue componenti più recenti, tanto nel
suo assetto fondante di humus, di fecondo retroterra dello
stesso Cristianesimo quanto nel suo impatto diretto e intimo
con l’evoluzione dell’Occidente; mi riferisco al secondo, considerandolo sia nella sua funzione d’imprescindibile mediatrice e
interagente tra l’antichità, in particolare la grecità classica, e
l’Occidente posteriore, sia nel suo ruolo di creativo propulsore
di progresso, per diversi secoli, sulla scia dell’eredità antica;
progresso che diverrà in seguito comune retaggio
dell’Occidente e dell’intero sapere umano.
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3. Chiese d’Oriente
Possiamo ora affrontare la domanda: che significa
‘Chiesa/Chiese d’Oriente’? È mera descrizione topografica
oppure vi è in tale e simili espressioni qualcosa di più profondo, un qualche significato di spessore di non comune rilievo e
tanto meno riducibile a semplice collocazione geografica.
L’originaria connotazione di questa denominazione è da
ricercare, con ogni probabilità, nella bipartizione dell’Impero
romano, con due ‘Augusti’ a capo di ciascuna parte, l’occidentale e l’orientale. Secondo la giusta osservazione di P.
Wilhelm de Vries, S.J., “Persino allorquando, dopo la morte di
Teodosio (395), la divisione dell’impero divenne definitiva, si
volle ciononostante mantenere l’unità dell’impero. Di fatto però
le due metà dell’impero ebbero ben presto uno sviluppo così
fondamentalmente diverso che la divisione acquistò un significato più profondo di quanto non fosse nelle intenzioni originali. … La distinzione tra chiesa orientale e occidentale risale dunque storicamente alla spartizione dell’impero”10.
Tale osservazione, per quanto in linea coi successivi sviluppi storici, sui piani sia politico sia culturale, non dovrebbe però
farci dimenticare quella percezione anteriore, primaria e ancor
più profonda, risalente all’antichità greca già dai tempi omerici,
ma chiaramente espressa e consolidata all’epoca classica in
concomitanza soprattutto delle guerre persiche, per cui le
categorie ‘Oriente/Occidente’, effettivamente la contrapposizione tra grecità e Asia, andavano acquisendo, sempre più,
valenze e contenuti prettamente antropologico-culturali. Per
quanto riguarda in particolare il nostro discorso ecclesiale,
detta percezione traspare inequivocabilmente, nell’era patristica, in diversi atteggiamenti − come quelli ben noti di Rufino e
di San Girolamo −, in pellegrinaggi − come nell’archetipico
caso di Egeria −, e in tanti discorsi e commenti su cui non
potremmo ora dilungarci. Ne citerei comunque uno, quasi
emblematico, che nella sua icastica concisione esprime appieno quanto vorremmo dire: si tratta dell’iscrizione damasiana la
quale, pur rivendicando gli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori
della Chiesa di Roma, come proprii cives, non disdegnava di
riconoscerne apertamente l’origine, l’identità orientale:
Discipulos Oriens misit, quod sponte fatemur11. La seconda
parte della frase, che ricalca con effetto persino enfatico quanto affermato nella prima, pone in più nitida evidenza la coscienza romana/occidentale della contraddistinta esistenza di una
cristianità ed ecclesialità orientali. Mi permetto di richiamare
l’attenzione − e lo faccio con insistenza − sul fatto che ‘contraddistinto’, di per sé, non significa affatto ‘contrapposto’.
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La realtà di Chiese d’Oriente oppure orientali presenta a
sua volta, al proprio interno, varie sfaccettature, le quali pur
sempre partendo dalla percezione di una peculiare collocazione spaziale geografica, assumono comunque presto delle connotazioni di carattere culturale in genere, rituale-canonico e
cultuale-liturgico in particolare. Così per la ‘Grande Chiesa’
dell’Impero d’oriente, la Chiesa bizantina con a capo il
Patriarcato di Costantinopoli, orientali saranno le cristianità e
Chiese poste presso oppure oltre i confini orientali dell’Impero:
da Gerusalemme ed Antiochia sino alla Mesopotamia e alla
Subcaucasia12. Alla stessa guisa queste medesime Chiese
erano ‘orientali’ anche rispetto all’antichissima sede apostolica
di Alessandria. Infine i cristiani siri dell’Impero persiano e la loro
Chiesa saranno considerati e chiamati ‘orientali’ ed essi stessi
si riconosceranno tali rispetto ai propri compatrioti e corrituali
siri della Chiesa d’Antiochia13.
Abbiamo accennato all’inizio all’intersezione delle culture.
Sarebbe quanto mai opportuno richiamarla ora. Le cristianità
orientali ne offrono, per molti versi, un modello eccezionalmente ricco e complesso. Infatti, nelle culture dell’Oriente cristiano,
nelle sue dottrine, perfino nella sua mistica, vi è certamente un
notevole retaggio delle tradizioni greche quanto all’approccio
intellettuale, ai processi logici, agli schemi mentali, ecc.; vi è la
voluta consapevolezza della distinzione tra la sfera del puro
intelletto e la sfera cognitiva del vissuto religioso. Ma vi è tra
queste due sfere una intercomunicazione e simbiosi maggiori
di quanto non siano generalmente nella cristianità occidentale14. A sua volta anche questa però conosce nel proprio ambito analoghi indirizzi: Agostino, ad esempio, e le correnti di pensiero che in qualche modo gli fanno capo: da Bonaventura,
Eckhardt, il Cusano, fino a Malebranche, Pascal, Lutero,
Kierkegaard, Rosmini, e ancora a parecchie forme di religiosità
derivanti in certo qual senso dall’esperienza della Riforma.
Modalità affini di pensiero possono riscontrarsi pure andando
oltre l’ambito religioso, come per esempio in alcune forme di
idealismo e di esistenzialismo, perfino di marxismo. Si noti che
la stragrande varietà di forme di pensiero, d’arte, di vita sociale, di gestione economica e politica, sviluppatasi in Occidente
non deve far dimenticare il fatto che tale molteplicità, per tanti
riguardi, si ritrova in fondo nel ceppo di una comune tradizione, e le sue varie ramificazioni, per quanto disparate, sono pur
correlate tramite i processi dialettici che le generano.
Abbiamo già menzionato come una delle prime e più felici
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intersezioni o incroci culturali si sia realizzata proprio nella civiltà
ellenistica, nel suo grande sincretismo con l’ecumene orientale. Tale sincretismo costituisce senza dubbio una delle matrici
della susseguente civiltà occidentale. È noto, in particolare, l’enorme influsso che la tradizione neoplatonica, fortemente tinta
di coloriture orientali ed esoteriche, eserciterà sullo stesso
Agostino oltreché sui Padri della Chiesa in genere. Non sarebbe comunque sbagliato, penso, considerare le cristianità orientali come una realtà molto più impregnata dell’eredità orientaleggiante del tardo ellenismo, in confronto a quelle
dell’Occidente.
Ritornando alla nostra distinzione iniziale, archetipale
d’Oriente e d’Occidente, forse si potrebbe vedere nell’ellenismo
e nelle culture che ne sono state gli eredi più diretti l’attuazione
di varie forme intermedie tra l’Oriente primigenio e l’Occidente
greco classico. Vi è infatti un immenso mondo qualificabile
come ‘medio-orientale’, rispettivamente ‘medio-occidentale’ –
e più in genere ‘medio-areale’ –, che pur collocandosi inizialmente per le sue radici e origini più ad Oriente oppure più ad
Occidente, ha subito in seguito forti o fortissime ‘contaminazioni’ in un senso o nell’altro. L’Islam, pur nella molteplicità delle
sue varianti, ne costituisce uno degli esempi più significativi e al
tempo stesso paradossali15. Altri casi analoghi, con proporzioni
di rapporti e caratteristiche assai varie, sarebbero: a) l’Oriente
cristiano che costituisce appunto il tema specifico della nostra
presente riflessione, scomposto a sua volta nei due principali
tronconi: bizantino-slavo e quello dell’Antico Oriente cristiano;
b) l’Oriente europeo da non identificare semplicemente né con
l’Oriente cristiano né con l’Europa orientale16; c) l’‘Oriente’ africano: non l’Africa delle culture primitive quale humus storicoantropologico, ma l’Africa delle antiche culture cristiane e
l’Africa islamica. Tali ‘medio-aree’ o ‘aree medie’ per la loro
peculiare tangenzialità, particolarmente ricca e polivalente, sono
in realtà al tempo stesso delle ‘macro-aree’ per la vastità dei
loro confini umani e geografici.
Non vi è dubbio che in tutti questi casi sia stata la multipolare tradizione ellenistica a fungere da spazio d’incontro atemporale, da denominatore accomunante di base, in cui si sono
incrociate e in certo qual senso integrate, amalgamate le diverse componenti dei mondi testé elencati; per cui un movimento
di prette origini orientali, come l’Islam, in qualche modo si
‘occidentalizza’, viceversa una città e struttura statale di matrici prevalentemente occidentali, come la romanissima
Bisanzio17, si lascia ‘orientalizzare’.
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Un’ultima osservazione ancora, prima di passare ad altro,
in merito alle ‘aree’ culturali. Dalle ‘macroaree medie’, di cui
sopra, sarà opportuno distinguere quelle che potremmo chiamare le ‘medie microaree’, caratterizzate non solo da una bi- o
pluriappartenenza, rispettivamente bi- o plurivalenza, ma da
una funzione specifica, quasi ‘fisiologica’, di filtro o di ponte, il
più spesso mobili, circolanti in un senso e nell’altro tra aree,
culture, popoli molto diversi. Si pensi in concreto agli ebrei e,
nell’ambito delle cristianità orientali, agli armeni, per non menzionare che i più noti tra analoghi casi. Infatti, ebrei e armeni,
benché abbiano storie per alcuni versi simili, per altri dissimili
tra di loro, in ciò che li accomuna, come fermenti e agenti interculturali, presentano più di una dimensione strutturale non
riducibile facilmente a quelle degli altri gruppi in questione,
summenzionati. Volendo però parlare in termini generali,
meglio, volendo assumere il caso ebraico e armeno in un
modello categoriale di più ampia portata, si pensi, potremmo
dire, alle grandi diaspore. Infatti, tale realtà, in senso tecnico,
quale luogo e dimensione non di pura dispersione e perdita d’identità, ma di sintesi viva e pluridimensionale di una integrazione differenziata − sul modello appunto del caso degli ebrei ed
armeni −, sta sempre più allargando i propri confini, nella realtà
di un mondo, soprattutto di un Occidente che da una parte si
è aperto − anche se in parte l’ha pure subito − a movimenti di
spostamento di popoli tra i più vistosi della storia, e dall’altra
non si risparmia sforzi per superare in qualche modo gli schemi rigidi e ristrettivi di una sovranità di Stato assoluta e del più
rigoroso concetto dello Stato-nazione, retaggi della sua stessa
modernità18.
4. L’Europa
L’ultimo nostro chiarimento riguarderà, pare ovvio,
l’Europa. Cosa s’intenda per questo termine/concetto, il quale
sembra talora quasi aver perso ogni criterio di commensurabilità e ogni norma valutativa. E ciò conferma anzitutto l’opportunità e l’importanza d’iniziative come il presente raduno, ma al
tempo stesso rende particolarmente difficile il compito di tutti
noi, alleggerito comunque almeno in parte da quanto di saggiamente ponderato abbiamo sentito e sentiremo ancora in
merito in queste nostre sedute.
La questione aumenta di complessità in quanto, a differenza di altri concetti geografici, come ad esempio quelli d’oriente
e d’occidente che possono essere suscettibili di una trasposi104
zione semantica nel segno dell’analogia, il concetto d’Europa,
come quello d’Asia, pur non avendo, come molti toponimi, dei
confini ben precisi, non possono essere semanticamente trasposti se non nel segno della metafora, dell’omonimia o di
qualche altro procedimento discorsivo i quali non offrono però
una piattaforma di base per un sistema di riferimenti connotativi reciproci. Così, ad esempio, se vige una comune opinione
che la società australiana odierna, colonialistica e post-colonialistica, sia effettivamente una società di stampo occidentale, nonostante la sua collocazione geografica ad estremo
oriente, non è che possiamo per questo essere giustificati a
considerare l’Australia come Europa. Né ciò sarebbe, credo,
particolarmente gradito ai membri di quella società, molto
diversamente da quanto succede in genere presso altre
società le quali, pur potendo in qualche modo rivendicare una
qualche ‘aureola’ di europeità per la loro posizione geografica
attigua o limitrofa di una non meglio definita Europa geografica, sono però foriere di parametri ed ethos culturali e politici,
contrassegnati da parecchi punti di divergenza rispetto a quelli
che sono comunemente accettati come occidentali e quindi
europei.
Credo infatti che, a prescindere da ogni ulteriore precisazione, rielaborazione, rifinitura, definizione o ridefinizione del
concetto d’Europa e dei suoi confini, qualche punto fisso in
tutta questa questione vi sia pure:
a) anzitutto, per quanto il concetto d’Europa possa soffrire
di qualche indeterminazione − la quale non necessariamente va
vista in segno negativo19 −, e fors’anche di confusione, nei suoi
contorni storico-geografici, l’Europa si trova però intimamente
connessa per una parte di sé − tramite i luoghi dell’antichità
classica più precisamente − con le origini stesse e i primi cospicui sviluppi di quel fenomeno storico-culturale in cui abbiamo
avvisato le radici e l’identità di ciò che abbiamo considerato
come la tipologia antropologico-culturale dell’Occidente. È
questa l’europeità che potremmo qualificare come ‘primaria’ o
‘proto-formativa’;
b) questo primo elemento, sebbene primario, non sarebbe
però sufficiente di per sé a rendere ragione dell’identità
dell’Europa come la si sente e si percepisce oggi, anche solo
in termini di un minimo comune denominatore. Infatti, non è
possibile ignorare la lunga evoluzione storica che ha portato
alla formazione di una coscienza europea a partire già dal
basso Medioevo fino agli sviluppi più recenti della moderna e
contemporanea europeità. Va perciò aggiunto al primo elemento risalente alle origini, all’arché – che pure implica le evo105
luzioni remote, le diacronie dei cicli chiusi, la storia pregressa –,
un secondo elemento che è quello delle diacronie dei cicli
ancora in certo qual senso aperti, degli sviluppi dall’impatto o
dalle tracce ancora per qualche verso sensibili, percepibili. È
questa seconda era storica che forgia l’Europa quale oggi la
percepiamo e sentiamo, nonostante, anzi, direi, in un vero
senso in virtù stessa di tutte le indeterminazioni e confusioni
che sottendono quel nostro sentire e percepire: l’Europa delle
nazioni, delle cattedrali romaniche e gotiche, dei Comuni, delle
Crociate, dell’Umanesimo e del Rinascimento, della Riforma e
Controriforma fino ai più svariati movimenti che si sono susseguiti a ritmi travolgenti su quel privilegiato scenario storico. Di
questa lunga e ricca evoluzione potremmo, sempre per nostra
comodità percettiva, distinguere tre grandi fasi o momenti:
tardo-medievale o pre-moderno, moderno, contemporaneo
oppure post-moderno a seconda dei vari gusti di pensiero.
Senza dilungarmi su codesti processi di formazione e d’evoluzioni, vorrei solo menzionare un loro riflesso speculare nella
coscienza di una cristianità orientale, magnificamente attestata
dal colophon di una Bibbia armena medievale, del 1269 esattamente, trascritta a Roma. Come si sa, i colophon armeni non
sono semplici testimonianze di date e luoghi, essi sono spesso veri documenti di storia minuta, quotidiana, di eccezionale
valore. Il lungo colophon dello scriba ed ieromonaco Margare,
della Bibbia in questione, nel suo esordio recita così: “… nella
parte più cospicua dell’Europa, in questa regione italica, nella
celeberrima e splendida capitale Roma …”20. È una coscienza
questa d’Europa, particolare, comune a molte cristianità orientali, fatta soprattutto di ammirazione, la quale non di rado giungerà a livelli di venerazione, di fiducia e di speranze che purtroppo il più delle volte si riveleranno inconsistenti, anzi utopiche, infette d’utopie purtroppo d’indole strutturale, impossibili
a ricomporre. Ma queste considerazioni c’inducono ormai ad
affrontare nello specifico la questione del rapporto fra Europa e
Chiese orientali. Le considerazioni sinora svolte non solo ci
hanno spianato e perlustrato la via da seguire in questa fase,
la più delicata, della nostra ricerca, ma prestano pure gli strumenti concettuali indispensabili per una sana ermeneutica di
quella lunga e complessa storia.
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5. L’Europa e le cristianità orientali
Appositamente non formulo il sottotitolo di questo ultimo
paragrafo del nostro discorso nel senso indicato nel titolo
generale. Preferisco infatti considerare i rapporti e gli apporti fra
Europa e Chiese d’Oriente nel segno della reciprocità. Cosa
entrambe le realtà si sono date l’una all’altra? E cosa si sono
forse sottratte l’una all’altra? Le riflessioni che ci accompagneranno su queste due questioni probabilmente giustificheranno
anche il tenore del titolo generale, in quanto se è relativamente meglio noto alla storiografia generale − la quale è in gran
parte composta da storiografia occidentale − quanto l’Europa
abbia apportato alle Chiese d’Oriente e quanto ne abbia sottratto, non altrettanto potrebbe dirsi del rapporto inverso.
Perciò preferirei anche nel caso presente seguire l’antico e
saggio adagio metodologico di procedere dalle cose meglio
note verso quelle che si conoscono meno.
a. L’Europa verso le cristianità d’Oriente
Non vi è dubbio che nella tarda antichità il primato del
sapere e di quel fenomeno così ambiguo e così difficile da definire che va in genere sotto il nome di ‘progresso’ stava dalla
parte dell’Oriente, tendenza che con la caduta dell’Impero
d’occidente e la corrispettiva ascesa di Bisanzio non si fece
che confermare21. Se poi vi aggiungiamo la vulcanica esplosione del sapere, della scienza, della civiltà arabo-islamiche, sarà
giocoforza parlare di una superiorità scientifico-intellettuale
dell’Oriente, e nel caso specifico dell’Oriente medio e vicino
rispetto all’interlocutore occidentale europeo per tutto il periodo che dal tardo antico si protrae fino al basso Medioevo.
Lo scenario comincia certamente a cambiare coi prodromi
dell’evo moderno che vedono nell’Europa culturalmente e politicamente ormai ben configurata una scossa, un risveglio che
presto porterà ai risultati ben noti della scienza e del pensiero
europei della modernità. Tutto ciò non mancherà di avere
prima o poi il suo forte impatto sui popoli cristiani dell’Oriente i
quali sempre più, con la fine della grande stagione arabo-islamica e parallelamente all’avanzamento della turcocrazia, si
avvieranno verso un periodo di letargo culturale.
Ciò non impedirà però che quei popoli potessero continuare o ripristinare, ovviamente in forme nuove, i loro vecchi e
ormai desueti legami con l’Europa, risalenti spesso all’epoca
delle Crociate, oppure venissero a stabilire contatti del tutto
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nuovi con l’Europa laddove le Crociate oppure altre forme della
veicolazione europea medievale non fossero arrivate. Tra i
nuovi fattori di contatto vanno annoverati in particolare l’espansione commerciale europea verso l’est, soprattutto dei
paesi nordici, e i movimenti missionari cattolici conseguenti alla
Controriforma, per lo più italiani e francesi ma in parte anche
spagnoli.
