SOCIETA’ ITALIANA DI PSICOTERAPIA MEDICA SEZIONE SPECIALE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI PSICHIATRIA a cura del Consiglio Direttivo Newsletter Sipm Numero 15 Giugno 2016 Editoriale di Secondo Fassino con la partecipazione di Maria Zuccolin e di Corine Panepinto Di che cosa, di chi ci stiamo occupando noi medici psicoterapeuti ? In questo numero 1. Editoriale 2. Toward a new definition of mental health 3. How Is Our Self Altered in Psychiatric Disorders? A Neurophenomenal Approach to Psychopathological Symptoms 4. The nature of psychiatric disorders 5. The need for a conceptual framework in psychiatry acknowledging complexity while avoiding defeatism 6. Treatment engagement of individuals experiencing mental illness: review and update 7. Should we listen and talk more to our patients? 8. Psicoterapia dinamica culturale Nella precedente News Letter Sipm 13/14 discutevamo su cosa sia essenziale per il processo di cambiamento in psicoterapia , confrontando studi clinici, ricerche sui meccanismi profondi , neurobiologici persino, di empatia e compassione, valutazioni del ruolo della personalità del terapeuta, e implicanze sui sistemi di apprendimento della psicoterapia psicodinamica, persino sul modo psicodinamico di prescrivere i farmaci…. Di nuovo, alcuni contributi emergenti della ricerca e della riflessione clinica ci interrogano pressantemente: che cosa deve cambiare, chi deve cambiare…di che cosa , di chi ci stiamo occupando noi medici psicoterapeuti, psichiatri ? M. Maj già nel 2010 in World Psychiatry (WP) aveva proposto un forum sull’identità attuale dello psichiatra, nel dubbio che sia una specie a rischio di estinzione …Ancora riecheggiano gli allarmi di M.Angell (2012) editor in chief de New England Journal of Medicine, circa l’epidemia di malattie mentali e le illusioni della psichiatria. Per Bracken et al. 2012 in un editoriale del The British Journal of Psychiatry (BJP) una psichiatria post-tecnologica non abbandona gli strumenti della scienza empirica né rifiuta le tecniche mediche o psicoterapeutiche, ma deve cominciare a considerare prioritari gli aspetti etici ed ermeneutici del nostro lavoro, sottolineando in tal modo l’importanza di prendere in esame i valori, le relazioni e le basi etiche e politiche del prendersi cura. Un tale cambiamento avrà grosse implicazioni per le nostre priorità di ricerca, le abilità che insegniamo ai nostri allievi, le sorti dei servizi che cerchiamo di portare avanti e il ruolo che giochiamo nel confrontarci coi rischi dei nostri pazienti. L’anno successivo, un altro editoriale del WP 2013 Adherence to psychiatric treatments and the public image of psychiatry introduce un forum sulle cause e rimedi di questa emergenza : la non-aderenza – un principale aspetto della resistenza - è il maggior problema di salute pubblica nonostante i notevoli progressi degli studi sull’efficacia dei trattamenti. * Un’altra, la presente serie di studi in questa 15° NL concerne su di cosa e di chi come psicoterapeuti stiamo parlando… la natura della sofferenza psichica e delle persone con sofferenza psichica…. 1) Sta emergendo una nuova definizione di salute mentale ? S. Galderisi et al. (WP2015) propongono di superare prospettive basate su norme ideali o su tradizioni teoretiche edoniche o eudaimoniche a favore di un approccio inclusivo, il più possibile libero da concezioni restrittive e legate alla cultura e più vicino possibile all’esperienza umana di vita, che è a volte felice, altre volte triste o spaventosa; talvolta soddisfacente e altre volte impegnativa o insoddisfacente. La salute mentale appare allora come uno stato dinamico di equilibrio interno che permette agli individui di usare le loro capacità in armonia con i valori universali della società, condzione espressa e al contempo basata su capacità di riconoscere, esprimere e modulare le proprie emozioni, così come di empatizzare con gli altri, la flessibilità e la capacità di gestire gli eventi di vita avversi,… La definizione proposta appare compatibile con la prospettiva per cui la guarigione dopo una malattia è un processo volto a raggiungere un’esistenza soddisfacente e apprezzabile fondata sulle funzioni risparmiate dalla malattia, nonostante altre funzioni siano rimaste compromesse. 2) Di che natura sono i disturbi psichiatrici ? (S. Kendler W P 2016) E’ la domanda fondamentale per la psichiatria. L’autore critica tre rilevanti teorie: realismo, pragmatismo e costruttivismo. Il realismo “chimico”, e “biologico sostiene che il contenuto della scienza è reale e indipendente NEWSLETTER Il pragmatismo si approccia in modo ragionevole ai disturbi psichici cercando categorie che si adattino bene all’esistente. Ma non rivendica alcuna realtà per tali disturbi. Tale approccio è problematico in quanto abbiamo il compito di prendere posizione di fronte alla nostra professione e ai nostri pazienti in un confronto con altre discipline mediche che non hanno alcun dubbio sull’esistenza delle malattie da loro curate. Il costruttivismo è stato spesso associato agli attivisti dell’antipsichiatria, ma dobbiamo ammettere che le forze sociali giocano un ruolo nelle nostre diagnosi, così come in molte altre scienze. Tuttavia sono rari i disturbi psichiatrici che sono solo vere costruzioni sociali. L’ autore porta argomenti sostanziali contro una teoria realista dei disturbi psichiatrici. Dal momento che molte diagnosi psichiatriche sono state proposte negli anni e poi sono decadute e sono state abbandonate, come possiamo sostenere che la nosologia attuale sia quella giusta? Occorre argomentare a favore dell’esistenza di più ampi costrutti di malattie mentali rispetto alle categorie attuali, che rimangono degli esperimenti e prendere in considerazione una teoria della coerenza sulla verità secondo la quale i disturbi diventano maggiormente veri quando si adattano ad altre nozioni che abbiamo sul mondo. Nel nostro progetto, secondo l’autore, tuttora in fieri, di studiare e giustificare la natura dei disturbi psichiatrici, dovremmo essere in gran parte pragmatici, ma non perdere di vista, nonostante le difficoltà che ne conseguono, la realtà della malattia psichiatrica. 3) E’ necessario un quadro concettuale in psichiatria che riconosca la complessità e che, allo stesso tempo, metta al riparo dal disfattismo ! E’ quanto auspica M.Maj su WP 2016. I disturbi mentali sono delle astrazioni arbitrarie? E’ da considerare il concetto dei “modelli” di patologie psichiatriche, che consideri la complessità dell’eziopatogenesi delle malattie mentali : interazione di elementi biologici, psicologici, interpersonali e socioculturali. Gli attuali sistemi diagnostici in psichiatria (DSM / ICD) sono scarsamente adoperati nella pratica clinica, più impiegati per le esigenze amministrative. E’ possibile che l’identità psicopatologica dei disturbi mentali si manifesti ad un piano superiore rispetto a quello dei circuiti cerebrali. I meccanismi neurobiologici entrano in gioco probabilmente nella maggioranza o in tutti i disturbi mentali, ma l’identità psicopatologica di tali affezioni potrebbe manifestarsi ad un livello ancora superiore rispetto a quello dei circuiti cerebrali, per cui diviene di cruciale rilevanza la spiegazione dei processi di ordine-superiore che intervengono (per esempio di tipo psicologico, culturale). Da qui la necessità di mantenere aperto un dialogo tra le neuroscienze e altre discipline (antropologiche, psicologiche, sociali) quando indaghiamo la patogenesi di quelli che dovremmo probabilmente abituarci a concepire, come Kraepelin nel suo ultimo periodo li definirebbe, quali “modelli di disturbi mentali”. 4) Le ricerche neurobiologiche possono dire qualcosa sul modo in cui è alterato il nostro Sé nelle patologie psichiatriche? G. Northoff su Psychopathology 2014 propone un approccio neurofenomeno- logico ai sintomi psicopatologici. Il Sé è una dimensione centrale nella nostra esperienza ed è stato a lungo considerato fondamentale per ogni tipologia di coscienza in ambito filosofico. Recenti evidenze delle neuroscienze dimostrano come un particolare set di regioni cerebrali, in particolare le regioni corticali mesiali, si associno al processamento e all'elaborazione di stimoli specificatamente correlati al Sé rispetto a quelli non correlati al Sé. Vi sarebbe una stretta correlazione tra attività collegate al Sé e elevati livelli di attività del Resting State nelle regioni mesiali anteriori. Interessante notare come recenti evidenze nella depressione e nella schizofrenia, mostrino alterazioni dell'attività di resting state proprio nelle strutture corticali mesiali. L’autore suggerisce un approccio fenomenologico che colleghi direttamente aspetti neuronali e neurofenomenologici (senza mettere in mezzo funzioni sensorimotorie o cognitive) ai sintomi psicopatologici del sé nella depressione e nella schizofrenia. 5) Questo dibattito potrebbe sembrare astratto e poco pertinente alle attuali difficoltà che gli operatori riscontrano nella clinica… Nel successivo recente quinto articolo (ri)emerge l’allarme sulla difficoltà del cambiamento di chi ha sofferenza psicopatologica e sulla l’adesione dei pazienti ai trattamenti. L.B. Dixon, et al. propongono un aggiornato studio sul problema del coinvolgimento nel trattamento di individui affetti da disturbi mentali, appena pubblicato su WP 2016. I soggetti con gravi disturbi mentali, come i giovani adulti al primo episodio di psicosi, i soggetti in compresenza di disturbi psicotici e abuso di sostanze e i senzatetto, difficilmente partecipano attivamente a NEWSLETTER cultura del “contesto psicoterapico relazionale” come fondamento e strumento 5) La psicoterapia oggi sta raccogliendo crescenti evidenze di efficienza sul piano clinico, le neuroscienze portano dati probanti sul processo, gli studi economici confermano la sua validità dal punto di vista dei costi/risultati: perché Freud E’ questa la domanda che Northoff (2012) argomenta nell’ultimo articolo di questa NL Psychoanalysis and the brain–why did Freud abandon neuroscience? a proposito del rapporto tra psicoanalisi e cervello. Freud nacque come neuroscienziato ma presto dopo “il progetto di una psicologia scientifica” 1895 abbandonò la neuroscienza. ragione principale di questo una terapia nel in corso, con la conseguenza di alti La tassi di dropout, ricaduta e rifiuto potrebbe essere il fatto che l’approccio al cervello nel contesto temporale in riospedalizzazione. Tra i fattori legati al coinvolgimento ci sono l’alleanza cui Freud ha operato, non lo trovava d’accordo. Freud era interessato ad indagare terapeutica, l’accessibilità all’assistenza e aiil processi desiderio del paziente che la le predisposizioni neurali psicologiche rispetto psicodinamici. terapia risponda unicamente ai suoi obiettivi. Gli autori riscontrano Ciò nonostante, egli non si focalizzava sulle funzioni psicologiche effettive che in se l'assistenza finalizzata al recupero, che ilha tra prioritario le priorità l’autonomia, stesse, funzioni che invece rappresentano focus della neuroscienzalaai suoi tempi e della neuroscienza cognitiva giorno d’oggi. responsabilizzazione e il rispetto della alpersona che riceve le cure, è un Northoff ritiene Freud sarebbeper statoricavarne probabilmente più interessato allo stato obiettivo utile che a cui orientarsi strumenti e tecniche chedi attività a la riposo del cervello (resting state) e alla costituzione della sualastruttura migliorino partecipazione attiva al trattamento. Nello specifico, cura spazio-temporale. L’attivitàche a riposo rappresentare incentrata sulla persona, includedel un cervello percorsopotrebbe di decisione condivisala predisposizione neurale rispetto a quello che Freud descrisse come “struttura terapeuta-paziente, è un approccio che si concentra sul singolo individuo, psicologica”. Freud, come l’attuale psicoanalisi, si concentrano maggiormente suisulle suoi personali obiettivi e sulle circostanze sua personale esistenza. predisposizioni neurali, condizioni necessarie della ma non sufficienti, piuttosto che sui Lacorrelati cura incentrata persona nei modelli terapia per la salute imentale neurali, sulla condizioni sufficienti per dideterminare, invece, processi presenta risultati promettenti perdi quanto la di partecipazione psicodinamici, come i meccanismi difesa. Suiriguarda meccanismi difesa Northoff eet al. del 2007 un articolo riportato nella NLconsiderano SIPM 3,2009 persino How doesstrategie our brain l’adesione ai intrattamenti. Gli autori constitute defense mechanisms? First-personil neuroscience and come psychoanalysis emergenti che potrebbero migliorare coinvolgimento l’uso discuteva il rapporto neuroscience in prima e psicoanalisi: dell’elettronica e di tra internet, l’assistenza trapersona pari (peer provider)l’interazione etc.etc. emozionale tra paziente e terapeuta è crucialegli nell’indurre negli ma in particolare sembrano da cogliere inviti ai modificazioni percorsi della schemi dei meccanismi di difesa, pertanto, lo studio dei meccanismi neuronali valutazione e della inclusione culturale del paziente (es. ricorso al Cultural cerebrali di entrambi che ne sono alla base, potrebbe essere un punto di futuro Formulation interesse . Interview) al fine di fornire un’assistenza incentrata sulla persona competente sotto ilaprofilo culturale. C) In fine viene presentato cura del Dr. Andrea Ferrero , Presidente della Sez Dixon e coll. riferiscono una serie di atteggiamenti e modi di fare sono Piemonte della SIPM un documento concernente l' appropriatezza delleche indicazioni alla psicoterapia annunciato Consiglio Direttivo della SIPM tenutosi :a caratteristici, propri del fareall'ultimo psicoterapia, dell’ essere psicoterapeuti Milanotimidamente nel corso dell'ultimo Congresso SIP il termine, il concetto, psicoterapia troppo in tutto l’articolo compare una sola volta ! Allora risuonano nuovamente e con fragore i commenti di allarmato stupore di Holmes in BJP 2012 e 2013 quando rispondendo all’articolo di Braken e coll. BJP 2012 sulla necessità di un nuovo paradigma in psichiatria (vedi sopra) afferma che Braken e coll. sono forti nella diagnosi, ma deboli nella terapia in quanto non vedono che c’è già un nuovo paradigma, ed è quello della psichiatria psicodinamica. A ben guardare la psicopatologia di sviluppo, attuale avanguardia basata sulla teoria sull’attaccamento, i dati della neuroimaging e dall’epigenetica avvalorano il modello psicodinamico. Ne sono ben evidenti i verdi germogli della psichiatria psicodinamica appunto centrata sulla relazione (psico)terapeutica di per sé psicodinamica ! Recenti evidenze (Chisolm 2011), (infatti e tuttavia !) confermano che la pratica della psicoterapia da parte degli psichiatri è grandemente ridotta, circa del 35 % negli ultimi 10 anni. L’aumentata prescrizione di psicofarmaci spiega solo in parte il fenomeno. Nulla è più difficile da vedere di quello che abbiamo sotto naso, già osservava Goethe! 6) Con altrettanto, retorico, stupore Aber e Lambert , WP 2013, nel successivo articolo , il n.6, si chiedono :” Dovremmo forse ascoltare e parlare di più ai nostri pazienti?” Tra il 20 e il 40% dei pazienti psichiatrici abbandonano i servizi di cura entro 12 mesi dalla presa in carico Più del 40% dei pazienti interromperà le terapie immediatamente dopo le dimissioni da un ricovero in ambiente psichiatrico. Contrariamente alle aspettative, l’introduzione degli antipsicotici di seconda generazione non ha generato un miglioramento della compliance. L’aumento dei contatti del paziente con il curante, anche se per ragioni “solamente” cliniche (esami ematochimici, somministrazione di terapia iniettiva long acting) sembra migliorare la compliance alle cure E’ necessario utilizzare paradigmi di intervento integrati per ridurre i tassi di drop out dei pazienti dai servizi di cura e migliorare l’aderenza alle terapie. Se confrontati con i trattamenti standard, è stato dimostrato che la gran parte di questi ultimi schemi di trattamento permette di ridurre i tassi di drop-out dei pazienti dai servizi di cura e di migliorare l’aderenza alle terapie, raggiungendo migliori risultati da un punto di vista multidimensionale ed abbattendo i costi sanitari. 7) Nell’ ultimo, articolo, di questa serie, appare puntuale, necessaria la proposta di Rovera e coll. di una Psicoterapia dinamica culturale (2014). Nel contesto di un intervento culturale è ora importante sottolineare le differenze che si hanno quando le culture (tra terapeuta e paziente) sono molto diverse (transculturalismo), quando sono più affini (interculturalismo) o simili (intraculturalismo). NEWSLETTER In una Psicoterapia Dinamica Culturale in senso basale, debbono essere rilevati gli aspetti sull’interindividualità, sul coinvolgimento empatico, sulla tattica relazionale (comunicazione emica particolare), sulla semantica esistenziale (comunicazione etica generale). Il “valore terapeutico”, anche a livello di formazione, della psicoterapia deriverebbe sia dall’applicazione corretta di questi codici che dovrebbero veicolare sia il come fare (procedure della techne), sia il fare come (processi del Sé creativo) (Rovera, 1988). Ciò dovrebbe avvenire all’interno di una costante e rispettosa valutazione clinica del disagio psichico, che tenga conto della cultura , anche in senso antropologico, del singolo individuo e ne comprenda le peculiarità. La Psicoterapia Dinamica Culturale potrebbe essere così sintetizzata: curare con le parole, integrare con il nuovo, dimostrare con le neuroscienze, ma soprattutto comprendere l’interazione culturale . *** La capacità di lavorare con livelli molteplici di conoscenza e con diversi sistemi di significato sta al cuore del nostro lavoro psicoterapeutico. Comprendere il contributo unico della psicoterapia all’assistenza sanitaria può solo aumentare l’importanza della nostra professione per i restanti campi della medicina, oltre che per la pratica psichiatrica. Tutte le forme di sofferenza comprendono livelli di storia personale immersi in un fulcro di relazioni significative, a loro volta immerse in complessi sistemi culturali. Molti clinici (cfr.Kleinman & van der Geest 2009) hanno giustamente criticato il modo con cui la medicina è giunta a considerare l’“assistenza” in termini puramente tecnici. Nel mentre proprio le tecniche sofisticate del brain imaging rendono evidente l’invisibile , implicito, ma potente contagio emotivo medico-paziente, in qualunque tipo di relazione terapeutica, al di sotto della consapevolezza: contagio quindi denso di effetti biopsicologici curativi o invece iatrogenici. Allo stesso modo altri (cfr. Heath 2011) hanno mostrato l’importanza delle relazioni e della comprensione narrativa in medicina. La psicoterapia medica, dei medici, ha il potenziale di offrirsi come guida in questo campo, non per rinchiudersi in un’identità biomedica ancora più marcata e fuorviante , ma per mettersi a disposizione delle professioni contigue degli medici di famiglia, generalisti geriatri, psichiatri, psicologi e degli altri operatori sanitari che riconosceranno il valore determinante della relazione terapeutica. La psichiatria non è neurologia, non è una medicina del cervello: necessita della dimensione psicoterapeutica per il coinvolgimento ottimale del paziente indispensabile per diventare efficace.. Sebbene i problemi della salute mentale abbiano di per sè una dimensione biologica, essi vanno oltre l’ambito del cervello e coinvolgono dimensioni sociali, culturali e psicologiche. Queste non si possono sempre comprendere attraverso l’epistemologia biomedica. La vita mentale degli esseri umani ha una natura discorsiva, narrativa. Non solo quindi dobbiamo aggiungere conoscenze delle scienze umane e sociali nel curriculum dei professionisti della salute che formiamo, ma anche sviluppare una sensibilità differente verso gli aspetti psicologico-relazionali della salute complessiva dell’individuo, non raggiungibile senza la salute mentale (Prince, Maj et al. 2007). Ciò significa per la nostra professione affrontare la sfida, impegnativa ed entusiasmante, di riconoscere la relazione come ciò che funziona di più. Avremo sempre bisogno di utilizzare le nostre conoscenze sul cervello e sul corpo per individuare le cause organiche dei disturbi mentali, così come di conoscere gli psicofarmaci per dare sollievo a certe forme di disagio. Tuttavia la buona pratica psichiatrica comprende un confronto attivo con la complessa natura dei problemi della salute mentale, un salutare scetticismo per il riduzionismo biologico, una tolleranza verso la natura ingarbugliata del mondo delle relazioni e dei significati, e una capacità di negoziare tali questioni in maniera tale da dare maggiore empowerment al movimento degli utenti dei servizi sanitari e di quelli psichiatrici e a chi si prende cura di loro (Brakchen et al 2013). NEWSLETTER *** E’ quindi evidente ed urgente il contributo della psicoterapia medica per una riaffermazione clinica della relazione curativa nella psichiatria e nella medicina contemporanea. *** La Dimensione psicoterapeutica in Sanità: La relazione col paziente strumento base di ogni cura. E’ questo l’obiettivo, il tema centrale del 43° Congresso SIPM in programma all’Università di Chieti dal 9 al 12 giugno 2016 (programma e abstract book su www.sipm.it) . In continuità con le tematiche affrontate nei precedenti Congressi, si intende focalizzare l’attenzione su ricerche e prospettive inerenti il lavoro psicoterapeutico in medicina, con alcune sottolineature : la rilevanza della formazione psicoterapica dell’operatore in sanità, l’importanza della dimensione psicoterapeutica in medicina, la necessità di una formazione degli psicologi alla dimensione medica in psicoterapia. Viene ripreso preliminarmente in modo critico il modello Biopsicosociale con implicazioni, limiti e nuove possibilità di ricerca, nell’ottica della complessità del rapporto tra medico ( e più in generale “operatore sanitario”) e paziente. Attenzione peculiare è riservata alla tematica del trauma, intesa in modo allargato, sia rispetto ai problemi specificatamente psichiatrici nel bambino e nell’adulto, sia rispetto alle sempre più complesse situazioni sanitarie derivanti dalla medicina attuale. Vengono proposte riflessioni critiche sulla necessità di competenze psicoterapeutiche in vari ambiti di interventi , in particolare nella prescrizione dei farmaci non solo rispetto alla adesione ai trattamenti, nella convinzione che mantenere la competenza alla psicoterapia, soprattutto ma non solo nello psichiatra, è condizione essenziale per un intervento efficace. Nel discorso sulla formazione è poi necessario includere tutte le figure professionali sanitarie (in primis infermieri, educatori e terapisti della riabilitazione psichiatrica) che manifestano frequentemente l’esigenza di imparare nuove tecniche e di apprendere un’attitudine psicoterapeutica. Una particolare attenzione viene infine riservata allo stato della riorganizzazione delle Scuole di Specializzazione pubbliche e private. Tale tema può rivelarsi essenziale non solo per il miglioramento di ogni intervento terapeutico, ma anche per lo sviluppo in senso costruttivo del dibattito tra psicologia e medicina e tra psicologi, medici e psichiatri. *** Risuonano profetici i moniti di Engel G.L. 1977 “Niente cambierà fino a quando coloro che controllano le risorse avranno la saggezza di avventurarsi fuori dai sentieri battuti di esclusivo affidamento sulla biomedicina come l'unico approccio alle cure sanitarie “ e quelli di Rovera G.G. 1984“..il concetto di approccio psicosomatico dovrebbe identificarsi come una messa in cura globale del paziente …il che significa porre al centro dell’intervento medico non la malattia ma l’individuo sofferente, quale nodo significativo lungo i cui collegamenti possono essere identificate e privilegiate le varie dimensioni clinico-biologiche, psicologiche e sociali” Si rende pertanto urgente una formazione maggiormente psicologica in campo sanitario. Gli interventi psicologici nella pratica medica sono sempre più necessari tanto che U. Schnyder Presidente della International Federation for Psychotherapy nella sua relazione al 20° World Congress on Psychosomatic Medicine–Turin già nel 2009 interrogava : al fine di comprendere i pazienti e alleviarne le sofferenze, fenomeno per eccellenza bio-psico-sociale, tutti i medici sono, o devono diventare, psicoterapeuti? L’esperienza del medico – il saper fare – e l’abilità relazionale – il saper essere – rappresentano i più importanti aspetti etici della persona, della personalità del medico cui è richiesta questa nuova prassi più che mai sostenuta dalle nuove acquisizioni scientifiche. NEWSLETTER In rilievo: congressi e seminari Chieti, 9-10-11-12 giugno 2016 43° CONGRESSO SOCIETÀ ITALIANA DI PSICOTERAPIA MEDICA La Dimensione psicoterapeutica in Sanità: la relazione col paziente strumento base di ogni cura Campus Universitario, Via dei Vestini, 31 Chieti Scalo Presidenti del Congresso: Secondo Fassino e Mario Fulcheri MAIN TOPICS -Sviluppi del modello Biopsicosociale verso la complessità. Intersoggettività e neurobiologia - Empatia, psicopatologia e personalità - Il trauma in medicina: psicopatologia e psicoterapia nell’infanzia e nell’adultità. - Fattori facilitanti e fattori disturbanti in psicoterapia. - Fattori favorenti e disturbanti la relazione terapeutica. - La personalità del terapeuta come fattore di esito. - La dimensione psicoterapeutica e del counseling in Sanità, Psichiatria e Clinica Psicologica. Rilevanza della formazione psicoterapica dell’operatore in Sanità. - La formazione al rapporto medico/paziente in medicina. - Possibili contributi della psicoterapia medica alla in/formazione del medico di base. - Dalla Medicina Generale alla Medicina Specialistica: la indispensabile centralità della relazione terapeutica. - Formazione degli psicologi alla dimensione medica in psicoterapia. - Psicoterapia e Farmacologia: Prescrivere i farmaci con competenza psicoterapica. - Stato della riorganizzazione delle Scuole di Specializzazione pubbliche e private. NEWSLETTER PROGRAMMA: Giovedì 9 Giugno AMBITI APPLICATIVI DELLA DIMENSIONE PSICOTERAPEUTICA IN SANITA’ Gruppi didattico-formativo-professionalizzanti (Mini-Master) Ore 13:00 – 14:00 Iscrizioni e Registrazione dei Partecipanti Ore 14:00 – 14:45 INTRODUZIONE AI LAVORI IN SESSIONE PLENARIA (Aula Magna) S. Fassino, M. Fulcheri, M. di Giannantonio, S. Miscia, R. Borgia, Rappresentanti delle principali Associazioni dei Malati, Responsabile del Servizio Aziendale Professioni Sanitarie, Segretariato Italiano Studenti in Medicina (SISM – Chieti) Ore 14:45 – 18:45 Gruppi didattico-formativo-professionalizzanti (Mini Master) 1. Obesità, Diabete e Sindromi Metaboliche: Coordinatore: C. Conti Intervengono: V. Costantini, L. Giampietro - L. Di Caprio, M.T. Guagnano, M. Minna, R. Seller, V. Tozzi, E. Vitacolonna - G. Ianiro. 2. Neurologia-Neuropsichiatria Infantile-ORL: Coordinatore: M. Onofrj Intervengono: L. Bonanni, D. Carrozzino, R. Filippini, G. Neri, C. Montemitro, A. Thomas, A. Verrotti.. 3. Dermatologia-Reumatologia-Gastroenterologia: Coordinatore: P. Amerio, A. Frullini Intervengono: G. Baroni, G. Carbone, M. Neri – K. Efthymakis, C. Neagu Ciuluvica, R. Paganelli, M. Petrucci, E. Sabatini. 4. Dipendenze e Psicoinfettivologia: Coordinatore: M. C. Verrocchio Intervengono: M. Alessandrini, P. Fasciani, L. Giacci, A. Jaretti Sodano, M. Marcucci, G. Parruti, F. Vadini, F. Valente, F. Vellante. 5. Ginecologia-Ostetricia e Chirurgia demolitiva: Coordinatore: A. Babore Intervengono: A. Ambrosini, C. Candelori, C. Celentano, D. Di Ciano, C. Di Matteo, M. Di Nardo, M. Forcucci, F. Frondaroli, M. Liberati, D. Romagnoli. 6. Oncologia-Cure palliative e Dolore: Coordinatore: C. Natoli Intervengono: A. Costantini, D. Di Giacomo, A. Di Silvestre, M. Diodati, V. Forlano, R. Maiella, K. Marilungo, P. Pavone, G. Salladini, L. Sirri, H. Troiano. 7. Psico-traumatologia, emergenze, trapianti e lutto: Coordinatore: M. Fulcheri Intervengono: A. Attianese, G. Bontempo, L. Lippa, A. Paris, D. Scarponi, E. Tossani, M. Ventura. 8. Malattie: genetiche ereditarie, rare (m. Pompe); asma e BPCO; endocrinologia e sport. Coordinatore: P. Ballerini Intervengono: S. Astori, M. Costantini, G. Gramaccioni, , G. Napolitano, D. Maiella, M. Romano, L. Stuppia. Ore 18:45 – 19:30 CONCLUSIONE LAVORI IN SESSIONE PLENARIA (Aula Magna) Ore 19:30 – 20:15 “BENVENUTO TRADIZIONALE ABRUZZESE” a cura di Francesco Stoppa. Venerdì 10 Giugno Mattina NEWSLETTER Ore 08:30 – 12:00 Iscrizioni e Registrazione dei Partecipanti Ore 09:00 – 12:00 Laboratori 1. G. Ballauri: Il Cinema come Formazione. 2. I. Senatore, S. Caracciolo: Come è mutata nel cinema l'immagine della psicoterapia. 3. A.M. Ferro, F. Amianto, M. Zuccolin, A. Rambaudi: Interventi psicoterapeutici nei Disturbi del Comportamento Alimentare. 4. A. Ferrero, S. Fassina, B. Simonelli: La ricerca in psicoterapia: specificità, progetti e metodiche. 5. S. Bellino, M. Menchetti: Psicoterapia Interpersonale. 