NEWSLETTER N°15 - Società Italiana di Psicoterapia Medica

SOCIETA’ ITALIANA DI PSICOTERAPIA MEDICA
SEZIONE SPECIALE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI PSICHIATRIA
a cura del Consiglio Direttivo
Newsletter Sipm
Numero 15
Giugno 2016
Editoriale di Secondo Fassino con la partecipazione di Maria Zuccolin e di
Corine Panepinto
Di che cosa, di chi ci stiamo occupando noi medici psicoterapeuti ?
In questo numero
1. Editoriale
2. Toward a new definition of
mental health
3. How Is Our Self Altered in
Psychiatric
Disorders? A Neurophenomenal
Approach to
Psychopathological Symptoms
4. The nature of psychiatric
disorders
5. The need for a conceptual
framework in psychiatry
acknowledging complexity
while avoiding defeatism
6. Treatment engagement of
individuals experiencing
mental illness: review and
update
7. Should we listen and talk
more to our patients?
8. Psicoterapia dinamica
culturale
Nella precedente News Letter Sipm 13/14 discutevamo su cosa sia
essenziale per il processo di cambiamento in psicoterapia , confrontando
studi clinici, ricerche sui meccanismi profondi , neurobiologici persino, di
empatia e compassione, valutazioni del ruolo della personalità del
terapeuta, e implicanze sui sistemi di apprendimento della psicoterapia
psicodinamica, persino sul modo psicodinamico di prescrivere i farmaci….
Di nuovo, alcuni contributi emergenti della ricerca e della riflessione clinica
ci interrogano pressantemente:
che cosa deve cambiare, chi deve
cambiare…di che cosa , di chi ci stiamo occupando noi medici
psicoterapeuti, psichiatri ? M. Maj già nel 2010 in World Psychiatry (WP)
aveva proposto un forum sull’identità attuale dello psichiatra, nel dubbio
che sia una specie a rischio di estinzione …Ancora riecheggiano gli allarmi
di M.Angell (2012) editor in chief de New England Journal of Medicine,
circa l’epidemia di malattie mentali e le illusioni della psichiatria. Per
Bracken et al. 2012 in un editoriale del The British Journal of Psychiatry (BJP)
una psichiatria post-tecnologica non abbandona gli strumenti della scienza
empirica né rifiuta le tecniche mediche o psicoterapeutiche, ma deve
cominciare a considerare prioritari gli aspetti etici ed ermeneutici del nostro
lavoro, sottolineando in tal modo l’importanza di prendere in esame i valori,
le relazioni e le basi etiche e politiche del prendersi cura. Un tale
cambiamento avrà grosse implicazioni per le nostre priorità di ricerca, le
abilità che insegniamo ai nostri allievi, le sorti dei servizi che cerchiamo di
portare avanti e il ruolo che giochiamo nel confrontarci coi rischi dei nostri
pazienti. L’anno successivo, un altro editoriale del WP 2013 Adherence to
psychiatric treatments and the public image of psychiatry introduce un
forum sulle cause e rimedi di questa emergenza : la non-aderenza – un
principale aspetto della resistenza - è il maggior problema di salute
pubblica nonostante i notevoli progressi degli studi sull’efficacia dei
trattamenti.
*
Un’altra, la presente serie di studi in questa 15° NL concerne su di cosa e di
chi come psicoterapeuti stiamo parlando… la natura della sofferenza
psichica e delle persone con sofferenza psichica….
1) Sta emergendo una nuova definizione di salute mentale ? S. Galderisi et
al. (WP2015) propongono di superare prospettive basate su norme ideali o
su tradizioni teoretiche edoniche o eudaimoniche a favore di un approccio
inclusivo, il più possibile libero da concezioni restrittive e legate alla cultura e
più vicino possibile all’esperienza umana di vita, che è a volte felice, altre
volte triste o spaventosa; talvolta soddisfacente e altre volte impegnativa o
insoddisfacente. La salute mentale appare allora come uno stato dinamico
di equilibrio interno che permette agli individui di usare le loro capacità in
armonia con i valori universali della società, condzione espressa e al
contempo basata su capacità di riconoscere, esprimere e modulare le
proprie emozioni, così come di empatizzare con gli altri, la flessibilità e la
capacità di gestire gli eventi di vita avversi,… La definizione proposta
appare compatibile con la prospettiva per cui la guarigione dopo una
malattia è un processo volto a raggiungere un’esistenza soddisfacente e
apprezzabile fondata sulle funzioni risparmiate dalla malattia, nonostante
altre funzioni siano rimaste compromesse.
2) Di che natura sono i disturbi psichiatrici ? (S. Kendler W P 2016) E’ la
domanda fondamentale per la psichiatria. L’autore critica tre rilevanti
teorie: realismo, pragmatismo e costruttivismo. Il realismo “chimico”, e
“biologico sostiene che il contenuto della scienza è reale e indipendente
NEWSLETTER
Il pragmatismo si approccia in modo ragionevole ai disturbi psichici cercando
categorie che si adattino bene all’esistente. Ma non rivendica alcuna realtà
per tali disturbi. Tale approccio è problematico in quanto abbiamo il compito
di prendere posizione di fronte alla nostra professione e ai nostri pazienti in un
confronto con altre discipline mediche che non hanno alcun dubbio
sull’esistenza delle malattie da loro curate. Il costruttivismo è stato spesso
associato agli attivisti dell’antipsichiatria, ma dobbiamo ammettere che le
forze sociali giocano un ruolo nelle nostre diagnosi, così come in molte altre
scienze. Tuttavia sono rari i disturbi psichiatrici che sono solo vere costruzioni
sociali.
L’ autore porta argomenti sostanziali contro una teoria realista dei disturbi
psichiatrici. Dal momento che molte diagnosi psichiatriche sono state
proposte negli anni e poi sono decadute e sono state abbandonate, come
possiamo sostenere che la nosologia attuale sia quella giusta? Occorre
argomentare a favore dell’esistenza di più ampi costrutti di malattie mentali
rispetto alle categorie attuali, che rimangono degli esperimenti e prendere in
considerazione una teoria della coerenza sulla verità secondo la quale i
disturbi diventano maggiormente veri quando si adattano ad altre nozioni
che abbiamo sul mondo. Nel nostro progetto, secondo l’autore, tuttora in fieri,
di studiare e giustificare la natura dei disturbi psichiatrici, dovremmo essere in
gran parte pragmatici, ma non perdere di vista, nonostante le difficoltà che
ne conseguono, la realtà della malattia psichiatrica.
3) E’ necessario un quadro concettuale in psichiatria che riconosca la
complessità e che, allo stesso tempo, metta al riparo dal disfattismo ! E’
quanto auspica M.Maj su WP 2016. I disturbi mentali sono delle astrazioni
arbitrarie?
E’ da considerare
il concetto dei “modelli” di patologie
psichiatriche, che consideri la complessità dell’eziopatogenesi delle malattie
mentali : interazione di elementi biologici, psicologici, interpersonali e
socioculturali. Gli attuali sistemi diagnostici in psichiatria (DSM / ICD) sono
scarsamente adoperati nella pratica clinica, più impiegati per le esigenze
amministrative. E’ possibile che l’identità psicopatologica dei disturbi mentali si
manifesti ad un piano superiore rispetto a quello dei circuiti cerebrali. I
meccanismi neurobiologici entrano in gioco probabilmente nella
maggioranza o in tutti i disturbi mentali, ma l’identità psicopatologica di tali
affezioni potrebbe manifestarsi ad un livello ancora superiore rispetto a quello
dei circuiti cerebrali, per cui diviene di cruciale rilevanza la spiegazione dei
processi di ordine-superiore che intervengono (per esempio di tipo
psicologico, culturale). Da qui la necessità di mantenere aperto un dialogo tra
le neuroscienze e altre discipline (antropologiche, psicologiche, sociali)
quando indaghiamo la patogenesi di quelli che dovremmo probabilmente
abituarci a concepire, come Kraepelin nel suo ultimo periodo li definirebbe,
quali “modelli di disturbi mentali”.
4) Le ricerche neurobiologiche possono dire qualcosa sul modo in cui è
alterato il nostro Sé nelle patologie psichiatriche? G. Northoff
su
Psychopathology 2014 propone un approccio neurofenomeno- logico ai
sintomi psicopatologici. Il Sé è una dimensione centrale nella nostra
esperienza ed è stato a lungo considerato fondamentale per ogni tipologia di
coscienza in ambito filosofico.
Recenti evidenze delle neuroscienze
dimostrano come un particolare set di regioni cerebrali, in particolare le
regioni corticali mesiali, si associno al processamento e all'elaborazione di
stimoli specificatamente correlati al Sé rispetto a quelli non correlati al Sé. Vi
sarebbe una stretta correlazione tra attività collegate al Sé e elevati livelli di
attività del Resting State nelle regioni mesiali anteriori. Interessante notare
come recenti evidenze nella depressione e nella schizofrenia, mostrino
alterazioni dell'attività di resting state proprio nelle strutture corticali mesiali.
L’autore suggerisce un approccio fenomenologico che colleghi direttamente
aspetti neuronali e neurofenomenologici (senza mettere in mezzo funzioni
sensorimotorie o cognitive) ai sintomi psicopatologici del sé nella depressione
e nella schizofrenia.
5) Questo dibattito potrebbe sembrare astratto e poco pertinente alle attuali
difficoltà che gli operatori riscontrano nella clinica… Nel successivo recente
quinto articolo (ri)emerge l’allarme sulla difficoltà del cambiamento di chi
ha sofferenza psicopatologica e sulla l’adesione dei pazienti ai trattamenti.
L.B. Dixon, et al. propongono un aggiornato studio sul problema del
coinvolgimento nel trattamento di individui affetti da disturbi mentali, appena
pubblicato su WP 2016. I soggetti con gravi disturbi mentali, come i giovani
adulti al primo episodio di psicosi, i soggetti in compresenza di disturbi psicotici
e abuso di sostanze e i senzatetto, difficilmente partecipano attivamente a
NEWSLETTER
cultura del “contesto psicoterapico relazionale” come fondamento e strumento 5)
La psicoterapia oggi sta raccogliendo crescenti evidenze di efficienza sul piano
clinico, le neuroscienze portano dati probanti sul processo, gli studi economici
confermano la sua validità dal punto di vista dei costi/risultati: perché Freud
E’ questa la domanda che Northoff (2012) argomenta nell’ultimo articolo di questa
NL Psychoanalysis and the brain–why did Freud abandon neuroscience? a
proposito del rapporto tra psicoanalisi e cervello.
Freud nacque come neuroscienziato ma presto dopo “il progetto di una psicologia
scientifica”
1895 abbandonò
la neuroscienza.
ragione
principale
di questo
una
terapia nel
in corso,
con la conseguenza
di alti La
tassi
di dropout,
ricaduta
e
rifiuto potrebbe essere il fatto che l’approccio al cervello nel contesto temporale in
riospedalizzazione. Tra i fattori legati al coinvolgimento ci sono l’alleanza
cui Freud ha operato, non lo trovava d’accordo. Freud era interessato ad indagare
terapeutica,
l’accessibilità
all’assistenza
e aiil processi
desiderio
del paziente che la
le predisposizioni
neurali psicologiche
rispetto
psicodinamici.
terapia
risponda
unicamente
ai
suoi
obiettivi.
Gli
autori
riscontrano
Ciò nonostante, egli non si focalizzava sulle funzioni psicologiche
effettive che
in se
l'assistenza
finalizzata
al recupero,
che ilha
tra prioritario
le priorità
l’autonomia,
stesse, funzioni
che invece
rappresentano
focus
della
neuroscienzalaai
suoi tempi e della neuroscienza
cognitiva
giorno d’oggi.
responsabilizzazione
e il rispetto
della alpersona
che riceve le cure, è un
Northoff ritiene
Freud
sarebbeper
statoricavarne
probabilmente
più interessato
allo stato
obiettivo
utile che
a cui
orientarsi
strumenti
e tecniche
chedi
attività a la
riposo
del cervello (resting
state)
e alla costituzione
della sualastruttura
migliorino
partecipazione
attiva al
trattamento.
Nello specifico,
cura
spazio-temporale.
L’attivitàche
a riposo
rappresentare
incentrata
sulla persona,
includedel
un cervello
percorsopotrebbe
di decisione
condivisala
predisposizione neurale rispetto a quello che Freud descrisse come “struttura
terapeuta-paziente, è un approccio che si concentra sul singolo individuo,
psicologica”. Freud, come l’attuale psicoanalisi, si concentrano maggiormente
suisulle
suoi
personali obiettivi
e sulle circostanze
sua
personale
esistenza.
predisposizioni
neurali, condizioni
necessarie della
ma non
sufficienti,
piuttosto
che sui
Lacorrelati
cura incentrata
persona
nei modelli
terapia per la
salute imentale
neurali, sulla
condizioni
sufficienti
per dideterminare,
invece,
processi
presenta
risultati
promettenti
perdi quanto
la di
partecipazione
psicodinamici,
come
i meccanismi
difesa. Suiriguarda
meccanismi
difesa Northoff eet
al. del 2007
un articolo riportato
nella NLconsiderano
SIPM 3,2009 persino
How doesstrategie
our brain
l’adesione
ai intrattamenti.
Gli autori
constitute defense
mechanisms?
First-personil neuroscience
and come
psychoanalysis
emergenti
che potrebbero
migliorare
coinvolgimento
l’uso
discuteva il rapporto
neuroscience
in prima
e psicoanalisi:
dell’elettronica
e di tra
internet,
l’assistenza
trapersona
pari (peer
provider)l’interazione
etc.etc.
emozionale
tra paziente
e terapeuta
è crucialegli
nell’indurre
negli
ma
in particolare
sembrano
da cogliere
inviti ai modificazioni
percorsi della
schemi dei meccanismi di difesa, pertanto, lo studio dei meccanismi neuronali
valutazione e della inclusione culturale del paziente (es. ricorso al Cultural
cerebrali di entrambi che ne sono alla base, potrebbe essere un punto di futuro
Formulation
interesse . Interview) al fine di fornire un’assistenza incentrata sulla
persona
competente
sotto ilaprofilo
culturale.
C) In fine
viene presentato
cura del
Dr. Andrea Ferrero , Presidente della Sez
Dixon
e coll.
riferiscono
una serie di
atteggiamenti
e modi di fare
sono
Piemonte
della
SIPM un documento
concernente
l' appropriatezza
delleche
indicazioni
alla psicoterapia
annunciato
Consiglio
Direttivo
della
SIPM tenutosi :a
caratteristici,
propri
del fareall'ultimo
psicoterapia,
dell’
essere
psicoterapeuti
Milanotimidamente
nel corso dell'ultimo
Congresso
SIP il termine, il concetto, psicoterapia
troppo
in tutto
l’articolo
compare una sola volta ! Allora risuonano nuovamente e con fragore i
commenti di allarmato stupore di Holmes in BJP 2012 e 2013 quando
rispondendo all’articolo di Braken e coll. BJP 2012 sulla necessità di un
nuovo paradigma in psichiatria (vedi sopra) afferma che Braken e coll.
sono forti nella diagnosi, ma deboli nella terapia in quanto non vedono
che c’è già un nuovo paradigma, ed è quello della psichiatria
psicodinamica. A ben guardare la psicopatologia di sviluppo, attuale
avanguardia basata sulla teoria sull’attaccamento, i dati della
neuroimaging e dall’epigenetica avvalorano il modello psicodinamico. Ne
sono ben evidenti i verdi germogli della psichiatria psicodinamica appunto
centrata sulla relazione (psico)terapeutica di per sé
psicodinamica !
Recenti evidenze (Chisolm 2011), (infatti e tuttavia !) confermano che la
pratica della psicoterapia da parte degli psichiatri è grandemente ridotta,
circa del 35 % negli ultimi 10 anni. L’aumentata prescrizione di psicofarmaci
spiega solo in parte il fenomeno.
Nulla è più difficile da vedere di quello che abbiamo sotto naso, già
osservava Goethe!
6) Con altrettanto, retorico, stupore Aber e Lambert , WP 2013, nel
successivo articolo , il n.6, si chiedono :” Dovremmo forse ascoltare e
parlare di più ai nostri pazienti?”
Tra il 20 e il 40% dei pazienti psichiatrici abbandonano i servizi di cura entro
12 mesi dalla presa in carico Più del 40% dei pazienti interromperà le terapie
immediatamente dopo le dimissioni da un ricovero in ambiente
psichiatrico. Contrariamente alle aspettative, l’introduzione degli
antipsicotici di seconda generazione non ha generato un miglioramento
della compliance. L’aumento dei contatti del paziente con il curante,
anche se per ragioni “solamente” cliniche (esami ematochimici,
somministrazione di terapia iniettiva long acting) sembra migliorare la
compliance alle cure
E’ necessario utilizzare paradigmi di intervento integrati per ridurre i tassi di
drop out dei pazienti dai servizi di cura e migliorare l’aderenza alle terapie.
Se confrontati con i trattamenti standard, è stato dimostrato che la gran
parte di questi ultimi schemi di trattamento permette di ridurre i tassi di
drop-out dei pazienti dai servizi di cura e di migliorare l’aderenza alle
terapie, raggiungendo migliori risultati da un punto di vista
multidimensionale ed abbattendo i costi sanitari.
7) Nell’ ultimo, articolo, di questa serie, appare puntuale, necessaria la
proposta di Rovera e coll. di una Psicoterapia dinamica culturale (2014).
Nel contesto di un intervento culturale è ora importante sottolineare le
differenze che si hanno quando le culture (tra terapeuta e paziente) sono
molto diverse (transculturalismo), quando sono più affini (interculturalismo)
o simili (intraculturalismo).
NEWSLETTER
In una Psicoterapia Dinamica Culturale in senso basale, debbono essere
rilevati gli aspetti sull’interindividualità, sul coinvolgimento empatico, sulla
tattica relazionale (comunicazione emica particolare), sulla semantica
esistenziale (comunicazione etica generale). Il “valore terapeutico”, anche
a livello di formazione, della psicoterapia deriverebbe sia dall’applicazione
corretta di questi codici che dovrebbero veicolare sia il come fare
(procedure della techne), sia il fare come (processi del Sé creativo)
(Rovera, 1988). Ciò dovrebbe avvenire all’interno di una costante e
rispettosa valutazione clinica del disagio psichico, che tenga conto della
cultura , anche in senso antropologico, del singolo individuo e ne
comprenda le peculiarità. La Psicoterapia Dinamica Culturale potrebbe
essere così sintetizzata: curare con le parole, integrare con il nuovo,
dimostrare con le neuroscienze, ma soprattutto comprendere l’interazione
culturale .
***
La capacità di lavorare con livelli molteplici di conoscenza e con diversi
sistemi di significato sta al cuore del nostro lavoro psicoterapeutico.
Comprendere il contributo unico della psicoterapia all’assistenza sanitaria
può solo aumentare l’importanza della nostra professione per i restanti
campi della medicina, oltre che per la pratica psichiatrica. Tutte le forme di
sofferenza comprendono livelli di storia personale immersi in un fulcro di
relazioni significative, a loro volta immerse in complessi sistemi culturali. Molti
clinici (cfr.Kleinman & van der Geest 2009) hanno giustamente criticato il
modo con cui la medicina è giunta a considerare l’“assistenza” in termini
puramente tecnici. Nel mentre proprio le tecniche sofisticate del brain
imaging rendono evidente l’invisibile , implicito, ma potente contagio
emotivo medico-paziente, in qualunque tipo di relazione terapeutica, al di
sotto della consapevolezza: contagio quindi denso di effetti biopsicologici
curativi o invece iatrogenici. Allo stesso modo altri (cfr. Heath 2011) hanno
mostrato l’importanza delle relazioni e della comprensione narrativa in
medicina. La psicoterapia medica, dei medici, ha il potenziale di offrirsi
come guida in questo campo, non
per rinchiudersi in un’identità
biomedica ancora più marcata e fuorviante , ma per mettersi a
disposizione delle professioni contigue degli medici di famiglia, generalisti
geriatri, psichiatri, psicologi e degli altri operatori sanitari che
riconosceranno il valore determinante della relazione terapeutica. La
psichiatria non è neurologia, non è una medicina del cervello: necessita
della dimensione psicoterapeutica per il coinvolgimento ottimale del
paziente indispensabile per diventare efficace.. Sebbene i problemi della
salute mentale abbiano di per sè una dimensione biologica, essi vanno
oltre l’ambito del cervello e coinvolgono dimensioni sociali, culturali e
psicologiche. Queste non si possono sempre comprendere attraverso
l’epistemologia biomedica. La vita mentale degli esseri umani ha una
natura discorsiva, narrativa. Non solo quindi dobbiamo aggiungere
conoscenze delle scienze umane e sociali nel curriculum dei professionisti
della salute che formiamo, ma anche sviluppare una sensibilità differente
verso gli aspetti psicologico-relazionali della
salute complessiva
dell’individuo, non raggiungibile senza la salute mentale (Prince, Maj et al.
2007).
Ciò significa per la nostra professione affrontare la sfida, impegnativa ed
entusiasmante, di riconoscere la relazione come ciò che funziona di più.
Avremo sempre bisogno di utilizzare le nostre conoscenze sul cervello e sul
corpo per individuare le cause organiche dei disturbi mentali, così come di
conoscere gli psicofarmaci per dare sollievo a certe forme di disagio.
Tuttavia la buona pratica psichiatrica comprende un confronto attivo con
la complessa natura dei problemi della salute mentale, un salutare
scetticismo per il riduzionismo biologico, una tolleranza verso la natura
ingarbugliata del mondo delle relazioni e dei significati, e una capacità di
negoziare tali questioni in maniera tale da dare maggiore empowerment al
movimento degli utenti dei servizi sanitari e di quelli psichiatrici e a chi si
prende cura di loro (Brakchen et al 2013).
NEWSLETTER
***
E’ quindi evidente ed urgente il contributo della psicoterapia medica per
una riaffermazione clinica della relazione curativa nella psichiatria e nella
medicina contemporanea.
***
La Dimensione psicoterapeutica in Sanità: La relazione col paziente
strumento base di ogni cura.
E’ questo l’obiettivo, il tema
centrale del
43° Congresso SIPM in
programma all’Università di Chieti dal 9 al 12 giugno 2016 (programma e
abstract book su www.sipm.it) . In continuità con le tematiche affrontate
nei precedenti Congressi, si intende focalizzare l’attenzione su ricerche e
prospettive inerenti il lavoro psicoterapeutico in medicina, con alcune
sottolineature : la rilevanza della formazione psicoterapica dell’operatore in
sanità, l’importanza della dimensione psicoterapeutica in medicina, la
necessità di una formazione degli psicologi alla dimensione medica in
psicoterapia. Viene ripreso preliminarmente in modo critico il modello
Biopsicosociale con implicazioni, limiti e nuove possibilità di ricerca,
nell’ottica della complessità del rapporto tra medico ( e più in generale
“operatore sanitario”) e paziente. Attenzione peculiare è riservata alla
tematica del trauma, intesa in modo allargato, sia rispetto ai problemi
specificatamente psichiatrici nel bambino e nell’adulto, sia rispetto alle
sempre più complesse situazioni sanitarie derivanti dalla medicina attuale.
Vengono proposte riflessioni critiche sulla necessità di competenze
psicoterapeutiche in vari ambiti di interventi , in particolare nella
prescrizione dei farmaci non solo rispetto alla adesione ai trattamenti, nella
convinzione che mantenere la competenza alla psicoterapia, soprattutto
ma non solo nello psichiatra, è condizione essenziale per un intervento
efficace.
Nel discorso sulla formazione è poi necessario includere tutte le figure
professionali sanitarie (in primis infermieri, educatori e terapisti della
riabilitazione psichiatrica) che manifestano frequentemente l’esigenza di
imparare nuove tecniche e di apprendere un’attitudine psicoterapeutica.
Una particolare attenzione viene infine riservata allo stato della
riorganizzazione delle Scuole di Specializzazione pubbliche e private. Tale
tema può rivelarsi essenziale non solo per il miglioramento di ogni intervento
terapeutico, ma anche per lo sviluppo in senso costruttivo del dibattito tra
psicologia e medicina e tra psicologi, medici e psichiatri.
***
Risuonano profetici i moniti di Engel G.L. 1977 “Niente cambierà fino a
quando coloro che controllano le risorse avranno la saggezza di
avventurarsi fuori dai sentieri battuti di esclusivo affidamento sulla
biomedicina come l'unico approccio alle cure sanitarie “ e quelli di Rovera
G.G. 1984“..il concetto di approccio psicosomatico dovrebbe identificarsi
come una messa in cura globale del paziente …il che significa porre al
centro dell’intervento medico non la malattia ma l’individuo sofferente,
quale nodo significativo lungo i cui collegamenti possono essere
identificate e privilegiate le varie dimensioni clinico-biologiche,
psicologiche e sociali”
Si rende pertanto urgente una formazione maggiormente psicologica in
campo sanitario. Gli interventi psicologici nella pratica medica sono
sempre più necessari tanto che U. Schnyder Presidente della International
Federation for Psychotherapy nella sua relazione al 20° World Congress on
Psychosomatic Medicine–Turin già nel 2009
interrogava : al fine di
comprendere i pazienti e alleviarne le sofferenze, fenomeno per eccellenza
bio-psico-sociale, tutti i medici sono, o devono diventare, psicoterapeuti?
L’esperienza del medico – il saper fare – e l’abilità relazionale – il saper
essere – rappresentano i più importanti aspetti etici della persona, della
personalità del medico cui è richiesta questa nuova prassi più che mai
sostenuta dalle nuove acquisizioni scientifiche.
NEWSLETTER
In rilievo:
congressi e seminari
Chieti, 9-10-11-12 giugno 2016
43° CONGRESSO SOCIETÀ ITALIANA DI
PSICOTERAPIA MEDICA
La Dimensione psicoterapeutica in Sanità: la
relazione col paziente strumento base di ogni
cura
Campus Universitario, Via dei Vestini, 31 Chieti Scalo
Presidenti del Congresso: Secondo Fassino e Mario
Fulcheri
MAIN TOPICS
-Sviluppi del modello Biopsicosociale verso la
complessità. Intersoggettività e neurobiologia
- Empatia, psicopatologia e personalità
- Il trauma in medicina: psicopatologia e psicoterapia
nell’infanzia e nell’adultità.
- Fattori facilitanti e fattori disturbanti in psicoterapia.
- Fattori favorenti e disturbanti la relazione terapeutica.
- La personalità del terapeuta come fattore di esito.
- La dimensione psicoterapeutica e del counseling in
Sanità, Psichiatria e Clinica Psicologica.
Rilevanza
della
formazione
psicoterapica
dell’operatore in Sanità.
- La formazione al rapporto medico/paziente in
medicina.
- Possibili contributi della psicoterapia medica alla
in/formazione del medico di base.
- Dalla Medicina Generale alla Medicina Specialistica:
la indispensabile centralità della relazione terapeutica.
- Formazione degli psicologi alla dimensione medica in
psicoterapia.
- Psicoterapia e Farmacologia: Prescrivere i farmaci
con competenza psicoterapica.
- Stato della riorganizzazione delle Scuole di
Specializzazione pubbliche e private.
NEWSLETTER
PROGRAMMA:
Giovedì 9 Giugno
AMBITI APPLICATIVI
DELLA DIMENSIONE PSICOTERAPEUTICA IN SANITA’
Gruppi didattico-formativo-professionalizzanti
(Mini-Master)
Ore 13:00 – 14:00 Iscrizioni e Registrazione dei Partecipanti
Ore 14:00 – 14:45 INTRODUZIONE AI LAVORI IN SESSIONE PLENARIA (Aula
Magna)
S. Fassino, M. Fulcheri, M. di Giannantonio, S. Miscia, R. Borgia,
Rappresentanti delle principali Associazioni dei Malati, Responsabile del
Servizio Aziendale Professioni Sanitarie, Segretariato Italiano Studenti in
Medicina (SISM – Chieti)
Ore 14:45 – 18:45 Gruppi didattico-formativo-professionalizzanti (Mini
Master)
1. Obesità, Diabete e Sindromi Metaboliche:
Coordinatore: C. Conti
Intervengono: V. Costantini, L. Giampietro - L. Di Caprio, M.T. Guagnano,
M. Minna,
R. Seller, V. Tozzi, E. Vitacolonna - G. Ianiro.
2. Neurologia-Neuropsichiatria Infantile-ORL:
Coordinatore: M. Onofrj
Intervengono: L. Bonanni, D. Carrozzino, R. Filippini, G. Neri, C. Montemitro,
A. Thomas, A. Verrotti..
3. Dermatologia-Reumatologia-Gastroenterologia:
Coordinatore: P. Amerio, A. Frullini
Intervengono: G. Baroni, G. Carbone, M. Neri – K. Efthymakis, C. Neagu
Ciuluvica, R. Paganelli, M. Petrucci, E. Sabatini.
4. Dipendenze e Psicoinfettivologia:
Coordinatore: M. C. Verrocchio
Intervengono: M. Alessandrini, P. Fasciani, L. Giacci, A. Jaretti Sodano,
M. Marcucci, G. Parruti, F. Vadini, F. Valente, F. Vellante.
5. Ginecologia-Ostetricia e Chirurgia demolitiva:
Coordinatore: A. Babore
Intervengono: A. Ambrosini, C. Candelori, C. Celentano, D. Di Ciano, C. Di
Matteo, M. Di Nardo, M. Forcucci, F. Frondaroli, M. Liberati, D. Romagnoli.
6. Oncologia-Cure palliative e Dolore:
Coordinatore: C. Natoli
Intervengono: A. Costantini, D. Di Giacomo, A. Di Silvestre, M. Diodati, V.
Forlano, R. Maiella, K. Marilungo, P. Pavone, G. Salladini, L. Sirri, H. Troiano.
7. Psico-traumatologia, emergenze, trapianti e lutto:
Coordinatore: M. Fulcheri
Intervengono: A. Attianese, G. Bontempo, L. Lippa, A. Paris, D. Scarponi, E.
Tossani, M. Ventura.
8. Malattie: genetiche ereditarie, rare (m. Pompe); asma e BPCO;
endocrinologia e sport.
Coordinatore: P. Ballerini
Intervengono: S. Astori, M. Costantini, G. Gramaccioni, , G. Napolitano, D.
Maiella, M. Romano, L. Stuppia.
Ore 18:45 – 19:30 CONCLUSIONE LAVORI IN SESSIONE PLENARIA (Aula
Magna)
Ore 19:30 – 20:15 “BENVENUTO TRADIZIONALE ABRUZZESE”
a cura di Francesco Stoppa.
Venerdì 10 Giugno Mattina
NEWSLETTER
Ore 08:30 – 12:00 Iscrizioni e Registrazione dei Partecipanti
Ore 09:00 – 12:00 Laboratori
1. G. Ballauri: Il Cinema come Formazione.
2. I. Senatore, S. Caracciolo: Come è mutata nel cinema l'immagine della
psicoterapia.
3. A.M. Ferro, F. Amianto, M. Zuccolin, A. Rambaudi: Interventi
psicoterapeutici nei Disturbi del Comportamento Alimentare.
