“Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”
Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917
RIFLESSIONI SUL PENSIERO GRAMSCIANO IN OCCASIONE DEI
150 ANNI DELL’UNITA’ D’ITALIA
Prof. Luisa Mereu
Perché riflettere su Gramsci? Quale nesso lega il pensiero gramsciano ad una
riflessione sui 150 anni della nostra unità?
Queste domande potrebbero apparire superflue e prive di significato dato l’alto
profilo del personaggio in questione: ed invece la scarsa rilevanza che questo
pensatore continua ad avere all’interno dei nostri curricoli scolastici rende questi
interrogativi altamente interessanti soprattutto per noi che apparteniamo alla stessa
terra in cui questo intellettuale è nato e della quale non si è mai dimenticato.
BREVI NOTE BIOGRAFICHE
Gramsci nasce ad Ales nel 1891 in una famiglia molto umile; nel 1914 lo troviamo a
Torino dove si iscrive alla Facoltà di Lettere e dove si dedica da subito all’attività
politica. In questo periodo si avvicina ai problemi del proletariato torinese e crea i
“consigli di fabbrica”, organi di delegati degli operai organizzati secondo il modello
dei soviet, che secondo lui avrebbero dovuto costituire parte integrante del piano
produttivo condotto dalla fabbrica. Durante gli anni del famoso “biennio rosso”,
quando lo scontro tra proletari e capitalisti raggiunge il massimo della conflittualità,
Gramsci lamenta la cattiva gestione dell’occupazione delle fabbriche del Nord da
parte del Partito Socialista ritenendola poco incisiva e non sufficientemente
determinata , così nel 1921 fonda con Togliatti il Partito Comunista italiano.
Fu sicuramente una scelta sofferta e drammatica per la vita politica del paese, se si
pensa che appena un anno dopo si svolse la “Marcia su Roma”: diversi storici vedono
nella scissione voluta da Gramsci all’interno dell’area socialista una agevolazione per
l’avanzata del Fascismo in Italia.
Nel 1922 Gramsci si reca a Mosca, dove partecipa ai lavori dell’Internazionale: in
questa occasione incontra Lenin e rimane affascinato dalla personalità di questo
“capo” rivoluzionario.
Nelle elezioni del 1924, svoltesi secondo il sistema elettorale della Legge Acerbo,
viene eletto deputato e sempre in quell’anno fonda “l’Unità”, giornale che diventerà
organo ufficiale del partito comunista: in precedenza, sempre insieme a Togliatti,
aveva dato vita ad un altro giornale, l’Ordine Nuovo, nel quale aveva manifestato le
sue idee politiche molto avanzate, ispirate ad un deciso progressismo rivoluzionario.
Nel Novembre del 1926 viene arrestato e condannato dal Tribunale speciale a 24 anni
di carcere duro da scontarsi nel penitenziario di Turi: nel 1937, dopo dieci anni
durante i quali il suo fisico minato da tempo da una grave malattia che non gli
lasciava speranze di vita, ottiene una riduzione della pena, ma muore poco dopo aver
preso coscienza di essere di nuovo un uomo libero.
FUR EWIG
I Quaderni dal carcere, scritti tra il 1929 e il 1937, sono trentatré: si tratta di brevi
ma intense annotazioni che riguardano la politica, la filosofia, la letteratura, la storia.
Gramsci è sicuramente un politico, un rivoluzionario che ha fondato un partito ma è
anche, e soprattutto, un intellettuale e un intellettuale che deve esercitare la sua
mente, tenerla in vita in condizioni tragiche quali erano quelle in cui si trovava
all’interno del carcere di Turi. Eppure, nonostante queste condizioni, riesce a scrivere
trentatré quaderni di una profondità culturale e di una difficoltà interpretativa che
lasciano trapelare la genialità di quest’uomo. Si comprende il motivo per cui durante
il processo farsa fu pronunciata da un giudice del tribunale speciale la famosa frase
“Bisogna impedire a quel cervello di pensare…”.
Gli studiosi spesso si domandano che cosa avrebbe potuto scrivere Gramsci se fosse
stato, come Croce, un intellettuale libero: quali opere (e non frammenti) avrebbe
potuto elaborare.