Quale principale risultato positivo di questi contatti sarebbe
da considerare, credo, l’avvio di un processo di ammodernamento tra i popoli cristiani dell’Oriente, certo con ritmi e modalità parecchio diversi da un popolo all’altro, da una Chiesa
all’altra, ma sempre con notevoli anticipi sulle rispettive culture
islamiche da cui ognuno di essi erano variamente circondati.
Fra i risultati di questo processo di modernizzazione uno dei più
importanti è stato senza dubbio l’appropriazione dei popoli cristiani orientali del mezzo della stampa in tempi abbastanza precoci, in alcuni casi rapidissimi22.
Altri aspetti di questo ammodernamento, che si diffondeva
e cresceva, furono: lo sviluppo, presso alcune comunità cristiane, della mercanzia secondo criteri di mobilità, d’iniziativa
personale e contrattuale, di scambio di liquidità tipici dei nuovi
flussi di merci e denaro dell’era moderna; la rifioritura culturale,
nel campo delle lettere e delle arti in particolare; il miglioramento delle condizioni della donna, e infine l’emergere dei
movimenti di liberazione politico-nazionale. Fu quest’ultimo
aspetto forse il più ambiguo e, in certi casi, per alcuni popoli,
gli armeni in particolare e in certa qual misura gli assiri ossia i
siri orientali, piuttosto deleterio. Non ovviamente per l’aspirazione alla libertà o ad una propria statualità in sé, quanto per la
reazione feroce e disumana che incontrarono e, in parte, anche
per il tradimento di un settore, almeno, di quell’Europa in cui
confidavano.
A questo punto si apre un ampio, tormentato e spinoso
discorso le cui premesse e radici affondano nell’epoca delle
Crociate e nelle varie vicende ad esse concomitanti e susseguenti. Non a caso un rispettato orientalista come Joseph
Laurent poté intitolare un suo studio sulla questione armena
“Les origines médiévales de la question arménienne”23. Lo
stesso può affermarsi senza alcun dubbio della questione
orientale in genere che tanto inchiostro fece scorrere in tutta
Europa oltreché, ovviamente, presso i popoli direttamente interessati per quasi tutto l’Ottocento e parte del Novecento e
tanto fece discutere le cancellerie di mezzo mondo.
In sostanza si tratta di questo: con le speranze che le
Crociate e l’intero loro contesto politico-ecclesiale avevano
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suscitato nelle cristianità orientali, in quelle soprattutto le quali,
pur stando in Medio Oriente, non si riconoscevano nell’Impero
bizantino, si formò presso codeste popolazioni un’attesa, e
un’attesa fiduciosa, al limite dell’utopia, che prima o poi
l’Occidente, le ‘Potenze cristiane’ − come sono viste e chiamate le Potenze dell’occidente persino nel linguaggio liturgico
orientale24 − realizzeranno la loro liberazione, saranno esse la
loro salvezza. Ho additato questa utopia dei popoli dell’Oriente
cristiano in alcuni studi previi come una sorta di ‘millenarismo’
o di ‘messianismo’ tipico di quelle realtà. Argomento di notevole interesse che meriterebbe ricerche approfondite25. Tale
mentalità, radicatissima sino ai giorni nostri, non tenne assolutamente conto, e forse nemmeno era in grado di farlo, né del
sostrato ideologico delle cristianità occidentali − la cui primaria
preoccupazione più che ‘salvare’ gli altri cristiani era invece di
affermare su di loro la propria supremazia, in termini semplici:
di dominarli −, né soprattutto del pragmatismo politico e della
‘ragion di Stato’ che hanno costituito il midollo della concezione occidentale della teoria e della prassi politiche già a partire
dal ‘300, ma soprattutto dal Rinascimento in poi. A giudicare
dagli effetti, forse il nome stesso di ‘Crociata’ e ‘crociati’ tradiva già di per sé un fondamentale malinteso persino in coloro
che ne erano i forieri, ma senza dubbio in coloro che ne erano
gli osservatori e, in qualche modo, i destinatari entusiasti.
Certamente nessuno può addebitare all’altro, persino di
fronte a fenomeni o retoriche fuorvianti, la propria mancata
capacità critica di capirne il genuino significato, i veri intenti, la
sottesa struttura reggente mentale e concettuale. Però questa
consapevolezza di farsi carico della propria responsabilità, che
mi pare giusto – unicuique suum –, non cambia la realtà di
fondo dei fatti. I fatti, a mio parere, più importanti, quelli che
hanno segnato più che il destino dei rapporti fra l’Europa e i
popoli dell’Oriente cristiano, il destino stesso di questi ultimi,
possono essere ricondotti ai seguenti capi fondamentali: a) l’utopia or menzionata ebbe purtroppo, per la sua persistenza,
anzi progressiva effervescenza nel corso dei secoli e soprattutto dall’esplosione della modernità in poi, l’infausto effetto di
estraniare sempre più i cristiani orientali dai loro vicini islamici
con cui si trovavano in rapporti di convivenza quotidiana, anzi
di renderli sospetti ai loro occhi ed infine d’inimicarli; b)
l’Occidente in genere, cioè l’Europa di ieri e il suo odierno
erede, gli Stati Uniti d’America, hanno quasi sempre − se fosse
additabile qualche eccezione, questa confermerebbe la regola
− considerato e trattato i cristiani dell’Oriente come i loro ultimi
ed infimi alleati, se pure li hanno mai considerati come tali; e la
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sorte di questi è certamente stata tra le minime delle preoccupazioni europee, rispettivamente americane, se dette potenze
come tali, non nelle vesti delle loro varie organizzazioni umanitarie, hanno mai avuto a cuore tale sorte.
Proporrò pochi esempi a testimonianza di quanto sto affermando, pur essendo la storia piena di eventi di analogo tenore.
Il primo riguarda la guerra greco-turca degli anni 1919-22.
Non credo possano esserci molti dubbi che fosse insana, nei
modi della sua progettazione ed esecuzione, da un punto di
vista persino esclusivamente strategico-militare, l’avventura
greca dell’invasione di mezza Anatolia. Ma, non si può dimenticare che tale progetto fu concepito, avallato, accarezzato con
la piena benedizione delle Potenze alleate, in particolare del
governo britannico di Sua Maestà. Questo però non ebbe
alcun dubbio né il minimo scrupolo a passare presto al doppio
gioco per lasciare alla fine alla sorte tragica che toccava loro
non solo le armate d’aggressione, ma intere popolazioni civili e
inermi, raggiungendo effetti di cinismo agghiaccianti26.
Il secondo esempio riguarda il Genocidio armeno.
Sappiamo tutti che la Germania imperiale vi fosse coinvolta fino
al collo27. Ma pochi sappiamo di una testimonianza che sa dell’incredibile: “Non faccio altro che lavorare per interessare i cattolici tedeschi alla difesa dei nostri connazionali, ma non concludo nulla perché tutti i tedeschi, clero e popolo, sono convinti
che i turchi hanno ragione a massacrarvi”. Queste sono le
parole che un cappuccino armeno, P. Basilio di Ankara, scriveva dalla provincia monastica bavarese dove lavorava, al suo
confratello cappuccino residente in patria, Mons. Cirillo
Zohrabian, confessore della fede, sopravvissuto all’eccidio28.
Il terzo esempio si riferisce alla recente guerra dell’Iraq. Ieri
il Prof. Della Torre, molto appropriatamente, ha sottolineato, il
ruolo positivo e ‘profetico’ che, nonostante il fallimento degli
esiti sperati, vi ha svolto la S. Sede. Ciò va detto indipendentemente dalla diversità e divergenza dei giudizi che sono stati
dati ed ancora si potrà dare di quella guerra. Vorrei ora aggiungere che qualunque sia tale giudizio, non si potrà inoltre ignorare uno degli aspetti particolarmente tragici di questa guerra,
aspetto di cui si parla peraltro ben poco; ed è il grave indebolimento, conseguente alla guerra, delle comunità cristiane
dell’Iraq, le quali erano nel novero dei cristiani meglio trattati
dell’intero Medio Oriente. È del tutto improbabile che qualsiasi
nuovo assetto del paese gli ridia quanto gli spettava prima della
guerra. Per non parlare poi del fatto, ancor più evidente al
primo sguardo, della emigrazione cristiana – la quale come
sempre in simili circostanze, per un cumulo di motivi di vario
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genere e ordine che non è adesso nostro intento né compito
di scandagliare – già oggi tocca delle punte in proporzione ben
maggiori rispetto all’emigrazione musulmana verso paesi esteri.
La guerra dell’Iraq è stata effettivamente un ulteriore colpo di
spugna agli ormai scarsi residui della cristianità mediorientale.
Se non di complicità, si tratta almeno di somma sconsideratezza e noncuranza, nei riguardi di ciò che è stato denominato “vita
e morte dei cristiani d’oriente”29, da parte di un Occidente la cui
politica, ancora una volta, si rivela poco o affatto sensibile alla
questione.
b. Le cristianità d’Oriente verso l’Europa
Passiamo ora all’ultimo e, forse, più rilevante punto delle
nostre riflessioni: quale l’apporto delle cristianità d’Oriente
all’Europa?
a) Penso che il loro primo apporto oggi, come e più di ieri,
stia nel fatto della loro testimonianza di fede, nel nome di
Cristo, nei principi evangelici, e non ultimo, supposto e presupposto da tutto questo, in un Valore assoluto e trascendente. Tale apporto diventa oggi particolarmente rilevante in un
momento storico, come quello che stiamo attraversando, in
cui le culture dell’Occidente soffrono vertiginosamente, come
osservava ieri il Prof. Schurr, della carenza dell’assoluto, quando quale principio fondante dell’ordine etico imperversa il convenzionalismo nel segno delle più avanzate concezioni – come
vuolsi far credere – della dignità e della libertà umane. Forse, la
testimonianza dell’Oriente può talora peccare di qualche
eccesso di un rigore ideologizzante non giustificato, superfluo,
in qualche caso pure nocivo. Ma non vi è nulla di perfetto in
questo mondo. Resta il fatto che la sola esistenza dell’Oriente
cristiano si erge di per sé quale testimonianza oltreché di fede
in un Valore assoluto e trascendente, anche quale antidoto
contro quel tal atteggiamento tipico della politica occidentale
del carpe diem, dell’interesse miope dell’hic et nunc privo di
spessore e consistenza, di saggezza e di lungimiranza, perfino
nell’ambito e sul terreno stesso degli stessi interessi avidamente e biecamente perseguiti. Infatti, se l’Occidente volgesse
un minimo di più di attenzione alla sorte dei cristiani orientali si
sarebbe astenuto, e si asterrebbe anche oggi da parecchie
imprese, decise nell’ansia travolgente e affatto lucida di interessi immediati, inebrianti, che a lungo scadere si sono rivelati
fasulli e illusori.
b) L’Oriente cristiano apporta inoltre la sua grande espe111
rienza dell’allodossia, dell’Islam in particolare, e di ‘dialogo’ con
essa. Non si tratta qui in prima istanza di quel ‘dialogo’ a tavola – cioè fatto intorno a tavole, rotonde o quadre che siano;
invenzione questa, parecchio recente dell’Occidente – condotto da persone scelte e selezionate, per di più dotti ed esperti o
che tali si credono e sono creduti. Qualunque siano gli esiti di
tali dialoghi, sinora, a dir la verità, abbastanza magri, essi non
raggiungono in fondo le masse popolari, la gente semplice, e
non toccano né intaccano la vita ordinaria, quotidiana di quelle genti. Non è invece questa l’esperienza delle popolazioni
musulmane e il dialogo quotidiano con esse dei cristiani
d’Oriente i quali, assai spesso, con loro condividono una connaturalezza e un affiatamento di usi e costumi, di certi codici di
comportamento e di pensiero, di sensibilità e complicità, di
gran lunga superiori a quanto possano disporne in genere i
dotti ed esperti occidentali dell’Islam, senza voler togliere niente con una simile affermazione ai loro, pur insostituibili, meriti.
Ciò che vorrei ora sottolineare, e farlo con enfasi, è solo la
necessità di una presa di coscienza, relativa al nostro caso,
che ancora una volta la mera scienza non è la via più atta e
diretta per penetrare la complessità della quotidianità e della
vita. Le cristianità d’Oriente, pur con tutti i possibili limiti che
possono avere sul piano dell’erudizione e della teoresi, ci offrono al riguardo un aiuto veramente valido, esso pure insostituibile.
Occorre una volta per tutte sfatare il mito ossia la falsa e fallace concezione che la granitica fedeltà alla fede di Cristo delle
Chiese d’Oriente le rinchiudesse in un ghetto rendendole incapaci di fattivo dialogo. Tutt’al contrario! Sappiamo come le corti
dei califfi fossero assiduamente frequentati da saggi, dotti e
medici cristiani, in gran parte siri. Sappiamo quale ruolo abbiano svolto ai vertici dell’amministrazione imperiale e alla corte
ottomana i greci, in particolare la celebre dinastia dei
Phanariotes, e indi gli armeni sino alla vigilia della Catastrofe
genocidaria. Il patto di convivenza e di collaborazione tra potere e sudditi si basava sul rispetto da parte del primo della fede
e dell’identità comunitaria, ‘nazionale’ dei secondi. E nonostante difficoltà e conflitti, che mai sono mancati e mancheranno nei rapporti umani, il patto ha per lo più funzionato, e non di
rado bene e fruttuosamente30.
L’Occidente è oggi travagliato, agitato, è quasi colto di
panico, impreparato com’era per di più, per il massiccio afflusso islamico. Ma non si dica che loro vengono qui, a casa
nostra ed è quindi diversa la situazione rispetto ai cristiani
orientali. Poiché anche i greci, anche i siri, anche gli armeni e i
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copti erano tutti nelle proprie case, sulle proprie terre allorché
sopravvennero le invasioni e le conquiste dei vari popoli musulmani dagli arabi ai turchi. La possibile convivenza anche allora
imponeva condizioni ed il rispetto dei patti ad ambo le parti,
benché in proporzioni e secondo modalità molto diverse –
diremmo fortunatamente – da quanto stia oggi avvenendo in
Occidente. Credo che atteggiamenti di chiusura, non solo
quelli in chiave di xenofobia o di vari tipi d’intolleranza, ma
anche quelli in chiave di un laicismo esasperato, sulla scia di
quanto è di recente avvenuto in Francia, non mi pare che indichino la strada per una soluzione migliore dei problemi assai
complessi che si presentano pure gravi e urgenti. Sembra che
ci troviamo di fronte ad un fenomeno di un integralismo/fondamentalismo laicistico invertito; agli antipodi, quanto ai contenuti, di quello islamistico ma non troppo diverso nella sua coerenza formale, nell’esasperato rigore dei suoi principi e della
loro inflessibile applicazione. Principi e applicazione che, in ultima analisi, finiranno per danneggiare ulteriormente la stessa
religione cristiana, che già non poco ha sofferto, in Francia in
particolare, a partire dai fermenti dell’Illuminismo e della
Rivoluzione. Ciò va detto, senza alcun dubbio, senza la minima
disistima, anzi nella piena consapevolezza di quell’immenso
bene di cui siamo pure debitori a quegli stessi fermenti, cioè
dell’affermazione dei diritti dell’individuo e dell’intransigibile
principio delle libertà civili. Nondimeno, anche il più profondo e
sincero apprezzamento di quanto positivo vi sia in un dato contesto storico, ideologico o altro, non può e non deve impedirci
di denunciarne le carenze e le esasperazioni..
c) Le Chiese d’Oriente possono inoltre offrire un valido
aiuto, ma anche un supporto filosofico-antropologico, per un
superamento, in una sintesi più equilibrata, degli eccessi dell’ideologia dello Stato-nazione. In esse infatti è vivo il senso dell’incarnazione della Parola nell’ethos e nella cultura dell’ethnos.
Tanto che è stato possibile persino parlare di Chiese etniche e
di una sana teologia dell’etnia ed etnicità31.
Quanto appena detto degli eccessi dell’integralismo laicistico, andrebbe opportunamente ripetuto anche degli eccessi
di un esasperato concetto di Stato-nazione, su cui abbiamo
già avuto modo di riflettere, seppur brevemente, in questa
stessa sede32.
d) Un altro apporto non indifferente delle cristianità orientali, soprattutto di quelle minori sviluppatesi alla periferia dell’imperialità romana d’Oriente, sarebbe quello della sensibilità
verso il particolare per non inghiottirlo nell’oceano di una divorante universalità che costituisce un po’, alla guisa di una ten113
tazione alquanto subdola, una tendenza insita e stratificata
nella struttura e nelle dinamiche della civiltà e della cultura
dell’Occidente. Tale tentazione risale, direi, nelle sue radici,
forse più che alla realtà come tale, al sogno e alla nostalgia di
quell’antica imperialità romana la quale rappresenta pure uno
dei prototipi di maggior fascino e valore di una, in certo qual
senso, perenne attualità.
La storia stessa attesta quanto spesso, con quale forza e
con quali eccessi l’universalismo della romanità, sia di quella
sopravanzata nostalgicamente in occidente, che di quella
orientale, della vecchia e della nuova Roma intendo dire – per
limitarci all’ambito delle Potenze e Chiese cristiane – si è trasformato in veri, asfissianti imperialismi. Una correzione di
rotta, nel senso di una giusta valutazione e rivalutazione del
particolare, sarebbe per tutti salutare. Infatti un’equa e moderata valutazione del particolare che non chiuda nei ghetti e
meandri di gretti particolarismi, offrirebbe pure, tra i vari altri
vantaggi, un’adeguata prospettiva nell’approccio dell’ardua
questione del dovuto equilibrio, nel contesto degli odierni
afflussi migratori, tra i requisiti di quanto deve essere generalmente e universalmente valido e di quanto può e deve essere
invece curato e coltivato nelle proprietà tipiche delle caratteristiche peculiarità di ogni gruppo umano.
e) Un altro importante apporto delle Chiese d’Oriente proviene, credo, dal loro acuto senso della dimensione mistica
della vita e soprattutto della fede e della prassi cristiane. Le
liturgie orientali sono ancora una viva e vivace testimonianza di
tale senso mistico la cui attualità e urgenza sarebbe un grosso
errore, anzi un rischio assai serio, ignorare. In un Occidente
che ha perso il senso di qualsiasi sacralità, prima di tanti altri
sintomi d’allarme, la crescita stessa di ogni tipo di credenze e
di pratiche esoteriche, fino al satanismo, sarebbe, se ce ne
fosse bisogno, una prova lampante di questa impellente e
disperata indigenza dell’uomo moderno e contemporaneo e
della nostra post-moderna società dei consumi per qualcosa di
sacro, per qualcosa che vada oltre la materialità e la banalità
delle apparenze sfuggenti.
f) Infine, i cristiani d’Oriente sono per il loro stesso esserci
un banco di prova, un criterio di misura per accertare e ponderare, di una data collettività, il livello di apertura mentale e
politica, di rispetto dei diritti dell’uomo, di effettivo progresso
sulla via di adeguamento ai principi e alle norme della fondamentale concezione europea dell’uomo e della società. Ciò
acquista un’importanza del tutto particolare in riferimento alla
Turchia, paese candidato all’Unione Europea. In questo paese
114
che fu una punta di diamante nella diffusione della primeva cristianità e, ancora, agli albori del XX secolo vantava una presenza cristiana pari quasi ad un quarto dell’intera sua popolazione, la proporzione dei cristiani si trova ridotta, drasticamente, all’odierna proporzione del circa uno per cento, in seguito a
genocidi, a forzate migrazioni e scambi di popolazioni ed infine
per un susseguirsi ininterrotto, per più di ottant’anni, di leggi
restrittive sulle minoranze. Il miglioramento dello statuto giuridico delle minoranze cristiane, la possibilità per loro di un non
menomato ma pieno godimento dei diritti di cittadinanza individuali e associativi, sarebbero una prova valida, anche se non
sufficiente da sola, dello sforzo sostenuto dal paese in questione per conformarsi ai requisiti di una società autenticamente europea.