6. S. Costa, G. Rigon: Adolescenti: bisogni psicologici e medici di base. Esperienza con allievi di un liceo. Ore 12:00 Inaugurazione (Aula Magna di Psicologia) Apertura del Congresso e Saluto delle Autorità. Ore 12:15 – 12:45 Intervento Speciale: Fondazione, Sviluppo e Futuro della Società Italiana di Psicoterapia Medica F. Petrella, A. Pazzagli, G.G. Rovera, P. M. Furlan, G. Pierri, S. Fassino Ore 12:45-13:30 Relazione introduttiva dei Presidenti M. Fulcheri: Attuali sviluppi del modello Biopsicosociale verso la complessità. S. Fassino: Neuroscienze e dinamiche profonde della relazione psicoterapeutica. Ore 13.30 Consiglio Direttivo Ore 13:45 Pausa Pranzo Venerdì 10 Giugno Pomeriggio Ore 14:30-16:00 PRIMA SESSIONE PLENARIA: Fattori facilitanti e fattori disturbanti in psicoterapia. Moderatore: C. Loriedo Relatori: A. Merini: Fattori favorenti e disturbanti la relazione terapeutica; A. Ferrero: La personalità del terapeuta come fattore di esito. Discussant: G. Rigon Ore 16:00-17:30 SECONDA SESSIONE PLENARIA: Il trauma in medicina: psicopatologia e psicoterapia (PTSD). Moderatori: G. G. Rovera – C. Mucci Relatori: S. Costa: Interventi a valore psicoterapico in setting ospedalieri in età evolutiva; V. Berlincioni: Interventi psicoterapeutici nel trattamento dei PTSD: rapporto tra migrazione, esperienze traumatiche e condotta delinquenziale. Discussant: G.P. Pierri Ore 17:30-17:45 Pausa Caffè Ore 17:45-19:15 TAVOLA ROTONDA: La Dimensione psicoterapeutica e del Counseling in Sanità Moderatori: S. Amato, L. Janiri Intervengono: F. Consorti, G. Sarchielli, A. Zucconi Discussant: F. Cattafi Ore 19.15 Chiusura della prima giornata dei lavori Ore 19:30 Coro Ateneo (a cura della Prof.ssa Carmen Della Penna) Ore 20.30 Aperi-cena presso Mensa Universitaria Presentazione dei volumi: Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia. A cura di P.M. Furlan. Donzelli Ed., 2016 Medicina e Psicoterapia. A cura di D. La Barbera, G. Lo Verso. Aupes Ed., 2016 Sabato 11 Giugno Mattina Ore 9:00 – 10:45 TERZA SESSIONE PLENARIA: Empatia, psicopatologia e personalità. Moderatori: F. M. Ferro – M. Fornaro Relatori: P. Migone: Personalità del terapeuta e variabili che condizionano la capacità di rispecchiamento; F. Amianto: Attaccamento, empatia e sviluppo del sé: il caso degli eating disorders. NEWSLETTER Discussant: F. Petrella, A. Ferrero Ore 10:45 – 12:15 TAVOLA ROTONDA: Dalla medicina generale alla medicina specialistica: la indispensabile centralità della relazione terapeutica Moderatori: T. Di Iullo, F. Valente Relatori: C. Paladini: Corpo e mente nella terza età; L. Zinni: Dottore non ce la faccio più: la Depressione in medicina generale; L. Stuppia: Il futuro nelle relazioni terapeutiche: la genetica in psicofarmacologia; M. Di Giannantonio, G. Martinotti: Il paziente complicato: psicofarmaci nei trattamenti psicoterapeutici. Discussant: M. Fulcheri, A. Frullini Ore 12:15 – 13.45 TAVOLA ROTONDA: Psicoterapia e Farmacologia: Prescrivere i farmaci con competenza psicoterapica. Moderatori: S. Fassino, M. Di Giannantonio Intervengono: S. Caracciolo, L. Grassi, G. Orlando Discussant: M. Zuccolin Ore 13:45 Pausa Pranzo Sabato 11 Giugno Pomeriggio Ore 14:30-16:00 QUARTA SESSIONE PLENARIA: Rilevanza della formazione psicoterapica dell’operatore in sanità. Moderatori: D. Berardi, M. Ruggeri Relatori: P. M. Furlan: Il rapporto tra cure primarie e psicoterapia; dove sono gli errori?; D. Bolelli, D. Cesaretti: Possibili contributi della psicoterapia medica alla in/formazione del medico di medicina generale. Discussant: A. Merini Ore 16:00-17:30 TAVOLA ROTONDA: Formazione degli psicologi alla dimensione medica in psicoterapia. Moderatori: N. Rossi, R. Tambelli Intervengono: A. Compare, G. Lavenia, G. Lo Verso, A. Zennaro, Discussant: S. Grandi Ore 17.45: Festeggiano 50 anni: L’Università degli Studi G. D’annunzio di Chieti-Pescara, la Società Italiana di Psicoterapia Medica e la Rivista “Psicoterapia e Scienze Umane” Ore 18.30 Assemblea dei Soci e rinnovo delle cariche sociali Ore 20.00 Cena Sociale, con intrattenimento musicale, presso Ristorante “Lo Scoiattolo” – Via Colle dell’Ara, 5 – 66100 Chieti Scalo (CH) Domenica 12 Giugno Mattina Ore 09:00-10:30 COMUNICAZIONI IN SESSIONI PARALLELE Aula A: Moderatori: A. Babore, Stili difensivi nei DNA in trattamento Ballauri G. Abbate Daga G., De psicoterapeutico intensivo Bacco C., Albini E, Brustolin A., Duranti E., Fassino S. Abbate Daga G., De Bacco C., La psicoterapia emotion-focused nel Duranti E., Brustolin A., Marzola E., trattamento dei DNA in regime di Albini E., Fassino S. Day Hospital Baroni G., Mancini V., Montemitro C. Antipsicotici e volume cerebrale : review della letteratura relativa agli studi di MRI strutturale Lorusso M. Così parlò Sigmund Mancini V., Baroni G. L'importanza di un approccio terapeutico integrato nella gestione territoriale e familiare dei paziente psicotici con agiti violenti Montemitro C., Baroni G. Integrazione tra trattamenti farmacologici e interventi psicosociali nella Schizofrenia resistente: quali obiettivi terapeutici? Aula B.: Moderatori: Berlincioni V., C. Conti Ambrosini A. Ciuluvica Neagu C., Amerio P., Fulcheri M. La Depressione post-natale tra struttura di personalità e miti culturali. La soppressione espressiva delle emozioni e la rivalutazione cognitiva come predittori per il valore di BMI nelle malattie croniche NEWSLETTER psicosomatiche Ciuluvica Neagu C., Di Nardo M., Marchetti D., Sorgi K., Fulcheri M. Lanzara R., Bosco G., Caniglia D., Guagnano M.T., Conti C. Pezzini F., Nosari G., Saracino E.L., Berlincioni V. Spalatro A.V., Amianto F., D'Agata F., Caroppo P., Lavagnino L., Abbate Daga G., Bergui M., Mortara P., Derntl B., Fassino S. Aula C: Moderatori: Ferrero A., Frullini A. Ciavarro M., Filograna Pignatelli G., Pacella A., Neri G. Di Silvestre A., La Salandra A., Agostinone C., Cannone S. Mennitto C., Del Sordo E., Conti C. Patierno C., Carrozzino D., Fulcheri M. Zanini C., Berlincioni V. Zizzi F., Martellini M., Dorati G., Gagliardone C., Panero M., Rainis M., Toso A., Abbate Daga G., Amianto F., Delsedime N., Fassino S. Aula D.: Moderatori: Furlan P.M., Rigon G. Bosetto D. Rodope G., Marasco E. Martellini M., Zizzi F., Dorati G., Gagliardone C., Panero M., Rainis M., Toso A., Abbate Daga G., Amianto F., Delsedime N., Fassino S. Mosca A., Giannino D. Podavini F., Broglia D., Gambini F., Berlincioni V. Spano M.C. Tuba F. Aula E: Moderatori: Salone A., Sola T. Buzzichelli, S., Marzola, E., Fassino, S., Abbate Daga, G. Cafagna D., Florini M.C., Puiatti S., Rizzo M., Bosetto D., Bianchi G. Catapane E. Il dismorfismo corporeo e la disregolazione emotiva come predittori del disturbo da bingeeating Obesità, Binge Etaing Disorder e dimensioni della personalità: un'analisi single-case Trauma, migrazione e delinquenza: studio trasversale descrittivo e riflessioni cliniche Network dell'Empatia nei Disturbi del Comportamento Alimentare: due facce della stessa medaglia? Healt Literacy come il dialogo medico-paziente può modificare l’outcome clinico in vestibologia Eventi stressanti e insorgenza di neoplasie: la narrazione dei pazienti Influenza della Personalità Distress sulla percezione della qualità della vita in pazienti con Diabete Mellito La Rilevanza Clinica della Valutazione Clinimetrica in ambito Neurologico Influenza del contesto socioculturale sullo stigma nei confronti della malattia mentale: studio su un campione di pazienti psichiatrici indiani (Kochi, Kerala) e italiani (Pavia) La relazione terapeutica con pazienti “difficili” affetti da DCA ricoverati in reparto di degenza L’ équipe multidisciplinare non eclettica e la sua efficacia nella cura: progetti a confronto La resistenza al trattamento in pazienti con diagnosi di DCA grave ricoverati in reparto di degenza La relazione terapeutica come cura: il caregiver nell’Alzheimer L’ ascolto del paziente migrante in una prospettiva etnopsichiatrica: un caso clinico “Dallo psichiatra ci vanno i matti…” Lo stigma ai giorni nostri. “L’inopinabile Eros” Il ruolo del perfezionismo nella rigidità cognitiva delle pazienti con Anoressia Nervosa. Valutazione psicosessuologica e counseling psicosessuale nell’ ambito della chirurgia urologica: Un progetto di ricerca La Psicoterapia Ipnotica nel contesto ospedaliero per i trattamenti dolorosi NEWSLETTER ed invasivi in età pediatrica Ferrigno R., De Nicola S., Pasquali L., Pace G. Gambini F., Broglia D., Podavini F., Berlincioni V. Lupone A., La Paglia M. Aula F: Moderatori: Verrocchio .MC., Zuccolin M. Frullini A. Frullini A. Frullini A., Amato S. Frullini A., Burroni G. Leone V., Spalatro A.V., Fassino S., Amianto F. Sossella R., Sossella F. Approccio multidisciplinare nel percorso di recupero delle dipendenze: Metodo Chrysalis L'etnopsichiatria come strumento di relazione in contesto penitenziario: un caso clinico La clownterapia e le relazioni di cura Codice deontologico medico 2014 e tempo della comunicazione quale tempo di cura. I disagi relazionali della generazione «né-né» o Neet Educazione terapeutica come strumento del processo di cura I possibili apporti della Psicodermatologia Capacità Genitoriali: nuovi strumenti di valutazione in relazione alla Psicopatologia Alimentare La relazione è sempre più virtuale Ore 10:45-12:45 TAVOLA ROTONDA: Stato della riorganizzazione delle Scuole di Specializzazione pubbliche e private. Intervento preordinato: D. Berardi: Il modello di formazione alla psicoterapia nella Scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università di Bologna. Moderatori: S. Fassino, M. Fulcheri Intervengono: M. Ruggeri, A. Rambaudi, A. Granieri, G. Galliani, R. Latella Discussant: R. Tambelli Ore 12:45 PLENARIA DELLE COMUNICAZIONI E PREMIO ALLA MIGLIORE COMUNICAZIONE Ore 13:00 Chiusura Congresso: S. Fassino, M. Fulcheri Questionari ECM NEWSLETTER Torino, martedì 14 giugno 2016 A cento anni dalla nascita di Michele Torre LEZIONE MAGISTRALE DEL PROF. GIAN GIACOMO ROVERA Professore onorario di Psichiatria all’Università di Torino Aula Magna “Michele Torre” Via Cherasco 11 Torino Pavia, 16 settembre 2016 DARIO DE MARTIS, UNO PSICHIATRA PSICOANALISTA: ATTUALITÀ DI UNA PROSPETTIVA SCIENTIFICA Università degli Studi di Pavia, Corso Strada Nuova 65 – Aula Foscolo PROGRAMMA: 8.30 Saluti del Presidente della Società Italiana Psichiatria (C. Mencacci) e del Presidente della Società Psicoanalitica Italiana (A. Ferro) I SESSIONE Moderatori: S. Vender, P. Politi 9.00 Perché questo incontro? Dario De Martis, un’idea di Psichiatria - F. Barale 9.30 Speranze e delusioni, tra psichiatria e psicoanalisi, nella seconda parte del secolo scorso - A. Pazzagli 10.00 Dalla Psichiatria alla Psicoanalisi - T. Galli 10.30 Cambiamento dello sguardo psichiatrico, trasformazioni istituzionali e Psicoanalisi - M. Rossi Monti 11.00: Pausa caffè II SESSIONE Moderatori: E. Caverzasi, V. Berlincioni NEWSLETTER 11.15 Per una pratica relazionale e sociale della clinica - F. Petrella 11.45 La Psichiatria di Comunità in Italia: quale futuro? - L. Ferrannini 12.15 Il “campo istituzionale” vent’anni dopo - A. Correale 12.45 Conclusioni - F. Petrella A conclusione del lavori, presso la Cascina Cravino, in Via Bassi, 21 – Pavia, verrà intitolato a Dario De Martis l’Istituto Universitario da lui fondato e diretto, dove sarà offerto un rinfresco. Comitato promotore: F. Petrella (Presidente), F. Barale, P. Ambrosi, M. Bezoari, E. Caverzasi, S. Ucelli di Nemi, S. Vender, G. Weiss (in memoriam) Comitato organizzatore: N. Brondino, L. Fusar-Poli, A. Cerniglia NEWSLETTER Consiglio direttivo: Presidente: S. Fassino Segretario: V. Berlincioni Tesoriere: M. Zuccolin Probiviri: G. Ballauri L. Burti Consiglieri: D. Berardi D. Bolelli S. Costa A. Giammusso D. La Barbera P.M. Furlan A. Merini R.L. Picci NEWSLETTER Silvana Galderisi, Andreas Heinz, Marianne Kastrup, Julian Beezhold, Norman Sartorious Toward a new definition of mental health World Psychiatry 2015;14 (2):231–233 Traduzione a cura della Dott.ssa Luisa Ottone Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la salute mentale è “uno stato di benessere nel quale l’individuo realizza la proprie capacità, è in grado di gestire i normali fattori di stress della vita, può lavorare in maniera produttiva e fruttuosa ed è in grado di fornire un contributo alla sua comunità” (1). Questa definizione, mentre rappresenta un passo avanti sostanziale nell’allontanamento dal concetto di salute mentale come condizione di assenza di malattia mentale, suscita diverse preoccupazioni e conduce di per sé a potenziali fraintendimenti dal momento che identifica sentimenti positivi e funzionamento positivo come fattori chiave per la salute mentale. Considerando il benessere come un aspetto chiave della salute mentale è infatti difficile riconciliarsi con le molte situazioni di vita difficili, nelle quali una condizione di benessere potrebbe addirittura essere malsana: la maggior parte delle persone considererebbe come mentalmente non sano un individuo che provi uno stato di benessere mentre uccide svariate persone durante un’azione di guerra e giudicherebbe invece sana una persona che si senta disperata dopo essere stata licenziata dal lavoro in un contesto in cui le opportunità di trovare una nuova occupazione siano scarse. Persone in buona salute mentale sono spesso tristi, indisposte, arrabbiate o infelici, e questo per un essere umano fa parte di una vita vissuta in maniera completa. Nonostante questo, la salute mentale è stata spesso concettualizzata come un affetto puramente positivo, contraddistinto da sentimenti di felicità e senso di padronanza sull’ambiente esterno (2-4). I concetti esposti in molti documenti relativi alla salute mentale comprendono entrambi gli aspetti chiave della definizione dell’OMS, ovvero emozioni positive e funzionamento positivo. Keyes (5,6) indentifica tre componenti della salute mentale: benessere emozionale, benessere psicologico e benessere sociale. Il benessere emozionale comprende la felicità, l’interesse per la vita e la soddisfazione; il benessere psicologico comprende l’apprezzare la maggior parte della propria personalità, il saper gestire adeguatamente le responsabilità della vita quotidiana, l’avere buone relazioni con gli altri e l’essere soddisfatti della propria vita; il benessere sociale si riferisce al funzionamento positivo e implica l’avere un contributo da fornire alla società (contribuzione sociale), il sentirsi parte di una comunità (integrazione sociale), il credere che la società stia diventando un posto migliore per tutti (attualizzazione sociale) e che il modo in cui funziona la società abbia un senso (coerenza sociale). Una tale prospettiva di salute mentale tuttavia, influenzata da tradizioni edoniche e eudaimoniche che promuovono rispettivamente la positività delle emozioni e l’eccellenza del funzionamento, rischia di escludere la maggior parte degli adolescenti, molti dei quali sono piuttosto timidi, coloro che lottano contro le ingiustizie percepite e le disuguaglianze o che sono scoraggiati dal farlo dopo anni di sforzi inulti, cosi come migranti e minoranze che sono sottoposte a rifiuto e discriminazione. Il concetto di funzionamento positivo è inoltre traslato da diverse definizioni e teorie relative alla salute mentale come capacità di lavorare produttivamente (1,8) e potrebbe portare all’errata conclusione che un La salute mentale è “uno stato di benessere nel quale l’individuo realizza la proprie capacità, è in grado di gestire i normali fattori di stress della vita, può lavorare in maniera produttiva e fruttuosa ed è in grado di fornire un contributo alla sua comunità” (OMS) NEWSLETTER individuo di un‘età o in una condizione fisica che gli impedisca di lavorare produttivamente non sia per definizione in buona salute mentale. Lavorare produttivamente e in maniera fruttuosa spesso non è possibile per ragioni contestuali (es. per i migranti o per le persone discriminate), che potrebbero impedire alle persone di contribuire alla loro comunità. Jahoda (9) ha suddiviso la salute mentale in tre domini: l’autorealizzazione, nell’ambito della quale gli individui possono esprimere in maniera completa le loro potenzialità, la sensazione di padronanza sull’ambiente e la sensazione di autonomia, ovvero la capacità di identificare, confrontare e risolvere problemi. Murphy (10) ha ipotizzato che queste idee fossero gravide di valori culturali considerati importanti dai nord-americani. Tuttavia anche per un’abitante del Nord America è difficile immaginare, ad esempio, che un soggetto mentalmente sano che si trovi nelle mani di terroristi, sotto la minaccia di essere decapitato, possa provare un sentimento di felicità e padronanza sull’ambiente esterno. La definizione di salute mentale è chiaramente influenzata dalla cultura che la definisce. Tuttavia, come sostenuto anche da Vaillant (1), dovrebbe prevalere il senso comune e dovrebbero essere identificati alcuni elementi che possiedano una rilevanza universale per la salute mentale. Ad esempio, nonostante le differenze culturali nelle abitudini alimentari, il riconoscimento dell’importanza delle vitamine e delle quattro categorie di alimenti di base è universale. Verso una nuova definizione di salute mentale Consapevoli del fatto che le differenze tra i vari paesi in termini di valori, cultura e substrato sociale potrebbero ostacolare il raggiungimento di un accordo generale sul concetto di salute mentale, ci proponiamo di elaborare una definizione complessiva, evitando il più possibile concezioni restrittive e legate alla cultura. Il concetto che la salute mentale non sia semplicemente l’assenza di malattia mentale (1,8) è stato unanimemente accettato, mentre l’equivalenza tra salute mentale e benessere/funzionamento non lo è stato. E’ stata quindi redatta una definizione che lasci spazio ad una varietà di stati emotivi e ad un “funzionamento imperfetto”. La definizione proposta è riportata qui di seguito: “La salute mentale è uno stato dinamico di equilibrio interno che permette agli individui di usare le loro capacità in armonia con i valori universali della società. Le capacità cognitive e sociali di base, la capacità di riconoscere, esprimere e modulare le proprie emozioni, così come di empatizzare con gli altri, la flessibilità e la capacità di gestire gli eventi di vita avversi, il funzionamento nei ruoli sociali e una relazione armoniosa tra corpo e mente rappresentano componenti importanti della salute mentale che contribuiscono, in vari gradi, allo stato di equilibrio interno” L’aggiunta di una nota che spieghi quello che si intende nella definizione con l’espressione “valori universali” è da ritenersi necessaria, alla luce dell’uso fuorviante di questa espressione fatto in alcune circostanze politiche e sociali. I valori a cui ci riferiamo sono: rispetto e cura per la propria e altrui esistenza; riconoscimento della connessione tra gli individui; rispetto per l’ambiente; rispetto per la propria e l’altrui libertà. Il concetto di “stato dinamico di equilibrio interno” è volto ad esprimere il fatto che diverse epoche di vita richiedono cambiamenti nell’equilibrio raggiunto: le crisi adolescenziali, il matrimonio, il diventare genitori o il pensionamento sono buoni esempi di epoche di vita che richiedono una ricerca attiva di un nuovo equilibrio mentale. Questo concetto incorpora e riconosce anche la realtà che persone mentalmente sane possano provare emozioni umane appropriate – incluse ad esempio paura, rabbia, tristezza e dolore – possedendo allo stesso tempo una sufficiente resilienza per ripristinare tempestivamente lo stato dinamico di equilibrio interno. Tutte le componenti proposte nella definizione rappresentano aspetti importanti ma non obbligatori della salute mentale; esse potrebbero infatti contribuire in misura variabile allo stato di equilibrio, così come funzioni pienamente sviluppate potrebbero compensare una compromissione di un altro ambito del funzionamento mentale. Ad La salute mentale non è semplicemente l’assenza di malattia mentale. Salute mentale =benessere/funzionamento? NEWSLETTER esempio una persona molto empatica, molto interessata alla condivisione reciproca, potrebbe compensare un moderato grado di compromissione cognitiva e trovare comunque un equilibrio soddisfacente e riuscire a perseguire i suoi obiettivi di vita. Di seguito saranno fornite le principali motivazioni sottese alla scelta delle componenti incluse nella definizione. Le competenze cognitive e sociali di base sono considerate componenti importanti della salute mentale alla luce del loro impatto su tutti gli aspetti della vita quotidiana (12-15). Le competenze cognitive includono la capacità di prestare attenzione, di ricordare e organizzare le informazioni, di risolvere i problemi e di prendere decisioni; le competenze sociali includono la capacità di usare il proprio repertorio di abilità verbali e non verbali per comunicare e interagire con gli altri. Tutte queste capacità sono interdipendenti e permettono alle persone di funzionare nel loro ambiente. Il riferimento al livello di “base” di queste attività è volto a chiarire che gradi lievi di compromissione sono compatibili con la salute mentale, mentre gradi di compromissione da moderati a gravi, specialmente se non bilanciati da altri aspetti, potrebbero richiedere il supporto di altri membri della società e una serie di incentivi sociali, come opportunità di lavoro protette, benefici economici e programmi di formazione ad hoc. La regolazione emotiva, ovvero la capacità di riconoscere, esprimere e modulare le proprie emozioni, è anch’essa considerata una componente importante della salute mentale (16). Essa è stata proposta come mediatore dell’adattamento allo stress (17,18) e studi clinici e di neuroimmagine hanno riscontrato una correlazione tra regolazione affettiva inappropriata o inefficace e depressione (19-22). Una varietà di opzioni di risposta emotiva modulata, che possono essere impiegate in maniera flessibile, contribuiscono alla salute mentale dell’individuo e l’alessitimia (ovvero l’incapacità di identificare ed esprimere le proprie emozioni) è un fattore di rischio per i disturbi mentali e fisici (23,24). L’empatia, ovvero la capacità di sentire e comprendere quello che gli altri provano senza confusione tra se è gli altri, permette agli individui di comunicare e interagire in maniera efficace e di prevedere azioni, intenzioni e sentimenti altrui (25). L’assenza di empatia non è solo un fattore di rischio per la violenza e una caratteristica del disturbo antisociale di personalità ma compromette anche le interazioni sociali a tutti i livelli. La flessibilità e la capacità di gestire gli eventi avversi sono anch’esse considerate importanti per il mantenimento della salute mentale. La flessibilità si riferisce alla capacità di rivedere lo svolgimento di un’azione di fronte a difficoltà impreviste od ostacoli, di cambiare le proprie idee alla luce di nuove evidenze e di adattarsi ai cambiamenti che le diverse epoche di vita o le circostanze contingenti possono richiedere. Una mancanza di flessibilità potrebbe comportare una grande angoscia per un soggetto che stia affrontando improvvisi e/o importanti cambiamenti di vita ed è un aspetto importante di diversi disturbi psichiatrici, come la personalità ossessiva o il disturbo delirante (26). La capacità di base di funzionare all’interno dei ruoli sociali e di prendere parte a interazioni sociali significative è un aspetto importante della salute mentale e contribuisce in particolare alla resilienza allo stress; l’esclusione sociale e la stigmatizzazione tuttavia compromettono spesso la partecipazione sociale, ogni definizione di salute mentale che alluda a questo aspetto deve perciò evitare di “biasimare la vittima” e deve analizzare attentamente le modalità sociali di stigmatizzazione, discriminazione ed esclusione che compromettono tale partecipazione (27). L’inclusione di una relazione armoniosa tra corpo e mente è basata sulla convinzione che mente, cervello, organismo e ambiente siano profondamente interconnessi e che l’esperienza globale di essere al mondo non possa essere separata dal modo nel quale il proprio corpo si sente nel suo ambiente (28). Disturbi di questa interazione possono risultare in esperienze psicotiche, disturbi alimentari, autolesionismo, disturbo da dismorfismo corporeo o scarsa salute fisica. Conclusioni La guarigione dopo una malattia può essere vista come un processo volto a raggiungere un’esistenza soddisfacente e apprezzabile fondata sulle funzioni risparmiate dalla malattia, nonostante altre funzioni siano rimaste compromesse NEWSLETTER La definizione di salute mentale delineata in questo articolo si propone di superare prospettive basate su norme ideali o su tradizioni teoretiche edoniche o eudaimoniche a favore di un approccio inclusivo, il più possibile libero da concezioni restrittive e legate alla cultura e più vicino possibile all’esperienza umana di vita, che è a volte felice, altre volte triste o disgustosa o spaventosa; talvolta soddisfacente e altre volte impegnativa o insoddisfacente. La definizione proposta è anche compatibile con la prospettiva di un movimento di guarigione, nella quale la guarigione dopo una malattia è vista come un processo volto a raggiungere un’esistenza soddisfacente e apprezzabile fondata sulle funzioni risparmiate dalla malattia, nonostante altre funzioni siano rimaste compromesse (29). Riconoscimenti Questo documento è stato redatto come parte delle attività del Comitato per le Questioni Etiche dell’Associazione Psichiatrica Europea. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. World Health Organization. Promoting mental health: concepts, emerging evidence, practice (Summary Report). Geneva: World Health Organization, 2004. Waterman AS. Two conceptions of happiness: contrasts of personal expressiveness (eudaimonia) and hedonic enjoyment. J Pers Soc Psychol 1993;64:678-91. Diener E, Suh EM, Lucas R et al. Subjective well-being: three decades of progress. Psychol Bull 1999;125:76-302. Lamers SMA, Westerhof GJ, Bohlmeijer ET et al. Evaluating the psychometric properties of the Mental Health Continuum-Short Form (MHC-SF). J Clin Psychol 2011;67:99-110. Keyes CL. Mental health in adolescence: is America's youth flourishing? Am J Orthopsychiatry 2006;76:395-402. Keyes CLM. Mental health as a complete state: how the salutogenic perspective completes the picture. In: Bauer GF, Hmmig O (eds). Bridging occupational, organizational and public health. Dordrecht: Springer, 2014:179-92. Deci EL, Ryan RM. Hedonia, eudaimonia, and well-being: an introduction. J Happiness Stud 2008;9:1-11. U.S. Department of Health and Human Services. Mental health: a report of the Surgeon General. Rockville: U.S. Public Health Service, 1999. Jahoda M. Current concepts of positive mental health. New York: Basic Books, 1958. Murphy HBM. The meaning of symptom check-list scores in mental health surveys: a testing of multiple hypotheses. Soc Sci Med 1978;12:67-75. Vaillant GE. Positive mental health: is there a cross-cultural definition? World Psychiatry 2012;11:93-9. Artero S, Touchon J, Ritchie K. Disability and mild cognitive impairment: a longitudinal population-based study. Int J Geriatr Psychiatry 2001;16:1092-7. Gigi K, Werbeloff N, Goldberg S et al. Borderline intellectual functioning is associated with poor social functioning, increased rates of psychiatric diagnosis and drug use – A cross sectional population based study. Eur Neuropsychopharmacol 2014;24:1793-7. Moritz DJ, Kasl SV, Berkman LF. Cognitive functioning and the incidence of limitations in activities of daily living in an elderly community sample. Am J Epidemiol 1995;141:41-9. Warren EJ, Grek A, Conn D et al. A correlation between cognitive performance and daily functioning in elderly people. J Geriatr Psychiatry Neurol 1989;2:96-100. Gross JJ, Muñoz RF. Emotion regulation and mental health. Clin Psychol Sci Pract 1995;2:151-64. NEWSLETTER 17. McCarthy CJ, Lambert RG, Moller NP. 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NEWSLETTER Georg Northoff How Is Our Self Altered in Psychiatric Disorders? A Neurophenomenal Approach to Psychopathological Symptoms Psychopathology 2014;47:365–376 Traduzione a cura della Dott.ssa Angela Spalatro Abstract The self is central in our experience and has often been assumed to be necessary for any kind of consciousness in philosophy. Recent investigations in neuroscience demonstrate a particular set of regions such as the cortical midline regions to be associated with the processing of stimuli specifically related to the self as distinguished from those remaining unrelated to the self. Furthermore, findings show a close overlap between self-related activity and high levels of resting state activity in especially anterior midline regions. Interestingly, recent findings in psychiatric disorders such as depression and schizophrenia show resting state abnormalities in exactly these regions, that is in the cortical midline structures. Based on phenomenal and neural observations, I here suggest a neurophenomenal approach that directly links neuronal and phenomenal features (without sandwiching cognitive or sensorimotor functions) to psychopathological symptoms of self in depression and schizophrenia. Introduzione Voi leggete queste righe. Le trovate noiose e la vostra esperienza è resa significativa dalla noia. Chi ha esperito questa noia? Voi. Voi siete il soggetto dell'esperienza della noia. Senza di voi come soggetti di questa esperienza non potreste esperire nulla a pieno, nemmeno la noia. Questo soggetto che fa esperienza viene definito Sé. È il vostro Sé che rende possibile il fatto di esperire determinate cose. Il Sé è una condizione necessaria per la possibile costituzione di un'esperienza e di una coscienza. È chiaro quindi come ci sia parecchio materiale in gioco quando parliamo del “Sé”. Dobbiamo quindi discutere sul come caratterizzare e definire il concetto di Sé. Perche il Sé é cosi importante? Perche di solito diamo per scontato che chiunque debba avere di per sè una coscienza. Chiunque parla una lingua. E chiunque impara una seconda lingua quando per esempio si muove verso un altro paese. Senza questo “chiunque” rimaniamo incapaci di fare ciascuna di queste cose. Chi si crede che sia in fondo questo qualcuno? Questo è quello che tradizionalmente chiamiamo Sé. Ed è per questo che il Sé è cosi rilevante. Che cosa si pensa che sia questo Sé e in che modo si altererebbe in condizioni psicopatologiche tipo la depressione e la schizofrenia? Questo è il punto focale di questo contributo. Prima di addentrarci nei dettagli concettuali del Sé, ne daremo inizialmente una definizione e ne approfondiremo le alterazioni in ambito psichiatrico ad esempio nella schizofrenia e nella depressione. Il Sé è una condizione necessaria per la possibile costituzione di un'esperienza e di una coscienza. NEWSLETTER Parte 1. Definizione e neuroanatomia del Sé Definizione del Sé e approccio neurofenomenologico Il Sé è stato spesso concettualizzato come una dimensione cognitiva, affettiva, sociale e sensorimotoria associandolo a determinate funzioni cerebrali. Gli approcci fenomenologici enfatizzano l'esperienza del Sé, il senso del Sé che rappresentano la definizione che io qui abbraccio. Ancora più importante è il fatto che, questo tipo di approccio al Sé, ovvero l'esperienza o il senso del Sé, posa essere direttamente collegato, da un punto di vista neuroscientifico, a quelle caratteristiche neurali e a quell'attività cerebrale intrinseca denominata appunto resting state. Suppongo che l'attività intrinseca cerebrale possa rendere ragione delle caratteristiche fenomenologiche della coscienza come ad esempio l'esperienza del Sé e il senso del Sé. Presumo, inoltre, che questo collegamento neurofenomenologico sia diretto in assenza di mediatori sensorimotori, affettivi, cognitivi e sociali che hanno piuttosto a che fare con l'attività estrinseca del cervello, ovvero con l'attività indotta da stimolo o sollecitata da determinati compiti. Inoltre, suppongo che un approccio neurofenomenologico di questo tipo possa meglio rendere ragione di quei disturbi del Sé e di quei sintomi psicopatologici tipici di alcuni quadri psichiatrici come ad esempio la depressione e la schizofrenia. Questo sarà l'obiettivo concettuale di tale lavoro. Per ragioni di sintesi, non fornirò un inquadramento della psicopatologia del Sé in altri quadri psichiatrici come ad esempio le dipendenze (vedi de Grech et al., 2009-2010 ) o i disturbi di personalità (vedi Doering et al., 2014). Il Sé e le regioni mesiali Da un punto di vista neuroanatomico, la specificità del Sé è stata studiata utilizzando stimoli specifici del Sé e on specifici del Sé (ad esempio il proprio nome o il nome di qualcun altro) in un contesto di brain imaging.questo ha evidenziato una marcata differenza di attività cerebrale in particolare nelle regioni corticali mesiali. Esiste un sistema cortico-sottocorticale mesiale che media le funzioni del Sé? Seppur esistano delle evidenze neuroanatomiche che giustificano l'esistenza di un sistema cortico-sottocorticale , alcuni autori (vedi per dettagli Christoff et al., Gillihan e Farah e Legrand e Ruby ) considerano le regioni mesiali troppo aspecifiche suggerendo un concetto del Sé più cognitivo e differente da ciò che io tratto in questo lavoro. Ciò nonostante queste evidenze documentano una triplice organizzazione anatomica cerebrale di tipo radiale-concentrica, con anelli interni, mediali ed