Con le Lettere dal carcere Gramsci instaura una lunga corrispondenza con la
cognata Tatiana Schulz: in una lettera emerge come Gramsci fosse consapevole del
fatto che la sua condizione di detenuto potesse penalizzare definitivamente la sua
attività di intellettuale. Il 10 marzo 1927 scrive a Tatiana: “La mia vita trascorre
sempre ugualmente monotona, anche lo studiare è molto più difficile di quanto non
sembrerebbe. Ho ricevuto qualche libro e in verità leggo molto, più di un volume al
giorno oltre i giornali, ma non è a questo che mi riferisco, intendo altro: sono assillato
da questa idea. Che si dovrebbe fare qualcosa FUR EWIG, per l’eternità, fare
qualcosa in maniera tale che io sia ricordato, cioè che io venga ricordato per essermi
occupato di qualcosa di veramente valido che non si perda facilmente e che non sia
oggetto di semplice ricordo o di memoria”.
La grandezza intellettuale di Gramsci è racchiusa in queste parole: scrivere, pensare,
agire fur ewig. Questo spiega la varietà dei suoi interessi e le molteplici e complesse
interpretazioni che vanno dal marxismo al pensiero crociano, dal materialismo storico
alla Rivoluzione contro il capitale, dall’analisi di avvenimenti storici come il
Risorgimento all’esaltazione della Rivoluzione d’Ottobre e della figura di Lenin.
GRAMSCI, LENIN E LO STORICISMO CROCIANO
Partendo da un’analisi del pensiero politico di Gramsci, risulta evidente quanto la
Rivoluzione d’Ottobre e la figura di Lenin siano per lui momenti di estremo valore.
In particolare Gramsci vede in Lenin la classica figura del rivoluzionario che con la
sua volontà di agire riesce a superare le condizioni storiche sfavorevoli che avrebbero
impedito lo svolgimento di una rivoluzione di stampo marxista.
Ma l’ammirazione per Lenin non sminuisce il rispetto che Gramsci nutre per Croce,
da lui descritto come il vero filosofo che considera la filosofia “un qualcosa che oltre
che interpretare il mondo riesce anche a modificarlo” e che ritiene che la storia sia
frutto di libertà. Dello storicismo crociano Gramsci condivide la tendenza a non
qualificare gli avvenimenti storici come dipendenti meccanicamente l’uno dall’altro
secondo lo schema chiuso hegeliano di tesi antitesi e sintesi, che comporta quasi una
conoscenza aprioristica di ciò che “deve essere” nell’ambito del processo storico.
La storia, per Croce come per Gramsci, è libertà: una libertà che l’uomo può
esercitare all’interno di quella realtà che per Gramsci coincide con la Filosofia della
prassi.
Che cosa è la filosofia della prassi? Dove opera l’individuo? Secondo il pensatore di
Ales, l’individuo si misura con esseri umani, con fatti economici, con fatti sociali
reali il cui insieme diventa oggetto di studio della filosofia della prassi. Ma l’aspetto
nuovo e singolare del pensiero gramsciano - che si pone a metà strada tra il
materialismo storico di Marx e lo storicismo crociano - risiede nel fatto che gli
accadimenti economico-sociali non possono impedire all’uomo di agire liberamente.
In base al suo pensiero la realtà economica e sociale in cui l’uomo è inserito (quella
che Marx definisce la struttura della società) non può bloccare l’agire del singolo o
addirittura condizionarne la scelta: proprio rifacendosi alla Rivoluzione d’ottobre e al
ruolo di Lenin, Gramsci valuta molto positivamente il fatto che Lenin non abbia
“aspettato” che le condizioni storico-sociali in Russia arrivassero ad una maturazione
che sola avrebbe consentito un esito positivo ad una rivoluzione di tipo marxista.
La Russia del 1917 era la Russia degli zar, ancora legata ad una economia agricola
molto arretrata e priva di quella dinamicità sociale necessaria, secondo Marx, per
costituire il motore di una vera lotta di classe. In effetti Marx non ha mai pensato alla
Russia come paese in cui poter realizzare il suo ideale politico: mancava tutto in
Russia, dal proletariato con forte coscienza di classe ad una industria pienamente
sviluppata. Lenin ha fatto, nonostante tutto, una rivoluzione in Russia perché ha
agito, ha imposto il suo desiderio di libertà sulle tecniche storicistiche di un
marxismo forse troppo deterministico. Ed è proprio questa visione della storia come
libera azione del singolo, come espressione della volontà rivoluzionaria che,
paradossalmente, crea un sottile legame attraverso Gramsci tra Croce e Lenin: il
succedersi dei fatti storici slegato dal necessarismo hegeliano in Croce, marxista in
Lenin.