Conclusione
Dall’ampia panoramica che abbiamo cercato di delineare,
si ricava e s’impone una grande lezione: le Chiese e le cristianità d’Oriente non sono, per l’Europa, un lusso di cui si può
fare a meno, non sono soprattutto la ciliegia sulla torta. Esse
sono parte integrante, anzi sono una reale componente di
alcune fibre, di alcune dimensioni tra le più genuine e le più
profonde dell’animo europeo. Non vi è dubbio, esse debbono
parecchio all’Europa. Ma deve essere altrettanto chiaro che
l’Europa è doppiamente debitrice nei loro riguardi: non solo per
i beni che ne ha ricevuti e riceve, ma anche per i torti commessi, fossero solo inconsapevoli.
Ignorare sia i legami, che sono viscerali, sia i torti intercorsi, e pensare di sfuggire all’obbligo morale del compenso e del
risarcimento sarebbero menomanti per la stessa identità e
dignità europee, per il sogno di un’Europa dal volto finalmente
e sinceramente umano.
Il non riconoscimento, e tanto più il rifiuto, di una parte di
se stessi e dei rispettivi doveri morali equivale a privarsi di quella primaria dignità che fa dell’individuo l’uomo e del gruppo
d’individui la comunità e la comunione umana.
Una scossa e una svolta positiva che si desse l’Europa in
tal senso, nel senso cioè di ricucire il proprio cordone ombelicale con le vetuste e gloriose cristianità orientali, sarebbe un
fattore, mi pare, non irrilevante perché, da una parte, queste
possano assumersi di nuovo la funzione loro congenita di
ponte, di un grande ponte tra Oriente e Occidente, tra culture
e civiltà diverse; e perché, d’altra parte, l’immagine e la testi115
monianza che l’Europa vuol offrire di se stessa siano ancor più
convinte e convincenti.
Non vi è dubbio che lo sforzo debba essere reciproco e
coinvolgente tutte le parti in causa. Ma nemmeno può esserci
alcun dubbio, credo, che spetti all’Europa, per tutto il cumulo di
motivazioni storiche e ideali emergenti dalla panoramica or delineata, di fare il passo decisivo, di dare il via alla costruzione di
un futuro nuovo anche coi suoi cugini dell’Oriente cristiano.
Note
(1) Marguerite Yourcenar, in una intervista televisiva rilasciata verso la fine
della vita, sottolineava questo aspetto, non senza qualche ironia, adducendo l’esempio di un olandese solito a dire che l’oriente era già Bruxelles.
(2) La questione è stata posta con particolare vigore ed acume dal libro,
ormai classico, di Edward Saïd, Orientalism, Henley: Routledge & Kegan, London
1978.
(3) Mario Liverani, Orientalisti? Sì, anzi no, “Il Messaggero Veneto”, 13 gen.
1993, p. 3, cit. da Vittorio Peri, Orientalis Varietas. Roma e le Chiese d’Oriente Storia e diritto canonico, (Kanonika 4), Pontificio Istituto Orientale, Roma 1994,
p. 147.
(4) La dialettica tra valore e contingenza. Dalla fenomenologia culturale verso
una rifondazione assiologica, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Edizioni “La
Città del Sole”, Napoli, 1998, part. Cap. II, pp. 37-82.
(5) Cfr. Edith Hamilton, The Greek Way to Western Civilization, W. W. Norton
& Co., New York 1930., part. capp. I-III, XVI-XVII; Max Pohlenz, Der hellenischea
Mensch, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1947 - tr. it. L’uomo greco, 2
rist., La “Nuova Italia”, Firenze 1976, pp. 305 ss., part. 314 ss.; Bruno Snell, Die
Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei
den Griechen, Classen und Coverts, Hamburg 1948, part. pp. 15-56; ID., Die
alten Griechen und wir, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1962, part. pp.
41-56; Werner Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, I, 3.
Auflage, Walter De Gruyter, Berlin 1954, pp. 1-22, 68 ss., part. 85-88; Enzo Paci,
Storia del pensiero presocratico, Ed.ni RAI, Torino 1957, pp. 11-33; Kurt Von
Fritz, Der Ursprung der Wissenschaft bei den Griechen, in Grundprobleme der
Geschichte der antiken Wissenschaft, Walter De Gruyter, Berlin-New York 1971
- tr. it. Le origini della scienza in Grecia, Il Mulino, Bologna 1988, part. cap. I;
Edward Hussey, The Presocratics, 1972 - tr. it. I Presocratici, Mursia, Milano
1977, pp. 9-16; Charles Werner, La philosophie grecque, Payot, Paris1978, pp.
4
7-16; Emanuele Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano 1987 , pp. 15-33.
(6) Cfr. Georges Mounin, Histoire de la linguistique des origines au XXe siècle, Presses Universitaires de France, Paris 1967 - tr. it. Storia della linguistica
dalle origini al XX secolo, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 58-66, la citazione è dalla
p. 60.
116
(7) Per ‘ideologia romana’ ci attendiamo fondamentalmente al concetto
esposto da Joël Schmidt, sulla scia di Pierre Grenade, Alain Michel, Claude
Nicolet e altri: L’idéologie romaine. La cité oecuménique, in Histoire des idéologies, sous la direction de François Châtelet, I, Hachette, Paris 1978, pp. 191209. Si veda inoltre: Attiglio Momigliano, Storia e storiografia antica, parte II:
Roma, pp. 173ss.; Santo Mazzarino, Il pensiero storico classico, I-II, Laterza, Bari
2
1965-66; ID., L’impero romano, Laterza, Roma-Bari 1973 ; AA.VV., Les Grecs,
les Romains et nous, L’Antiquité est-elle moderne?, textes réunis et présentés
par Roger-Pol Droit, 2e Forum “Le Monde” Le Mans, Éd.s, “Le Monde”, Paris
1991.
(8) Scrive, ad esempio, Paul Rostenne nel lungo articolo, dallo spessore di
un saggio, Le christianisme et la culture occidentale: “mais cette influence [del
pensiero greco] n’a pas déterminé une continuité de l’une à l’autre [della cultura
occidentale al pensiero greco]” (in “Filosofia Oggi”, XII, 1989, p. 299). Il riferimento a Severino è a La filosofia antica, cit. (n. 5), pp. 15-16. Il riconoscimento
del connubio tra il primevo pensiero cristiano e la filosofia greca con riguardo
soprattutto alla forma e alla struttura del pensare, non implica di per sé alcun rapporto d’ineludibile interdipendenza con la critica filosofica della fede cristiana sviluppata dallo stesso Severino e formulata di recente più compiutamente in
Pensieri sul Cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995.
Sull’impatto del Cristianesimo nella formazione della civiltà dell’Occidente, in
una prospettiva sintetica, si vedano pure: Christopher Dawson, The Making of
Europe, London 1935; ID., Religion and the Rise of Western Culture, Sheed and
Word, London 1950; Charles Moeller, Sagesse grecque et paradoxe chrétienne,
Louvaine 1947 - tr. it. Saggezza greca e paradosso cristiano, Morcelliana,
Brescia 1951; Marcel Simon, La civilisation de l’antiquité et le christianisme,
Arthaud, Paris 1972.
Sulle fasi più recenti della cultura e della civiltà dell’Occidente europeo quale
fenomeno socio-storico, ricordiamo George L. Mosse, The Culture of Western
Europe. The Nineteenth and Twentieth Centuries, Rand Mc Nally College Publ.
2
Co., Chicago 1961, 1974 - tr. it. La cultura dell’Europa occidentale, A.
Mondadori, Milano 1986.
(9) Nella celebre espressione “fortzeugende Gründer des Philosophierens”
con cui Jaspers designava, nella sua classificazione dei grandi pensatori dell’umanità, al di sotto dei “maßgebenden Menschen” che formano la prima categoria, la seconda classe di grandi pensatori includente Platone, Agostino e Kant:
Karl JASPERS, Die grossen Philosophen, I, R. Piper, München 1957, pp. 231ss.
Jaspers svilupperà questa sua convinzione nella monografia: Plato, Augustinus,
Kant. Drei Gründer des Philosophierens, München 1965. Si veda al riguardo:
Franz Körner, Vom Sein und Sollen des Menschen. Die existenz-onotlogischen
Grundlagen der Ethik in augustinischer Sicht, (Études Augustiniennes, 13), Paris
1963, part. “Vorwort”. Per il dibattito recente sull’originalità filosofica di
Sant’Agostino, cfr. B.L. Zekiyan, Tradizioni filosofiche e innovazione nel pensiero
di Sant’Agostino, in Ricerche patristiche in onore di Dom Basil Studer OSB,
“Augustinianum”, XXXIII (1993), fasc. I-II, pp. 499-517.
(10) Wilhelm de Vries, Ortodoxie und Katholizismus, Verlag Herder KG,
Freiburg im Breisgau, 1965 - tr. it. Ortodossia e cattolicesimo, (Giornale di
Teologia 141), Queriniana, Brescia 1983, 2° ed. 1992, p. 6.
(11) Cfr. V. Peri, Orientalis Varieta, cit. (n. 3), p. 148.
(12) Per ‘Subcaucasia’ intendo il Caucaso meridionale, noto anche col
nome moderno di Transcaucasia, più le regioni a sud e a sud-ovest di quest’ultima costituenti l’Armenia storica, con propaggini sino alla Mesopotamia superiore a sud e il corso superiore dell’Eufrate ad ovest. Il vantaggio offerto dal termine è che, a differenza di altri termini di carattere regionale, come Caucaso,
Caucaso del Sud, Anatolia, Est Anatolia ecc., che non arrivano a contenere l’intera realtà storica dell’Armenia insieme alla Georgia e all’Albania caucasica, esso
abbraccia invece con un unico sguardo sia l’area sudcaucasica che quella estanatolica. Mi permetto di rinviare per dettagli al mio Lo studio delle interazioni politiche e culturali tra le popolazioni della Subcaucasia: alcuni problemi di metodologia e di fondo in prospettiva sincronica e diacronica, in Il Caucaso: cerniera fra
culture dal Mediterraneo alla Persia (secoli IV-XI). Atti della Quarantatreesima
117
Settimana di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (aprile 1995),
t. I, Spoleto, 1996, pp. 433-434, 441-443. Si badi a non confondere il sub-caucasico, nel senso or definito, con il sud-caucasico che denota invece la parte
meridionale del Caucaso ossia la classica Transcaucasia dei russi, divenuta in
seguito denominazione comune anche nelle lingue dell’Europa occidentale, – e
persino degli stessi popoli e Repubbliche sudcaucasiche del XIX e XX secolo,
invece che di Ciscaucasia, più consona alla loro collocazione geografica –, nonostante la prospettiva tipicamente russa del trans- nel guardare verso il Caucaso.
Gianroberto Scarcia, illustre islamista e iranista, fu il primo ad accogliere il termine ‘Subcaucasia’, proposto dallo scrivente, seguito da Jean-Michel Thierry,
Giulio Ieni ed altri. Cfr. G. Scarcia, Zurvanismo subcaucasico, in Zurvan e
Muhammad. Comunicazioni iranistiche e islamistiche presentate al Primo
Simposio Internazionale di Cultura Transcaucasica (Milano-Bergamo-Venezia,
12-15 giugno 1979), (Quaderni del Seminario di Iranistica … cit., 2), Venezia,
1979, pp. 15-21; J.-M. Thierry, Les tétraconques à niche d’angle (Étude typologique d’un groupe d’Églises subcaucasiennes), “Bazmavep”, CLVIII (1980), pp.
124-179; G. Ieni, Il problema delle arcate cieche nell’architettura monumentale
del X-XI secolo. Rapporti fra Oriente e Occidente, in L’arte georgiana dal IX al XIV
secolo, I, a cura di Maria S. Calò Mariani, Galatina, 1986, p. 65, n. 51.
Sul concetto di ‘Armenia storica’ e per una sua corretta definizione ed uso,
cfr. l’appena citato Lo studio delle interazioni politiche e culturali tra le popolazioni della Subcaucasia, pp. 443-444.
(13) Sulle varie prospettive di ‘oriente’ nell’antichità cristiana, si veda: Vittorio
Peri, La ‘grande Chiesa’ bizantina. L’ambito ecclesiale dell’Ortodossia,
(Dipartimento di Scienze Religiose 16), Queriniana, Brescia, 1981, pp. 7-15;
René R. Khawam, L’univers culturel des chrétiens d’Orient, Préface de HenriIrénée Dalmais, Cerf, Paris 1987, passim, in part. pp. 173, 185, 188-189; Mirella
Galletti, Cristiani del Kurdistan. Assiri, caldei, siro-cattolici e siro-ortodossi, con
contributi di A. Mengozzi, cap. 2-3, pp. 35-77.
(14) Vi è una bibliografia molto vasta sull’Oriente cristiano. Per una introduzione alla storia e nell’atmosfera di riti, di pensiero, e di spiritualità dell’Oriente cristiano, oltre alle opere ricordate qui nelle note, si vedano tra gli altri: Wladimir
Lossky, Essai sur la théologie mystique de l’Eglise de l’Orient, Aubier, Paris 1944
- tr. it. La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, Il Mulino, Bologna 1967; Paul
N. Evdokimov, L’Orthodoxie, Delachaux et Niestlé, Neuchätel - Paris 1959 - tr. it.
L’Ortodossia, Il Mulino, Bologna 1966; Donal Attwatter, The Christian Churches
of the East, (revised), I-II, Th. More Books, London 1961; Marie-Joseph Le
Guillou, L’esprit de l’orthodoxie grecque et russe, A. Fayard, Paris 1961; Aziz S.
Atiya, A History of Eastern Christianity, Methuen & Co., London 1968; Bernhard
Schultze - Johannes Chrysostomus, Die Glaubenswelt der orthodoxen Kirche, O.
Müller Verl., Salzburg 1961; Peter Kawerau, Das Christentum des Ostens, Verl.
W.Kohlammer, Stuttgart 1972 - tr. it. Il Cristianesimo d’Oriente, Jaca Book,
Milano 1981; Irénée-Henri Dalmais, Les liturgies d’Orient, Cerf, Paris 1981 - tr. it.
Le liturgie orientali, Ed.ni Paoline, Roma 1987; Vittorio Peri, La “grande Chiesa”
bizantina. L’ambito ecclesiale dell’Ortodossia, Queriniana, Brescia 1981; Thomas
S̆pidlik, La spiritualité de l’Orient chrétien. Manuel systématique, Pontificio Istituto
Orientale., Roma 1978; ID, La prière, ivi 1988 - tr. it. La preghiera secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, tr. di Maria Campatelli e Manuela Viezzoli, Lipa
Ed.ni, Roma 2002; Didier Rance, Chrétiens du Moyen-Orient, témoins de la
Croix, Aide à l’Église en Détresse, Mareil-Marly 1990; Jean-Pierre Valognes, Vie
et mort des chrétiens d’Orient, des origines jusqu’à nos jours, Fayard, Paris
1994.
(15) Si vedano a proposito le illuminanti osservazioni di Michel Fattal nel suo
libro Pour un nouveau langage de la raion. Convergences entre l’Orient et
l’Occident, Beauchesne, Paris 1987, in part. pp. 62-79, 97-110; si veda pure
Gianroberto Scarcia sulla dimensione ‘occidentale’ dell’Islam: G. Scarcia,
Europa, Oriente, Islam, Italia, (Prolusioni), a cura dell’Ufficio Relazioni
Internazionali e Affari Culturali dell’Università di Venezia, Il Cardo, Venezia, an.
acc. 1994-95.
(16) Nell’aprile 1988, nel millenario della conversione della Rus’, si tenne a
Ravenna un convegno/tavola rotonda sul tema “Oriente Europeo” in vista della
118
formazione di un “Centro sull’Oriente europeo”. Per quanto mi risulti, l’iniziativa
non ebbe seguito né furono pubblicati gli atti del convegno. In quella circostanza proponevo, nel mio intervento rimasto pure inedito, la seguente visione di
‘Oriente europeo’: “L’Oriente europeo viene quindi a trovarsi in una posizione di
confine tra Occidente e Oriente islamico (perciò ‘medio’), costituendo un’area di
contatto privilegiato sia quale punto di mediazione tra i due, sia per la particolarità e l’intensità dei suoi rapporti con il mondo islamico. Rapporti segnati per lo
più da una convivenza storica intima e compenetrante, gravida di acutissime tensioni e rivalità, ma anche di geniali compromessi, di pragmatica e reciproca tolleranza e accettazione”.
(17) Si ricordi che fino ad oggi i greci di Costantinopoli, residui ormai di scarsissime dimensioni della vetusta e gloriosa ‘romeità’, chiamano se stessi romei e
il proprio idioma romeika. Quanto al nome della capitale ottomana, è da rilevare
che la città fu chiamata ufficialmente Istanbul solo dopo la proclamazione della
Repubblica turca nel 1923, nell’ambito della politica generale di turchizzazione
dei toponimi, senza però rendersi conto, nel caso specifico, della derivazione,
con ogni probabilità greca, anche della nuova denominazione.
(18) Lo ‘Stato-nazione’ non è semplicemente lo Stato nazionale, come
sovente vengono equiparati questi due concetti anche da persone di elevata cultura, anzi in posizioni di alte responsabilità politiche. Concettualmente, lo Stato
nazionale sarebbe uno Stato formato sulla base di una realtà etno-culturale-linguistica che ne determina l’identità e gli presta la cultura e lingua veicolari di
comunicazione e di convivenza tra i vari componenti e gruppi etno-culturali. Lo
Stato-nazione, invece, nella sua genesi storica, radicata nella ideologia dei Lumi
e nella Rivoluzione francese, e nella sua formulazione più rigorosa, è una visione
totalitaria, o quasi, dello Stato per cui la cultura e la lingua maggioritarie tendono
ad essere, senza escludere l’imposizione, talora anche violenta, l’unica identità
culturale-linguistica riconosciuta, con una confusione, di per sé grossolana peraltro, del piano giuridico-civile della cittadinanza e di quello antropologico-culturale dell’identità etnica. Purtroppo tale è la dialettica sottesa ai vari movimenti e tentativi di formazione statuale cui abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo, in
seguito al crollo dell’impero sovietico, dalla Jugo-Slavia sino all’Asia centrale. Tali
processi non dovrebbero neppure suscitare stupore oltre tanto, se si tiene presente la genesi storica dello Stato-nazione e la sua culla ideologica, la Francia:
l’omogeneizzazione, quasi totale, delle componenti etniche e regionali vi era stata
già da tempo realizzata allorché veniva ufficialmente sbandierata la teoria dello
Stato-nazione. Non a caso, negli anni Settanta del Novecento, l’autorevole Le
Monde intitolava così un articolo sullo stato di salute della cultura bretone: “Cette
culture bretone que nous avons tuée” (Questa cultura bretone che noi abbiamo
uccisa)! Ciò va detto, ovviamente, in chiave critica, come per tutti i vari lati negativi della modernità occidentale, senza però dimenticare d’altra parte che è pure
alla stessa Rivoluzione francese e ai suoi principi ispiratori, derivanti dalla cultura
dei Lumi, che dobbiamo la magna charta dei diritti dell’uomo e della libertà dell’individuo come cittadino, che sta alla base del moderno ordinamento occidentale socio-politico.
