LA MUSICA LITURGICA POSTCONCILIARE E LA BATTAGLIA DI

LA MUSICA LITURGICA POSTCONCILIARE E LA BATTAGLIA DI
BENEDETTO XVI
Nicola Bux
Nell'introduzione al libro di Benedetto XVI Lodate Dio con arte, Riccardo
Muti menziona la di lui denuncia del basso livello della musica nelle nostre
chiese. La battaglia per riformare la musica sacra, egli l'ha condotta
guardando alla tradizione ortodossa, ma anche alla storia antica: «Quello che
Platone e Aristotele hanno scritto sulla musica, mostra che il mondo greco si
era trovato, ai loro tempi, di fronte alla scelta tra due tipi fondamentalmente
diversi di musica. Da un lato la musica che Platone riconduce
mitologicamente ad Apollo, dio della luce e della ragione, una musica che
riporta i sensi all'interno dello spirito e, in questo modo, conduce l'uomo alla
totalità; una musica che non supera i sensi, ma li colloca nell'unità della
creatura umana. Essa innalza lo spirito proprio nel momento in cui li fa essere
una sola cosa con lo spirito; essa esprime così proprio la posizione particolare
dell'uomo nell'intero edificio dell'essere. Poi c'è la musica che Platone ordina
a Marsia e che noi, dal punto di vista della storia della cultura, potremmo
anche definire “dionisiaca”. Essa trascina l'uomo nell'ebbrezza dei sensi,
calpesta la razionalità e sottomette lo spirito ai sensi. Il modo in cui Platone (e
con più misura, Aristotele) distribuisce gli strumenti e le tonalità da una parte
e dall'altra è superato e sotto molti aspetti può forse apparirci sorprendente.
1
Ma questa alternativa, in quanto tale, percorre tutta la storia religiosa e ancor
oggi ci sta davanti in maniera del tutto reale. Quindi, non ogni forma di
musica può entrare a far parte della liturgia cristiana. Esso esige un criterio e
questo criterio è il Logos»: così Joseph Ratzinger (Introduzione allo spirito
della liturgia, San Paolo, pag.147).
La Chiesa, che non trasmette solo dottrina, ma indica anche i modi,
mutevoli secondo i tempi, con cui trasmettere la fede, insegna che la musica è,
per dir così, tra questi modi fondamentali, ma deve essere dotata di santità,
universalità e bontà di forme per essere degna del culto divino, come stabilì
san Pio X nel Motu proprio Inter sollicitudines del 1903. Sessant'anni dopo, il
Concilio Vaticano II ha dichiarato che «la tradizione musicale di tutta la
Chiesa costituisce un patrimonio di inestimabile valore, che eccelle tra le altre
espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle
parole, è parte necessaria e integrante della liturgia solenne» (Costituzione
sulla Sacra Liturgia, n 112). A questo patrimonio liturgico appartiene il canto
gregoriano: una varietà dei testi, propri di ogni celebrazione dell'anno
liturgico, sgorgati dalla meditazione sui testi sacri della primitiva Chiesa, ed
ornati melodicamente lungo secoli di esperienza viva della celebrazione dei
misteri della vita di Cristo, che costituisce la lode più perfetta e il patrimonio
più prezioso della pietà liturgica. Testo e musica costituiscono il più elevato
poema della lode divina, che la letteratura antica non esitava ad attribuire alla
ispirazione angelica. Tutto questo è il canto gregoriano che il Vaticano II
definisce «canto proprio» della Liturgia Romana: «perciò, nelle azioni
liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale» (Ivi, 115).
Dal culto giudaico, il gregoriano ha attinto la proclamazione in canto
della Parola di Dio, che si è via via adattata alle diverse situazioni liturgiche, a
cantori e a momenti rituali differenti. Il coinvolgimento dell’assemblea ha
dato origine alle forme di salmodia responsoriale e antifonica, sillabica per
l’Ufficio delle Ore, e fiorita per la liturgia eucaristica. Per i momenti di
2
contemplazione spirituale si è sviluppato il melisma, un lungo vocalizzo
melodico, dove Dio sembra affermare la sua presenza, comunicando al
credente quanto le parole e la stessa Parola biblica non sono in grado di
esprimere, e durante il quale si richiede l’apertura totale del cuore e
l’attenzione viva della mente, nell’ascolto docile che si fa obbedienza di fede: è
il momento musicale dove, più che mai, si manifesta l'aspetto paradossale del
canto liturgico: esso diventa pura rivelazione della Parola.
