Verso una nuova antropologia di Sinistra.
Libera dalla zavorra religiosa
Come neutralizzare i nefasti effetti provocati sul presente dai compromessi del Pci con la
Dc. La riscoperta di Gramsci e una critica al quasi eretico pensatore sardo
Giampiero Minasi
domenica 9 giugno 2013 16:51
«Amalgama non
riuscito», «fusione a
freddo» suonano
sempre più spesso
come sentenze
definitive per un
Partito democratico
lacerato tra la sua
componente
socialista, ex
diessina, e quella
cattolica popolare, ex
democristiana di
sinistra.
Difficile non concordare, anche solo pensando a quali pesanti condizionamenti, in materia di diritti civili e di
tematiche eticamente sensibili, le varie Binetti e Bindi, e i vari Fioroni abbiano sottoposto il partito,
rendendolo irresoluto a tutto.
Ipotizzando che si arrivi a una scissione e il Pd possa arrivare a riconoscersi nella grande famiglia del
socialismo europeo, c'è comunque da chiedersi se per ciò stesso cesserebbero le ipoteche cattoliche. Non si
tratta tanto delle private professioni di fede, che pure a lungo andare mostrano la corda, come attestano le
recenti ambiguità pro-life di un Ignazio Marino, finora noto come campione dei diritti civili. Quanto piuttosto di
ripetuti riferimenti al pensiero cattolico e alle posizioni delle gerarchie ecclesiastiche: l'interesse più volte
manifestato dal sottosegretario Fassina per il personalismo cattolico; il clamoroso appoggio di illustri maitrea-penser della sinistra, quali Tronti, Vacca, Barcellona, al dimissionario Ratzinger nella sua crociata contro il
relativismo etico; le cautele con cui l'Unità ha sempre seguito la vicenda dei preti pedofili.
Ammettiamo per un momento che il Pd risolva al suo interno la "questione cattolica"; avremmo un partito
sicuramente più coeso, ma emergerebbe anche con maggiore nettezza, non più coperta dalla prima,
un'ulteriore linea di frattura altrettanto pericolosa, questa volta fra due diverse impostazioni del fare politica
che, con qualche semplificazione, potremmo definire consociativista e movimentista.
I consociativisti guardano alla politica con gli occhi del realismo attento ai rapporti di forza, alle dinamiche
istituzionali, alle alchimie del palazzo, al gioco delle alleanze, all'acquisizione di centri di potere, alle tattiche
parlamentari. Se si vede delinearsi la figura di Massimo D'Alema, non è neppure arduo vedere stagliarsi in
controluce, dietro di lui, la ben più ingombrante figura di Palmiro Togliatti che, non a caso, recenti
dichiarazioni sono tornate a magnificare, rimpiangendone le doti di leader capace di imporre i più ardui
compromessi in nome del superiore bene della nazione.
Ed è certo che l'attuale embrassons-nous con Berlusconi quasi impallidisce di fronte alle svolte epocali che
"il Migliore" impresse all'allora partito comunista: dalla svolta di Salerno del '44, all'inserimento del
Concordato in Costituzione, all'amnistia per i fascisti.
Senza riaprire la diatriba storica sull'opportunità di quelle scelte e senza appellarsi a una purezza che
escluderebbe dal proprio orizzonte i compromessi che, invece, nell'agire politico ci stanno eccome, si tratta
però di considerare quanto abbia condizionato la storia italiana di allora, con nefasti effetti anche nel
presente, il modo in cui quei compromessi furono attuati. Con la rinuncia a quell'intransigenza ideale e
culturale che, invece, avrebbe dovuto accompagnarli per renderne inequivocabile il carattere transitorio, non
liquidatorio delle speranze di futuri favorevoli sviluppi. E così abbiamo avuto un'amnistia ai fascisti che,
accompagnandosi a una lettura parziale del fascismo come movimento di pochi facinorosi finanziati dagli
agrari, si è tradotta in una generale assoluzione (molto vicina al perdono cattolico) per la gran parte della
classe dirigente e per la stragrande maggioranza del popolo italiano, impedendone quella profonda
rigenerazione morale che avrebbe per esempio impedito, allora, la sostanziale continuità dell'apparato
statale, e oggi che i Berlusconi e le Lombardi di turno possano esternare in favore del ventennio senza
pagare dazio. Per non parlare poi del voto favorevole al Concordato, che ha fatto tutt'uno non solo con la
rinuncia a quell'ateismo fonte originaria del marxismo, ma anche a quel rigoroso principio di laicità dello
Stato di cui così tanto si sente la mancanza.