4. A. Ferrero, S. Fassina, B. Simonelli: La ricerca in psicoterapia: specificità,
progetti e metodiche.
5. S. Bellino, M. Menchetti: Psicoterapia Interpersonale.
6. S. Costa, G. Rigon: Adolescenti: bisogni psicologici e medici di base.
Esperienza con allievi di un liceo.
Ore 12:00 Inaugurazione (Aula Magna di Psicologia)
Apertura del Congresso e Saluto delle Autorità.
Ore 12:15 – 12:45 Intervento Speciale: Fondazione, Sviluppo e Futuro della
Società Italiana di Psicoterapia Medica F. Petrella, A. Pazzagli, G.G.
Rovera, P. M. Furlan, G. Pierri, S. Fassino
Ore 12:45-13:30 Relazione introduttiva dei Presidenti
M. Fulcheri: Attuali sviluppi del modello Biopsicosociale verso la
complessità.
S. Fassino: Neuroscienze e dinamiche profonde della relazione
psicoterapeutica.
Ore 13.30 Consiglio Direttivo
Ore 13:45 Pausa Pranzo
Venerdì 10 Giugno Pomeriggio
Ore 14:30-16:00 PRIMA SESSIONE PLENARIA: Fattori facilitanti e fattori
disturbanti in psicoterapia.
Moderatore: C. Loriedo
Relatori: A. Merini: Fattori favorenti e disturbanti la relazione terapeutica;
A. Ferrero: La personalità del terapeuta come fattore di esito.
Discussant: G. Rigon
Ore 16:00-17:30 SECONDA SESSIONE PLENARIA: Il trauma in medicina:
psicopatologia e psicoterapia (PTSD).
Moderatori: G. G. Rovera – C. Mucci
Relatori: S. Costa: Interventi a valore psicoterapico in setting ospedalieri in
età evolutiva; V. Berlincioni: Interventi psicoterapeutici nel trattamento
dei PTSD: rapporto tra migrazione, esperienze traumatiche e condotta
delinquenziale.
Discussant: G.P. Pierri
Ore 17:30-17:45 Pausa Caffè
Ore 17:45-19:15 TAVOLA ROTONDA:
La Dimensione psicoterapeutica e del Counseling in Sanità
Moderatori: S. Amato, L. Janiri
Intervengono: F. Consorti, G. Sarchielli, A. Zucconi
Discussant: F. Cattafi
Ore 19.15 Chiusura della prima giornata dei lavori
Ore 19:30 Coro Ateneo (a cura della Prof.ssa Carmen Della Penna)
Ore 20.30 Aperi-cena presso Mensa Universitaria
Presentazione dei volumi:
Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione
psichiatrica prima della legge Basaglia. A cura di P.M. Furlan. Donzelli Ed.,
2016
Medicina e Psicoterapia. A cura di D. La Barbera, G. Lo Verso. Aupes
Ed., 2016
Sabato 11 Giugno Mattina
Ore 9:00 – 10:45 TERZA SESSIONE PLENARIA: Empatia, psicopatologia e
personalità.
Moderatori: F. M. Ferro – M. Fornaro
Relatori: P. Migone: Personalità del terapeuta e variabili che condizionano
la capacità di rispecchiamento;
F. Amianto: Attaccamento, empatia e sviluppo del sé: il caso degli eating
disorders.
NEWSLETTER
Discussant: F. Petrella, A. Ferrero
Ore 10:45 – 12:15 TAVOLA ROTONDA:
Dalla medicina generale alla medicina specialistica: la indispensabile
centralità della relazione terapeutica
Moderatori: T. Di Iullo, F. Valente
Relatori: C. Paladini: Corpo e mente nella terza età; L. Zinni: Dottore non
ce la faccio più: la Depressione in medicina generale; L. Stuppia: Il futuro
nelle relazioni terapeutiche: la genetica in psicofarmacologia;
M. Di Giannantonio, G. Martinotti: Il paziente complicato: psicofarmaci nei
trattamenti psicoterapeutici.
Discussant: M. Fulcheri, A. Frullini
Ore 12:15 – 13.45 TAVOLA ROTONDA: Psicoterapia e Farmacologia:
Prescrivere i farmaci con competenza psicoterapica.
Moderatori: S. Fassino, M. Di Giannantonio
Intervengono: S. Caracciolo, L. Grassi, G. Orlando
Discussant: M. Zuccolin
Ore 13:45 Pausa Pranzo
Sabato 11 Giugno Pomeriggio
Ore 14:30-16:00 QUARTA SESSIONE PLENARIA: Rilevanza della formazione
psicoterapica dell’operatore in sanità.
Moderatori: D. Berardi, M. Ruggeri
Relatori: P. M. Furlan: Il rapporto tra cure primarie e psicoterapia; dove
sono gli errori?; D. Bolelli, D. Cesaretti: Possibili contributi della psicoterapia
medica alla in/formazione del medico di medicina generale.
Discussant: A. Merini
Ore 16:00-17:30 TAVOLA ROTONDA: Formazione degli psicologi alla
dimensione medica in psicoterapia.
Moderatori: N. Rossi, R. Tambelli
Intervengono: A. Compare, G. Lavenia, G. Lo Verso, A. Zennaro,
Discussant: S. Grandi
Ore 17.45: Festeggiano 50 anni: L’Università degli Studi G. D’annunzio di
Chieti-Pescara, la Società Italiana di Psicoterapia Medica e la Rivista
“Psicoterapia e Scienze Umane”
Ore 18.30 Assemblea dei Soci e rinnovo delle cariche sociali
Ore 20.00 Cena Sociale, con intrattenimento musicale, presso
Ristorante “Lo Scoiattolo” – Via Colle dell’Ara, 5 – 66100 Chieti Scalo (CH)
Domenica 12 Giugno Mattina
Ore 09:00-10:30 COMUNICAZIONI IN SESSIONI PARALLELE
Aula A: Moderatori: A. Babore,
Stili difensivi nei DNA in trattamento
Ballauri G. Abbate Daga G., De
psicoterapeutico intensivo
Bacco C., Albini E, Brustolin A.,
Duranti E., Fassino S.
Abbate Daga G., De Bacco C.,
La psicoterapia emotion-focused nel
Duranti E., Brustolin A., Marzola E.,
trattamento dei DNA in regime di
Albini E., Fassino S.
Day Hospital
Baroni G., Mancini V., Montemitro C.
Antipsicotici e volume cerebrale :
review della letteratura relativa agli
studi di MRI strutturale
Lorusso M.
Così parlò Sigmund
Mancini V., Baroni G.
L'importanza di un approccio
terapeutico integrato nella gestione
territoriale e familiare dei paziente
psicotici con agiti violenti
Montemitro C., Baroni G.
Integrazione tra trattamenti
farmacologici e interventi psicosociali
nella Schizofrenia resistente: quali
obiettivi terapeutici?
Aula B.: Moderatori: Berlincioni V., C.
Conti Ambrosini A.
Ciuluvica Neagu C., Amerio P.,
Fulcheri M.
La Depressione post-natale tra
struttura di personalità e miti culturali.
La soppressione espressiva delle
emozioni e la rivalutazione cognitiva
come predittori per il valore di BMI
nelle malattie croniche
NEWSLETTER
psicosomatiche
Ciuluvica Neagu C., Di Nardo M.,
Marchetti D., Sorgi K., Fulcheri M.
Lanzara R., Bosco G., Caniglia D.,
Guagnano M.T., Conti C.
Pezzini F., Nosari G., Saracino E.L.,
Berlincioni V.
Spalatro A.V., Amianto F., D'Agata F.,
Caroppo P., Lavagnino L., Abbate
Daga G., Bergui M., Mortara P., Derntl
B., Fassino S.
Aula C: Moderatori: Ferrero A., Frullini
A. Ciavarro M., Filograna Pignatelli G.,
Pacella A., Neri G.
Di Silvestre A., La Salandra A.,
Agostinone C., Cannone S.
Mennitto C., Del Sordo E., Conti C.
Patierno C., Carrozzino D., Fulcheri M.
Zanini C., Berlincioni V.
Zizzi F., Martellini M., Dorati G.,
Gagliardone C., Panero M., Rainis M.,
Toso A., Abbate Daga G., Amianto F.,
Delsedime N., Fassino S.
Aula D.: Moderatori: Furlan P.M.,
Rigon G. Bosetto D. Rodope G.,
Marasco E.
Martellini M., Zizzi F., Dorati G.,
Gagliardone C., Panero M., Rainis M.,
Toso A., Abbate Daga G., Amianto
F., Delsedime N., Fassino S.
Mosca A., Giannino D.
Podavini F., Broglia D., Gambini F.,
Berlincioni V.
Spano M.C.
Tuba F.
Aula E: Moderatori: Salone A., Sola T.
Buzzichelli, S., Marzola, E., Fassino, S.,
Abbate Daga, G.
Cafagna D., Florini M.C., Puiatti S.,
Rizzo M., Bosetto D., Bianchi G.
Catapane E.
Il dismorfismo corporeo e la
disregolazione emotiva come
predittori del disturbo da bingeeating
Obesità, Binge Etaing Disorder e
dimensioni della personalità:
un'analisi single-case
Trauma, migrazione e delinquenza:
studio trasversale descrittivo e
riflessioni cliniche
Network dell'Empatia nei Disturbi del
Comportamento Alimentare: due
facce della stessa medaglia?
Healt Literacy come il dialogo
medico-paziente può modificare
l’outcome clinico in vestibologia
Eventi stressanti e insorgenza di
neoplasie: la narrazione dei pazienti
Influenza della Personalità Distress
sulla percezione della qualità della
vita in pazienti con Diabete Mellito
La Rilevanza Clinica della
Valutazione Clinimetrica in ambito
Neurologico
Influenza del contesto socioculturale
sullo stigma nei confronti della
malattia mentale: studio su un
campione di pazienti psichiatrici
indiani (Kochi, Kerala) e italiani
(Pavia)
La relazione terapeutica con pazienti
“difficili” affetti da DCA ricoverati in
reparto di degenza
L’ équipe multidisciplinare non
eclettica e la sua efficacia nella
cura: progetti a confronto
La resistenza al trattamento in
pazienti con diagnosi di DCA grave
ricoverati in reparto di degenza
La relazione terapeutica come cura:
il caregiver nell’Alzheimer
L’ ascolto del paziente migrante in
una prospettiva etnopsichiatrica: un
caso clinico
“Dallo psichiatra ci vanno i matti…”
Lo stigma ai giorni nostri.
“L’inopinabile Eros”
Il ruolo del perfezionismo nella rigidità
cognitiva delle pazienti con Anoressia
Nervosa.
Valutazione psicosessuologica e
counseling psicosessuale nell’ ambito
della chirurgia urologica: Un progetto
di ricerca
La Psicoterapia Ipnotica nel contesto
ospedaliero per i trattamenti dolorosi
NEWSLETTER
ed invasivi in età pediatrica
Ferrigno R., De Nicola S., Pasquali L.,
Pace G.
Gambini F., Broglia D., Podavini F.,
Berlincioni V.
Lupone A., La Paglia M.
Aula F: Moderatori: Verrocchio .MC.,
Zuccolin M. Frullini A.
Frullini A.
Frullini A., Amato S.
Frullini A., Burroni G.
Leone V., Spalatro A.V., Fassino S.,
Amianto F.
Sossella R., Sossella F.
Approccio multidisciplinare nel
percorso di recupero delle
dipendenze: Metodo Chrysalis
L'etnopsichiatria come strumento di
relazione in contesto penitenziario: un
caso clinico
La clownterapia e le relazioni di cura
Codice deontologico medico 2014 e
tempo della comunicazione quale
tempo di cura.
I disagi relazionali della generazione
«né-né» o Neet
Educazione terapeutica come
strumento del processo di cura
I possibili apporti della
Psicodermatologia
Capacità Genitoriali: nuovi strumenti
di valutazione in relazione alla
Psicopatologia Alimentare
La relazione è sempre più virtuale
Ore 10:45-12:45 TAVOLA ROTONDA: Stato della riorganizzazione delle
Scuole di Specializzazione pubbliche e private.
Intervento preordinato: D. Berardi: Il modello di formazione alla
psicoterapia nella Scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università di
Bologna.
Moderatori: S. Fassino, M. Fulcheri
Intervengono: M. Ruggeri, A. Rambaudi, A. Granieri, G. Galliani, R. Latella
Discussant: R. Tambelli
Ore 12:45 PLENARIA DELLE COMUNICAZIONI E PREMIO ALLA MIGLIORE
COMUNICAZIONE
Ore 13:00 Chiusura Congresso: S. Fassino, M. Fulcheri
Questionari ECM
NEWSLETTER
Torino, martedì 14 giugno 2016
A cento anni dalla nascita di Michele Torre
LEZIONE MAGISTRALE
DEL PROF. GIAN GIACOMO ROVERA
Professore onorario di Psichiatria all’Università di
Torino
Aula Magna “Michele Torre” Via Cherasco 11 Torino
Pavia, 16 settembre 2016
DARIO DE MARTIS, UNO PSICHIATRA
PSICOANALISTA: ATTUALITÀ DI UNA PROSPETTIVA
SCIENTIFICA
Università degli Studi di Pavia, Corso Strada Nuova 65 –
Aula Foscolo
PROGRAMMA:
8.30 Saluti del Presidente della Società Italiana Psichiatria (C.
Mencacci)
e del Presidente della Società Psicoanalitica Italiana (A. Ferro)
I SESSIONE
Moderatori: S. Vender, P. Politi
9.00 Perché questo incontro? Dario De Martis, un’idea di
Psichiatria - F. Barale
9.30 Speranze e delusioni, tra psichiatria e psicoanalisi,
nella seconda parte del secolo scorso - A. Pazzagli
10.00 Dalla Psichiatria alla Psicoanalisi - T. Galli
10.30 Cambiamento dello sguardo psichiatrico, trasformazioni
istituzionali
e Psicoanalisi - M. Rossi Monti
11.00: Pausa caffè
II SESSIONE
Moderatori: E. Caverzasi, V. Berlincioni
NEWSLETTER
11.15 Per una pratica relazionale e sociale della clinica - F. Petrella
11.45 La Psichiatria di Comunità in Italia: quale futuro? - L.
Ferrannini
12.15 Il “campo istituzionale” vent’anni dopo - A. Correale
12.45 Conclusioni - F. Petrella
A conclusione del lavori, presso la Cascina Cravino, in Via Bassi, 21
– Pavia, verrà intitolato a Dario De Martis l’Istituto Universitario da
lui fondato e diretto, dove sarà offerto un rinfresco.
Comitato promotore: F. Petrella (Presidente), F. Barale, P. Ambrosi,
M. Bezoari, E. Caverzasi, S. Ucelli di Nemi,
S. Vender, G. Weiss (in memoriam)
Comitato organizzatore: N. Brondino, L. Fusar-Poli, A. Cerniglia
NEWSLETTER
Consiglio direttivo:
Presidente: S. Fassino
Segretario: V. Berlincioni
Tesoriere: M. Zuccolin
Probiviri: G. Ballauri
L. Burti
Consiglieri: D. Berardi
D. Bolelli
S. Costa
A. Giammusso D. La Barbera
P.M. Furlan
A. Merini
R.L. Picci
NEWSLETTER
Silvana Galderisi, Andreas Heinz, Marianne Kastrup, Julian Beezhold,
Norman Sartorious
Toward a new definition of mental health
World Psychiatry 2015;14 (2):231–233
Traduzione a cura della Dott.ssa Luisa Ottone
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la salute mentale
è “uno stato di benessere nel quale l’individuo realizza la proprie
capacità, è in grado di gestire i normali fattori di stress della vita, può
lavorare in maniera produttiva e fruttuosa ed è in grado di fornire un
contributo alla sua comunità” (1).
Questa definizione, mentre rappresenta un passo avanti sostanziale
nell’allontanamento dal concetto di salute mentale come condizione di
assenza di malattia mentale, suscita diverse preoccupazioni e conduce di
per sé a potenziali fraintendimenti dal momento che identifica sentimenti
positivi e funzionamento positivo come fattori chiave per la salute
mentale.
Considerando il benessere come un aspetto chiave della salute mentale
è infatti difficile riconciliarsi con le molte situazioni di vita difficili, nelle quali
una condizione di benessere potrebbe addirittura essere malsana: la
maggior parte delle persone considererebbe come mentalmente non
sano un individuo che provi uno stato di benessere mentre uccide
svariate persone durante un’azione di guerra e giudicherebbe invece
sana una persona che si senta disperata dopo essere stata licenziata dal
lavoro in un contesto in cui le opportunità di trovare una nuova
occupazione siano scarse.
Persone in buona salute mentale sono spesso tristi, indisposte, arrabbiate
o infelici, e questo per un essere umano fa parte di una vita vissuta in
maniera completa. Nonostante questo, la salute mentale è stata spesso
concettualizzata come un affetto puramente positivo, contraddistinto da
sentimenti di felicità e senso di padronanza sull’ambiente esterno (2-4).
I concetti esposti in molti documenti relativi alla salute mentale
comprendono entrambi gli aspetti chiave della definizione dell’OMS,
ovvero emozioni positive e funzionamento positivo. Keyes (5,6) indentifica
tre componenti della salute mentale: benessere emozionale, benessere
psicologico e benessere sociale. Il benessere emozionale comprende la
felicità, l’interesse per la vita e la soddisfazione; il benessere psicologico
comprende l’apprezzare la maggior parte della propria personalità, il
saper gestire adeguatamente le responsabilità della vita quotidiana,
l’avere buone relazioni con gli altri e l’essere soddisfatti della propria vita;
il benessere sociale si riferisce al funzionamento positivo e implica l’avere
un contributo da fornire alla società (contribuzione sociale), il sentirsi parte
di una comunità (integrazione sociale), il credere che la società stia
diventando un posto migliore per tutti (attualizzazione sociale) e che il
modo in cui funziona la società abbia un senso (coerenza sociale).
Una tale prospettiva di salute mentale tuttavia, influenzata da tradizioni
edoniche e eudaimoniche che promuovono rispettivamente la positività
delle emozioni e l’eccellenza del funzionamento, rischia di escludere la
maggior parte degli adolescenti, molti dei quali sono piuttosto timidi,
coloro che lottano contro le ingiustizie percepite e le disuguaglianze o
che sono scoraggiati dal farlo dopo anni di sforzi inulti, cosi come migranti
e minoranze che sono sottoposte a rifiuto e discriminazione.
Il concetto di funzionamento positivo è inoltre traslato da diverse
definizioni e teorie relative alla salute mentale come capacità di lavorare
produttivamente (1,8) e potrebbe portare all’errata conclusione che un
La salute mentale è “uno
stato di benessere nel quale
l’individuo realizza la proprie
capacità, è in grado di
gestire i normali fattori di
stress della vita, può lavorare
in maniera produttiva e
fruttuosa ed è in grado di
fornire un contributo alla sua
comunità” (OMS)
NEWSLETTER
individuo di un‘età o in una condizione fisica che gli impedisca di lavorare
produttivamente non sia per definizione in buona salute mentale.
Lavorare produttivamente e in maniera fruttuosa spesso non è possibile
per ragioni contestuali (es. per i migranti o per le persone discriminate),
che potrebbero impedire alle persone di contribuire alla loro comunità.
Jahoda (9) ha suddiviso la salute mentale in tre domini:
l’autorealizzazione, nell’ambito della quale gli individui possono esprimere
in maniera completa le loro potenzialità, la sensazione di padronanza
sull’ambiente e la sensazione di autonomia, ovvero la capacità di
identificare, confrontare e risolvere problemi. Murphy (10) ha ipotizzato
che queste idee fossero gravide di valori culturali considerati importanti
dai nord-americani. Tuttavia anche per un’abitante del Nord America è
difficile immaginare, ad esempio, che un soggetto mentalmente sano
che si trovi nelle mani di terroristi, sotto la minaccia di essere decapitato,
possa provare un sentimento di felicità e padronanza sull’ambiente
esterno.
La definizione di salute mentale è chiaramente influenzata dalla cultura
che la definisce. Tuttavia, come sostenuto anche da Vaillant (1),
dovrebbe prevalere il senso comune e dovrebbero essere identificati
alcuni elementi che possiedano una rilevanza universale per la salute
mentale. Ad esempio, nonostante le differenze culturali nelle abitudini
alimentari, il riconoscimento dell’importanza delle vitamine e delle quattro
categorie di alimenti di base è universale.
Verso una nuova definizione di salute mentale
Consapevoli del fatto che le differenze tra i vari paesi in termini di valori,
cultura e substrato sociale potrebbero ostacolare il raggiungimento di un
accordo generale sul concetto di salute mentale, ci proponiamo di
elaborare una definizione complessiva, evitando il più possibile concezioni
restrittive e legate alla cultura.
Il concetto che la salute mentale non sia semplicemente l’assenza di
malattia mentale (1,8) è stato unanimemente accettato, mentre
l’equivalenza tra salute mentale e benessere/funzionamento non lo è
stato. E’ stata quindi redatta una definizione che lasci spazio ad una
varietà di stati emotivi e ad un “funzionamento imperfetto”. La definizione
proposta è riportata qui di seguito:
“La salute mentale è uno stato dinamico di equilibrio interno che
permette agli individui di usare le loro capacità in armonia con i valori
universali della società. Le capacità cognitive e sociali di base, la
capacità di riconoscere, esprimere e modulare le proprie emozioni, così
come di empatizzare con gli altri, la flessibilità e la capacità di gestire gli
eventi di vita avversi, il funzionamento nei ruoli sociali e una relazione
armoniosa tra corpo e mente rappresentano componenti importanti
della salute mentale che contribuiscono, in vari gradi, allo stato di
equilibrio interno”
L’aggiunta di una nota che spieghi quello che si intende nella definizione
con l’espressione “valori universali” è da ritenersi necessaria, alla luce
dell’uso fuorviante di questa espressione fatto in alcune circostanze
politiche e sociali. I valori a cui ci riferiamo sono: rispetto e cura per la
propria e altrui esistenza; riconoscimento della connessione tra gli
individui; rispetto per l’ambiente; rispetto per la propria e l’altrui libertà.
Il concetto di “stato dinamico di equilibrio interno” è volto ad esprimere il
fatto che diverse epoche di vita richiedono cambiamenti nell’equilibrio
raggiunto: le crisi adolescenziali, il matrimonio, il diventare genitori o il
pensionamento sono buoni esempi di epoche di vita che richiedono una
ricerca attiva di un nuovo equilibrio mentale. Questo concetto incorpora
e riconosce anche la realtà che persone mentalmente sane possano
provare emozioni umane appropriate – incluse ad esempio paura,
rabbia, tristezza e dolore – possedendo allo stesso tempo una sufficiente
resilienza per ripristinare tempestivamente lo stato dinamico di equilibrio
interno.
Tutte le componenti proposte nella definizione rappresentano aspetti
importanti ma non obbligatori della salute mentale; esse potrebbero
infatti contribuire in misura variabile allo stato di equilibrio, così come
funzioni
pienamente
sviluppate
potrebbero
compensare
una
compromissione di un altro ambito del funzionamento mentale. Ad
La salute mentale non è
semplicemente l’assenza di
malattia mentale.
Salute mentale
=benessere/funzionamento?
NEWSLETTER
esempio una persona molto empatica, molto interessata alla condivisione
reciproca, potrebbe compensare un moderato grado di compromissione
cognitiva e trovare comunque un equilibrio soddisfacente e riuscire a
perseguire i suoi obiettivi di vita.
Di seguito saranno fornite le principali motivazioni sottese alla scelta delle
componenti incluse nella definizione.
Le competenze cognitive e sociali di base sono considerate componenti
importanti della salute mentale alla luce del loro impatto su tutti gli aspetti
della vita quotidiana (12-15). Le competenze cognitive includono la
capacità di prestare attenzione, di ricordare e organizzare le informazioni,
di risolvere i problemi e di prendere decisioni; le competenze sociali
includono la capacità di usare il proprio repertorio di abilità verbali e non
verbali per comunicare e interagire con gli altri. Tutte queste capacità
sono interdipendenti e permettono alle persone di funzionare nel loro
ambiente. Il riferimento al livello di “base” di queste attività è volto a
chiarire che gradi lievi di compromissione sono compatibili con la salute
mentale, mentre gradi di compromissione da moderati a gravi,
specialmente se non bilanciati da altri aspetti, potrebbero richiedere il
supporto di altri membri della società e una serie di incentivi sociali, come
opportunità di lavoro protette, benefici economici e programmi di
formazione ad hoc.
La regolazione emotiva, ovvero la capacità di riconoscere, esprimere e
modulare le proprie emozioni, è anch’essa considerata una componente
importante della salute mentale (16). Essa è stata proposta come
mediatore dell’adattamento allo stress (17,18) e studi clinici e di
neuroimmagine hanno riscontrato una correlazione tra regolazione
affettiva inappropriata o inefficace e depressione (19-22). Una varietà di
opzioni di risposta emotiva modulata, che possono essere impiegate in
maniera flessibile, contribuiscono alla salute mentale dell’individuo e
l’alessitimia (ovvero l’incapacità di identificare ed esprimere le proprie
emozioni) è un fattore di rischio per i disturbi mentali e fisici (23,24).
L’empatia, ovvero la capacità di sentire e comprendere quello che gli
altri provano senza confusione tra se è gli altri, permette agli individui di
comunicare e interagire in maniera efficace e di prevedere azioni,
intenzioni e sentimenti altrui (25). L’assenza di empatia non è solo un
fattore di rischio per la violenza e una caratteristica del disturbo
antisociale di personalità ma compromette anche le interazioni sociali a
tutti i livelli.
La flessibilità e la capacità di gestire gli eventi avversi sono anch’esse
considerate importanti per il mantenimento della salute mentale. La
flessibilità si riferisce alla capacità di rivedere lo svolgimento di un’azione
di fronte a difficoltà impreviste od ostacoli, di cambiare le proprie idee
alla luce di nuove evidenze e di adattarsi ai cambiamenti che le diverse
epoche di vita o le circostanze contingenti possono richiedere. Una
mancanza di flessibilità potrebbe comportare una grande angoscia per
un soggetto che stia affrontando improvvisi e/o importanti cambiamenti
di vita ed è un aspetto importante di diversi disturbi psichiatrici, come la
personalità ossessiva o il disturbo delirante (26).
La capacità di base di funzionare all’interno dei ruoli sociali e di prendere
parte a interazioni sociali significative è un aspetto importante della salute
mentale e contribuisce in particolare alla resilienza allo stress; l’esclusione
sociale e la stigmatizzazione tuttavia compromettono spesso la
partecipazione sociale, ogni definizione di salute mentale che alluda a
questo aspetto deve perciò evitare di “biasimare la vittima” e deve
analizzare attentamente le modalità sociali di stigmatizzazione,
discriminazione ed esclusione che compromettono tale partecipazione
(27).
L’inclusione di una relazione armoniosa tra corpo e mente è basata sulla
convinzione che mente, cervello, organismo e ambiente siano
profondamente interconnessi e che l’esperienza globale di essere al
mondo non possa essere separata dal modo nel quale il proprio corpo si
sente nel suo ambiente (28). Disturbi di questa interazione possono
risultare in esperienze psicotiche, disturbi alimentari, autolesionismo,
disturbo da dismorfismo corporeo o scarsa salute fisica.
Conclusioni
La guarigione dopo una
malattia può essere vista
come un processo volto a
raggiungere un’esistenza
soddisfacente e
apprezzabile fondata sulle
funzioni risparmiate dalla
malattia, nonostante altre
funzioni siano rimaste
compromesse
NEWSLETTER
La definizione di salute mentale delineata in questo articolo si propone di
superare prospettive basate su norme ideali o su tradizioni teoretiche
edoniche o eudaimoniche a favore di un approccio inclusivo, il più
possibile libero da concezioni restrittive e legate alla cultura e più vicino
possibile all’esperienza umana di vita, che è a volte felice, altre volte triste
o disgustosa o spaventosa; talvolta soddisfacente e altre volte
impegnativa o insoddisfacente.
La definizione proposta è anche compatibile con la prospettiva di un
movimento di guarigione, nella quale la guarigione dopo una malattia è
vista come un processo volto a raggiungere un’esistenza soddisfacente e
apprezzabile fondata sulle funzioni risparmiate dalla malattia, nonostante
altre funzioni siano rimaste compromesse (29).
Riconoscimenti
Questo documento è stato redatto come parte delle attività del
Comitato per le Questioni Etiche dell’Associazione Psichiatrica Europea.
Bibliografia
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NEWSLETTER
Georg Northoff
How Is Our Self Altered in Psychiatric Disorders? A
Neurophenomenal Approach to Psychopathological Symptoms
Psychopathology 2014;47:365–376
Traduzione a cura della Dott.ssa Angela Spalatro
Abstract
The self is central in our experience and has often been assumed to be
necessary for any kind of consciousness in philosophy. Recent
investigations in neuroscience demonstrate a particular set of regions
such as the cortical midline regions to be associated with the processing
of stimuli specifically related to the self as distinguished from those
remaining unrelated to the self. Furthermore, findings show a close
overlap between self-related activity and high levels of resting state
activity in especially anterior midline regions. Interestingly, recent findings
in psychiatric disorders such as depression and schizophrenia show resting
state abnormalities in exactly these regions, that is in the cortical midline
structures. Based on phenomenal and neural observations, I here suggest
a neurophenomenal approach that directly links neuronal and
phenomenal features (without sandwiching cognitive or sensorimotor
functions) to psychopathological symptoms of self in depression and
schizophrenia.
Introduzione
Voi leggete queste righe. Le trovate noiose e la vostra esperienza è resa
significativa dalla noia. Chi ha esperito questa noia? Voi. Voi siete il
soggetto dell'esperienza della noia. Senza di voi come soggetti di questa
esperienza non potreste esperire nulla a pieno, nemmeno la noia. Questo
soggetto che fa esperienza viene definito Sé. È il vostro Sé che rende
possibile il fatto di esperire determinate cose.
Il Sé è una condizione necessaria per la possibile costituzione di
un'esperienza e di una coscienza. È chiaro quindi come ci sia parecchio
materiale in gioco quando parliamo del “Sé”. Dobbiamo quindi discutere
sul come caratterizzare e definire il concetto di Sé. Perche il Sé é cosi
importante? Perche di solito diamo per scontato che chiunque debba
avere di per sè una coscienza. Chiunque parla una lingua. E chiunque
impara una seconda lingua quando per esempio si muove verso un altro
paese. Senza questo “chiunque” rimaniamo incapaci di fare ciascuna di
queste cose. Chi si crede che sia in fondo questo qualcuno? Questo è
quello che tradizionalmente chiamiamo Sé. Ed è per questo che il Sé è
cosi rilevante. Che cosa si pensa che sia questo Sé e in che modo si
altererebbe in condizioni psicopatologiche tipo la depressione e la
schizofrenia? Questo è il punto focale di questo contributo. Prima di
addentrarci nei dettagli concettuali del Sé, ne daremo inizialmente una
definizione e ne approfondiremo le alterazioni in ambito psichiatrico ad
esempio nella schizofrenia e nella depressione.
Il Sé è una condizione
necessaria per la possibile
costituzione di un'esperienza
e di una coscienza.