esterni, che si estendono dalle regioni sottocorticali a quelle corticali. A livello sottocorticale si evidenzia un gruppo di tre anelli attorno al terzo ventricolo. Adiacente a questo gruppo, si evidenzia l'anello interno la cui parte mediale si estende a sua volta a livello delle sopramenzionate regioni del livello corticale. A questo fa seguito un core laterale e paramediano (anello di mezzo) e infine proseguendo verso la parte più laterale ed esterna che si continua a livello corticale. Questo tipo di triplice organizzazione anatomica suggerisce sistemi cortico-sottocorticali inevitabilmente di tipo integrativo. L'anello interno include tutte quelle regioni corticali e sottocorticali direttamente adiacenti ai ventricoli, come il cingolo anteriore e posteriore a livello corticale, mentre l'anello esterno contiene tutte quelle regioni che sono visibili dalla superficie esterna del cervello come ad esempio la corteccia prefrontale e parietale e la corteccia sensoriale e motoria. Esiste un sistema corticosottocorticale mesiale che media le funzioni del Sé? In che modo una triplice organizzazione anatomica cortico-sottocorticale può essere collegata al concetto del Sé? NEWSLETTER L'anello mediale, invece, racchiuso tra I due precedenti, racchiude a livello corticale la corteccia prefrontale ventromediale, la corteccia prefrontale dorsomediale e il precuneo. In che modo questo tipo di triplice organizzazione anatomica corticosottocorticale può essere collegata al concetto del Sé? Questa distinzione è in grado di spiegare meglio ed in maniera piu esaustiva la specificità del concetto del Sé rispetto alla classica e dicotomica distinzione mediale/laterale? Per rispondere a queste domande, il neurologo Todd Feinberg si è basato, come in passato altri neurologi hanno fatto, su uno specifico e attento studio di pazienti e condizioni neurologiche. Questi pazienti soffrono spesso per lesioni specifiche di alcune aree cerebrali e spesso si rendono portatori di comportamenti bizzarri e di alterazioni del loro stato di coscienza, compreso il loro senso di Sé. Feinberg ha cercato di spiegare I cambiamenti nell'esperienza del senso di Sé dei suoi pazienti proprio attraverso il concetto e la teoria alla base della triplice organizzazione anatomica. Feinberg afferma che l'anello interno di questa triplice organizzazione rifletta il Sé enterocettivo o corporeo mentre l'anello esterno sembra piu correlato allo sviluppo del Sé nel contesto ambientale ovvero quel Sé eterocettivo o esterno. L'anello mediale, in questo approccio, sembrerebbe piu correlato all'integrazione tra quello interno e quello esterno, assumendo il ruolo di Sé integrativo che perciò modulerebbe gli stimoli entero o eterocettivi e gli stimoli provenienti dal corpo o dall'esterno. A maggior ragione i risultati mostrano che l'attività neurale durante il processamento di stimoli correlati al Sé in particolare a livello degli anelli interni e mediali, si sovrappone fortemente al livello di attività di Resting State specialmente a livello delle regioni mesiali anteriori (come la VMPFC, la corteccia cingolata anteriore perigenicolata e la PACC). La sovrapposizione tra resting state e attività correlata al Sé suggerisce che la prima contenga e codifichi alcune informazioni relative alla seconda, fenomeno che può essere definito come organizzazione specifica del Sé. Lattività di resting state e l'organizzazione specifica del Sé diventa maggiormente rilevante per alcuni disturbi psichiatrici, come la depressione e la schizofrenia. Parte 2: il Sé nella depressione Sintomi psicopatologici: "aumentato focus sul Sé e ridotto focus sull'ambiente” . Il disturbo depressivo maggiore è una patologia psichiatrica caratterizzata da emozioni estremamente negative, pensieri suicidari, perdità di speranza, sintomi fisici diffusi, perdita di piacere, ovvero anedonia, ruminazioni mentali e aumentata sensibilità allo stress. In che modo i pazienti depressi fanno esperienza dei loro sintomi? Questo argomento viene ampiamente affrontato nella fenomenologia (per dettagli vedi Northoff 2004), la quale descrive l'esperienza soggettiva dei sintomi depressivi da un punto di vista che potremo definire "in prima persona". Un approccio fenomenologico di questo tipo deve essere distinto dall'approccio psicopatologico che ha come obiettivo i sintomi osservati in termini oggettivi, da una prospettiva che potremmo definire "in terza persona". Per illustrare l'esperienza soggettiva di cui parlo vorrei iniziare con una citazione relativa ad un recente lavoro che ben descrive le alterazioni del Sé nella depressione: "lei sedeva alla finestra, guardando più dentro di se che non fuori da essa. I suoi pensieri erano consumati dalla sua tristezza. Osservava la sua vita come qualcosa di spezzato, senza essere in grado di posare le sue dita Nella depressione vi è "aumentato focus sul Sé e ridotto focus sull'ambiente” Ma in che modo i pazienti depressi fanno esperienza dei loro sintomi? NEWSLETTER nell'esatto momento in cui questa rottura era avvenuta. In che modo sono arrivata a sentirmi cosi? Ripeteva interrogando Sé stessa. Interrogandosi aveva la speranza di superare il suo stato depressivo; provando a comprenderlo aveva la sensazione di poter riparare la sua esistenza. Ciò nonostante, le sue domande non facevano altro che farla addentrare sempre più profondamente dentro Sé stessa, molto lontana da quel percorso che invece avrebbe portato alla sua guarigione". Questa descrizione relativa ad una paziente depressa mostra almeno tre caratteristiche cardini del Sé nella depressione che vengono definite aumentato focus sul Sé, associazione tra il Sé e le emozioni negative e aumentata elaborazione cognitiva del proprio Sé. Partiamo dal primo. In modo speculare alla paziente sopra descritta, quasi tutti i pazienti depressi hanno un'attenzione orientata più all'interno che non all'ambiente esterno, sono molto polarizzati su Sé stessi più che sugli altri. La teoria psicosociale parla di attentione focalizzata sul Sé in termini di polarizzazione su eventi percettivi interni intesi come informazione rispetto alle percezioni sensoriali in reazione ai cambiamenti dell'attività corporea. Il focus sul Sé ha anche a che fare con un'aumentata consapevolezza del proprio comportamento passato o presente, nel senso di una elevata conoscenza di ciò che si è o di ciò che si fa. Inoltre, questo aumentato focus sul Sé implica anche una marcata polarizzazione sul proprio corpo. I pazienti depressi mostrano una marcata consapevolezza rispetto al proprio corpo che, in termini fenomenologici, risulta in una miriade di sintomi fisici. L'aumentato focus sul Sé si accompagna perciò a ciò che potremmo definire "aumentato focus sul corpo". L'aumentato focus sul Sé e sul corpo implica che l'attenzione del soggetto depresso non sia più orientata alle proprie relazioni interpersonali e agli eventi ambientali, come nei soggetti sani, ma piuttosto a Sé stesso mettendo in secondo piano gli aspetti esterni. Questo ci aiuta a comprendere ciò che definisco appunto con "ridotto focus sull'ambiente". Tale concetto descrive appunto come l'esperienza soggettiva e la percezione del paziente depresso non siano più orientate all'esterno, agli altri e agli eventi. Queste funzioni nel paziente depresso sono piuttosto orientate all'interno di Sé, al proprio corpo e al proprio sistema cognitivo in quello che definisco appunto "aumentato focus sul Sé". Questo significa che il bilancio tra focus orientato all'esterno e focusl sul Sé diventa un processo unilaterale. Questa evidenza è supportata da recenti dati empirici. La ricerca empirica indica chiaramente come esista una maggior attenzione al Sé nella depressione. Numerosi studi che indagano l'attenzione polarizzata sul Sé, attraverso differenti misure e metodologie, convergono sull' evidenziare un aumentato livello (sia quantitativamente che temporalmente) di attenzione sul Sé nei pazienti depressi. Ciò che resta da chiarire è se questa differenza abbia a che fare con esperienze esplicite e quindi a livello conscio oppure sia qualcosa presente solo a livello implicito e quindi inconscio. Un'altra caratteristica ha a che fare con l'attribuzione di emozioni negative al Sé, in ciò che io definisco "associazione tra il proprio Sé e le emozioni negative". Il proprio Sé nella depressione viene associato a tristezza, colpa, errore, incapacità, morte e malattia che risultano in un senso di delusione e colpa del soggetto depresso. Un recente lavoro ha studiato i cluster sintomatologici nella Beck Depression Inventory (BDI) osservando tre fattori, uno di questi è il senso di colpa del Sé. Al BDI, in particolare rispetto a questo fattore, i pazienti depressi con pregressi tentativi anticonservativi mostrano punteggi più elevati rispetto a quelli Ciò che resta da chiarire è se questa differenza caratterizzata da maggior attenzione verso il sé abbia a che fare con esperienze esplicite e quindi a livello conscio oppure sia qualcosa presente solo a livello implicito e quindi inconscio. NEWSLETTER senza tentativi anticonservativi. Inoltre, tale fattore, correla significativamente sia con il numero di tentativi antocinservativi pregressi, sia con i fattori di rischio noti per comportamenti suicidari. Perciò tale fattore potrebbe derivare proprio dall'associazione del Sé con le emozioni negative sopra descritte non consentendo a tali pazienti di attribuire al proprio Sé una valenza positiva derivante da determinate emozioni. Infine nella depressione esiste anche un'aumentata elaborazione cognitiva relativa al proprio Sé. Tali pazienti esprimono sofferenza in relazione a questo processo; la paziente dell'esempio precedente, infatti, pensa a Sé stessa e al suo umore e cerca disperatamente di scoprire le ragioni della sua depressione e così facendo non fa altro che addentrarsi più profondamente nella sintomatologia depressiva. Questo processo cognitivo viene definito come "ruminazione" e spesso viene considerato una strategia di coping rispetto al proprio umore che non fa altro che aumentare l'attenzione e la riflessione sul Sé. Evidenze neuronali: Il resting state e la sua organizzazione anatomica Vorrei iniziare descrivendo le evidenze relative alle alterazioni del RS nella depressione maggiore. Dal momento che le evidenze sono numerose sia da un punto di vista morfologico che funzionale, ci soffermeremo brevemente solo su alcuni punti cruciali collegandoli argomentandoli poi in relazione all'attività cerebrale di soggetti sani. Alcaro et al., ha condotto una metaanalisi sugli studi di neuroimaging in soggetti depressi focalizzati sul resting state. Si sono evidenziate regioni iperattive a livello della PACC, della VMPFC, delle regioni talamiche, delle regioni mesiali (come la sostanza nera, l'area tegmentale ventrale, il tetto e la sostanza grigia periacqueduttale). Al contrario, regioni ipoattive si sono evidenziate nella corteccia cingolata posteriore, nella corteccia prefrontale dorsolaterale e nel cuneo/precuneo. Questi risultati sono in accordo con altre metaanalisi che enfatizzano il ruolo dell'ippocampo, del para ippocampo e dell'amigdala come regioni altrettanto iperattive nei soggetti depressi. Interessante notare come le stesse regioni e anche la PACC mostrino alterazioni anche morfologiche con riduzione della sostanza grigia e riduzione della conta cellulare in studi effettuati post morte. Il coinvolgimento di queste regioni nella depressione maggiore è confermata anche da studi effettuati in modelli animali di depressione maggiore. Regioni iperattive nei modelli animali sono la corteccia cingolata anteriore, i nuclei centrali e basolaterali dell'amigdala, lo striato terminale, il rafe dorsale, l'abenula, l'ippocampo, l'ipotalamo, il nucleo accumbens, la PAG, il talamo dorsomediale, il nucleo del tratto solitario e la corteccia piriforme e prelimbica. Al contrario, evidenze di regioni ipoattive nei modelli animali rimangono di difficile individuazione. Presi assieme questi dati suggeriscono un'anomala iperattività del resting state a livello di regioni corticali e sottocorticali localizzate nelle regioni mesiali del cervello. Questo ha portato autori come Philips, Mayberg e Drevets ad affermare che esista una alterazione del sistema libico nella depressione o, meglio, del circuito limbico-cortico-striato-pallido-talamico con un'interazione cruciale reciproca tra regioni prefrontali mesiali e regioni limbiche. Evidenze neuronali: sbilanciamento tra regioni degli anelli interni ed esterni nell'attività di Resting state in che modo queste evidenze si inseriscono nel panorama della caratterizzazione anatomica cui abbiamo accenato precedentemente nei soggetti sani tra anelli interni, mediali ed esterni? Quelli che vengono La "ruminazione" spesso viene considerata una strategia di coping rispetto al proprio umore che però non fa altro che aumentare l'attenzione e la riflessione sul Sé. NEWSLETTER definiti come anelli interni e mediali ad un livello corticale, ovvero regioni paralimbiche e strutture mesiali, mostrano generalmente nella depressione un'iperattività in corso di Resting State. Un'altra osservazione deriva dagli studi condotti su soggetti sani. L'anello esterno copre alcune regioni laterali a livello corticale in particolare la DLPFC e in parte la corteccia motoria. In queste due regioni è stata evidenziata un ipoattivitè del RS in soggetti depressi. Prendendo queste evidenze tutte assieme, possiamo affermare che l'attività del resting state in pazienti depressi è caratterizzata da uno sbilanciamento cortico-sottocorticale tra anelli interni /mediali ed anelli esterni. Nello specifico, le regioni appartenenti anatomicamente agli anelli interni e mediali sembrano essere iperattive in corso di resting state. Al contrario, regioni sottocorticali e corticali soprattutto dell'anello esterno, come la corteccia prefrontale laterale, sembrano essere ipoattive in corso di resting state. Ipotesi neuropsicopatologica I: iperattività del Resting State e aumentato focus sul Sé nella depressione. Le evidenze menzionate indicano uno sbilanciamento nell'attività di resting state tra anelli interni/mesiali ed esterni. Nello specifico esse mostrano come l'attività di resting state nella porzione anteriore dell'anello interno e anche in quanche misura nell'anello mediale sia aumentata in maniera anomala, mentre quella dell'anello esterno sia ridotta. Questo significa che esiste uno sbilanciamento nell'attività del resing state nella depressione a livello del gradiente interno verso esterno e anteriore verso posteriore. Ora io stabilisco che il bilancio tra questi tre anelli anatomici e il loro corrispettivo valore funzionale sia centrale nella costituzione del bilancio tra stati mentali specifici del Sé e non, tra contenuti interni ed esterni relativi al nostro stato mentale. Il bilancio neurale tra regioni mesiali e laterali è centrale nella discriminazione tra stimoli provenienti dall'interno o dall'esterno. Dal momento che il bilancio tra questi anelli è alterato nella depressione, ci si aspetta che ci sia uno spostamento verso un aumentata prevalenza di ciò che è interno rispetto a ciò che proviene dqall'esterno. Questo si evince a livello fenomenologico in ciò che descriverò di seguito. Da un punto di vista fenomenologico, un sintomo cardine della depressione è la polarizzazione sul proprio Sé. Tutti i pensieri e i sentimenti circolano attorno al Sé in ciò che ho precedentemente descritto come aumentato focus sul Sé. Lemogne ha distinto un aumentato focus sul Sé associato ad iperattività fasica della VMPFC da un'attivazione fasica della DMPFC correlata alla mediazione cognitiva. Dal momento che la aumentata polarizzazione sul Sé deriva da una ridotta attenzione all'ambiente, il paziente si sentirà distaccato da persone, eventi e fatti che lo circondano. Questo è quel processo che abbiamo definito ridotto focus sull'ambiente. La domanda adesso è come questo spostamento si generi. Per rispondere, torneremo sull'attività del Resting State nella depressione. Ci si aspetterebbe che un'elevata attività di resting state nelle regioni mediali porti ad un'aumentata specificità sul Sé e quindi ad un aumento dei contenuti autobiografici nei soggetti depressi sia in corso di resting state che in corso di attività indotta da stimolo (paradigmi). Se questo è vero per il resting state, non lo è altrettanto per l'atttività sotto stimolo. Grimm et al ha osservato come i pazienti depressi assegnino punteggi più elevati in particolare rispetto ad immagini a contenuto emotivo negativo. Da un punto di vista neuronale questo porta a ridotti cambiamenti di segnale durante gli stimoli specifici del Sé nelle regioni corticali mesiali. L'attività del resting state in pazienti depressi è caratterizzata da uno sbilanciamento corticosottocorticale tra anelli interni /mediali ed anelli esterni. NEWSLETTER Questo spiega l'anormale ed elevata attivitità di resting state e il suo aumento relativo agli stimoli specifici del Sé. L'assunto di un'aumentata attività specifica del Sé a livello fenomenologico è supportata dall'osservazione di una correlazione tra aumento dei punteggi comportamntali di dspecifici del Sé e riduzione dell'attività indotta da stimolo specialmente a livello delle regioni mesiali. Si potrebbe conseguentemente ipotizzare quindi che un aumento di specificità del sè come osservato da un punto di vista comportamentale spieghi l'aumento di attività di resting state a livello delle regioni mediali e la loro aumentata processazione legata all'attività Sé-specifica. Cosa implicano queste evidenze in termini neurofenomenologici? Noi osserviamo una ridotta attivita indotta da stimolo nelle regioni mediali anteriori mentre allo stesso tempo gli stimoli fanno si che aumenti il grado di specificità del Sé. Come è possibile che una ridotta attività indotta da stimolo aumenti l'attività specifica del sè? Io suppongo che sia dovuto ad un aumentata attività del resting state correlata all'organizzazione specifica del Sé con conseguente influenza sull'attività indotta da stimolo. Cerco di essere piu chiaro. L'aumentata attività di resting state rende impossibile allo stimolo di indurre maggiori cambiamenti dell'attività neuronale , perciò l'attività indotta da stimolo può solo ridursi. Per tale ragione l'anomala organizzazione specifica del Sé è aumentata e di conseguenza si assiste ad un alterato grado di attivazione specifica del Sé di fronte agli stimoli che a livello neuronale si spiega con una ridotta attività indotta da stimolo e un'aumentata attività nel comportamento Sé specifico tipico del depresso. Evidenze neuronali: processamento esterno anomalo nella depressione I pazienti con depressione maggiore spesso soffrono di sintomatologia fisica diffusa come senso di costrizione cardiaca, mancanza di aria e sintomi dolorosi diffusi. Questo sembra essere in linea con l'aumentata consapevolezza rispetto ai propri processi fisici (percezione corporea) inclusa un'aumentata sensibilità allo stress con risposte autonomicovegetative alterate come dimostrato in una recente ricerca. Lo stesso studio ha studiato anche l'attività neuronale relativa alla consapevolezza sia entero che eterocettiva (tono e frequenza cardiaca) in relazione all'attività di resting state. Gli stimoli enterocettivi inducono un grado normale di cambiamento nel segnale cerebrale a livello dell'insula bilateralmente nei soggetti depressi in relazione al livello di attività precedente dei resting state. Questo suggerisce che non esistono anormalità nella processazione degli stimoli enterocettivi in Sé stessi nei soggetti depressi. Al contrario, rispetto all'attività indotta da stimolo durante la processazione di stimoli enterocettivi, si orsserva un'aterata riduzione dell'attività rispetto agli stimoli esterni. Nello specifico, osserviamo come gli stimoli esterni inducano una ridotta attività stimolo indotta a livello dell'insula nei pazienti depressi quando li si confronta con soggetti sani. Questo apre la questione di come questa ridotta attività sia collegata agli stimoli esterni o piuttosto a livelli di per Sé anomali di attività del resting state. La risposta sembra risiedere in questa seconda ipotesi, dal momento che noi osserviamo un'aumentata attività di resting state nell'insula di per Sé. Questo risulta in linea con l'iperattività del resting state a livello dell'anello interno, il che racchiude il cuore del sistema paralimbico di cui l'insula fa parte. Per dimostrare come i cambiamenti nell'attività indotta da stimoli esterni siano indipendenti, dobbiamo calcolare questa attività in relazione al livello di resting state precedente. È interessante notare come la I pazienti con depressione maggiore spesso soffrono di sintomatologia fisica diffusa come senso di costrizione cardiaca, mancanza di aria e sintomi dolorosi diffusi. Vi è aumentata percezione corporea e aumentata sensibilità allo stress con risposte autonomicovegetative alterate NEWSLETTER differenza iniziale osservata tra soggetti sani e pazienti depressi in "assoluto", ad esempio l'attività del resting state e i cambiamenti del segnale durante gli stimoli esterni quando calcolati in relazione a determinati altri aspetti siano dipendenti dal precedente livello di attività del resting state. Se includiamo il livello di attività del resting state, non ci sono più differenze tra soggetti sani e pazienti depressi rispetto ai cambiamenti di segnale indotti dalla processazione di stimoli esterni. Al contrario di quanto accade in relazione agli stimoli esterni, non vi sono differenze nei cambiamenti di segnale tra soggetti sani e pazienti depressi rispetto agli stimoli enterocettivi sia in senso assoluto che relativo. Questa differenziazione tra stimoli esterni ed enterocettivi rispetto ai cambiamenti di segnale assoluti o relativi uggerisce interazioni differenti di entrambi i tipi di stimoli rispetto all'atività di resting state. L'interazione "riposo-stimolo"è ridotta durante la processazione di stimoli esterni oppure l'interazione "riposo-stimolo" è aumentata durante la processazione di stimoli enterocettivi e tale evidenza è difficilmente differenziabile sulla base delle evidenze sopradescritte. Quello che è chiaro è che esiste uno sbilanciamento di attività tra processazione di stimoli entero o eterocettivi, inclusa la loro reciproca interazione con il livello di attività del resting state. A causa dei pochi lavori in questo campo, evidenziamo la necessità di effettuare altri studi di neuroimaging che integrino e studino i cambiamenti della processazione degli stimoli enterocettivi nella depressione. Lo studio di Wiebking et al ha indagato alcune dimensioni psicologiche come la percezione del corpo, utilizzando il Body Perception Questionnaire. Il suo gruppo ha riscontrato come in pazienti depressi il punteggio a questo test sia decisamente aumentato rispetto ai soggetti sani, confermando una aumentata consapevolezza del proprio corpo in questi soggetti. La cosa interessante è che i punteggi aumentati in questo test, a differenza di ciò che capita nei soggetti di controllo, non correlano con i cambiamenti di segnale durante l'attività di resting state e durante la processazione di stimoli esterni. Questo suggerisce che i pazienti depressi non siano in grado di modulare il loro grado d attività neuronale. Essi rimangono apparentemente incapaci di modulare, riducendola; la percezione e la consapevolezza di Sé e del proprio corpo quando esposti a stimoli ambientali esterni. Questo potrebbe spiegare quel corredo sintomatico di tipo fisico tipico dei soggetti depressi. La mancanza di correlazione con l'aumentato livello di attività neuronale nei soggetti depressi è stato anche riscontrato in altri test psicologici indaganti gli affetti negativi, la specificità del Sé e le proiezioni temoporali negative correlate alle possibilità future tipiche dei soggetti depressi. Ipotesi neuropsicopatologica II : Sbilancoamento tra contenuti mentali interni ed esterni nella depressione Queste evidenze sono suggestive di uno sbilanciamento nella processazione neurale tra stimoli enterocettivi ed esterni, in cui solo questi ultimi sembrano in grado di ridurre l'attività neurale. Questo conseguentemente porta ad un relativo aumento della processazione neurale di stimoli enterocettivi e ad un aumento dell'interazione riposoenterocezione quando confrontato con un apparente e assoluta riduzione del procesamento di stomoli esterni e dell'interazione riposostimoli esterni. Come abbiamo già sottolineato, questo anomalo sbilanciamento può promuovere da un punto di vista psicopatologico un'aumentata consapevolezza e polarizzazione sul Sé corporeo e, successivamente, un aumento di sintomi di tipo fisico. Lo studio di Wiebking et al ha indagato alcune dimensioni psicologiche come la percezione del corpo, utilizzando il Body Perception Questionnaire. In pazienti depressi il punteggio a questo test è decisamente aumentato rispetto ai soggetti sani NEWSLETTER Nello stesso tempo, la riduzione del processamento legata agli stimoli esterni può essere accomapgnata da una ridotta consapevolezza di ciò che concerne I cambiamenti nell'ambiente esterno, in particolare rispetto agli eventi positivi che potrebbero impattare positivamente sulla depressione. Questo significa che, da un punto di vista fenomenologico, si potrebbe parlare non solo di un'aumentata polarizzazione sul Sé ma anche di un'aumentata polarizzione sul corpo e di una ridotta attenzione all'ambiente. Perche pensare che l'interazione riposo-stimoli esterni e consapevolezza relativa all'ambiente siano ridotti quando confrontati al'interazione riposostimoli enterocettivi consapevolezza enterocettiva? Ricordiamo che ho supposto che l'aumentato focus sul Sé e l'aumentata specificità sul Sé durante l'attività indotta da stimolo vengano fatte risalire ad un aumentata attivtà del resting state nelle regioni anteriori dell'anello interno e dell'anello mediale. Nello stesso tempo, tuttavia, I dati del resting state dimostrano una riduzione dell'attività del resting state nelle regioni laterali dell'anello esterno. Presi tutti assieme, questi dati relativi ad un anomala ed aumentata attività del resting state e ad un' organizzazione Sé-specifica sembrano manifestarsi in contenuti mentali di tipo enterocettivo a discapito di ciò che proviene dall'esterno. Questo si riflette nella descrizione di un'aumentato focus sul Sé e di un ridotto focus sull'ambiente. Questo sembra essere reso possibile da uno sbilanciamento nell'rganizzazione del resting state a favore di contenuti enterocettivi e come ho supposto questi sembrano corrispondere ad un anomalo bilanciamento neurale tra regioni mesiali e laterali, e quindi tra anelli interni/mediali e anelli esterni. Parte 3: Sé nella schizofrenia Sintomi psicopatologici: anormalità del Sé nella schizofrenia I primi psichiatri come Krepelin e Bleuler all'inizio del secolo scorso avevano ipotizzato che disfunzioni del Sé fossero alla base della schizofrenia. A differenza di ciò che capita oggi, questi psichiatri avevano a disposizione escluivamente l'approccio clinico. Sulla base di questo, essi stabilirono che ci fosse un cambiamento anomalo del Sé alla base della malattia schizofrenica. Nello specifico Kraepelin ha caratterizzato la schizofrenia come “una particolare distruzione della coerenza interna di una personalità con disgregamento della coscienza (orchestra senza direttore). Bleuler ha inolte osservato che la schizofrenia è “un disturbo della personalità caratterizzato da scissione e dissociazione” in cui “l'Io non è mai completamente intatto”. Berze, un contemporaneo di Bleuler e Kraepelin, si riferiva alla schizofrenia come ad “una alterazione specifica della coscienza di Sé”. Jaspers notò inoltre “incoerenza, dissociazione, frammentazione della coscienza, insufficienza dell’attività psichica e disturbi associativi alla base della schizofrenia. Le prime descrizioni della distruzione del Sé in termini fenomenologici riguardano l’esperienza del proprio Sé in relazione al Mondo. Parnas descrive ciò che chiama “presenza” come caratteristica cardine della schizofrenia. L’esperienza del Mondo e dei suoi contenuti non viene più accompagnata da una consapevolezza preriflessiva nella schizofrenia. Lasciatemi essere più preciso su questo punto. Il proprio Sé, quel Sé che fa esperienza del Mondo non viene incluso in quella esperienza: La caratteristica piu saliente di una presenza alterata nelle fasi precoci della schizofrenia è una disturbata ipseità, disturbo in cui il senso di Sé non riempie più quella determinata esperienza. NEWSLETTER la caratteristica piu saliente di una presenza alterata nelle fasi precoci della schizofrenia è una disturbata ipseità, disturbo in cui il senso di Sé non riempie più quella determinata esperienza. Ad esempio, il senso che quella esperienza sia realmente propria diventa subito alterato: ad esempio alcuni pazienti riferiscono che il sentimento collegato ad una determinata esperienza sembrava sempre una frazione di secondo in ritardo rispetto all’esperienza stessa. I pazienti sono incapaci di far riferimento a Sé stessi in relazione all’esperienza del Mondo. È come se l’esperienza del mondo non appartenga a Sé stessi. Questo porta in stadi avanzati a fenomeni di passività, deliri di passività caratterizzati dalla sensazione che determinate esperienze che vivono vengano esperite da qualcun altro e non da Sé stessi. A causa della mancanza del proprio Sé nel loro modo di esperire determinte situazioni, i pazienti affetti da schizofrenia diventno distaccati, alienati ed estraniati dalla vita. Un simile distacco dalle esperienze reali rende per loro impossibile la capacità di far esperienza del Mondo in termini di soggettività e cioè di Sé-specificità. Il Sé che si sperimenta pertanto non è più pertanto connotato dai propri contenuti esperienziali e viene definito da Sass e Parnas come “un disturbo dell’affettività del Sé”: il proprio Sé non è più esperito come tale e, ancora più importante, non è più riconosciuto come centro cardine per poter fare esperienza, per agire, per sentire e per pensare. Questo riflette ciò che Parnas e Sass definiscono “ridotta affezione del Sé”, che significa che il Sé non è piu influenzato dalle proprie esperienze. Se il Sé non è piu influenzato dalle proprie esperienze, diventa sensibile a ciò che capita nel mondo circostante. A questo punto come dice Parnas si crea una breccia tra Sé e mondo, riducendoci da un punto di vista fenomenologico la differenza tra essi. Gli oggetti e gli eventi esterni non sono significativi per il soggetto che li esperisce poiche non viene loro attribuito nessun tipo di significato soggettivo. Il Sé diventa quindi estremamente oggettivo e meccanico nel suo modo di esperire e percepire il Mondo. Evidenze neuronali: Il Resting State nella schizofrenia Diversi studi hanno investigato il default-mode nella schizofrenia (vedi Kuhn e Gallinat per una rassegna). Recenti studi di imaging nella schizofrenia riferiscono un’anormale attività del resting state e della connettività funzionale delle strutture della linea mediana corticale anteriore (CMS). Uno studio ha dimostrato che le CMS anteriori (e CMS posteriori, come il PCC/precuneus) mostrano una diminuita deattivazione indotta