Giovanni Paolo II ha confermato la “legge generale” formulata da san
Pio X: «tanto una composizione per Chiesa è più sacra e liturgica, quanto più
nell’andamento, nell’ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia
gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo
modello si riconosce difforme» (Chirografo nel centenario del Motu proprio
sulla musica sacra Inter sollicitudines, 2003, n.12).
Infatti, come il rito è “ordo”, così il canto e la musica per essere sacre,
ossia idonee alla liturgia, devono seguire l'ordine testuale e rituale, cosa che è
declinata nelle norme, prescrizioni e rubriche dei libri liturgici, tra i quali vi
sono il Salterio, l'Antifonario, l'Innario, il Graduale. Gli stessi Messali, Rituali
e Cerimoniali contengono, come parte integrante, i testi con notazione
musicale ad uso in primis del sacerdote celebrante e degli altri ministri sacri,
nonché le risposte dei fedeli.
La musica sacra è tale perché partecipa del medesimo principio che
regola la sacra liturgia: è di competenza divina, è in gioco il diritto di Dio di
essere adorato come egli ha stabilito.
Il dibattito postconciliare circa l’attuazione della riforma liturgica è
stato contraddistinto, senza dubbio, dalla tensione tra l’esigenza dell’arte e la
semplicità della Liturgia. Oggi però constatiamo come «il ripiegamento
sull’usuale non ha reso la liturgia più aperta, ma solo più povera» –
concludeva Joseph Ratzinger – «La necessaria semplicità non la si può
3
ottenere con l’impoverimento» (La festa della fede, Jaca Book, pag.89). E
successivamente, parafrasando san Tommaso, riporta il pensiero di
sant’Agostino aggiungendo: «Glorificazione è il motivo centrale per cui la
liturgia cristiana dev'essere liturgia cosmica e il mistero del Cristo deve per
così dire, intonarsi con le voci della creazione». San Tommaso dice
testualmente (sempre in Ratzinger), «con la lode tributata a Dio l’uomo si
eleva fino a Dio… tale ascesa strappa l’uomo da ciò che è contro Dio». «La
lode sonora porta noi e gli altri al timore riverenziale» (Ivi, pp.103-105). La
musica liturgica deve essere sommessa, il suo scopo non è l’applauso ma
l’edificazione, come osservava san Girolamo, quando rimproverava non il
carattere estatico di una musica cultuale, ma la vanità e la ricerca di effetti
nell’esibizione degli artisti (ivi, pag.109).
Nella crisi presente non vanno smarriti alcuni principi: la liturgia esiste
per tutti, cioè è cattolica; ma la cattolicità non significa uniformità; la actuosa
participatio non significa solo “discorrere”, ma anche ascoltare, cioè percepire
con i sensi e con lo spirito commuoversi. «L’arte che la Chiesa ha espresso è,
accanto ai santi che vi sono maturati, l’unica reale “apologia” che essa può
esibire per la sua storia» (Ivi, pag.114).
Più che mai oggi urge una riforma del canto e della musica per la
liturgia; ma si stenta a rendere operativi i principi codificati dalla Costituzione
liturgica, ed esplicitati dalle più recenti e autorevoli dichiarazioni.
Nell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis Benedetto XVI esprimeva
un desiderio, che ha la dolcezza di una supplica e il valore di un comando (cfr.
Emidio Papinutti in Rinascita Gregoriana, giugno 2007, pag.9): «Desidero,
come è stato chiesto dai padri sinodali, che venga adeguatamente valorizzato
il canto gregoriano, in quanto canto proprio della liturgia romana» (n.42). E
chiede che «i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a
celebrare la santa Messa in latino, nonché ad utilizzare testi latini e a eseguire
il canto gregoriano»; e che gli stessi fedeli «siano educati a cantare in
4
gregoriano certe parti della liturgia» (n.62).
L’opposizione al canto gregoriano ha principalmente due motivazioni,
facilitare la partecipazione dei fedeli alla liturgia post-conciliare, eliminando
ogni ostacolo quale, a prima vista, sembra essere la lingua latina; e di
conseguenza il canto gregoriano che non corrisponderebbe più alla sensibilità
musicale del nostro tempo; in secondo luogo, un’irrazionale e quindi non
controllabile presa di posizione contro il fantasma del passato, dove il canto
gregoriano assurge a cifra/simbolo di un mondo dal quale si possono
prendere “finalmente” le distanze.