Ho cercato di sviluppare una riflessione teorica in merito, a partire dall’esperienza storica armena, nei seguenti lavori precedenti: “Prémisses pour une
méthodologie critique dans les études arméno-géorgiennes”, Bazmavep,
CXXXIX (1981), pp. 460-469; “Le croisement des cultures dans les régions limitrophes de Géorgie, d’Arménie et de Byzance”, Annali di Ca’ Foscari, (Serie
Orientale 17), XXV, 3, 1986, pp. 81-96; *“Da Konstantiniye a Venezia”, Studi
Eurasiatici in onore di Mario Grignaschi, a cura di Giampiero Bellingeri e Giorgio
Vercellin, (Eurasiatica 5, Quaderni del Dipartimento di Studi Eurasiatici, Università
degli Studi di Venezia), Libreria Universitaria Editrice, Venezia, 1988, pp. 17-35;
“L’«idéologie» nationale de Movse-s Xorenac‘i et sa conception de l’histoire”,
Handes Amsorya, CI (1987), coll. 471-485; *“Ellenismo, ebraismo e
Cristianesimo in Mosè di Corene (Movse-s Xorenac‘i). Elementi per una teologia
dell’etnia”, Augustinianum, XXVIII (1988): XVI. Incontro di Studiosi dell’Antichità
Cristiana. Cristianesimo e giudaismo: eredità e confronti, 7-9 maggio 1987,
Roma, 1988, pp. 381-390; *“Hrand Nazariantz, gli Armeni e l’Italia. Da una vicenda interculturale verso una nuova tipologia di confronto etnoculturale”, Annali di
119
Ca’ Foscari, XXIX, 3 (Serie Orientale 21), 1990, pp. 135-150; “Les identités polyvalentes et Sergueï Paradz˘ anov. La situation emblématique de l’artiste et le problème de la polyvalence ethnique et culturelle”, Filosofia Oggi, XVI (1993), pp.
217-231; “Lo studio delle interazioni politiche e culturali tra le popolazioni della
Subcaucasia”, cit. (n. 12), pp. 427-482; *“In margine alla storia. Dal fenomeno
dell’emigrazione verso un nuovo concetto dell’identità e dell’integrazione etnoculturale”, Ad limina Italiae, Ar druns Italioy. In viaggio per l’Italia con mercanti e
monaci armeni, a cura di B.L. Zekiyan, Editoriale Programma, Padova, 1996, pp.
267-286; “Das Verhältnis zwischen Sprache und Identität in der Entwicklung des
armenischen Nationalbewusstseins. Versuch einer begrifflicher Formulierung aus
geschichtlicher Erfahrung”, in Über Muttersprachen und Vaterländer. Zur
Entwicklung von Standardsprachen und Nationen in Europa, Gerd Hentschel
(Hrsg.), Peter Lang, Frankfurt am Main, 1997, pp. 277-297; The Armenian Way
to Modernity. Armenian Identity between Tradition and Innovation, Specificity and
Universality, (Eurasiatica 49, Quaderni del Dipartimento di Studi Eurasiatici,
Università degli Studi Ca’ Foscari di Venezia), Supernova, Venezia, 1997, in part.
pp. 15-26, 83-96. (N.B. Gli articoli segnati con un /*/ si trovano ora raccolti nel
volume L’Armenia e gli armeni. Polis lacerata e patria spirituale: la sfida di una
sopravvivenza, Guerini e Ass., Milano, 2000); Religione e cultura nell’identità
armena. L’impatto col mondo islamico, in B.L. Zekiyan - Antonia Arslan - Aldo
Ferrari, Dal Caucaso al Veneto. Gli Armeni fra Storia e Memoria, Adle Ed.ni,
Padova MMIII, pp. 9-35.
Il dibattito scientifico sul concetto di ‘etnicità’ e sulle molteplici questioni affini è oggi molto vivace e di notevole attualità. In mezzo ad una letteratura sconfinata vorrei segnalare i seguenti titoli, sulla problematica in genere: Richard
Marienstras, Être un peuple en diaspora, Mosaïques I, Fr. Maspéro, Paris, 1975;
Theodor Veiter, Nationalitätenkonflikt und Volksgruppenrecht im 20. Jahrhundert,
München, 1977; Ronald A. Reminick, Theory of Ethnicity. An Anthropologist’s
Perspective, University Press of America, Lanham, MD - London, 1983; Alberto
Melucci, Nazioni senza Stato: i movimenti etnico-nazionali in Occidente,
Loescher, Torino 1983, Feltrinelli, Milano 1992; Bernard Gilson, The Conceptual
System of Sovereign Equality, (Philosophie du Droit International), Peeters,
Leuven, 1984; Pier Giovanni Donini, Le minoranze nel Vicino Oriente e nel
Maghreb. Problemi metodologici e questioni generali, P. Laveglia Ed., Salerno,
1985; William H. McNeill, Polyethnicity and National Unity in World History, The
Donald G. Creighton Lectures - 1985, University of Toronto Press, 1986; Hannah
Arendt, Ebraismo e modernità (raccolta di saggi sparsi tradotti in italiano),
Unicopoli, Milano, 1986, Feltrinelli, Milano, 19932; Eadem, La lingua materna. La
condizione umana e il pensiero plurale, a cura di Alessandro Dal Lago, Mimesis,
Milano, 1993; Alain Finkelkraut, La défaite de la pensée, Gallimard, Paris, 1987;
Etienne Balibar - Immanuel Wallerstein, Race, Nation, Classe. Les identités ambiguës, Ed.s La Découverte, Paris, 1988; AA.VV., Ebrei moderni. Identità stereotipi culturali, a cura di D. Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino, 1989; Tzvetan
Todorov, Nous et les autres. La réflexion française sur la diversité humaine, Éd.s
du Seuil, Paris, 1989; James G. Kellas, The Politics of Nationalism and Ethnicity,
Macmillan, London, 1991; Alain Minc, La vengeance des nations, Grasset, Paris,
1991; Michel Wieviorka, La démocratie à l’épreuve. Nationalisme, populisme,
ethnicité, La Découverte, Paris, 1993; Zwischen Nationalstaat und multikultureller Gesellschaft: Einwanderung und Fremdenfeindlichkeit in der Bundesrepublik
Deutschland, herausg. von M. Heßler, Hitit, Berlin, 1993; Questioni di etnicità, a
cura di Vanessa Maher, Rosenberg & Sellier, Torino, 1994; Ugo Fabietti, L’identità
etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, La Nuova Italia Scientifica, Roma,
1995; Philippe Poutignat - Jocelyne Streiff-Fenart, Théorie de l’ethnicité, Paris,
1995; Carlo Tullio-Altan, Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici,
Feltrinelli, Milano, 1995; Charles Taylor, The Politics of Recognition, Princeton
University Press, 1992, Jürgen Habermas, Kampf um Anerkennung im demokratischen Rechtsstaat, Suhrkamp Verl., Frankfurt am M., 1996, ambo gli scritti
insieme in vers. italiana: Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli,
Milano, 1998; sugli aspetti religioso-ecclesial-teologici dei concetti e delle
problematiche in questione: Dietrich Mendt, “Christsein - Bereitschaft zur
Diaspora. Zur Problematik Volkskirche, Minoritätskirche, Bekenntniskirche”, Als
120
Boten des gekreuzigten Herrn. Festgabe für Bischof Dr. Dr. Werner Krusche ...,
herausg. von Heino Falcke ..., Evangelische Verlagsanstalt, Berlin, 1982, pp.
179-184; i fascicoli monografici della rivista Parola, spirito e vita: N° 26, 1992/2;
N° 27, 1993/1; L’altro, il diverso, lo straniero; N° 28, 1993/2; Chiesa straniera e
pellegrina; Maria Campatelli, “I cristiani tra nazioni e nazionalismi”, in Novità della
soglia. Aperture della nuova evangelizzazione, Lipa, Roma, 1995; con particolare riguardo agli Armeni: La struttura negata: Cultura armena nella diaspora,
Convegno-Seminario Internazionale: I, Milano, 1978, Atti / The Proceedings,
redazione: Marc Nichanian - Remo Pomponio, ICOM, Venezia, 1979; II, Milano,
1979, Atti / The Proceedings, Infrastructure de la Culture Arménienne
Diasporique. La Culture: Mouvement socio-culturel ou structure figée?, redaz.:
Marc Nichanian, ICOM, Venezia, 1981; Aghop Der-Karabetian, “Multiple Social
Identity as a Reflection of Modernity”, Armenian Review, XXXVI (1983), N° 1-141,
pp. 100-105, in vers. tedesca: “Vielfältige soziale Identität als Reflektion der
Moderne”, Identität in der Fremde, cit. infra, pp. 25-32; What is to be asked,
Proceedings / Colloquium I, 2nd ed., The Zoryan Institute, Cambridge, MA,
1986; Viada A. Arutjunova-Fidanjan, “The Ethno-confessional Self-Awareness of
Armenian Chalcedonians”, Revue des Études Arméniennes, n.s., XXI (1988-89),
pp. 345-363; Aleksej Lidov, “L’art des Arméniens chalcédoniens”, Atti del V
Simposio Internazionale di Arte Armena (Venezia 1988), a cura di B.L. Zekiyan,
San Lazzaro - Venezia, 1992, pp. 479-495; Giusto Traina, Il complesso di
Trimalcione. Movse-sXorenac‘i e le origini del pensiero storico armeno, (Eurasiatica,
27), Casa Ed.ce Armena, Venezia, 1991, in part. pp. 69-109; Identität in der
Fremde, hersg. von Mihran Dabag - Kristin Platt, Universitätsverl. Dr. N.
Brockmeyer, Bochum, 1993.
(19) Si vedano a proposito le pertinenti riflessioni di Massimo Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994.
(20) Hayeren dzeragreri hishatakaranner. ZhG dar [Colofon dei manoscritti
armeni. Secolo XIII], a cura di Artashes A. Matevosyan, Ed.ni dell’Accademia
delle Scienze d’ARSS, Yerevan 1984, p. 368, sotto l’anno 1269.
(21) Basti solo ricordare che la Chiesa di Roma, pur rivendicando fin dal II
secolo un certo primato sulle altre antiche sedi apostoliche, non poté mai eguagliare nell’era patristica la precisione e sofisticata perfezione del computo
pasquale della Chiesa d’Alessandria, questione di primaria importanza nella cristianità primeva e al tempo stesso di alta competenza scientifica; cfr. Georges
Declercq, Anno Domini. The Origins of the Christian Era, Brepols, Tournhout
2000, part. pp. 65-82.
(22) In ordine cronologico registriamo alcune delle prime edizioni a stampa
nelle lingue dei popoli dell’Oriente cristiano sia in Occidente, ma ad opera di curatori nativi della lingua, sia in patria e nelle colonie medio-orientali: in slavonico a
Cracovia, nel 1491; in armeno a Venezia nel 1511/13 e a partire dal 1567 a
Costantinopoli e indi in tutto il Medio Oriente; in russo a Mosca nel 1564; in georgiano a Tiflis nel 1709. Si noti che nell’Impero ottomano il primo libro in lingua
ottomana vedrà la luce solo nel 1727, e molto più tardi, nel 1830, sarà stampato in Persia, a Tabriz, il primo libro in persiano. Cfr. Les Arméniens et l’imprimerie. Étude comparée de l’imprimerie chez les différents peuples de l’Orient, Imp.
Kéchichian Fils, Constantinople 1920, in part. pp. 35-37, 45, 68.
(23) Joseph Laurent, Les origines médiévales de la question arménienne, in
“Revue des Études Arméniennes”, I (1920), 35-54, rist. in ID., Études d’Histoire
Arménienne, Peeters, Louvain, 1971, 1-19. Purtroppo il validissimo intuito dell’illustre studioso è frammisto di considerazioni spropositate in merito al ruolo degli
armeni – da lui considerato funesto in una prospettiva piuttosto unilaterale –,
nell’Impero bizantino. Laurent scrive tra l’altro: “L’Arménien n’a jamais pu fraterniser complètement avec le Grec. (...) il est resté dans l’empire byzantin un élément étranger non assimilé et qui pouvait à l’occasion devenir dangereux” (p.
47/12-13). Steven Runciman qualifica queste parole di “fantastic nonsense” (The
Emperor Romanus Lecapenus and His Reign, Cambridge, UK, University Press
1929, 165, n. 2). Non vi è dubbio che l’armeno ha spesso “gardé, au moins pour
lui et dans sa vie intime, sa langue, ses habitudes, son costume et sa religion
nationale” (Laurent, ibid.), va però ricordato: “while all this may be true, the point
should be made and made with emphasis that the Armenians in Byzantium who
121
furnished it with its leadership were thoroughly integrated into its political and
military life, identified themselves with its interest and adopted the principal features of its culture” (Peter Charanis, The Armenians in the Byzantine Empire,
(Calouste Gulbenkian Foundation Armenian Library), Livraria Bertrand, Lisboa
1963, p. 57).
(24) Così, ad esempio, in uno dei riti più tipici della Chiesa Armena, detto
“Andastan” (i campi) con cui vengono benedetti i campi e i quattro angoli del
mondo con preghiere e inni appropriati alla loro indole climatico-geofisica e alle
simbologie che su questa s’innestano. La benedizione dell’occidente comporta
preghiere per la salvaguardia e l’incolumità dei “Regni dei cristiani”.
(25) Cfr. La Cilicia armena tra “Realpolitik” e utopia, in Atti del II Simposio
Internazionale “Armenia-Assiria”. Istituzioni e poteri all’epoca il-khanide, 30 maggio-2 giugno 1984, a cura di Mario Nordio e B.L. Zekiyan, Venezia, (Eurasiatica,
8), pp. 118-119; The Armenian Way to Modernity. Armenian Identity Between
Tradition and Innovation, Specificity and Universality, (Eurasiatica. Quaderni del
Dipartimento di Studi Eurasiatici, Università degli Studi Ca’ Foscari di Venezia,
49), Supernova Editrice, Venezia, 1997, pp. 88-89. Un primo approfondimento in
merito lo dobbiamo ora ad Aldo Ferrari, La salvezza viene da Occidente, in “Studi
sull’Oriente Cristiano”, 6/1, 2002, pp. 59-76, rist. in L’Ararat e la gru. Studi sulla
storia e la cultura degli armeni, Mimesis, Milano 2003, II, pp. 47-64.
(26) Si sa che mentre soldati greci e la popolazione civile di Smirne venivano buttati in mare, le marine alleate stavano a guardare… Secondo un testimone oculare, in vita e residente a Milano, nativo del 1906, la manovra di una nave
da guerra italiana per recuperare quella gente sarebbe persino stata ostacolata
dalla marina britannica.
(27) È d’obbligo però aggiungere che tale triste complicità fu espressamente denunciata ad alti livelli governativi sotto il regime comunista della Deutsche
Demokratische Republik. Ciò avvenne almeno, per quanto mi risulti, in occasione del Convegno organizzato, nel 1986, sul grande filantropo tedesco, il pastore
protestante Dr. Johannes Lepsius che tanto si sforzò di fare in favore degli sventurati armeni, mentre niente di simile si è mai sentito né allora, né dopo il crollo
del regime comunista, almeno a livelli governativi, da parte della Repubblica
Federale Tedesca, uno dei pilastri, in tutti i sensi, della moderna Europa. La
denuncia veniva da Gerhard Bassarak, personaggio di alto livello nella gerarchia
del regime, nella sua relazione intitolata Zur Friedensarbeit der Armenischen
Apostolischen Kirche, a coronamento della Tagung (in Akten des Internationalen
Dr. Johannes-Lepsius-Symposiums 1986 an der Martin-Luther-Universität HalleWittenberg, Halle (Saale) 1987, pp. 250-260). Ecco le sue precise parole: “Das
Genozid geht uns ebenfalls in besonderer Weise an. Es war nicht das erste und
nicht das letzte in unserem technisch so perkektionierten Jahrhundert. An dreien
davon aber war das Deutsche Reich mittelbar oder unmittelbar beteiligt: 1905
verübte es ein Massaker an den Hererros, 1915 schwieg es gegenüber der
Pforte, obwohl eine Intervention nicht ohne Erfolg geblieben wäre – gerade das
Gedenken an Lepsius erinnert uns daran – und 1945 ging das größte Genozid
des Jahrhunderts an Menschen der Sowjetunion, Polens und des Judentums zu
ende. Die Menschheit wurde vom deutschen Faschismus befreit zu einem in
Miteleuropa nunmehr seit 41 Jahren dauernden Frieden, der allerdings labil
geblieben ist und für den es weiterhin zu kämpfen gilt“ (p. 257).
(28) La frase in questione si trova nel III volume delle memorie di Mons.
Zohrabian, non ancora pubblicato, ed è stata citata da Mons. Claudio Gugerotti,
nel suo intervento al Convegno “Armenia 1915: il Genocidio di un popolo”, tenutosi a Roma, a Montecitorio, nella Sala della Sacrestia della Camera dei Deputati,
il 6 nov. 1996: Dalla riflessione sul genocidio, la necessità di un recupero della
categoria di humanitas, in “La Nuova Frontiera”, International Human Rights and
Security Review, an. II - no. 7, inverno 1996/97, p. 11.
(29) Jean-Pierre Valognes, Vie et mort des chrétiens d’Orient: des origines
à nos jours, Fayard, Paris 1994.
(30) Il patto in questione era retto dal concetto coranico di dhimma che
nell’Impero ottomano raggiunse la forma più evoluta nel noto sistema del millet.
Da una bibliografia assai vasta selezioniamo alcuni titoli: Pierre Rondot, L’Islam et
les Musulmans d’aujourd’hui. La communauté musulmane: ses bases, son état
122
present, son evolution, (“Lumière et Nations”), Éditions de l’Orante, Paris 1958,
pp. 159-166; Mario Grignaschi, L’Impero ottomano e le minoranze religiose, in
Studi in onore di Francesco Gabrieli nel suo ottantesimo compleanno, a cura di
Renato Traini, 2 voll., Studium Urbis, Roma 1984, vol I, pp. 413-422; Pier
Giovanni Donini, Le minoranze nel Vicino Oriente e nel Maghreb, cit. in n. 18, pp.
103-117; Christian W. Troll, Der Blick des Koran auf andere Religionen. Grunden
für eine gemeinsame Zukunft, in Walter Kerber (Hrsg.), Wie tolerant ist der Islam?
Isslamwissenschaftler nehmen Stellung, (Fragen einer neuen Weltkultur, Bd. 6),
Peter Kindt Verlag, München 1991, pp. 47-69, in part. 51-53; Bat Ye’or, Les
chrétientés d’Orient entre Djihâd et Dhimmitude. VIIe-XXe siècle, Les Éditions du
Cerf, Paris 1991 - tr. ingl. The Decline od Eastern Christianity under Islam: From
Jihad to Dhimmitude: Seventh-Twentieth Century, Fairleigh Dickinson University
Presss (Madison-Teaneck), Associated University Presses, London 1996; Der
Islam in der Gegenwart, Entwicklung und Ausbreitung Staat, Politik und Recht,
Kultur und Religion, a cura di Werner Ende and Udo Steinbach in collaborazione
con Michael Ursinus, C.H. Bech’sche Verlags Buchhandlung (Oscar Beck),
München 1984, 3a ed. 1991 - tr. it. Agostino Cilardo: L’Islam oggi, Edizioni
Dehoniane, Bologna 1993: La comunità islamica, di Agostino Cilardo, pp. 21,
27-28; Tratti fondamentali della teologia islamica e della storia del territorio islamico, di Heribert Busse, pp. 66-67, 87-88; Il dibattitto intraislamico sul moderno
ordine socio-economico, di Johannes Reissner, pp. 246-248; Pinelopi Stathis
(ed.), Η ∏αρουσια Των Εθνικων Μιονοτιτων Στην Κονσταντινουπολι Τσυ 19.