NEWSLETTER
Parte 1. Definizione e neuroanatomia del Sé
Definizione del Sé e approccio neurofenomenologico
Il Sé è stato spesso concettualizzato come una dimensione cognitiva,
affettiva, sociale e sensorimotoria associandolo a determinate funzioni
cerebrali. Gli approcci fenomenologici enfatizzano l'esperienza del Sé, il
senso del Sé che rappresentano la definizione che io qui abbraccio.
Ancora più importante è il fatto che, questo tipo di approccio al Sé,
ovvero l'esperienza o il senso del Sé, posa essere direttamente collegato,
da un punto di vista neuroscientifico, a quelle caratteristiche neurali e a
quell'attività cerebrale intrinseca denominata appunto resting state.
Suppongo che l'attività intrinseca cerebrale possa rendere ragione delle
caratteristiche fenomenologiche della coscienza come ad esempio
l'esperienza del Sé e il senso del Sé. Presumo, inoltre, che questo
collegamento neurofenomenologico sia diretto in assenza di mediatori
sensorimotori, affettivi, cognitivi e sociali che hanno piuttosto a che fare
con l'attività estrinseca del cervello, ovvero con l'attività indotta da
stimolo o sollecitata da determinati compiti.
Inoltre, suppongo che un approccio neurofenomenologico di questo tipo
possa meglio rendere ragione di quei disturbi del Sé e di quei sintomi
psicopatologici tipici di alcuni quadri psichiatrici come ad esempio la
depressione e la schizofrenia. Questo sarà l'obiettivo concettuale di tale
lavoro. Per ragioni di sintesi, non fornirò un inquadramento della
psicopatologia del Sé in altri quadri psichiatrici come ad esempio le
dipendenze (vedi de Grech et al., 2009-2010 ) o i disturbi di personalità
(vedi Doering et al., 2014).
Il Sé e le regioni mesiali
Da un punto di vista neuroanatomico, la specificità del Sé è stata studiata
utilizzando stimoli specifici del Sé e on specifici del Sé (ad esempio il
proprio nome o il nome di qualcun altro) in un contesto di brain
imaging.questo ha evidenziato una marcata differenza di attività
cerebrale in particolare nelle regioni corticali mesiali.
Esiste un sistema cortico-sottocorticale mesiale che media le funzioni del
Sé? Seppur esistano delle evidenze neuroanatomiche che giustificano
l'esistenza di un sistema cortico-sottocorticale , alcuni autori (vedi per
dettagli Christoff et al., Gillihan e Farah e Legrand e Ruby ) considerano le
regioni mesiali troppo aspecifiche suggerendo un concetto del Sé più
cognitivo e differente da ciò che io tratto in questo lavoro. Ciò
nonostante queste evidenze documentano una triplice organizzazione
anatomica cerebrale di tipo radiale-concentrica, con anelli interni,
mediali ed esterni, che si estendono dalle regioni sottocorticali a quelle
corticali.
A livello sottocorticale si evidenzia un gruppo di tre anelli attorno al terzo
ventricolo. Adiacente a questo gruppo, si evidenzia l'anello interno la cui
parte mediale si estende a sua volta a livello delle sopramenzionate
regioni del livello corticale. A questo fa seguito un core laterale e
paramediano (anello di mezzo) e infine proseguendo verso la parte più
laterale ed esterna che si continua a livello corticale. Questo tipo di
triplice organizzazione anatomica suggerisce sistemi cortico-sottocorticali
inevitabilmente di tipo integrativo.
L'anello interno include tutte quelle regioni corticali e sottocorticali
direttamente adiacenti ai ventricoli, come il cingolo anteriore e posteriore
a livello corticale, mentre l'anello esterno contiene tutte quelle regioni
che sono visibili dalla superficie esterna del cervello come ad esempio la
corteccia prefrontale e parietale e la corteccia sensoriale e motoria.
Esiste un sistema corticosottocorticale mesiale che
media le funzioni del Sé?
In che modo una triplice
organizzazione anatomica
cortico-sottocorticale può
essere collegata al concetto
del Sé?
NEWSLETTER
L'anello mediale, invece, racchiuso tra I due precedenti, racchiude a
livello corticale la corteccia prefrontale ventromediale, la corteccia
prefrontale dorsomediale e il precuneo.
In che modo questo tipo di triplice organizzazione anatomica corticosottocorticale può essere collegata al concetto del Sé? Questa
distinzione è in grado di spiegare meglio ed in maniera piu esaustiva la
specificità del concetto del Sé rispetto alla classica e dicotomica
distinzione mediale/laterale?
Per rispondere a queste domande, il neurologo Todd Feinberg si è basato,
come in passato altri neurologi hanno fatto, su uno specifico e attento
studio di pazienti e condizioni neurologiche. Questi pazienti soffrono
spesso per lesioni specifiche di alcune aree cerebrali e spesso si rendono
portatori di comportamenti bizzarri e di alterazioni del loro stato di
coscienza, compreso il loro senso di Sé. Feinberg ha cercato di spiegare I
cambiamenti nell'esperienza del senso di Sé dei suoi pazienti proprio
attraverso il concetto e la teoria alla base della triplice organizzazione
anatomica.
Feinberg afferma che l'anello interno di questa triplice organizzazione
rifletta il Sé enterocettivo o corporeo mentre l'anello esterno sembra piu
correlato allo sviluppo del Sé nel contesto ambientale ovvero quel Sé
eterocettivo o esterno. L'anello mediale, in questo approccio,
sembrerebbe piu correlato all'integrazione tra quello interno e quello
esterno, assumendo il ruolo di Sé integrativo che perciò modulerebbe gli
stimoli entero o eterocettivi e gli stimoli provenienti dal corpo o
dall'esterno. A maggior ragione i risultati mostrano che l'attività neurale
durante il processamento di stimoli correlati al Sé in particolare a livello
degli anelli interni e mediali, si sovrappone fortemente al livello di attività
di Resting State specialmente a livello delle regioni mesiali anteriori (come
la VMPFC, la corteccia cingolata anteriore perigenicolata e la PACC).
La sovrapposizione tra resting state e attività correlata al Sé suggerisce
che la prima contenga e codifichi alcune informazioni relative alla
seconda, fenomeno che può essere definito come organizzazione
specifica del Sé. Lattività di resting state e l'organizzazione specifica del Sé
diventa maggiormente rilevante per alcuni disturbi psichiatrici, come la
depressione e la schizofrenia.
Parte 2: il Sé nella depressione
Sintomi psicopatologici: "aumentato focus sul Sé e ridotto focus
sull'ambiente” .
Il disturbo depressivo maggiore è una patologia psichiatrica
caratterizzata da emozioni estremamente negative, pensieri suicidari,
perdità di speranza, sintomi fisici diffusi, perdita di piacere, ovvero
anedonia, ruminazioni mentali e aumentata sensibilità allo stress.
In che modo i pazienti depressi fanno esperienza dei loro sintomi? Questo
argomento viene ampiamente affrontato nella fenomenologia (per
dettagli vedi Northoff 2004), la quale descrive l'esperienza soggettiva dei
sintomi depressivi da un punto di vista che potremo definire "in prima
persona". Un approccio fenomenologico di questo tipo deve essere
distinto dall'approccio psicopatologico che ha come obiettivo i sintomi
osservati in termini oggettivi, da una prospettiva che potremmo definire
"in terza persona". Per illustrare l'esperienza soggettiva di cui parlo vorrei
iniziare con una citazione relativa ad un recente lavoro che ben descrive
le alterazioni del Sé nella depressione:
"lei sedeva alla finestra, guardando più dentro di se che non fuori da essa.
I suoi pensieri erano consumati dalla sua tristezza. Osservava la sua vita
come qualcosa di spezzato, senza essere in grado di posare le sue dita
Nella depressione vi è
"aumentato focus sul Sé e
ridotto focus sull'ambiente”
Ma in che modo i pazienti
depressi fanno esperienza
dei loro sintomi?
NEWSLETTER
nell'esatto momento in cui questa rottura era avvenuta. In che modo
sono arrivata a sentirmi cosi? Ripeteva interrogando Sé stessa.
Interrogandosi aveva la speranza di superare il suo stato depressivo;
provando a comprenderlo aveva la sensazione di poter riparare la sua
esistenza. Ciò nonostante, le sue domande non facevano altro che farla
addentrare sempre più profondamente dentro Sé stessa, molto lontana
da quel percorso che invece avrebbe portato alla sua guarigione".
Questa descrizione relativa ad una paziente depressa mostra almeno tre
caratteristiche cardini del Sé nella depressione che vengono definite
aumentato focus sul Sé, associazione tra il Sé e le emozioni negative e
aumentata elaborazione cognitiva del proprio Sé.
Partiamo dal primo. In modo speculare alla paziente sopra descritta,
quasi tutti i pazienti depressi hanno un'attenzione orientata più all'interno
che non all'ambiente esterno, sono molto polarizzati su Sé stessi più che
sugli altri. La teoria psicosociale parla di attentione focalizzata sul Sé in
termini di polarizzazione su eventi percettivi interni intesi come
informazione rispetto alle percezioni sensoriali in reazione ai cambiamenti
dell'attività corporea. Il focus sul Sé ha anche a che fare con
un'aumentata consapevolezza del proprio comportamento passato o
presente, nel senso di una elevata conoscenza di ciò che si è o di ciò che
si fa. Inoltre, questo aumentato focus sul Sé implica anche una marcata
polarizzazione sul proprio corpo. I pazienti depressi mostrano una marcata
consapevolezza rispetto al proprio corpo che, in termini fenomenologici,
risulta in una miriade di sintomi fisici. L'aumentato focus sul Sé si
accompagna perciò a ciò che potremmo definire "aumentato focus sul
corpo".
L'aumentato focus sul Sé e sul corpo implica che l'attenzione del soggetto
depresso non sia più orientata alle proprie relazioni interpersonali e agli
eventi ambientali, come nei soggetti sani, ma piuttosto a Sé stesso
mettendo in secondo piano gli aspetti esterni. Questo ci aiuta a
comprendere ciò che definisco appunto con "ridotto focus sull'ambiente".
Tale concetto descrive appunto come l'esperienza soggettiva e la
percezione del paziente depresso non siano più orientate all'esterno, agli
altri e agli eventi. Queste funzioni nel paziente depresso sono piuttosto
orientate all'interno di Sé, al proprio corpo e al proprio sistema cognitivo in
quello che definisco appunto "aumentato focus sul Sé". Questo significa
che il bilancio tra focus orientato all'esterno e focusl sul Sé diventa un
processo unilaterale.
Questa evidenza è supportata da recenti dati empirici. La ricerca
empirica indica chiaramente come esista una maggior attenzione al Sé
nella depressione. Numerosi studi che indagano l'attenzione polarizzata
sul Sé, attraverso differenti misure e metodologie, convergono sull'
evidenziare un aumentato livello (sia quantitativamente che
temporalmente) di attenzione sul Sé nei pazienti depressi. Ciò che resta
da chiarire è se questa differenza abbia a che fare con esperienze
esplicite e quindi a livello conscio oppure sia qualcosa presente solo a
livello implicito e quindi inconscio.
Un'altra caratteristica ha a che fare con l'attribuzione di emozioni
negative al Sé, in ciò che io definisco "associazione tra il proprio Sé e le
emozioni negative". Il proprio Sé nella depressione viene associato a
tristezza, colpa, errore, incapacità, morte e malattia che risultano in un
senso di delusione e colpa del soggetto depresso. Un recente lavoro ha
studiato i cluster sintomatologici nella Beck Depression Inventory (BDI)
osservando tre fattori, uno di questi è il senso di colpa del Sé. Al BDI, in
particolare rispetto a questo fattore, i pazienti depressi con pregressi
tentativi anticonservativi mostrano punteggi più elevati rispetto a quelli
Ciò che resta da chiarire è
se questa differenza
caratterizzata da maggior
attenzione verso il sé abbia
a che fare con esperienze
esplicite e quindi a livello
conscio oppure sia qualcosa
presente solo a livello
implicito e quindi inconscio.
NEWSLETTER
senza
tentativi
anticonservativi.
Inoltre,
tale
fattore,
correla
significativamente sia con il numero di tentativi antocinservativi pregressi,
sia con i fattori di rischio noti per comportamenti suicidari. Perciò tale
fattore potrebbe derivare proprio dall'associazione del Sé con le emozioni
negative sopra descritte non consentendo a tali pazienti di attribuire al
proprio Sé una valenza positiva derivante da determinate emozioni.
Infine nella depressione esiste anche un'aumentata elaborazione
cognitiva relativa al proprio Sé. Tali pazienti esprimono sofferenza in
relazione a questo processo; la paziente dell'esempio precedente, infatti,
pensa a Sé stessa e al suo umore e cerca disperatamente di scoprire le
ragioni della sua depressione e così facendo non fa altro che addentrarsi
più profondamente nella sintomatologia depressiva. Questo processo
cognitivo viene definito come "ruminazione" e spesso viene considerato
una strategia di coping rispetto al proprio umore che non fa altro che
aumentare l'attenzione e la riflessione sul Sé.
Evidenze neuronali: Il resting state e la sua organizzazione anatomica
Vorrei iniziare descrivendo le evidenze relative alle alterazioni del RS nella
depressione maggiore. Dal momento che le evidenze sono numerose sia
da un punto di vista morfologico che funzionale, ci soffermeremo
brevemente solo su alcuni punti cruciali collegandoli argomentandoli poi
in relazione all'attività cerebrale di soggetti sani.
Alcaro et al., ha condotto una metaanalisi sugli studi di neuroimaging in
soggetti depressi focalizzati sul resting state. Si sono evidenziate regioni
iperattive a livello della PACC, della VMPFC, delle regioni talamiche, delle
regioni mesiali (come la sostanza nera, l'area tegmentale ventrale, il tetto
e la sostanza grigia periacqueduttale). Al contrario, regioni ipoattive si
sono evidenziate nella corteccia cingolata posteriore, nella corteccia
prefrontale dorsolaterale e nel cuneo/precuneo.
Questi risultati sono in accordo con altre metaanalisi che enfatizzano il
ruolo dell'ippocampo, del para ippocampo e dell'amigdala come regioni
altrettanto iperattive nei soggetti depressi. Interessante notare come le
stesse regioni e anche la PACC mostrino alterazioni anche morfologiche
con riduzione della sostanza grigia e riduzione della conta cellulare in
studi effettuati post morte. Il coinvolgimento di queste regioni nella
depressione maggiore è confermata anche da studi effettuati in modelli
animali di depressione maggiore. Regioni iperattive nei modelli animali
sono la corteccia cingolata anteriore, i nuclei centrali e basolaterali
dell'amigdala, lo striato terminale, il rafe dorsale, l'abenula, l'ippocampo,
l'ipotalamo, il nucleo accumbens, la PAG, il talamo dorsomediale, il
nucleo del tratto solitario e la corteccia piriforme e prelimbica. Al
contrario, evidenze di regioni ipoattive nei modelli animali rimangono di
difficile individuazione.
Presi assieme questi dati suggeriscono un'anomala iperattività del resting
state a livello di regioni corticali e sottocorticali localizzate nelle regioni
mesiali del cervello. Questo ha portato autori come Philips, Mayberg e
Drevets ad affermare che esista una alterazione del sistema libico nella
depressione o, meglio, del circuito limbico-cortico-striato-pallido-talamico
con un'interazione cruciale reciproca tra regioni prefrontali mesiali e
regioni limbiche.
Evidenze neuronali: sbilanciamento tra regioni degli anelli interni ed
esterni nell'attività di Resting state
in che modo queste evidenze si inseriscono nel panorama della
caratterizzazione anatomica cui abbiamo accenato precedentemente
nei soggetti sani tra anelli interni, mediali ed esterni? Quelli che vengono
La "ruminazione" spesso
viene considerata una
strategia di coping rispetto
al proprio umore che però
non fa altro che aumentare
l'attenzione e la riflessione sul
Sé.
NEWSLETTER
definiti come anelli interni e mediali ad un livello corticale, ovvero regioni
paralimbiche e strutture mesiali, mostrano generalmente nella
depressione un'iperattività in corso di Resting State. Un'altra osservazione
deriva dagli studi condotti su soggetti sani. L'anello esterno copre alcune
regioni laterali a livello corticale in particolare la DLPFC e in parte la
corteccia motoria. In queste due regioni è stata evidenziata un ipoattivitè
del RS in soggetti depressi.
Prendendo queste evidenze tutte assieme, possiamo affermare che
l'attività del resting state in pazienti depressi è caratterizzata da uno
sbilanciamento cortico-sottocorticale tra anelli interni /mediali ed anelli
esterni. Nello specifico, le regioni appartenenti anatomicamente agli
anelli interni e mediali sembrano essere iperattive in corso di resting state.
Al contrario, regioni sottocorticali e corticali soprattutto dell'anello
esterno, come la corteccia prefrontale laterale, sembrano essere
ipoattive in corso di resting state.
Ipotesi neuropsicopatologica I: iperattività del Resting State e aumentato
focus sul Sé nella depressione.
Le evidenze menzionate indicano uno sbilanciamento nell'attività di
resting state tra anelli interni/mesiali ed esterni. Nello specifico esse
mostrano come l'attività di resting state nella porzione anteriore dell'anello
interno e anche in quanche misura nell'anello mediale sia aumentata in
maniera anomala, mentre quella dell'anello esterno sia ridotta. Questo
significa che esiste uno sbilanciamento nell'attività del resing state nella
depressione a livello del gradiente interno verso esterno e anteriore verso
posteriore.
Ora io stabilisco che il bilancio tra questi tre anelli anatomici e il loro
corrispettivo valore funzionale sia centrale nella costituzione del bilancio
tra stati mentali specifici del Sé e non, tra contenuti interni ed esterni
relativi al nostro stato mentale. Il bilancio neurale tra regioni mesiali e
laterali è centrale nella discriminazione tra stimoli provenienti dall'interno o
dall'esterno. Dal momento che il bilancio tra questi anelli è alterato nella
depressione, ci si aspetta che ci sia uno spostamento verso un aumentata
prevalenza di ciò che è interno rispetto a ciò che proviene dqall'esterno.
Questo si evince a livello fenomenologico in ciò che descriverò di seguito.
Da un punto di vista fenomenologico, un sintomo cardine della
depressione è la polarizzazione sul proprio Sé. Tutti i pensieri e i sentimenti
circolano attorno al Sé in ciò che ho precedentemente descritto come
aumentato focus sul Sé. Lemogne ha distinto un aumentato focus sul Sé
associato ad iperattività fasica della VMPFC da un'attivazione fasica della
DMPFC correlata alla mediazione cognitiva. Dal momento che la
aumentata polarizzazione sul Sé deriva da una ridotta attenzione
all'ambiente, il paziente si sentirà distaccato da persone, eventi e fatti
che lo circondano. Questo è quel processo che abbiamo definito ridotto
focus sull'ambiente. La domanda adesso è come questo spostamento si
generi. Per rispondere, torneremo sull'attività del Resting State nella
depressione.
Ci si aspetterebbe che un'elevata attività di resting state nelle regioni
mediali porti ad un'aumentata specificità sul Sé e quindi ad un aumento
dei contenuti autobiografici nei soggetti depressi sia in corso di resting
state che in corso di attività indotta da stimolo (paradigmi). Se questo è
vero per il resting state, non lo è altrettanto per l'atttività sotto stimolo.
Grimm et al ha osservato come i pazienti depressi assegnino punteggi più
elevati in particolare rispetto ad immagini a contenuto emotivo negativo.
Da un punto di vista neuronale questo porta a ridotti cambiamenti di
segnale durante gli stimoli specifici del Sé nelle regioni corticali mesiali.
L'attività del resting state in
pazienti depressi è
caratterizzata da uno
sbilanciamento corticosottocorticale tra anelli
interni /mediali ed anelli
esterni.
NEWSLETTER
Questo spiega l'anormale ed elevata attivitità di resting state e il suo
aumento relativo agli stimoli specifici del Sé.
L'assunto di un'aumentata attività specifica del Sé a livello
fenomenologico è supportata dall'osservazione di una correlazione tra
aumento dei punteggi comportamntali di dspecifici del Sé e riduzione
dell'attività indotta da stimolo specialmente a livello delle regioni mesiali.
Si potrebbe conseguentemente ipotizzare quindi che un aumento di
specificità del sè come osservato da un punto di vista comportamentale
spieghi l'aumento di attività di resting state a livello delle regioni mediali e
la loro aumentata processazione legata all'attività Sé-specifica.
Cosa implicano queste evidenze in termini neurofenomenologici? Noi
osserviamo una ridotta attivita indotta da stimolo nelle regioni mediali
anteriori mentre allo stesso tempo gli stimoli fanno si che aumenti il grado
di specificità del Sé. Come è possibile che una ridotta attività indotta da
stimolo aumenti l'attività specifica del sè? Io suppongo che sia dovuto ad
un aumentata attività del resting state correlata all'organizzazione
specifica del Sé con conseguente influenza sull'attività indotta da stimolo.
Cerco di essere piu chiaro. L'aumentata attività di resting state rende
impossibile allo stimolo di indurre maggiori cambiamenti dell'attività
neuronale , perciò l'attività indotta da stimolo può solo ridursi. Per tale
ragione l'anomala organizzazione specifica del Sé è aumentata e di
conseguenza si assiste ad un alterato grado di attivazione specifica del
Sé di fronte agli stimoli che a livello neuronale si spiega con una ridotta
attività indotta da stimolo e un'aumentata attività nel comportamento Sé
specifico tipico del depresso.
Evidenze neuronali: processamento esterno anomalo nella depressione
I pazienti con depressione maggiore spesso soffrono di sintomatologia
fisica diffusa come senso di costrizione cardiaca, mancanza di aria e
sintomi dolorosi diffusi. Questo sembra essere in linea con l'aumentata
consapevolezza rispetto ai propri processi fisici (percezione corporea)
inclusa un'aumentata sensibilità allo stress con risposte autonomicovegetative alterate come dimostrato in una recente ricerca.
Lo stesso studio ha studiato anche l'attività neuronale relativa alla
consapevolezza sia entero che eterocettiva (tono e frequenza cardiaca)
in relazione all'attività di resting state. Gli stimoli enterocettivi inducono un
grado normale di cambiamento nel segnale cerebrale a livello dell'insula
bilateralmente nei soggetti depressi in relazione al livello di attività
precedente dei resting state. Questo suggerisce che non esistono
anormalità nella processazione degli stimoli enterocettivi in Sé stessi nei
soggetti depressi.
Al contrario, rispetto all'attività indotta da stimolo durante la
processazione di stimoli enterocettivi, si orsserva un'aterata riduzione
dell'attività rispetto agli stimoli esterni. Nello specifico, osserviamo come gli
stimoli esterni inducano una ridotta attività stimolo indotta a livello
dell'insula nei pazienti depressi quando li si confronta con soggetti sani.
Questo apre la questione di come questa ridotta attività sia collegata agli
stimoli esterni o piuttosto a livelli di per Sé anomali di attività del resting
state. La risposta sembra risiedere in questa seconda ipotesi, dal
momento che noi osserviamo un'aumentata attività di resting state
nell'insula di per Sé. Questo risulta in linea con l'iperattività del resting state
a livello dell'anello interno, il che racchiude il cuore del sistema
paralimbico di cui l'insula fa parte.
Per dimostrare come i cambiamenti nell'attività indotta da stimoli esterni
siano indipendenti, dobbiamo calcolare questa attività in relazione al
livello di resting state precedente. È interessante notare come la
I pazienti con depressione
maggiore spesso soffrono di
sintomatologia fisica diffusa
come senso di costrizione
cardiaca, mancanza di aria
e sintomi dolorosi diffusi.
Vi è aumentata percezione
corporea e aumentata
sensibilità allo stress con
risposte autonomicovegetative alterate
NEWSLETTER
differenza iniziale osservata tra soggetti sani e pazienti depressi in
"assoluto", ad esempio l'attività del resting state e i cambiamenti del
segnale durante gli stimoli esterni quando calcolati in relazione a
determinati altri aspetti siano dipendenti dal precedente livello di attività
del resting state. Se includiamo il livello di attività del resting state, non ci
sono più differenze tra soggetti sani e pazienti depressi rispetto ai
cambiamenti di segnale indotti dalla processazione di stimoli esterni.
Al contrario di quanto accade in relazione agli stimoli esterni, non vi sono
differenze nei cambiamenti di segnale tra soggetti sani e pazienti depressi
rispetto agli stimoli enterocettivi sia in senso assoluto che relativo. Questa
differenziazione tra stimoli esterni ed enterocettivi rispetto ai cambiamenti
di segnale assoluti o relativi uggerisce interazioni differenti di entrambi i tipi
di stimoli rispetto all'atività di resting state. L'interazione "riposo-stimolo"è
ridotta durante la processazione di stimoli esterni oppure l'interazione
"riposo-stimolo" è aumentata durante la processazione di stimoli
enterocettivi e tale evidenza è difficilmente differenziabile sulla base delle
evidenze sopradescritte.
Quello che è chiaro è che esiste uno sbilanciamento di attività tra
processazione di stimoli entero o eterocettivi, inclusa la loro reciproca
interazione con il livello di attività del resting state. A causa dei pochi
lavori in questo campo, evidenziamo la necessità di effettuare altri studi di
neuroimaging che integrino e studino i cambiamenti della processazione
degli stimoli enterocettivi nella depressione.
Lo studio di Wiebking et al ha indagato alcune dimensioni psicologiche
come la percezione del corpo, utilizzando il Body Perception
Questionnaire. Il suo gruppo ha riscontrato come in pazienti depressi il
punteggio a questo test sia decisamente aumentato rispetto ai soggetti
sani, confermando una aumentata consapevolezza del proprio corpo in
questi soggetti. La cosa interessante è che i punteggi aumentati in questo
test, a differenza di ciò che capita nei soggetti di controllo, non correlano
con i cambiamenti di segnale durante l'attività di resting state e durante
la processazione di stimoli esterni.
Questo suggerisce che i pazienti depressi non siano in grado di modulare
il loro grado d attività neuronale. Essi rimangono apparentemente
incapaci di modulare, riducendola; la percezione e la consapevolezza di
Sé e del proprio corpo quando esposti a stimoli ambientali esterni. Questo
potrebbe spiegare quel corredo sintomatico di tipo fisico tipico dei
soggetti depressi. La mancanza di correlazione con l'aumentato livello di
attività neuronale nei soggetti depressi è stato anche riscontrato in altri
test psicologici indaganti gli affetti negativi, la specificità del Sé e le
proiezioni temoporali negative correlate alle possibilità future tipiche dei
soggetti depressi.
Ipotesi neuropsicopatologica II : Sbilancoamento tra contenuti mentali
interni ed esterni nella depressione
Queste evidenze sono suggestive di uno sbilanciamento nella
processazione neurale tra stimoli enterocettivi ed esterni, in cui solo questi
ultimi sembrano in grado di ridurre l'attività neurale. Questo
conseguentemente porta ad un relativo aumento della processazione
neurale di stimoli enterocettivi e ad un aumento dell'interazione riposoenterocezione quando confrontato con un apparente e assoluta
riduzione del procesamento di stomoli esterni e dell'interazione riposostimoli esterni. Come abbiamo già sottolineato, questo anomalo
sbilanciamento può promuovere da un punto di vista psicopatologico
un'aumentata consapevolezza e polarizzazione sul Sé corporeo e,
successivamente, un aumento di sintomi di tipo fisico.
Lo studio di Wiebking et al
ha indagato alcune
dimensioni psicologiche
come la percezione del
corpo, utilizzando il Body
Perception Questionnaire.
In pazienti depressi il
punteggio a questo test è
decisamente aumentato
rispetto ai soggetti sani
NEWSLETTER
Nello stesso tempo, la riduzione del processamento legata agli stimoli
esterni può essere accomapgnata da una ridotta consapevolezza di ciò
che concerne I cambiamenti nell'ambiente esterno, in particolare rispetto
agli eventi positivi che potrebbero impattare positivamente sulla
depressione. Questo significa che, da un punto di vista fenomenologico,
si potrebbe parlare non solo di un'aumentata polarizzazione sul Sé ma
anche di un'aumentata polarizzione sul corpo e di una ridotta attenzione
all'ambiente.
Perche pensare che l'interazione riposo-stimoli esterni e consapevolezza
relativa all'ambiente siano ridotti quando confrontati al'interazione riposostimoli enterocettivi consapevolezza enterocettiva? Ricordiamo che ho
supposto che l'aumentato focus sul Sé e l'aumentata specificità sul Sé
durante l'attività indotta da stimolo vengano fatte risalire ad un
aumentata attivtà del resting state nelle regioni anteriori dell'anello
interno e dell'anello mediale. Nello stesso tempo, tuttavia, I dati del resting
state dimostrano una riduzione dell'attività del resting state nelle regioni
laterali dell'anello esterno.
Presi tutti assieme, questi dati relativi ad un anomala ed aumentata
attività del resting state e ad un' organizzazione Sé-specifica sembrano
manifestarsi in contenuti mentali di tipo enterocettivo a discapito di ciò
che proviene dall'esterno. Questo si riflette nella descrizione di
un'aumentato focus sul Sé e di un ridotto focus sull'ambiente. Questo
sembra essere reso possibile da uno sbilanciamento nell'rganizzazione del
resting state a favore di contenuti enterocettivi e come ho supposto
questi sembrano corrispondere ad un anomalo bilanciamento neurale tra
regioni mesiali e laterali, e quindi tra anelli interni/mediali e anelli esterni.
Parte 3: Sé nella schizofrenia
Sintomi psicopatologici: anormalità del Sé nella schizofrenia
I primi psichiatri come Krepelin e Bleuler all'inizio del secolo scorso
avevano ipotizzato che disfunzioni del Sé fossero alla base della
schizofrenia. A differenza di ciò che capita oggi, questi psichiatri avevano
a disposizione escluivamente l'approccio clinico. Sulla base di questo, essi
stabilirono che ci fosse un cambiamento anomalo del Sé alla base della
malattia schizofrenica.
Nello specifico Kraepelin ha caratterizzato la schizofrenia come “una
particolare distruzione della coerenza interna di una personalità con
disgregamento della coscienza (orchestra senza direttore). Bleuler ha
inolte osservato che la schizofrenia è “un disturbo della personalità
caratterizzato da scissione e dissociazione” in cui “l'Io non è mai
completamente intatto”.
Berze, un contemporaneo di Bleuler e Kraepelin, si riferiva alla schizofrenia
come ad “una alterazione specifica della coscienza di Sé”. Jaspers notò
inoltre “incoerenza, dissociazione, frammentazione della coscienza,
insufficienza dell’attività psichica e disturbi associativi alla base della
schizofrenia.
Le prime descrizioni della distruzione del Sé in termini fenomenologici
riguardano l’esperienza del proprio Sé in relazione al Mondo. Parnas
descrive ciò che chiama “presenza” come caratteristica cardine della
schizofrenia. L’esperienza del Mondo e dei suoi contenuti non viene più
accompagnata da una consapevolezza preriflessiva nella schizofrenia.