GRAMSCI, IL RISORGIMENTO E LA FIGURA DELL’INTELLETTUALE
ORGANICO
Uno tra i più conosciuti dei Quaderni dal carcere è quello relativo al Risorgimento,
periodo storico al quale l’Autore dedica particolare attenzione
ritenendolo
determinante per lo sviluppo storico-sociale attuatosi in seguito nel nostro paese.
Anche in questo contesto il riferimento a Croce è inevitabile: è indubbio che il
Risorgimento abbia visto l’affermazione della classe borghese e liberale che, forse,
poteva agire in maniera più proficua ma alla quale va in ogni caso riconosciuto il
merito di aver portato l’Italia all’unità.
E’ noto che Croce giustifica in parte le manchevolezze della classe dirigente liberale,
quando afferma che il processo unitario e post-unitario condotto da questa ha trovato
nel Fascismo una sorta di interruzione che ha impedito l’attuazione di tutte le
iniziative ipotizzate.
Nell’analizzare il periodo risorgimentale, Gramsci pone l’accento sulla funzione
svolta dagli intellettuali nella “ vita organica del Paese”, funzione che risulta poco
incisiva sia nel periodo post-risorgimentale che nel periodo in cui scrive i Quaderni.
Forse è in relazione a questa funzione che si nota maggiormente un certo distacco dal
pensiero crociano: cosa intende infatti Gramsci per intellettuale organico? Per
intellettuale organico egli intende colui che si fa interprete delle esigenze delle masse
popolari, portandone avanti le istanze, costruendo un programma politico-sociale
compatibile con le necessità rappresentate da queste ultime. Quello che secondo
Gramsci è venuto a mancare nel periodo risorgimentale è stata proprio questa figura,
e quello che Gramsci rimprovera a Croce è di essere un grande intellettuale europeo
ma non organico.
Gramsci non ama dare giudizi storici sul Risorgimento, né in negativo né in positivo:
ritiene di essere di fronte ad un preciso e delicato momento storico che va studiato nei
suoi aspetti peculiari senza contaminazioni di carattere prettamente ideologico. Non
dimentichiamoci che la filosofia di Gramsci è filosofia della prassi, fatta di
concretezza e non di facili illusioni.
Cosa allora “concretamente” è venuto a mancare nel Risorgimento? Il rapporto
intellettuale-masse: si è verificato uno scollamento tra chi ha diretto il moto
risorgimentale, cioè la borghesia liberale, e le masse popolari che hanno
volontariamente preso parte all’attuazione dello stesso (Impresa dei Mille). Gramsci
si chiede, nelle sue riflessioni, chi si sia fatto interprete della volontà rivoluzionaria di
queste masse e chi avrebbe dovuto svolgere questo ruolo. La risposta che egli da a
questo interrogativo è semplice: nessuno e, soprattutto, è venuto a mancare l’apporto
che avrebbero dovuto fornire i democratici.
E’ inevitabile quando si parla di Risorgimento e di partito democratico citare
Mazzini, la cui figura certo non coincide con quelle dell’intellettuale organico:
Mazzini è un pensatore, un ideologo impregnato da una forte carica religiosa,
totalmente avulso dalle dinamiche economico-sociali in cui si dibattevano le masse
popolari, di cui volutamente voleva ignorare l’esistenza sostenendo che i problemi
inerenti alle classi sarebbero risultati elementi di divisione in un processo che mirava
all’unità del paese.
Non potevano certo svolgere il ruolo di intellettuali organici i moderati che, al
contrario, difendevano gli interessi di una ristretta élite; ma la mancanza di una guida
politica “organica” ha permesso ai moderati di utilizzare strumentalmente i
democratici nel processo unitario dal momento che questi hanno lasciato le richieste
delle masse in una situazione che Gramsci definisce, con linguaggio baconiano, in
termini di “schematismo latente”.
GRAMSCI: CLASSE DOMINANTE E CLASSE DIRIGENTE, L’EGEMONIA, IL
PARTITO COME MODERNO PRINCIPE
La conseguenza immediata della mancanza di intellettuali organici nel processo
risorgimentale, ha comportato la nascita di una classe dominante che non è mai
riuscita a diventare classe dirigente.
Che differenza individua Gramsci tra classe dominante e classe dirigente?
Una classe viene definita dominante quando detiene tanto il potere economico quanto
quello politico ma, per diventare classe dirigente, deve necessariamente comprendere
e farsi interprete delle esigenze economico-sociali di quelle classi che intende
rappresentare.
La classe dirigente è quella che penetra nella società, per trasmettere conoscenze e
valori adeguati. Se una classe rimane dominante e non pensa anche a diventare
dirigente, rimane sempre in atto una frattura insanabile tra potere e società, frattura
che rende questo potere estremamente instabile.