Εωνα, Athina 1997 - tr. turca: 19. Yüzyıl İstanbul’unda Gayrımüslimler, tr. di Foti
and Stefo Benlisoy, (Tarih Vakfı Yurt Yayınları, 87), Istanbul 1999; Robert
Benedicty, La formation politique théocratique. Essai de définition, in Faith,
Power, and Violence. Muslisms and Christians in a Plural Society, Past and
Present, ed. by John J. Donohue, S.J. and Christian, W. Troll, S.J., (Orientalia
Christiana Analecta 258), Pontif. Ist. Orientale, Roma 1998, pp. 49-53; Giorgio
Vercellin, Islam: dalla tolleranza delle origini alle moderne tendenze d’intolleranza,
in “Studi Storici”, 3 (2001), pp. 745-767; Maria Pia Pedani, Dalla Frontiera al
Confine, (Quaderni di Studi Arabi. Studi e Testi, 5), Università Ca’ Foscari di
Venezia, Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente, Herder
Editrice, Roma 2002, pp. 96-98, 103.
Mi permetterò due brevissimi commenti sui titoli indicati: a) la trattazione di
Bat Ye’or sembra cogliere piuttosto solo gli aspetti negativi, oppressivi della
dhimmitudine che certamente c’erano, ma non erano gli unici; b) qualche seria
riserva esprimerei sulla seguente affermazione di R. Bendicty: ‘… la classification
des couches de la population selon leur appartenance ethnique et religieuse a
œuvré contre la cohérence interne de la société ottomane. En effet, la loyauté
des sujets non-musulmans envers le sultan a été supplantée par leur loyauté corporative envers leur millet …’ (p. 52). Il meno che si possa dire è che si tratta di
un approccio che resta in superficie, anzi cui sfuggono importanti elementi di
valutazione. Qui non è neppure il caso di ricordare che la fedeltà della ‘nazione’
armena, in particolare, era celebrata dagli stessi Sultani. Va pure rilevato che
fedeltà non significa affatto servitù o sudditanza incondizionata. Il fatto è che la
progressiva penetrazione della modernità tra i popoli dei vari imperi, sia in Oriente
che in Occidente, provocava in loro aneliti per la costituzione dei rispettivi Stati
nazionali, ed era questo un processo epocale, probabilmente inevitabile. Non era
una carenza del sistema del millet a suscitare tali irredentismi. Qualche carenza
certamente vi era. Ma essa consisteva nel fatto che i membri dei vari millet erano
considerati e trattati come sudditi di seconda categoria rispetto ai musulmani.
Per ulteriori chiarimenti e approfondimenti, cfr. B.L. Zekiyan, The Armenian selfperception between the Ottomans and Safavids, e The Iranian oikumene and
Armenia, entrambi in corso di stampa.
Sul millet in particolare si vedano: Frédéric J.G. van den Steen De Jehay, De
la situation légale des Sujets ottomans non-musulmans, O. Schepens & C.ie,
Bruxelles 1906; Avedis Sanjian, The Armenian Communities in Syria under
Ottoman Dominion, ch. II, ‘The Armenian Millet under Ottoman Dominion’,
Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1965, pp. 31-45; Speros Vryonis,
Jr., A Critical Analysis (of Stanford J. Shaw, History of the Ottoman Empire and
Modern Turkey, vol I, Cambridge University Press, Cambridge 1976, offprint from
123
Balkan Studies, 24, 1 (1983), Thessaloniki, 1983, pp. 88-112; Yavuz Ercan,
Kudüs Ermeni Patrikhanesi [Il Patriarcato armeno di Gerusalemme], Türk Tarih
Kurumu Basımevi, Ankara 1988; Pars Tuğlaci, İstanbul Ermeni Kiliseleri –
Armenian Churches of Istanbul – Istanpuli Hayoc’ekel/ec’iner∂, Pars Yayın, İstanbul 1991, cap. 4, pp. 49-74; Matthias Kappler, L’Impero ottomano e la società
greca, in Gianroberto Scarcia e altri, L’Impero ottomano ed Europa, Centro
Culturale Al Farabi, Palermo 1993, pp. 37-55; Vincenzo Poggi, Millet, da religione a nazione, in Umanità e nazioni nel diritto e nella spiritualità da Roma a
Costantinopoli a Mosca, Rendiconti del XII seminario, Campidoglio, 21 aprile
1992, a cura di Pierangelo Catalano e Paolo Siniscalco, (Da Roma alla Terza
Roma. Documenti e Studi, Collezione diretta da Pierangelo Catalano e Paolo
Siniscalco), Herder Editrice e Libreria, Roma 1995, pp. 43-53; Salâhi Sonyel,
Minorities and the Destruction of the Ottoman Empire, Atatürk Supreme Council
for Culture, Language and History. Publicatons of the Turkish Historical Society,
Serial VII - No. 129, Turkish Historical Society Printing House, Ankara 1993), pp.
22-60; M. Rahn, Die Entstehung des armenischen Patriarchats von
Konstantinopel, Studien zur Orientalischen Kirchengeschichte, Bd. 20, LIT
Verlag, Münster - Hamburg 2002, pp. 194-196. Vorrei richiamare l’attenzione
sulla totale mancanza di fondamento della seguente affermazione di S. Sonyel:
‘There is no doubt that Sultan Mehmet II, for the first time in their history, gave
the Armenians the opportunity to practice freely their religion, language, tradition,
customs, and professions, as an organised community’ (p. 47). Non vedo neppure la necessità di confutare una simile affermazione che, nella migliore delle
ipotesi, denota l’ignoranza della storia armena. Tale e simili assurdità chauvinistiche non privano comunque di valore, nella sua globalità, la trattazione dell’istituzione di millet fatta dal Sonyel.
(31) Cfr. B.L. Zekiyan, I processi di cristianizzazione e di alfabetizzazione
dell’Armenia in funzione di “modelli”: verso una teologia dell’etnia e della “Chiesa
etnica”, in The Formation of a Millenial Tradition. 1700 Years of Armenian
Christian Witness (301-2001), Scholarly Symposium in Honor of the Visit to the
Pontifical Oriental Institute, Rome, of His Holiness Karekin II, Supreme Patriarch
and Catholicos of All Armenians, November 11, 2000, ed. by Robert Taft, S.J.,
Pontificio Istituto Orientale, Roma 2004, pp. 161-181.
(32) Vedi sopra n. 18.
124
JOSEP M. ESQUIROL
Ordinario di Filosofia nell’Università
di Barcellona (Spagna)
La relazione tra Cristianesimo e Filosofia
come essenza europea
Questa comunicazione s’iscrive nell’ormai vecchio compito
di pensare l’Europa, per coglierne il nucleo principale, la sua
“essenza”. Un lavoro al quale hanno dato il loro contributo, tra
molti altri, autori come E. Husserl, parlando della filosofia come
“forma spirituale dell’Europa”; o J. Patočka riferendosi alla cura
dell’anima come nòcciolo dell’“eredità europea”; o Edgar Morin
con l’idea di “comunità di destino”; Gadamer con quella di
“eredità”; Philonenko con la “coscienza europea”; o altri con
espressioni come “utopia morale”, “casa comune”, “paideia”,
“spazio di pensiero”…
Nonostante il fatto che esistono senz’altro interessi alquanto eterogenei che possono portare a impegnarsi in questo esercizio, mi sembra ve ne sia uno che, tra tutti, è il più importante
e di certo anche il più trasversale: la volontà di avere un futuro;
cioè che l’obiettivo di questo tipo di riflessioni è, in definitiva, di
contribuire a revitalizzare quel qualcosa che chiamiamo
“Europa”, e che ci sembra che valga la pena. In questo, conviene credere, come diceva Aranguren, che non sia troppo tardi
per pensare l’Europa, nel momento in cui ci mettiamo a farlo.
1. I punti di partenza
Che l’Europa sia, più che un continente geografico o prima
ancora che una unità politica, un’entità di carattere culturale,
una cultura, è una idea che prenderò come punto di partenza1.
Includo in questa premessa l’ampio consenso che esiste rispetto ai tre fondamenti principali di questa cultura. Non c’è dubbio
che siano molte le influenze che hanno marcato l’Europa nel
corso del tempo: Grecia, il giudaismo, il Cristianesimo, i popoli
germanici, i celti, la cultura araba… Però esiste un notevole
accordo nel segnalare questo triplice fondamento strutturale in
senso proprio: Atene, Roma e Gerusalemme; la filosofia, il diritto e la tradizione ebraico-cristiana.
125
È piuttosto evidente che il nostro bagaglio religioso viene
dato in prima istanza dalla tradizione ebraico-cristiana assai più
che dal pensiero pagano; dallo schema monoteistico, con un
Dio personale e creatore, che possiede la chiave dell’inizio e
della fine dei tempi. La nostra storia dell’arte, la letteratura, la
filosofia, la musica… sarebbero incomprensibili al di fuori di
questo legame con la tradizione biblica ed evangelica.
Un’altra parte dell’eredità ci arriva dal “miracolo” greco, che
consiste, soprattutto, nella filosofia, nell’anelito alla conoscenza. Gli enormi sforzi per costruire sistemi filosofici, il primo rozzo
sviluppo scientifico e la potente crescita tecnologica che l’accompagna, hanno il loro germe nella Grecia classica, in un
contesto caratterizzato dallo spirito critico e dall’“inquietudine”
del pensiero.
Infine, “romani”: siamo figli della lupa, per la forma delle lettere con cui scriviamo e per la concezione del diritto e della vita
civile che abbiamo adottato.
2. La tesi
Benchè ci sia un certo accordo nel sottolineare questa triplicità di fondamenti, ve n’è assai meno quando si tratta di
gerarchizzarli o di trovarne uno che predomini sugli altri, il “fondamento più fondamentale”, il primum inter pares. Così, per
esempio, Husserl e Heidegger lo vedranno nella Grecia;
Thomas S. Eliot e Simone Weil, nella tradizione ebraico-cristiana; e Remi Brague nell’elemento romano. Però esistono altre
possibilità: anzichè risaltarne uno dei tre, sottolinearne due,
come ha fatto, per esempio, Jaspers, che insiste che l’Europa
è “la Bibbia e l’Antichità”.
Anch’io la vedo in questo modo. E la giustificazione può
essere, paradossalmente, la stessa che utilizza Remi Brague
per difendere la priorità di Roma: Roma è la via2; i romani hanno
saputo – e non è poco – trasmettere un contenuto che non gli
era proprio. L’atteggiamento romano è quello di sentirsi chiamati a rinnovare ciò che è antico. (Naturalmente, non sono
mancati coloro che qui hanno denunciato il tradimento romano
dello spirito greco. Heidegger è uno degli autori contemporanei
che ha considerato la relazione tra Grecia e Roma nei termini di
“traduttore-traditore”. Però perfino questa posizione ratifica l’idea di Roma come via). E cos’è che, in definitiva, ci ha trasmesso Roma? La Grecia e il Cristianesimo, appunto.
Orbene, il mio proposito non è soltanto di evidenziare questi due elementi, la filosofia e la Bibbia, bensí di mostrare come
126
lo “spirito europeo” viene dato dalla tensione e dal dinamismo
che li coinvolge entrambi. E mi interessa farlo non tanto da una
prospettiva storiografica quanto invece speculativa, per sottolineare gli “atteggiamenti fondamentali” che costituiscono lo
spirito europeo.
Malgrado il rischio della semplificazione, devo cercare di
definire le esperienze ed attitudini di base. Qual’è l’esperienza
ebrea? L’etimologia della parola “ebreo” rimanda a “colui che
è grato”. L’ebreo sente la sua relazione con il Creatore come
una specie di favore a cui corrisponde rendendo grazie attraverso la preghiera e l’obbedienza alla Legge. Al termine ed al
di là del tempo storico, il fine come regno escatologico, regno
della giustizia annunciato dai profeti. Tra l’uno e l’altro, l’attesa
del Messia. “L’attesa del Messia – dice Lévinas – è la durata
stessa del tempo”3. L’esperienza ebraica della temporalità è
l’attesa.
Il diverso modo di interpretare la saggezza umana che
viene dato dall’ebraismo e dal mondo greco ci fornisce un
eccellente e suggestivo punto di contrasto. Leggendo i testi
biblici e leggendo i testi dei filosofi greci ci si trova ben presto
davanti a due maniere di intendere la saggezza, la condizione
umana e, in definitiva, la verità. La verità ebrea si ascolta, la
greca si intuisce. Quella ebrea è la saggezza dell’ascolto e dell’obbedienza, la greca è quella dello sguardo e della chiarezza.
Atene ci pone davanti ad un cosmo autosufficiente che stimola l’uomo-filosofo ad investigarlo. Gerusalemme, invece, propone un’altra situazione: gli uomini guadagneranno in termini di
felicità riferendosi al loro unico Dio. La conoscenza di questo
mondo è secondaria e destinata a fini puramente pratici. La
preoccupazione di Gerusalemme non è nè il mondo in quanto
oggetto di riflessione da parte delle scienze, nè l’uomo come
problema antropologico, bensí il significato dell’abitare e dell’uomo che dimora in questo abitare. Anche Leo Strauss insiste in tal senso: “Secondo la Bibbia, il principio della saggezza
è il timor di Dio; secondo i filosofi greci, il principio della saggezza è l’ammirazione”4. All’uomo non fu negata la conoscenza; però gli fu negata la conoscenza del bene e del male, cioè
la conoscenza necessaria per guidare la propria vita. Benchè
non sia un bambino, dovrebbe vivere nell’obbedienza a Dio
con semplicità infantile. Il sentimento della prossimità immediata a Dio, caratteristico del credente ebreo, sta al di sopra di
qualunque altra considerazione filosofica. La religiosità è l’essenza dello spirito ebreo; in cambio, l’ammirazione, l’esame e
la problematicità lo sono dello spirito greco.
L’esperienza cristiana è, soprattutto, l’esperienza dell’amo127
re, dell’agape. L’altruismo, la carità, il superamento di sè, la fraternità… ecco l’essenza del Cristianesimo. Il peso della predisposizione all’amore al di sopra di qualunque “teoria”. Anche
qui la differenza con lo spirito greco è radicale. Ne danno prova
tanto i difensori come i detrattori del Cristianesimo.
Emblematici in tal senso sono, per esempio, gli attacchi nietzschiani. Secondo questo autore, ci sarebbe da mettersi a piangere: l’enorme ricchezza e forza del mondo greco-romano rovinata dal veleno del Cristianesimo; “Tutto il lavoro del mondo
antico per niente – dice Nietzsche –: non trovo parole capaci di
esprimere ciò che sento davanti ad una tale mostruosità”.5
Come già anticipavo, la mia interpretazione è un’altra.
Questo così grande contrasto tra filosofia e tradizione ebraicocristiana è la fonte della ricchezza dello spirito europeo. Come
si può dunque pensare questa relazione?
3. L’esperienza europea
L’eredità ebraico-cristiana comporta una concezione lineare del tempo che alimenta il senso dell’attesa e della speranza.
Lo spirito greco, che è lo spirito della filosofia, promuove,
soprattutto, un atteggiamento: quello della ricerca, dell’indagine, dell’esame. Ebbene, per quanto nella dimensione delle rappresentazioni concettuali dei diversi sistemi filosofici greci possano sorgere immagini circolari del tempo, la verità è che, in
un’altra dimensione (quella della temporalità della ricerca), il
tempo è lineare. Ed è per questo che la filosofia come ricerca
dà luogo a un senso della storia orientato “in avanti”.
Ancora più importante, però, è ciò che si riferisce alla questione del senso e della problematicità.
Esiste una accezione del significato di storia che ci rimanda al concetto di memoria. Esiste poi un significato di storia
che fa riferimento alle nozioni di cambiamento, mobilità e mutazione (è in questo registro che dovremmo iscrivere le affermazioni di Hegel sui popoli privi di storia e sull’identificazione
dell’Europa con la storia). Esiste però ancora un terzo registro,
che determinerebbe la storia in funzione del “senso”.
Questa nozione del senso si può intendere nel modo
seguente. L’uomo vive sempre mantenendo un qualche tipo di
relazione col Tutto della sua situazione – a seconda dei filosofi,
questo Tutto prende il nome di Natura, Storia, Società, Spirito
Assoluto, Dio, Essere… –. L’uomo può, per esempio, intendere la sua relazione con il tutto in chiave di seno materno; può
identificare il mondo con la madre-natura e sperimentare la sua
128
vita e la sua morte come un elemento qualunque di questa
natura, alla stregua degli altri animali e di tutti gli altri esseri.
Dunque la relazione dell’uomo col Tutto è ciò che chiamiamo senso. Di fatto, la definizione è piuttosto descrittiva. L’uomo
orienta la sua vita a seconda della sua relazione col Tutto, in
funzione della sua comprensione del Tutto e del luogo che egli
vi occupa.
L’idea del filosofo ceco Jan Patočka6 è che possiamo determinare una relazione molto specifica dell’uomo con il senso
fino ad affermare che questa costituisce il nodo centrale della
“vita storica”. L’uomo si risveglia alla storia nel momento in cui
il Tutto – e tutto – gli appare come problematico. Il Tutto gli si
è reso problematico, tutto è divenuto problematico. Non poter
disporre di alcuna certezza, di nessun orientamento chiaro, di
nessun senso sicuro e confortante… questa è la vita nella problematicità, all’intemperie, allo scoperto.
Però, siccome l’uomo è un essere di senso, questa situazione storica di mancanza di senso lo spinge ad un atteggiamento fondamentale: quello della ricerca. A partire da questo
momento, l’uomo viverà il senso come frutto della ricerca; il
senso sarà ciò che sta cercando; il senso sarà la risposta alla
domanda che ci poniamo più e più volte, senza posa. La cultura religiosa, invece, contiene un senso regalato (rivelato), che
non è frutto della ricerca; e benchè di questo senso possediamo soltanto delle briciole minuscole, queste le teniamo realmente in deposito, e vengono trasmesse di generazione in
generazione in forma di tradizione. In questo caso, la risposta
precede la domanda.
Bisogna sottolineare che “vita nella ricerca” o “vita tradizionale” si usano qui come espressioni concettuali per caratterizzare diversi tipi di relazione dell’uomo con il senso. Però è chiaro che, de facto, i due modelli non si danno mai in forma pura
o assoluta. La cultura europea si è costituita in questo vivere
nella problematicità, ma non è priva di un’eredità di senso forgiato nella forma di una tradizione…
Potremmo dire lo stesso con un’altra terminologia. La vita
umana è un enigma e la filosofia è l’atteggiamento prometeico
che la affronta, consapevole del fatto che – nel migliore dei casi
– non può ambire a una vittoria, bensí soltanto – e già è molto
– a una tensione e a qualche risultato parzialmente favorevole.
La religiosità è un’altra risposta al mistero della vita umana.
Mistero ed enigma non presentano un’opacità totale; di certo
non possono essere “risolti”, però possono avere per noi una
sorta di senso, persino prima della loro dissoluzione.