dal compito (TID) durante un esercizio di memoria di lavoro. Questa caratteristica è stata osservata sia nei pazienti schizofrenici sia nei loro familiari, se confrontati ai soggetti sani. Tale osservazione è indicativa di una diminuzione della soppressione legata al compito e di un’aumentata attività allo stato di riposo. Gli stessi soggetti schizofrenici hanno inoltre mostrato una maggiore connettività funzionale della CMS anteriore e di altre regioni posteriori delle CMS, come ad esempio il PCC. Sia l’iperconnettività funzionale che la diminuzione del TID correlano negativamente tra di loro. Più diminuisce la soppressione legata al compito, tanto più aumenta il grado di connettività funzionale. Infine, sia il diminuito TID che la maggiore connettività funzionale nelle CMS anteriori correlano con la psicopatologia, cioè, con i sintomi prevalentemente positivi come misurati con la Recenti studi di imaging nella schizofrenia riferiscono un’anormale attività del resting state e della connettività funzionale delle strutture della linea mediana corticale anteriore (CMS) NEWSLETTER scala di valutazione dei sintomi positivi e negativi. La diminuzione del TID nelle CMS anteriori è stato osservato anche in un precedente studio che ha indagato la memoria di lavoro. Analogamente allo studio descritto in precedenza, si è proposta ai soggetti l’esecuzione di compiti di memoria di lavoro e osservato un’anormale diminuzione del TID nelle CMS anteriori nei pazienti schizofrenici rispetto ai soggetti sani. Similmente al lavoro precedente, si è osservata un’anormale attivazione correlata al lavoro nella corteccia prefrontale dorsolaterale destra in pazienti schizofrenici. Un altro studio ha anche riferito un’anormale TID nelle CMS anteriori, così come una connettività funzionale anomala nelle CMS anteriori, posteriori e nell’insula nei pazienti schizofrenici. Oltre alla TDI e alla connettività funzionale, un’altra anomalia è rappresentata dalle caratteristiche temporali dell’attività durante il resting state, più specificamente fluttuazioni od oscillazioni in certe frequenze temporali. Per esempio, Hoptman et al. hanno dimostrato che le fluttuazioni a bassa frequenza sono aumentate nel resting state nelle CMS anteriori (e nel giro paraippocampale) in pazienti schizofrenici, mentre sono diminuite in altre regioni come ad esempio l'insula. L’aumento anomalo delle oscillazioni a bassa frequenza (<0,06 Hz) nelle CMS anteriori (e posteriori, oltre ai circuiti uditivi) e la loro correlazione con la gravità dei sintomi positivi è stato anche osservato in un altro studio su pazienti schizofrenici. Evidenze neurali: specificità del Sé nella schizofrenia Per quanto riguarda le alterazioni nell'attività del resting state: che cosa succede durante i cambiamenti dell’attività indotta dallo stimolo e qual è la loro relazione con la specificità del Sé? In un recente studio di imaging, Holt et al. hanno dimostrato che la connettività anormale della linea mediana anteriore e posteriore è relativa alla specificità del Sé. Hanno studiato pazienti schizofrenici durante un compito di parola in cui i soggetti dovevano giudicare aggettivi in base al loro grado di specificità rispetto al Sé, più altri due compiti: ulteriori riflessioni, (cioè la relazione di quell’aggettivo con un'altra persona) e la percezione di riflessione (cioè parola stampata in lettere maiuscole o minuscole). Cosa si evidenzia dai loro risultati? I pazienti schizofrenici hanno mostrato un’attività significativamente elevata nelle regioni della linea mediana posteriore come la corteccia cingolata media e posteriore durante l'auto-riflessione, mentre le variazioni del segnale nelle regioni anteriori della linea mediana, come la corteccia prefrontale mediale, sono risultate significativamente ridotte rispetto ai sani soggetti. Infine, la connettività funzionale è anormalmente elevata dalle regioni posteriori a quelle anteriori della linea mediana nei pazienti schizofrenici. Risultati analoghi di alterata attività a livello della linea mediana, con uno sbilanciamento tra le regioni anteriori e posteriori della linea si osservano anche in altri studi sulla specificità del Sé, nella schizofrenia. Presi insieme, questi risultati dimostrano l’anormale attività del resting state, in particolare a livello della connettività delle regioni anteriori e posteriori della linea mediana nella schizofrenia (vedi Kuhn e Gallinat per una recente meta-analisi). La stessa rete mostra anche alterazioni dell'equilibrio tra le regioni anteriori e le regioni posteriori della linea mediana quando esse sono sondate per stimoli specifici del Sé. Questi risultati dimostrano l’anormale attività del resting state, in particolare a livello della connettività delle regioni anteriori e posteriori della linea mediana nella schizofrenia La stessa rete mostra anche alterazioni dell'equilibrio tra le regioni anteriori e le regioni posteriori della linea mediana quando esse sono sondate per stimoli specifici del Sé. NEWSLETTER Ipotesi neuropsicopatologica Ia: ‘disturbo del Sé’ nella schizofrenia In che modo questi risultati si correlano alla psicopatologia e alle descrizioni fenomenologiche? Suppongo che ciò che i primi psichiatri descrissero come “la distruzione peculiare della coerenza interna della personalità” o “la basilare alterazione della coscienza di Sé” può corrispondere alle descritte variazioni nell’organizzazione specifica del Sé allo stato di riposo. Permettetemi di spiegare tutto questo in modo più dettagliato. Seguendo le prime descrizioni, un disturbo nella concezione del Sé si suppone avere un impatto su tutte le altre successive funzioni e domini della personalità. Analogamente, assumo che l’organizzazione auto-specifica della condizione di riposo coinvolga anche qualsiasi successiva attività stimoloindotta e consecutivamente tutte le funzioni, tra cui quelle sensoriali, motorie, affettive e le funzioni cognitive. Nella stessa maniera in cui il disturbo del Sé è presente ovunque, lo stato di riposo, metaforicamente parlando, “Ha le sue mani” in tutti i tipi di processi neurali. Come è possibile tale presenza complessiva del “disturbo alla base del Sé?” Deve infatti essere molto di base. Di base come, per esempio, lo stato di riposo è fondamentale per qualsiasi tipo di successiva attività di stimolo-indotta: deve infatti essere riportato e trasferito allo stimolo successivo con il suo contenuto e le sue funzioni associate. Presumo quindi che ciò che i primi psichiatri descrissero come “disturbo alla base del Sé” sia riprodotto e trasferito ad ogni dominio della vita mentale del soggetto. Allo stesso modo l’anormale organizzazione auto-specifica della condizione di riposo è riprodotta e trasferita alle successive attività indotte da uno stimolo e alle sue funzioni associate. Ora assumo che lo stato di riposo e la sua anormale organizzazione specifica del Sé sia riportato e trasferito alle attività successive stimolo-indotte, e quindi a qualsiasi tipo di elaborazione neurale. Questo può rendersi manifesto in varie anomalie neurali tipiche della schizofrenia che sono legate alle funzioni sensitivo-motorie, affettive, cognitive e sociali così come alle proprie attività estrinseche o indotte da un compito/stimolo. Ipotesi neuropsicologica Ib: anormala organizzazione auto-specifica nella schizofrenia e la sua manifestazione in esperienza. Come queste descrizioni fenomeniche si riferiscono ai meccanismi neuronali che ho qui ipotizzato? Presumo che queste riflettano un’anormale organizzazione auto-specifica dello stato di riposo che viene riprodotta e trasferita alla successiva attività stimolo-indotta. Ciò è in accordo con il riscontro neuronale, precedentemente descritto, di uno stato di riposo anormale e di un’anormale attività nervosa durante l’esperienza di stimoli l'auto-specifici. Permettetemi di essere più specifico. A causa delle anomalie dello stato di riposo, lo stimolo non può essere opportunamente integrato nell’organizzazione auto-specifica della condizione di riposo. La mancanza di integrazione dello stimolo nell’organizzazione auto-specifica dello stato di riposo porta quindi ad una mancanza di auto-specificità dello stimolo stesso durante l'attività stimolo-indotta. Questa diminuzione o mancanza di assegnazione di auto-specificità allo stimolo è poi fenomenologicamente manifesta in quanto viene descritta come una diminuzione sia dell’auto consapevolezza sia del senso di ciò che è proprio e di appartenenza. Ciò equivale esattamente al modo in cui Parnas e altri caratterizzano l'esperienza nella schizofrenia come “disturbato senso di ciò che è proprio e ipseità'” e come 'Disturbo di auto- In che modo questi risultati si correlano alla psicopatologia e alle descrizioni fenomenologiche? NEWSLETTER affettività' e che è psicopatologicamente riflesso in un 'disturbo alla base del Sé'. Conclusioni Mi sono focalizzato sulle alterazioni del RS in differenti regioni cerebrali in alcune patologie psichiatriche come la depressione e la schizofrenia. Entrambi i disturbi e i rispetti aspetti sintomatici evidenziano il ruolo cardine del resting state in generale e nello specifico della relazione con le alterazioni del Sé. Nel mio approccio neurofenomenologico, il collegamento diretto tra attività del resting state e aspetti neurofenomenologici sarebbe in grado di spiegare bene quella varietà sintomatologica di alcuni aspetti del Sé tipica di questi disturbi. Avendo in mente che questi sono i primi passi in questa direzione, ritengo tuttavia che un approccio neurofenomenogico potrebbe essere utile in futuro nel trovare markers diagnostici e terapeutici e, idealmente, nuove forme terapeutiche basate sul resting state in psichiatria. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. Northoff G: Gene, brains, and environmentgenetic neuroimaging of depression. Curr Opin Neurobiol 2013; 23: 133–142. Northoff G: What the brain’s intrinsic activity can tell us about consciousness. A tri-dimensional view. Neurosci Biobehav Rev 2013; 37:726–738. Northoff G: Self and brain: what is self-related processing? Trends Cogn Sci 2011; 15: 186–187. Northoff G: Unlocking the brain. Vol I, Coding. 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Un approccio neurofenomenogico potrebbe essere utile in futuro nel trovare markers diagnostici e terapeutici e, idealmente, nuove forme terapeutiche basate sul resting state in psichiatria NEWSLETTER 14. Feinberg TE: From Axons to Identity: Neurological Explorations of the Nature of the Self. Norton Series on Interpersonal Neurobiology). New York, Norton & Co, 2009. 15. Feinberg TE: Neuropathologies of the self: clinical and anatomical features. Conscious Cogn 2011; 20: 75–81. 16. Feinberg TE, Venneri A, Simone AM, Fan Y, Northoff G: The neuroanatomy of asomatognosia and somatoparaphrenia. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2010; 81: 276–281. 17. Hasler G, Northoff G: Discovering imaging endophenotypes for major depression. Mol Psychiatry 2011; 16: 604–619. 18. Kuhn S, Gallinat J: Resting-state brain activity in schizophrenia and major depression: a quantitative meta-analysis. Schizophr Bull 2013; 39: 358–365. 19. Northoff G: Philosophy of the Brain. 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Realism assumes that the content of science is real and independent of human activities. I distinguish two “flavors” of realism: chemistry-based, for which the paradigmatic example is elements of the periodic table, and biology-based, for which the paradigm is species. The latter is a much better fit for psychiatry. Pragmatism articulates a sensible approach to psychiatric disorders just seeking categories that perform well in the world. But it makes no claim about the reality of those disorders. This is problematic, because we have a duty to advocate for our profession and our patients against other physicians who never doubt the reality of the disorders they treat. Constructivism has been associated with anti-psychiatry activists, but we should admit that social forces play a role in the creation of our diagnoses, as they do in many sciences. However, truly socially constructed psychiatric disorders are rare. I then describe powerful arguments against a realist theory of psychiatric disorders. Because so many prior psychiatric diagnoses have been proposed and then abandoned, can we really claim that our current nosologies have it right? Much of our current nosology arose from a series of historical figures and events which could have gone differently. If we re-run the tape of history over and over again, the DSM and ICD would not likely have the same categories on every iteration. Therefore, we should argue more confidently for the reality of broader constructs of psychiatric illness rather than our current diagnostic categories, which remain tentative. Finally, instead of thinking that our disorders are true because they correspond to clear entities in the world, we should consider a coherence theory of truth by which disorders become more true when they fit better into what else we know about the world. In our ongoing project to study and justify the nature of psychiatric disorders, we ought to be broadly pragmatic but not lose sight of an underlying commitment, despite the associated difficulties, to the reality of psychiatric illness. Una domanda fondamentale per la disciplina della psichiatria riguarda la natura di ciò che trattiamo e studiamo: i disturbi psichiatrici. Che cosa sono? Questa domanda può essere approcciata in modo fruttuoso da diverse prospettive. Possiamo ad esempio porci il problema dell’eziologia e contribuire ai dibattiti di lungo corso sulla prospettiva psicologia versus biologica. Possiamo ripercorrere lo sviluppo storico e la differenziazione tra psichiatria e neurologia. Ma non saranno questi gli approcci che Che cosa sono i disturbi psichiatrici? Le mie domande saranno di natura metafisica NEWSLETTER sceglierò. Piuttosto le mie domande saranno di natura filosofica (o, per essere maggiormente precisi, metafisica). Ripercorrerò e affronterò in modo critico tre grandi teorie sulla natura dei disturbi psichiatrici: realismo, pragmatismo e costruttivismo. Non è una lista esaustiva, ma nel complesso copre i maggiori problemi. Assumerò in diversi momenti un taglio narrativo, delineando e contestualizzando le tre posizioni. Sarò a volte maggiormente autobiografico, descrivendo le mie considerazioni su tali teorie lungo l’arco della mia carriera e come io le veda ora. Ipotizzo che queste tre teorie possano essere disposte su una stessa dimensione, meglio definita come una scala di “realtà” (che potrebbe essere definita in gergo filosofico come “esistenza in uno spazio indipendente dalla mente”). Complessificherò tale tipologia in quattro ulteriori discrimini allo scopo di trovare un approccio ottimale alla comprensione della natura dei disturbi psichiatrici. Non sto cercando di fornire una risposta definitiva, spero piuttosto di illuminare le varie questioni rilevanti. Realismo Il realismo è una posizione maggioritaria nella filosofia della scienza che sostiene che il contenuto delle scienze sia reale, ovverosia indipendente dalle concezione e attività umane. E’ la posizione di “senso comune” accettata dalla maggior parte dei ricercatori biomedici, che, se interrogati sulla natura degli oggetti dei loro studi (siano essi geni, cascate della coagulazione, tipi di disturbi autoimmuni), risponderebbero: “Le cose su cui lavoro sono sicuramente reali. Che domanda stupida!”. Questa è una posizione che avrei sostenuto fortemente da studente e poi giovane Assistant Professor e studiavo le teorie biologiche della schizofrenia. “La schizofrenia è sicuramente un oggetto reale”. Vorrei ora discriminare due tipologie di posizioni realiste. La prima è basata su una scienza dura, la chimica, la seconda sulla biologia. Per la prima il costrutto scientifico paradigmatico sono gli elementi della tavola periodica degli elementi: carbonio, nitrogeno, ossigeno, etc. Sono eccezionali nella chiarezza del loro essere indipendenti dalla mente. Possiamo essere concordi, in ogni momento dello spazio-tempo del nostro universo, se una popolazione di esseri si sviluppasse al un livello sufficiente troverebbe qualcosa di strutturalmente isomorfo alla tavola degli elementi. Tale è la nostra tavola periodica, in essa vi si trovano sul nostro mondo verità profonde completamente indipendenti dall’umano. Noi potremmo scomparire tutti domani e la loro realtà non ne sarebbe perturbata. Gli elementi della tavola periodica illustrano un’altra importante caratteristica del realismo: possiedono un’essenza. Ovverosia, se si conosce il numero atomico (non il peso atomico), si può predire la maggior parte di ciò che hai bisogno di sapere su un elemento: il punto di fusione, la densità, le possibilità di combinazione con altri elementi, etc. Un utile metafora per definire “essenza” è il livello di conoscenza scientifica che puoi raggiungere, sapendo che ti dice la maggior parte di quello che vuoi sapere su un particolare oggetto di studio. Per gli elementi tale livello è il numero atomico. Vi sono tre grandi teorie sulla natura dei disturbi psichiatrici: realismo, pragmatismo e costruttivismo. Queste tre teorie possono essere disposte su una stessa dimensione, meglio definita come una scala di “realtà” NEWSLETTER Il secondo tipo di realismo, è rappresentato paradigmaticamente dalle specie in biologica. Le specie differiscono dagli elementi in quattro modi. In primo luogo hanno legami “fuzzy”. Le caratteristiche delle specie variano all’interno di un range, a volte la linea di demarcazione interspecie può diventare indistinta. I confini tra elementi sono invece netti. In secondo luogo l’esistenza delle specie è condizionale. Le specie che conosciamo esistono nella nostra biosfera e sono limitate nel tempo, esistono soltanto dal momento della loro apparizione all’estinzione. L’idrogeno invece è universale ed eterno. Terzo, le specie non hanno essenza, a differenza degli elementi. Non vi è una unica caratteristica che definisce un tricheco, un pettirosso o una drosofila. Quarto, non tutti gli elementi di una specie sono identici l’uno all’altro. Chiaramente il realismo di tipo biologico si adatta meglio ai disturbi psichiatrici. Essi sono più simili alle specie che agli elementi. Tuttavia entrambi i tipi di realismo hanno un aspetto critico: postulano l’esistenza di generi scientifici indipendenti dal nostro studio di essi. Ovvero sia che potremmo “scoprire” un disturbo psichico allo stesso modo in cui ora troviamo una specie di uccello tropicale mai osservata prima. Non “creiamo” disturbi ma li troviamo in natura. Pragmatismo Una descrizione generica di pragmatismo in psichiatria sarebbe questa: Lavorando come ricercatore o clinico, voglio solo predire e controllare alcune caratteristiche del mondo. Voglio una diagnosi psichiatrica che mi dica che trattamento devo usare, che predica il decorso della malattia e che ben correli con i biomarcatori. Che diavolo me ne importa di metafisiche e vaghe frasi filosofiche come “realtà indipendente dalla mente”? Il pragmatismo rifugge da speculazioni metafisiche ed è vicino ad una visione epistemica detta strumentalismo, che vede i concetti chiave della filosofia della scienza come “strumenti” con cui comprendere il mondo. In termini di senso comune lo strumentalismo valuta le categorie scientifiche a seconda se funzionano o no o se sono reali o no. Il pragmatismo è una posizione coerente, ragionevole e moderata che è stata articolata da Zachar. Come sarà più chiaro più avanti, il mio sforzo è diretto a trovare uno spazio adeguato per i disturbi psichiatrici a metà tra realismo e pragmatismo. Per ora vorrei focalizzarmi su un limite importante. Il pragmatismo, nella sua forma classica, non è ambizioso ed è riluttante nel riconoscere la soggiacente realtà dei disturbi psichiatrici. Questo per me è problematico. Per spiegare il perché, devo mettere in campo due problemi dell’approccio pragmatico che, nel complesso, non sono di natura filosofica. In primo luogo ho passato molti anni della mia vita ad occuparmi dei malati psichici e a parlare con le loro famiglie. Assumere un approccio pragmatico alla malattia psichiatrica (e al lacerante dolore che genera nei pazienti e nelle loro famiglie) al giorno d’oggi mi sembra non rispettoso, come se non stessi completamente riconoscendo la realtà della loro malattia. Questa posizione è, nella sua essenza, una posizione etica. Nell’arco della storia, molte culture non sono state capaci di riconoscere adeguatamente l’altro in chi soffre di una malattia Il pragmatismo rifugge da speculazioni metafisiche ed è vicino ad una visione epistemica detta strumentalismo, che vede i concetti chiave della filosofia della scienza come “strumenti” con cui comprendere il mondo. NEWSLETTER psichiatrica. E’ stato troppo facile negare la loro umanità, dire che non sono realmente malati. Continuo a sentire un dovere a replicare a questa posizione e sostenere la realtà della malattia mentale. In secondo luogo, sostengo con forza lo status della psichiatria come vera e propria disciplina biomedica, meritevole di rispetto e di maggiori fondi per le nostre attività cliniche e di ricerca. I chirurghi non perdono tempo a preoccuparsi della realtà dei calcoli renali, dell’appendicite o di un ematoma subdurale. Assumere un approccio pragmatico ci aiuta nel nostro dibattito con i colleghi medici e chirurghi su rispetto e risorse, colleghi spesso poco inclini a riconoscere gli oggetti di studio della psichiatria come reali? Nella mia visione scientifica, la mente è una parte del corpo e i suoi disturbi sono allo stesso modo reali. Sarebbe incoerente, o un’ammissione di una mancanza, guardare i disturbi psichiatrici come afferenti ad uno status diverso rispetto a disturbi più classicamente medici. In quanto difensori, nell’arena pubblica, del nostro campo di lavoro e dei nostri pazienti, difendere la realtà dei disturbi psichiatrici è importante. Costruttivismo Per la maggior parte dei ricercatori e dei clinici che lavorano in psichiatria il rivendicare la natura costruttivista dei disturbi psichiatrici è un “segno di sfida”, perché questa prospettiva è stata articolata negli scritti di antipsichiatria di T. Szasz, associata al tentativo di delegittimare il mio campo. Nel considerare oggettivamente il costruttivismo, dobbiamo fare un passo indietro rispetto alla nostra iniziale reazione difensiva. Cosa sono gli oggetti socialmente costruiti? Sono quelle cose fatte dagli uomini: euro, passaporti, cravatte e musica hip-hop. Dire che qualcosa è socialmente costruito non equivale a dire che non è “reale” in senso pratico. Ovverosia, avere dei soldi nel mio portafoglio mi permette di acquistare delle cose, e avere un passaporto americano mi permette di andare in Norvegia. Tuttavia dire che qualcosa è socialmente costruito, sarebbe a dire che non esisterebbe senza le attività e le convenzioni degli umani. Prima di affrontare la difficile questione se i disturbi psichiatrici siano costrutti sociali, permettetemi di affrontare un argomento più debole e forse meno controverso sul ruolo dei processi sociali nella costruzione dei disturbi psichiatrici. Considerate la storia dl Post Traumatic Stress Disorder (PTSD) nel DSM-III. Da tempo vengono riconosciute reazioni traumatiche alle barbarità della guerra. Ma la decisione di aggiungere il PTSD nel DSM-III è sorta da un complesso contesto storico che coinvolge la lega dei Veterani del Vietnam e importanti psichiatri americani coinvolti nella politica che credevano che i veterani non fossero adeguatamente riconosciuti e curati nelle loro sofferenze dallo stato che avevano servito. La storia sembra suggerire che la decisione di includere il PTSD, con i suoi criteri specifici, è stata influenzata dall’ambiente sociale e politico negli U.S. nei tardi anni ’70 associata con la guerra in Vietnam. Considerando un esempio più recente, Zachar ed io abbiamo ripercorso la storia dell’intenso dibattito dal DSM-III al DSM-5 sull’inclusione di un disturbo dell’umore legato al ciclo mestruale (PMDD). Dopo uno strenuo dibattito, spesso anche pubblico, il comitato per il DSM-III e DSM-IV hanno Per molti clinici e ricercatori il rivendicare la natura costruttivista dei disturbi psichiatrici è un “segno di sfida”, perché questa prospettiva è stata articolata negli scritti di antipsichiatria di T. Szasz NEWSLETTER deciso di escludere tali diagnosi dal manuale principale, includendole in un’appendice. Nel DSM-5 è invece stato incluso nel documento principale. Dopo aver dialogato con molti dei maggiori interpreti di questo dibattito, abbiamo concluso che le evidenze scientifiche che si sono andate accumulando hanno avuto un ruolo, ma ugualmente importanti sono stati due fattori sociali “esterni”. In primo luogo nel 2000 la U.S. Food and Drug Administration ha messo in commercio la fluoxetina, un popolare antidepressivo, con un nuovo nome per il trattamento del PMDD. Questo ha portato ad una evidente validazione esterna dell’entità diagnostica. In secondo luogo, per parafrasare un nostro colloquio: “Il femminismo è cambiato. La nuova generazione di femministe non si sentiva più così minacciata dalla diagnosi. Molte importanti riviste femminili hanno articoli sul PMDD. Se la dieta e gli esercizi di rilassamento non funzionano, è normale chiedere una visita al medico”. Potrei fare molti altri esempi. La mia esperienza spazia lungo molti anni e centinaia di ore di dibattiti (dal DSM-III al DSM-5) e mi ha disilluso dall’idea che si possa rivedere la nostra nosologia attraverso un processo “puramente” scientifico. Anche se non sono un antipsichiatra, sostenere che i fattori sociali non abbiano un ruolo sostanziale nel definire la nosologia non è una posizione sostenibile. In maniera critica, non sto dicendo che vi sono forze sociali che creano il PTSD e il PMDD. Piuttosto sostengo che vi siano forze sociali che influenzano il dibattito sul riconoscimento di questi disturbi nella nosologia ufficiale. Prima di essere in imbarazzo per questa questione, sarebbe salutare notare che in tutte le scienze hard sono presenti tali influenze. Hull ha documentato il lungo, acrimonioso e fortemente politicizzato dibattito sulla tassonomia ufficiale. Più recentemente, si è svolto un dramma nel definire un pianeta nella Internetional Astronomical Union. Il dibattito, che si è concluso con il down-grading di Plutone a “pianeta nano”, ricorda in modo inquietante alcuni moderni dibattiti nosologici in psichiatria. Torniamo al cuore della domanda sulla realtà dei costrutti sociali nei disturbi psichiatrici. Consideriamo l’epidemia nei ’90 in America del disturbo da personalità multipla (MPD), che è stato spesso accompagnato da memorie rimosse di bizzarri rituali di abusi sessuali. Anche se non posso rendere giustizia in questo testo della complessità della storia, vi sono buone ragioni per sostenere che una parte di questi individui soffrisse di disturbi iatrogeni – ovverosia “costruiti” dalle aspettative del terapeuta. Non intendo sostenere che questi individui non fossero in qualche misura “disturbati” nel momento in cui hanno cercato un trattamento. Piuttosto che la maggior parte, quando non tutti i casi di MPD e le loro memorie “recuperate” erano costruiti dalla relazione paziente-terapeuta. Un esempio analogo è quello dell’isteria ai tempi di Charcot a Parigi nel diciannovesimo secolo. Per compiacere il professore, i pazienti mettevano in scena l’esatta sequenza di sintomi per il pubblico. Nella nostra storia sono stati presenti disturbi psichiatrici costruiti socialmente. Tuttavia sostengo che questi casi, in cui i processi sociali non tracciavano qualcosa di vero del mondo, siano stati rari. Al contrario disturbi influenzati dalla società sono comuni, dal momento che i nostri processi nosologici tipicamente coinvolgono importanti elementi sociali e culturali. Non vogliamo che i nostri disturbi siano finzioni teoriche come (nella maggior parte dei casi) il MPD. Per disturbi come PTSD e PMDD, che Disturbi influenzati dalla società sono comuni, dal momento che i nostri processi nosologici tipicamente coinvolgono importanti elementi sociali e culturali. NEWSLETTER abbiamo imparato a riconoscere ad un certo punto della nostra storia, dovremmo di base credere che erano “là fuori” prima che imparassimo a vederli e li includessimo nella nosologia. Due ipotesi a sfavore del realismo per i disturbi psichiatrici Abbiamo concluso una breve rassegna delle tre posizioni tradizionali sulla natura metafisica dei disturbi psichiatrici: realismo, pragmatismo e costruttivismo. Vorrei ora complicare ulteriormente il quadro. Ad un primo sguardo il realismo appare il più interessante. L’orgoglio verso la nostra specialità ci porterebbe a sostenere la realtà dei nostri disturbi. Noi affrontiamo la sofferenza che essi arrecano a pazienti e famiglie. Cosa potrebbe meglio provare la loro realtà. Tuttavia vorrei contenere tale entusiasmo ripercorrendo due posizioni contro il realismo: induzione pessimistica e contingenza storica. Induzione pessimistica Il filosofo Kant ha articolato come segue l’essenza dell’induzione pessimista: “Tutte le credenze passate sulla natura sono state prima o poi dimostrate false”. Per essere maggiormente specifici, tutte le teorie scientifiche postulano l’esistenza di entità. Coerentemente, nel corso della storia delle scienze, nel momento in cui nuove teorie prendevano il posto delle vecchie, l’entità delle vecchie, spesso considerate reali, veniva abbandonata come se non esistesse affatto. Non insegniamo più l’etere in fisica, il flogisto in chimica, la teoria degli umori in medicina o psichiatria. Nel presente, guardando le teorie del passato ora falsificate, possiamo sostenere che tali entità non esistono, non sono, in alcun senso, reali. Se l’argomento dell’induzione pessimistica è vero – ovvero le teorie del passato sono state di solito disconfermate e i loro costituenti non esistono il buon senso ci suggerisce che sarà così anche in futuro. Ovverosia, guardando indietro dal futuro, i costrutti scientifici attuali saranno probabilmente considerati falsi e sostituiti. Tuttavia si potrebbe controbattere così: “Tutti gli scienziati del passato si erano sbagliati a proposito della validità delle loro teorie. Ma ora noi siamo nel giusto. Le entità alla base delle nostre teorie sono reali. La verità è nelle nostre mani”. Tale risposta tuttavia è implausibile e presuntuosa. L’induzione pessimistica è rilevante nel nostro modello di malattia psichiatrica perché abbiamo, nella storia della psichiatria, molte categorie diagnostiche che sono state usate e poi abbandonate. Si potrebbero fare molti esempi con facilità. In Esquirol possiamo trovare entità come: lipemania, demonomania, monomania. In Wernicke somatopsicosi e psicosi d’ansia. Il tardo Kraepelin proponeva l’utilizzo di parafrenia, che in effetti è stata in uso per alcuni decenni e poi abbandonata. Nel suo bel libro sui disturbi di personalità Schneider aveva molte categorie come lo “psicopatico fanatico” che non sono più usate. Nel ventesimo secolo Leonhard, un discepolo di Wernicke, ha proposto una nuova classificazione delle psicosi endogene usata poi da molti suoi