Gramsci è sicuramente un rivoluzionario convinto, ma crede in una rivoluzione in cui
chi si pone alla guida della stessa abbia innanzitutto la convinzione di esercitare una
“Egemonia” che altro non è se non la capacità di trasmettere idee, valori, conoscenze
che rispondano a quanto la società chiede. L’egemonia intellettuale è prioritaria
all’interno di un processo rivoluzionario rispetto a qualunque altra forma di
cambiamento, anche a quella economica (è evidente che in questo caso il rapporto
struttura/sovrastruttura venga interpretato diversamente rispetto alla concezione
marxista).
Gramsci comprende la difficoltà di quanto egli stesso afferma: comprendere ed
educare le masse non è impresa facile, ecco perché vuole affidare questo compito al
Partito che metaforicamente definisce come il “Moderno Principe”.
Il Partito deve entrare nella società, deve controllare che gli ideali rivoluzionari
vengano appresi: Gramsci sente la necessità di un imminente cambiamento e questo
necessita la costruzione di una rete capillare formata dai funzionari di partito che
abbiano la capacità di comprendere e contemporaneamente dirigere le masse. Questo
concetto di partito espresso da Gramsci è stato oggetto di studi e dibattiti tra storici,
filosofi e politologi: in molti vedono nel partito gramsciano una limitazione a quello
stesso concetto di libertà da lui tanto amato. Dario Antiseri definisce Gramsci “un
utopista e come tutti gli utopisti è a rischio di totalitarismo”: c’è indubbiamente
qualcosa di vero in questa affermazione, ma non bisogna dimenticare in quale
contesto storico Gramsci enuncia la sua teoria.
GRAMSCI E IL GIACOBINISMO
Ritornando all’analisi del Quaderno di Gramsci sul Risorgimento, che rimane il
nucleo principale di questa relazione, l’Autore afferma che nel Risorgimento è venuta
meno quella che lui chiama “fase giacobina”, cioè la forte volontà rivoluzionaria la
cui mancanza ha reso il nostro processo di unificazione un processo per certi aspetti
“bloccato”.
Cosa intende Gramsci per “giacobinismo”? Egli fa riferimento a quel momento della
Rivoluzione francese che vede emergere la figura di Robespierre il quale, al di là
delle severe critiche di cui giustamente è stato oggetto, ha per Gramsci messo in atto
una qualcosa di unico, cioè l’unificazione tra mondo cittadino e mondo contadino.
Il giacobinismo era un movimento espressione della volontà politica del popolo
parigino le cui aspirazioni rivoluzionarie non coincidevano minimamente con quelle
espresse dal mondo contadino, tradizionalmente conservatore e tradizionalista.
Eppure Robespierre, attuando la riforma agraria e concedendo la terra ai contadini,
riuscì a mettere in contatto due realtà totalmente differenti tra loro come la città e la
campagna.
Perché un qualcosa di simile non si è verificata durante la nostra Unità? Perché la
classe borghese post-quarantottesca, divenuta quasi ovunque classe dominante,
temeva di perdere il controllo politico-economico della società nel momento in cui
avesse manifestato una apertura verso le richieste delle masse contadine. I moderati
del Nord-Italia non potevano permettersi di venire meno a quanto richiesto dai
latifondisti del Sud: inoltre la Francia e la Gran Bretagna non avrebbero dato il loro
appoggio militare ed economico se il Risorgimento si fosse presentato come
“giacobino”.
Ma la mancata “sensibilità” dei moderati nei confronti delle masse popolari (non
dimentichiamo che fino al 1900 l’Italia continua ad essere un paese fortemente
agricolo) e l’assuefazione politica dei democratici nei confronti della classe
dominante hanno fatto sì che il nostro Risorgimento sia risultato una “rivoluzione
mancata e passiva”.
CONCLUSIONE
Questa rapida sintesi del pensiero gramsciano - del quale sono stati analizzati pochi,
anche se molto significativi aspetti, sufficienti per riuscire a comprendere i punti
focali intorno ai quali si sviluppa il Quaderno sul Risorgimento - ha trovato nella
lettura di una lettera scritta nel1917 denominata “Odio gli indifferenti” la sua naturale
conclusione che, contemporaneamente, ha rappresentato anche l’inizio, per gli alunni,
di un approfondimento dello studio del pensiero di un uomo eccezionale che, come è
stato sottolineato all’inizio di questo percorso, proprio nella sua terra continua a non
essere studiato e considerato nel suo immenso valore.