L’altezza della nostra cultura risiede nella nostra capacità di
129
affrontare questo mistero, di non evaderlo, di sostenerlo e di
intravederne il senso. Osserviamo la differenza tra l’assurdo e
il mistero: l’assurdo è ciò che può essere spiegato e che, tuttavia, rimane senza senso. Il misterioso, l’enigmatico, è ciò che
non può essere spiegato e che, tuttavia, può per noi avere un
senso. L’uomo non può vivere dell’assurdo e nell’assurdo –
cui conseguenza è il suicidio –, mentre è possibile vivere un’esistenza che si riconosce gravata dal mistero in uno dei suoi
versanti fondamentali.
Se mettiamo in relazione le due terminologie, é lecito affermare che esiste un parallelismo, anche se non una identificazione, tra problematicità e mistero. Entrambi i termini implicano
l’assenza di un senso totale, però il primo reclama la ricerca ed
il secondo la speranza. L’atteggiamento filosofico vive la problematicità del senso e la fede vive il mistero del senso.
Ambedue gli atteggiamenti formano parte dello spirito europeo. Ancor più, in virtú della potenza dello spirito greco, il
Cristianesimo è in qualche modo toccato dalla problematicità e
per questa ragione, ben intesa, è una religione niente affatto
fondamentalista.
Perfino un autore che ha criticato con estrema durezza
l’hybris della ragione, il carattere specialmente dominatore di
tutta la storia del pensiero filosofico, riconosce a tratti la bontà
dell’elemento greco, e la necessità della sua presenza per il
futuro dello spirito europeo. Mi riferisco a E. Lévinas. A suo
parere, la Bibbia porta con sè un messaggio che fa un giro di
centottanta gradi rispetto a quello greco; significa, per l’uomo,
l’interruzione del suo conatus vivendi, una interruzione che gli
arriva in forma d’interpellanza e di comando: “non uccidere”,
“amerai il tuo prossimo”. Lévinas commenta: “strana raccomandazione per un’esistenza chiamata a vivere a qualunque
prezzo”. Per Lévinas, non può esserci umanesimo più elevato
di questo umanesimo biblico. E, tuttavia, ascoltiamo attentamente queste sue parole: “Penso che ci sia dell’occidente in
ogni uomo. Ontologicamente, c’è dell’occidentale in ogni
uomo. (...) Diffido della denuncia del carattere oppressivo che
avrebbe l’universalità”.7 Il valore di queste parole deriva dal
fatto che sono pronunciate da chi ha saputo denunciare con
più incisività di chiunque altro la violenza, la dominazione e l’omogeneità innate del pensiero occidentale. Lévinas, l’accusatore dell’Occidente, sa vedere anche la parte positiva della sua
pretesa d’universalità. Si, è vero, la situerà soprattutto in questo umanesimo di radice biblica, però, in definitiva, è l’universalità d’Occidente, dell’Europa, che include anche l’universalità
del principio greco: “Io sono ottimista a causa della carità che
130
è patrimonio dell’Occidente, a causa dell’universalità dell’amore, ma anche a causa dell’universalità razionale che la Grecia ci
ha lasciato. I due principi hanno sofferto nell’attraversare la
nostra storia di violenza, di sangue e di lacrime, ma sono
sopravvissuti. Questa sopravvivenza è ormai assicurata?”8
È questa la stessa domanda che ci facevamo all’inizio. Lo
spirito europeo ha il futuro assicurato? E la risposta, ovviamente, è no. Per questo, se siamo realmente in grado di comprendere ciò che questo spirito contiene, ci faremo responsabili della sua revitalizzazione.
L’orientamento dei fari non è facile da conservare. La “stanchezza” del XX secolo ha lasciato via libera alla pesantezza ed
alla sonnolenza. La rottura coi nostri classici e col libro dei libri
è notevole. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che il riconoscimento e la difesa di ciò che vale la pena sono stati in più di
una occasione situazioni di resistenza. La solidarietà di coloro
che vivono questa commozione è, per così dire, la fedeltà
verso la filosofia come fondamento. La speranza è la fedeltà
nei confronti del messaggio biblico e, in particolare, verso la
rivelazione cristiana. Come diceva Bernanos, “è vinto soltanto
chi dispera”.
Lo spirito europeo è fragile, e per ciò stesso ancor più prezioso. Di conseguenza, noi europei siamo divenuti responsabili
di ciò che è fragile. Proprio come ci accade davanti ad un neonato, la fragilità ci investe di responsabilità. Ciò che è fragile
richiede la nostra cura, la nostra attenzione, e dipende da noi.
Il momento non è per niente facile. Già da tempo, come
diagnostica Agnes Heller, “l’Europa si è lanciata in una rincorsa per relativizzare la propria cultura, fino al punto di entrare in
una tappa di masochismo culturale anticipato”9. La cattiva
coscienza e scoraggiamenti d’altro tipo sono dei seri ostacoli
al riconoscimento di ciò che vale la pena. Sapremo essere
all’altezza di questa difficoltà? Sapremo rinnovare la vita nella
problematicità e nell’apprezzamento (che può perfino stare al
margine della fede) per la tradizione religiosa e spirituale ebraico-cristiana? Precisamente da questa capacità dipende il futuro dell’Europa.
131
Note
(1) Ho trattato questo tema in: Esquirol, J.M., D’Europa als homes,
Barcelona, Cruïlla, 1994.
(2) Brague, R., Europa, la via romana, Barcellona, Barcelonesa d’Edicions,
1992.
(3) Lévinas, Difficile liberté, Paris, Albin Michel, 1976, pag. 46.
(4) Strauss, Jerusalem i Atenes, Barcellona, Barcelonesa d’Edicions, 1991,
pag. 71-72.
(5) Cfr. Nietzsche, El Anticristo, Madrid, Alianza, 1988, par. 58-60.
(6) Patočka, J., Essais hérétiques sur la philosophie de l’histoire, París,
Verdier, 1981.
(7) Lévinas, “L’identità d’Occidente” a Krali, A., (a cura di) Religiosità e
Occidente, Genova, Marietti, 1992, pag. 10.
(8) Lévinas, “Appendice”, a Religiosità e Occidente, cit. p. 78.
(9) Heller, A., Fehér, F., Políticas de la postmodernidad, Barcelona,
Península, 1989, pag. 293.
132
LUCIANO TOSI
Ordinario di Storia dei trattati e politica internazionale
Università di Perugia
Le chiese cristiane,
la pace e l’unificazione europea
La reale influenza delle varie Chiese cristiane – cattoliche,
ortodosse e riformate – e del fattore religioso in genere nel processo di costruzione dell’attuale Unione Europea è ancora per
larga parte da indagare1, mentre esistono numerosi studi sulle
posizioni dei pontefici e sul ruolo di leader cattolici come De
Gasperi, Adenauer e Schuman.
Questa relazione, che adotta una prospettiva propria alla
storia delle relazioni internazionali, tenta di cogliere un aspetto
particolare dell’atteggiamento delle Chiese cristiane di fronte
all’integrazione europea, la presenza in tale atteggiamento
della dimensione internazionalistica.
“Fare l’Europa è fare la pace”, diceva Jean Monnet e la
costruzione della pace è nel patrimonio ideale e spirituale del
Cristianesimo, imperativo etico prima che politico. Si tenta
quindi di evidenziare, sia pure per grandi linee e sulla scorta di
fonti bibliografiche e pubblicistiche, quanto abbia influito la
consapevolezza di un impegno per la pace tra le varie motivazioni con cui Chiese, movimenti e correnti di opinione delle
varie confessioni cristiane si sono rapportati all’unità
dell’Europa. Al tempo stesso si tenta di comprendere quanto
altre istanze abbiano fatto premio su questa consapevolezza,
ostacolando o frenando l’impegno delle varie Chiese per l’unità
europea.
1. Tra dimensione nazionale e vocazione universale
Dalla metà del secolo XV, “la Chiesa cattolica di fronte all’emergere di nuove monarchie e al pericolo del frantumarsi definitivo della Cristianità europea nelle Chiese nazionali… ha
accentuato il suo carattere statale e interstatale rafforzando la
propria organizzazione come principato territoriale”2 e ancora
oggi nelle istituzioni ecclesiastiche e nella profondità delle
coscienze sembra sopravvivere il noto principio “cuius regio
eius et religio”. In modo molto più accentuato questa espe133
rienza fu vissuta dalle Chiese ortodosse e riformate3. Le varie
Chiese tesero tuttavia a sottolineare la loro autonomia dallo
stato e ad affermare una sfera dell’etica indipendente e autonoma dal diritto positivo. In questo cammino esse, soprattutto
a partire dal secondo dopoguerra, si trovarono di fronte ad una
svolta importante con il declino del principio di sovranità statale, l’affermarsi di nuovi organismi internazionali e sovranazionali
e la conseguente necessità del superamento dello schema territoriale-confessionale4. Inoltre, già all’inizio del XX secolo,
cominciò ad acquistare particolare rilevanza nelle Chiese la
riflessione sulla pace e si cominciò a mettere in discussione la
teoria della guerra giusta.
Sul terreno della costruzione europea queste evoluzioni
stentarono ad avere riflessi concreti5 anche perchè l’idea di
nazione, che sembrava destinata ad aprirsi ad una prospettiva
di comunità internazionale, specie dopo il 1870 scadde nel
nazionalismo6 e spesso affermazioni nazionali e dimensioni religiose furono vissute in simbiosi, con esiti in cui si ritrovarono
fianco a fianco nazionalismo e spirito di crociata.
Nel corso del Novecento la Chiesa cattolica, specie in
Europa, si trovò a fare i conti tra la sua realtà di istituzione non
nazionale, a vocazione universalistica e la potente emersione
dei nazionalismi, alle cui suggestioni spesso cedettero le
Chiese cattoliche dei vari paesi, ma anche le ortodosse, senza
parlare di quelle protestanti da secoli portate a identificarsi con
gli stati nazionali7.
Benedetto XV definì il primo conflitto mondiale come “il suicidio dell’Europa civile”8. Nella visione del papa l’Europa si
identificava con la pace, pur in un più ampio contesto di pacificazione universale, ed egli si sforzò di conciliare il diritto all’esistenza delle nazioni con l’esigenza di evitare la guerra9.
Questa avrebbe finito con l’indebolire l’Europa, con cui la S.
Sede sentiva di avere un rapporto privilegiato anche se era
ormai tramontata l’unità del continente attorno al papato, “reliquia dell’unità dell’Europa”10. Ma se Benedetto XV invocò la
pace, nei vari paesi in guerra, con isolate eccezioni, i cattolici
sposarono le varie cause nazionali: nelle chiese e al fronte si
pregò lo stesso Dio con le stesse preghiere per invocare la vittoria del proprio esercito e la distruzione dell’odiato nemico.
Dopo il primo conflitto mondiale, attraverso la costatazione
dell’immane tragedia provvocata dal nazionalismo, della crescente interdipendenza esistente tra i vari paesi europei – e
non solo europei – e del declino ormai avviato del vecchio continente, si accentuò la riflessione sulla responsabilità dei cristiani nei confronti della pace in Europa, sulle implicazioni della
134
loro fede in tema di relazioni internazionali. Si cominciò, specie
tra i cattolici, a porre l’accento sull’ideale di universalismo proprio del Cristianesimo e di cui l’unità dei paesi europei avrebbe
potuto essere un modello, oltre che un rimedio contro il riesplodere dei nazionalismi, senza negare le singole identità
nazionali. Si sviluppò inoltre la riflessione sul personalismo che
avrebbe costituito un fondamento di rilievo nell’affermazione
dei diritti umani in Europa e sarebbe stato il veicolo attraverso
cui molti cristiani già impegnati nella resistenza sarebbero passati nel secondo dopoguerra all’impegno europeistico.
È difficile tuttavia trovare nell’opinione pubblica o nella
stampa cattolica dell’epoca un diffuso interesse per la costruzione dell’unità europea, ad esempio, per il progetto di Richard
Coudenhove-Kalergi (1923) o per quell’embrione di unità europea, quali furono i patti di Locarno (1925), che pure per qualche tempo fecero apparire ai cattolici più concrete le speranze
di pace e li avvicinarono alla Società delle Nazioni11. Del resto
non tutti i credenti guardavano con favore ad una unione europea quale via per la pace. La divisione dell’Europa in tante religioni diverse impediva ai cattolici di aderire a pieno all’idea
d’Europa, ancora legata, per essi, ad una visione romana e
non “plurale”12.
Il conflitto inoltre aveva lasciato pesanti strascichi, la conferenza di Versailles aveva aperto più questioni di quante ne
avesse chiuso e i cristiani e i cattolici erano partecipi delle tensioni del dopoguerra. Tra i cattolici tedeschi, ad esempio, prevaleva l’ostilità alla pace punitiva imposta alla Germania e si
rafforzava il sentimento di appartenenza nazionale. Si vagheggiava l’idea di una grande Germania che potesse strappare
l’Europa al laicismo e alla massoneria, dominanti, a loro avviso,
nel vecchio continente, e potesse ricostruire l’unità dell’Europa
sul modello della cristianità medievale poggiante sull’unità della
fede. Oppure si condizionava il favore per l’unità europea alla
soddisfazione delle rivendicazioni nazionali, per lo più territoriali13. Anche in altri paesi europei i cattolici, salvo rare eccezioni,
erano suggestionati dalle sirene nazionalistiche: in Francia
l’Action Française di Charles Maurras era espressione di un
cattolicesimo nazionale, o meglio, nazionalistico; in Italia l’opinione cattolica, pur non condividendone le punte estreme,
manifestò il proprio favore per gli orientamenti nazionalistici del
fascismo in politica estera. Un discorso analogo vale per la
Spagna. Pio XI condannò i nazionalismi sfrenati, contrari alla
visione universalistica della Chiesa cattolica, ma le sue posizioni non valsero a impedire una adesione più o meno ampia del
mondo cattolico alle istanze nazionalistiche14.
135
Mentre le varie chiese ancora faticavano a guardare positivamente oltre i confini nazionali furono singoli esponenti della
cultura cattolica europea15 a portare avanti le riflessioni sulla
pace e sull’universalismo cristiano, sui rapporti tra lo stato e la
comunità internazionale. Tali riflessioni non si accentrarono
tanto sulla dimensione europea quanto su quella mondiale.
Don Luigi Sturzo condivideva le idee di Wilson e riponeva grande fiducia nella tutela della sicurezza nazionale da parte di un
organismo internazionale a cui stati “coraggiosi e arditi” fossero pronti a cedere parte dei diritti sovrani16. Sturzo era convinto che l’organizzazione internazionale fosse la via per arrivare
all’eliminazione della guerra, per quanto lenta e laboriosa. Egli
pensava ad organizzazioni internazionali – dotate anche di un
esercito – di varie dimensioni, regionali, continentali, quali unità
di primo grado verso una organizzazione universale. Fino all’inizio degli anni Trenta ripose molta fiducia nella Società delle
Nazioni e continuò a guardarla con speranza almeno fino al
1936. Dal 1940 cominciò a pensare alla nascita di una federazione europea nel dopoguerra e con lucida analisi sottolineò
l’esigenza dell’unità anche economica del continente quale
premessa ad una più vasta unità economica mondiale. Sturzo
cioè intravedeva nella cooperazione internazionale non solo la
via per evitare la guerra ma anche quella per perseguire gli interessi economici degli stati, una concezione questa che trovò
largo sviluppo nel dopoguerra.
Accanto a Sturzo, altri pensatori cattolici nel periodo tra le
due guerre cominciarono a mettere a fuoco una riflessione
sulla tradizione della cultura cristiana europea e sull’universalismo cattolico, sulla capacità cristiana di conciliare l’uno e i
molti quale antidoto ai nazionalismi, basti pensare agli inglesi
Gilbert K. Chesterton, Thomas S. Eliot, Christopher Dawson o
ai francesi Maurice Blondel, Emmanuel Mounier, Jacques
Maritain, Pierre Teilhard de Chardin o al tedesco Romano
Guardini, ma anche al protestante elvetico Denis de
Rougemont17. Ci si avviava a superare la nostalgia per l’antica
unità della cristianità e si guardava a una comunità internazionale al plurale, basata su principi ispiratori cristiani, sul “riconoscimento dell’altro”. Affermazioni in tal senso sono contenute
anche nel Codice di morale internazionale di Malines18 e furono
riprese nel Codice di Camaldoli19. Un piccolo ma significativo
contributo venne anche dalle prime esperienze di ecumenismo
cui si ricollegarono gruppi ecclesiali impegnati nell’educazione
alla pace, per esempio, attraverso la revisione dei libri di testo
scolastici20.
136
2. Impegno e cautele di fronte
alle prime esperienze di unità europea
Dopo la seconda guerra mondiale il mondo cattolico fu
chiamato ancora una volta a ripensare al proprio bagaglio ideale, alla vocazione universale del Cristianesimo che allora si
ergeva con forza di fronte ai drammatici esiti del nazionalismo
e si cercò di trarre dalle lezioni del passato ispirazione per
costruire concretamente la pace. Era del resto ormai chiaro
che i nazionalismi totalitari ponevano in essere condizioni
impossibili per l’annuncio del Vangelo e per la libertà religiosa
e anche per questo si riscoprì la vocazione universalistica e
internazionalistica propria del Cristianesimo e si valorizzarono le
istituzioni politiche ad essa affini21.
Più volte, a partire dal 1945, Pio XII manifestò il suo favore
per l’unità dell’Europa come una possibile via per la salvezza del
continente e fece proprio il programma federalista sul modello
della Svizzera. Egli sottolineò l’esigenza di superare i nazionalismi e di favorire la nascita di una comunità internazionale basata sulla giustizia, sulla stima, sulla fiducia e sul rispetto delle singole identità nei rapporti tra gli stati e si spinse sino a invocare
la rinuncia, almeno parziale, da parte degli stati del principio di
sovranità nazionale in funzione della nascita di un organismo
dotato di poteri sovranazionali22. il Papa si fece interprete della
coscienza dell’umanità, profondamente turbata dalla guerra e
inserì il tema dell’Europa nel quadro della riflessione sulla pace
che aveva già cominciato a sviluppare durante il conflitto.
L’interesse per l’integrazione europea quale via maestra per l’affermazione della pace in Europa e quale premessa per l’affermazione della stessa nel mondo si accompagnò alle preoccupazioni del pontefice di difendere la civiltà cristiana dal comunismo (1946-1952) – si pensi alla proclamazione nel 1947 di San
Benedetto patrono d’Europa – di costituire una “terza forza” cristiana tra oriente comunista e occidente capitalista (19521957)23 e anche di ricostituire pienamente l’unità culturale e religiosa del continente, che doveva ritrovare le sue radici cristiane, base per l’affermazione dei diritti dell’uomo.
La riflessione – e l’azione – del laicato cattolico in tema di
costruzione europea si sviluppò in sintonia con il magistero di
Pio XII al riguardo. In Italia, ad esempio, la riflessione dei cattolici sui problemi dell’organizzazione internazionale si era accentuata già negli anni della guerra e si era fatta più puntuale. Nel
1943, Guido Gonnella in un suo scritto dal titolo L’ordine internazionale24, dopo aver constatato l’anarchia esistente nelle
relazioni internazionali, si era soffermato a lungo sulla possibi137
lità di creare un nuovo ordine internazionale fondato sull’arbitrato obbligatorio, sulla open diplomacy di wilsoniana memoria, sul disarmo, sulla libertà di commercio e di emigrazione,
ecc. Egli aveva sostenuto la necessità di conciliare la “nazione
con l’umanità” e la “libertà dei popoli con la solidarietà dei
popoli”; il diritto di ogni paese all’autodeterminazione andava
contemperato, secondo Gonnella, con la rinuncia alla sovranità assoluta dello stato, le varie sovranità dovevano disciplinarsi nel quadro di “intese organiche e pacifiche” tramite la
“coordinazione” delle volontà delle potenze. Gonella scartava
però modelli come la Santa Alleanza, il Commonwealth o l’internazionalismo comunista e sottolineava l’esigenza di cercare
una solidarietà nuova fra gli stati che avrebbero dovuto coordinare le loro volontà di potenza. Come osserva Guido
Formigoni, “L’istanza universalista era dunque forte, ma non
cancellava affatto l’insistenza sulla dimensione nazionale:
doveva piuttosto integrarvisi. Nessuna irrealistica autosufficienza nazionale, ma nemmeno nessun ideologico eccesso
internazionalista”25. Se da un lato si pose l’accento sui limiti del
principio di sovranità statale, dall’altro, complici anche le
sopraggiunte preoccupazioni per la minaccia comunista, si
recuperarono i concetti di occidente e di cristianità26.