seguaci che includeva Il realismo appare il più interessante. L’orgoglio verso la nostra specialità ci porterebbe a sostenere la realtà dei nostri disturbi. Noi affrontiamo la sofferenza che essi arrecano a pazienti e famiglie. Cosa potrebbe meglio provare la loro realtà? NEWSLETTER “catatonia paracinetica”, “parafrenia fonemica” e “ebefrenia insipida”. L’isteria è stata una categoria psichiatrica maggiore per molte decadi del diciannovesimo e ventesimo secolo, che ora è stata abbandonata. E potrei andare avanti. Ecco il punto. Considerati i numerosi sistemi diagnostici che si sono succeduti nel tempo, possiamo davvero sostenere che con il DSM-5 o l’ICD-10 abbiamo la verità in mano? Sembra implausibile. Se la storia ha qualche valore, è probabile che le nostre categorie saranno in futuro considerate false, o quantomeno subottimali. Tali problematiche sono in realtà all’ordine del giorno. Durante lo sviluppo del DSM-5, una delle proposte principali, poi non accettata, riguardava la cancellazione di 5 su 10 disturbi di personalità e un’altra la cancellazione dei sottotipi della schizofrenia. Contingenza storica Ho due argomenti sulla natura storicamente contingente delle categorie psichiatriche. La prima è un esperimento di pensiero. Immaginiamo di tornare indietro a diecimila anni fa e di ricominciare il percorso della civilizzazione umana, lo sviluppo di agricoltura, scrittura, scienza, medicina e infine della psichiatria. Ad un certo punto questa disciplina similpsichiatrica svilupperà un manuale diagnostico e noi lo leggeremo. Ripetiamo questo esperimento 100 volte e classifichiamo le risultanti categorie secondo il nostro DSM-5 e ICD-10. Cosa troveremo? L’intuizione (e quella dei tanti con cui ho condiviso questo esperimento) è che una importante proporzione delle diagnosi attuali non sarebbe rappresentata adeguatamente da questi manuali. A differenza degli elementi della tavola periodica, le nostre categorie non sarebbero scoperte in maniera coerente. Il secondo argomento è che l’attuale sistema diagnostico dipende da alcuni specifici eventi storici. Cosa sarebbe successo se Kraepelin fosse rimasto nel laboratorio di Wundt come avrebbe voluto e non avesse intrapreso la carriera psichiatrica. E se Wernicke, il solo vero competitor di Kraepelin nella Germania del ventesimo secolo non fosse morto in un incidente in bicicletta all’età di 52 anni nel 1905? E se a Spitzer fosse davvero interessata la psicoanalisi e non si fosse mai occupato di nosologia? Se nessuno di questi eventi fosse successo l’attuale nosologia sarebbe diversa. Questi due argomenti sono collegati tra loro. Se vi sono molti steps dal manifestarsi di un disturbo psichiatrico, alla sua classificazione ufficiale, e alcuni di questi step sono influenzati dalle contingenze storiche, riavvolgendo il nastro del tempo non avremmo ami la stessa nosologia. Quattro possibili modifiche della posizione realista nei disturbi psichiatrici In questa parte descrivo quattro modalità con cui la posizione realista può essere modificata e resa più credibile. Cluster omeostatico di proprietà Possiamo davvero sostenere che con il DSM-5 o l’ICD-10 abbiamo la verità in mano? Sembra implausibile. Se la storia ha qualche valore, è probabile che le nostre categorie saranno in futuro considerate false, o quantomeno subottimali. NEWSLETTER Vorrei ora espandere la questione della prevalenza del modello biologico sul modello chimico di realismo considerando il concetto di “cluster omeostatico di proprietà” proposto dal filosofo Boyd. Consideriamo cosa rende tale una specie biologica, dall’ecosistema alla fisiologia, dai processi di accoppiamento al rapporto predatore-preda, dall’alimentazione al DNA. Come detto prima, le proprietà di una specie non derivano da una essenza singola, ma da un cluster di proprietà che si collegano tra di loro in una modalità stabile nel tempo. Anche se abbiamo cercato la chiave dell’umanità comparando il genoma umano con quello di scimpanzé e gorilla è chiaro che vi sono centinaia di significative differenze genetiche, nessuna delle quali è definitiva. Nella nostra visione sui disturbi psichiatrici spesso utilizziamo un pensiero esistenzialista. Pensiamo a come insegniamo ai nostri interni i criteri della depressione maggiore. Di solito diciamo: “C’è questa entità che chiamiamo depressione maggiore. Può essere diagnosticata usando questo specifico set di sintomi e segni che sono manifestazioni del soggiacente stato di depressione”. E’ questo un buon modo di pensare alla natura dei disturbi psichiatrici? Dove, nel sistema mente-cervello possono esistere questi “fattori essenziali”? C’è un centro della depressione con un interruttore on-off? Non è più probabile che le nostre sindromi psichiatriche sorgano da network interconnessi che possono essere meglio capiti a livello della mente (es. sintomi di colpa che portano a idee di suicidio) o del cervello (es. un alterato sistema del reward produce anedonia che impatta su sistemi appetitivi producendo una diminuzione dell’appetito)? I disturbi psichiatrici possono essere compresi come sindromi che sorgono da alterazioni in network di mente e cervello piuttosto che entità che esistono in un luogo definito nella mente e nel cervello. I cluster omeostatici di proprietà ci permettono di “ammorbidire” l’insostenibile domanda sulla vera “essenza” dei disturbi psichiatrici nei modelli realistici. Ci offre una forma di pattern emergenti. Ciò che rende unico ogni disturbo psichiatrico è un set di interazioni causali in una rete di sintomi, segni e psicopatologia corpo/mente. I cluster omeostatici di proprietà hanno anche implicazioni per quanto riguarda come dovremmo capire la interrelazione tra i sintomi ed i segni nei disturbi psichiatrici. Come proposto da Borsboom e colleghi potrebbe essere più accurato ipotizzare una relazione causale diretta tra sintomi (l’insonnia causa difficoltà dell’attenzione, la colpa causa ideazione suicidaria) che ipotizzare che ogni sintomo sia il riflesso dell’essenza del disturbo. Mentre, al di là del mio compito, è chiaro che questo approccio ha prodotto importanti insight sulla natura dei disturbi psichiatrici. Una visione più limitata del realismo nei disturbi psichiatrici Possiamo ancora assumere un approccio maggiormente filosofico nel provare a sviluppare un modello basato sul realismo per i disturbi psichiatrici. Il mio approccio ritorna ai fondamentali – la natura della verità. La filosofia ha due principali teorie su cosa significa che qualcosa sia vero: una teoria della corrispondenza e una teoria della coerenza. La teoria della corrispondenza è ciò che ciascuno di noi pensa istintivamente quando diciamo che qualcosa è vero. La frase “Fuori Ciò che rende unico ogni disturbo psichiatrico è un set di interazioni causali in una rete di sintomi, segni e psicopatologia corpo/mente. NEWSLETTER piove” è vera se e solo se fiori piove. Ovvero la frase corrisponde a qualcosa nel mondo che possiamo facilmente verificare, in questo caso guardando fuori dalla finestra. Sembra essere uno standard molto alto. Come potremmo applicare questo approccio alla frase “La schizofrenia, diagnosticata usando il DSM5 è un disturbo esistente”? Cosa corrisponderebbe a questa frase? Sarebbe abbastanza mostrare dei cambiamenti in delle immagini ottenute con risonanza magnetica, fattori di rischio genetici, o risposta di una medicina? E se volessimo essere meno richiedenti a noi stessi nel definire qualcosa vero? Un approccio più umile può essere trovato nella teoria della coerenza della verità. Questa teoria considera vero qualcosa che si adatta bene con le altre cose che conosciamo del mondo. Viene espresso nella seguente metafora: “Considera un tavolo con un puzzle quasi completo ma in cui manca un pezzo. Pensa alla soddisfazione che provi quando trovi il pezzo che con un “clic” si adatta perfettamente nello spazio vuoto”. Quel “clic” sarebbe la teoria della coerenza della verità. Quindi cosa intendiamo, usando questo approccio, nel dire che una diagnosi è vera (o reale)? Potremmo dire che è “sufficientemente ben” integrata con ciò che sappiamo dai database scientifici. In altre parole una diagnosi è reale nella misura in cui risulta coerente con ciò che già sappiamo empiricamente. D’altra parte applicare questa teoria alla psichiatria significa porsi la domanda: “Cosa intendiamo quando vogliamo dire che un concetto diagnostico (es. la moderna concezione di schizofrenia) è più reale di un altro (es. il concetto di follia nel diciannovesimo secolo)? Usando una teoria della coerenza la risposta è semplice. E’ più reale ciò che si collega meglio a ciò che già sappiamo. La teoria della coerenza ha un altro beneficio ancora più importante. L’altra parte interessante della metafora del puzzle è ciò che abbiamo chiamato validatori dai tempi di Robins e Guze. Le diagnosi migliori sono quelle che sono fortemente connesse con altre cose che già sappiamo, che sono “ben validate”. Per individui assegnati ad una classe diagnostica, seguiamo i pezzi che si connettono e vediamo quali altre cose impariamo su di essi – fattori di rischio genetici, suscettibilità premorbose, imaging, neurochimica, decorso, prognosi, trattamento etc… Man mano che un disturbo è maggiormente validato è più collegato alle nostre conoscenze di base e quindi, da una prospettiva di coerenza, più reale. La teoria della coerenza, quindi, ci offre uno schema per significare quello che intendiamo quando diciamo che qualcosa è “più vero”. Dovremmo richiedere che ogni cambiamento del nostro manuale diagnostico debba essere fatto quando la diagnosi diventa “più vera”, cioè più legata ai dati scientifici. Non voglio sottostimare la potenziale importanza di adottare una teoria coerente per le malattie psichiatriche, perché ha la sua base nelle nostre convenzionali idee di verità. Infatti muove la nostra idea di “verità” in una direzione eminentemente pragmatica. Possiamo ora fare un lavoro migliore applicandola in un modo più modesto e pratico, rispetto alla più ambiziosa teoria della corrispondenza. La teoria della coerenza, quindi, ci offre uno schema per significare quello che intendiamo quando diciamo che qualcosa è “più vero”. NEWSLETTER Tipi di disturbi psichiatrici versus tokens La discussione finora ha una evidente falla. Nel dibattere la questione “che cos’è un disturbo psichiatrico” abbiamo trattato i disturbi come se fossero una entità omogenea. Ovverosia che autismo, schizofrenia, dipendenza da nicotina, disturbo di personalità narcisistico, incubi, disturbo fittizio sono la stessa cosa. E’ plausibile? La filosofia ha una distinzione che può aiutarci: quella tra tipo e token. I tokens sono specifiche manifestazioni di una classe più generale, mentre i tipi sono la classe generale, che può avere differenti livelli. Quindi avremmo il tipo “automobili”, i sottotipi Ford, G; Volvo e BMW e i tokens ovverosia le singole macchine come la mia vecchia Volvo station Wagon scassata. Per analizzare ciò in termini psichiatrici potremmo dire che i disturbi psichiatrici siano i tipi, i sottotipi includerebbero i disturbi dell’umore e i disturbi psicotici e i tokens sarebbero i singoli disturbi: schizofrenia, disturbo da attacchi di panico, gioco d’azzardo. Sostengo che dovremmo dedicarci di più alla realtà dei tipi psichiatrici che dei tokens. Pensate alla contingenza storica. La probabilità che la nostra attuale categoria diagnostica del disturbo di personalità istrionica si presenti ogni volta che abbiamo riavvolto il nastro del tempo, più e più volte, mi sembra bassa. Se dovessi difendere il realismo dei disturbi psichiatrici, non avrei scelto di rendere disturbo di personalità istrionica il mio “exemplum”. Che dire quindi della stabilità su più "repliche" della storia umana dell’ampio concetto di disturbo di personalità? Che suona come una scommessa migliore per me. Prendete in considerazione l'argomento di induzione pessimista. Questo è l'argomento che, poiché le cose che abbiamo definito come vere in passato hanno dimostrato di essere false, lo stesso potrebbe accadere a quelle cose che accettiamo come vere e valide oggi. Tuttavia, mentre le categorie diagnostiche specifiche vanno e vengono nel corso del tempo, è più probabile che alcuni costrutti ampi - come neurosviluppo, internalizzazione o disturbi psicotici - supereranno la prova del tempo? L'estrema logica di questo sarebbe di applicare la nostra definizione di realtà nel più ampio tipo possibile: tutte le malattie psichiatriche. Questo argomento ha punti di forza importanti. Questa vasta categoria è molto meno vulnerabile all’induzione pessimista o all’argomento della contingenza storica. I disturbi psichiatrici specifici possono andare e venire, ma i fenomeni che ora descriviamo come disturbi psichiatrici sono probabilmente parte della condizione umana, ed esisteranno e saranno descritti in qualche modo da qualsiasi cultura umana nel corso di un periodo di tempo. Tuttavia, questo argomento non è una panacea e rischia una discesa nella spinosa questione delle "teorie unitarie sulle malattie psichiatriche". Per quanto riguarda l'impatto sulla sofferenza umana, e per la necessità di una cura clinica e la vitalità della nostra professione come un sub-disciplina della medicina, questo argomento è forte. Tuttavia, nelle stanze degli istituti di ricerca e nella maggior parte delle cliniche di cura, vogliamo continuare a suddividere i nostri pazienti, per quanto imperfettamente, nelle nostre categorie diagnostiche. I tokens sono specifiche manifestazioni di una classe più generale, mentre i tipi sono la classe generale Sostengo che dovremmo dedicarci di più alla realtà dei tipi psichiatrici che dei tokens NEWSLETTER Una prospettiva storica applicata a disturbi psichiatrici Fino ad ora, abbiamo una visuale del problema dei tipi psichiatrici da un punto di vista in gran parte statico in sezione trasversale. In questa sezione, voglio esplorare brevemente quello che potremmo imparare attraverso l'adozione di una prospettiva storica. La prenderò in prestito dal filosofo della scienza I. Lakatos. Come ha suggerito, i programmi di ricerca possono essere progressivi e degenerativi. Suggerisco che i concetti di diagnosi in medicina, in generale, e la psichiatria, in particolare, possono anche essere progressivi e degenerativi. Io definire "progressista" per i nostri scopi, come qualcosa che all’incirca "continua a produrre nuove intuizioni in eziologia, decorso e trattamento". Per la nostra discussione qui, voglio suggerire che, se i disturbi continuano a fornire nuovi insight, diventano più "reali". Ciò si riferisce direttamente alla nostra precedente discussione sulla teoria della coerenza della verità. Prendiamo, come esempio di una posizione diagnostica altamente generativa, la scissione della sindrome del diabete mellito in tipo 1 o insulino-dipendente, e tipo 2 o forme insulino-resistenti. Questa distinzione diagnostica si è dimostrato molto fertile, in quanto queste due forme di diabete mellito ormai hanno completamente differenti eziologie, diversi trattamenti e prognosi. Recenti studi di genetica molecolare hanno dimostrato insiemi non sovrapposti di geni di rischio per i due tipi. Chiaramente, questo è stato un programma diagnostico "progressista". Non credo che in psichiatria abbiamo alcuna storia di una felice secessione diagnostica in grado di competere con la storia diabete mellito. Tuttavia, ne abbiamo due che si avvicinano. Il concetto di Kraepelin di follia maniaco-depressiva includeva ciò che oggi chiamiamo depressione maggiore e disturbo bipolare. Per una serie di motivi, di cui alcuni hanno a che fare con scritti di Leonhard, la malattia bipolare è stata separata dalla depressione maggiore a metà del 20 ° secolo. Ora sappiamo che anche questo è stato un frazionamento diagnostico "progressista", che porta a cancellare le differenze di trattamento ed eziologia, compresi i risultati di genetica molecolare. La nostra altra storia di successo potrebbe essere quella che separa la vasta categoria di nevrosi d'ansia in disturbo di panico e disturbo d'ansia generalizzato (GAD). Questo è stato un risultato diretto di studi di D. Klein [31] utilizzando un metodo che ha definito "dissezione farmacologica". Ciò che differenziava pazienti con disturbo di panico da quelli con altre forme di ansia è stata una risposta rapida a una relativamente bassa dose di imipramina. Ora sappiamo che il disturbo di panico e GAD differiscono per significato e eziologia e, in qualche modo, nel loro trattamento farmacologico e psicoterapeutico. Cosa potremmo imparare sui tipi psichiatrici attraverso l'adozione di una prospettiva storica? NEWSLETTER Quindi, questa linea sperimentale di pensiero suggerisce un altro modo di pensare a come i nostri disturbi diventano più "reale". In una estensione storica della teoria della coerenza della verità, questi disturbi diventano reali, se nel corso del tempo "continuano a dare", fornendoci continue nuove intuizioni in eziologia e trattamento. Conclusioni In questa sezione finale, voglio descrivere l'evoluzione del mio pensiero rispetto a che cosa sono i disturbi psichiatrici. Come ho già detto, nei miei primi anni, da giovane psichiatra biologico, con lo scopo di verificare l'ipotesi della dopamina nella schizofrenia, sarei stato un irriflessivo realista a muso duro. Mai mi sarebbe venuto in mente che la schizofrenia non sia una cosa reale, reale come gli elementi della tavola periodica. Non la vedo più così. Ho letto troppa storia della psichiatria. Mi sono seduto in troppi incontri sul DSM. Mentre rimango impegnato per ragioni sia scientifiche sia personali alla realtà di disturbi psichiatrici, ho faticato a trovare un modo più accettabile per inquadrare quelle credenze. Il modello chimico di realismo scientifico non funziona per la psichiatria. I nostri disturbi non sono reali nello stesso modo in cui lo sono l'ossigeno e il carbonio - non nella nostra epoca storica e, probabilmente, mai. Essi sono per natura molto disordinati, il che non è sorprendente quando si confronta la complessità del sistema mente-cervello umano e gli atomi. Il modello biologico del realismo scientifico fornisce una misura molto più comoda per la psichiatria. Così, questo è un netto miglioramento. Ma allora dobbiamo affrontare la domanda sulle essenze. Il dibattito sui tipi di realismo e le essenze nelle scienze è lungo. Non credo che sia una posizione sostenibile per la psichiatria. Devo ammettere un'influenza autobiografica qui. E 'stato solo poco dopo il tempo in cui ero uno sfrontato psichiatra biologico e cercavo di trovare "la" causa neurochimica per la schizofrenia che ho deciso di trovare "il" gene per la schizofrenia, studiando grandi genomi ad alta densità in Irlanda. Entrambi gli sforzi sono stati guidati da una visione ingenua di schizofrenia che aveva una sola essenza - un segreto biologico che, se compreso avrebbe spiegato tutto quello che volevamo o avevamo bisogno di conoscere del disturbo. Studi di linkage avevano funzionato per la malattia di Huntington e per la fibrosi cistica. Perché non per la schizofrenia? Anche se sapevo alcune cose (il modello di schizofrenia nelle famiglie non era per niente simile a quello trovato per classiche malattie genetiche mendeliane), la passione mi portava a cercare la causa della schizofrenia. Se non un neurotrasmettitore, perché non un gene? Trent'anni dopo, abbiamo identificato oltre 100 geni di rischio per la schizofrenia e il numero è destinato a crescere rapidamente. Quante essenze! I nostri disturbi sono probabilmente intrinsecamente multifattoriali. In questo senso, essi non differiscono dal più importante dei nostri disturbi medici non infettivi, come ipertensione, diabete di tipo 2, malattia coronarica, o osteoporosi. Quindi, se lasciamo perdere l’idea che le Il modello chimico di realismo scientifico non funziona per la psichiatria. I nostri disturbi non sono reali nello stesso modo in cui lo sono l'ossigeno e il carbonio - non nella nostra epoca storica e, probabilmente, mai. Essi sono per natura molto disordinati, NEWSLETTER essenze siano il “nucleo roccioso” della psichiatria, cosa ci resta? Il quadro migliore che ho trovato sono le reti di interazione tra cause e sintomi come cluster di proprietà omeostatici di Boyd. La stabilità dei nostri disturbi lungo lo spazio e il tempo è una proprietà emergente del sistema mente-cervello umano - non il risultato di una essenza da cui tutti i sintomi e i segni si sviluppano. La posizione pragmatica verso i disturbi psichiatrici è perfettamente rispettabile. Può essere ben difesa e ha un forte richiamo di buon senso. In definitiva, la pratica della psichiatria è pragmatica. Tuttavia, per una serie di motivi, alcuni ben fondati e altri probabilmente meno, questa posizione non è sufficientemente ambiziosa per me. Ma, io sono chiaramente disposto a utilizzare strumenti pragmatici per raggiungere gli obiettivi realisti. Noi non dovremmo farci mettere all’angolo da chi sostiene che i processi sociali non giocano alcun ruolo nella costruzione delle nostre categorie. Questa non è una posizione difendibile. Non c'è da vergognarsi. Tutte le imprese scientifiche hanno componenti sociali. Suggerire che abbiamo potuto tenere la psichiatria immune da processi sociali non è realistico. Tuttavia, siamo in grado di difendere con forza la differenza tra influenza dei processi sociali nella nostra scienza e nella nosologia e disturbi socialmente creati. È quest'ultima categoria che dobbiamo controllare con attenzione. Se dovessi tenere un dibattito pubblico con un anti-psichiatra, non vorrei mettermi nella posizione di difendere la realtà di ogni categoria nel DSM-5 o ICD-10. Gli argomenti di induzione pessimista e contingenza storica sono troppo potenti per me per essere in grado di difendere con fiducia il nostro sistema attuale come "vero", in quanto molte delle nostre categorie diagnostiche sono modelli di lavoro provvisori che possono cambiare. Abbiamo molte ragioni per difendere la realtà delle grandi classi di malattie psichiatriche rispetto alle categorie specifiche nei nostri manuali diagnostici attuali. Uno dei compromessi fondamentali che sono disposto a fare con il pragmatismo è l'adozione della teoria della coerenza della verità come nostro modello di lavoro. Si tratta di un punto di vista meno ambizioso (i filosofi lo chiamano "sgonfio") della verità rispetto alla teoria della corrispondenza standard. Tuttavia, è una mossa utile. Se non possiamo aspettarci l’esistenza di essenze per i nostri disturbi, come possiamo definire esattamente la loro "realtà" in una teoria della corrispondenza? La teoria della coerenza della verità sembra adattarsi così bene nei nostri sforzi per la nostra scienza giovane. I nostri disturbi diventano più reali se si adattano meglio alla nostra conoscenza empirica emergente delle cause e delle conseguenze delle malattie psichiatriche. Come ho a lungo sostenuto, alla fine, è il backgroud dei nostri disturbi nella nostra scienza empirica (tramite validatori), che ci dà le maggiori probabilità di produrre categorie durevoli, valide e “vere”. Invece di pensare alla verità dei nostri disturbi come un concetto statico, potremmo prenderli in considerazione in un contesto storico. Visto da questa prospettiva, un vero e proprio disturbo è ciò che nel tempo diventa sempre più valido, spiega le cose per il mondo e per noi NEWSLETTER Invece di pensare alla verità dei nostri disturbi come un concetto statico, potremmo prenderli in considerazione in un contesto storico. Visto da questa prospettiva, un vero e proprio disturbo è ciò che nel tempo diventa sempre più valido, spiega le cose per il mondo e per noi e sempre più si adatta nella nostra visione del mondo. Questo approccio, che ha un chiaro "sapore" pragmatico, può essere visto come prendere la teoria della coerenza della verità e metterla in un quadro storico. In conclusione, vorrei sostenere una posizione realista "soft" per il disturbo psichiatrico - molto più vicina ad un realismo di base biologista e che ha elementi della posizione pragmatica. I nostri disturbi probabilmente non hanno essenze in senso classico, ma probabilmente la loro natura deriva da "reti" di cause, sintomi e segni, come postulato all'interno dei cluster di proprietà omeostatici. Dobbiamo ammorbidire la posizione realistica attraverso l'uso della teoria di coerenza storica. Il miglior antidoto a disposizione contro il potere dell'induzione pessimista e l’argomento di contingenza storica è quello di mettere più fiducia nei nostri tipi psichiatrici che i segni specifici della malattia psichiatrica che ora popolano i nostri manuali diagnostici. Nel nostro progetto per studiare e giustificare la natura dei disturbi psichiatrici, dovremmo essere in linea di massima pragmatici, ma non perdere di vista il nostro impegno nella dimostrazione della realtà della malattia psichiatrica. Bibliografia 1. Zachar P. The practical kinds model as a pragmatist theory of classification.Philosophy, Psychology and Psychiatry 2003;9:219-27. 2. Zachar P. A metaphysics of psychopathology. Cambridge: Massachusetts Institute of Technology, 2014. 3. Zachar P. Psychiatric disorders: natural kinds made by the world or practical kinds made by us? World Psychiatry 2015;14:288-90. 4. Szasz TS. The myth of mental illness: foundations of a theory of personal conduct. New York: Harper Perennial, 2010. 5. Scott WJ. PTSD in DSM-III – a case in the politics of diagnosis and disease. Soc Probl 1990;37:294-310. 6. Zachar P, Kendler KS. A diagnostic and statistical manual of mental disorders history of premenstrual dysphoric disorder. J Nerv Ment Dis 2014; 202:1-7. 7. Hull DL. Science as a process: an evolutionary account of the social and conceptual development of science. Chicago: University of Chicago Press, 1990. 8. Zachar P, Kendler KS. The removal of Pluto from the class of planets and homosexuality from the class of psychiatric disorders: a comparison. Philos Ethics Humanit Med 2012;7:4. 9. McHugh PR. Try to remember: psychiatry’s clash over meaning, memory, and mind. New York: Dana Press, 2008. 10. Hacking I. Rewriting the soul: multiple personality and the sciences ofmemory. Princeton: Princeton University Press, 1998. 11. Shorter E. A history of psychiatry: from the era of the asylum to the age of Prozac. New York: Wiley, 1997. 12. Kuhn TS. The trouble with the historical philosophy of science: Robert and Maurine Rothschild Distinguished Lecture, November 19, 1991. Cambridge: Department of the History of Science, Harvard University, 1992. Il miglior antidoto a disposizione contro il potere dell'induzione pessimista e l’argomento di contingenza storica è quello di mettere più fiducia nei nostri tipi psichiatrici che i segni specifici della malattia psichiatrica che ora popolano i nostri manuali diagnostici. NEWSLETTER 13. Esquirol JED. Mental maladies. A treatise on insanity. Philadelphia: Lea and Blanchard, 1845. 14. Wernicke C. Grundriss der Psychiatrie in Klinischen Vorlesungen. Leipzig: Thieme, 1894. 15. Kraepelin E. Dementia praecox and paraphrenia. Huntington: Krieger, 1971. 16. Schneider K. Psychopathic personalities. London: Cassell, 1958. 17. Leonhard K. The classification of endogenous psychoses. New York: Irvington, 1979. 18. Boyd R. Realism, antifoundationalism and the enthusiasm for natural kinds. 