In realtà, dal secolo XIX si son prese le distanze dall'interpretazione
cosmica della musica, perché si è ritenuta superata la metafisica. Hegel ebbe a
interpretare la musica come espressione della soggettività, mentre
Schopenhauer ha sostenuto che il mondo non è più ragione, ma «volontà e
rappresentazione»: vuol dire che, se la volontà precede la ragione, la musica
non deve legarsi alla parola. L'esito, riconducibile a questa “svolta
antropologica”, è il primato del fare, tradotto nella Chiesa contemporanea col
primato del “pastorale”, del sociale, del pragmatico, sul pensare e il
contemplare, con la conseguente destituzione del valore dell'ortodossia in
favore dell'ortoprassi; tutto questo è riassumibile così: «In principio era
l'Azione», invece che la Parola (cfr. Introduzione allo spirito della liturgia,
pag.151).
Ora, il soggettivismo è giunto a configurare la teoria anarchica dell'arte.
Di conseguenza, si comprende perché siamo in piena “anomia” –
l'inosservanza di qualsiasi norma – anche nella musica sacra. Né vi pone
rimedio il tentativo di “musealizzare” il gregoriano e la polifonia attraverso i
concerti, in quanto «ciò che nei musei può essere solo testimonianza del
passato, ammirata con nostalgia, nella liturgia continua ad essere presente
vivo» (Ivi, pag. 152).
5
È necessario, dunque, anche nel campo della musica sacra cristiana,
illustrato da insigni maestri come il compianto benedettino Anselmo Susca e
Valentino Miseracs Grau, incrementare il nuovo movimento liturgico
inaugurato dal pensiero e dall'insegnamento di Benedetto XVI.
PUNTI FERMI PER ORIENTARSI NEL CAOS
Enrico Finotti
La liturgia è un luogo teologico primario in cui i fedeli vengono a contatto
ordinariamente con i contenuti del Credo. In essa ogni suo elemento riveste
una peculiare importanza e contribuisce in modo specifico all’edificazione
spirituale del popolo di Dio. Non solo i testi, i riti e i simboli, ma anche i canti
e la musica, hanno un ruolo di prim’ordine nell’imprimere con efficacia,
potenza e dolcezza il pensiero di Cristo. Basti pensare all’uso degli inni
liturgici con i quali già all’epoca sub-apostolica e patristica si intendeva
allontanare i fedeli dall’eresia e confermarli nella professione della vera fede:
l’esclusione di testi inficiati di gnosticismo e il ricorso esclusivo al salterio
davidico ne fu esempio. La cura letteraria e la precisione dei termini
affermano quanta incidenza psicologica ed educativa fosse attribuita al canto
liturgico fin dai primi secoli: veramente qui si coglie più che mai il rapporto
tra lex credendi e lex orandi. Ecco perché la qualità del canto e della musica
sacra non può essere facilmente sottovalutata e trascurata.
«La musica sacra come parte integrante della liturgia solenne, ne partecipa
il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione ed edificazione dei
fedeli» (Pio X, Inter pastoralis, n.1).
6
La musica che oggi si esegue nelle chiese è veramente conforme a questo
principio? Esprime la gloria di Dio, oppure, si dice, per Dio tutto va bene, egli
è indifferente alla qualità della nostra musica? Questo buonismo nei confronti
di Dio è tollerabile? Tutto deve riferirsi a noi? Non è questo una forma di
antropocentrismo? Che significato ebbero allora opere d’arte, nei recessi
nascosti delle cattedrali gotiche, sottratte allo sguardo umano e fatte
unicamente come atto di culto a Dio? Che ne è di una vita contemplativa tutta
dedita a Dio e relegata dagli uomini? Se per Dio tutto va bene purché funzioni
per noi, cessa ogni attenzione a Lui e tutto si concentra su di noi. La vita
spirituale perde ogni valore e ogni atto intimo ed interiore tra l’anima e Dio
diventa insignificante.
Al contempo ci domandiamo: la musica eseguita nelle nostre chiese eleva lo
spirito alle cose soprannaturali, introduce nei misteri, nobilita il pensiero,
purifica le facoltà interiori, oppure si accontenta di piacere ai gusti
momentanei e di offrire un intrattenimento effimero, di cantare i nostri
sentimenti, le nostre angosce e di chiuderci nel cerchio della piccola cronaca
quotidiana?