La costruzione europea fu avviata, come è noto, da una
classe dirigente cattolica che per convinzioni ideali e realismo
politico vide nell’unità del vecchio continente un antidoto al
ripetersi di conflitti, oltre che una soluzione ai problemi politici
ed economici dei vari paesi. Accanto ad essa vi furono altri illustri europeisti di tradizione laica. Al forte interesse del papa e
all’impegno delle classi dirigenti cattoliche per la costruzione
dell’unità europea non corrispose però – almeno a stare allo
stato attuale degli studi – nel corso degli anni Cinquanta e
Sessanta un’analoga attenzione da parte delle varie chiese
locali27, degli episcopati nazionali e delle opinioni pubbliche cattoliche dei vari paesi28. Una volta raggiunto, nel 1957, il traguardo del Mercato Comune Europeo, la riflessione del mondo
cattolico sulla realtà internazionale finì forse per focalizzarsi
maggiormente sulla dimensione atlantica da un lato, complice
anche il perdurare della guerra fredda, e dall’altro, sulla dimensione mondialista, sollecitata dall’avvio del processo di decolonizzazione. Proseguì tuttavia l’impegno europeistico dei partiti
democratico-cristiani europei e non mancarono istituzioni cattoliche ed ecclesiali che si occuparono di tematiche europeistiche29, facendo peraltro emergere una pluralità di vedute al
riguardo. Si andava da coloro che consideravano l’unità europea solo in chiave difensiva e anticomunista a quelli che inve138
ce avevano un atteggiamento più positivo e costruttivo, a quelli
che deploravano che l’unità economica stesse prendendo il
sopravvento sulla costruzione della pace e sull’unità politica.
Ancora meno significativo fu l’impegno delle varie Chiese
protestanti nei confronti dell’unità europea verso cui anzi sono
state fino a tempi recenti sospettose e critiche a causa soprattutto del loro essere chiese territoriali, quindi strettamente legate alla dimensione nazionale, meno sensibili alla dimensione
universale del Cristianesimo30. Ad accrescere la scarsa propensione europeistica di queste chiese contribuirono anche
altri fattori non meno rilevanti e sempre connessi alla loro caratteristica territoriale. Tra le chiese protestanti ce n’erano alcune
appartenenti a paesi contrari all’Unione europea, basti pensare alla Gran Bretagna31, dove fino a poco tempo fa la Chiesa
anglicana manifestava un sostanziale disinteresse per l’Europa.
Altre Chiese protestanti godono di situazioni di particolare privilegio all’interno degli stati, circostanza, questa, che non
mancò di influenzare il loro atteggiamento verso l’Europa.
Contribuisce inoltre a spiegare la scarsa propensione europeistica delle Chiese protestanti il fatto che, almeno fino all’adesione, nel 1973, della Gran Bretagna e della Danimarca alla
Comunità Europea, esse, specie in Germania e in Scandinavia,
videro in quest’ultima una Comunità a prevalenza cattolica e
temettero di essere schiacciate32.
L’unità dell’Europa non interessava molto neppure alle
chiese ortodosse che, pur avendo una spiritualità attenta alla
dimensione universalistica dell’umanità, hanno anche una
“ecclesiologia, tutta centrata sulla chiesa locale, sul territorio
della singola comunità di credenti, ed in ultima analisi sulla
nazione; in alcune Chiese ortodosse è anche in onore l’idea di
“popoli eletti”, sulla falsariga dell’Israele biblico, e si crede così
alla “celestialità” del popolo serbo, al messianismo di quello
russo, alla grazia particolare di quello greco”33. Peraltro le
Chiese ortodosse orientali, riflettendo posizioni dei governi del
blocco sovietico, guardarono alle istituzioni europee come a
strumenti dell’imperialismo degli Stati Uniti e nutrirono – e
nutrono tuttora – forti perplessità nei confronti dell’Europa occidentale, da essi considerata secolarizzata e materialista e poco
sensibile alle attese dei paesi più poveri34. Del resto anche la
Chiesa di Roma fino al Concilio Ecumenico Vaticano II guardò
alla Chiese ortodosse orientali come a strumenti della politica
sovietica.
È da dire comunque che molte Chiese locali, cattoliche e
protestanti, più che impegnarsi in favore dell’integrazione europea cercarono di favorire la riconciliazione tra i popoli, ad
139
esempio, tra Francia e Germania e tra Germania e Polonia35, o,
come nel caso del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, di
mantenere aperto il dialogo con l’ortodossia russa.
3. L’Europa via per la pace
Nel breve pontificato di Giovanni XXIII, proiettato su una
visione di pace e giustizia universale, non si fece molto riferimento alla costruzione europea, che pure il Papa guardò con
favore, sottolineandone i progressi e le radici cristiane e
lasciando esplicitamente ai laici, governi e popoli, il compito
delle concrete scelte istituzionali36
Con l’ascesa al soglio pontificio di Paolo VI l’impegno europeista della S. Sede compì un salto notevole, pur rifacendosi il
nuovo papa al magistero dei suoi predecessori. Con ogni verosimiglianza la peculiarità della grande attenzione manifestata da
Paolo VI nei confronti dell’unità europea fu proprio quella di
identificare in essa, più di ogni altro pontefice, la via della pace
nel continente, dell’alternativa alla guerra. Egli riponeva grande
fiducia negli organismi internazionali, simboli visibili, a suo avviso, della concezione cristiana della convivenza umana; seguì
da vicino, quasi quotidianamente, la vita delle istituzioni europee, presso cui accreditò rappresentanti della S. Sede. “È uno
sguardo, il suo, che conosce l’esultanza per i progressi compiuti, ma insieme la trepidazione di fronte alle difficoltà, ai
momenti di stasi e di regresso”37.
Paolo VI rilesse più volte la millenaria storia europea, fatta
di guerre e di divisioni, e si soffermò in particolare su quella
dell’Ottocento, sulle lotte tra gli stati nazionali che sarebbero
sfociate nel Novecento in due guerre mondiali, e collegò l’unificazione del continente all’obiettivo della pace. Perseguire,
attraverso l’unità, la pace in Europa avrebbe anche significato,
stante il ruolo di quest’ultima e la crescente interdipendenza fra
i vari paesi, perseguire la pace nel mondo38. Paolo VI, autore
della Populorum Progressio, sottolineò anche ripetutamente
l’esigenza che l’Europa unita fosse protagonista di solidarietà
internazionale, soprattutto nei confronti del Terzo Mondo.
Giudicò inoltre importante da parte della Chiesa contribuire alla
formazione di una coscienza europea, specie tra i giovani39.
Negli ultimi anni della sua vita, anche sulla scia di una certa
delusione per gli esiti dell’azione della diplomazia multilaterale
in favore della pace e dello sviluppo, mostrò di riporre la sua
fiducia per la costruzione dell’unità europea nella riscoperta dei
principi cristiani, non per riproporre una visione medioevale di
140
Res pubblica christiana, ma per favorire lo sviluppo dei valori
dell’umanesimo cristiano (“Evangelii nuntiandi”, 1975). Su questa base, ancora prima di Giovanni Paolo II, auspicò il riavvicinamento, se non la riunificazione delle due Europe, dell’Est e
dell’Ovest, e guardò con favore alla Ostpolitik e soprattutto alla
conferenza di Helsinki a cui decise di far partecipare la S. Sede,
anche per allargare gli spazi dei diritti umani, della libertà di
coscienza e di religione40.
Anche il Concilio Ecumenico Vaticano II favorì la costruzione dell’unità europea con molte sue formulazioni, si pensi a
quella sulla libertà religiosa o alle positive valuazioni espresse
nella Gaudium et spes nei confronti delle istituzioni internazionali universali e regionali41; mutò l’atteggiamento della Chiesa
cattolica verso quelle dell’Europa orientale, cattoliche e ortodosse. Si sviluppò la collaborazione con la Conferenza delle
Chiese Europee (Kek), l’organizzazione evangelico-ortodossa
delle Chiese europee sorta nel 1977, e si svilupparono i contatti ecumenici con gli ortodossi, gli evangelici e gli anglicani.
Tutto questo creò le condizioni per il superamento di vecchie
concezioni, di veri e propri stereotipi, per il riconoscimento che
l’Europa ha più anime religiose, è una identità plurale anche dal
punto di vista religioso, e favorì l’impegno per la costruzione
dell’unità politica del continente quale via per la costruzione
della pace nel mondo.
Nel 1971 nacque il Consiglio delle Chiese episcopali
d’Europa (Ccee) e nel 1980 la Commissione degli episcopati
della Comunità europea (Comece) e sempre più posero l’attenzione sul processo di integrazione europea. Nel 1974 all’interno del IV sinodo mondiale dei vescovi ci fu una relazione
dedicata all’“Evangelizzazione in Europa”. Nel 1975, in occasione del primo simposio organizzato dal Ccee, si ebbe un
primo documento su temi europeistici (a cui ne seguirono altri
a intervalli di 4 anni). Presero posizione anche i singoli episcopati nazionali: nel 1973 si espressero quelli di Gran Bretagna e
Galles, in occasione dell’ingresso dell’Inghilterra nel Mercato
Comune; nel 1976 fu pubblicato un documento della conferenza episcopale belga e così via42. Seguì nel corso degli anni
Ottanta e Novanta una notevole messe di documenti europeistici di conferenze episcopali, vescovi, ordini religiosi e del laicato cattolico nazionale e internazionale, che segnarono definitivamente l’abbondono della tendenza, presente nel mondo
cattolico, a delegare alla S. Sede le prese di posizioni in materia internazionale, anche se nella base cattolica la tematica
europeistica, e più specificamente la sua dimensione internazionale, tende a rimanere oggetto di scarsa attenzione43.
141
Anche tra le Chiese ortodosse e riformate cominciò a manifestarsi una certa apertura alla dimensione europea con la
nascita dell’European Ecumenical Commision for Church and
Society (Eeccs) e, nel 1977, della ricordata Kek. Nel 1979, in
occasione della prima elezione a suffragio universale del
Parlamento europeo, si registrano numerose dichiarazioni delle
chiese evangeliche e di quella anglicana a favore dell’Unità del
continente.
4. L’allargamento a Est tra speranze e timori
L’interesse delle Chiese per l’unità europea crebbe dopo il
1989. Nel mondo cattolico era salito al soglio pontificio nel
1978 il polacco Karol Woityla che impresse una svolta rilevante alla riflessione e all’azione della Chiesa in tema di unità
dell’Europa. Giovanni Paolo II si ricollegò a Pio XII laddove sottolineò – e ancora sottolinea con forza e di frequente, specie
negli ultimi anni – le radici cristiane del continente, cui è necessario, a suo avviso, rifarsi sia per comprendere l’unità stessa
dell’Europa, sia per garantire i valori della persona. Tuttavia,
con spirito profetico, sin dall’inizio del suo pontificato mise l’accento sull’unità morale e spirituale dell’Europa, dall’Atlantico
agli Urali, dal mar del Nord al Mediterraneo, come testimonia
anche la proclamazione nel 1980 dei Santi Cirillo e Metodio a
copatroni di un’Europa espressione dell’unione di due tradizioni cristiane, quella occidentale e quella orientale. Da qui il suo
impegno per favorire anche la riunificazione politica ed economica del continente, una riunificazione che peraltro avrebbe
dovuto rispettare e valorizzare le specificità culturali delle varie
nazioni, il cui ruolo Giovanni Paolo II ha sempre riaffermato con
forza nei suoi discorsi sull’Europa44. È superfluo sottolineare il
ruolo avuto dal pontefice nella dissoluzione del blocco sovietico. Anche dopo questo avvenimento il Papa non smise il suo
impegno per l’unità del continente e nel 1991 indisse il primo
sinodo continentale in cui però il tema dell’unità politica
dell’Europa non fu oggetto di attenzioni speciali45.
La caduta del muro accese tra i cattolici entusiasmi e speranze per una rapida riunificazione dell’Europa, come testimonia il titolo della XLI Settimana sociale dei cattolici italiani “I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa”, svoltasi a Roma
nel 199146. Presto però l’attenzione verso la problematica unitaria tese a diminuire mentre in Europa entravano di nuovo in
scena i nazionalismi, come in occasione della crisi della ex
Iugoslavia. La novità degli scenari nazionali e internazionali pro142
dusse anche nelle varie Chiese cristiane più di una incertezza
nel discernere la via per costruire la pace, anche se ancora una
volta uomini politici cattolici come Helmut Kohl e Jacques
Delors diedero un importante contributo al rafforzamento dell’unità europea.
Quasi un decennio di guerre nei Balcani risvegliarono tra
cattolici e ortodossi antiche incomprensioni, sospetti e pregiudizi che non facilitarono l’impegno delle Chiese per l’unità
dell’Europa. Inoltre la caduta del muro pose le Chiese orientali
di fronte a tanti e nuovi problemi, dall’avanzare della secolarizzazione alla ricerca di un loro ruolo nelle società postcomuniste, dal rapporto con le altre Chiese europee al rinnovamento
delle strutture, e si ingenerò in esse una sorta di paura per la
riunificazione del continente che non è del tutto svanita. Da
parte degli ortodossi si guarda ancora all’unificazione
dell’Europa come ad una incognita, su cui pesa soprattutto il
pericolo dell’assimilazione dell’Oriente da parte dell’Occidente47 e si teme il proselitismo della Chiesa di Roma, mentre
da parte cattolica c’è ancora troppa ignoranza circa i valori
della cultura ortodossa.
Le posizioni delle Chiese protestanti e ortodosse verso l’unità europea cominciarono comunque a mutare dal 1989, l’anno che spazzò via ogni equivoco circa l’identificazione tra
l’Europa e la civiltà occidentale. Nel maggio di quell’anno le
varie Chiese cristiane del continente tennero a Basilea la prima
grande riflessione comune sui destini della comunità internazionale e dell’Europa in particolare. Il documento finale redatto
al termine dell’incontro rappresenta un primo esempio di concreta convergenza delle varie Chiese verso un impegno unitario a favore della pace e dell’unificazione dell’Europa. Il titolo
quinto dello stesso è interamente dedicato alla realtà europea
e alle prospettive dell’integrazione ed enuclea cinque punti di
accordo, presentati come contenuti essenziali della “casa
comune europea”, che vanno dal riconoscimento del principio
di assoluta uguaglianza fra le persone e i popoli al riconoscimento dei valori di libertà, giustizia, tolleranza, solidarietà e partecipazione, dall’apertura verso religioni, culture e filosofie
diverse da quelle maggioritarie alla libertà di circolazione e
comunicazione e alla eliminizione della violenza. Anche il dialogo ecumenico entrò a far parte del processo costitutivo
dell’Unione Europea in quanto fattore di conciliazione che permette alle Chiese di far sentire con maggiore incisività la loro
voce sul piano sociale e politico. La realizzazione di un “nuovo
ordine internazionale europeo” avrebbe dovuto basarsi su giustizia, pace e salvaguardia del creato e grande importanza
143
avrebbero dovuto avere in tale realizzazione i “valori comuni”
mediati dalla tradizione cristiana nel confronto dialettico con il
pluralismo contemporaneo48.
Si susseguirono da allora le aperture delle varie Chiese
verso le istituzioni europee che continuano a svilupparsi ancora oggi, in particolare all’interno degli organismi del dialogo
ecumenico49, e accompagnano il processo di allargamento
dell’Unione50.
Nell’ottobre del 1999 nel mondo cattolico si ebbe il secondo sinodo sull’Europa con il titolo “Gesù Cristo vivente nella
sua Chiesa sorgente di speranza per l’Europa”. Il tema dell’unificazione politica dell’Europa fu oggetto di grande attenzione
e il Sinodo, pur nella consapevolezza delle difficoltà allora esistenti, auspicò sia un rafforzamento dell’integrazione, sia l’allargamento ad Est dell’Unione Europea. Tuttavia, sul problema
del nazionalismo non si andò oltre le posizioni di Pio XI, così
come sulle responsabilità dell’Europa verso il Terzo Mondo non
ci si discostò molto dalle tradizionali posizioni della S. Sede51.
Quasi quattro anni dopo, il 28 giugno 2003, Giovanni Paolo II
firmò l’esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Europa
che aggiorna le dichiarazioni del sinodo del 1999. In essa il
pontefice, mentre ribadisce più volte l’esigenza di mettere alla
base della costruzione europea i valori cristiani si sofferma con
numerosi e positivi riferimenti sull’unità politica dell’Europa e
sulle sue istituzioni sollecitate a svolgere un’azione di pace e
solidarietà nel mondo52.
Dalla fine del 2001, con l’annuncio dell’inizio dei lavori della
convenzione per dare una costituzione all’Unione, l’attenzione
delle Chiese per le problematiche europee è notevolmente
aumentata. Si sono moltiplicati a tutti i livelli, specie nel mondo
cattolico – S. Sede, conferenze episcopali, diocesi, movimenti
ecc. – e in quello ortodosso, gli incontri, i convegni, i dibattiti,
gli articoli sulla stampa e le prese di posizione sull’Europa. Le
Chiese nazionali sembrano più interessate agli esiti all’interno
dei singoli stati della progressiva integrazione e dell’ampliamento dell’Unione, a governare i cambiamenti culturali, a far
fronte alla dilagante secolarizzazione, a contrastare una integrazione solo economica e tecnologica, a favorire l’accoglienza degli immigrati, a salvaguardare i propri spazi di azione e il
principio di sussidiarietà53. A livello di dialogo tra le Chiese
molte iniziative sono volte a rivendicare il ruolo della religione e
delle stesse Chiese nella costruzione della nuova Europa54. Si è
impegnati perché i valori della fede non vengano dimenticati nel
trattato costituzionale, per avere la garanzia del rispetto da
parte dell’Ue della libertà religiosa in tutte le sue dimensioni,
144
per il riconoscimento della specifica identità delle Chiese e delle
Comunità religiose, per la prefigurazione di un “dialogo strutturato” tra queste e l’Ue e infine per il rispetto da parte della stessa Ue dello status delle varie Chiese già codificato nelle leggi
nazionali degli Stati membri. Queste aspettative si sono tradotte in una serie di richieste fatte pervenire nel settembre 2002
dalla Kek e dalla Comece al Presidente della Convenzione
europea, Valery Giscard d’Estaing.