Lasciatemi essere più preciso su questo punto. Il proprio Sé, quel Sé che fa
esperienza del Mondo non viene incluso in quella esperienza:
La caratteristica piu saliente
di una presenza alterata
nelle fasi precoci della
schizofrenia è una disturbata
ipseità, disturbo in cui il senso
di Sé non riempie più quella
determinata esperienza.
NEWSLETTER
la caratteristica piu saliente di una presenza alterata nelle fasi precoci
della schizofrenia è una disturbata ipseità, disturbo in cui il senso di Sé non
riempie più quella determinata esperienza. Ad esempio, il senso che
quella esperienza sia realmente propria diventa subito alterato: ad
esempio alcuni pazienti riferiscono che il sentimento collegato ad una
determinata esperienza sembrava sempre una frazione di secondo in
ritardo rispetto all’esperienza stessa.
I pazienti sono incapaci di far riferimento a Sé stessi in relazione
all’esperienza del Mondo. È come se l’esperienza del mondo non
appartenga a Sé stessi. Questo porta in stadi avanzati a fenomeni di
passività, deliri di passività caratterizzati dalla sensazione che determinate
esperienze che vivono vengano esperite da qualcun altro e non da Sé
stessi. A causa della mancanza del proprio Sé nel loro modo di esperire
determinte situazioni, i pazienti affetti da schizofrenia diventno distaccati,
alienati ed estraniati dalla vita. Un simile distacco dalle esperienze reali
rende per loro impossibile la capacità di far esperienza del Mondo in
termini di soggettività e cioè di Sé-specificità.
Il Sé che si sperimenta pertanto non è più pertanto connotato dai propri
contenuti esperienziali e viene definito da Sass e Parnas come “un
disturbo dell’affettività del Sé”: il proprio Sé non è più esperito come tale
e, ancora più importante, non è più riconosciuto come centro cardine
per poter fare esperienza, per agire, per sentire e per pensare. Questo
riflette ciò che Parnas e Sass definiscono “ridotta affezione del Sé”, che
significa che il Sé non è piu influenzato dalle proprie esperienze.
Se il Sé non è piu influenzato dalle proprie esperienze, diventa sensibile a
ciò che capita nel mondo circostante. A questo punto come dice Parnas
si crea una breccia tra Sé e mondo, riducendoci da un punto di vista
fenomenologico la differenza tra essi. Gli oggetti e gli eventi esterni non
sono significativi per il soggetto che li esperisce poiche non viene loro
attribuito nessun tipo di significato soggettivo. Il Sé diventa quindi
estremamente oggettivo e meccanico nel suo modo di esperire e
percepire il Mondo.
Evidenze neuronali: Il Resting State nella schizofrenia
Diversi studi hanno investigato il default-mode nella schizofrenia (vedi
Kuhn e Gallinat per una rassegna). Recenti studi di imaging nella
schizofrenia riferiscono un’anormale attività del resting state e della
connettività funzionale delle strutture della linea mediana corticale
anteriore (CMS). Uno studio ha dimostrato che le CMS anteriori (e CMS
posteriori, come il PCC/precuneus) mostrano una diminuita deattivazione
indotta dal compito (TID) durante un esercizio di memoria di lavoro.
Questa caratteristica è stata osservata sia nei pazienti schizofrenici sia nei
loro familiari, se confrontati ai soggetti sani. Tale osservazione è indicativa
di una diminuzione della soppressione legata al compito e di
un’aumentata attività allo stato di riposo.
Gli stessi soggetti schizofrenici hanno inoltre mostrato una maggiore
connettività funzionale della CMS anteriore e di altre regioni posteriori
delle CMS, come ad esempio il PCC.
Sia l’iperconnettività funzionale che la diminuzione del TID correlano
negativamente tra di loro.
Più diminuisce la soppressione legata al compito, tanto più aumenta il
grado di connettività funzionale. Infine, sia il diminuito TID che la maggiore
connettività funzionale nelle CMS anteriori
correlano con la psicopatologia, cioè, con i sintomi prevalentemente
positivi come misurati con la
Recenti studi di imaging
nella schizofrenia riferiscono
un’anormale attività del
resting state e della
connettività funzionale delle
strutture della linea mediana
corticale anteriore (CMS)
NEWSLETTER
scala di valutazione dei sintomi positivi e negativi.
La diminuzione del TID nelle CMS anteriori è stato osservato anche in un
precedente studio che ha indagato la memoria di lavoro.
Analogamente allo studio descritto in precedenza, si è proposta ai
soggetti l’esecuzione di compiti di memoria di lavoro e osservato
un’anormale diminuzione del TID nelle CMS anteriori nei pazienti
schizofrenici rispetto ai soggetti sani.
Similmente al lavoro precedente, si è osservata un’anormale attivazione
correlata al lavoro nella corteccia prefrontale dorsolaterale destra in
pazienti schizofrenici.
Un altro studio ha anche riferito un’anormale TID nelle CMS anteriori, così
come una connettività funzionale anomala nelle CMS anteriori, posteriori
e nell’insula nei pazienti schizofrenici.
Oltre alla TDI e alla connettività funzionale, un’altra anomalia è
rappresentata dalle caratteristiche temporali dell’attività durante il resting
state, più specificamente fluttuazioni od oscillazioni in certe frequenze
temporali.
Per esempio, Hoptman et al. hanno dimostrato che le fluttuazioni a bassa
frequenza sono aumentate nel resting state nelle CMS anteriori (e nel giro
paraippocampale) in pazienti schizofrenici, mentre sono diminuite in altre
regioni come ad esempio l'insula.
L’aumento anomalo delle oscillazioni a bassa frequenza (<0,06 Hz) nelle
CMS anteriori (e posteriori, oltre ai circuiti uditivi) e la loro correlazione con
la gravità dei sintomi positivi è stato anche osservato in un altro studio su
pazienti schizofrenici.
Evidenze neurali: specificità del Sé nella schizofrenia
Per quanto riguarda le alterazioni nell'attività del resting state: che cosa
succede durante i cambiamenti dell’attività indotta dallo stimolo e qual è
la loro relazione con la specificità del Sé?
In un recente studio di imaging, Holt et al. hanno dimostrato che la
connettività anormale della linea mediana anteriore e posteriore è
relativa alla specificità del Sé.
Hanno studiato pazienti schizofrenici durante un compito di parola in cui i
soggetti dovevano giudicare aggettivi in base al loro grado di specificità
rispetto al Sé, più altri due compiti: ulteriori riflessioni, (cioè la relazione di
quell’aggettivo con un'altra persona) e la percezione di riflessione (cioè
parola stampata in lettere maiuscole o minuscole).
Cosa si evidenzia dai loro risultati? I pazienti schizofrenici hanno mostrato
un’attività significativamente elevata nelle regioni della linea mediana
posteriore come la corteccia cingolata media e posteriore durante
l'auto-riflessione, mentre le variazioni del segnale nelle regioni anteriori
della linea mediana, come la corteccia prefrontale mediale, sono
risultate significativamente ridotte rispetto ai sani soggetti. Infine, la
connettività funzionale è anormalmente elevata dalle regioni posteriori a
quelle anteriori della linea mediana nei pazienti schizofrenici.
Risultati analoghi di alterata attività a livello della linea mediana, con uno
sbilanciamento tra le regioni anteriori e posteriori della linea si osservano
anche in altri studi sulla specificità del Sé, nella schizofrenia.
Presi insieme, questi risultati dimostrano l’anormale attività del resting
state, in particolare a livello della connettività delle regioni anteriori e
posteriori della linea mediana nella schizofrenia (vedi Kuhn e Gallinat per
una recente meta-analisi).
La stessa rete mostra anche alterazioni dell'equilibrio tra le regioni anteriori
e le regioni posteriori della linea mediana quando esse sono sondate per
stimoli specifici del Sé.
Questi risultati dimostrano
l’anormale attività del
resting state, in particolare a
livello della connettività
delle regioni anteriori e
posteriori della linea
mediana nella schizofrenia
La stessa rete mostra anche
alterazioni dell'equilibrio tra
le regioni anteriori e le
regioni posteriori della linea
mediana quando esse sono
sondate per stimoli specifici
del Sé.
NEWSLETTER
Ipotesi neuropsicopatologica Ia: ‘disturbo del Sé’ nella schizofrenia
In che modo questi risultati si correlano alla psicopatologia e alle
descrizioni fenomenologiche? Suppongo che ciò che i primi psichiatri
descrissero come “la distruzione peculiare della coerenza interna della
personalità” o “la basilare alterazione della coscienza di Sé” può
corrispondere alle descritte variazioni nell’organizzazione specifica del Sé
allo stato di riposo.
Permettetemi di spiegare tutto questo in modo più dettagliato. Seguendo
le prime descrizioni, un disturbo nella concezione del Sé si suppone avere
un impatto su tutte le altre successive funzioni e domini della personalità.
Analogamente, assumo che l’organizzazione auto-specifica della
condizione di riposo coinvolga anche qualsiasi successiva attività stimoloindotta e consecutivamente tutte le funzioni, tra cui quelle sensoriali,
motorie, affettive e le funzioni cognitive. Nella stessa maniera in cui il
disturbo del Sé è presente ovunque, lo stato di riposo, metaforicamente
parlando, “Ha le sue mani” in tutti i tipi di processi neurali.
Come è possibile tale presenza complessiva del “disturbo alla base del
Sé?” Deve infatti essere molto di base. Di base come, per esempio, lo
stato di riposo è fondamentale per qualsiasi tipo di successiva attività di
stimolo-indotta: deve infatti essere riportato e trasferito allo stimolo
successivo con il suo contenuto e le sue funzioni associate. Presumo
quindi che ciò che i primi psichiatri descrissero come “disturbo alla base
del Sé” sia riprodotto e trasferito ad ogni dominio della vita mentale del
soggetto. Allo stesso modo l’anormale organizzazione auto-specifica
della condizione di riposo è riprodotta e trasferita alle successive attività
indotte da uno stimolo e alle sue funzioni associate. Ora assumo che lo
stato di riposo e la sua anormale organizzazione specifica del Sé sia
riportato e trasferito alle attività successive stimolo-indotte, e quindi a
qualsiasi tipo di elaborazione neurale.
Questo può rendersi manifesto in varie anomalie neurali tipiche della
schizofrenia che sono legate alle funzioni sensitivo-motorie, affettive,
cognitive e sociali così come alle proprie attività estrinseche o indotte da
un compito/stimolo.
Ipotesi neuropsicologica Ib: anormala organizzazione auto-specifica nella
schizofrenia e la sua manifestazione in esperienza.
Come queste descrizioni fenomeniche si riferiscono ai meccanismi
neuronali che ho qui ipotizzato? Presumo che queste riflettano
un’anormale organizzazione auto-specifica dello stato di riposo che viene
riprodotta e trasferita alla successiva attività stimolo-indotta. Ciò è in
accordo con il riscontro neuronale, precedentemente descritto, di uno
stato di riposo anormale e di un’anormale attività nervosa durante
l’esperienza di stimoli l'auto-specifici.
Permettetemi di essere più specifico. A causa delle anomalie dello stato
di riposo, lo stimolo non può essere opportunamente integrato
nell’organizzazione auto-specifica della condizione di riposo. La
mancanza di integrazione dello stimolo nell’organizzazione auto-specifica
dello stato di riposo porta quindi ad una mancanza di auto-specificità
dello stimolo stesso durante l'attività stimolo-indotta. Questa diminuzione o
mancanza di assegnazione di auto-specificità allo stimolo è poi
fenomenologicamente manifesta in quanto viene descritta come una
diminuzione sia dell’auto consapevolezza sia del senso di ciò che è
proprio e di appartenenza. Ciò equivale esattamente al modo in cui
Parnas e altri caratterizzano l'esperienza nella schizofrenia come
“disturbato senso di ciò che è proprio e ipseità'” e come 'Disturbo di auto-
In che modo questi risultati si
correlano alla
psicopatologia e alle
descrizioni
fenomenologiche?
NEWSLETTER
affettività' e che è psicopatologicamente riflesso in un 'disturbo alla base
del Sé'.
Conclusioni
Mi sono focalizzato sulle alterazioni del RS in differenti regioni cerebrali in
alcune patologie psichiatriche come la depressione e la schizofrenia.
Entrambi i disturbi e i rispetti aspetti sintomatici evidenziano il ruolo cardine
del resting state in generale e nello specifico della relazione con le
alterazioni del Sé. Nel mio approccio neurofenomenologico, il
collegamento diretto tra attività del resting state e aspetti
neurofenomenologici sarebbe in grado di spiegare bene quella varietà
sintomatologica di alcuni aspetti del Sé tipica di questi disturbi.
Avendo in mente che questi sono i primi passi in questa direzione, ritengo
tuttavia che un approccio neurofenomenogico potrebbe essere utile in
futuro nel trovare markers diagnostici e terapeutici e, idealmente, nuove
forme terapeutiche basate sul resting state in psichiatria.
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Un approccio
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potrebbe essere utile in
futuro nel trovare markers
diagnostici e terapeutici e,
idealmente, nuove forme
terapeutiche basate sul
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Taylor SF, Welsh RC, Chen AC, Velander AJ, Liberzon I: Medial frontal
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Kenneth S. Kendler
The nature of psychiatric disorders
World Psychiatry 2016;15:5–12
Traduzione a cura del Dott. Matteo Panero
Abstract
A foundational question for the discipline of psychiatry is the nature of
psychiatric disorders. What kinds of things are they? In this paper, I review
and critique three major relevant theories: realism, pragmatism and
constructivism. Realism assumes that the content of science is real and
independent of human activities. I distinguish two “flavors” of realism:
chemistry-based, for which the paradigmatic example is elements of the
periodic table, and biology-based, for which the paradigm is species. The
latter is a much better fit for psychiatry. Pragmatism articulates a sensible
approach to psychiatric disorders just seeking categories that perform
well in the world. But it makes no claim about the reality of those disorders.
This is problematic, because we have a duty to advocate for our
profession and our patients against other physicians who never doubt the
reality of the disorders they treat. Constructivism has been associated with
anti-psychiatry activists, but we should admit that social forces play a role
in the creation of our diagnoses, as they do in many sciences. However,
truly socially constructed psychiatric disorders are rare. I then describe
powerful arguments against a realist theory of psychiatric disorders.
Because so many prior psychiatric diagnoses have been proposed and
then abandoned, can we really claim that our current nosologies have it
right? Much of our current nosology arose from a series of historical figures
and events which could have gone differently. If we re-run the tape of
history over and over again, the DSM and ICD would not likely have the
same categories on every iteration. Therefore, we should argue more
confidently for the reality of broader constructs of psychiatric illness rather
than our current diagnostic categories, which remain tentative. Finally,
instead of thinking that our disorders are true because they correspond to
clear entities in the world, we should consider a coherence theory of truth
by which disorders become more true when they fit better into what else
we know about the world. In our ongoing project to study and justify the
nature of psychiatric disorders, we ought to be broadly pragmatic but not
lose sight of an underlying commitment, despite the associated difficulties,
to the reality of psychiatric illness.
Una domanda fondamentale per la disciplina della psichiatria riguarda la
natura di ciò che trattiamo e studiamo: i disturbi psichiatrici. Che cosa
sono? Questa domanda può essere approcciata in modo fruttuoso da
diverse prospettive. Possiamo ad esempio porci il problema dell’eziologia
e contribuire ai dibattiti di lungo corso sulla prospettiva psicologia versus
biologica. Possiamo ripercorrere lo sviluppo storico e la differenziazione tra
psichiatria e neurologia. Ma non saranno questi gli approcci che
Che cosa sono i disturbi
psichiatrici?
Le mie domande saranno di
natura metafisica
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sceglierò. Piuttosto le mie domande saranno di natura filosofica (o, per
essere maggiormente precisi, metafisica).
Ripercorrerò e affronterò in modo critico tre grandi teorie sulla natura dei
disturbi psichiatrici: realismo, pragmatismo e costruttivismo. Non è una lista
esaustiva, ma nel complesso copre i maggiori problemi. Assumerò in
diversi momenti un taglio narrativo, delineando e contestualizzando le tre
posizioni. Sarò a volte maggiormente autobiografico, descrivendo le mie
considerazioni su tali teorie lungo l’arco della mia carriera e come io le
veda ora.
Ipotizzo che queste tre teorie possano essere disposte su una stessa
dimensione, meglio definita come una scala di “realtà” (che potrebbe
essere definita in gergo filosofico come “esistenza in uno spazio
indipendente dalla mente”). Complessificherò tale tipologia in quattro
ulteriori discrimini allo scopo di trovare un approccio ottimale alla
comprensione della natura dei disturbi psichiatrici. Non sto cercando di
fornire una risposta definitiva, spero piuttosto di illuminare le varie questioni
rilevanti.
Realismo
Il realismo è una posizione maggioritaria nella filosofia della scienza che
sostiene che il contenuto delle scienze sia reale, ovverosia indipendente
dalle concezione e attività umane. E’ la posizione di “senso comune”
accettata dalla maggior parte dei ricercatori biomedici, che, se
interrogati sulla natura degli oggetti dei loro studi (siano essi geni, cascate
della coagulazione, tipi di disturbi autoimmuni), risponderebbero: “Le
cose su cui lavoro sono sicuramente reali. Che domanda stupida!”.
Questa è una posizione che avrei sostenuto fortemente da studente e poi
giovane Assistant Professor e studiavo le teorie biologiche della
schizofrenia. “La schizofrenia è sicuramente un oggetto reale”.
Vorrei ora discriminare due tipologie di posizioni realiste. La prima è
basata su una scienza dura, la chimica, la seconda sulla biologia. Per la
prima il costrutto scientifico paradigmatico sono gli elementi della tavola
periodica degli elementi: carbonio, nitrogeno, ossigeno, etc. Sono
eccezionali nella chiarezza del loro essere indipendenti dalla mente.
Possiamo essere concordi, in ogni momento dello spazio-tempo del nostro
universo, se una popolazione di esseri si sviluppasse al un livello sufficiente
troverebbe qualcosa di strutturalmente isomorfo alla tavola degli
elementi. Tale è la nostra tavola periodica, in essa vi si trovano sul nostro
mondo verità profonde completamente indipendenti dall’umano. Noi
potremmo scomparire tutti domani e la loro realtà non ne sarebbe
perturbata.
Gli elementi della tavola periodica illustrano un’altra importante
caratteristica del realismo: possiedono un’essenza. Ovverosia, se si
conosce il numero atomico (non il peso atomico), si può predire la
maggior parte di ciò che hai bisogno di sapere su un elemento: il punto di
fusione, la densità, le possibilità di combinazione con altri elementi, etc.
Un utile metafora per definire “essenza” è il livello di conoscenza
scientifica che puoi raggiungere, sapendo che ti dice la maggior parte di
quello che vuoi sapere su un particolare oggetto di studio. Per gli
elementi tale livello è il numero atomico.
Vi sono tre grandi teorie sulla
natura dei disturbi
psichiatrici: realismo,
pragmatismo e
costruttivismo.
Queste tre teorie possono
essere disposte su una stessa
dimensione, meglio definita
come una scala di “realtà”
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Il secondo tipo di realismo, è rappresentato paradigmaticamente dalle
specie in biologica. Le specie differiscono dagli elementi in quattro modi.
In primo luogo hanno legami “fuzzy”. Le caratteristiche delle specie
variano all’interno di un range, a volte la linea di demarcazione interspecie può diventare indistinta. I confini tra elementi sono invece netti. In
secondo luogo l’esistenza delle specie è condizionale. Le specie che
conosciamo esistono nella nostra biosfera e sono limitate nel tempo,
esistono soltanto dal momento della loro apparizione all’estinzione.
L’idrogeno invece è universale ed eterno. Terzo, le specie non hanno
essenza, a differenza degli elementi. Non vi è una unica caratteristica che
definisce un tricheco, un pettirosso o una drosofila. Quarto, non tutti gli
elementi di una specie sono identici l’uno all’altro.
Chiaramente il realismo di tipo biologico si adatta meglio ai disturbi
psichiatrici. Essi sono più simili alle specie che agli elementi. Tuttavia
entrambi i tipi di realismo hanno un aspetto critico: postulano l’esistenza di
generi scientifici indipendenti dal nostro studio di essi. Ovvero sia che
potremmo “scoprire” un disturbo psichico allo stesso modo in cui ora
troviamo una specie di uccello tropicale mai osservata prima. Non
“creiamo” disturbi ma li troviamo in natura.
Pragmatismo
Una descrizione generica di pragmatismo in psichiatria sarebbe questa:
Lavorando come ricercatore o clinico, voglio solo predire e controllare
alcune caratteristiche del mondo. Voglio una diagnosi psichiatrica che mi
dica che trattamento devo usare, che predica il decorso della malattia e
che ben correli con i biomarcatori. Che diavolo me ne importa di
metafisiche e vaghe frasi filosofiche come “realtà indipendente dalla
mente”? Il pragmatismo rifugge da speculazioni metafisiche ed è vicino
ad una visione epistemica detta strumentalismo, che vede i concetti
chiave della filosofia della scienza come “strumenti” con cui
comprendere il mondo. In termini di senso comune lo strumentalismo
valuta le categorie scientifiche a seconda se funzionano o no o se sono
reali o no.
Il pragmatismo è una posizione coerente, ragionevole e moderata che è
stata articolata da Zachar. Come sarà più chiaro più avanti, il mio sforzo è
diretto a trovare uno spazio adeguato per i disturbi psichiatrici a metà tra
realismo e pragmatismo. Per ora vorrei focalizzarmi su un limite
importante. Il pragmatismo, nella sua forma classica, non è ambizioso ed
è riluttante nel riconoscere la soggiacente realtà dei disturbi psichiatrici.
Questo per me è problematico.
Per spiegare il perché, devo mettere in campo due problemi
dell’approccio pragmatico che, nel complesso, non sono di natura
filosofica. In primo luogo ho passato molti anni della mia vita ad
occuparmi dei malati psichici e a parlare con le loro famiglie. Assumere
un approccio pragmatico alla malattia psichiatrica (e al lacerante dolore
che genera nei pazienti e nelle loro famiglie) al giorno d’oggi mi sembra
non rispettoso, come se non stessi completamente riconoscendo la realtà
della loro malattia. Questa posizione è, nella sua essenza, una posizione
etica. Nell’arco della storia, molte culture non sono state capaci di
riconoscere adeguatamente
l’altro in chi soffre di una malattia
Il pragmatismo rifugge da
speculazioni metafisiche ed
è vicino ad una visione
epistemica detta
strumentalismo, che vede i
concetti chiave della
filosofia della scienza come
“strumenti” con cui
comprendere il mondo.
NEWSLETTER
psichiatrica. E’ stato troppo facile negare la loro umanità, dire che non
sono realmente malati. Continuo a sentire un dovere a replicare a questa
posizione e sostenere la realtà della malattia mentale.
In secondo luogo, sostengo con forza lo status della psichiatria come vera
e propria disciplina biomedica, meritevole di rispetto e di maggiori fondi
per le nostre attività cliniche e di ricerca. I chirurghi non perdono tempo a
preoccuparsi della realtà dei calcoli renali, dell’appendicite o di un
ematoma subdurale. Assumere un approccio pragmatico ci aiuta nel
nostro dibattito con i colleghi medici e chirurghi su rispetto e risorse,
colleghi spesso poco inclini a riconoscere gli oggetti di studio della
psichiatria come reali? Nella mia visione scientifica, la mente è una parte
del corpo e i suoi disturbi sono allo stesso modo reali. Sarebbe incoerente,
o un’ammissione di una mancanza, guardare i disturbi psichiatrici come
afferenti ad uno status diverso rispetto a disturbi più classicamente
medici. In quanto difensori, nell’arena pubblica, del nostro campo di
lavoro e dei nostri pazienti, difendere la realtà dei disturbi psichiatrici è
importante.
Costruttivismo
Per la maggior parte dei ricercatori e dei clinici che lavorano in psichiatria
il rivendicare la natura costruttivista dei disturbi psichiatrici è un “segno di
sfida”, perché questa prospettiva è stata articolata negli scritti di
antipsichiatria di T. Szasz, associata al tentativo di delegittimare il mio
campo. Nel considerare oggettivamente il costruttivismo, dobbiamo fare
un passo indietro rispetto alla nostra iniziale reazione difensiva.
Cosa sono gli oggetti socialmente costruiti? Sono quelle cose fatte dagli
uomini: euro, passaporti, cravatte e musica hip-hop. Dire che qualcosa è
socialmente costruito non equivale a dire che non è “reale” in senso
pratico. Ovverosia, avere dei soldi nel mio portafoglio mi permette di
acquistare delle cose, e avere un passaporto americano mi permette di
andare in Norvegia. Tuttavia dire che qualcosa è socialmente costruito,
sarebbe a dire che non esisterebbe senza le attività e le convenzioni degli
umani.
Prima di affrontare la difficile questione se i disturbi psichiatrici siano
costrutti sociali, permettetemi di affrontare un argomento più debole e
forse meno controverso sul ruolo dei processi sociali nella costruzione dei
disturbi psichiatrici.
Considerate la storia dl Post Traumatic Stress Disorder (PTSD) nel DSM-III. Da
tempo vengono riconosciute reazioni traumatiche alle barbarità della
guerra. Ma la decisione di aggiungere il PTSD nel DSM-III è sorta da un
complesso contesto storico che coinvolge la lega dei Veterani del
Vietnam e importanti psichiatri americani coinvolti nella politica che
credevano che i veterani non fossero adeguatamente riconosciuti e
curati nelle loro sofferenze dallo stato che avevano servito. La storia
sembra suggerire che la decisione di includere il PTSD, con i suoi criteri
specifici, è stata influenzata dall’ambiente sociale e politico negli U.S. nei
tardi anni ’70 associata con la guerra in Vietnam.
Considerando un esempio più recente, Zachar ed io abbiamo ripercorso
la storia dell’intenso dibattito dal DSM-III al DSM-5 sull’inclusione di un
disturbo dell’umore legato al ciclo mestruale (PMDD). Dopo uno strenuo
dibattito, spesso anche pubblico, il comitato per il DSM-III e DSM-IV hanno
Per molti clinici e ricercatori il
rivendicare la natura
costruttivista dei disturbi
psichiatrici è un “segno di
sfida”, perché questa
prospettiva è stata
articolata negli scritti di
antipsichiatria di T. Szasz
NEWSLETTER
deciso di escludere tali diagnosi dal manuale principale, includendole in
un’appendice. Nel DSM-5 è invece stato incluso nel documento
principale. Dopo aver dialogato con molti dei maggiori interpreti di
questo dibattito, abbiamo concluso che le evidenze scientifiche che si
sono andate accumulando hanno avuto un ruolo, ma ugualmente
importanti sono stati due fattori sociali “esterni”. In primo luogo nel 2000 la
U.S. Food and Drug Administration ha messo in commercio la fluoxetina,
un popolare antidepressivo, con un nuovo nome per il trattamento del
PMDD. Questo ha portato ad una evidente validazione esterna dell’entità
diagnostica. In secondo luogo, per parafrasare un nostro colloquio:
“Il femminismo è cambiato. La nuova generazione di femministe non si
sentiva più così minacciata dalla diagnosi. Molte importanti riviste
femminili hanno articoli sul PMDD. Se la dieta e gli esercizi di rilassamento
non funzionano, è normale chiedere una visita al medico”.
Potrei fare molti altri esempi. La mia esperienza spazia lungo molti anni e
centinaia di ore di dibattiti (dal DSM-III al DSM-5) e mi ha disilluso dall’idea
che si possa rivedere la nostra nosologia attraverso un processo
“puramente” scientifico. Anche se non sono un antipsichiatra, sostenere
che i fattori sociali non abbiano un ruolo sostanziale nel definire la
nosologia non è una posizione sostenibile. In maniera critica, non sto
dicendo che vi sono forze sociali che creano il PTSD e il PMDD. Piuttosto
sostengo che vi siano forze sociali che influenzano il dibattito sul
riconoscimento di questi disturbi nella nosologia ufficiale.
Prima di essere in imbarazzo per questa questione, sarebbe salutare
notare che in tutte le scienze hard sono presenti tali influenze. Hull ha
documentato il lungo, acrimonioso e fortemente politicizzato dibattito
sulla tassonomia ufficiale. Più recentemente, si è svolto un dramma nel
definire un pianeta nella Internetional Astronomical Union. Il dibattito, che
si è concluso con il down-grading di Plutone a “pianeta nano”, ricorda in
modo inquietante alcuni moderni dibattiti nosologici in psichiatria.
Torniamo al cuore della domanda sulla realtà dei costrutti sociali nei
disturbi psichiatrici. Consideriamo l’epidemia nei ’90 in America del
disturbo da personalità multipla (MPD), che è stato spesso
accompagnato da memorie rimosse di bizzarri rituali di abusi sessuali.
Anche se non posso rendere giustizia in questo testo della complessità
della storia, vi sono buone ragioni per sostenere che una parte di questi
individui soffrisse di disturbi iatrogeni – ovverosia “costruiti” dalle
aspettative del terapeuta. Non intendo sostenere che questi individui non
fossero in qualche misura “disturbati” nel momento in cui hanno cercato
un trattamento. Piuttosto che la maggior parte, quando non tutti i casi di
MPD e le loro memorie “recuperate” erano costruiti dalla relazione
paziente-terapeuta. Un esempio analogo è quello dell’isteria ai tempi di
Charcot a Parigi nel diciannovesimo secolo. Per compiacere il professore,
i pazienti mettevano in scena l’esatta sequenza di sintomi per il pubblico.
Nella nostra storia sono stati presenti disturbi psichiatrici costruiti
socialmente. Tuttavia sostengo che questi casi, in cui i processi sociali non
tracciavano qualcosa di vero del mondo, siano stati rari. Al contrario
disturbi influenzati dalla società sono comuni, dal momento che i nostri
processi nosologici tipicamente coinvolgono importanti elementi sociali e
culturali. Non vogliamo che i nostri disturbi siano finzioni teoriche come
(nella maggior parte dei casi) il MPD. Per disturbi come PTSD e PMDD, che
Disturbi influenzati dalla
società sono comuni, dal
momento che i nostri
processi nosologici
tipicamente coinvolgono
importanti elementi sociali e
culturali.
NEWSLETTER
abbiamo imparato a riconoscere ad un certo punto della nostra storia,
dovremmo di base credere che erano “là fuori” prima che imparassimo a
vederli e li includessimo nella nosologia.
Due ipotesi a sfavore del realismo per i disturbi psichiatrici
Abbiamo concluso una breve rassegna delle tre posizioni tradizionali sulla
natura metafisica dei disturbi psichiatrici: realismo, pragmatismo e
costruttivismo. Vorrei ora complicare ulteriormente il quadro. Ad un primo
sguardo il realismo appare il più interessante. L’orgoglio verso la nostra
specialità ci porterebbe a sostenere la realtà dei nostri disturbi. Noi
affrontiamo la sofferenza che essi arrecano a pazienti e famiglie. Cosa
potrebbe meglio provare la loro realtà.
Tuttavia vorrei contenere tale entusiasmo ripercorrendo due posizioni
contro il realismo: induzione pessimistica e contingenza storica.