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Giorgio Ilari La considerazione - spesso sostenuta oggigiorno - che quelli che definiamo “disturbi mentali” siano delle mere astrazioni riconosciute convenzionalmente, che non necessariamente rispecchiano ciò che esiste nel real world, potrebbe essere male interpretata da molti psichiatri (rafforzando l’attuale frustrazione riguardante la propria reputazione professionale), da buona parte dei colleghi facenti parte della comunità medica (andando ad aumentare lo scetticismo nei confronti della nostra disciplina), dalla gente comune (già sensibilizzata sull’argomento dai recenti dibattiti successivi alla pubblicazione del DSM-5), dai pazienti psichiatrici e dalle persone che si prendono cura di loro (questi ultimi infatti dissuadono sempre più i pazienti dal cercare il nostro aiuto e dal seguire le indicazioni da noi fornite). Il primo problema, seppur non unico, è che la differenza tra tale posizione (che ammette l’esistenza dei disturbi mentali, ma anche i limiti delle correnti categorie diagnostiche) e la teoria “costruttivista” di Szasz e di altri (secondo la quale la categorizzazione diagnostica attuale è solo una finzione, o un mito, per cui la cosiddetta malattia mentale addirittura non esisterebbe, se non come metafora) non è di facile comprensione se non si possiedono delle basi di cultura filosofica. Più semplice da cogliere, oltre che meno distruttivo, è il concetto che molte di quelle condizioni che definiamo “malattie mentali”, anche se non si configurano, in un determinato momento, come vere e proprie “entità patologiche”, sono comunque dei modelli, definibili sulla base di manifestazioni obiettivamente osservate e sintomi riportati, con i quali i clinici esperti hanno acquisito familiarità nel corso di decenni di professione, in molteplici contesti clinici e nella società (anche ponendo particolare attenzione alla frequente concomitanza di più diagnosi ed alla presenza di forme intermedie o sottosoglia); si tratta di condizioni cliniche che vengono gestite e trattate con un certo grado di successo, sebbene non perfettamente ottimale, che ad ogni modo è paragonabile a quello che molte altre branche della medicina hanno raggiunto rispetto alle patologie di cui si occupano. E’ certamente un dato di fatto che molte concettualizzazioni diagnostiche in psichiatria sono cambiate, in una certa misura, nel corso degli anni e che alcune di esse sono nel frattempo scomparse. In aggiunta a ciò, diverse categorie diagnostiche sono state frammentate o, al contrario, raggruppate, seguendo dei razionali discutibili. C’è però certamente molto margine di miglioramento nella nostra pratica clinica. In ogni caso, non riesco ad intravedere differenze così sostanziali in termini di storia e di categorizzazione attuale, per esempio, tra il disturbo mentale che chiamiamo “depressione” e l’affezione non-psichiatrica definita “emicrania”. Entrambe si caratterizzano come malattie sindromiche, e I disturbi mentali sono delle astrazioni arbitrarie? Il concetto dei “modelli” di patologie psichiatriche NEWSLETTER vengono riconosciute essenzialmente in base a ciò che il paziente riporta; l’una e l’altra hanno una patogenesi poco chiara ma sicuramente eterogenea; per ambedue si sono avvicendate numerose classificazioni e molteplici suddivisioni in sottocategorie nel corso delle ultime decadi; tutte e due, infine, si possono esprimere in modalità cliniche disparate, per esempio presentandosi in forme fruste o con manifestazioni dai confini diagnostici sfumati. Non credo nemmeno che, se tornassimo indietro nel tempo a diecimila anni fa e lasciassimo che la specie umana si sviluppasse di nuovo – come K. Kendler propone proprio in questo numero del giornale1 immaginando idealmente un simile esperimento – la depressione avrebbe meno probabilità di svilupparsi e, di conseguenza, di essere riconosciuta, rispetto all’emicrania (a meno che, naturalmente, la natura stessa dell’essere umano non fosse totalmente diversa). La verità è che il progetto avviato all’inizio degli anni ’80, che aveva l’ambizione di validare le categorie del DSM-III spiegandone per ognuna la specifica eziopatogenesi sottostante2, sembra essere naufragato; nonostante ciò, il quadro che è gradualmente emerso durante gli ultimi 35 anni testimonia di per sé un progresso scientifico notevole nel campo, che non è stato ostacolato, di fatto, dall’utilizzo del DSM-III e dalle successive versioni. Sappiamo oggi che l’eziopatogenesi della maggioranza, o verosimilmente di tutte le forme di patologia mentale è davvero complessa, e dipende dall’interazione di una molteplicità di elementi di tipo biologico, intrapsichico, interpersonale e socioculturale. Siamo anche coscienti del fatto che parecchi di questi fattori non hanno a che fare unicamente con le singole categorie del DSM o dell’ICD. Questa complessità non è dovuta, come frequentemente viene dichiarato, al fatto che il cervello è l’organo più complesso che possediamo; è più determinante il fatto che i disturbi mentali non sono meramente delle “malattie del cervello”, quanto piuttosto condizioni che derivano dall’interazione tra il cervello, organo certamente complesso, e il sistema, forse ancor più articolato, delle relazioni interpersonali in cui tutti noi siamo immersi. Per alcune tipologie di disturbo mentale, come i disturbi alimentari, il ruolo dei fattori socioculturali nel modellamento degli specifici aspetti psicopatologici è già chiaro; anche per altre condizioni, tuttavia, quali i disturbi psicotici, potrebbe esserci uno scollamento tra i meccanismi neurobiologici che solitamente descriviamo ed il livello in cui la corrispondente identità psicopatologica si esprime. Perciò sarebbe ingannevole dare per assodato che tali quadri clinici debbano trovare una totale “spiegazione” ad un livello neurobiologico, pretesa questa che ci farebbe sentire sconfitti o ci spingerebbe a denigrare la nostra disciplina; il modello dei cosiddetti “processi di ordine superiore” 3 che si combinano nel dare forma a tali condizioni patologiche potrebbe invece essere davvero adatto (vedi, a questo proposito, Howes e Nour4 in questo numero del giornale). Oltretutto, all’interno del limitato numero di patologie mentali che l’essere umano esprime, molteplici distinti fattori neurobiologici possono avere un ruolo per il singolo disturbo, ma allo stesso tempo uno stesso fattore neurobiologico può essere implicato in diversi disturbi. Non sono poi entusiasta della distinzione tra “utilità” e “validità” delle diagnosi psichiatriche. Attualmente c’è una estesa sovrapposizione tra ciò che definiamo “utilità” e quella che siamo soliti indicare come “validità predittiva”. Ponendo che l’utilità di una entità diagnostica consiste nella capacità di predire il decorso del disturbo e la risposta ai trattamenti, è chiaro che l’accertamento di tale utilità non può non essere parte integrante del processo di “validazione” secondo Robins e Complessità dell’eziopatogenesi delle malattie mentali : interazione di elementi biologici, psicologici, interpersonali e socioculturali NEWSLETTER Guze 5. Ciò va tenuto nella dovuta considerazione in quanto, anche se il tentativo di validare le nostre attuali categorie diagnostiche sviscerando la specifica eziopatogenesi sottostante non ha avuto successo2, altre parti del procedimento di validazione sopra citato potrebbero avere avuto una migliore riuscita, anche se potrebbero richiedere degli aggiustamenti. Diversamente, l’intera ricerca clinica degli ultimi 35 anni finirebbe cestinata, cosa che sarebbe probabilmente un errore. D’altra parte, dobbiamo distinguere tra l’“utilità” di una data categoria diagnostica e l’ “utilità” di un intero sistema diagnostico. Il DSM e l’ICD forse non sono sufficientemente “fruibili” nella pratica clinica quotidiana, per il fatto che alcune loro caratteristiche ne scoraggiano l’uso da parte dei clinici. Alcune evidenze6 ci indicano che una parte considerevole degli psichiatri di qualsiasi parte del mondo non fanno riferimento ai sistemi diagnostici ufficiali nella loro attività quotidiana, o li utilizzano piuttosto solo come “strumenti di codifica” (i.e., usano i codici dell’ICD per la registrazione a livello delle cartelle cliniche o per altre simili esigenze, ma non hanno presente, nel momento in cui si servono di questi codici, le relative parti descrittive dell’ICD, o magari non le hanno mai nemmeno lette). Rispetto a ciò, di certo bisognerebbe fare qualcosa, e in parte qualche passo in avanti è già stato compiuto7. Credo che gli psichiatri di tutto il mondo, insieme con tutte le persone che con loro interagiscono quotidianamente (ovvero i colleghi di altri settori della medicina, gli altri professionisti della salute mentale, gli amministratori, i giornalisti, i pazienti e le persone che si prendono cura di loro, gli specializzandi e gli studenti) hanno bisogno di coordinate concettuali che ammettano esplicitamente la complessità di cui ho parlato prima e le eccessive semplificazioni che sono state operate, evitando di cedere ad un eccessivo pessimismo, atteggiamento che potrebbe avere dei risvolti devastanti. I disturbi mentali forse non sono solo delle “entità di malattia” in senso strettamente filosofico, al contrario la gran parte di essi sono di sicuro tutt’altro che finzioni teoriche. Sono dei modelli riconducibili a manifestazioni obiettivamente osservate ed a sintomi riportati, che gli psichiatri esperti sono in grado di riconoscere e trattare, spesso con successo, nei contesti clinici e, più diffusamente, all’interno della comunità. Proprio perché non disponiamo di esami di laboratorio su cui basare le nostre diagnosi, è indispensabile che gli psichiatri siano dei clinici davvero capaci; possiamo quindi affermare che in psichiatria l’alto livello di preparazione clinica è più importante rispetto ad altri campi della medicina. Non si può dire che negli ultimi 35 anni in psichiatria non si siano registrati dei progressi dal punto di vista della ricerca eziologica, tutt’altro: abbiamo appreso che la patogenesi della maggior parte dei disturbi mentali è molto complessa, e che si intreccia con una molteplicità di fattori di ordine biologico, intrapsichico, interpersonale e socioculturale, che la ricerca sta gradualmente identificando e valutando. Non dobbiamo aspettarci delle spiegazioni semplici, anche se sarà necessario che i modelli complessi che emergeranno siano resi comprensibili per tutti i soggetti interessati che ho menzionato sopra. I meccanismi neurobiologici entrano in gioco probabilmente nella maggioranza o in tutti i disturbi mentali, ma l’identità psicopatologica di tali affezioni potrebbe manifestarsi ad un livello ancora superiore rispetto a quello dei circuiti cerebrali, per cui diviene di cruciale rilevanza la spiegazione dei processi di ordine-superiore che intervengono (per esempio di tipo psicologico, culturale). Da qui la necessità di mantenere aperto un dialogo tra le neuroscienze e altre discipline (antropologiche, Gli attuali sistemi diagnostici in psichiatria (DSM / ICD) sono scarsamente adoperati nella pratica clinica, trovando maggior utilizzo per esigenze amministrative E’ possibile che l’identità psicopatologica dei disturbi mentali si manifesti ad un piano superiore rispetto a quello dei circuiti cerebrali NEWSLETTER psicologiche, sociali) quando indaghiamo la patogenesi di quelli che dovremmo probabilmente abituarci a concepire, come Kraepelin8 nel suo ultimo periodo li definirebbe, quali “modelli di disturbi mentali”. Bibliografia 1. Kendler KS. World Psychiatry 2016;15:5-12. 2. Kupfer DJ, First MB, Regier DE. Introduction. In: Kupfer DJ, First MB, Regier DE (eds). A research agenda for DSM-V. Washington: American Psychiatric Association, 2002:xv-xxiii. 3. Kendler KS. Am J Psychiatry 2005;162:433-40. 4. Howes OD, Nour MM. World Psychiatry 2016;15:3-4. 5. Robins E, Guze SD. Am J Psychiatry 1970;126:983-7. 6. Reed GM, Mendonc ̧a Correia J, Esparza P et al. World Psychiatry 2011;10: 118-31. 7. First MB, Reed GM, Hyman SE et al. World Psychiatry 2015;14:82-90. 8. Kraepelin E. Patterns of mental disorder. In: Hirsch SR, Shepherd M (eds). Themes and variations in European psychiatry. Bristol: Wright, 1974/1920:7-30. NEWSLETTER Lisa B. Dixon, Yael Holoshitz, Ilana Nossel Treatment engagement of individuals experiencing mental illness: review and update World Psychiatry 2016;15:13–20 Traduzione a cura della Dott.ssa Cristiana Gagliardone Abstract Individuals living with serious mental illness are often difficult to engage in ongoing treatment, with high dropout rates. Poor engagement may lead to worse clinical outcomes, with symptom relapse and rehospitalization. Numerous variables may affect level of treatment engagement, including therapeutic alliance, accessibility of care, and a client’s trust that the treatment will address his/her own unique goals. As such, we have found that the concept of recovery-oriented care, which prioritizes autonomy, empowerment and respect for the person receiving services, is a helpful framework in which to view tools and techniques to enhance treatment engagement. Specifically, person-centered care, including shared decision making, is a treatment approach that focuses on an individual’s unique goals and life circumstances. Use of personcentered care in mental health treatment models has promising outcomes for engagement. Particular populations of people have historically been difficult to engage, such as young adults experiencing a first episode of psychosis, individuals with coexisting psychotic and substance use disorders, and those who are homeless. We review these populations and outline how various evidence-based, recovery-oriented treatment techniques have been shown to enhance engagement. Our review then turns to emerging treatment strategies that may improve engagement. We focus on use of electronics and Internet, involvement of peer providers in mental health treatment, and incorporation of the Cultural Formulation Interview to provide culturally competent, person-centered care. Treatment engagement is complex and multifaceted, but optimizing recovery-oriented skills and attitudes is essential in delivery of services to those with serious mental illness. È spesso difficile che i soggetti con gravi disturbi mentali partecipino attivamente a una terapia in corso e l’abbandono (dropout) è altrettanto comune. Da entrambi questi sondaggi, l’U.S. National Comorbidity Survey e l’Epidemiologic Catchment Area Survey, è emerso che fino alla metà dei soggetti con disturbi mentali gravi non ha ricevuto trattamento per la salute mentale nell’anno precedente. Lo scarso livello di coinvolgimento può portare a esacerbazione dei sintomi, reospedalizzazione ed un utilzzo solo parizale dei potenziali benefici del trattamento. Poiché sono numerosi i fattori che contribuiscono a mantenere l’impegno e la volontà di una persona a partecipare a un trattamento o ne determinano l’abbandono, la sfida è evidenziare gli elementi chiave per migliorare il coinvolgimento. Il disinteresse può essere dovuto a problematiche inerenti Da due sondaggi, l’U.S. National Comorbidity Survey e l’Epidemiologic Catchment Area Survey, è emerso che fino alla metà dei soggetti con disturbi mentali gravi non ha ricevuto trattamento per la salute mentale nell’anno precedente. NEWSLETTER l’utilità (le persone sentono che il trattamento non sta funzionando), l’atteggiamento (le persone si sentono sfiduciate o obbligate) o ragioni pratiche (può essere difficile ricevere il trattamento o programmare gli appuntamenti). Non esiste un approccio standard, poiché il coinvolgimento dipende dalla personalità del singolo, dagli eventi e dalle circostanze sociali di ciascuno e dalla gravità del sintomo. Per aumentare il livello di partecipazione nella maniera più efficace, si può ricorrere all’impiego di tecniche che considerino senza eccezione tutti questi blocchi. In questo studio sono illustrati sistemi innovativi per il trattamento della salute mentale, sia pratici che teorici, che si sono dimostrati efficaci nel migliorare il coinvolgimento. Abbiamo riscontrato l’utilità di osservare tecniche e strumenti per l’incremento del livello di partecipazione all’interno di una struttura di “assistenza orientate alla recovery”. La recovery, secondo la definizione della Substance Abuse and Mental Health and Services Administration (SAMHSA – Amministrazione Servizi Abuso di Sostanze e Salute Mentale) degli Stati Uniti è “un processo di cambiamento attraverso il quale gli individui migliorano salute e benessere, vivono in maniera consapevole e ambiscono a raggiungere la piena espressione delle proprie potenzialità”. 3 Il movimento che promuove la recovery incarna un cambiamento di approccio clinico sviluppatosi nel corso degli ultimi anni; il report della New Freedom Commission del Presidente raccomanda che l’assistenza per la salute mentale sia orientata alla recovery, condotta dal paziente e dalla famiglia. 4 Quattro dimensioni della pratica recovery-oriented promuovono cittadinanza attiva, impegno, supporto a obiettivi personali e una forte relazione professionale. 5 Gli approcci che descriviamo di seguito sono tutti validi sistemi per incrementare la partecipazione in soggetti con disturbi mentali gravi, se si segue un approccio recoveryoriented. Un aspetto molto importante di un'assistenza recovery-oriented è assumere come prioritarie l'autonomia, la responsabilizzazione e il rispetto per il paziente in cura. 6,7 In questo senso, evidenziamo i fattori che possono migliorare l'esperienza del trattamento per la salute mentale e la speranza di guarigione di un paziente. Sono analizzati i fattori cruciali per l'alleanza terapeutica, la decisione condivisa e l'assistenza incentrata sulla persona in relazione al coinvolgimento nel trattamento. Poi sono discussi come questi siano stati applicati su alcune popolazioni considerate “restie al coinvolgimento” e come differenti pratiche recovery-oriented abbiano dato miglioramenti. Ci si è dunque concentrati su alcune specifiche pratiche e sui miglioramenti che è possibile ottenere includendole in un modello terapeutico. In conclusione si presentano le difficoltà di coinvolgimento da parte di chi ha in carico il paziente e su come queste possano essere indirizzate nel contesto in continua evoluzione delle strutture che prestano servizi per la salute mentale. COMPORTAMENTI E FOCUS INTERPERSONALE L’alleanza terapeutica Nella sua analisi qualitativa su giovani adulti sottoposti a terapia per una prima manifestazione di psicosi, la dottoressa Stewart 8 sostiene che la qualità della relazioni che si sviluppa nel processo terapeutico tra chi presta e chi riceve assistenza può giocare un ruolo importante nel determinare un successo in termini di coinvolgimento. L'alleanza è uno degli aspetti delle relazioni terapeutiche studiata a livello Non esiste un approccio standard, poiché il coinvolgimento dipende dalla personalità del singolo, dagli eventi e dalle circostanze sociali di ciascuno e dalla gravità del sintomo. .Per aumentare il livello di partecipazione nella maniera più efficace, si può ricorrere all’impiego di tecniche che considerino senza eccezione tutti questi blocchi. NEWSLETTER empirico e viene descritta come l'abilità dinamica a un lavoro comune per la risoluzione del problema fondata su tre elementi: obiettivi, attività e legame. È considerata un affidabile predittore di outcome positivo nella psicoterapia 9. Si è inoltre riscontrato che l'alleanza ha un ruolo importante in individui con disturbi mentali gravi. Frank and Gunderson 10 hanno studiato il funzionamento dell'alleanza terapeutica nei pazienti che ricevono il trattamento per schizofrenia, scoprendo che i soggetti in grado di stabilire una buona alleanza con i loro terapeuti nei primi 6 mesi di cura avevano maggiori probabilità di non abbandonare la cura e di seguire le cure farmacologiche, con un outcome a 2 anni migliore. Nei soggetti al primo episodio di psicosi, Melau et al hanno analizzato la correlazione tra alleanza terapeutica e outcome clinici e funzionali, concludendo che un'alleanza forte dall'inizio può essere un prerequisito per l'adesione a servizi specializzati per i primi episodi di psicosi, creando le basi per un trattamento con outcome positivo. 11 Dato il ruolo importante che l'alleanza terapeutica sembra avere sull' outcome clinico e sul coinvolgimento, è fondamentale individuare quali siano gli elementi modificabili che predicono una buona alleanza terapeutica nei pazienti restii a partecipare. In uno studio su pazienti con schizofrenia e disturbo schizo-affettivo, l'orientamento definibile recoveryoriented da parte del clinico e maggiori livelli di comprensione da parte del paziente si sono rivelati predittori indipendenti dell'alleanza terapeutica. Curiosamente, gravità di sintomi clinici, stile di attaccamento, età e durata del trattamento non erano legati alla qualità dell'alleanza. 12 Questo studio mostra che, almeno a certi livelli, l'alleanza può essere migliorata dall'impegno del clinico in una cura recoveryoriented. Considerata l'importanza dell'alleanza terapeutica nell'influenzare la partecipazione alla cura, la relazione tra l'orientamento e l'alleanza dei clinici, è fondamentale per chi presta assistenza Assistenza incentrata sulla persona Il concetto di assistenza incentrata sulla persona si sta diffondendo sempre di più nel panorama di assistenza per la salute mentale in continua evoluzione. 13 Tale concetto non ha un’unica definizione operativa o un sistema di valutazione standard. La seguente descrizione di assistenza incentrata sulla persona nel contesto di servizi per la salute mentale è particolarmente convincente e rappresenta una buona base per la discussione a seguire: “un approccio onnicompresivo per comprendere e rispondere a ogni soggetto e alla sua famiglia nel contesto della loro storia, dei loro bisogni, dei punti di forza, dei loro sogni e delle speranze di recupero, della loro cultura e spiritualità… assessment, piani di recovery, servizi e supporto e risultati in termini di qualità della vita sono tutti realizzati su misura per rispettare le singole preferenze, punti di forza, debolezze (compresa la storia del trauma) e la dignità del singolo nella sua interezza”. 13 Si stabilisce di concerto l’impegno a includere nel programma terapeutico la cultura, il contesto e gli obiettivi immediati propri del singolo. I servizi per la salute mentale che integrano gli elementi che sono indirizzati ai bisogni immediati del singolo possono migliorare la partecipazione. 14-16 Per esempio, la casa e le condizioni economiche sono due potenti cause di stress significativo che può ledere sul benessere di una persona. Rivolgendosi a queste barriere come componenti specifiche dell’assistenza clinica si aumenta il coinvolgimento, sia direttamente che indirettamente. L’alleanza terapeutica è considerata un affidabile predittore di outcome positivo nella psicoterapia e ha un ruolo importante in individui con disturbi mentali gravi. NEWSLETTER Se un paziente ha casa e condizioni economiche stabili, lui/lei potrebbe avere meno barriere effettive ad iniziare il programma di appuntamenti terapeutici. Un modo più indiretto per trattare queste componenti da parte del sistema sanitario potrebbe essere che il soggetto ricevente il trattamento si senta aiutato, migliorando la fiducia nel sistema, costruendo un’alleanza e ponendo le basi per un lavoro terapeutico futuro. Un percorso di decisione condivisa (shared decision making) può essere visto come un approccio utile a un’assistenza incentrata sulla persona. Al contrario di modelli di assistenza più consolidati, il percorso di decisione condivisa è un processo collaborativo, dinamico e interattivo tra due soggetti egualmente coinvolti. In questo modello, clinico e paziente partecipano entrambi allo scambio di informazioni che conduce a una decisione congiunta per il trattamento. 17 Nel corso dell’ultimo decennio, questo approccio all’assistenza clinica ha ottenuto un certo seguito, anche se molti degli studi che esaminano la sua efficacia sono stati effettuati su soggetti non psichiatrici. Sebbene molti studi abbiano attestato l’efficacia del percorso di decisione condivisa nei pazienti con disturbi mentali gravi, chi presta assistenza potrebbe preoccuparsi che la capacità decisionale dei pazienti sia debole e pertanto che il percorso di decisione condivisa sia da utilizzare meno in questi casi. 18 Considerato che un tema ricorrente nelle analisi di casi con successo di partecipazione è che il soggetto partecipante senta che sono presi in considerazione i suoi obiettivi, i suoi desideri e la sua situazione di vita, è ragionevole affermare che una maggiore propensione alla decisione condivisa possa migliorare il coinvolgimento nel percorso terapeutico. Nell’ambito di uno studio trasversale su quasi 900 pazienti ambulatoriali con disturbi mentali, nei racconti dei pazienti la decisione condivisa ha presentato lacune significative. La maggior parte dei partecipanti allo studio ha affermato che i medici non volevano conoscere il livello di coinvolgimento da loro desiderato nella decisione condivisa né le loro preferenze. 17 Nei soggetti che hanno riportato livelli più alti di decisione condivisa si è riscontrata la tendenza a un atteggiamento più positivo verso l’assunzione di medicine e una maggiore auto-efficacia (selfefficacy). Anche se la casualità non è definibile, si può ipotizzare che se una persona si sente coinvolta nel processo di decisione condivisa, è più probabile che lui/lei si senta positivo/a rispetto alle eventuali opzioni del trattamento. Inoltre, l’auto-efficacia in sé è stata associata a un miglior outcome clinico. Il più importante risultato nel percorso di decisione condivisa potrebbe non essere il momento di decisione vera e propria, ma, piuttosto, il processo che intercorre tra paziente e chi presta assistenza. Uno spazio di osservazione aperto e scevro da giudizi consente di costruire fiducia e idealmente apporta un miglioramento di partecipazione al trattamento. Non tutti i pazienti, sia in assistenza psichiatrica che non, ambiscono ad essere molto coinvolti nelle decisioni che riguardano il trattamento. Se si comprende questo, è possibile accompagnare il trattamento e la creazione di supporti alla decisione condivisa. Nei pazienti con schizofrenia è stata riscontrata una chiara correlazione tra la soddisfazione alla terapia e il grado di partecipazione desiderato dai pazienti nel percorso medico di decisione condivisa. Coloro che si sentivano costretti a sottoporsi al trattamento o presentavano una maggiore insoddisfazione al trattamento (la percezione di un minor grado di correttezza e pessime esperienze farmacologiche) hanno affermato di desiderare un maggior coinvolgimento nelle scelte inerenti al trattamento. Al contrario, coloro che erano convinti di avere bisogno di Assistenza incentrata sulla persona “un approccio onnicompresivo per comprendere e rispondere a ogni soggetto e alla sua famiglia nel contesto della loro storia, dei loro bisogni, dei punti di forza, dei loro sogni e delle speranze di recupero, della loro cultura e spiritualità… assessment, piani di recovery, servizi e supporto e risultati in termini di qualità della vita sono tutti realizzati su misura per rispettare le singole preferenze, punti di forza, debolezze (compresa la storia del trauma) e la dignità del singolo nella sua interezza” NEWSLETTER farmaci ed esprimevano una grande soddisfazione presentavano un bisogno inferiore di partecipazione al percorso medico di decisioni condivise. 19 In uno studio sui pazienti cronici con disturbi mentali gravi, una maggiore preferenza a partecipare alle decisioni condivise è stata rilevata in soggetti afro-americani, che lavoravano per il salario, avevano frequentato il college o avevano un’istruzione superiore, non avevano una diagnosi di schizofrenia e avevano una scarsa relazione terapeutica con chi prestava loro assistenza. 20 Lo studio ha notato che le preferenze riguardo alle decisioni condivise cambiano nel tempo e che una costante valutazione della condizione del paziente durante il percorso è un aspetto importante per una buona assistenza clinica. Strumenti decisionali elettronici possono essere utili a implementare la decisione condivisa nel contesto del trattamento. Uno studio ha preso in esame l’utilità dell’inserimento di strumentazione per la decisione condivisa basata su strumenti informatizzati collocati all’interno della sala di aspetto di una clinica per la salute mentale, che accoglieva pazienti con disturbi mentali gravi. I soggetti partecipanti utilizzavano lo strumento prima dell’appuntamento dal medico, generando un documento scritto che sottolineava ogni conflitto decisionale che dovevano affrontare con il clinico. I partecipanti trovavano questo sistema utile a chiarire i propri dilemmi, consentendo loro di portare in luce temi e di organizzare i propri pensieri. 21 Sono stati sviluppati altri strumenti per la decisione condivisa e in generale sono stati accettati sia dai pazienti sia dai clinici. 22 POPOLAZIONI “DIFFICILI DA COINVOLGERE” Adesso prendiamo in esame la letteratura sul coinvolgimento nei soggetti che vivono per la prima volta un episodio psicotico, nei soggetti senza fissa dimora, e su coloro che presentano la combinazione di un grave disturbo mentale con quello associato all’uso di sostanze (doppia diagnosi). In queste popolazioni sono state utilizzate diverse strategie recovery-oriented per migliorarne il coinvolgimento. L'identificazione di queste strategie può aiutare i servizi di salute mentale nello strutturare i propri progetti indirizzandoli verso una massimizzazione del coinvolgimento nel trattamento. Primo episodio di psicosi La ricerca suggerisce che circa un terzo dei giovani adulti che vivono un episodio psicotico per la prima volta tende a ritardare di 1-3 anni il trattamento. Inoltre, l'80% abbandona entro il primo anno di cura. Questo alto tasso di abbandono mette in luce l’evidente difficoltà a coinvolgere i giovani nella cura. Sono state prese in considerazione molteplici cause per spiegare questo precoce dropout dal trattamento o per la mancanza di coinvolgimento, tra cui un’alleanza scarsa, la diffidenza verso il sistema e la scarsa comprensione sulla necessità di un trattamento. Inoltre, questo è il periodo della vita in cui avviene la separazione dalle figure autoritarie e si scoprono la propria individualità e la propria autonomia. La prematura conclusione del trattamento nei programmi relativi al primo episodio psicotico è stata collegata ad un decorso più cronico della malattia, ad una maggiore necessità di ricovero, ad un processo più lento di recupero e a livelli più alti di disabilità funzionale. 8 I programmi sul primo episodio psicotico portati avanti da team multidisciplinari composti da terapeuti e specialisti nel dare sostegno durante l’istruzione e nella ricerca in un'occupazione, hanno avuto successo a livello internazionale. 23,24 Questi programmi fanno sì che si acceda prima alle cure e ai servizi psicosociali intensivi, nel tentativo di ridurre la durata della psicosi non trattata, ridurre la gravità dei sintomi e Circa un terzo dei giovani adulti che vivono un episodio psicotico per la prima volta tende a ritardare di 1-3 anni il trattamento. Inoltre, l'80% abbandona entro il primo anno di cura. NEWSLETTER migliorare il recupero. 25 I programmi specializzati nel trattamento del primo episodio psicotico tendono ad avere un maggiore successo nel coinvolgere i giovani nella cura rispetto a quelli standard offerti dai servizi di salute mentale, facendo sì che i soggetti restino più a lungo all’interno del trattamento rispetto a quanto accade nelle comunità cliniche standard. 27 Sono state condotte alcune ricerche volte ad identificare quali particolari componenti di questi peculiari programmi di trattamento aumentino o diminuiscano il coinvolgimento. Molti dei programmi sul primo episodio psicotico sono volutamente collocati al di fuori delle tradizionali cliniche di salute mentale per adulti, poiché è stato dimostrato che queste realtà portano i giovani a provare un senso di alienazione e quindi al dropout dal trattamento. 28,29 Un forte coinvolgimento può essere correlato al fatto che si pone particolare attenzione al desiderio di un giovane di essere rispettato, sostenuto e compreso. Un’analisi qualitativa dei giovani adulti che sono stati coinvolti con successo nel trattamento ha evidenziato temi condivisi che sembrano aver promosso il coinvolgimento stesso. Ad esempio, nella fase di ospedalizzazione acuta, due fattori sono stati cruciali nel migliorare il coinvolgimento: il tempestivo intervento di un personale specializzato durante i primi episodi psicotici e lo sviluppo di relazioni positive con gli altri componenti dell’unità. Altri aspetti emersi tra quelli identificati come promotori del coinvolgimento sono stati la collaborazione, la comprensione razionale dei problemi e l’impegno a trovare soluzioni. Molti dei partecipanti hanno commentato negativamente l'esperienza avuta durante i loro ricoveri in strutture ospedaliere per adulti. Se questa esperienza negativa e spaventosa è la prima che un giovane adulto ha entrando in contatto con il mondo dei servizi di salute mentale, è evidente che siano necessarie delle strutture ambulatoriali esterne di supporto che permettano di migliorare il coinvolgimento. In un'analisi dei pazienti che hanno partecipato al programma di intervento precoce della RAISE Connection, è apparso evidente che gli aspetti in grado di influenzare l’impegno del paziente sono quattro: la cura individualizzata, la qualità del programma, il coinvolgimento di un membro della famiglia e le capacità personali. Per molti partecipanti un fattore chiave del programma era l'attenzione ai propri obiettivi: l'impegno era legato al fatto che essi accedevano a servizi non tradizionali che li sostenevano, quali il sostegno durante l’istruzione e nella ricerca in un'occupazione. Questi studi erano incentrati sugli aspetti dei programmi di intervento immediato che i partecipanti identificavano quali fattori in grado di migliorare il loro coinvolgimento. Altri studi hanno invece esaminato quali caratteristiche tipiche dei partecipanti potessero aver migliorato o interferito con il coinvolgimento nel trattamento. Un impegno più scarso è stato collegato a traumi infantili, a sintomi più gravi e ad un’alleanza scarsa. Secondo quanto osservato dai clinici, un impegno più scarso era associato a sintomi maggiormente positivi o negativi, ad una psicopatologia più grave in generale e un adattamento sociale premorboso maggiromente compromesso. 