In questo orizzonte, fondamentalmente antropocentrico, si delinea la vasta
crisi attuale della musica sacra. È importante valutare il problema ed
individuare delle soluzioni, ma prima è indispensabile mettere in luce alcune
questioni di principio, senza le quali ogni scelta pratica sarebbe precaria.
1. Non è infrequente l’affermazione: “La musica diventa sacra per il testo
sacro che riveste”. Qui per testo si intende un brano letterario tolto dalla
Sacra Scrittura o dalla liturgia o da altra fonte sacra. È questa una errata
concezione, che compromette fin dalle radici la natura, la potenzialità propria
e la dignità della musica stessa. Essa sarebbe neutra, ma diverrebbe sacra non
appena rivestisse un testo sacro. In altri termini, la musica da se stessa
7
sarebbe incapace di esprimere e creare il “sacro”, ma lo dovrebbe ricevere
dall’esterno, mutuandolo appunto dal testo sacro. In realtà la musica è
autonoma, ha capacità proprie, interne, iscritte geneticamente nel
proprio essere, che, composte in un certo modo, generano,
descrivono e potenziano l’esperienza del sacro. Le strutture
costitutive della musica – melodia, ritmo e armonia – impiegate da uomini
veramente spirituali, sono da se stesse in grado di creare un fraseggio
musicale che esprima il sacro in un ventaglio immenso di composizioni
mirabili, che la storia ci offre e che sommi geni hanno creato. L’autonomia
della musica dal testo è facilmente dimostrabile, sia dal fatto che molta
musica sacra è tale senza un testo, sia da testi sacri musicati in modo non
conforme al loro carattere sacro. Si pensi a certi testi uniti a musiche
inadeguate e mancanti. Ed è appunto l’autonomia tra musica e testo che
consente di affermare: il testo è eccellente, ma la musica è scadente e
viceversa.
2. Il testo sacro, inteso però nel suo senso più largo di adesione intellettuale
ed esistenziale ad una fede, è tuttavia importante, anzi indispensabile, per
dare il contenuto e definire i connotati propri di un certo tipo di sacro. Infatti
il sacro, che la musica è chiamata ad esprimere, è attinto dalla diversa
tipologia propria dell’esperienza religiosa che vi sta dietro. La visione religiosa
dell’islam non è quella dell’induismo o del buddismo, quella protestante non è
quella della fede cattolica, ecc. La musica sacra quindi esprimerà
fisionomie di sacro diverse a seconda del dogma della fede a cui si
aderisce. Il concetto di un dio padrone e giustiziere è diverso da quello di
Dio Padre e amore; quello di un dio lontano e insensibile diverso dal Dio
vicino e incarnato, ecc. La musica avrà accenti e movenze diverse a secondo
della teologia accolta dal compositore. In tal senso il testo in questa sua
accezione più larga è fondamentale per permettere alla musica di creare
8
quella specifica fisionomia del sacro alla quale si aderisce.
3. Si tratta ora di valutare le qualità che la musica deve possedere per essere
sacra. San Pio X afferma: «La musica sacra deve possedere nel grado migliore
le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità, la bontà
delle forme e l’universalità». (Inter pastoralis, n.2). Ma come è possibile
stabilire la presenza di queste qualità nella musica sacra, dal momento che
viviamo in una cultura relativistica nella quale imperversa il soggettivismo,
che nega ogni criterio oggettivo di giudizio? Se per me questo è bello per te è
brutto, se per me questo è bene per te è male, ecc. Indubbiamente la vera
musica sacra inizialmente potrà apparire tale solo soggettivamente per una
determinata cultura, popolo o epoca, ma nel suo sviluppo di maturazione
tende ad essere ritenuta sacra universalmente, toccando fibre così profonde
dell’essere umano e della sua esperienza religiosa da diventare espressione
della religiosità universale. È questo l’esempio del canto gregoriano, che
rappresenta un frutto ancora insuperato di musica sacra permeata dal mistero
di Cristo al servizio della liturgia della Chiesa. Le tre ancelle verità,
bellezza e bontà non sono larve evanescenti, prive di radici ed
esposte al mutevole
giudizio
soggettivo delle
opinioni del
momento, ma hanno una profonda base oggettiva, non sempre e
subito individuata, che le rende eterne e sulla quale possono ritrovarsi gli
uomini di tutti i tempi e di tutti luoghi. Esse sono poi indissolubili: l’una non
può sussistere senza le altre. Così è della musica sacra come un aspetto della
bellezza e insieme della verità e della bontà proprie del sacro più autentico.