Induzione pessimistica
Il filosofo Kant ha articolato come segue l’essenza dell’induzione
pessimista: “Tutte le credenze passate sulla natura sono state prima o poi
dimostrate false”. Per essere maggiormente specifici, tutte le teorie
scientifiche postulano l’esistenza di entità. Coerentemente, nel corso
della storia delle scienze, nel momento in cui nuove teorie prendevano il
posto delle vecchie, l’entità delle vecchie, spesso considerate reali,
veniva abbandonata come se non esistesse affatto. Non insegniamo più
l’etere in fisica, il flogisto in chimica, la teoria degli umori in medicina o
psichiatria. Nel presente, guardando le teorie del passato ora falsificate,
possiamo sostenere che tali entità non esistono, non sono, in alcun senso,
reali.
Se l’argomento dell’induzione pessimistica è vero – ovvero le teorie del
passato sono state di solito disconfermate e i loro costituenti non esistono il buon senso ci suggerisce che sarà così anche in futuro. Ovverosia,
guardando indietro dal futuro, i costrutti scientifici attuali saranno
probabilmente considerati falsi e sostituiti.
Tuttavia si potrebbe controbattere così: “Tutti gli scienziati del passato si
erano sbagliati a proposito della validità delle loro teorie. Ma ora noi
siamo nel giusto. Le entità alla base delle nostre teorie sono reali. La verità
è nelle nostre mani”.
Tale risposta tuttavia è implausibile e presuntuosa. L’induzione pessimistica
è rilevante nel nostro modello di malattia psichiatrica perché abbiamo,
nella storia della psichiatria, molte categorie diagnostiche che sono state
usate e poi abbandonate. Si potrebbero fare molti esempi con facilità. In
Esquirol possiamo trovare entità come: lipemania, demonomania,
monomania. In Wernicke somatopsicosi e psicosi d’ansia. Il tardo
Kraepelin proponeva l’utilizzo di parafrenia, che in effetti è stata in uso per
alcuni decenni e poi abbandonata. Nel suo bel libro sui disturbi di
personalità Schneider aveva molte categorie come lo “psicopatico
fanatico” che non sono più usate. Nel ventesimo secolo Leonhard, un
discepolo di Wernicke, ha proposto una nuova classificazione delle
psicosi endogene usata poi da molti suoi seguaci che includeva
Il realismo appare il più
interessante. L’orgoglio verso
la nostra specialità ci
porterebbe a sostenere la
realtà dei nostri disturbi. Noi
affrontiamo la sofferenza
che essi arrecano a pazienti
e famiglie. Cosa potrebbe
meglio provare la loro
realtà?
NEWSLETTER
“catatonia paracinetica”, “parafrenia fonemica” e “ebefrenia insipida”.
L’isteria è stata una categoria psichiatrica maggiore per molte decadi
del diciannovesimo e ventesimo secolo, che ora è stata abbandonata. E
potrei andare avanti.
Ecco il punto. Considerati i numerosi sistemi diagnostici che si sono
succeduti nel tempo, possiamo davvero sostenere che con il DSM-5 o
l’ICD-10 abbiamo la verità in mano? Sembra implausibile. Se la storia ha
qualche valore, è probabile che le nostre categorie saranno in futuro
considerate false, o quantomeno subottimali.
Tali problematiche sono in realtà all’ordine del giorno. Durante lo sviluppo
del DSM-5, una delle proposte principali, poi non accettata, riguardava la
cancellazione di 5 su 10 disturbi di personalità e un’altra la cancellazione
dei sottotipi della schizofrenia.
Contingenza storica
Ho due argomenti sulla natura storicamente contingente delle categorie
psichiatriche. La prima è un esperimento di pensiero. Immaginiamo di
tornare indietro a diecimila anni fa e di ricominciare il percorso della
civilizzazione umana, lo sviluppo di agricoltura, scrittura, scienza, medicina
e infine della psichiatria. Ad un certo punto questa disciplina similpsichiatrica svilupperà un manuale diagnostico e noi lo leggeremo.
Ripetiamo questo esperimento 100 volte e classifichiamo le risultanti
categorie secondo il nostro DSM-5 e ICD-10. Cosa troveremo? L’intuizione
(e quella dei tanti con cui ho condiviso questo esperimento) è che una
importante proporzione delle diagnosi attuali non sarebbe rappresentata
adeguatamente da questi manuali. A differenza degli elementi della
tavola periodica, le nostre categorie non sarebbero scoperte in maniera
coerente.
Il secondo argomento è che l’attuale sistema diagnostico dipende da
alcuni specifici eventi storici. Cosa sarebbe successo se Kraepelin fosse
rimasto nel laboratorio di Wundt come avrebbe voluto e non avesse
intrapreso la carriera psichiatrica. E se Wernicke, il solo vero competitor di
Kraepelin nella Germania del ventesimo secolo non fosse morto in un
incidente in bicicletta all’età di 52 anni nel 1905? E se a Spitzer fosse
davvero interessata la psicoanalisi e non si fosse mai occupato di
nosologia? Se nessuno di questi eventi fosse successo l’attuale nosologia
sarebbe diversa.
Questi due argomenti sono collegati tra loro. Se vi sono molti steps dal
manifestarsi di un disturbo psichiatrico, alla sua classificazione ufficiale, e
alcuni di questi step sono influenzati dalle contingenze storiche,
riavvolgendo il nastro del tempo non avremmo ami la stessa nosologia.
Quattro possibili modifiche della posizione realista nei disturbi psichiatrici
In questa parte descrivo quattro modalità con cui la posizione realista
può essere modificata e resa più credibile.
Cluster omeostatico di proprietà
Possiamo davvero sostenere
che con il DSM-5 o l’ICD-10
abbiamo la verità in mano?
Sembra implausibile. Se la
storia ha qualche valore, è
probabile che le nostre
categorie saranno in futuro
considerate false, o
quantomeno subottimali.
NEWSLETTER
Vorrei ora espandere la questione della prevalenza del modello biologico
sul modello chimico di realismo considerando il concetto di “cluster
omeostatico di proprietà” proposto dal filosofo Boyd. Consideriamo cosa
rende tale una specie biologica, dall’ecosistema alla fisiologia, dai
processi
di
accoppiamento
al
rapporto
predatore-preda,
dall’alimentazione al DNA. Come detto prima, le proprietà di una specie
non derivano da una essenza singola, ma da un cluster di proprietà che si
collegano tra di loro in una modalità stabile nel tempo. Anche se
abbiamo cercato la chiave dell’umanità comparando il genoma umano
con quello di scimpanzé e gorilla è chiaro che vi sono centinaia di
significative differenze genetiche, nessuna delle quali è definitiva.
Nella nostra visione sui disturbi psichiatrici spesso utilizziamo un pensiero
esistenzialista. Pensiamo a come insegniamo ai nostri interni i criteri della
depressione maggiore. Di solito diciamo: “C’è questa entità che
chiamiamo depressione maggiore. Può essere diagnosticata usando
questo specifico set di sintomi e segni che sono manifestazioni del
soggiacente stato di depressione”. E’ questo un buon modo di pensare
alla natura dei disturbi psichiatrici? Dove, nel sistema mente-cervello
possono esistere questi “fattori essenziali”? C’è un centro della
depressione con un interruttore on-off? Non è più probabile che le nostre
sindromi psichiatriche sorgano da network interconnessi che possono
essere meglio capiti a livello della mente (es. sintomi di colpa che portano
a idee di suicidio) o del cervello (es. un alterato sistema del reward
produce anedonia che impatta su sistemi appetitivi producendo una
diminuzione dell’appetito)? I disturbi psichiatrici possono essere compresi
come sindromi che sorgono da alterazioni in network di mente e cervello
piuttosto che entità che esistono in un luogo definito nella mente e nel
cervello.
I cluster omeostatici di proprietà ci permettono di “ammorbidire”
l’insostenibile domanda sulla vera “essenza” dei disturbi psichiatrici nei
modelli realistici. Ci offre una forma di pattern emergenti. Ciò che rende
unico ogni disturbo psichiatrico è un set di interazioni causali in una rete di
sintomi, segni e psicopatologia corpo/mente.
I cluster omeostatici di proprietà hanno anche implicazioni per quanto
riguarda come dovremmo capire la interrelazione tra i sintomi ed i segni
nei disturbi psichiatrici. Come proposto da Borsboom e colleghi potrebbe
essere più accurato ipotizzare una relazione causale diretta tra sintomi
(l’insonnia causa difficoltà dell’attenzione, la colpa causa ideazione
suicidaria) che ipotizzare che ogni sintomo sia il riflesso dell’essenza del
disturbo. Mentre, al di là del mio compito, è chiaro che questo approccio
ha prodotto importanti insight sulla natura dei disturbi psichiatrici.
Una visione più limitata del realismo nei disturbi psichiatrici
Possiamo ancora assumere un approccio maggiormente filosofico nel
provare a sviluppare un modello basato sul realismo per i disturbi
psichiatrici. Il mio approccio ritorna ai fondamentali – la natura della
verità. La filosofia ha due principali teorie su cosa significa che qualcosa
sia vero: una teoria della corrispondenza e una teoria della coerenza. La
teoria della corrispondenza è ciò che ciascuno di noi pensa
istintivamente quando diciamo che qualcosa è vero. La frase “Fuori
Ciò che rende unico ogni
disturbo psichiatrico è un set
di interazioni causali in una
rete di sintomi, segni e
psicopatologia
corpo/mente.
NEWSLETTER
piove” è vera se e solo se fiori piove. Ovvero la frase corrisponde a
qualcosa nel mondo che possiamo facilmente verificare, in questo caso
guardando fuori dalla finestra.
Sembra essere uno standard molto alto. Come potremmo applicare
questo approccio alla frase “La schizofrenia, diagnosticata usando il DSM5 è un disturbo esistente”? Cosa corrisponderebbe a questa frase?
Sarebbe abbastanza mostrare dei cambiamenti in delle immagini
ottenute con risonanza magnetica, fattori di rischio genetici, o risposta di
una medicina?
E se volessimo essere meno richiedenti a noi stessi nel definire qualcosa
vero? Un approccio più umile può essere trovato nella teoria della
coerenza della verità. Questa teoria considera vero qualcosa che si
adatta bene con le altre cose che conosciamo del mondo. Viene
espresso nella seguente metafora: “Considera un tavolo con un puzzle
quasi completo ma in cui manca un pezzo. Pensa alla soddisfazione che
provi quando trovi il pezzo che con un “clic” si adatta perfettamente
nello spazio vuoto”.
Quel “clic” sarebbe la teoria della coerenza della verità. Quindi cosa
intendiamo, usando questo approccio, nel dire che una diagnosi è vera
(o reale)? Potremmo dire che è “sufficientemente ben” integrata con ciò
che sappiamo dai database scientifici. In altre parole una diagnosi è
reale nella misura in cui risulta coerente con ciò che già sappiamo
empiricamente.
D’altra parte applicare questa teoria alla psichiatria significa porsi la
domanda: “Cosa intendiamo quando vogliamo dire che un concetto
diagnostico (es. la moderna concezione di schizofrenia) è più reale di un
altro (es. il concetto di follia nel diciannovesimo secolo)? Usando una
teoria della coerenza la risposta è semplice. E’ più reale ciò che si collega
meglio a ciò che già sappiamo.
La teoria della coerenza ha un altro beneficio ancora più importante.
L’altra parte interessante della metafora del puzzle è ciò che abbiamo
chiamato validatori dai tempi di Robins e Guze. Le diagnosi migliori sono
quelle che sono fortemente connesse con altre cose che già sappiamo,
che sono “ben validate”.
Per individui assegnati ad una classe diagnostica, seguiamo i pezzi che si
connettono e vediamo quali altre cose impariamo su di essi – fattori di
rischio genetici, suscettibilità premorbose, imaging, neurochimica,
decorso, prognosi, trattamento etc… Man mano che un disturbo è
maggiormente validato è più collegato alle nostre conoscenze di base e
quindi, da una prospettiva di coerenza, più reale.
La teoria della coerenza, quindi, ci offre uno schema per significare quello
che intendiamo quando diciamo che qualcosa è “più vero”. Dovremmo
richiedere che ogni cambiamento del nostro manuale diagnostico
debba essere fatto quando la diagnosi diventa “più vera”, cioè più
legata ai dati scientifici.
Non voglio sottostimare la potenziale importanza di adottare una teoria
coerente per le malattie psichiatriche, perché ha la sua base nelle nostre
convenzionali idee di verità. Infatti muove la nostra idea di “verità” in una
direzione eminentemente pragmatica. Possiamo ora fare un lavoro
migliore applicandola in un modo più modesto e pratico, rispetto alla più
ambiziosa teoria della corrispondenza.
La teoria della coerenza,
quindi, ci offre uno schema
per significare quello che
intendiamo quando
diciamo che qualcosa è
“più vero”.
NEWSLETTER
Tipi di disturbi psichiatrici versus tokens
La discussione finora ha una evidente falla. Nel dibattere la questione
“che cos’è un disturbo psichiatrico” abbiamo trattato i disturbi come se
fossero una entità omogenea. Ovverosia che autismo, schizofrenia,
dipendenza da nicotina, disturbo di personalità narcisistico, incubi,
disturbo fittizio sono la stessa cosa. E’ plausibile?
La filosofia ha una distinzione che può aiutarci: quella tra tipo e token. I
tokens sono specifiche manifestazioni di una classe più generale, mentre i
tipi sono la classe generale, che può avere differenti livelli. Quindi
avremmo il tipo “automobili”, i sottotipi Ford, G; Volvo e BMW e i tokens
ovverosia le singole macchine come la mia vecchia Volvo station Wagon
scassata.
Per analizzare ciò in termini psichiatrici potremmo dire che i disturbi
psichiatrici siano i tipi, i sottotipi includerebbero i disturbi dell’umore e i
disturbi psicotici e i tokens sarebbero i singoli disturbi: schizofrenia, disturbo
da attacchi di panico, gioco d’azzardo.
Sostengo che dovremmo dedicarci di più alla realtà dei tipi psichiatrici
che dei tokens. Pensate alla contingenza storica. La probabilità che la
nostra attuale categoria diagnostica del disturbo di personalità istrionica
si presenti ogni volta che abbiamo riavvolto il nastro del tempo, più e più
volte, mi sembra bassa. Se dovessi difendere il realismo dei disturbi
psichiatrici, non avrei scelto di rendere disturbo di personalità istrionica il
mio “exemplum”. Che dire quindi della stabilità su più "repliche" della
storia umana dell’ampio concetto di disturbo di personalità? Che suona
come una scommessa migliore per me.
Prendete in considerazione l'argomento di induzione pessimista. Questo è
l'argomento che, poiché le cose che abbiamo definito come vere in
passato hanno dimostrato di essere false, lo stesso potrebbe accadere a
quelle cose che accettiamo come vere e valide oggi. Tuttavia, mentre le
categorie diagnostiche specifiche vanno e vengono nel corso del tempo,
è più probabile che alcuni costrutti ampi - come neurosviluppo,
internalizzazione o disturbi psicotici - supereranno la prova del tempo?
L'estrema logica di questo sarebbe di applicare la nostra definizione di
realtà nel più ampio tipo possibile: tutte le malattie psichiatriche. Questo
argomento ha punti di forza importanti. Questa vasta categoria è molto
meno vulnerabile all’induzione pessimista o all’argomento della
contingenza storica. I disturbi psichiatrici specifici possono andare e
venire, ma i fenomeni che ora descriviamo come disturbi psichiatrici sono
probabilmente parte della condizione umana, ed esisteranno e saranno
descritti in qualche modo da qualsiasi cultura umana nel corso di un
periodo di tempo. Tuttavia, questo argomento non è una panacea e
rischia una discesa nella spinosa questione delle "teorie unitarie sulle
malattie psichiatriche". Per quanto riguarda l'impatto sulla sofferenza
umana, e per la necessità di una cura clinica e la vitalità della nostra
professione come un sub-disciplina della medicina, questo argomento è
forte. Tuttavia, nelle stanze degli istituti di ricerca e nella maggior parte
delle cliniche di cura, vogliamo continuare a suddividere i nostri pazienti,
per quanto imperfettamente, nelle nostre categorie diagnostiche.
I tokens sono specifiche
manifestazioni di una classe
più generale, mentre i tipi
sono la classe generale
Sostengo che dovremmo
dedicarci di più alla realtà
dei tipi psichiatrici che dei
tokens
NEWSLETTER
Una prospettiva storica applicata a disturbi psichiatrici
Fino ad ora, abbiamo una visuale del problema dei tipi psichiatrici da un
punto di vista in gran parte statico in sezione trasversale. In questa
sezione, voglio esplorare brevemente quello che potremmo imparare
attraverso l'adozione di una prospettiva storica. La prenderò in prestito dal
filosofo della scienza I. Lakatos. Come ha suggerito, i programmi di ricerca
possono essere progressivi e degenerativi. Suggerisco che i concetti di
diagnosi in medicina, in generale, e la psichiatria, in particolare, possono
anche essere progressivi e degenerativi. Io definire "progressista" per i
nostri scopi, come qualcosa che all’incirca "continua a produrre nuove
intuizioni in eziologia, decorso e trattamento". Per la nostra discussione qui,
voglio suggerire che, se i disturbi continuano a fornire nuovi insight,
diventano più "reali". Ciò si riferisce direttamente alla nostra precedente
discussione sulla teoria della coerenza della verità.
Prendiamo, come esempio di una posizione diagnostica altamente
generativa, la scissione della sindrome del diabete mellito in tipo 1 o
insulino-dipendente, e tipo 2 o forme insulino-resistenti. Questa distinzione
diagnostica si è dimostrato molto fertile, in quanto queste due forme di
diabete mellito ormai hanno completamente differenti eziologie, diversi
trattamenti e prognosi. Recenti studi di genetica molecolare hanno
dimostrato insiemi non sovrapposti di geni di rischio per i due tipi.
Chiaramente, questo è stato un programma diagnostico "progressista".
Non credo che in psichiatria abbiamo alcuna storia di una felice
secessione diagnostica in grado di competere con la storia diabete
mellito. Tuttavia, ne abbiamo due che si avvicinano.
Il concetto di Kraepelin di follia maniaco-depressiva includeva ciò che
oggi chiamiamo depressione maggiore e disturbo bipolare. Per una serie
di motivi, di cui alcuni hanno a che fare con scritti di Leonhard, la
malattia bipolare è stata separata dalla depressione maggiore a metà
del 20 ° secolo. Ora sappiamo che anche questo è stato un
frazionamento diagnostico "progressista", che porta a cancellare le
differenze di trattamento ed eziologia, compresi i risultati di genetica
molecolare.
La nostra altra storia di successo potrebbe essere quella che separa la
vasta categoria di nevrosi d'ansia in disturbo di panico e disturbo d'ansia
generalizzato (GAD). Questo è stato un risultato diretto di studi di D. Klein
[31] utilizzando un metodo che ha definito "dissezione farmacologica".
Ciò che differenziava pazienti con disturbo di panico da quelli con altre
forme di ansia è stata una risposta rapida a una relativamente bassa
dose di imipramina. Ora sappiamo che il disturbo di panico e GAD
differiscono per significato e eziologia e, in qualche modo, nel loro
trattamento farmacologico e psicoterapeutico.
Cosa potremmo imparare
sui tipi psichiatrici attraverso
l'adozione di una
prospettiva storica?
NEWSLETTER
Quindi, questa linea sperimentale di pensiero suggerisce un altro modo di
pensare a come i nostri disturbi diventano più "reale". In una estensione
storica della teoria della coerenza della verità, questi disturbi diventano
reali, se nel corso del tempo "continuano a dare", fornendoci continue
nuove intuizioni in eziologia e trattamento.
Conclusioni
In questa sezione finale, voglio descrivere l'evoluzione del mio pensiero
rispetto a che cosa sono i disturbi psichiatrici. Come ho già detto, nei miei
primi anni, da giovane psichiatra biologico, con lo scopo di verificare
l'ipotesi della dopamina nella schizofrenia, sarei stato un irriflessivo realista
a muso duro. Mai mi sarebbe venuto in mente che la schizofrenia non sia
una cosa reale, reale come gli elementi della tavola periodica.
Non la vedo più così. Ho letto troppa storia della psichiatria. Mi sono
seduto in troppi incontri sul DSM. Mentre rimango impegnato per ragioni
sia scientifiche sia personali alla realtà di disturbi psichiatrici, ho faticato a
trovare un modo più accettabile per inquadrare quelle credenze. Il
modello chimico di realismo scientifico non funziona per la psichiatria. I
nostri disturbi non sono reali nello stesso modo in cui lo sono l'ossigeno e il
carbonio - non nella nostra epoca storica e, probabilmente, mai. Essi sono
per natura molto disordinati, il che non è sorprendente quando si
confronta la complessità del sistema mente-cervello umano e gli atomi.
Il modello biologico del realismo scientifico fornisce una misura molto più
comoda per la psichiatria. Così, questo è un netto miglioramento. Ma
allora dobbiamo affrontare la domanda sulle essenze. Il dibattito sui tipi di
realismo e le essenze nelle scienze è lungo. Non credo che sia una
posizione sostenibile per la psichiatria. Devo ammettere un'influenza
autobiografica qui. E 'stato solo poco dopo il tempo in cui ero uno
sfrontato psichiatra biologico e cercavo di trovare "la" causa
neurochimica per la schizofrenia che ho deciso di trovare "il" gene per la
schizofrenia, studiando grandi genomi ad alta densità in Irlanda. Entrambi
gli sforzi sono stati guidati da una visione ingenua di schizofrenia che
aveva una sola essenza - un segreto biologico che, se compreso avrebbe
spiegato tutto quello che volevamo o avevamo bisogno di conoscere del
disturbo. Studi di linkage avevano funzionato per la malattia di Huntington
e per la fibrosi cistica. Perché non per la schizofrenia? Anche se sapevo
alcune cose (il modello di schizofrenia nelle famiglie non era per niente
simile a quello trovato per classiche malattie genetiche mendeliane), la
passione mi portava a cercare la causa della schizofrenia. Se non un
neurotrasmettitore, perché non un gene? Trent'anni dopo, abbiamo
identificato oltre 100 geni di rischio per la schizofrenia e il numero è
destinato a crescere rapidamente. Quante essenze!
I nostri disturbi sono probabilmente intrinsecamente multifattoriali. In
questo senso, essi non differiscono dal più importante dei nostri disturbi
medici non infettivi, come ipertensione, diabete di tipo 2, malattia
coronarica, o osteoporosi. Quindi, se lasciamo perdere l’idea che le
Il modello chimico di
realismo scientifico non
funziona per la psichiatria. I
nostri disturbi non sono reali
nello stesso modo in cui lo
sono l'ossigeno e il carbonio
- non nella nostra epoca
storica e, probabilmente,
mai. Essi sono per natura
molto disordinati,
NEWSLETTER
essenze siano il “nucleo roccioso” della psichiatria, cosa ci resta? Il
quadro migliore che ho trovato sono le reti di interazione tra cause e
sintomi come cluster di proprietà omeostatici di Boyd. La stabilità dei nostri
disturbi lungo lo spazio e il tempo è una proprietà emergente del sistema
mente-cervello umano - non il risultato di una essenza da cui tutti i sintomi
e i segni si sviluppano.
La posizione pragmatica verso i disturbi psichiatrici è perfettamente
rispettabile. Può essere ben difesa e ha un forte richiamo di buon senso. In
definitiva, la pratica della psichiatria è pragmatica. Tuttavia, per una serie
di motivi, alcuni ben fondati e altri probabilmente meno, questa posizione
non è sufficientemente ambiziosa per me. Ma, io sono chiaramente
disposto a utilizzare strumenti pragmatici per raggiungere gli obiettivi
realisti.
Noi non dovremmo farci mettere all’angolo da chi sostiene che i processi
sociali non giocano alcun ruolo nella costruzione delle nostre categorie.
Questa non è una posizione difendibile. Non c'è da vergognarsi. Tutte le
imprese scientifiche hanno componenti sociali. Suggerire che abbiamo
potuto tenere la psichiatria immune da processi sociali non è realistico.
Tuttavia, siamo in grado di difendere con forza la differenza tra influenza
dei processi sociali nella nostra scienza e nella nosologia e disturbi
socialmente creati. È quest'ultima categoria che dobbiamo controllare
con attenzione.
Se dovessi tenere un dibattito pubblico con un anti-psichiatra, non vorrei
mettermi nella posizione di difendere la realtà di ogni categoria nel DSM-5
o ICD-10. Gli argomenti di induzione pessimista e contingenza storica sono
troppo potenti per me per essere in grado di difendere con fiducia il
nostro sistema attuale come "vero", in quanto molte delle nostre
categorie diagnostiche sono modelli di lavoro provvisori che possono
cambiare. Abbiamo molte ragioni per difendere la realtà delle grandi
classi di malattie psichiatriche rispetto alle categorie specifiche nei nostri
manuali diagnostici attuali.
Uno dei compromessi fondamentali che sono disposto a fare con il
pragmatismo è l'adozione della teoria della coerenza della verità come
nostro modello di lavoro. Si tratta di un punto di vista meno ambizioso (i
filosofi lo chiamano "sgonfio") della verità rispetto alla teoria della
corrispondenza standard. Tuttavia, è una mossa utile. Se non possiamo
aspettarci l’esistenza di essenze per i nostri disturbi, come possiamo
definire esattamente la loro "realtà" in una teoria della corrispondenza? La
teoria della coerenza della verità sembra adattarsi così bene nei nostri
sforzi per la nostra scienza giovane. I nostri disturbi diventano più reali se si
adattano meglio alla nostra conoscenza empirica emergente delle
cause e delle conseguenze delle malattie psichiatriche. Come ho a lungo
sostenuto, alla fine, è il backgroud dei nostri disturbi nella nostra scienza
empirica (tramite validatori), che ci dà le maggiori probabilità di produrre
categorie durevoli, valide e “vere”.
Invece di pensare alla verità
dei nostri disturbi come un
concetto statico, potremmo
prenderli in considerazione
in un contesto storico. Visto
da questa prospettiva, un
vero e proprio disturbo è ciò
che nel tempo diventa
sempre più valido, spiega le
cose per il mondo e per noi
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Invece di pensare alla verità dei nostri disturbi come un concetto statico,
potremmo prenderli in considerazione in un contesto storico. Visto da
questa prospettiva, un vero e proprio disturbo è ciò che nel tempo
diventa sempre più valido, spiega le cose per il mondo e per noi e sempre
più si adatta nella nostra visione del mondo. Questo approccio, che ha
un chiaro "sapore" pragmatico, può essere visto come prendere la teoria
della coerenza della verità e metterla in un quadro storico.
In conclusione, vorrei sostenere una posizione realista "soft" per il disturbo
psichiatrico - molto più vicina ad un realismo di base biologista e che ha
elementi della posizione pragmatica. I nostri disturbi probabilmente non
hanno essenze in senso classico, ma probabilmente la loro natura deriva
da "reti" di cause, sintomi e segni, come postulato all'interno dei cluster di
proprietà omeostatici. Dobbiamo ammorbidire la posizione realistica
attraverso l'uso della teoria di coerenza storica. Il miglior antidoto a
disposizione contro il potere dell'induzione pessimista e l’argomento di
contingenza storica è quello di mettere più fiducia nei nostri tipi
psichiatrici che i segni specifici della malattia psichiatrica che ora
popolano i nostri manuali diagnostici. Nel nostro progetto per studiare e
giustificare la natura dei disturbi psichiatrici, dovremmo essere in linea di
massima pragmatici, ma non perdere di vista il nostro impegno nella
dimostrazione della realtà della malattia psichiatrica.
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Il miglior antidoto a
disposizione contro il potere
dell'induzione pessimista e
l’argomento di contingenza
storica è quello di mettere
più fiducia nei nostri tipi
psichiatrici che i segni
specifici della malattia
psichiatrica che ora
popolano i nostri manuali
diagnostici.
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NEWSLETTER
Mario Maj
The need for a conceptual framework in
acknowledging complexity while avoiding defeatism
psychiatry
World Psychiatry 2016; 15 (1): 1-2
Traduzione a cura del Dott. Giorgio Ilari
La considerazione - spesso sostenuta oggigiorno - che quelli che
definiamo “disturbi mentali” siano delle mere astrazioni riconosciute
convenzionalmente, che non necessariamente rispecchiano ciò che
esiste nel real world, potrebbe essere male interpretata da molti psichiatri
(rafforzando l’attuale frustrazione riguardante la propria reputazione
professionale), da buona parte dei colleghi facenti parte della comunità
medica (andando ad aumentare lo scetticismo nei confronti della nostra
disciplina), dalla gente comune (già sensibilizzata sull’argomento dai
recenti dibattiti successivi alla pubblicazione del DSM-5), dai pazienti
psichiatrici e dalle persone che si prendono cura di loro (questi ultimi
infatti dissuadono sempre più i pazienti dal cercare il nostro aiuto e dal
seguire le indicazioni da noi fornite). Il primo problema, seppur non unico,
è che la differenza tra tale posizione (che ammette l’esistenza dei disturbi
mentali, ma anche i limiti delle correnti categorie diagnostiche) e la teoria
“costruttivista” di Szasz e di altri (secondo la quale la categorizzazione
diagnostica attuale è solo una finzione, o un mito, per cui la cosiddetta
malattia mentale addirittura non esisterebbe, se non come metafora) non
è di facile comprensione se non si possiedono delle basi di cultura
filosofica.
Più semplice da cogliere, oltre che meno distruttivo, è il concetto che
molte di quelle condizioni che definiamo “malattie mentali”, anche se
non si configurano, in un determinato momento, come vere e proprie
“entità patologiche”, sono comunque dei modelli, definibili sulla base di
manifestazioni obiettivamente osservate e sintomi riportati, con i quali i
clinici esperti hanno acquisito familiarità nel corso di decenni di
professione, in molteplici contesti clinici e nella società (anche ponendo
particolare attenzione alla frequente concomitanza di più diagnosi ed
alla presenza di forme intermedie o sottosoglia); si tratta di condizioni
cliniche che vengono gestite e trattate con un certo grado di successo,
sebbene non perfettamente ottimale, che ad ogni modo è paragonabile
a quello che molte altre branche della medicina hanno raggiunto rispetto
alle patologie di cui si occupano.
E’ certamente un dato di fatto che molte concettualizzazioni
diagnostiche in psichiatria sono cambiate, in una certa misura, nel corso
degli anni e che alcune di esse sono nel frattempo scomparse. In
aggiunta a ciò, diverse categorie diagnostiche sono state frammentate
o, al contrario, raggruppate, seguendo dei razionali discutibili. C’è però
certamente molto margine di miglioramento nella nostra pratica clinica.
In ogni caso, non riesco ad intravedere differenze così sostanziali in termini
di storia e di categorizzazione attuale, per esempio, tra il disturbo mentale
che chiamiamo “depressione” e l’affezione non-psichiatrica definita
“emicrania”. Entrambe si caratterizzano come malattie sindromiche, e
I disturbi mentali sono delle
astrazioni arbitrarie?