Più attento alle problematiche economiche e sociali connesse all’allargamento è un documento elaborato dalla
Comece alla vigilia del Consiglio europeo di Copenaghen del
dicembre 2002, mentre decisamente più aperta alla dimensione della pace e dello sviluppo è un altro documento della stessa Comece “Apriamo i nostri cuori. La responsabilità dei cattolici e il progetto dell’Unione Europea”, destinato a fornire materia di dibattito in vista della sua approvazione definitiva al congresso teologico della stessa in programma a Santiago de
Compostela per l’aprile del 200455. In esso alla forte attenzione
manifestata per le istituzioni europee si accompagna un sentito compiacimento per l’allargamento, anche se non si sottovalutano i problemi posti ai vari paesi dall’allargamento stesso. Si
richiama la dichiarazione Schuman sui fini di pace e solidarietà
dell’unità dell’Europa, sul metodo della cooperazione tra gli
stati basato sulla libertà e l’autodeterminazione, da estendere
a livello mondiale. Si esorta a valorizzare il principio dell’unità
nella diversità e se da un lato si mette in rilievo la straordinaria
opportunità che l’unità europea offre al dialogo ecumenico,
dall’altro si sottolinea come educare all’Europa significhi anche
educare ad essere cittadini del mondo in vista di una unità da
realizzare su scala planetaria.
E certamente l’allargamento sarà tanto più efficace se
all’integrazione economica si accompagnerà quella delle menti
e dei cuori. A quest’ultima le Chiese possono dare un contributo determinante ove sapranno sviluppare un serio dialogo
ecumenico tra le due grandi tradizioni religiose europee e
sapranno guardare al processo di integrazione come a un processo non di assimilazione ma di reciproca accettazione fra
identità diverse sempre rinnovantesi, e come a uno strumento
insostituibile per l’affermarsi della pace in Europa.
I secolari rapporti con le singole realtà statuali ancora frenano l’apertura all’Europa delle varie confessioni cristiane e
l’attuale impegno per riaffermare le radici cristiane del continente sembra mettere un po’ in ombra quello per l’integrazione europea, data quasi per scontata. La nascita dell’euro e
l’imminente varo della costituzione europea hanno fatto quasi
145
dimenticare che si tratta solo di due momenti – anche se
importanti – di un più ampio progetto che mira all’unità politica
dell’Europa.
Oggi l’impegno per la costruzione unitaria come mezzo per
costruire la pace è più che mai attuale. Il traguardo degli Stati
Uniti d’Europa è ancora lontano. Le istituzioni europee sono
ancora fragili e prigioniere delle logiche nazionaliste. Scarsi
sono i poteri legislativi del Parlamento di Strasburgo, la
Commissione di Bruxelles è ancora emanazione dei governi
nazionali e il Consiglio dei Ministri stenta ad aprirsi al principio
di sovranazionalità. La costruzione unitaria procede lentamente mentre la storia dei popoli sembra accellerare, come testimoniano le vicende, spesso drammatiche, degli ultimi anni. Per
costruire la pace e la solidarietà internazionale, uniche vie possibili al progresso dell’umanità, l’unità europea appare una
tappa ineludibile. Merita dunque un rinnovato impegno delle
Chiese.
La storia dell’Europa provoca ancora i cristiani e li richiama
alle loro responsabilità nella formazione delle coscienze, specie
giovanili, e nel dare un orizzonte concreto e teologicamente
fondato alla apparente dicotimia tra la dimensione nazionale, a
cui richiama la storia, e quella universale, a cui ispira la fede.
146
Note
(1) Cfr. A. Canavero, Introduzione in A. Canavero, J.D. Durand (a cura di), Il
fattore religioso nell’integrazione europea, Milano, Unicopli, 1999, p. 7.
(2) P. Prodi, L’Europa e la memoria in P. Prodi e altri, L’Europa crocevia.
Memoria/cultura/responsabilità delle Chiese, Roma, Studium, 1992, p. 15; cfr.
inoltre D. Veneruso, I cattolici e la pace nell’età contemporanea: illusioni, speranze, iniziative in G. Galeazzi (a cura di), Dall’eclissi della ragione alla volontà di
potenza, Bologna, M. Boni, 1993, p. 211.
(3) Utili considerazioni sulla “nazionalizzazione” delle varie chiese in Europa
fino al secondo conflitto mondiale in G.P. Caliari, Le chiese cristiane e l’integrazione europea in S. Fontana e altri, Il futuro dell’Europa: le sue radici cristiane,
Venezia, Marsilio, 1996, pp. 37-39.
(4) Prodi, L’Europa e la memoria … cit., pp. 18-19.
(5) Nel corso del Settecento e dell’Ottocento non erano mancate riflessioni
da parte di uomini di Chiesa sull’importanza dell’unità dell’Europa, ma i primi progetti di federazione europea erano stati elaborati da illustri personalità laiche e
mettevano l’accento su valori liberali e nazionali e non di rado avevano ispirazioni massoniche e anticlericali che non li rendevano ben accetti alle varie confessioni cristiane europee; cfr. Canavero, Introduzione … cit., p. 9.
(6) Cfr. D. Veneruso, Stato, nazione e democrazia, Caltanissetta-Roma,
Salvatore Sciascia Editore, 2001.
(7) Cfr. C. Alix, La Saint-Siège et les nationalismes en Europe, 1870-1969,
Paris, Sirey,1962 e, più in generale, A. Giovagnoli (a cura di), L’identità cristiana
tra località e universalità, Roma, Studium, 2001. Per l’Italia si veda la felice sintesi di G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla
Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1998.
(8) Lettera di Sua Santità Benedetto XV al signor card. Basilio Pompilj, “La
civiltà cattolica”, 10 marzo 1916.
(9) Cfr. R. Morozzo Della Rocca, Le nazioni non muoiono. Russia rivoluzionaria, Polonia indipendente e Santa Sede, Bologna, Il Mulino 1992.
(10) A. Riccardi, Roma del papa e l’Europa: un progetto cattolico in
Canavero, Durand (a cura di), Il fattore religioso … cit., p.31.
(11) Per un quadro degli orientamenti dei cattolici fra le due guerre sui temi
della pace e della nazione si veda D. Veneruso, Il seme della pace. La cultura cattolica e il nazionalimperialismo fra le due guerre, Roma, Studium, 1987.
(12) P. Chenaux, Occidente, cristianità, Europa. Uno studio semantico in
Canavero, Durand (a cura di), Il fattore religioso … cit., pp. 50-51.
(13) Cfr. M.E. Reytier, I cattolici tedeschi e l’Europa all’indomani della prima
guerra mondiale. L’esempio dei Katholikentage, ivi, pp. 359-3711 e W. Becker,
L’idea europea dei cattolici ultramontani da Görres alla seconda democrazia
tedesca, ivi, pp. 351-353.
(14) Cfr. Riccardi, Roma del Papa … cit., pp. 31-32 e Formigoni, L’Italia dei
cattolici … cit., pp. 110-112.
(15) Cfr. W. Becker, L’idea europea dei cattolici ultramontani … cit., ivi, pp.
351-358.
(16) Cfr. L. Sturzo, La comunità internazionale e il diritto di guerra, Bologna,
Zanichelli, 1954 ma 1929. Egli si distaccava dalle teorie della “guerra giusta”, era
convinto che le cause della guerra fossero di carattere morale e riteneva che
fosse possibile evitarla purché lo volessero con convinzione e senza incertezze i
governi e i popoli, facendo appunto ricorso all’azione di organizzazioni internazionali. Sturzo rifuggiva dall’utopia pacifista ed aveva sempre di mira il possibile.
Su questa base egli criticò le democrazie per aver fatto mancare alla SDN il consenso e la forza necessaria a sostenere un diritto internazionale ispirato a criteri
di giustizia e di difesa degli Stati deboli, per aver fatto, cioè, prevalere ancora una
volta le logiche di potenza su quelle dell’organizzazione e della Comunità internazionale. Per una analisi del pensiero di Sturzo al riguardo cfr. M. Tesini,
Problema della guerra e comunità internazionale nel pensiero di Luigi Sturzo,
“Studium”, 82, 1986, 1, pp. 33-59 e G. De Rosa, I problemi dell’organizzazione
internazionale nel pensiero di Luigi Sturzo in G. De Rosa (a cura di), Luigi Sturzo
e la democrazia europea, Bari, Laterza, 1990, pp. 5-25. Anche il PPI nella sua
147
breve vita guardò con grande attenzione alla Sdn e pose in essere “un tentativo
di fondere la tradizione neoguelfa sulla missione italiana e l’attuazione dell’istanza universalista della tradizione cattolica sul terreno della nuova Europa postbellica”, Formigoni, L’Italia dei cattolici … cit., p. 97.
(17) Cfr. G. Campanini, La cultura cattolica del Novecento e l’idea d’Europa
in Canavero, Durand (a cura di), Il fattore religioso … cit., pp. 233-246.
(18) Cfr. Unione internazionale di studi sociali (a cura di), Codice di morale
internazionale, Roma, 1943, pp. 20-21.
(19) Cfr. Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento civile a cura di
un gruppo di amici di Camaldoli, Roma, 1945.
(20) Cfr. M.C. Giuntella, Cooperazione intellettuale ed educazione alla pace
nell’Europa della Società delle Nazioni, Padova, Cedam, 2001, pp. 78-79, 106,
148-149
(21) Caliari, Le chiese cristiane … cit., pp. 40-41 e C. Meneguzzi Rostagni,
Il Vaticano e la costruzione europea (1948-1957) in E. Di Nolfo-R.H. Rainero-B.
Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-1960), Milano,
Marzorati, 1992, pp. 143-172.
(22) Il superamento del principio di sovranità nazionale è stato costantemente perseguito dalla Santa Sede nel secondo dopoguerra, specie in rapporto
all’unificazione dell’Europa; nel 1987 l’allora Segretario di Stato, Agostino
Casaroli ebbe e a scrivere: «La Santa Sede stima di poter e di dover incoraggiare e sostenere ogni iniziativa e realizzazione, sia pur modesta, ma solidamente
impostata che miri al superamento del mito della sovranità degli Stati»; A.
Casaroli, La Santa Sede e l’Europa in ID., Nella Chiesa per il mondo, Milano,
Rusconi, 1987, pp. 278-283.
(23) Cfr. P. Chenaux, Une Europe vaticane? Entre le Plan Marshall et les
Traités de Rome, Louvain, Ciaco, 1990, p. 282 e A. Acerbi, Pio XII e l’ideologia
dell’Occidente in A. Riccardi (a cura di), Pio XII, Bari, Laterza, 1985, pp. 149-178.
Cfr. inoltre D. Pasquinucci, “L’Osservatore Romano” e le origini dell’integrazione
europea (1947-1957) in M. Mugnaini (a cura di), Stato, Chiesa e relazioni internazionali, Milano, Angeli, 2003, pp. 173-191.
(24) Pubblicato in G. Marcucci Fanello, Documenti programmatici dei democratici cristiani (1899-1943), Roma, Cinque Lune, 1983, pp. 121-135.
(25) La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna,
Il Mulino, 1996, pp. 36-37; cfr. inoltre ID., L’Italia dei cattolici...cit., pp. 128-131.
(26) Cfr. P. Chenaux, Occidente, cristianità, Europa … cit., pp. 41-53.
(27) Cfr. M. Spezzibottiani, Il magistero europeistico dei papi da Pio XII a
Giovanni Paolo II, “La scuola cattolica”, 113, 1985, p. 147. La costruzione europea non fu in Italia quasi mai oggetto di esame nell’ambito della Conferenza
Episcopale; cfr. V. De Marco, Le Barricate invisibili. La Chiesa in Italia tra politica
e società (1945-1978), Galatina, Congedo editore, 1994, passim. Quali testimonianze dell’interesse, all’epoca, dei cattolici italiani per l’unificazione europea, si
vedano C. Ramacciotti, I cattolici e l’unità europea, Roma, Icas/Edizioni
dell’Ateneo, 1954, M. Ferrari Aggradi, Europa. Tappe e prospettive di unificazione, Roma, Studium, 1958 e I cattolici e il federalismo. Atti del IV Convegno di
studi del Centro d’azione europea, Roma, Edizioni Icas, 1961.
(28) Cfr., per l’Italia, G. Rumi, L’Europa malgrado tutto. Ambienti cattolici e
trattati di Roma in E. Serra (a cura di), Il rilancio dell’Europa e i Trattati di Roma,
Bruxelles, Milano, Bruylant, Giuffrè, 1989, pp. 605-606 e A. Canavero, Chiesa e
cattolici italiani di fronte all’Europa. Fra cultura e politica in A. Acerbi (a cura di),
La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, Milano,
Vita e pensiero, 2003, pp. 412-414 e 417-419.
(29) Una significativa eccezione è rappresentata dalle riviste dei Gesuiti di
Italia, Francia e Gran Bretagna. Queste, sia pure con toni e sfumature diverse, tra
la nascita della Ceca e quella della Cee, guardarono con interesse e sostanziale
favore alla nascita di istituzioni sovranazionali che avrebbero potuto spianare la
via all’integrazione politica, al superamento degli egoismi nazionalistici e alla
riconquista di un ruolo dell’Europa in un mondo ormai bipolare; Cfr. E. Bressan,
L’Europa dal fallimento della Ced ai trattati di Roma nelle riviste gesuitiche di
Italia, Francia e Inghilterra in Canavero, Durand (a cura di), Il fattore religioso …
cit., pp. 295-309.
148
(30) Cfr. S. Wydmusch, Tra realtà territoriale e idealità europea. Le chiese
protestanti e il processo d’unione europea in Canavero, Durand (a cura di), Il fattore religioso … cit., pp. 159-174.
(31) Cfr. J. Nurser, Le chiese del Regno Unito e il progetto “Europa”, ivi, pp.
188-205.
(32) Almeno fino alla caduta del muro di Berlino i fedeli di confessione cattolica rappresentavano circa il 66% dei cittadini dell’Unione Europea.
(33) Cfr. R. Morozzo Della Rocca, L’ortodossia balcanica e l’Europa in
Canavero, Durand (a cura di), Il fattore religioso … cit., p. 85 e più in generale ID.,
Le Chiese ortodosse. Una storia contemporanea, Roma, Studium, 1997.
(34) Cfr. Morozzo Della Rocca, L’ortodossia balcanica … cit., pp. 81-97. Il
tiepido atteggiamento verso l’Europa delle varie chiese ortodosse e protestanti si
riflettè anche su quello dei loro organismi internazionali, il Consiglio ecumenico
delle chiese (Coe) e la Kek, che, almeno fino al 1989, mantennero verso l’integrazione europea un atteggiamento riservato, dovendo peraltro mediare tra le
posizioni verso la stessa delle Chiese dell’Est e dell’Ovest, senza contare, nel
caso del Coe, la necessità di dover tener conto anche delle posizioni delle chiese del Sud del mondo.
(35) Cfr. R. Remond, Les églises, l’opinion publique et la politique extérieure
(1945-1981) in Opinion publique et politique extérieure, III, 1945-1981, Roma,
École Française de Rome, 1995, p. 291 e H. Hürten, La Germania ponte tra Est
e Ovest in Canavero, Durand (a cura di), Il fattore religioso … cit., pp. 69-79.
(36) Cfr. Spezzibottiani, Il magistero europeistico … cit., pp. 152-154.
(37) Ivi, p. 155.
(38) Cfr. A. Giovagnoli, Paolo VI e l’Europa. Sulle orme di Pio XII e Giovanni
XXIII in Canavero, Durand (a cura di), Il fattore religioso … cit., p. 110; P.
Chenaux, Le Saint-Siège et la communauté européenne (1965-1990) in G.
Barberini (a cura di), La politica internazionale della Santa Sede 1965-1990,
Napoli, Esi, 1992, pp. 59-61 e Y-M. Hilaire, Paul VI et l’Europe in Paul VI et la vie
internationale, Brescia, Istituto Paolo VI, 1992, pp. 66-75.
(39) Spezzibottiani, Il magistero europeistico … cit., pp. 160-161.
(40) Cfr. C. Meneguzzi Rostagni, La Santa Sede e le organizzazioni internazionali: un approccio storiografico in Mugnaini, Stato, Chiesa e relazioni internazionali … cit. pp. 265-268.
(41) Cfr. Costituzione Pastorale Gaudium et spes, n. 84.
(42) Cfr. P. Conte (a cura di), I cristiani e l’Europa. Documenti, LDC,
Leumann, 1977, pp. 7-63 e 113-120, Spezzibottiani, Il magistero europeistico …
cit., pp. 144-145 e Caliari, Le Chiese cristiane … cit., pp. 47-49.
(43) Per un esempio dell’europeismo dei cattolici italiani alla fine degli anni
Settanta si veda B. De Marchi (a cura di), Il rischio Europa, Milano, Vita e pensiero, 1979.
(44) Cfr. Chenaux, Le Saint-Siège et la communauté européenne (19651990) … cit., pp. 62-63.
(45) Cfr. “Il Regno” 2, 1992, 1 e ivi, 1, 1992, 4
(46) Roma, Ave, 1992; cfr. inoltre L’impegno per l’unità europea.
Dichiarazione del Consiglio permanente della CEI, Milano, Edizioni Paoline, 1989.
(47) Cfr. V. Poggi, La nuova Europa vista da Oriente in Prodi e altri, L’Europa
crocevia … cit., pp. 23-33
(48) Cfr. Caliari, Le Chiese Cristiane … cit., pp. 50-53.
(49) Cfr. J. Fisher, Le Chiese e l’Europa di fronte al terzo millennio. Da Basilea
a Graz, i progressi dell’ecumenismo in Europa in Canavero, Durand, Il fattore religioso … cit., pp. 177-188.
(50) Numerosi e positivi furono i riferimenti all’unità europea alla XII
Assemblea della Kek, svoltasi a Trondheim (Norvegia) nel giugno-luglio 2003; cfr.
F. Strazzari, Una testimonianza comune, “Il Regno”, XLVIII, 2003, 14, pp. 443446.
(51) Cfr. L. Prezzi, La macchina e il sogno, “Il regno”, XLIV, 1999, 20, pp.
657-660.
(52) Testo in “Il Regno”, XLVIII, 2003, 15, pp. 457-482, in particolare pp.
478-481; cfr. inoltre L. Prezzi, Cristianesimo e identità europea, ivi, XLVIII, 2003,
14, pp. 434-435.
(53) Si veda, ad esempio, Servizio nazionale per il progetto culturale della
149
Conferenza episcopale italiana, L’Europa sfida e problema per i cattolici, II forum
del Progetto culturale (Roma, 4-5 dicembre 1998), Bologna, Edb, 2000. Dei 55
intervenuti nel dibattito quasi nessuno ha posto specificamente l’accento sull’esigenza per i cattolici di favorire lo sviluppo del processo di integrazione per
rafforzare la pace in Europa e nel mondo.
(54) Cfr. G. Mocellin D. Sala, Proposte alla Convenzione, “Il Regno”, XLVII,
2002, 18, pp. 591-593. Cfr. inoltre, per le prese di posizione dell’episcopato della
Slovacchia, Vescovi Slovacchi, L’integrazione europea, ivi, XLVIII, 2003, 7, pp.
236-247, dell’episcopato della Polonia, ivi, XLVII, 2002, 11, p. 374, e della
Conferenza interortodossa europea, ivi, XLVIII, 2003, 12, p. 416. Particolarmente
importanti per l’approfondimento delle tematiche europeistiche i 5 convegni di
studio organizzati a Camaldoli dalla rivista “Il Regno” tra il 1998 e il 2002; cfr. gli
atti in G. Brunelli (a cura di), Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Italia
e in Europa, Bologna, EDB, 2003.
(55) Testo in “Il Regno”, XLVIII, 2003, 17, pp. 567-576.
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Pubblicato a cura di:
Fondazione Cassamarca
Piazza S. Leonardo, 1 - 31100 Treviso
Stampato nel mese di maggio 2004 presso Europrint (Tv)
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