4. Per non giacere nella nebbia del soggettivismo e continuare a litigare in
una babele musicale senza principi, senza regole e senza mete è necessario
avere una guida, ascoltare i grandi interpreti e rifarsi umilmente ai
9
modelli, che ci hanno preceduto. Non voler aver “padri” – tipico
atteggiamento del relativismo contemporaneo – è letale per la musica e per
ogni altro settore della cultura. Ecco allora la necessità di ascoltare e di
seguire il Magistero della Chiesa, che attingendo alla testimonianza dei santi,
al genio dei suoi compositori, all’esperienza cultuale secolare dell’intero
popolo di Dio e soprattutto sotto la continua guida dello Spirito Santo, indica
a noi oggi i sicuri riferimenti in ordine ad una musica sacra perenne, sempre
fresca e sempre aperta a nuove creazioni, degne della verità e della bellezza
della nostra fede. Ciò però si verificherà solo nella misura che non verrà
abbandonato mai il solco della Tradizione vivente della Chiesa.
5. La musica sacra diventa specificatamente liturgica quando, senza mai
deporre il suo carattere sacro, si pone al servizio dei testi e dei riti
previsti dalla liturgia (vedi la costituzione Sacrosanctum Concilium sulla
sacra liturgia al n.112). Questo servizio tuttavia non si risolve semplicemente
nel rivestirli di musica, ma nell’interpretarli mediante il genio musicale in
modo da elevarli potentemente nella loro identità sacra e in tal modo dar
gloria a Dio e santificare ed edificare i fedeli. Non si tratta solo di cantare dei
testi liturgici, ma di estrarre da loro tutta quella carica spirituale, che il
recitato da solo non esprime. In tal senso la musica al servizio della liturgia
non è una semplice veste esteriore, ma aggiunge un supplemento di contenuto
che la materialità dei testi e dei riti non potrebbe esplicare senza l’intervento
dell’arte musicale. In tal senso la musica liturgica non può essere
semplicemente decorativa, ma «è parte necessaria o integrante della liturgia
solenne» (Sacrosanctum Concilium, n.112). Questa dichiarazione deve
sollecitare – soprattutto in coloro che curano le traduzioni nelle lingue parlate
– uno stile ritmico, nobile e breve, così da poter effettivamente cantare quei
testi, che sono di loro natura melodici, come i prefazi, le orazioni, la salmodia,
gli inni, ecc.
10
6. In conclusione possiamo offrire alcune domande per verificare la
qualità sacra e liturgica dei canti correnti in uso nelle nostre
comunità:
- Elevano i fedeli alla percezione della presenza viva di Dio, inteso però
secondo i connotati propri del dogma della rivelazione cristiana?
- Comunicano quella santificazione delle anime che è conforme alla forma
oggettiva di santità che è stata stabilita dal Signore ed è sempre operante nella
Chiesa?
- Sono in continuità con almeno la sostanza della tradizione liturgica della
Chiesa e possono essere ritenuti un suo sviluppo organico e coerente?
- Interpretano con docilità le parole e i riti della liturgia, servendo e
potenziando la diversa loro natura e finalità, secondo la mente della Chiesa?
- Hanno ricevuto una esplicita approvazione dall’autorità della Chiesa quale
è richiesta perché un atto cultuale abbia carattere liturgico ed offra quella
specifica efficacia di grazia che è connessa alla liturgia in quanto tale?
Il processo di inculturazione, per raggiungere mete di qualità, deve porsi
questi interrogativi per non perdere ulteriore tempo in creazioni, anche
geniali, ma difformi dal carattere sacro e dall’ambito liturgico, che non può in
alcun modo venir meno nella musica e nei testi assunti dalla liturgia cattolica.
Nel lungo percorso di nuove creazioni questa analisi è bene venga applicata
da chiunque abbia responsabilità nella impostazione e nella celebrazione della
liturgia in modo da preparare con il discernimento necessario un futuro di
qualità artistica e di migliore efficacia pastorale.