Il concetto dei “modelli” di
patologie psichiatriche
NEWSLETTER
vengono riconosciute essenzialmente in base a ciò che il paziente riporta;
l’una e l’altra hanno una patogenesi poco chiara ma sicuramente
eterogenea; per ambedue si sono avvicendate numerose classificazioni e
molteplici suddivisioni in sottocategorie nel corso delle ultime decadi;
tutte e due, infine, si possono esprimere in modalità cliniche disparate, per
esempio presentandosi in forme fruste o con manifestazioni dai confini
diagnostici sfumati. Non credo nemmeno che, se tornassimo indietro nel
tempo a diecimila anni fa e lasciassimo che la specie umana si
sviluppasse di nuovo – come K. Kendler propone proprio in questo numero
del giornale1 immaginando idealmente un simile esperimento – la
depressione avrebbe meno probabilità di svilupparsi e, di conseguenza,
di essere riconosciuta, rispetto all’emicrania (a meno che, naturalmente,
la natura stessa dell’essere umano non fosse totalmente diversa).
La verità è che il progetto avviato all’inizio degli anni ’80, che aveva
l’ambizione di validare le categorie del DSM-III spiegandone per ognuna
la specifica eziopatogenesi sottostante2, sembra essere naufragato;
nonostante ciò, il quadro che è gradualmente emerso durante gli ultimi
35 anni testimonia di per sé un progresso scientifico notevole nel campo,
che non è stato ostacolato, di fatto, dall’utilizzo del DSM-III e dalle
successive versioni. Sappiamo oggi che l’eziopatogenesi della
maggioranza, o verosimilmente di tutte le forme di patologia mentale è
davvero complessa, e dipende dall’interazione di una molteplicità di
elementi di tipo biologico, intrapsichico, interpersonale e socioculturale.
Siamo anche coscienti del fatto che parecchi di questi fattori non hanno
a che fare unicamente con le singole categorie del DSM o dell’ICD.
Questa complessità non è dovuta, come frequentemente viene
dichiarato, al fatto che il cervello è l’organo più complesso che
possediamo; è più determinante il fatto che i disturbi mentali non sono
meramente delle “malattie del cervello”, quanto piuttosto condizioni che
derivano dall’interazione tra il cervello, organo certamente complesso, e
il sistema, forse ancor più articolato, delle relazioni interpersonali in cui tutti
noi siamo immersi.
Per alcune tipologie di disturbo mentale, come i disturbi alimentari, il ruolo
dei fattori socioculturali nel modellamento degli specifici aspetti
psicopatologici è già chiaro; anche per altre condizioni, tuttavia, quali i
disturbi psicotici, potrebbe esserci uno scollamento tra i meccanismi
neurobiologici che solitamente descriviamo ed il livello in cui la
corrispondente identità psicopatologica si esprime. Perciò sarebbe
ingannevole dare per assodato che tali quadri clinici debbano trovare
una totale “spiegazione” ad un livello neurobiologico, pretesa questa che
ci farebbe sentire sconfitti o ci spingerebbe a denigrare la nostra
disciplina; il modello dei cosiddetti “processi di ordine superiore” 3 che si
combinano nel dare forma a tali condizioni patologiche potrebbe invece
essere davvero adatto (vedi, a questo proposito, Howes e Nour4 in questo
numero del giornale). Oltretutto, all’interno del limitato numero di
patologie mentali che l’essere umano esprime, molteplici distinti fattori
neurobiologici possono avere un ruolo per il singolo disturbo, ma allo
stesso tempo uno stesso fattore neurobiologico può essere implicato in
diversi disturbi.
Non sono poi entusiasta della distinzione tra “utilità” e “validità” delle
diagnosi psichiatriche. Attualmente c’è una estesa sovrapposizione tra
ciò che definiamo “utilità” e quella che siamo soliti indicare come
“validità predittiva”. Ponendo che l’utilità di una entità diagnostica
consiste nella capacità di predire il decorso del disturbo e la risposta ai
trattamenti, è chiaro che l’accertamento di tale utilità non può non
essere parte integrante del processo di “validazione” secondo Robins e
Complessità
dell’eziopatogenesi delle
malattie mentali :
interazione di elementi
biologici, psicologici,
interpersonali e socioculturali
NEWSLETTER
Guze 5. Ciò va tenuto nella dovuta considerazione in quanto, anche se il
tentativo di validare le nostre attuali categorie diagnostiche sviscerando
la specifica eziopatogenesi sottostante non ha avuto successo2, altre
parti del procedimento di validazione sopra citato potrebbero avere
avuto una migliore riuscita, anche se potrebbero richiedere degli
aggiustamenti. Diversamente, l’intera ricerca clinica degli ultimi 35 anni
finirebbe cestinata, cosa che sarebbe probabilmente un errore.
D’altra parte, dobbiamo distinguere tra l’“utilità” di una data categoria
diagnostica e l’ “utilità” di un intero sistema diagnostico. Il DSM e l’ICD
forse non sono sufficientemente “fruibili” nella pratica clinica quotidiana,
per il fatto che alcune loro caratteristiche ne scoraggiano l’uso da parte
dei clinici. Alcune evidenze6 ci indicano che una parte considerevole
degli psichiatri di qualsiasi parte del mondo non fanno riferimento ai
sistemi diagnostici ufficiali nella loro attività quotidiana, o li utilizzano
piuttosto solo come “strumenti di codifica” (i.e., usano i codici dell’ICD
per la registrazione a livello delle cartelle cliniche o per altre simili
esigenze, ma non hanno presente, nel momento in cui si servono di questi
codici, le relative parti descrittive dell’ICD, o magari non le hanno mai
nemmeno lette). Rispetto a ciò, di certo bisognerebbe fare qualcosa, e in
parte qualche passo in avanti è già stato compiuto7.
Credo che gli psichiatri di tutto il mondo, insieme con tutte le persone che
con loro interagiscono quotidianamente (ovvero i colleghi di altri settori
della medicina, gli altri professionisti della salute mentale, gli
amministratori, i giornalisti, i pazienti e le persone che si prendono cura di
loro, gli specializzandi e gli studenti) hanno bisogno di coordinate
concettuali che ammettano esplicitamente la complessità di cui ho
parlato prima e le eccessive semplificazioni che sono state operate,
evitando di cedere ad un eccessivo pessimismo, atteggiamento che
potrebbe avere dei risvolti devastanti.
I disturbi mentali forse non sono solo delle “entità di malattia” in senso
strettamente filosofico, al contrario la gran parte di essi sono di sicuro
tutt’altro che finzioni teoriche. Sono dei modelli riconducibili a
manifestazioni obiettivamente osservate ed a sintomi riportati, che gli
psichiatri esperti sono in grado di riconoscere e trattare, spesso con
successo, nei contesti clinici e, più diffusamente, all’interno della
comunità. Proprio perché non disponiamo di esami di laboratorio su cui
basare le nostre diagnosi, è indispensabile che gli psichiatri siano dei
clinici davvero capaci; possiamo quindi affermare che in psichiatria l’alto
livello di preparazione clinica è più importante rispetto ad altri campi
della medicina.
Non si può dire che negli ultimi 35 anni in psichiatria non si siano registrati
dei progressi dal punto di vista della ricerca eziologica, tutt’altro:
abbiamo appreso che la patogenesi della maggior parte dei disturbi
mentali è molto complessa, e che si intreccia con una molteplicità di
fattori di ordine biologico, intrapsichico, interpersonale e socioculturale,
che la ricerca sta gradualmente identificando e valutando. Non
dobbiamo aspettarci delle spiegazioni semplici, anche se sarà necessario
che i modelli complessi che emergeranno siano resi comprensibili per tutti
i soggetti interessati che ho menzionato sopra.
I meccanismi neurobiologici entrano in gioco probabilmente nella
maggioranza o in tutti i disturbi mentali, ma l’identità psicopatologica di
tali affezioni potrebbe manifestarsi ad un livello ancora superiore rispetto
a quello dei circuiti cerebrali, per cui diviene di cruciale rilevanza la
spiegazione dei processi di ordine-superiore che intervengono (per
esempio di tipo psicologico, culturale). Da qui la necessità di mantenere
aperto un dialogo tra le neuroscienze e altre discipline (antropologiche,
Gli attuali sistemi diagnostici
in psichiatria (DSM / ICD)
sono scarsamente adoperati
nella pratica clinica,
trovando maggior utilizzo
per esigenze amministrative
E’ possibile che l’identità
psicopatologica dei disturbi
mentali si manifesti ad un
piano superiore rispetto a
quello dei circuiti cerebrali
NEWSLETTER
psicologiche, sociali) quando indaghiamo la patogenesi di quelli che
dovremmo probabilmente abituarci a concepire, come Kraepelin8 nel
suo ultimo periodo li definirebbe, quali “modelli di disturbi mentali”.
Bibliografia
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Lisa B. Dixon, Yael Holoshitz, Ilana Nossel
Treatment engagement of individuals experiencing
mental illness: review and update
World Psychiatry 2016;15:13–20
Traduzione a cura della Dott.ssa Cristiana Gagliardone
Abstract
Individuals living with serious mental illness are often difficult to engage in
ongoing treatment, with high dropout rates. Poor engagement may lead
to worse clinical outcomes, with symptom relapse and rehospitalization.
Numerous variables may affect level of treatment engagement, including
therapeutic alliance, accessibility of care, and a client’s trust that the
treatment will address his/her own unique goals. As such, we have found
that the concept of recovery-oriented care, which prioritizes autonomy,
empowerment and respect for the person receiving services, is a helpful
framework in which to view tools and techniques to enhance treatment
engagement. Specifically, person-centered care, including shared
decision making, is a treatment approach that focuses on an individual’s
unique goals and life circumstances. Use of personcentered care in
mental health treatment models has promising outcomes for
engagement. Particular populations of people have historically been
difficult to engage, such as young adults experiencing a first episode of
psychosis, individuals with coexisting psychotic and substance use
disorders, and those who are homeless. We review these populations and
outline how various evidence-based, recovery-oriented treatment
techniques have been shown to enhance engagement. Our review then
turns to emerging treatment strategies that may improve engagement.
We focus on use of electronics and Internet, involvement of peer
providers in mental health treatment, and incorporation of the Cultural
Formulation Interview to provide culturally competent, person-centered
care. Treatment engagement is complex and multifaceted, but
optimizing recovery-oriented skills and attitudes is essential in delivery of
services to those with serious mental illness.
È spesso difficile che i soggetti con gravi disturbi mentali partecipino
attivamente a una terapia in corso e l’abbandono (dropout) è altrettanto
comune. Da entrambi questi sondaggi, l’U.S. National Comorbidity Survey
e l’Epidemiologic Catchment Area Survey, è emerso che fino alla metà
dei soggetti con disturbi mentali gravi non ha ricevuto trattamento per la
salute mentale nell’anno precedente. Lo scarso livello di coinvolgimento
può portare a esacerbazione dei sintomi, reospedalizzazione ed un utilzzo
solo parizale dei potenziali benefici del trattamento. Poiché sono
numerosi i fattori che contribuiscono a mantenere l’impegno e la volontà
di una persona a partecipare a un trattamento o ne determinano
l’abbandono, la sfida è evidenziare gli elementi chiave per migliorare il
coinvolgimento. Il disinteresse può essere dovuto a problematiche inerenti
Da due sondaggi, l’U.S.
National Comorbidity Survey
e l’Epidemiologic
Catchment Area Survey, è
emerso che fino alla metà
dei soggetti con disturbi
mentali gravi non ha
ricevuto trattamento per la
salute mentale nell’anno
precedente.
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l’utilità (le persone sentono che il trattamento non sta funzionando),
l’atteggiamento (le persone si sentono sfiduciate o obbligate) o ragioni
pratiche (può essere difficile ricevere il trattamento o programmare gli
appuntamenti). Non esiste un approccio standard, poiché il
coinvolgimento dipende dalla personalità del singolo, dagli eventi e dalle
circostanze sociali di ciascuno e dalla gravità del sintomo. Per aumentare
il livello di partecipazione nella maniera più efficace, si può ricorrere
all’impiego di tecniche che considerino senza eccezione tutti questi
blocchi. In questo studio sono illustrati sistemi innovativi per il trattamento
della salute mentale, sia pratici che teorici, che si sono dimostrati efficaci
nel migliorare il coinvolgimento.
Abbiamo riscontrato l’utilità di osservare tecniche e strumenti per
l’incremento del livello di partecipazione all’interno di una struttura di
“assistenza orientate alla recovery”. La recovery, secondo la definizione
della Substance Abuse and Mental Health and Services Administration
(SAMHSA – Amministrazione Servizi Abuso di Sostanze e Salute Mentale)
degli Stati Uniti è “un processo di cambiamento attraverso il quale gli
individui migliorano salute e benessere, vivono in maniera consapevole e
ambiscono a raggiungere la piena espressione delle proprie potenzialità”.
3 Il movimento che promuove la recovery incarna un cambiamento di
approccio clinico sviluppatosi nel corso degli ultimi anni; il report della
New Freedom Commission del Presidente raccomanda che l’assistenza
per la salute mentale sia orientata alla recovery, condotta dal paziente e
dalla famiglia. 4 Quattro dimensioni della pratica recovery-oriented
promuovono cittadinanza attiva, impegno, supporto a obiettivi personali
e una forte relazione professionale. 5 Gli approcci che descriviamo di
seguito sono tutti validi sistemi per incrementare la partecipazione in
soggetti con disturbi mentali gravi, se si segue un approccio recoveryoriented. Un aspetto molto importante di un'assistenza recovery-oriented
è assumere come prioritarie l'autonomia, la responsabilizzazione e il
rispetto per il paziente in cura. 6,7 In questo senso, evidenziamo i fattori
che possono migliorare l'esperienza del trattamento per la salute mentale
e la speranza di guarigione di un paziente. Sono analizzati i fattori cruciali
per l'alleanza terapeutica, la decisione condivisa e l'assistenza incentrata
sulla persona in relazione al coinvolgimento nel trattamento. Poi sono
discussi come questi siano stati applicati su alcune popolazioni
considerate “restie al coinvolgimento” e come differenti pratiche
recovery-oriented abbiano dato miglioramenti. Ci si è dunque
concentrati su alcune specifiche pratiche e sui miglioramenti che è
possibile ottenere includendole in un modello terapeutico. In conclusione
si presentano le difficoltà di coinvolgimento da parte di chi ha in carico il
paziente e su come queste possano essere indirizzate nel contesto in
continua evoluzione delle strutture che prestano servizi per la salute
mentale.
COMPORTAMENTI E FOCUS INTERPERSONALE
L’alleanza terapeutica
Nella sua analisi qualitativa su giovani adulti sottoposti a terapia per una
prima manifestazione di psicosi, la dottoressa Stewart 8 sostiene che la
qualità della relazioni che si sviluppa nel processo terapeutico tra chi
presta e chi riceve assistenza può giocare un ruolo importante nel
determinare un successo in termini di coinvolgimento.
L'alleanza è uno degli aspetti delle relazioni terapeutiche studiata a livello
Non esiste un approccio
standard, poiché il
coinvolgimento dipende
dalla personalità del singolo,
dagli eventi e dalle
circostanze sociali di
ciascuno e dalla gravità del
sintomo.
.Per aumentare il livello di
partecipazione nella
maniera più efficace, si può
ricorrere all’impiego di
tecniche che considerino
senza eccezione tutti questi
blocchi.
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empirico e viene descritta come l'abilità dinamica a un lavoro comune
per la risoluzione del problema fondata su tre elementi: obiettivi, attività e
legame. È considerata un affidabile predittore di outcome positivo nella
psicoterapia 9.
Si è inoltre riscontrato che l'alleanza ha un ruolo importante in individui
con disturbi mentali gravi. Frank and Gunderson 10 hanno studiato il
funzionamento dell'alleanza terapeutica nei pazienti che ricevono il
trattamento per schizofrenia, scoprendo che i soggetti in grado di stabilire
una buona alleanza con i loro terapeuti nei primi 6 mesi di cura avevano
maggiori probabilità di non abbandonare la cura e di seguire le cure
farmacologiche, con un outcome a 2 anni migliore. Nei soggetti al primo
episodio di psicosi, Melau et al hanno analizzato la correlazione tra
alleanza terapeutica e outcome clinici e funzionali, concludendo che
un'alleanza forte dall'inizio può essere un prerequisito per l'adesione a
servizi specializzati per i primi episodi di psicosi, creando le basi per un
trattamento con outcome positivo. 11
Dato il ruolo importante che l'alleanza terapeutica sembra avere sull'
outcome clinico e sul coinvolgimento, è fondamentale individuare quali
siano gli elementi modificabili che predicono una buona alleanza
terapeutica nei pazienti restii a partecipare. In uno studio su pazienti con
schizofrenia e disturbo schizo-affettivo, l'orientamento definibile recoveryoriented da parte del clinico e maggiori livelli di comprensione da parte
del paziente si sono rivelati predittori indipendenti dell'alleanza
terapeutica. Curiosamente, gravità di sintomi clinici, stile di
attaccamento, età e durata del trattamento non erano legati alla qualità
dell'alleanza. 12 Questo studio mostra che, almeno a certi livelli, l'alleanza
può essere migliorata dall'impegno del clinico in una cura recoveryoriented.
Considerata
l'importanza
dell'alleanza
terapeutica
nell'influenzare la partecipazione alla cura, la relazione tra l'orientamento
e l'alleanza dei clinici, è fondamentale per chi presta assistenza
Assistenza incentrata sulla persona
Il concetto di assistenza incentrata sulla persona si sta diffondendo
sempre di più nel panorama di assistenza per la salute mentale in
continua evoluzione. 13 Tale concetto non ha un’unica definizione
operativa o un sistema di valutazione standard. La seguente descrizione
di assistenza incentrata sulla persona nel contesto di servizi per la salute
mentale è particolarmente convincente e rappresenta una buona base
per la discussione a seguire: “un approccio onnicompresivo per
comprendere e rispondere a ogni soggetto e alla sua famiglia nel
contesto della loro storia, dei loro bisogni, dei punti di forza, dei loro sogni
e delle speranze di recupero, della loro cultura e spiritualità… assessment,
piani di recovery, servizi e supporto e risultati in termini di qualità della vita
sono tutti realizzati su misura per rispettare le singole preferenze, punti di
forza, debolezze (compresa la storia del trauma) e la dignità del singolo
nella sua interezza”. 13 Si stabilisce di concerto l’impegno a includere nel
programma terapeutico la cultura, il contesto e gli obiettivi immediati
propri del singolo.
I servizi per la salute mentale che integrano gli elementi che sono
indirizzati ai bisogni immediati del singolo possono migliorare la
partecipazione. 14-16 Per esempio, la casa e le condizioni economiche
sono due potenti cause di stress significativo che può ledere sul benessere
di una persona. Rivolgendosi a queste barriere come componenti
specifiche dell’assistenza clinica si aumenta il coinvolgimento, sia
direttamente che indirettamente.
L’alleanza terapeutica è
considerata un affidabile
predittore di outcome
positivo nella psicoterapia e
ha un ruolo importante in
individui con disturbi mentali
gravi.
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Se un paziente ha casa e condizioni economiche stabili, lui/lei potrebbe
avere meno barriere effettive ad iniziare il programma di appuntamenti
terapeutici. Un modo più indiretto per trattare queste componenti da
parte del sistema sanitario potrebbe essere che il soggetto ricevente il
trattamento si senta aiutato, migliorando la fiducia nel sistema,
costruendo un’alleanza e ponendo le basi per un lavoro terapeutico
futuro. Un percorso di decisione condivisa (shared decision making) può
essere visto come un approccio utile a un’assistenza incentrata sulla
persona. Al contrario di modelli di assistenza più consolidati, il percorso di
decisione condivisa è un processo collaborativo, dinamico e interattivo
tra due soggetti egualmente coinvolti. In questo modello, clinico e
paziente partecipano entrambi allo scambio di informazioni che
conduce a una decisione congiunta per il trattamento. 17 Nel corso
dell’ultimo decennio, questo approccio all’assistenza clinica ha ottenuto
un certo seguito, anche se molti degli studi che esaminano la sua
efficacia sono stati effettuati su soggetti non psichiatrici. Sebbene molti
studi abbiano attestato l’efficacia del percorso di decisione condivisa nei
pazienti con disturbi mentali gravi, chi presta assistenza potrebbe
preoccuparsi che la capacità decisionale dei pazienti sia debole e
pertanto che il percorso di decisione condivisa sia da utilizzare meno in
questi casi. 18
Considerato che un tema ricorrente nelle analisi di casi con successo di
partecipazione è che il soggetto partecipante senta che sono presi in
considerazione i suoi obiettivi, i suoi desideri e la sua situazione di vita, è
ragionevole affermare che una maggiore propensione alla decisione
condivisa possa migliorare il coinvolgimento nel percorso terapeutico.
Nell’ambito di uno studio trasversale su quasi 900 pazienti ambulatoriali
con disturbi mentali, nei racconti dei pazienti la decisione condivisa ha
presentato lacune significative. La maggior parte dei partecipanti allo
studio ha affermato che i medici non volevano conoscere il livello di
coinvolgimento da loro desiderato nella decisione condivisa né le loro
preferenze. 17 Nei soggetti che hanno riportato livelli più alti di decisione
condivisa si è riscontrata la tendenza a un atteggiamento più positivo
verso l’assunzione di medicine e una maggiore auto-efficacia (selfefficacy). Anche se la casualità non è definibile, si può ipotizzare che se
una persona si sente coinvolta nel processo di decisione condivisa, è più
probabile che lui/lei si senta positivo/a rispetto alle eventuali opzioni del
trattamento. Inoltre, l’auto-efficacia in sé è stata associata a un miglior
outcome clinico. Il più importante risultato nel percorso di decisione
condivisa potrebbe non essere il momento di decisione vera e propria,
ma, piuttosto, il processo che intercorre tra paziente e chi presta
assistenza. Uno spazio di osservazione aperto e scevro da giudizi consente
di costruire fiducia e idealmente apporta un miglioramento di
partecipazione al trattamento.
Non tutti i pazienti, sia in assistenza psichiatrica che non, ambiscono ad
essere molto coinvolti nelle decisioni che riguardano il trattamento. Se si
comprende questo, è possibile accompagnare il trattamento e la
creazione di supporti alla decisione condivisa. Nei pazienti con
schizofrenia è stata riscontrata una chiara correlazione tra la
soddisfazione alla terapia e il grado di partecipazione desiderato dai
pazienti nel percorso medico di decisione condivisa. Coloro che si
sentivano costretti a sottoporsi al trattamento o presentavano una
maggiore insoddisfazione al trattamento (la percezione di un minor grado
di correttezza e pessime esperienze farmacologiche) hanno affermato di
desiderare un maggior coinvolgimento nelle scelte inerenti al
trattamento. Al contrario, coloro che erano convinti di avere bisogno di
Assistenza incentrata sulla
persona
“un approccio
onnicompresivo per
comprendere e rispondere
a ogni soggetto e alla sua
famiglia nel contesto della
loro storia, dei loro bisogni,
dei punti di forza, dei loro
sogni e delle speranze di
recupero, della loro cultura
e spiritualità… assessment,
piani di recovery, servizi e
supporto e risultati in termini
di qualità della vita sono tutti
realizzati su misura per
rispettare le singole
preferenze, punti di forza,
debolezze (compresa la
storia del trauma) e la
dignità del singolo nella sua
interezza”
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farmaci ed esprimevano una grande soddisfazione presentavano un
bisogno inferiore di partecipazione al percorso medico di decisioni
condivise. 19
In uno studio sui pazienti cronici con disturbi mentali gravi, una maggiore
preferenza a partecipare alle decisioni condivise è stata rilevata in
soggetti afro-americani, che lavoravano per il salario, avevano
frequentato il college o avevano un’istruzione superiore, non avevano
una diagnosi di schizofrenia e avevano una scarsa relazione terapeutica
con chi prestava loro assistenza. 20 Lo studio ha notato che le preferenze
riguardo alle decisioni condivise cambiano nel tempo e che una
costante valutazione della condizione del paziente durante il percorso è
un aspetto importante per una buona assistenza clinica.
Strumenti decisionali elettronici possono essere utili a implementare la
decisione condivisa nel contesto del trattamento. Uno studio ha preso in
esame l’utilità dell’inserimento di strumentazione per la decisione
condivisa basata su strumenti informatizzati collocati all’interno della sala
di aspetto di una clinica per la salute mentale, che accoglieva pazienti
con disturbi mentali gravi. I soggetti partecipanti utilizzavano lo strumento
prima dell’appuntamento dal medico, generando un documento scritto
che sottolineava ogni conflitto decisionale che dovevano affrontare con
il clinico. I partecipanti trovavano questo sistema utile a chiarire i propri
dilemmi, consentendo loro di portare in luce temi e di organizzare i propri
pensieri. 21 Sono stati sviluppati altri strumenti per la decisione condivisa e
in generale sono stati accettati sia dai pazienti sia dai clinici. 22
POPOLAZIONI “DIFFICILI DA COINVOLGERE”
Adesso prendiamo in esame la letteratura sul coinvolgimento nei soggetti
che vivono per la prima volta un episodio psicotico, nei soggetti senza
fissa dimora, e su coloro che presentano la combinazione di un grave
disturbo mentale con quello associato all’uso di sostanze (doppia
diagnosi). In queste popolazioni sono state utilizzate diverse strategie
recovery-oriented per migliorarne il coinvolgimento. L'identificazione di
queste strategie può aiutare i servizi di salute mentale nello strutturare i
propri
progetti
indirizzandoli
verso
una
massimizzazione
del
coinvolgimento nel trattamento.
Primo episodio di psicosi
La ricerca suggerisce che circa un terzo dei giovani adulti che vivono un
episodio psicotico per la prima volta tende a ritardare di 1-3 anni il
trattamento. Inoltre, l'80% abbandona entro il primo anno di cura. Questo
alto tasso di abbandono mette in luce l’evidente difficoltà a coinvolgere i
giovani nella cura. Sono state prese in considerazione molteplici cause
per spiegare questo precoce dropout dal trattamento o per la mancanza
di coinvolgimento, tra cui un’alleanza scarsa, la diffidenza verso il sistema
e la scarsa comprensione sulla necessità di un trattamento. Inoltre, questo
è il periodo della vita in cui avviene la separazione dalle figure autoritarie
e si scoprono la propria individualità e la propria autonomia. La
prematura conclusione del trattamento nei programmi relativi al primo
episodio psicotico è stata collegata ad un decorso più cronico della
malattia, ad una maggiore necessità di ricovero, ad un processo più
lento di recupero e a livelli più alti di disabilità funzionale. 8
I programmi sul primo episodio psicotico portati avanti da team
multidisciplinari composti da terapeuti e specialisti nel dare sostegno
durante l’istruzione e nella ricerca in un'occupazione, hanno avuto
successo a livello internazionale. 23,24 Questi programmi fanno sì che si
acceda prima alle cure e ai servizi psicosociali intensivi, nel tentativo di
ridurre la durata della psicosi non trattata, ridurre la gravità dei sintomi e
Circa un terzo dei giovani
adulti che vivono un
episodio psicotico per la
prima volta tende a
ritardare di 1-3 anni il
trattamento. Inoltre, l'80%
abbandona entro il primo
anno di cura.
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migliorare il recupero. 25 I programmi specializzati nel trattamento del
primo episodio psicotico tendono ad avere un maggiore successo nel
coinvolgere i giovani nella cura rispetto a quelli standard offerti dai servizi
di salute mentale, facendo sì che i soggetti restino più a lungo all’interno
del trattamento rispetto a quanto accade nelle comunità cliniche
standard. 27
Sono state condotte alcune ricerche volte ad identificare quali particolari
componenti di questi peculiari programmi di trattamento aumentino o
diminuiscano il coinvolgimento. Molti dei programmi sul primo episodio
psicotico sono volutamente collocati al di fuori delle tradizionali cliniche
di salute mentale per adulti, poiché è stato dimostrato che queste realtà
portano i giovani a provare un senso di alienazione e quindi al dropout
dal trattamento. 28,29
Un forte coinvolgimento può essere correlato al fatto che si pone
particolare attenzione al desiderio di un giovane di essere rispettato,
sostenuto e compreso. Un’analisi qualitativa dei giovani adulti che sono
stati coinvolti con successo nel trattamento ha evidenziato temi condivisi
che sembrano aver promosso il coinvolgimento stesso. Ad esempio, nella
fase di ospedalizzazione acuta, due fattori sono stati cruciali nel migliorare
il coinvolgimento: il tempestivo intervento di un personale specializzato
durante i primi episodi psicotici e lo sviluppo di relazioni positive con gli
altri componenti dell’unità.
Altri aspetti emersi tra quelli identificati come promotori del
coinvolgimento sono stati la collaborazione, la comprensione razionale
dei problemi e l’impegno a trovare soluzioni. Molti dei partecipanti hanno
commentato negativamente l'esperienza avuta durante i loro ricoveri in
strutture ospedaliere per adulti.
Se questa esperienza negativa e spaventosa è la prima che un giovane
adulto ha entrando in contatto con il mondo dei servizi di salute mentale,
è evidente che siano necessarie delle strutture ambulatoriali esterne di
supporto che permettano di migliorare il coinvolgimento.
In un'analisi dei pazienti che hanno partecipato al programma di
intervento precoce della RAISE Connection, è apparso evidente che gli
aspetti in grado di influenzare l’impegno del paziente sono quattro: la
cura individualizzata, la qualità del programma, il coinvolgimento di un
membro della famiglia e le capacità personali. Per molti partecipanti un
fattore chiave del programma era l'attenzione ai propri obiettivi:
l'impegno era legato al fatto che essi accedevano a servizi non
tradizionali che li sostenevano, quali il sostegno durante l’istruzione e nella
ricerca in un'occupazione. Questi studi erano incentrati sugli aspetti dei
programmi di intervento immediato che i partecipanti identificavano
quali fattori in grado di migliorare il loro coinvolgimento.
Altri studi hanno invece esaminato quali caratteristiche tipiche dei
partecipanti potessero aver migliorato o interferito con il coinvolgimento
nel trattamento. Un impegno più scarso è stato collegato a traumi
infantili, a sintomi più gravi e ad un’alleanza scarsa. Secondo quanto
osservato dai clinici, un impegno più scarso era associato a sintomi
maggiormente positivi o negativi, ad una psicopatologia più grave in
generale e un adattamento sociale premorboso maggiromente
compromesso. 2
I programmi specializzati nel trattamento del primo episodio psicotico,
con la loro struttura, il loro approccio e i servizi offerti, sono studiati per
coinvolgere i giovani e possono essere una delle strategie volte ad
aumentare l'impegno nei confronti della cura da parte di questo gruppo
In un'analisi dei pazienti che
hanno partecipato al
programma di intervento
precoce della RAISE
Connection, è apparso
evidente che gli aspetti in
grado di influenzare
l’impegno del paziente sono
quattro: la cura
individualizzata, la qualità
del programma, il
coinvolgimento di un
membro della famiglia e le
capacità personali.
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che spesso tende a ricorrere tardi al trattamento e che tradizionalmente
registra un elevatissimo numero di dropout.