2 I programmi specializzati nel trattamento del primo episodio psicotico, con la loro struttura, il loro approccio e i servizi offerti, sono studiati per coinvolgere i giovani e possono essere una delle strategie volte ad aumentare l'impegno nei confronti della cura da parte di questo gruppo In un'analisi dei pazienti che hanno partecipato al programma di intervento precoce della RAISE Connection, è apparso evidente che gli aspetti in grado di influenzare l’impegno del paziente sono quattro: la cura individualizzata, la qualità del programma, il coinvolgimento di un membro della famiglia e le capacità personali. NEWSLETTER che spesso tende a ricorrere tardi al trattamento e che tradizionalmente registra un elevatissimo numero di dropout. I senzatetto I soggetti senza fissa dimora fanno molta resistenza quando si tratta di impegnarsi in un trattamento di salute mentale in ambienti tradizionali, così come quando devono ricorrere ai servizi sociali o quando hanno bisogno di cure mediche; spesso ciò è dovuto a disturbi dati dall’uso di sostanze, da altre necessità che mettono in secondo piano il trattamento di salute mentale e, in particolare tra chi vive per strada, da una sfiducia nei confronti dei professionisti. 32 Ma possono anche avere punti di forza che possono essere sfruttati per il trattamento, come una capacità ben sviluppata di sopravvivenza in strada e la conoscenza del sistema dei servizi. 33 La sensibilizzazione assertiva delle persone senza fissa dimora implica il contatto con loro secondo le loro condizioni – e nell’ambiente in cui vivono - piuttosto che in un ambiente preposto a questo. 33 Il trattamento comunitario assertivo è una tipologia di pratica basata sulle prove, che è stata adattata per i senzatetto. Essa utilizza un approccio multidisciplinare basato con un team in grado di fornire un trattamento completo che sappia gestire questo tipo di casi, che si occupi di salute mentale e di abuso di sostanze, che intervenga in caso di crisi e che faccia da sostegno nella ricerca dell'occupazione e nei servizi alle famiglie delle persone all’interno della comunità. I team che lavorano nelle comunità con trattamento assertivo per i senzatetto sono stati in grado di ridurre i ricoveri in ospedali psichiatrici e il ricorso al pronto soccorso, di aumentare la stabilità abitativa, di ridurre la gravità dei sintomi e, fatto particolarmente rilevante per quanto riguarda il coinvolgimento, di aumentare le visite ambulatoriali. 34,35 Nonostante l’attenzione posta dalle comunità con modello di trattamento assertivo al coinvolgimento nel trattamento, poco si sa circa quali siano gli specifici elementi che lo promuovo, in particolare tra i soggetti senza fissa dimora. Uno studio qualitativo recente condotto dallo staff di una comunità per il trattamento assertivo, non incentrato sui senzatetto, ha identificato i seguenti elementi come fondamentali per riuscire a coinvolgere i soggetti: l’alleanza terapeutica tra il personale ed i pazienti, la persistenza e la costanza, la fornitura di assistenza pratica e di sostegno piuttosto che il solo uso di farmaci, il processo di decisione da parte del team, l’accettazione dei pazienti così come sono e la flessibilità. Uno studio britannico sul coinvolgimento, di nuovo non incentrato sui senzatetto, ha messo a confronto una comunità con trattamento assertivo con una tradizionale comunità per la salute mentale, evidenziando come l'approccio basato sul trattamento assertivo di un numero ristretto di casi e la sinergia del team abbia migliorato la compliance al trattamento. 37 L’intervento durante il momento critico è un'altra pratica basata sulle prove che ha lo scopo di aiutare le persone senza fissa dimora ad impegnarsi nel trattamento e pone particolare attenzione ai periodi di transizione, come ad esempio il passaggio da un ospedale, o dal ricovero, ad una casa. Chi si occupa dell’intervento durante il momento critico fornisce ai singoli casi un’assistenza di breve durata attraverso un approccio “a fasi” che diminuisce progressivamente nel tempo. Il modello include l’assistenza pratica, lo sviluppo di un legame, il sostegno, la valorizzazione e il rafforzamento della motivazione al fine di rafforzare i legami a lungo termine tra i soggetti e i servizi e i supporti loro offerti. I risultati sui senzatetto evidenziano una diminuzione La sensibilizzazione assertiva delle persone senza fissa dimora implica il contatto con loro secondo le loro condizioni – e nell’ambiente in cui vivono - piuttosto che in un ambiente preposto a questo Il trattamento comunitario assertivo è una tipologia di pratica basata sulle prove, che è stata adattata per i senzatetto. NEWSLETTER dei rischi dopo la dimissione ospedaliera e una minore gravità dei loro sintomi. 39 Così come il trattamento assertivo in comunità, l’intervento durante il momento critico ha come specifico obiettivo il coinvolgimento. Uno studio qualitativo degli interventi durante il momento critico ha avuto come scopo quello di comprendere il ruolo del rapporto tra i professionisti e i pazienti all’interno del modello, individuando un rapporto di lavoro "non autoritario" e "umano" in cui i professionisti hanno rispettato l'autonomia del paziente e mantenuto una flessibilità in relazione ai suoi contatti e alle sue attività all’interno dei servizi. I professionisti hanno seguito le indicazioni dei pazienti e utilizzato approcci informali per entrarvi in contatto al fine di favorire lo sviluppo della fiducia da parte loro. 40 Quindi, tra i modelli di trattamento basati su prove che hanno avuto successo con i senzatetto affetti da gravi disturbi mentali, pare che l’attenzione specifica sullo sviluppo di un rapporto di lavoro positivo, portato avanti nel loro ambiente, con perseveranza, fornendo un’assistenza pratica e con flessibilità di approccio abbia un effetto positivo sul coinvlgimento. Comorbilità tra uso di sostanze e gravi disturbi mentali I soggetti affetti da gravi disturbi mentali sono più inclini ad usare sostanze rispetto a quelli sani e, a tal proposito, alcuni studi suggeriscono che il 5060% di quelli affetti da schizofrenia hanno il disturbo in comorbilità con l’uso di sostanze. 41-43 È ben noto che i soggetti con disturbi mentali gravi che fanno uso di sostanze sono più difficili da coinvolgere rispetto a quelli che non presentano comorbilità e che su questa popolazione i trattamenti tradizionali non sono riusciti ad intervenire in modo efficace. 43-46 Infatti, la comorbilità con l’abuso di sostanze è uno dei fattori più gravi associati al non-avvicinamento e al non-impegno nel trattamento di salute mentale. 1 Questa difficoltà nell'iniziare e nel mantenere l'impegno verso il trattamento ha molteplici effetti tra i quali: frequenti riospedalizzazioni, un aumento della gravità dei sintomi, un alterato funzionamento psicosociale, la trans-istituzionalizzazione in carcere o in altri centri non di salute mentale. 47 Una ragione per cui i soggetti con doppia diagnosi possono essere meno coinvolti nel trattamento è la frammentazione del sistema di assistenza. Storicamente i servizi per il trattamento dell’abuso di sostanze e i programmi per il trattamento psichiatrico erano completamente scollegati, con diversi canali di finanziamento, formazione e approcci filosofici al trattamento. Per questo motivo, le persone con doppia diagnosi che richiedevano un trattamento venivano spesso escluse da entrambi i programmi. Ad una persona che chiedeva di essere curata per l’uso di sostanze veniva detto che doveva prima occuparsi di trattare i sintomi "psichiatrici" e viceversa. Oltre a creare un ulteriore ostacolo alla fornitura di assistenza, questo approccio "sequenziale al trattamento" non prendeva in considerazione la natura interattiva e ciclica di questi disturbi. 48 I programmi di trattamento integrato per una doppia diagnosi (IDDT) hanno cominciato a svilupparsi nel 1990, nel tentativo di dare delle linee guida per il trattamento frammentato a cui i soggetti con doppia diagnosi venivano sottoposti. Questi programmi davano particolare importanza alla sensibilità, alla completezza, ad una prospettiva a lungo termine e ad una coerenza tra filosofia e approccio. 41,49 I clinici venivano istruiti sulle tecniche motivazionali, sulla collaborazione, sugli interventi di sostegno sociale e molti di questi programmi prevedevano anche una componente basata sulla comunità. Il 50-60% di quelli affetti da schizofrenia hanno il disturbo in comorbilità con l’uso di sostanze. La comorbilità con l’abuso di sostanze è uno dei fattori più gravi associati al nonavvicinamento e al nonimpegno nel trattamento di salute mentale. NEWSLETTER Oggi l’IDDT è un trattamento basato sulle prove per pazienti con diagnosi doppia, con studi che indicano che questo approccio migliora diversi outcome clinici, tra cui la partecipazione alla terapia, la possibile riduzione del consumo di sostanze, una maggiore permanenza in abitazioni stabili ed una elevata riduzione dell’ospedalizzazione psichiatrica e degli arresti. 50 Alcuni studi hanno dimostrato che i programmi di trattamento integrati, così come il trattamento assertivo in comunità, in caso di diagnosi doppie rafforzano sia l'impegno iniziale, sia il coinvolgimento durante il trattamento stesso. 43,44,47 All'interno dei vari programmi di trattamento per la comorbilità tra l’uso di sostanze e le condizioni di salute mentale, tra i fattori riconosciuti in gradi di migliorare l’impegno vi sono l’inclusione di obiettivi condivisi, una visione ottimista che non si concentra sui farmaci, una psicoeducazione permanente, una cura basata sulla collaborazione all’interno dello staff e la sensibilizzazione della comunità. Uno studio ha evidenziato come il coinvolgimento nel trattamento in un programma per chi ha una diagnosi doppia fosse maggiore quando i soggetti arrivavano dalle unità di degenza, piuttosto che dalle comunità. 51 Non è chiaro quale aspetto della degenza servisse a rafforzare un impegno più prolungato, ma questo dato è interessante e può suggerire che, per alcuni sottogruppi con diagnosi doppia, la stabilizzazione fatta durante la degenza può risultare utile. Uno studio recente ha analizzato l'utilizzo del sostegno tra pari nel coinvolgimento iniziale all’interno dei servizi di salute mentale per pazienti cronici con disturbi legati all’uso di sostanze e/o con una recidiva elevata. Nello specifico i pari raggiungevano velocemente il coinvolgimento, fornendo una psicoeducazione e portando i partecipanti ai loro primi incontri. Questo studio ha riscontrato che il sostegno tra pari ha aumentato in modo significativo l'impegno verso il trattamento, sia quando si trattava di un trattamento standard, sia nel caso di trattamenti sperimentali integrati. 52 Ciò mette in evidenza come il sostegno tra pari sia un nuovo strumento sempre più utilizzato per migliorare il coinvolgimento dei soggetti con una doppia diagnosi. Tecniche per il coinvolgimento recovery- oriented Qui di seguito descriviamo le recenti innovazioni del trattamento in grado di migliorare il coinvolgimento in modo creativo e insolito. Li abbiamo selezionati in quanto tutti orientati a migliorare l'esperienza del trattamento per chi vi partecipa. Ciascuna delle tre strategie illustrate qui di seguito ha, in modo diverso, lo scopo di rendere il trattamento più accessibile, più focalizzato sulle esigenze del paziente e meno stigmatizzante. Riteniamo, perciò, che esse incarnino perfettamente lo spirito di una cura recovery-oriented e che possano contribuire a migliorare il coinvolgimento nei confronti trattamento. Elettronica / Tecnologia In un momento in cui internet, le applicazioni per smartphone e i social media servono a connettere sempre più persone tra loro, appare opportuno considerare come poter utilizzare queste tecnologie per il trattamento di persone con gravi disturbi mentali al fine di promuovere il loro impegno. Esistono diverse teorie secondo le quali le tecnologie legate all’informazione e alla comunicazione sarebbero in grado di aumentare il coinvolgimento e migliorare il trattamento, con diversi strumenti da poter utilizzare: bacheche di messaggi aperte a tutti, siti web terapeutici chiusi, telefoni cellulari e addirittura bottiglie per i farmaci Esistono diverse teorie secondo le quali le tecnologie legate all’informazione e alla comunicazione sarebbero in grado di aumentare il coinvolgimento e migliorare il trattamento, con diversi strumenti da poter utilizzare NEWSLETTER “intelligenti”, in grado cioè di migliorare la somministrazione degli stessi. 53 Una giustificazione per integrare queste tecnologie nel trattamento di salute mentale è che esse possono essere utilizzate in modo spontaneo per ampliare la portata dei servizi e ridurre le reticenze verso le cure. Ciò può risultare particolarmente importante in quelle situazioni in cui il numero di chi può offrire servizi è limitato. 54 È stato ipotizzato che le varie piattaforme online e per smartphone potrebbero servire come "passaggio" verso i servizi di salute mentale, eliminando alcune reticenze riscontrate all’inizio del coinvolgimento e consentendo quindi ai soggetti di avvicinarsi ai servizi in un ambiente rassicurante e a basso rischio. Ciò potrebbe risultare utile anche per coloro che hanno abbandonato il trattamento e stanno considerando di rientrarvi, ma che avvertono alcuni ostacoli, sia di tipo personale (autostigmatizzazione, una bassa opinione di sé) o pratici (difficoltà nel raggiungere il luogo in cui viene fornita la terapia o di far coincidere gli incontri con i propri impegni). Coloro che avvertono i sintomi, che hanno dubbi su di essi o che sono alla ricerca di maggiori informazioni possono rivolgersi a Internet e ai social media per avere le risposte e per ricevere supporto. In un recente studio condotto sui giovani adulti all’interno di un programma di primo intervento, la stragrande maggioranza ha affermato di utilizzare i social media (97,5%), con una media di > 2 ore al giorno. Il trenta per cento dei partecipanti ha riferito di aver discusso dei propri sintomi nei social media e di avervi cercato informazioni nel web. La maggior parte di questa popolazione era propensa a farsi avvicinare dai clinici attraverso i social media durante le crisi. 55 Il distacco durante i periodi in cui i sintomi si ripresentano può portare a particolari disagi e potenzialmente portare a dover ricorrere al pronto soccorso o al reparto di degenza. Se i clinici e i programmi di trattamento utilizzano i social media e le tecnologie basate sul web per mettersi in contatto con i pazienti durante i periodi di distacco, forse l’aumento dei sintomi o di riospedalizzazioni possono diminuire. Questa può essere considerata la nuova assistenza assertiva del 21° secolo: i medici, anziché incontrare i pazienti all’interno di una comunità, possono farlo online. I trattamenti attraverso la rete che sono stati sviluppati hanno ottenuto risultati promettenti. 56,57 Uno studio randomizzato controllato su un sito web moderato da un terapeuta ha mostrato come la partecipazione abbia portato ad una diminuzione dei sintomi positivi e un miglioramento della conoscenza della schizofrenia. 58 I tablet e le altre tecnologie informatiche e computeristiche hanno dimostrato di contribuire a promuovere l'impegno iniziale nell’ambito dell’occupazione assistita. 59 Con popolazioni che normalmente non hanno accesso alle tecnologie d'informazione e comunicazione all’avanguardia, come ad esempio i senzatetto, si possono avere benefici ancora maggiori. Per le persone emarginate con poche risorse, l'uso della tecnologia può aumentare il senso di appartenenza e contribuire a costruire legami sociali. Queste piattaforme possono essere utilizzate per la psicoeducazione, per il coinvolgimento iniziale o anche per il trattamento. 60 Sono attualmente in fase di sviluppo cartelle cliniche elettroniche basate sul salvataggio nel cloud. Questi sistemi sono sicuri e conformi al “Health Insurance Portability e Accountability Act” statunitense. Previo il consenso del paziente, possono consentire lo scambio di informazioni tra le varie organizzazioni e gli operatori sanitari. È da poco consentito inserire all'interno di questi sistemi basati sul cloud delle cartelle cliniche personalizzate. Queste tecnologie hanno un sistema di messaggistica sicuro e permettono quindi l’integrazione delle cartelle cliniche da parte È stato ipotizzato che le varie piattaforme online e per smartphone potrebbero servire come "passaggio" verso i servizi di salute mentale, eliminando alcune reticenze riscontrate all’inizio del coinvolgimento e consentendo quindi ai soggetti di avvicinarsi ai servizi in un ambiente rassicurante e a basso rischio. NEWSLETTER del paziente e dell’operatore. La compilazione di queste cartelle cliniche personalizzate può migliorare il coinvolgimento del paziente. 61 Coinvolgendo il paziente nel processo decisionale relativo al proprio trattamento e fornendogli un facile accesso e la possibilità di comunicare con i clinici, si possono superare alcune barriere sia pratiche, sia esclusivamente percepite dal paziente. I programmi di salute mentale possono prendere in considerazione l'uso di tutti i suddetti interventi basati sulla tecnologia come parte del loro approccio verso il trattamento al fine di aumentare il coinvolgimento. Gli studi futuri dovrebbero concentrarsi su come inserire al meglio nei servizi esistenti questi innovativi trattamenti basati sulla tecnologia e i collegamenti web in relazione alla cura, tenendo conto dei rischi associati ad Internet e alla tecnologia, quali ad esempio la perdita della privacy e la discriminazione. 62 Il supporto tra pari Alcuni studi hanno suggerito che coloro che hanno difficoltà a partecipare o ad impegnarsi in un trattamento possono avere difficoltà a fidarsi di figure che percepiscono come autorità. 31 Inoltre, molti soggetti affetti da disturbi mentali gravi possono sentirsi alienati, emarginati e stigmatizzati. Per questo e molti altri motivi, questi ultimi potrebbero impegnarsi maggiormente in quelle strutture dove possono relazionarsi con i loro pari. Negli ultimi dieci anni sono fioriti in tutti gli Stati Uniti molti centri basati sulla collaborazione tra pari e oggi questa tipologia di approccio è stata implementata in diverse strutture per il trattamento dei disturbi mentali. Sono inoltre sorte delle organizzazioni indipendenti gestite direttamente da pari. Il supporto tra pari è stato definito "un sistema per dare e ricevere aiuto fondato sui principi fondamentali del rispetto, della responsabilità condivisa e della comune consapevolezza circa ciò che è utile". 63 Il presidente della New Freedom Commission on Mental Health Care ha chiesto che si provvedesse ad una maggiore diffusione dei servizi basati sull’aiuto fornito da pari. 4 Inoltre, il sostegno tra pari è diventato un servizio rimborsabile dal servizio sanitario. 64 Uno studio del programma di Wellness Recovery Action Plan condotto da pari ha evidenziato i giovamenti che i partecipanti ne hanno tratto, tra cui un maggiore senso di auto-determinazione e di consapevolezza di sé, oltre agli effetti positivi sul coinvolgimento nel trattamento sia in caso di inserimento in strutture tradizionali, sia a livello individuale. 65 In uno studio su adulti con gravi disturbi mentali all’interno di comunità per il trattamento, la gestione tradizionale dei singoli casi è stata messa a confronto con quella fatta dai pari. 66 L'obiettivo era verificare se i partecipanti che erano stati trattati fin dall’inizio dai pari risultassero più coinvolti al follow-up (6 e 12 mesi). Lo studio ha evidenziato come i pazienti che avevano ricevuto assistenza dai pari al sesto mese erano più coinvolti rispetto a quelli che avevano ricevuto cure di tipo tradizionale. Questa differenza tra i gruppi scompariva a 12 mesi, il che potrebbe sottolineare l'importanza dell’inclusione dell’assistenza fornita da pari nelle fasi iniziali del trattamento, al fine di creare velocemente un'alleanza di lavoro e migliorare il coinvolgimento in quella fase del trattamento in cui il rischio di dropout, di una ricaduta e di riospedalizzazione è particolarmente alto. Da segnalare come, in entrambi i gruppi, i partecipanti che a 6 mesi sentivano di essere capiti e ben voluti abbiano dichiarato di sentirsi motivati nei confronti del trattamento. Negli ultimi dieci anni sono fioriti in tutti gli Stati Uniti molti centri basati sulla collaborazione tra pari e oggi questa tipologia di approccio è stata implementata in diverse strutture per il trattamento dei disturbi mentali.. NEWSLETTER Un gruppo che da sempre è ritenuto particolarmente difficile da coinvolgere in un trattamento di salute mentale è quello dei veterani dell’esercito Un recente studio qualitativo dei veterani dell'esercito ha scoperto che all’inizio il principale ostacolo nell’impegnarsi in un trattamento è la sensazione di stigmatizzazione e il fatto che i soldati hanno difficoltà a capire o ad accettare di aver bisogno di aiuto. I partecipanti a questo studio si sono detti generalmente favorevoli all'idea di integrare il trattamento standard con un’assistenza fornita da pari, dicendo che diminuiva la loro sensazione di stigmatizzazione sia all’interno, sia all’esterno della struttura. I soldati hanno detto che l’assistenza tra pari forniva loro dei modelli di comportamento e che, ad esempio, un soldato che mostrava agli altri la propria battaglia contro la malattia mentale, veniva percepito come forte ed era molto rispettato dagli altri. L’assistenza fornita da pari si è dimostrata in grado di abbassare i tassi di recidiva nei veterani con problemi di abuso di sostanze. 52 Anche se la popolazione dei veterani è molto particolare, l’auto stigmatizzazione e la necessità di modelli di comportamento possono essere universali e quindi percepiti da tutti coloro che soffrono di un qualche disturbo mentale. Intervista per la Valutazione Culturale (Cultural Formulation Interview) Soggetti con disturbi mentali gravi che appartengono a minoranze etniche e di razza si lasciano coinvolgere meno nel trattamento per la salute mentale rispetto ai bianchi non ispanici. 68,69 Tra le varie e numerose ragioni ci sono anche barriere sociali e culturali oltre che legate al sistema. 70-74 Un’assistenza competente da un punto di vista culturale potrebbe essere una via per migliorare il coinvolgimento. Uno strumento efficace nel fornire un’assistenza sensibile a livello culturale e nel valutare il contesto culturale del soggetto allo scopo di indirizzare diagnosi e trattamento è l’Intervista per la Valutazione Culturale (Cultural Formulation Interview - CFI). Introdotta nel DSM-5, si tratta di un questionario in 16 punti con un supplemento di 12 moduli. Comprende anche un modello informativo utile a ottenere materiale da chi accompagna il paziente, come i familiari. 75 L’idea alla base della CFI è che la cultura del soggetto e il contesto in cui vive formano il modo con cui lui/lei percepisce il disturbo, il trattamento e il coinvolgimento con il team deputato al trattamento. Le informazioni culturali comprendono le strutture sociali in cui il soggetto vive, le risorse dell’ambiente locale (economiche e di tempo) e le circostanze individuali. Il contesto culturale è visto come qualcosa di dinamico e unico per ciascun individuo. Pertanto, anche se possono esserci tendenze comuni tra differenti minoranze in relazione a come vengono visti i sintomi e il trattamento, ciò non deve essere preso in considerazione e ogni individuo deve essere valutato singolarmente. A questo scopo, l’impiego della CFI nel trattamento è un modo esplicito di conoscere le unicità del singolo e di concentrarsi su bisogni e obiettivi di lui/lei. Sebbene sia uno strumento relativamente nuovo, la CFI può migliorare la comunicazione interculturale, apportando benefici anche in termini di partecipazione alla terapia. CONCLUSIONI Sono molte le strategie innovative emergenti volte a migliorare il coinvolgimento nella terapia. Come mostrato in questo studio, le strategie per il coinvolgimento sono focalizzate sull’impiego di strumenti e metodi Uno strumento efficace nel fornire un’assistenza sensibile a livello culturale e nel valutare il contesto culturale del soggetto allo scopo di indirizzare diagnosi e trattamento è l’Intervista per la Valutazione Culturale (Cultural Formulation Interview - CFI) NEWSLETTER pratici così come sul cambiamento di mentalità e in linea generale l'approccio al trattamento di persone con disturbi mentali. Allo scopo di implementare queste strategie per migliorare il coinvolgimento, anche le strutture di salute mentale devono sentirsi coinvolte nel lavoro che stanno svolgendo. I nuovi approcci necessitano di apertura mentale e flessibilità rispetto a una struttura in evoluzione e alla gestione dell' assistenza per la cura mentale. Anche se, presumibilmente tutte le strutture di salute mentale in questo campo sono impegnate a migliorare il benessere e la salute dei pazienti affetti da disturbo mentale, barriere individuali e di sistema possono impedire ai fornitori di prestazioni di somministrare un trattamento che migliora in maniera ottimale il coinvolgimento del soggetto partecipante. Le realtà che attualmente operano all’interno del sistema di assistenza mentale devono fare fronte a risorse e tempo limitati e a un crescente controllo da parte di società di managed-care (rete di cure integrate). È comune tra i clinici addurre queste preoccupazioni a motivo per la loro riluttanza a cambiare i servizi di trattamento o a seguire un approccio più “recovery-oriented”. Vi si accompagna anche la molteplici preoccupazioni attitudinali circa il trattamento recovery-oriented , come la paura di un aumento dei rischi, la preoccupazione che solo certi tipi di soggetti partecipanti possano essere coinvolti nel trattamento e l’idea che i servizi recovery-oriented svalutino le competenze professionali. È chiaro che, allo scopo di indurre un cambiamento a livello globale, sia necessario lavorare su queste preoccupazioni. I servizi possono essere ottimizzati spingendoli all’impiego di risorse più efficienti, sollevando gli psichiatri dal fronteggiare alcune delle pressioni attuali e consentendo così loro di disporre di più tempo per coinvolgere i pazienti in incontri vis a vis e interazioni cliniche più significative78. Coordinando i propri sforzi verso paure, stigma, false convinzioni e costrizioni pratiche si può contribuire a indurre il sistema per la salute mentale a migliorare la partecipazione in fase iniziale e la compliance in generale. Questo studio non è esaustivo e per migliorare il coinvolgimento sarà necessario analizzare altre aree come il benessere e l’esercizio fisico, il ruolo dei familiari - compreso quello dei fratelli – nel coinvolgimento al trattamento e l’uso di una cura specifica sul trauma per coinvolgere soggetti con passati traumatici. Le future aree di ricerca potrebbero indagare i problemi correlati alla formazione e all’implementazione di strategie di coinvolgimento all’interno di un panorama assistenziale in continua evoluzione. Bibliografia 1. 2. 3. 4. Kreyenbuhl J, Nossel IR, Dixon LB. Disengagement from mental health treatment among individuals with schizophrenia and strategies for facilitating connections to care: a review of the literature. Schizophr Bull 2009; 35:696-703. MacBeth A, Gumley A, Schwannauer M et al. Service engagement in first episode psychosis: clinical and premorbid correlates. J Nerv Ment Dis 2013;201:359-64. Del Vecchio P. 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E’ un dato di fatto che i nostri pazienti abbandonano i trattamenti, in una percentuale compresa tra il 20 e il 40%, entro soli 12 mesi dalla presa in carico da parte dei servizi di cura; inoltre, più del 40% interromperà la terapia farmacologica subito dopo le dimissioni dal primo ricovero (1); circa il 20% dei pazienti al primo episodio psicotico rifiuta ostinatamente le terapie, e a questi si aggiunge una quota, pari al 50% di essi, che nell’arco dei successivi 18 mesi attraverserà almeno una fase di discontinuazione delle cure. La problematica della aderenza è certamente difficile da valutare ma anche da gestire, per via di molteplici fattori che influenzano l’atteggiamento e l’attitudine dei pazienti a seguire le nostre indicazioni, quali per esempio : il livello di efficacia e di tollerabilità del farmaco prescritto, il grado di critica di malattia (a questo proposito occorre distinguere se la scarsa consapevolezza è secondaria ad un deficit cognitivo oppure ad un meccanismo di negazione), le sensazioni scaturite dal primo contatto con l’ambiente psichiatrico, l’influenza del partner o del caregiver e molti altri ancora (2). La speranza che l’avvento degli antipsicotici di seconda generazione avrebbe portato, in virtù del loro minor impatto in termini di effetti indesiderati extrapiramidali, ad un incremento della aderenza alle cure, non ha trovato di fatto riscontro; l’analisi della maggior parte dei dati di letteratura disponibili non mostra infatti un chiaro vantaggio dal punto di vista dei tassi di non-aderenza e dei tempi di interruzione del trattamento (3). Una spiegazione a ciò potrebbe risiedere nel fatto che le potenzialità di quest’ultima categoria di psicofarmaci non sono state ancora del tutto afferrate. Le spiccate differenze, all’interno di tale classe di molecole, nel profilo recettoriale e nelle collateralità potrebbero consentire una personalizzazione ottimale del trattamento, con particolare attenzione ai disagi segnalati dai pazienti (è certamente utile riuscire a discernere quali effetti indesiderati dovrebbero essere evitati in assoluto e quali potrebbero essere considerati accettabili). L’impegno profuso per coinvolgere il paziente in queste decisioni va di sicuro a rafforzare l’alleanza terapeutica, che è probabilmente uno dei fattori che incide in modo più consistente sulla aderenza (2). Un’altra componente che contribuisce a migliorare l’alleanza terapeutica è la maggior frequenza dei contatti con il curante, anche se questi avvengono “solamente” per effettuare dei controlli clinici. Per esempio, la necessità di effettuare esami di laboratorio ad intervalli prestabiliti in corso di terapia con clozapina potrebbe spiegare l’adesione sorprendentemente elevata alle cure tra i Tra il 20 e il 40% dei pazienti psichiatrici abbandonano i servizi di cura entro 12 mesi dalla presa in carico Più del 40% dei pazienti interromperà le terapie immediatamente dopo le dimissioni da un ricovero in ambiente psichiatrico Contrariamente alle aspettative, l’introduzione degli antipsicotici di seconda generazione non ha generato un miglioramento della compliance NEWSLETTER pazienti che assumono tale terapia (4). Allo stesso modo, l’interazione regolare con l’équipe curante potrebbe rappresentare uno dei vantaggi più rilevanti dell’utilizzo di un antipsicotico long-acting, oltre ovviamente alla possibilità di identificare in modo inequivocabile la discontinuazione della terapia, nel caso in cui il paziente non dovesse presentarsi per l’iniezione periodica. La resistenza all’utilizzo di tali formulazioni sembrerebbe dovuta più ad un diffuso pregiudizio degli psichiatri che dei loro pazienti (5). Inoltre, le discussioni e le valutazioni che vanno ad esplorare la qualità della vita dei pazienti in corso di terapia antipsicotica non dimostrano solo i nostri sforzi nel cercare di ridurre i sintomi di malattia, ma anche l’inclinazione a raggiungere traguardi terapeutici particolarmente ambiziosi per la salute, intesa in modo globale. Non ci stupiamo quindi se molti lavori hanno dimostrato la relazione tra il benessere soggettivo del paziente e la motivazione a proseguire con il trattamento antipsicotico (6). La maggior parte degli studi di tipo randomizzato-controllato non ha finora dimostrato una superiorità degli antipsicotici long-acting rispetto alle corrispondenti preparazioni per via orale; tuttavia questo non ci meraviglia, dato che gli effettivi vantaggi dei trattamenti depot non si possono rilevare tramite studi condotti in doppio cieco o con metodiche analoghe, ma diventano invece ben evidenti attraverso studi naturalistici (2,7). Infine possiamo affermare che la complessità dei fattori che influenzano l’aderenza, l’interazione tra di essi e il loro continuo mutare nel corso del tempo sono tutte variabili che mettono in evidenza la necessità di utilizzare schemi di trattamento integrati, da rivolgere sia a quei pazienti affetti da disturbi mentali persistenti e gravi sia a coloro che presentano un elevato rischio di allontanamento dal servizio curante o di mancanza di adesione alle terapie (8). Tali paradigmi di intervento includono sia percorsi di cura intensivi ambulatoriali sia modelli di terapia comunitaria quali l’“intensive care management” o l’ “assertive community treatment” (9). Se confrontati con i trattamenti standard, è stato dimostrato che la gran parte di questi ultimi schemi di trattamento permette di ridurre i tassi di drop-out dei pazienti dai servizi di cura e di migliorare l’aderenza alle terapie (8,10), raggiungendo migliori risultati da un punto di vista multidimensionale (8,10) ed abbattendo i costi sanitari (8). Bibliografia 1. Tiihonen J, Haukka J, Taylor M et al. A nationwide cohort study of oral and depot antipsychotics after first hospitalization for schizophrenia. Am J Psychiatry 2011;168:603-9. 