11
SONO SOLO CANZONETTE. BREVE VIAGGIO TRA ABUSI E
KITSCH
Giannicola D’Amico
Madamina, il catalogo è questo… La famosa aria di Leporello, nel Don
Giovanni di Mozart, in cui si enumeravano le infinite conquiste amorose del
gentiluomo, sarebbe una semplice giaculatoria al confronto di un elenco
ragionato degli abusi musicali, consumatisi in ambito liturgico, negli ultimi
decenni. Non c’è spazio per una disamina dei casi ma qualche esempio qua e
là potrebbe giovare a comprendere lo status quaestionis, con la premessa che
quasi sempre gli scempi si sono compiuti all’ombra dell’onnipresente
pastorale, gradatamente più antropocentrica, che ha surrettiziamente
sostituito l’antica osservanza rubricistica cui, negli anni del post-Concilio, non
ha fatto luogo una più opportuna coscienza ontologica del culto, come invece
sarebbe stato auspicabile.
Una certa urgenza funzionalistica suggerì scelte via via più fuorvianti e
imprecise, senza tener presente che non si poteva abbandonare la musica
liturgica al puro arbitrio (o necessità) del momento, come in verità era
avvenuto altre volte durante la bimillenaria storia della Chiesa, con la
differenza fondamentale che, se nel passato le “necessità” venivano da una
società sostanzialmente cristiana, oggi le mode arrivano da un mondo
secolarizzato fin nel midollo. E con l’aggravante di una contingente situazione
connotata da “povertà di mezzi” culturali forniti ai candidati al sacerdozio fin
dagli anni Settanta la quale, nello specifico, ha accreditato l’idea che ad
esempio la Messa è cantata se c’è qualche cireneo (nobile o plebeo) a cantare e
non certo che essa è cantata quando ognuno canta ciò che gli spetta, ed in
primis il celebrante.
Da queste premesse, infatti, si è partiti solitamente dallo scardinare le norme
12
pur presenti ed in vigore, come l’Istruzione Musicam sacram del 1967, con
cui si specificavano le riforme del Concilio in materia di servizio musicale alla
liturgia, che manteneva immutata la tradizionale tripartizione fra Messa letta,
cantata e solenne. Caduta nella prassi questa antica distinzione (a causa di
una modifica, tanto lieve quanto rivoluzionaria, nella prima edizione del
Messale in italiano), che aveva permesso già da un secolo prima del Concilio
Vaticano II lo sviluppo di canti in lingua vernacola a servizio della liturgia
eucaristica, si è fatta di tutt’erba un fascio, arrivando ad esiti confusi, banali e
a volte veramente preoccupanti. Passiamo a fare qualche esempio.
Forse il problema dei problemi, come sopra accennato, è la generale
incapacità dei ministri di cantare le parti loro assegnate, se non a volte – e con
difficoltà – i nuovi toni dei Messali in italiano, alquanto patetici in verità,
poiché dotati di molto pathos moderno, contrariamente alla nitida povertà
sonora del gregoriano, tanto adatta a proclamare la Parola di Dio, come a
celebrarne i misteri.
Generalmente i sacerdoti non cantano, e famoso – quanto sintomatico – resta
l’episodio riportato dal Bollettino Ceciliano, il periodico dell’Associazione
italiana di Santa Cecilia, di alcuni anni fa, secondo cui un seminarista,
seguendo in tv una Messa del Giubileo nel 2000, arrivò a chiedere ai superiori
cosa cantasse il vecchio Giovanni Paolo II, perché ne era completamente
ignaro.
Un vezzo ormai antico è quello dei canti passepartout di ogni livello: dal
vintage come “Dov’è carità e amore”, al meno datato, quanto ancor più
stucchevole, “Eccomi”, financo all’indiscriminato uso che certi cori,
minimamente più evoluti, fanno dell’Ave verum di Mozart. Son canti buoni
per la Quaresima, la Pasqua, i funerali, le ordinazioni sacerdotali, la solennità
del Corpus Domini e le processioni penitenziali! Frutto di assoluta mancanza
di preparazione o catechesi, sul punto, come della inefficacia dei Repertori
13
musicali della CEI, che nel trentennio 1979-2009 hanno contribuito a molte
cose, ma non certo a fare ordine nell’anarchia che regna sovrana in materia.
Altro problema sono i canti dei Movimenti ecclesiali, che in realtà son cosa
buona, poiché spesso connotano l’identità di un gruppo, sottolineando il
carisma del sodalizio: diventano fuorvianti quando vengono imposti nelle
parrocchie ove, spesso, i gruppi sono ospitati. I semplici fedeli si trovano così
a contatto con prassi liturgiche e di canto che nulla hanno a che vedere con le
comunità parrocchiali, ma i parroci – nel tentativo comprensibile, ma a volte
maldestro, di salvare capra e cavoli – non fanno un buon servizio in tal senso.