I senzatetto
I soggetti senza fissa dimora fanno molta resistenza quando si tratta di
impegnarsi in un trattamento di salute mentale in ambienti tradizionali,
così come quando devono ricorrere ai servizi sociali o quando hanno
bisogno di cure mediche; spesso ciò è dovuto a disturbi dati dall’uso di
sostanze, da altre necessità che mettono in secondo piano il trattamento
di salute mentale e, in particolare tra chi vive per strada, da una sfiducia
nei confronti dei professionisti. 32 Ma possono anche avere punti di forza
che possono essere sfruttati per il trattamento, come una capacità ben
sviluppata di sopravvivenza in strada e la conoscenza del sistema dei
servizi. 33
La sensibilizzazione assertiva delle persone senza fissa dimora implica il
contatto con loro secondo le loro condizioni – e nell’ambiente in cui
vivono - piuttosto che in un ambiente preposto a questo. 33 Il trattamento
comunitario assertivo è una tipologia di pratica basata sulle prove, che è
stata adattata per i senzatetto. Essa utilizza un approccio multidisciplinare
basato con un team in grado di fornire un trattamento completo che
sappia gestire questo tipo di casi, che si occupi di salute mentale e di
abuso di sostanze, che intervenga in caso di crisi e che faccia da
sostegno nella ricerca dell'occupazione e nei servizi alle famiglie delle
persone all’interno della comunità.
I team che lavorano nelle comunità con trattamento assertivo per i
senzatetto sono stati in grado di ridurre i ricoveri in ospedali psichiatrici e il
ricorso al pronto soccorso, di aumentare la stabilità abitativa, di ridurre la
gravità dei sintomi e, fatto particolarmente rilevante per quanto riguarda
il coinvolgimento, di aumentare le visite ambulatoriali. 34,35 Nonostante
l’attenzione posta dalle comunità con modello di trattamento assertivo al
coinvolgimento nel trattamento, poco si sa circa quali siano gli specifici
elementi che lo promuovo, in particolare tra i soggetti senza fissa dimora.
Uno studio qualitativo recente condotto dallo staff di una comunità per il
trattamento assertivo, non incentrato sui senzatetto, ha identificato i
seguenti elementi come fondamentali per riuscire a coinvolgere i
soggetti: l’alleanza terapeutica tra il personale ed i pazienti, la persistenza
e la costanza, la fornitura di assistenza pratica e di sostegno piuttosto che
il solo uso di farmaci, il processo di decisione da parte del team,
l’accettazione dei pazienti così come sono e la flessibilità.
Uno studio britannico sul coinvolgimento, di nuovo non incentrato sui
senzatetto, ha messo a confronto una comunità con trattamento
assertivo con una tradizionale comunità per la salute mentale,
evidenziando come l'approccio basato sul trattamento assertivo di un
numero ristretto di casi e la sinergia del team abbia migliorato la
compliance al trattamento. 37 L’intervento durante il momento critico è
un'altra pratica basata sulle prove che ha lo scopo di aiutare le persone
senza fissa dimora ad impegnarsi nel trattamento e pone particolare
attenzione ai periodi di transizione, come ad esempio il passaggio da un
ospedale, o dal ricovero, ad una casa. Chi si occupa dell’intervento
durante il momento critico fornisce ai singoli casi un’assistenza di breve
durata attraverso un approccio “a fasi” che diminuisce progressivamente
nel tempo. Il modello include l’assistenza pratica, lo sviluppo di un
legame, il sostegno, la valorizzazione e il rafforzamento della motivazione
al fine di rafforzare i legami a lungo termine tra i soggetti e i servizi e i
supporti loro offerti. I risultati sui senzatetto evidenziano una diminuzione
La sensibilizzazione assertiva
delle persone senza fissa
dimora implica il contatto
con loro secondo le loro
condizioni – e nell’ambiente
in cui vivono - piuttosto che
in un ambiente preposto a
questo
Il trattamento comunitario
assertivo è una tipologia di
pratica basata sulle prove,
che è stata adattata per i
senzatetto.
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dei rischi dopo la dimissione ospedaliera e una minore gravità dei loro
sintomi. 39 Così come il trattamento assertivo in comunità, l’intervento
durante il momento critico ha come specifico obiettivo il coinvolgimento.
Uno studio qualitativo degli interventi durante il momento critico ha avuto
come scopo quello di comprendere il ruolo del rapporto tra i professionisti
e i pazienti all’interno del modello, individuando un rapporto di lavoro
"non autoritario" e "umano" in cui i professionisti hanno rispettato
l'autonomia del paziente e mantenuto una flessibilità in relazione ai suoi
contatti e alle sue attività all’interno dei servizi. I professionisti hanno
seguito le indicazioni dei pazienti e utilizzato approcci informali per
entrarvi in contatto al fine di favorire lo sviluppo della fiducia da parte
loro. 40 Quindi, tra i modelli di trattamento basati su prove che hanno
avuto successo con i senzatetto affetti da gravi disturbi mentali, pare che
l’attenzione specifica sullo sviluppo di un rapporto di lavoro positivo,
portato avanti nel loro ambiente, con perseveranza, fornendo
un’assistenza pratica e con flessibilità di approccio abbia un effetto
positivo sul coinvlgimento.
Comorbilità tra uso di sostanze e gravi disturbi mentali
I soggetti affetti da gravi disturbi mentali sono più inclini ad usare sostanze
rispetto a quelli sani e, a tal proposito, alcuni studi suggeriscono che il 5060% di quelli affetti da schizofrenia hanno il disturbo in comorbilità con
l’uso di sostanze. 41-43 È ben noto che i soggetti con disturbi mentali gravi
che fanno uso di sostanze sono più difficili da coinvolgere rispetto a quelli
che non presentano comorbilità e che su questa popolazione i
trattamenti tradizionali non sono riusciti ad intervenire in modo efficace.
43-46 Infatti, la comorbilità con l’abuso di sostanze è uno dei fattori più
gravi associati al non-avvicinamento e al non-impegno nel trattamento di
salute mentale. 1 Questa difficoltà nell'iniziare e nel mantenere l'impegno
verso il trattamento ha molteplici effetti tra i quali: frequenti
riospedalizzazioni, un aumento della gravità dei sintomi, un alterato
funzionamento psicosociale, la trans-istituzionalizzazione in carcere o in
altri centri non di salute mentale. 47
Una ragione per cui i soggetti con doppia diagnosi possono essere meno
coinvolti nel trattamento è la frammentazione del sistema di assistenza.
Storicamente i servizi per il trattamento dell’abuso di sostanze e i
programmi per il trattamento psichiatrico erano completamente
scollegati, con diversi canali di finanziamento, formazione e approcci
filosofici al trattamento. Per questo motivo, le persone con doppia
diagnosi che richiedevano un trattamento venivano spesso escluse da
entrambi i programmi. Ad una persona che chiedeva di essere curata per
l’uso di sostanze veniva detto che doveva prima occuparsi di trattare i
sintomi "psichiatrici" e viceversa. Oltre a creare un ulteriore ostacolo alla
fornitura di assistenza, questo approccio "sequenziale al trattamento" non
prendeva in considerazione la natura interattiva e ciclica di questi
disturbi. 48
I programmi di trattamento integrato per una doppia diagnosi (IDDT)
hanno cominciato a svilupparsi nel 1990, nel tentativo di dare delle linee
guida per il trattamento frammentato a cui i soggetti con doppia
diagnosi venivano sottoposti. Questi programmi davano particolare
importanza alla sensibilità, alla completezza, ad una prospettiva a lungo
termine e ad una coerenza tra filosofia e approccio. 41,49 I clinici
venivano istruiti sulle tecniche motivazionali, sulla collaborazione, sugli
interventi di sostegno sociale e molti di questi programmi prevedevano
anche una componente basata sulla comunità.
Il 50-60% di quelli affetti da
schizofrenia hanno il disturbo
in comorbilità con l’uso di
sostanze.
La comorbilità con l’abuso
di sostanze è uno dei fattori
più gravi associati al nonavvicinamento e al nonimpegno nel trattamento di
salute mentale.
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Oggi l’IDDT è un trattamento basato sulle prove per pazienti con diagnosi
doppia, con studi che indicano che questo approccio migliora diversi
outcome clinici, tra cui la partecipazione alla terapia, la possibile
riduzione del consumo di sostanze, una maggiore permanenza in
abitazioni stabili ed una elevata riduzione dell’ospedalizzazione
psichiatrica e degli arresti. 50 Alcuni studi hanno dimostrato che i
programmi di trattamento integrati, così come il trattamento assertivo in
comunità, in caso di diagnosi doppie rafforzano sia l'impegno iniziale, sia il
coinvolgimento durante il trattamento stesso. 43,44,47 All'interno dei vari
programmi di trattamento per la comorbilità tra l’uso di sostanze e le
condizioni di salute mentale, tra i fattori riconosciuti in gradi di migliorare
l’impegno vi sono l’inclusione di obiettivi condivisi, una visione ottimista
che non si concentra sui farmaci, una psicoeducazione permanente, una
cura basata sulla collaborazione all’interno dello staff e la sensibilizzazione
della comunità.
Uno studio ha evidenziato come il coinvolgimento nel trattamento in un
programma per chi ha una diagnosi doppia fosse maggiore quando i
soggetti arrivavano dalle unità di degenza, piuttosto che dalle comunità.
51 Non è chiaro quale aspetto della degenza servisse a rafforzare un
impegno più prolungato, ma questo dato è interessante e può suggerire
che, per alcuni sottogruppi con diagnosi doppia, la stabilizzazione fatta
durante la degenza può risultare utile. Uno studio recente ha analizzato
l'utilizzo del sostegno tra pari nel coinvolgimento iniziale all’interno dei
servizi di salute mentale per pazienti cronici con disturbi legati all’uso di
sostanze e/o con una recidiva elevata. Nello specifico i pari
raggiungevano velocemente il coinvolgimento, fornendo una
psicoeducazione e portando i partecipanti ai loro primi incontri. Questo
studio ha riscontrato che il sostegno tra pari ha aumentato in modo
significativo l'impegno verso il trattamento, sia quando si trattava di un
trattamento standard, sia nel caso di trattamenti sperimentali integrati. 52
Ciò mette in evidenza come il sostegno tra pari sia un nuovo strumento
sempre più utilizzato per migliorare il coinvolgimento dei soggetti con una
doppia diagnosi.
Tecniche per il coinvolgimento recovery- oriented
Qui di seguito descriviamo le recenti innovazioni del trattamento in grado
di migliorare il coinvolgimento in modo creativo e insolito. Li abbiamo
selezionati in quanto tutti orientati a migliorare l'esperienza del
trattamento per chi vi partecipa. Ciascuna delle tre strategie illustrate qui
di seguito ha, in modo diverso, lo scopo di rendere il trattamento più
accessibile, più focalizzato sulle esigenze del paziente e meno
stigmatizzante. Riteniamo, perciò, che esse incarnino perfettamente lo
spirito di una cura recovery-oriented e che possano contribuire a
migliorare il coinvolgimento nei confronti trattamento.
Elettronica / Tecnologia
In un momento in cui internet, le applicazioni per smartphone e i social
media servono a connettere sempre più persone tra loro, appare
opportuno considerare come poter utilizzare queste tecnologie per il
trattamento di persone con gravi disturbi mentali al fine di promuovere il
loro impegno. Esistono diverse teorie secondo le quali le tecnologie
legate all’informazione e alla comunicazione sarebbero in grado di
aumentare il coinvolgimento e migliorare il trattamento, con diversi
strumenti da poter utilizzare: bacheche di messaggi aperte a tutti, siti web
terapeutici chiusi, telefoni cellulari e addirittura bottiglie per i farmaci
Esistono diverse teorie
secondo le quali le
tecnologie legate
all’informazione e alla
comunicazione sarebbero in
grado di aumentare il
coinvolgimento e migliorare
il trattamento, con diversi
strumenti da poter utilizzare
NEWSLETTER
“intelligenti”, in grado cioè di migliorare la somministrazione degli stessi. 53
Una giustificazione per integrare queste tecnologie nel trattamento di
salute mentale è che esse possono essere utilizzate in modo spontaneo
per ampliare la portata dei servizi e ridurre le reticenze verso le cure. Ciò
può risultare particolarmente importante in quelle situazioni in cui il
numero di chi può offrire servizi è limitato. 54
È stato ipotizzato che le varie piattaforme online e per smartphone
potrebbero servire come "passaggio" verso i servizi di salute mentale,
eliminando alcune reticenze riscontrate all’inizio del coinvolgimento e
consentendo quindi ai soggetti di avvicinarsi ai servizi in un ambiente
rassicurante e a basso rischio. Ciò potrebbe risultare utile anche per
coloro che hanno abbandonato il trattamento e stanno considerando di
rientrarvi, ma che avvertono alcuni ostacoli, sia di tipo personale (autostigmatizzazione, una bassa opinione di sé) o pratici (difficoltà nel
raggiungere il luogo in cui viene fornita la terapia o di far coincidere gli
incontri con i propri impegni). Coloro che avvertono i sintomi, che hanno
dubbi su di essi o che sono alla ricerca di maggiori informazioni possono
rivolgersi a Internet e ai social media per avere le risposte e per ricevere
supporto. In un recente studio condotto sui giovani adulti all’interno di un
programma di primo intervento, la stragrande maggioranza ha affermato
di utilizzare i social media (97,5%), con una media di > 2 ore al giorno. Il
trenta per cento dei partecipanti ha riferito di aver discusso dei propri
sintomi nei social media e di avervi cercato informazioni nel web. La
maggior parte di questa popolazione era propensa a farsi avvicinare dai
clinici attraverso i social media durante le crisi. 55
Il distacco durante i periodi in cui i sintomi si ripresentano può portare a
particolari disagi e potenzialmente portare a dover ricorrere al pronto
soccorso o al reparto di degenza. Se i clinici e i programmi di trattamento
utilizzano i social media e le tecnologie basate sul web per mettersi in
contatto con i pazienti durante i periodi di distacco, forse l’aumento dei
sintomi o di riospedalizzazioni possono diminuire. Questa può essere
considerata la nuova assistenza assertiva del 21° secolo: i medici, anziché
incontrare i pazienti all’interno di una comunità, possono farlo online. I
trattamenti attraverso la rete che sono stati sviluppati hanno ottenuto
risultati promettenti. 56,57
Uno studio randomizzato controllato su un sito web moderato da un
terapeuta ha mostrato come la partecipazione abbia portato ad una
diminuzione dei sintomi positivi e un miglioramento della conoscenza
della schizofrenia. 58 I tablet e le altre tecnologie informatiche e
computeristiche hanno dimostrato di contribuire a promuovere l'impegno
iniziale nell’ambito dell’occupazione assistita. 59 Con popolazioni che
normalmente non hanno accesso alle tecnologie d'informazione e
comunicazione all’avanguardia, come ad esempio i senzatetto, si
possono avere benefici ancora maggiori. Per le persone emarginate con
poche risorse, l'uso della tecnologia può aumentare il senso di
appartenenza e contribuire a costruire legami sociali. Queste piattaforme
possono essere utilizzate per la psicoeducazione, per il coinvolgimento
iniziale o anche per il trattamento. 60
Sono attualmente in fase di sviluppo cartelle cliniche elettroniche basate
sul salvataggio nel cloud. Questi sistemi sono sicuri e conformi al “Health
Insurance Portability e Accountability Act” statunitense. Previo il consenso
del paziente, possono consentire lo scambio di informazioni tra le varie
organizzazioni e gli operatori sanitari. È da poco consentito inserire
all'interno di questi sistemi basati sul cloud delle cartelle cliniche
personalizzate. Queste tecnologie hanno un sistema di messaggistica
sicuro e permettono quindi l’integrazione delle cartelle cliniche da parte
È stato ipotizzato che le
varie piattaforme online e
per smartphone potrebbero
servire come "passaggio"
verso i servizi di salute
mentale, eliminando alcune
reticenze riscontrate all’inizio
del coinvolgimento e
consentendo quindi ai
soggetti di avvicinarsi ai
servizi in un ambiente
rassicurante e a basso
rischio.
NEWSLETTER
del paziente e dell’operatore. La compilazione di queste cartelle cliniche
personalizzate può migliorare il coinvolgimento del paziente. 61
Coinvolgendo il paziente nel processo decisionale relativo al proprio
trattamento e fornendogli un facile accesso e la possibilità di comunicare
con i clinici, si possono superare alcune barriere sia pratiche, sia
esclusivamente percepite dal paziente. I programmi di salute mentale
possono prendere in considerazione l'uso di tutti i suddetti interventi basati
sulla tecnologia come parte del loro approccio verso il trattamento al fine
di aumentare il coinvolgimento. Gli studi futuri dovrebbero concentrarsi su
come inserire al meglio nei servizi esistenti questi innovativi trattamenti
basati sulla tecnologia e i collegamenti web in relazione alla cura,
tenendo conto dei rischi associati ad Internet e alla tecnologia, quali ad
esempio la perdita della privacy e la discriminazione. 62
Il supporto tra pari
Alcuni studi hanno suggerito che coloro che hanno difficoltà a
partecipare o ad impegnarsi in un trattamento possono avere difficoltà a
fidarsi di figure che percepiscono come autorità. 31 Inoltre, molti soggetti
affetti da disturbi mentali gravi possono sentirsi alienati, emarginati e
stigmatizzati. Per questo e molti altri motivi, questi ultimi potrebbero
impegnarsi maggiormente in quelle strutture dove possono relazionarsi
con i loro pari. Negli ultimi dieci anni sono fioriti in tutti gli Stati Uniti molti
centri basati sulla collaborazione tra pari e oggi questa tipologia di
approccio è stata implementata in diverse strutture per il trattamento dei
disturbi mentali. Sono inoltre sorte delle organizzazioni indipendenti gestite
direttamente da pari. Il supporto tra pari è stato definito "un sistema per
dare e ricevere aiuto fondato sui principi fondamentali del rispetto, della
responsabilità condivisa e della comune consapevolezza circa ciò che è
utile". 63 Il presidente della New Freedom Commission on Mental Health
Care ha chiesto che si provvedesse ad una maggiore diffusione dei servizi
basati sull’aiuto fornito da pari. 4 Inoltre, il sostegno tra pari è diventato un
servizio rimborsabile dal servizio sanitario. 64 Uno studio del programma di
Wellness Recovery Action Plan condotto da pari ha evidenziato i
giovamenti che i partecipanti ne hanno tratto, tra cui un maggiore senso
di auto-determinazione e di consapevolezza di sé, oltre agli effetti positivi
sul coinvolgimento nel trattamento sia in caso di inserimento in strutture
tradizionali, sia a livello individuale. 65
In uno studio su adulti con gravi disturbi mentali all’interno di comunità per
il trattamento, la gestione tradizionale dei singoli casi è stata messa a
confronto con quella fatta dai pari. 66 L'obiettivo era verificare se i
partecipanti che erano stati trattati fin dall’inizio dai pari risultassero più
coinvolti al follow-up (6 e 12 mesi). Lo studio ha evidenziato come i
pazienti che avevano ricevuto assistenza dai pari al sesto mese erano più
coinvolti rispetto a quelli che avevano ricevuto cure di tipo tradizionale.
Questa differenza tra i gruppi scompariva a 12 mesi, il che potrebbe
sottolineare l'importanza dell’inclusione dell’assistenza fornita da pari nelle
fasi iniziali del trattamento, al fine di creare velocemente un'alleanza di
lavoro e migliorare il coinvolgimento in quella fase del trattamento in cui il
rischio di dropout, di una ricaduta e di riospedalizzazione è
particolarmente alto. Da segnalare come, in entrambi i gruppi, i
partecipanti che a 6 mesi sentivano di essere capiti e ben voluti abbiano
dichiarato di sentirsi motivati nei confronti del trattamento.
Negli ultimi dieci anni sono
fioriti in tutti gli Stati Uniti molti
centri basati sulla
collaborazione tra pari e
oggi questa tipologia di
approccio è stata
implementata in diverse
strutture per il trattamento
dei disturbi mentali..
NEWSLETTER
Un gruppo che da sempre è ritenuto particolarmente difficile da
coinvolgere in un trattamento di salute mentale è quello dei veterani
dell’esercito
Un recente studio qualitativo dei veterani dell'esercito ha scoperto che
all’inizio il principale ostacolo nell’impegnarsi in un trattamento è la
sensazione di stigmatizzazione e il fatto che i soldati hanno difficoltà a
capire o ad accettare di aver bisogno di aiuto. I partecipanti a questo
studio si sono detti generalmente favorevoli all'idea di integrare il
trattamento standard con un’assistenza fornita da pari, dicendo che
diminuiva la loro sensazione di stigmatizzazione sia all’interno, sia
all’esterno della struttura. I soldati hanno detto che l’assistenza tra pari
forniva loro dei modelli di comportamento e che, ad esempio, un soldato
che mostrava agli altri la propria battaglia contro la malattia mentale,
veniva percepito come forte ed era molto rispettato dagli altri.
L’assistenza fornita da pari si è dimostrata in grado di abbassare i tassi di
recidiva nei veterani con problemi di abuso di sostanze. 52 Anche se la
popolazione dei veterani è molto particolare, l’auto stigmatizzazione e la
necessità di modelli di comportamento possono essere universali e quindi
percepiti da tutti coloro che soffrono di un qualche disturbo mentale.
Intervista per la Valutazione Culturale (Cultural Formulation Interview)
Soggetti con disturbi mentali gravi che appartengono a minoranze
etniche e di razza si lasciano coinvolgere meno nel trattamento per la
salute mentale rispetto ai bianchi non ispanici. 68,69 Tra le varie e
numerose ragioni ci sono anche barriere sociali e culturali oltre che legate
al sistema. 70-74 Un’assistenza competente da un punto di vista culturale
potrebbe essere una via per migliorare il coinvolgimento.
Uno strumento efficace nel fornire un’assistenza sensibile a livello culturale
e nel valutare il contesto culturale del soggetto allo scopo di indirizzare
diagnosi e trattamento è l’Intervista per la Valutazione Culturale (Cultural
Formulation Interview - CFI). Introdotta nel DSM-5, si tratta di un
questionario in 16 punti con un supplemento di 12 moduli. Comprende
anche un modello informativo utile a ottenere materiale da chi
accompagna il paziente, come i familiari. 75 L’idea alla base della CFI è
che la cultura del soggetto e il contesto in cui vive formano il modo con
cui lui/lei percepisce il disturbo, il trattamento e il coinvolgimento con il
team deputato al trattamento.
Le informazioni culturali comprendono le strutture sociali in cui il soggetto
vive, le risorse dell’ambiente locale (economiche e di tempo) e le
circostanze individuali. Il contesto culturale è visto come qualcosa di
dinamico e unico per ciascun individuo. Pertanto, anche se possono
esserci tendenze comuni tra differenti minoranze in relazione a come
vengono visti i sintomi e il trattamento, ciò non deve essere preso in
considerazione e ogni individuo deve essere valutato singolarmente. A
questo scopo, l’impiego della CFI nel trattamento è un modo esplicito di
conoscere le unicità del singolo e di concentrarsi su bisogni e obiettivi di
lui/lei. Sebbene sia uno strumento relativamente nuovo, la CFI può
migliorare la comunicazione interculturale, apportando benefici anche in
termini di partecipazione alla terapia.
CONCLUSIONI
Sono molte le strategie innovative emergenti volte a migliorare il
coinvolgimento nella terapia. Come mostrato in questo studio, le strategie
per il coinvolgimento sono focalizzate sull’impiego di strumenti e metodi
Uno strumento efficace nel
fornire un’assistenza sensibile
a livello culturale e nel
valutare il contesto culturale
del soggetto allo scopo di
indirizzare diagnosi e
trattamento è l’Intervista per
la Valutazione Culturale
(Cultural Formulation
Interview - CFI)
NEWSLETTER
pratici così come sul cambiamento di mentalità e in linea generale
l'approccio al trattamento di persone con disturbi mentali. Allo scopo di
implementare queste strategie per migliorare il coinvolgimento, anche le
strutture di salute mentale devono sentirsi coinvolte nel lavoro che stanno
svolgendo. I nuovi approcci necessitano di apertura mentale e flessibilità
rispetto a una struttura in evoluzione e alla gestione dell' assistenza per la
cura mentale. Anche se, presumibilmente tutte le strutture di salute
mentale in questo campo sono impegnate a migliorare il benessere e la
salute dei pazienti affetti da disturbo mentale, barriere individuali e di
sistema possono impedire ai fornitori di prestazioni di somministrare un
trattamento che migliora in maniera ottimale il coinvolgimento del
soggetto partecipante. Le realtà che attualmente operano all’interno del
sistema di assistenza mentale devono fare fronte a risorse e tempo limitati
e a un crescente controllo da parte di società di managed-care (rete di
cure integrate).
È comune tra i clinici addurre queste preoccupazioni a motivo per la loro
riluttanza a cambiare i servizi di trattamento o a seguire un approccio più
“recovery-oriented”. Vi si accompagna anche la molteplici
preoccupazioni attitudinali circa il trattamento recovery-oriented , come
la paura di un aumento dei rischi, la preoccupazione che solo certi tipi di
soggetti partecipanti possano essere coinvolti nel trattamento e l’idea
che i servizi recovery-oriented svalutino le competenze professionali.
È chiaro che, allo scopo di indurre un cambiamento a livello globale, sia
necessario lavorare su queste preoccupazioni. I servizi possono essere
ottimizzati spingendoli all’impiego di risorse più efficienti, sollevando gli
psichiatri dal fronteggiare alcune delle pressioni attuali e consentendo
così loro di disporre di più tempo per coinvolgere i pazienti in incontri vis a
vis e interazioni cliniche più significative78. Coordinando i propri sforzi
verso paure, stigma, false convinzioni e costrizioni pratiche si può
contribuire a indurre il sistema per la salute mentale a migliorare la
partecipazione in fase iniziale e la compliance in generale.
Questo studio non è esaustivo e per migliorare il coinvolgimento sarà
necessario analizzare altre aree come il benessere e l’esercizio fisico, il
ruolo dei familiari - compreso quello dei fratelli – nel coinvolgimento al
trattamento e l’uso di una cura specifica sul trauma per coinvolgere
soggetti con passati traumatici. Le future aree di ricerca potrebbero
indagare i problemi correlati alla formazione e all’implementazione di
strategie di coinvolgimento all’interno di un panorama assistenziale in
continua evoluzione.
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I servizi possono essere
ottimizzati spingendoli
all’impiego di risorse più
efficienti, sollevando gli
psichiatri dal fronteggiare
alcune delle pressioni attuali
e consentendo così loro di
disporre di più tempo per
coinvolgere i pazienti in
incontri vis a vis e interazioni
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NEWSLETTER
Dieter Aber, Martin Lambert
Should we listen and talk more to our patients?
World Psychiatry 2013; 12(3): 237-238
Traduzione a cura del Dott. Giorgio Ilari
Trascorriamo molto tempo a ricercare e discutere sulle differenze tra i vari
antipsicotici, ma dedichiamo molte meno energie ad una questione
decisamente più importante, probabilmente la più rilevante nella nostra
pratica clinica quotidiana, che riguarda la gestione della mancanza di
aderenza dei pazienti alle terapie. E’ un dato di fatto che i nostri pazienti
abbandonano i trattamenti, in una percentuale compresa tra il 20 e il
40%, entro soli 12 mesi dalla presa in carico da parte dei servizi di cura;
inoltre, più del 40% interromperà la terapia farmacologica subito dopo le
dimissioni dal primo ricovero (1); circa il 20% dei pazienti al primo episodio
psicotico rifiuta ostinatamente le terapie, e a questi si aggiunge una
quota, pari al 50% di essi, che nell’arco dei successivi 18 mesi attraverserà
almeno una fase di discontinuazione delle cure.
La problematica della aderenza è certamente difficile da valutare ma
anche da gestire, per via di molteplici fattori che influenzano
l’atteggiamento e l’attitudine dei pazienti a seguire le nostre indicazioni,
quali per esempio : il livello di efficacia e di tollerabilità del farmaco
prescritto, il grado di critica di malattia (a questo proposito occorre
distinguere se la scarsa consapevolezza è secondaria ad un deficit
cognitivo oppure ad un meccanismo di negazione), le sensazioni
scaturite dal primo contatto con l’ambiente psichiatrico, l’influenza del
partner o del caregiver e molti altri ancora (2).
La speranza che l’avvento degli antipsicotici di seconda generazione
avrebbe portato, in virtù del loro minor impatto in termini di effetti
indesiderati extrapiramidali, ad un incremento della aderenza alle cure,
non ha trovato di fatto riscontro; l’analisi della maggior parte dei dati di
letteratura disponibili non mostra infatti un chiaro vantaggio dal punto di
vista dei tassi di non-aderenza e dei tempi di interruzione del trattamento
(3). Una spiegazione a ciò potrebbe risiedere nel fatto che le potenzialità
di quest’ultima categoria di psicofarmaci non sono state ancora del tutto
afferrate. Le spiccate differenze, all’interno di tale classe di molecole, nel
profilo recettoriale e nelle collateralità potrebbero consentire una
personalizzazione ottimale del trattamento, con particolare attenzione ai
disagi segnalati dai pazienti (è certamente utile riuscire a discernere quali
effetti indesiderati dovrebbero essere evitati in assoluto e quali
potrebbero essere considerati accettabili). L’impegno profuso per
coinvolgere il paziente in queste decisioni va di sicuro a rafforzare
l’alleanza terapeutica, che è probabilmente uno dei fattori che incide in
modo più consistente sulla aderenza (2). Un’altra componente che
contribuisce a migliorare l’alleanza terapeutica è la maggior frequenza
dei contatti con il curante, anche se questi avvengono “solamente” per
effettuare dei controlli clinici. Per esempio, la necessità di effettuare esami
di laboratorio ad intervalli prestabiliti in corso di terapia con clozapina
potrebbe spiegare l’adesione sorprendentemente elevata alle cure tra i
Tra il 20 e il 40% dei pazienti
psichiatrici abbandonano i
servizi di cura entro 12 mesi
dalla presa in carico
Più del 40% dei pazienti
interromperà le terapie
immediatamente dopo le
dimissioni da un ricovero in
ambiente psichiatrico
Contrariamente alle
aspettative, l’introduzione
degli antipsicotici di
seconda generazione non
ha generato un
miglioramento della
compliance
NEWSLETTER
pazienti che assumono tale terapia (4). Allo stesso modo, l’interazione
regolare con l’équipe curante potrebbe rappresentare uno dei vantaggi
più rilevanti dell’utilizzo di un antipsicotico long-acting, oltre ovviamente
alla possibilità di identificare in modo inequivocabile la discontinuazione
della terapia, nel caso in cui il paziente non dovesse presentarsi per
l’iniezione periodica. La resistenza all’utilizzo di tali formulazioni
sembrerebbe dovuta più ad un diffuso pregiudizio degli psichiatri che dei
loro pazienti (5).
Inoltre, le discussioni e le valutazioni che vanno ad esplorare la qualità
della vita dei pazienti in corso di terapia antipsicotica non dimostrano solo
i nostri sforzi nel cercare di ridurre i sintomi di malattia, ma anche
l’inclinazione a raggiungere traguardi terapeutici particolarmente
ambiziosi per la salute, intesa in modo globale. Non ci stupiamo quindi se
molti lavori hanno dimostrato la relazione tra il benessere soggettivo del
paziente e la motivazione a proseguire con il trattamento antipsicotico
(6).