2. Day JC, Bentall RP, Roberts C et al. Attitudes toward antipsychotic medication: the impact of clinical variables and relationships with health professionals. Arch Gen Psychiatry 2005;62:717-24. Kreyenbuhl J, Slade EP, Medoff DR et al. 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Assertive community treatment (ACT) as part of integrated care versus standard care: a 12- month trial in patients with first- and negatively selected multiple-episode schizophrenia-spectrum disorders treated with quetiapine IR. J Clin Psychiatry 2010;71:1313-23. NEWSLETTER Gian Giacomo Rovera, Silvana Lerda, Goffredo Bartocci Psicoterapia dinamica culturale Rivista di Psichiatria e Psicoterapia Culturale, Vol. II, n. Supplementare, s1 s12, 2014 I. Cenni introduttivi Rispetto agli Studi sull’individuo umano, è ipotizzabile che nessuna altra branca della Medicina come la Psichiatria, e ancora di più la Psicoterapia, cerchi di intendere il significato dell’esistenza attraverso un’articolazione tra lo spiegare scientifico e il comprendere fenomenologico. Le attuali ricerche, in continua evoluzione, attengono infatti a dimensioni sia biologiche, sia psicologiche, sia socio-culturali (Fassino, 2007; Rovera, 2007), le quali interagendo fra loro costituiscono un approccio a rete interdisciplinare. Inoltre, nelle ultime decadi del XIX Secolo, e ancor più attualmente, nell’ambito della Psichiatria e della Psicoterapia non solo si sono ampliate le strutture dei riferimenti concettuali, ma pure si sono approfondite le linee di sviluppo rispetto alla psicopatologia e ai trattamenti, che ritengono utile, se non indispensabile, riferirsi alle dimensioni sia dinamica che culturale. Per quanto riguarda l’aspetto dinamico della Psicoterapia, basti pensare a come i dinamismi si verifichino a diversi livelli: intrapsichico (tra conscio e inconscio), evolutivo (life span), relazionale (interindividuali), collettivo (socio-culturali), nonché terapeutico (dinamiche transferali/controtransferali) (Gabbard, 2005). Circa la dimensione culturale, essa è venuta a configurarsi attraverso territori non facilmente esplorabili, immergendosi in un insieme di significati, di norme comportamentali, di sistemi linguistici e comunicazionali, di orientamenti di valori, di istituzioni. Le molteplicità delle culture non sono una mappa statica, ma una realtà dinamica che cambia continuamente, evolvendosi in modo non uniforme. Questa metamorfosi viene da taluni collocata nel post-moderno o addirittura nel post-ideologico, giacché non si possono stabilire né rigide gerarchizzazioni tra le varie culture e neppure dissolvimenti pluralistici. È infatti più congruo utilizzare le configurazioni di Pluralità Culturali Interattive Pragmatiche (Rovera e Bartocci, 2014a e 2014b). II. Tra miti, stregonerie e neuroscienze 1) Per quanto attiene alla Psicoterapia, non si può dimenticare, anche se in una rilettura critica, il saggio di Thomas Szasz sul Mito della Psicoterapia (1981). Egli ritiene che: il termine “psicoterapia”, in quanto usato in riferimento a due o più persone che si parlano o si ascoltano, sarebbe inappropriato poichè rappresenterebbe una categoria fuorviante. Dato che può aiutare le persone, la psicoterapia può essere considerata e definita come qualcosa di simile alla regolare cura medica, ma tuttavia, propriamente parlando, non sarebbe la stessa cosa. Come la malattia mentale, la psicoterapia sarebbe una metafora e un mito. Ipnosi, Circa la dimensione culturale, essa è venuta a configurarsi attraverso territori non facilmente esplorabili, immergendosi in un insieme di significati, di norme comportamentali, di sistemi linguistici e comunicazionali, di orientamenti di valori, di istituzioni. Le molteplicità delle culture non sono una mappa statica, ma una realtà dinamica che cambia continuamente, evolvendosi in modo non uniforme. NEWSLETTER suggestione, psicoanalisi, comunque possa essere etichettata la cosiddetta psicoterapia, sono nomi che si darebbero a situazioni in cui delle persone si parlano e si ascoltano in determinati modi. Ma definendo “psicoterapia” certi tipi d’incontri umani, non si farebbe che ostacolare la capacità di comprenderli (Szasz, 1981). 2) Si può alludere qui agli psicoterapeuti selvaggi (estendendo l’accezione anche alle new psychotherapies), che potrebbero essere paragonati a ciò che i guaritori rappresentano nei confronti dei “medici ufficiali”. Viene da domandarsi come possano essere configurati gli stregoni in una psicoterapia dinamica culturale, e ancor più gli sciamani in un contesto terapeutico, quando, ad esempio, Tobie Nathan (2011) pone l’accento sui benefici delle terapie selvagge nelle culture non occidentali. Di seguito Isabelle Stengers (2011) pone analogie tra il medico e il ciarlatano, quale fosse una sfida pratica consistente nell’abbandonare la prospettiva del progresso. Nota la Stengers: “I poteri della sperimentazione prodotti dal progresso in laboratorio creano dei supplementi di anima incontrollabili, mentre il rapporto tra medico e paziente resta nell’ombra di buone volontà e di esperienze poco trasmissibili”. È questa una sfida pratica di una medicina cosiddetta razionale, che viene rimandata al campione del processo sperimentale. Si potrebbe così giungere a un personaggio ambiguo, quasi un ciarlatano moderno, che si realizzerebbe anche quando si perdesse di vista il discernimento tra vero medico e ciarlatano. 3) Sul piano teorico-pratico si è più vicini a considerare l’approccio in Psichiatria Culturale nel senso di una psichiatria oltrefrontiera (Tseng, 2003; Inglese e Peccarisi,1997), che implica un “viaggio intorno alle sindromi culturalmente ordinate”. Commentando Bastide (1898-1974), Cazzullo (1997) propone di distinguere tre discipline consacrate alle implicazioni socio-culturali delle malattie mentali. A) La prima è l’Etnopsichiatria, considerata la scienza che dovrebbe occuparsi della complessità dei rapporti che interagiscono fra cultura e malattie mentali. Essa andrebbe successivamente divisa in altre discipline: B) quella che osserva il livello psicopatologico individuale; C) quella che tende a stabilire le correlazioni globali, avvicinandosi a una psico-sociologia della malattia mentale. 4) A completamento delle ricerche in questo campo, oggigiorno si registra una notevole serie di studi che tende a connettere strettamente le neuroscienze con la psicoterapia, in quanto questa costruirebbe e ricostruirebbe il cervello umano (Cozolino, 2002). Inoltre, le ricerche neurobiologiche hanno apportato alla pratica della psicoterapia acquisizioni innovative: le evidenze sulle reti neuronali dell’empatia hanno spostato la concezione dei fattori di cambiamento dall’interpretazione alla embodied simulation o simulazione incarnata (Gallese et al. 2007). Dopo i lavori di Kandel e grazie anche agli studi di Northoff (2014), la psichiatria clinica è investita con crescente evidenza dai problemi della resistenza ai trattamenti, della difficile aderenza alle cure e della crisi di identità dello psichiatra. Le metodiche della Neuropsicoanalisi propongono importanti acquisizioni e revisioni concettuali in tema di relazione psicoterapeutica, e quindi di efficacia delle cure (Fassino, 2002 e 2014). Riprendendo l’argomento succitato della simulazione incarnata come approccio originale di cognizione sociale (Mind reading), sebbene si siano avuti consensi e critiche, esso offre nel campo della Psicoterapia Dinamica Interculturale notevoli spunti. Le ipotesi e le ricerche su un cervello sociale sono decisamente consone con il modello della Psicologia Individuale (Rovera et al., 2013), utilizzando le sfide della mente multiculturale (Anolli, 2011). Simulazione incarnata come approccio originale di cognizione sociale (Mind reading): sebbene si siano avuti consensi e critiche, esso offre nel campo della Psicoterapia Dinamica Interculturale notevoli spunti. NEWSLETTER III. Psicoterapia Dinamica Culturale 1) Una Psicoterapia Dinamica Culturale (P.D.C.) attinge quindi ad antiche radici, ma è altresì aperta a indagini nuove, volte ad ulteriori approfondimenti. Sotto un profilo teorico-pratico, e nell’ambito della Psicologia Individuale Adleriana, vi sono varie accezioni non sovrapponibili fra di loro (vedi: Fascicolo allegato su Prolegomeni). In generale (a ciò si è già accennato nel Par. I), si intende per Psicoterapia Dinamica Culturale l’orientamento terapeutico che studia dinamicamente i processi psichici nel loro contesto, storico, sociale e culturale. Da una parte viene rifiutata ogni forma di riduzionismo a processi neurofisiologici, dall’altra viene respinta ogni pretesa di universalità dei risultati conseguiti nelle ricerche psicologiche. Mentre la PsicoterapiaTransculturale confronta i processi psichici di individui appartenenti a culture diverse, avendo in genere come riferimento la cultura occidentale, la Psicoterapia Culturale riconosce e valorizza la specificità e le differenze. Circa questa direzione è utile peraltro effettuare ulteriori distinzioni: • Nella Psicoterapia Metaculturale il terapeuta e il paziente appartengono a culture diverse, ed il terapeuta non conosce approfonditamente la cultura del gruppo etnico-culturale del paziente. Egli fa uso tuttavia del concetto di “cultura”, tanto nella formulazione della diagnosi quanto nella relazione della cura, al punto che può utilizzare consapevolmente strumenti di “culturalità” e quindi di cognizione sociale (Mindreading). L’approccio è perciò di metatransfert e di contro-metatransfert (Michel, 1999). • Nella Psicoterapia Interculturale il terapeuta e il paziente appartengono a due culture diverse; il primo peraltro conosce la cultura del gruppo etnico del paziente e l’utilizza come “leva terapeutica”. Si può qui parlare di Psicoterapia Biculturale in quanto si combinano due culture: quella del terapeuta e quella del cliente. Ad esempio un afro-americano che riceva una psicoterapia negli Stati Uniti da uno psicoterapeuta di matrice occidentale può desiderare di intraprendere una psicoterapia biculturale, consistente nel fatto che entrambi i membri della diade terapeutica dovrebbero avere lo stesso entroterra culturale. • Nella Psicoterapia Intraculturale il terapeuta e il paziente appartengono alla stessa cultura, benché il terapeuta tenga conto (anche nella pratica) delle dimensioni sub-culturali dei disturbi del paziente (Rovera, 1988). 2) I concetti di multiculuralismo, biculturalismo, etnoculturalismo, specie negli Stati Uniti, sono attualmente in voga (e ciò sta avvenendo anche in Europa) ed, in genere, riguardano l’effettiva, competenza comunicativa del terapeuta nel problem-solving e nell’attuazione della terapia. Oggigiorno, queste aree della psicoterapia hanno tuttavia bisogno di dimostrare la loro utilità specialmente tra le persone di recente immigrazione. Inoltre di tutte le varianti nell’ambito delle Psicoterapie Dinamiche Culturali, le molteplici culture e le relative modalità di espressione sul piano psicologico e comportamentale, sebbene diverse, sono considerate meritevoli di accoglienza e di studio. Ogni individuo o gruppo che appartiene al proprio contesto culturale deve infatti essere considerato con pari dignità, poi vanno considerate le differenti dinamiche che si costituiscono oggi quali metamorfosi culturali. Si intende per Psicoterapia Dinamica Culturale l’orientamento terapeutico che studia dinamicamente i processi psichici nel loro contesto, storico, sociale e culturale. Da una parte viene rifiutata ogni forma di riduzionismo a processi neurofisiologici, dall’altra viene respinta ogni pretesa di universalità dei risultati conseguiti nelle ricerche psicologiche. NEWSLETTER IV. Tematiche cliniche attuali In effetti, sotto il profilo clinico, negli ultimi anni le problematiche culturologiche si sono evolute per molte ragioni correlate fra loro. Tra queste si ricordano: 1. La massiccia immigrazione nelle aree urbane occidentali di individui del Terzo Mondo. Negli ultimi anni, infatti, l’Inghilterra, poi la Francia e altri Paesi Europei, e infine l’Italia (per non parlare dell’Australia, del Sudafrica e degli USA), si sono trovate a confronto con culture così diverse fra loro da obbligare lo specialista a interrogarsi non soltanto sul suo rapporto con il malato, ma anche sui propri orientamenti culturali di tipo etnoantropologico, sulle scelte farmacologiche e terapeutiche di intervento. 2. Gli interventi di cooperazione (che possono ispirarsi al sentimento sociale, istanza primaria nella Psicologia Individuale), organizzati dai Paesi Occidentali, hanno sollevato, fra gli altri problemi, quello estremamente impegnativo di come mettere a confronto l’impatto della medicina occidentale con le fiorenti medicine tradizionali esistenti nelle aree di intervento. I complessi rapporti di integrazione o di parziale recupero o di rifiuto della medicina tradizionale sono un tema aperto e ancora in fase di evoluzione. Un esempio tipico è rappresentato dalla medicina cinese, che ha riconosciuto, tra l’altro, con numerose ricerche, le basi neurofisiologiche dell’agopuntura. Dell’insieme del complesso problema l’O.M.S. se ne occupa da alcuni anni, cercando di sensibilizzare sia i medici occidentali che le autorità locali a non distruggere tutti i sistemi di credenze e pratiche terapeutiche, sulla cui efficacia il medico occidentale ha il dovere di interrogarsi. 3. Il problema della precarietà (tema del XXVI Congresso Internazionale IAIP di Parigi, 2014) ha sottolineato come l’immigrazione sia un fenomeno in costante crescita destinato a catalizzare problemi strutturali, a produrre quesiti, a richiedere riflessioni e cambiamenti. Presenta, dunque, implicazioni culturali, economiche e politiche e, soprattutto, comporta modificazioni anche molto rilevanti da un punto di vista psicologico e sociale, che difficilmente possono essere affrontate e comprese se si considera l’immigrazione come un fenomeno omogeneo, piuttosto che sotto una prospettiva che riconosca le reciproche differenze tra individui e contesti linguistici e socio-culturali. Chi immigra lascia le precarietà e le basi culturali del proprio luogo di provenienza e incontra una nuova precarietà: quella del Paese di “approdo”. Egli si deve cimentare spesso non solo con la mancanza di certezze rispetto al lavoro e all’abitazione, ma anche con insicurezze affettive, linguistiche, culturali, di identità e di appartenenza sociale. Inoltre, l’incontro di culture, di credenze, di etnie e di religioni diverse può provocare negli immigrati, ma anche nel tessuto della popolazione che li accoglie: ansie, angosce e frustrazioni, connesse a loro volta al timore di essere invasi da qualcuno di sconosciuto (che minaccia la propria identità e i processi attraverso i quali gli individui si sono sempre riconosciuti) e di essere contaminati da altra precarietà. Ecco che il senso di precarietà viene amplificato in modo esponenziale fino a minacciare i bisogni profondi dell’individuo e i suoi progetti di autorealizzazione, risultando così potenziale fattore scatenante per problematiche psichiche e sociali, talora anche importanti, specie in situazioni di alienazione, fragilità, frustrazione e perdita dell’autostima, frequenti in chi arriva da Paesi stranieri e culture differenti (Lerda, 2014). Si può addirittura giungere ad un complesso di precarietà (analogo al complesso di inferiorità) (Rovera e Bartoccci, 2014b), il quale è da intendersi come un insieme di rappresentazioni e idee, spesso represse ma Ecco che il senso di precarietà viene amplificato in modo esponenziale fino a minacciare i bisogni profondi dell’individuo e i suoi progetti di autorealizzazione, risultando così potenziale fattore scatenante per problematiche psichiche e sociali. NEWSLETTER non inconsce, che influenzano il mondo psichico, lo stile di vita individuale e la progettualità. In questi casi se vi sono valide compensazioni si può giungere ad un ri-equilibrio complessivo (o resilienza), ma molte volte le compensazioni sono negative e destabilizzanti. Tra la sintomatologia che riguarda gli immigrati possiamo citare l’impotenza, la paura, la rabbia, la disorganizzazione, l’apatia, la disperazione, i comportamenti aggressivi e criminali, la depressione, i disturbi psicologici. Tra gli effetti che si possono registrare nei residenti vi possono essere la perdita di fiducia nei confronti delle istituzioni, il rafforzamento dell'indifferenza verso le necessità altrui, l’attaccamento alle proprie tradizioni e principi, nonché la radicalizzazione nei propri stereotipi culturali: comportamenti che portano a diffidenza e stigmatizzazione verso il diverso. A medio termine ciò potrebbe favorire la disgregazione del tessuto sociale e il break-down generazionale. V. Considerazioni 1) Una Psicoterapia Dinamica Culturale, specie in un contesto interculturale, riguarda quali possono essere gli agenti terapeutici e i fattori di cambiamento. Una P.D.C. necessita innanzitutto di definizioni sulla diagnosi clinica, sul contesto del setting, sul focus della terapia e sulla presumibile durata della stessa: elementi questi che condizionano il percorso terapeutico. Questo deve venire utilizzato, nel contesto socio-culturale del terapeuta, con individui che hanno altri sistemi di credenze, di valori, di aspettative: tutto ciò rappresenta al contempo un’occasione, una sfida e un’opportunità. a. Il terapeuta deve essere infatti consapevole di una serie di fattori correlati a una presunta valutazione diagnostica e a un piano psicoterapeutico appropriato sulla crisi (breve, focale, a tempo indeterminato, etc), tenendo conto della forza dell’Io, dei meccanismi di difesa, della relazione terapeutica, delle strategie da utilizzare, dei vari stadi del trattamento, delle condizioni socio economiche del paziente, etc. b. Le competenze per una terapia culturalmente appropriata sono principalmente: • La conoscenza culturale, per cui è necessario avere informazioni adeguate del background culturale del paziente, inerente agli elementi principali, che consentiranno di portare avanti il lavoro terapeutico. È in una prospettiva relazionale che si elabora una dinamica interculturale. Riconoscere che in ogni interazione culturale vi è la possibilità di conflitti sociali, politici, religiosi, nonché di malintesi linguistici, non ci deve spingere a ritenere che solo quelli siano la fonte del disagio. È perciò importante l’impiego dei mediatori culturali. Anche se gli elementi di una data cultura sono utilizzati come significanti delle distinzioni sociali o della differenziazione etnica o come sfondo ineliminabile per l’interpretazione del disagio psichico, è pur vero che il presupposto è che ci sia un’analoga struttura simbolica che, in quanto tale, esige una conoscenza dei codici relazionali, comunicativi e valoriali di una determinata cultura. • La compatibilità culturale, per cui si è aperti e sensibili all’importanza della cultura altrui, capaci di apprezzarne le differenti credenze e gli stili di vita di coloro che appartengono a gruppi culturali diversi. • I fattori di empatia e di incoraggiamento giocano un ruolo importante, specie se vengono declinati in modi congrui alla comprensione psicodinamica in un reciproco contesto culturale compatibile. Anche i momenti di incontro (now moments) fra terapeuta e paziente, Una Psicoterapia Dinamica Culturale, specie in un contesto interculturale, riguarda quali possono essere gli agenti terapeutici e i fattori di cambiamento.. NEWSLETTER rappresentano una sorta di conoscenza relazionale implicita, la quale facendo capo ad un’area analogica preverbale può realizzare una consapevolezza che facilita la psicoterapia interculturale: talora attraverso micro “agiti” all’interno del setting (enactment) o caute rivelazioni di certi aspetti della propria vita (self-disclosure). • L’Orientamento di Valori (O.V.) (Ponce, 2005) considera le credenze, la religione, il tipo di spiritualità, etc e va ad incidere, indirettamente o esplicitamente, tanto sui contenuti quanto sul percorso della terapia. Ogni individuo, oltre a quello collettivo, ha un O.V. personale che modella il suo pensiero, incide sul suo comportamento e favorisce la direzionalità del suo agire. L’O.V. del terapeuta deve essere compatibile con quello del paziente in modo da favorire un’interazione positiva. c. La comprensione interculturale facilita un approccio di P.D.C. anche se il terapeuta ed il paziente parlano la stessa lingua. È necessario infatti che la comunicazione si sviluppi adeguatamente, senza il rischio di equivoci o malintesi, con rispetto, spontaneità e autenticità (Flubarcher, 1999). d. La comunicazione corretta è alla base dell’interazione terapeutica e va condotta lungo le modalità psicodinamiche, con un’apertura controtransferale culturalmente consapevole (Rovera, Gatti, 2012) che è da riportare anche agli aspetti pre-verbali ed impliciti e perciò ad un meta-controtransfert (Michel, 1999). 2) Un precursore ad un’appropriata immedesimazione culturale è l’embodied simulation (vedi Par. II. 4) che tende a conoscere il paziente: sia negli aspetti autobiografici, sia in quelli inerenti alla struttura familiare e sociale in cui vive, sia rispetto ai vissuti correlati al disagio psichico e/o fisico. a. In una P.D.C., transfert e controtransfert non sono concepiti in un senso pulsionale classico ma lungo l’asse transferale/controtransferale inteso all’interno di uno schema relazionale. Tale approccio prende spunto da alcuni nuclei teorici adleriani, introducendo, all’interno del setting, l’uso del sentimento sociale dell’analista, e quindi di un controtransfert incoraggiante, che smaschera alcune finzioni utilizzate come espedienti di salvaguardia pur mantenendo un’atmosfera di comprensione esplicativa condivisa. b. Inoltre (come già sopra ricordato), il transfert e il controtransfert, in quanto espressioni dello stile di vita della coppia psicoterapica, sono una specie di sovracodice comunicativo-interattivo, verbale e non verbale, e soprattutto preverbale, che quindi si riferisce anche alle dinamiche metatransferali e meta-controtransferali. Qualora ciò venga progressivamente e reciprocamente condiviso all’interno dell’area di incontro, si svilupperebbe un rapporto duale che consentirebbe al paziente di vivere nel setting un’esperienza emotiva nuova, tale da rendere possibile ridefinire i confini del Sé-Stile di Vita. Sono questi i presupposti del cervello sociale che permette ad una mente multiculturale (Anolli, 2011) un’empatia interculturale. 3) Il setting (e quello adleriano ben si presta a essere compatibile a livello interculturale) deve essere caratterizzato da reciprocità non solo da un “come fare” ma anche da un “fare come” relazionale (Rovera, 1988), in un clima di comprensione, compartecipazione empatica e incoraggiamento. Rappresenta il luogo di un rapporto interindividuale dinamicamente originale che consente al paziente di vivere nel setting un’esperienza emotiva nuova e correttiva. La stessa strutturazione del setting, talvolta difficile da attuarsi, è finalizzata a un ambiente di sostegno che faciliti gli interventi, dai supportivi agli interpretativi. Esso costituisce l’idonea cornice per l’impiego intenzionale di movimenti controtransferali consapevoli (Lerda, 2014), culturalmente Un precursore ad un’appropriata immedesimazione culturale è l’embodied simulation che tende a conoscere il paziente: sia negli aspetti autobiografici, sia in quelli inerenti alla struttura familiare e sociale in cui vive, sia rispetto ai vissuti correlati al disagio psichico e/o fisico. NEWSLETTER appropriati (controtransfert di base o metatransfert), sintonizzati sulla comunicazione preverbale e sugli aspetti emotivi del paziente (Michel, 1999). Si costituisce così la premessa per sviluppare una comprensione esplicativa/empatica interculturalmente specifica, cioè emica (Tseng, 2003). Il coinvolgimento utilizza, oltre che le competenze culturali, anche la personalità dell’analista, che diventerebbe un contributo implicito al processo analitico: sia nella presenza del carattere originario, sia nello stato d’animo della prima seduta, sia durante gli incontri successivi, col paziente. Non solo, ma l’alone della personalità dell’analista è presente anche nei dintorni della seduta in interazione con quella del paziente (Rovera e Gatti, 2012). Nell’ambito di una Psicoterapia Dinamica Culturale ed in particolare Interculturale, il setting, che ha potenzialità terapeutiche, dovrebbe essere organizzato con modalità relazionali che permettano l’espressione del disagio psichico e consentano al contempo di portare alla luce anche rappresentazioni culturali, favorendo un’appropriata comunicazione (Lerda, 2014). Il setting spesso non ha quelle caratteristiche di cornice, contenitore, contesto in cui si svolge il processo terapeutico. Non di rado le procedure di una Psicoterapia Dinamica Culturale devono essere mantenute con le accettabili procedure all’interno del setting, con una flessibilità adeguata, anche perché non di rado avvengono nel contesto di una Psichiatria di Liaison (Rovera, 1999; Rundell e Wise, 1999). Specificatamente si enumerano al proposito alcuni aspetti importanti: • La posizione spaziale, cioè la distanza interna/esterna, modula la “zona cuscinetto” (prossemica) tra terapeuta e paziente deve essere modulata anche culturalmente. • La cadenza dei colloqui e la durata della terapia variano anche per motivi contingenti e devono essere comunque mantenute in una strategia terapeutica nell’ambito di un progetto funzionale. • Per favorire anche gli aspetti non verbali, talvolta più esplicativi delle stesse parole, specie nei momenti d’incontro (now moments), il terapeuta dovrebbe cogliere quanto il paziente esprime anche attraverso il tono della voce, la postura, la gestualità, le espressioni del volto. Ciò permette l’interazione meta-transferale/meta-controtransferale. • Il terapeuta ha una prevalenza di statu-ruolo, ma si propone con un atteggiamento umano solidale, con caratteristiche non mascherate, disposto a offrire la sua esperienza e a confrontare le sue opinioni con quelle del paziente sino a giungere all’autodisvelamento di vissuti che contrassegnano la disclosure, quando la stessa sia culturalmente appropriata. Ciò è da considerare un equilibratore dello status-ruolo del paziente. Il terapeuta infatti, attraverso un contro-metatransfert, deve favorire un clima terapeutico positivo attraverso una fornitura di presenza ed una base empatica sicura. 4) Ogni forma di P.D.C. dovrebbe stabilire un’alleanza terapeutica, realizzando un incontro con l’“Altro” e con la sua alterità culturale attraverso dei processi comunicativi. In questo entrano in gioco le implicanze convenzionali e conversazionali; l’uso del linguaggio figurato (specie le proposizioni metaforiche); gli aspetti impliciti ed espliciti; l’uso contemporaneo della sfera gestuale (che ha codici suoi propri e che quindi è cultural-dipendente) (Rovera e Gatti, 2012). Il problema peraltro non è solo quello di comunicare, ma di farlo in modo “adeguato”, tenendo presenti da un lato le richieste e le esigenze del paziente e dall’altro lato il fatto che ogni modello di psicoterapia ha dei Nell’ambito di una Psicoterapia Dinamica Culturale ed in particolare Interculturale, il setting, che ha potenzialità terapeutiche, dovrebbe essere organizzato con modalità relazionali che permettano l’espressione del disagio psichico e consentano al contempo di portare alla luce anche rappresentazioni culturali, favorendo un’appropriata comunicazione NEWSLETTER codici di riferimento, i quali stabiliscono le procedure e le punteggiature del percorso terapeutico che devono rapportarsi appropriatamente in una P.D.C. VI. Conclusioni In una Psicoterapia Dinamica Culturale in senso basale, debbono essere rilevati gli aspetti sull’interindividualità, sul coinvolgimento empatico, sulla tattica relazionale (comunicazione emica particolare), sulla semantica esistenziale (comunicazione etica generale). Nel contesto di un intervento culturale è importante sottolineare le differenze che si hanno quando le culture (tra terapeuta e paziente) sono molto diverse (transculturalismo), quando sono più affini (interculturalismo) o simili (intraculturalismo). Il “valore terapeutico”, anche a livello di formazione, della psicoterapia deriverebbe sia dall’applicazione corretta di questi codici che dovrebbero veicolare (e lo si è già sottolineato) sia il come fare (procedure della techne), sia il fare come (processi del Sé creativo) (Rovera, 1988). Ciò dovrebbe avvenire all’interno di una costante e rispettosa valutazione clinica del disagio psichico, che tenga conto degli aspetti culturali del singolo individuo e ne comprenda le peculiarità. La Psicoterapia Dinamica Culturale potrebbe essere così sintetizzata: curare con le parole, integrare con il nuovo, dimostrare con le neuroscienze (Fassino, 2012) e, nel caso di specie, comprendere l’interazione culturale (Lerda, 2014; Rovera e Bartocci, 2014a e 2014b). Bibliografia 1. Anolli L. La sfida della mente multiculturale. Nuove forme di convivenza. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2011 2. Bartocci G. Psicopatologia Cultura e Dimensione del Sacro. Roma, E.U.R., 1994 3. Bartocci G. Psicopatologia Cultura e Pensiero Magico. Napoli, Liguori Editore, 1990 4. Cazzullo C. L. Prefazione in Inglese S. & Peccarisi C. Psichiatria oltre frontiera. Milano, Utet, 1997 5. Cozolino L. J. The Neuroscience of Psychotherapy. New York, Norton & Company, 2002 6. 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