E quando qualcuno si lamenta, suggerendo magari qualche canterello
gregoriano, si indignano dicendo che il gregoriano, poiché il latino non lo
capisce più nessuno (essi per primi….) “divide la Chiesa”….! Alla faccia della
Sacrosanctum Concilium, la Costituzione del Concilio Vaticano II dedicata
alla liturgia, la quale al n. 116 stabilisce che «la Chiesa riconosce il canto
gregoriano come canto proprio della liturgia romana»!
Veniamo dunque a qualche esempio circa le “Messe” in determinato stile,
come la Messa rock celebrata e cantata non molto tempo fa, epigona delle
Messe beat che, all’indomani del Concilio, garantirono la “volgarizzazione”
pratica di alcune teorie in voga durante quegli anni, cioè l’applicazione in
liturgia della cosiddetta teologia della secolarizzazione, sicché “dopo Cristo
ogni arte è fondamentalmente profana” e quindi “ogni musica integrata al
culto, per il fatto stesso che può esercitarvi una funzione rituale diviene
‘sacra’. Non vi sono più limiti, specificazioni, sacralizzazioni, se non quelli
richiesti dalla funzionalità di ogni arte nella liturgia”.
Paolo VI tentò di mettere in guardia circa queste cattive strade, ma ormai i
buoi erano fuggiti dalla stalla e, come in altri campi, restò tragicamente
inascoltato. Ne vennero fuori esperimenti d’ogni genere, perlopiù provenienti
da aree contigue alla Teologia della Liberazione: dalla Missa Luba alla Missa
14
Criolla e quella Campesina, fino alla più europea Missa flamenca, alla
nordamericanizzante Missa (in) jazz e alla Missa tango. Nel rincorrere
maldestramente l’urgenza pastorale si è arrivato al monstrum del canto in
lingua inglese: non importa più il testo o la sua comprensibilità (e dire che
solo questo era il motivo della lingua del popolo nella liturgia!), ma occorre
rincorrere le mode.
Un altro punto dolente, connesso con il precedente, è la baraonda di
strumenti ormai ammessi in chiesa. Le chitarre fanno ormai parte del
paesaggio, ma ciò che ultimamente sconvolge è l’uso disinvolto di certe
tastiere elettroniche di ultima generazione. Sia detto non per un pregiudizio
nei confronti di tali strumenti che, a volte possono supplire alla mancanza di
un organo vero e proprio (benché a volte si assiste alla compresenza
imbarazzante di un organo vero, ma muto, e di una tastierina pietosa che
invece effonde allegra zufolamenti degni di una fiera paesana), quanto nei
confronti del modo d’uso. Spesso, infatti, tali supporti dotati di un
grandissimo campionario di funzioni, vengono adoperati né più e né meno di
come viene fatto per occasioni che dire profane è un eufemismo: registri e
sound da piano-bar, ritmi da disco-music anni Ottanta, volume da rave party.
Il modello televisivo è imperante.
Basterebbe almeno mettere sulla dovuta strada gli operatori liturgici
(sintagma abominevole, ma ormai di uso comune) circa l’uso e la
moderazione da applicare nell’estro del momento. Sarebbe “segno”
consigliabile che, almeno in Quaresima e in Avvento, accanto al digiuno, ci sia
un po’ di astinenza dagli eccessi più evidenti, magari riservando al solo
organo l’accompagnamento dei canti, evitando tutto lo strumentario che
spesso ci sorbiamo. Un po’ di buon senso sarebbe sufficiente a rinsavire ed
almeno recuperare dei punti di riferimento normativo.
Qualcuno sostiene che la musica nella liturgia sia caduta d’un colpo, negli
15
anni del post-Concilio, per sopravvenuto difetto del “senso del sacro”, nel
popolo e nei pastori. Visti gli esiti cui siamo giunti, questo è vero solo in parte.
A molto clero, e di riflesso a tanta gente, purtroppo manca ormai il senso del
ridicolo.