La maggior parte degli studi di tipo randomizzato-controllato non ha
finora dimostrato una superiorità degli antipsicotici long-acting rispetto
alle corrispondenti preparazioni per via orale; tuttavia questo non ci
meraviglia, dato che gli effettivi vantaggi dei trattamenti depot non si
possono rilevare tramite studi condotti in doppio cieco o con metodiche
analoghe, ma diventano invece ben evidenti attraverso studi naturalistici
(2,7).
Infine possiamo affermare che la complessità dei fattori che influenzano
l’aderenza, l’interazione tra di essi e il loro continuo mutare nel corso del
tempo sono tutte variabili che mettono in evidenza la necessità di
utilizzare schemi di trattamento integrati, da rivolgere sia a quei pazienti
affetti da disturbi mentali persistenti e gravi sia a coloro che presentano
un elevato rischio di allontanamento dal servizio curante o di mancanza
di adesione alle terapie (8). Tali paradigmi di intervento includono sia
percorsi di cura intensivi ambulatoriali sia modelli di terapia comunitaria
quali l’“intensive care management” o l’ “assertive community
treatment” (9). Se confrontati con i trattamenti standard, è stato
dimostrato che la gran parte di questi ultimi schemi di trattamento
permette di ridurre i tassi di drop-out dei pazienti dai servizi di cura e di
migliorare l’aderenza alle terapie (8,10), raggiungendo migliori risultati da
un punto di vista multidimensionale (8,10) ed abbattendo i costi sanitari
(8).
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3.
4.
L’aumento dei contatti del
paziente con il curante,
anche se per ragioni
“solamente” cliniche (esami
ematochimici,
somministrazione di terapia
iniettiva long acting) sembra
migliorare la compliance
alle cure
E’ necessario utilizzare
paradigmi di intervento
integrati per ridurre i tassi di
drop out dei pazienti dai
servizi di cura e migliorare
l’aderenza alle terapie
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NEWSLETTER
Gian Giacomo Rovera, Silvana Lerda, Goffredo Bartocci
Psicoterapia dinamica culturale
Rivista di Psichiatria e Psicoterapia Culturale, Vol. II, n. Supplementare, s1 s12, 2014
I. Cenni introduttivi
Rispetto agli Studi sull’individuo umano, è ipotizzabile che nessuna altra
branca della Medicina come la Psichiatria, e ancora di più la
Psicoterapia, cerchi di intendere il significato dell’esistenza attraverso
un’articolazione tra lo spiegare scientifico e il comprendere
fenomenologico.
Le attuali ricerche, in continua evoluzione, attengono infatti a dimensioni
sia biologiche, sia psicologiche, sia socio-culturali (Fassino, 2007; Rovera,
2007), le quali interagendo fra loro costituiscono un approccio a rete
interdisciplinare.
Inoltre, nelle ultime decadi del XIX Secolo, e ancor più attualmente,
nell’ambito della Psichiatria e della Psicoterapia non solo si sono ampliate
le strutture dei riferimenti concettuali, ma pure si sono approfondite le
linee di sviluppo rispetto alla psicopatologia e ai trattamenti, che
ritengono utile, se non indispensabile, riferirsi alle dimensioni sia dinamica
che culturale.
Per quanto riguarda l’aspetto dinamico della Psicoterapia, basti pensare
a come i dinamismi si verifichino a diversi livelli: intrapsichico (tra conscio e
inconscio), evolutivo (life span), relazionale (interindividuali), collettivo
(socio-culturali),
nonché
terapeutico
(dinamiche
transferali/controtransferali) (Gabbard, 2005).
Circa la dimensione culturale, essa è venuta a configurarsi attraverso
territori non facilmente esplorabili, immergendosi in un insieme di
significati, di norme comportamentali, di sistemi linguistici e
comunicazionali, di orientamenti di valori, di istituzioni. Le molteplicità
delle culture non sono una mappa statica, ma una realtà dinamica che
cambia continuamente, evolvendosi in modo non uniforme. Questa
metamorfosi viene da taluni collocata nel post-moderno o addirittura nel
post-ideologico, giacché non si possono stabilire né rigide
gerarchizzazioni tra le varie culture e neppure dissolvimenti pluralistici. È
infatti più congruo utilizzare le configurazioni di Pluralità Culturali
Interattive Pragmatiche (Rovera e Bartocci, 2014a e 2014b).
II. Tra miti, stregonerie e neuroscienze
1) Per quanto attiene alla Psicoterapia, non si può dimenticare, anche se
in una rilettura critica, il saggio di Thomas Szasz sul Mito della Psicoterapia
(1981). Egli ritiene che: il termine “psicoterapia”, in quanto usato in
riferimento a due o più persone che si parlano o si ascoltano, sarebbe
inappropriato poichè rappresenterebbe una categoria fuorviante. Dato
che può aiutare le persone, la psicoterapia può essere considerata e
definita come qualcosa di simile alla regolare cura medica, ma tuttavia,
propriamente parlando, non sarebbe la stessa cosa. Come la malattia
mentale, la psicoterapia sarebbe una metafora e un mito. Ipnosi,
Circa la dimensione
culturale, essa è venuta a
configurarsi attraverso
territori non facilmente
esplorabili, immergendosi in
un insieme di significati, di
norme comportamentali, di
sistemi linguistici e
comunicazionali, di
orientamenti di valori, di
istituzioni.
Le molteplicità delle culture
non sono una mappa
statica, ma una realtà
dinamica che cambia
continuamente, evolvendosi
in modo non uniforme.
NEWSLETTER
suggestione, psicoanalisi, comunque possa essere etichettata la
cosiddetta psicoterapia, sono nomi che si darebbero a situazioni in cui
delle persone si parlano e si ascoltano in determinati modi. Ma definendo
“psicoterapia” certi tipi d’incontri umani, non si farebbe che ostacolare la
capacità di comprenderli (Szasz, 1981).
2) Si può alludere qui agli psicoterapeuti selvaggi (estendendo
l’accezione anche alle new psychotherapies), che potrebbero essere
paragonati a ciò che i guaritori rappresentano nei confronti dei “medici
ufficiali”. Viene da domandarsi come possano essere configurati gli
stregoni in una psicoterapia dinamica culturale, e ancor più gli sciamani
in un contesto terapeutico, quando, ad esempio, Tobie Nathan (2011)
pone l’accento sui benefici delle terapie selvagge nelle culture non
occidentali. Di seguito Isabelle Stengers (2011) pone analogie tra il
medico e il ciarlatano, quale fosse una sfida pratica consistente
nell’abbandonare la prospettiva del progresso. Nota la Stengers: “I poteri
della sperimentazione prodotti dal progresso in laboratorio creano dei
supplementi di anima incontrollabili, mentre il rapporto tra medico e
paziente resta nell’ombra di buone volontà e di esperienze poco
trasmissibili”. È questa una sfida pratica di una medicina cosiddetta
razionale, che viene rimandata al campione del processo sperimentale. Si
potrebbe così giungere a un personaggio ambiguo, quasi un ciarlatano
moderno, che si realizzerebbe anche quando si perdesse di vista il
discernimento tra vero medico e ciarlatano.
3) Sul piano teorico-pratico si è più vicini a considerare l’approccio in
Psichiatria Culturale nel senso di una psichiatria oltrefrontiera (Tseng, 2003;
Inglese e Peccarisi,1997), che implica un “viaggio intorno alle sindromi
culturalmente ordinate”. Commentando Bastide (1898-1974), Cazzullo
(1997) propone di distinguere tre discipline consacrate alle implicazioni
socio-culturali delle malattie mentali. A) La prima è l’Etnopsichiatria,
considerata la scienza che dovrebbe occuparsi della complessità dei
rapporti che interagiscono fra cultura e malattie mentali. Essa andrebbe
successivamente divisa in altre discipline: B) quella che osserva il livello
psicopatologico individuale; C) quella che tende a stabilire le correlazioni
globali, avvicinandosi a una psico-sociologia della malattia mentale.
4) A completamento delle ricerche in questo campo, oggigiorno si
registra una notevole serie di studi che tende a connettere strettamente
le neuroscienze con la psicoterapia, in quanto questa costruirebbe e
ricostruirebbe il cervello umano (Cozolino, 2002).
Inoltre, le ricerche neurobiologiche hanno apportato alla pratica della
psicoterapia acquisizioni innovative: le evidenze sulle reti neuronali
dell’empatia hanno spostato la concezione dei fattori di cambiamento
dall’interpretazione alla embodied simulation o simulazione incarnata
(Gallese et al. 2007). Dopo i lavori di Kandel e grazie anche agli studi di
Northoff (2014), la psichiatria clinica è investita con crescente evidenza
dai problemi della resistenza ai trattamenti, della difficile aderenza alle
cure e della crisi di identità dello psichiatra. Le metodiche della
Neuropsicoanalisi propongono importanti acquisizioni e revisioni
concettuali in tema di relazione psicoterapeutica, e quindi di efficacia
delle cure (Fassino, 2002 e 2014).
Riprendendo l’argomento succitato della simulazione incarnata come
approccio originale di cognizione sociale (Mind reading), sebbene si
siano avuti consensi e critiche, esso offre nel campo della Psicoterapia
Dinamica Interculturale notevoli spunti. Le ipotesi e le ricerche su un
cervello sociale sono decisamente consone con il modello della
Psicologia Individuale (Rovera et al., 2013), utilizzando le sfide della mente
multiculturale (Anolli, 2011).
Simulazione incarnata come
approccio originale di
cognizione sociale (Mind
reading): sebbene si siano
avuti consensi e critiche,
esso offre nel campo della
Psicoterapia Dinamica
Interculturale notevoli spunti.
NEWSLETTER
III. Psicoterapia Dinamica Culturale
1) Una Psicoterapia Dinamica Culturale (P.D.C.) attinge quindi ad antiche
radici, ma è altresì aperta a indagini nuove, volte ad ulteriori
approfondimenti.
Sotto un profilo teorico-pratico, e nell’ambito della Psicologia Individuale
Adleriana, vi sono varie accezioni non sovrapponibili fra di loro (vedi:
Fascicolo allegato su Prolegomeni).
In generale (a ciò si è già accennato nel Par. I), si intende per
Psicoterapia Dinamica Culturale l’orientamento terapeutico che studia
dinamicamente i processi psichici nel loro contesto, storico, sociale e
culturale. Da una parte viene rifiutata ogni forma di riduzionismo a
processi neurofisiologici, dall’altra viene respinta ogni pretesa di
universalità dei risultati conseguiti nelle ricerche psicologiche. Mentre la
PsicoterapiaTransculturale confronta i processi psichici di individui
appartenenti a culture diverse, avendo in genere come riferimento la
cultura occidentale, la Psicoterapia Culturale riconosce e valorizza la
specificità e le differenze. Circa questa direzione è utile peraltro effettuare
ulteriori distinzioni:
• Nella Psicoterapia Metaculturale il terapeuta e il paziente
appartengono a culture diverse, ed il terapeuta non conosce
approfonditamente la cultura del gruppo etnico-culturale del paziente.
Egli fa uso tuttavia del concetto di “cultura”, tanto nella formulazione
della diagnosi quanto nella relazione della cura, al punto che può
utilizzare consapevolmente strumenti di “culturalità” e quindi di
cognizione sociale (Mindreading). L’approccio è perciò di metatransfert e
di contro-metatransfert (Michel, 1999).
• Nella Psicoterapia Interculturale il terapeuta e il paziente appartengono
a due culture diverse; il primo peraltro conosce la cultura del gruppo
etnico del paziente e l’utilizza come “leva terapeutica”. Si può qui parlare
di Psicoterapia Biculturale in quanto si combinano due culture: quella del
terapeuta e quella del cliente. Ad esempio un afro-americano che riceva
una psicoterapia negli Stati Uniti da uno psicoterapeuta di matrice
occidentale può desiderare di intraprendere una psicoterapia biculturale,
consistente nel fatto che entrambi i membri della diade terapeutica
dovrebbero avere lo stesso entroterra culturale.
• Nella Psicoterapia Intraculturale il terapeuta e il paziente appartengono
alla stessa cultura, benché il terapeuta tenga conto (anche nella pratica)
delle dimensioni sub-culturali dei disturbi del paziente (Rovera, 1988).
2) I concetti di multiculuralismo, biculturalismo, etnoculturalismo, specie
negli Stati Uniti, sono attualmente in voga (e ciò sta avvenendo anche in
Europa) ed, in genere, riguardano l’effettiva, competenza comunicativa
del terapeuta nel problem-solving e nell’attuazione della terapia.
Oggigiorno, queste aree della psicoterapia hanno tuttavia bisogno di
dimostrare la loro utilità specialmente tra le persone di recente
immigrazione.
Inoltre di tutte le varianti nell’ambito delle Psicoterapie Dinamiche
Culturali, le molteplici culture e le relative modalità di espressione sul
piano psicologico e comportamentale, sebbene diverse, sono
considerate meritevoli di accoglienza e di studio. Ogni individuo o gruppo
che appartiene al proprio contesto culturale deve infatti essere
considerato con pari dignità, poi vanno considerate le differenti
dinamiche che si costituiscono oggi quali metamorfosi culturali.
Si intende per Psicoterapia
Dinamica Culturale
l’orientamento terapeutico
che studia dinamicamente i
processi psichici nel loro
contesto, storico, sociale e
culturale. Da una parte
viene rifiutata ogni forma di
riduzionismo a processi
neurofisiologici, dall’altra
viene respinta ogni pretesa
di universalità dei risultati
conseguiti nelle ricerche
psicologiche.
NEWSLETTER
IV. Tematiche cliniche attuali
In effetti, sotto il profilo clinico, negli ultimi anni le problematiche
culturologiche si sono evolute per molte ragioni correlate fra loro. Tra
queste si ricordano:
1. La massiccia immigrazione nelle aree urbane occidentali di individui
del Terzo Mondo. Negli ultimi anni, infatti, l’Inghilterra, poi la Francia e altri
Paesi Europei, e infine l’Italia (per non parlare dell’Australia, del Sudafrica
e degli USA), si sono trovate a confronto con culture così diverse fra loro
da obbligare lo specialista a interrogarsi non soltanto sul suo rapporto con
il malato, ma anche sui propri orientamenti culturali di tipo etnoantropologico, sulle scelte farmacologiche e terapeutiche di intervento.
2. Gli interventi di cooperazione (che possono ispirarsi al sentimento
sociale, istanza primaria nella Psicologia Individuale), organizzati dai Paesi
Occidentali, hanno sollevato, fra gli altri problemi, quello estremamente
impegnativo di come mettere a confronto l’impatto della medicina
occidentale con le fiorenti medicine tradizionali esistenti nelle aree di
intervento. I complessi rapporti di integrazione o di parziale recupero o di
rifiuto della medicina tradizionale sono un tema aperto e ancora in fase
di evoluzione. Un esempio tipico è rappresentato dalla medicina cinese,
che ha riconosciuto, tra l’altro, con numerose ricerche, le basi
neurofisiologiche dell’agopuntura. Dell’insieme del complesso problema
l’O.M.S. se ne occupa da alcuni anni, cercando di sensibilizzare sia i
medici occidentali che le autorità locali a non distruggere tutti i sistemi di
credenze e pratiche terapeutiche, sulla cui efficacia il medico
occidentale ha il dovere di interrogarsi.
3. Il problema della precarietà (tema del XXVI Congresso Internazionale
IAIP di Parigi, 2014) ha sottolineato come l’immigrazione sia un fenomeno
in costante crescita destinato a catalizzare problemi strutturali, a produrre
quesiti, a richiedere riflessioni e cambiamenti. Presenta, dunque,
implicazioni culturali, economiche e politiche e, soprattutto, comporta
modificazioni anche molto rilevanti da un punto di vista psicologico e
sociale, che difficilmente possono essere affrontate e comprese se si
considera l’immigrazione come un fenomeno omogeneo, piuttosto che
sotto una prospettiva che riconosca le reciproche differenze tra individui
e contesti linguistici e socio-culturali.
Chi immigra lascia le precarietà e le basi culturali del proprio luogo di
provenienza e incontra una nuova precarietà: quella del Paese di
“approdo”. Egli si deve cimentare spesso non solo con la mancanza di
certezze rispetto al lavoro e all’abitazione, ma anche con insicurezze
affettive, linguistiche, culturali, di identità e di appartenenza sociale.
Inoltre, l’incontro di culture, di credenze, di etnie e di religioni diverse può
provocare negli immigrati, ma anche nel tessuto della popolazione che li
accoglie: ansie, angosce e frustrazioni, connesse a loro volta al timore di
essere invasi da qualcuno di sconosciuto (che minaccia la propria
identità e i processi attraverso i quali gli individui si sono sempre
riconosciuti) e di essere contaminati da altra precarietà.
Ecco che il senso di precarietà viene amplificato in modo esponenziale
fino a minacciare i bisogni profondi dell’individuo e i suoi progetti di
autorealizzazione, risultando così potenziale fattore scatenante per
problematiche psichiche e sociali, talora anche importanti, specie in
situazioni di alienazione, fragilità, frustrazione e perdita dell’autostima,
frequenti in chi arriva da Paesi stranieri e culture differenti (Lerda, 2014). Si
può addirittura giungere ad un complesso di precarietà (analogo al
complesso di inferiorità) (Rovera e Bartoccci, 2014b), il quale è da
intendersi come un insieme di rappresentazioni e idee, spesso represse ma
Ecco che il senso di
precarietà viene amplificato
in modo esponenziale fino a
minacciare i bisogni
profondi dell’individuo e i
suoi progetti di
autorealizzazione, risultando
così potenziale fattore
scatenante per
problematiche psichiche e
sociali.
NEWSLETTER
non inconsce, che influenzano il mondo psichico, lo stile di vita individuale
e la progettualità. In questi casi se vi sono valide compensazioni si può
giungere ad un ri-equilibrio complessivo (o resilienza), ma molte volte le
compensazioni sono negative e destabilizzanti.
Tra la sintomatologia che riguarda gli immigrati possiamo citare
l’impotenza, la paura, la rabbia, la disorganizzazione, l’apatia, la
disperazione, i comportamenti aggressivi e criminali, la depressione, i
disturbi psicologici. Tra gli effetti che si possono registrare nei residenti vi
possono essere la perdita di fiducia nei confronti delle istituzioni, il
rafforzamento dell'indifferenza verso le necessità altrui, l’attaccamento
alle proprie tradizioni e principi, nonché la radicalizzazione nei propri
stereotipi culturali: comportamenti che portano a diffidenza e
stigmatizzazione verso il diverso. A medio termine ciò potrebbe favorire la
disgregazione del tessuto sociale e il break-down generazionale.
V. Considerazioni
1) Una Psicoterapia Dinamica Culturale, specie in un contesto
interculturale, riguarda quali possono essere gli agenti terapeutici e i fattori
di cambiamento.
Una P.D.C. necessita innanzitutto di definizioni sulla diagnosi clinica, sul
contesto del setting, sul focus della terapia e sulla presumibile durata
della stessa: elementi questi che condizionano il percorso terapeutico.
Questo deve venire utilizzato, nel contesto socio-culturale del terapeuta,
con individui che hanno altri sistemi di credenze, di valori, di aspettative:
tutto ciò rappresenta al contempo un’occasione, una sfida e
un’opportunità.
a. Il terapeuta deve essere infatti consapevole di una serie di fattori
correlati a una presunta valutazione diagnostica e a un piano
psicoterapeutico appropriato sulla crisi (breve, focale, a tempo
indeterminato, etc), tenendo conto della forza dell’Io, dei meccanismi di
difesa, della relazione terapeutica, delle strategie da utilizzare, dei vari
stadi del trattamento, delle condizioni socio economiche del paziente,
etc.
b. Le competenze per una terapia culturalmente appropriata sono
principalmente:
• La conoscenza culturale, per cui è necessario avere informazioni
adeguate del background culturale del paziente, inerente agli elementi
principali, che consentiranno di portare avanti il lavoro terapeutico. È in
una prospettiva relazionale che si elabora una dinamica interculturale.
Riconoscere che in ogni interazione culturale vi è la possibilità di conflitti
sociali, politici, religiosi, nonché di malintesi linguistici, non ci deve spingere
a ritenere che solo quelli siano la fonte del disagio. È perciò importante
l’impiego dei mediatori culturali. Anche se gli elementi di una data
cultura sono utilizzati come significanti delle distinzioni sociali o della
differenziazione etnica o come sfondo ineliminabile per l’interpretazione
del disagio psichico, è pur vero che il presupposto è che ci sia
un’analoga struttura simbolica che, in quanto tale, esige una conoscenza
dei codici relazionali, comunicativi e valoriali di una determinata cultura.
• La compatibilità culturale, per cui si è aperti e sensibili all’importanza
della cultura altrui, capaci di apprezzarne le differenti credenze e gli stili di
vita di coloro che appartengono a gruppi culturali diversi.
• I fattori di empatia e di incoraggiamento giocano un ruolo importante,
specie se vengono declinati in modi congrui alla comprensione
psicodinamica in un reciproco contesto culturale compatibile. Anche i
momenti di incontro (now moments) fra terapeuta e paziente,
Una Psicoterapia Dinamica
Culturale, specie in un
contesto interculturale,
riguarda quali possono
essere gli agenti terapeutici
e i fattori di cambiamento..
NEWSLETTER
rappresentano una sorta di conoscenza relazionale implicita, la quale
facendo capo ad un’area analogica preverbale può realizzare una
consapevolezza che facilita la psicoterapia interculturale: talora
attraverso micro “agiti” all’interno del setting (enactment) o caute
rivelazioni di certi aspetti della propria vita (self-disclosure).
• L’Orientamento di Valori (O.V.) (Ponce, 2005) considera le credenze, la
religione, il tipo di spiritualità, etc e va ad incidere, indirettamente o
esplicitamente, tanto sui contenuti quanto sul percorso della terapia.
Ogni individuo, oltre a quello collettivo, ha un O.V. personale che modella
il suo pensiero, incide sul suo comportamento e favorisce la direzionalità
del suo agire. L’O.V. del terapeuta deve essere compatibile con quello
del paziente in modo da favorire un’interazione positiva.
c. La comprensione interculturale facilita un approccio di P.D.C. anche se
il terapeuta ed il paziente parlano la stessa lingua. È necessario infatti che
la comunicazione si sviluppi adeguatamente, senza il rischio di equivoci o
malintesi, con rispetto, spontaneità e autenticità (Flubarcher, 1999).
d. La comunicazione corretta è alla base dell’interazione terapeutica e
va condotta lungo le modalità psicodinamiche, con un’apertura
controtransferale culturalmente consapevole (Rovera, Gatti, 2012) che è
da riportare anche agli aspetti pre-verbali ed impliciti e perciò ad un
meta-controtransfert (Michel, 1999).
2) Un precursore ad un’appropriata immedesimazione culturale è
l’embodied simulation (vedi Par. II. 4) che tende a conoscere il paziente:
sia negli aspetti autobiografici, sia in quelli inerenti alla struttura familiare e
sociale in cui vive, sia rispetto ai vissuti correlati al disagio psichico e/o
fisico.
a. In una P.D.C., transfert e controtransfert non sono concepiti in un senso
pulsionale classico ma lungo l’asse transferale/controtransferale inteso
all’interno di uno schema relazionale. Tale approccio prende spunto da
alcuni nuclei teorici adleriani, introducendo, all’interno del setting, l’uso
del sentimento sociale dell’analista, e quindi di un controtransfert
incoraggiante, che smaschera alcune finzioni utilizzate come espedienti
di salvaguardia pur mantenendo un’atmosfera di comprensione
esplicativa condivisa.
b. Inoltre (come già sopra ricordato), il transfert e il controtransfert, in
quanto espressioni dello stile di vita della coppia psicoterapica, sono una
specie di sovracodice comunicativo-interattivo, verbale e non verbale, e
soprattutto preverbale, che quindi si riferisce anche alle dinamiche metatransferali e meta-controtransferali. Qualora ciò venga progressivamente
e reciprocamente condiviso all’interno dell’area di incontro, si
svilupperebbe un rapporto duale che consentirebbe al paziente di vivere
nel setting un’esperienza emotiva nuova, tale da rendere possibile
ridefinire i confini del Sé-Stile di Vita. Sono questi i presupposti del cervello
sociale che permette ad una mente multiculturale (Anolli, 2011)
un’empatia interculturale.
3) Il setting (e quello adleriano ben si presta a essere compatibile a livello
interculturale) deve essere caratterizzato da reciprocità non solo da un
“come fare” ma anche da un “fare come” relazionale (Rovera, 1988), in
un clima di comprensione, compartecipazione empatica e
incoraggiamento. Rappresenta il luogo di un rapporto interindividuale
dinamicamente originale che consente al paziente di vivere nel setting
un’esperienza emotiva nuova e correttiva.
La stessa strutturazione del setting, talvolta difficile da attuarsi, è finalizzata
a un ambiente di sostegno che faciliti gli interventi, dai supportivi agli
interpretativi. Esso costituisce l’idonea cornice per l’impiego intenzionale
di movimenti controtransferali consapevoli (Lerda, 2014), culturalmente
Un precursore ad
un’appropriata
immedesimazione culturale
è l’embodied simulation che
tende a conoscere il
paziente: sia negli aspetti
autobiografici, sia in quelli
inerenti alla struttura
familiare e sociale in cui
vive, sia rispetto ai vissuti
correlati al disagio psichico
e/o fisico.
NEWSLETTER
appropriati (controtransfert di base o metatransfert), sintonizzati sulla
comunicazione preverbale e sugli aspetti emotivi del paziente (Michel,
1999). Si costituisce così la premessa per sviluppare una comprensione
esplicativa/empatica interculturalmente specifica, cioè emica (Tseng,
2003).
Il coinvolgimento utilizza, oltre che le competenze culturali, anche la
personalità dell’analista, che diventerebbe un contributo implicito al
processo analitico: sia nella presenza del carattere originario, sia nello
stato d’animo della prima seduta, sia durante gli incontri successivi, col
paziente. Non solo, ma l’alone della personalità dell’analista è presente
anche nei dintorni della seduta in interazione con quella del paziente
(Rovera e Gatti, 2012).
Nell’ambito di una Psicoterapia Dinamica Culturale ed in particolare
Interculturale, il setting, che ha potenzialità terapeutiche, dovrebbe
essere organizzato con modalità relazionali che permettano l’espressione
del disagio psichico e consentano al contempo di portare alla luce
anche
rappresentazioni
culturali,
favorendo
un’appropriata
comunicazione (Lerda, 2014). Il setting spesso non ha quelle
caratteristiche di cornice, contenitore, contesto in cui si svolge il processo
terapeutico. Non di rado le procedure di una Psicoterapia Dinamica
Culturale devono essere mantenute con le accettabili procedure
all’interno del setting, con una flessibilità adeguata, anche perché non di
rado avvengono nel contesto di una Psichiatria di Liaison (Rovera, 1999;
Rundell e Wise, 1999). Specificatamente si enumerano al proposito alcuni
aspetti importanti:
• La posizione spaziale, cioè la distanza interna/esterna, modula la “zona
cuscinetto” (prossemica) tra terapeuta e paziente deve essere modulata
anche culturalmente.
• La cadenza dei colloqui e la durata della terapia variano anche per
motivi contingenti e devono essere comunque mantenute in una
strategia terapeutica nell’ambito di un progetto funzionale.
• Per favorire anche gli aspetti non verbali, talvolta più esplicativi delle
stesse parole, specie nei momenti d’incontro (now moments), il terapeuta
dovrebbe cogliere quanto il paziente esprime anche attraverso il tono
della voce, la postura, la gestualità, le espressioni del volto. Ciò permette
l’interazione meta-transferale/meta-controtransferale.
• Il terapeuta ha una prevalenza di statu-ruolo, ma si propone con un
atteggiamento umano solidale, con caratteristiche non mascherate,
disposto a offrire la sua esperienza e a confrontare le sue opinioni con
quelle del paziente sino a giungere all’autodisvelamento di vissuti che
contrassegnano la disclosure, quando la stessa sia culturalmente
appropriata. Ciò è da considerare un equilibratore dello status-ruolo del
paziente.
Il terapeuta infatti, attraverso un contro-metatransfert, deve favorire un
clima terapeutico positivo attraverso una fornitura di presenza ed una
base empatica sicura.
4) Ogni forma di P.D.C. dovrebbe stabilire un’alleanza terapeutica,
realizzando un incontro con l’“Altro” e con la sua alterità culturale
attraverso dei processi comunicativi. In questo entrano in gioco le
implicanze convenzionali e conversazionali; l’uso del linguaggio figurato
(specie le proposizioni metaforiche); gli aspetti impliciti ed espliciti; l’uso
contemporaneo della sfera gestuale (che ha codici suoi propri e che
quindi è cultural-dipendente) (Rovera e Gatti, 2012).
Il problema peraltro non è solo quello di comunicare, ma di farlo in modo
“adeguato”, tenendo presenti da un lato le richieste e le esigenze del
paziente e dall’altro lato il fatto che ogni modello di psicoterapia ha dei
Nell’ambito di una
Psicoterapia Dinamica
Culturale ed in particolare
Interculturale, il setting, che
ha potenzialità
terapeutiche, dovrebbe
essere organizzato con
modalità relazionali che
permettano l’espressione
del disagio psichico e
consentano al contempo di
portare alla luce anche
rappresentazioni culturali,
favorendo un’appropriata
comunicazione
NEWSLETTER
codici di riferimento, i quali stabiliscono le procedure e le punteggiature
del percorso terapeutico che devono rapportarsi appropriatamente in
una P.D.C.
VI. Conclusioni
In una Psicoterapia Dinamica Culturale in senso basale, debbono essere
rilevati gli aspetti sull’interindividualità, sul coinvolgimento empatico, sulla
tattica relazionale (comunicazione emica particolare), sulla semantica
esistenziale (comunicazione etica generale). Nel contesto di un intervento
culturale è importante sottolineare le differenze che si hanno quando le
culture (tra terapeuta e paziente) sono molto diverse (transculturalismo),
quando sono più affini (interculturalismo) o simili (intraculturalismo).
Il “valore terapeutico”, anche a livello di formazione, della psicoterapia
deriverebbe sia dall’applicazione corretta di questi codici che
dovrebbero veicolare (e lo si è già sottolineato) sia il come fare
(procedure della techne), sia il fare come (processi del Sé creativo)
(Rovera, 1988). Ciò dovrebbe avvenire all’interno di una costante e
rispettosa valutazione clinica del disagio psichico, che tenga conto degli
aspetti culturali del singolo individuo e ne comprenda le peculiarità.
La Psicoterapia Dinamica Culturale potrebbe essere così sintetizzata:
curare con le parole, integrare con il nuovo, dimostrare con le
neuroscienze (Fassino, 2012) e, nel caso di specie, comprendere
l’interazione culturale (Lerda, 2014; Rovera e Bartocci, 2014a e 2014b).
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Psicoterapia Dinamica
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Curare con le parole,
integrare con il nuovo,
dimostrare con le
neuroscienze e
comprendere l’interazione
culturale
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Si può anche consultare il link della Rivista di Psichiatria e Psicoterapia
Culturale: Rovera G. G., Lerda S., Bartocci G. Psicologia Dinamica
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