CANTO GREGORIANO: PERCHÉ LA CHIESA DEVE RECUPERARE
IL SUO TESORO
Fulvio Rampi
Il titolo di questo contributo, se riferito alla comunità ecclesiale, è un
autentico paradosso: come può la Chiesa recuperare ciò che da sempre, per
sempre e per definizione gli appartiene? Visto però come sono andate le cose
dopo l’ultimo Concilio, il suddetto titolo sintetizza in effetti un clamoroso
abbaglio e una realtà sconfortante, per molti aspetti scandalosa. Parlare oggi
di canto gregoriano in ambito cattolico – e non solo in qualche corso per
specialisti – è affare sospetto; anche la semplice curiosità è spesso venata di
diffidenza e stracolma di preconcetti. In realtà, il recupero del canto
gregoriano è semplicemente il recupero dell’identità sonora della Chiesa;
un’identità sonora, tuttavia, non “musicale” in senso stretto, ma che ha a che
fare intimamente con l’interpretazione della Parola di Dio, dunque con ciò che
interpella in radice e da sempre la Chiesa stessa. Il canto gregoriano nasce
essenzialmente come “suono della Parola”: questa è portata, attraverso artifici
espressivi che attingono a piene mani all’arte retorica, ad una altissima
“temperatura” e la sua ordinata pronuncia diviene essa stessa misura del
ritmo (ordo motus, appunto), in ragione dell’operazione esegetica generata
16
dalla lectio divina condotta su di essa. La Parola, dunque, è presupposto e
fine: presupposto nel senso di
materialità testuale, fine nel senso di
contemplatio, che attraverso una ruminatio ed una oratio giunge finalmente
a spiegare e a comunicare quel testo secondo un significato che trascende la
pura materialità, trasfigurandola a vero e proprio evento liturgico realizzato in
forma sonora. Recuperare il gregoriano significa tornare a pensare come e con
la Chiesa, nel solco della sua Tradizione. Se l’ultimo Concilio ha ribadito a
chiare lettere che il canto gregoriano è il «canto proprio della liturgia
romana» (Sacrosanctum Concilium n.116), è perché esso ci insegna ciò che
vuole la Chiesa, ovvero cosa dire nella Liturgia e, soprattutto, come dirlo: è
risposta obbediente, intonata, elevata, meditata della Parola: l’esatto
contrario dell’improvvisazione. È auspicabile che il ritorno allo studio dei
documenti conciliari riesca a mutare una esiziale frenesia di modernità in una
rinnovata e da più parti invocata urgenza di radicalità. Al di là di ogni
preconcetto, il canto gregoriano potrà tornare ad essere espressione viva della
Chiesa solo quando, ad ogni livello, ci si accorgerà del silenzioso cammino
intrapreso proprio durante il “tempo della distruzione” postconciliare: un
cammino fatto di nuovi studi, in risposta (decisamente minoritaria) ad una
improrogabile esigenza di “rimotivazione” – e non di rimozione – auspicata
dagli stessi documenti conciliari.
Lo studio delle antiche scritture neumatiche ha via via svelato con sempre più
matura consapevolezza – nel quasi totale e infastidito disinteresse ecclesiale –
il senso di quei primi segni (neumi) tracciati da amanuensi preoccupati di
trasferire sulla pergamena non tanto un dato musicale, quanto piuttosto il
“modo sonoro” di proclamare quel preciso testo con quel preciso significato in
quel preciso contesto liturgico. Oggi, la motivazione della ritrovata centralità
del gregoriano nella liturgia sta proprio in questo spostamento di prospettiva,
esattamente nella sua mutata comprensione da fenomeno musicale a
fenomeno esegetico, e come tale segnatamente di natura ecclesiale. Il
17
progressivo cammino di ricomprensione del canto gregoriano ha finalmente
trovato il suo “senso”: ristabilire il rapporto intimo e vitale fra il testo ed il suo
significato comunicato in forma sonora. Ma non è forse questa la primaria
esigenza a cui deve rispondere il canto liturgico? Ebbene, nel canto gregoriano
si è prodigiosamente ritrovato proprio questo; e ritrovato, oltretutto, alla
massima potenza.
Non ci si è resi conto che proprio alla principale obiezione mossa al canto
gregoriano fino ad oggi – quella cioè di contraddire le istanze conciliari in
merito al ruolo dell’assemblea liturgica – esso ha paradossalmente fornito la
risposta più radicale e convincente sul piano ecclesiale. Nulla più del canto
gregoriano, infatti, promuove un’autentica participatio actuosa al culto
divino. Certo, una partecipazione non banalizzata e ridotta alla caricatura di
un attivismo liturgico, ma segno di un radicale “essere in sintonia”. Mi pare di
poter dire che, vista la sua storia, il canto gregoriano soffre ma non teme le
nostre inadeguatezze e attende con pazienza un gesto di amore dagli attuali
figli di una Chiesa che l’ha pensato da sempre come testimone ottimale della
sua fede.
18