Ma torniamo a quella seconda componente democrat,
che abbiamo definito movimentista. Se è difficile
individuarne un leader, percorsa com'è da personalismi
e da posizioni generose ma a volte confuse, se ne
possono in generale evidenziare alcuni tratti
nell'attenzione prevalente alla società, nella simpatia
per le forme organizzative dal basso e per la
democrazia partecipativa, nell'alternativa antropologica
al berlusconismo, nella rivendicazione della moralità in
politica, nell'approccio laico ai diritti civili.
Se i fautori della real-politik possono guardare a
Togliatti come a un loro padre nobile, può viceversa questa seconda componente trovare un riferimento
essenziale in colui che del leader comunista fu avversario, umanamente prima ancora che politicamente,
cioè Antonio Gramsci?
Molti sono gli insegnamenti ancora attuali che il grande eretico del comunismo italiano continua a impartirci
dalle pagine dei Quaderni dal carcere e dalle Lettere. La fusione tra affetti e politica. L'intransigenza morale,
capace di opporsi anche allo stalinismo. La ricerca incessante di una valida teoria rivoluzionaria.
L'individuazione del terreno delle idee e della cultura come quello fondamentale per costruire un'egemonia
capace di soppiantare quella delle classi dirigenti.
Altri spunti validi possiamo invece ricavarli da una dialettica col pensatore sardo. In proposito, scrivevamo in
altra occasione che per liberare il pensiero di Gramsci dai lacci leninisti in cui per alcuni aspetti è impigliato,
occorrerebbe un'altra antropologia che, diversamente da quella marxista imperniata sul proletariato,
individuasse il soggetto del processo di cambiamento radicale della società nell'essere umano tale per avere
una realtà psichica originata dalla concreta fisiologia della sua nascita (senza l'intervento dall'alto di alcun
Dio o Spirito), che lo fa uguale a tutti gli altri esseri umani nella soddisfazione dei bisogni, diverso dagli altri
per la propria fantasia, le proprie immagini e le proprie esigenze.
Il tema di una nuova antropologia ritorna ora, pur con angolazioni diverse, alla luce di uno dei tanti tasselli
che, in quest'ultimo periodo di fortunata renaissance gramsciana, si aggiungono a ricostruire un'immagine
completa del detenuto di Turi.
Intendiamo alludere alla recente "scoperta" di un lettore attento come Ernesto Longobardi, ordinario di
Economia all'Università di Bari, che fra le note a corredo dei Quaderni ce n'è una che attesta come Gramsci
conoscesse la Lettera che il giovane Marx scrisse al padre nel 1837. La utilizzò parzialmente, insieme ad
altri testi marxiani, per quegli esercizi di traduzione dal tedesco premessi al VII Quaderno. Non siamo a
conoscenza di ulteriori riferimenti di Gramsci a quella Lettera, né sappiamo se e quanto essa possa aver
influito sul suo pensiero, ma la circostanza merita un approfondimento se si considera viceversa il grande
rilievo che alla Lettera, poco conosciuta ai più, attribuisce un altro grande eretico della sinistra e della
cultura, lo psichiatra Massimo Fagioli, che ne tratta nel suo Bambino donna e trasformazione dell'uomo
(L'Asino d'oro editore).
Nella Lettera, il diciannovenne Marx comunica al padre «il
proposito ben fermo di trovare la natura spirituale altrettanto
necessaria, concreta e dai contorni altrettanto sicuri quanto
la natura fisica..la perla delle perle». Il proposito di trovare la
realtà psichica degli uomini ("la natura spirituale") fu, però,
secondo Fagioli, ben presto abbandonato e contraddetto.
Emerge da due frasi successive: «Per la Germania la critica
della religione è, in complesso, terminata» (Per la critica
della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione - 1843); e «i
filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi
modi; ora si tratta di trasformarlo» (XI Tesi su Feuerbach -
1845). Affermazioni che esprimono in sintesi la rivendicazione da parte di Marx che quello che conta non è
la sola teoria, quanto l'azione rivoluzionaria, la praxis, da condursi sul terreno dell'economia politica.
Dando per compiuta la critica della religione ("presupposto di ogni critica"), implicitamente dava per buona,
almeno in parte, l'interpretazione di Hegel e affidava alla sola lotta per modificare i rapporti di produzione e
per il soddisfacimento delle condizioni materiali di esistenza il compito magico di garantire la piena
realizzazione umana, senza indagare le dinamiche psichiche e l'alienazione religiosa che, invece,
tenacemente vi si oppongono e la impediscono. Lo Spirito hegeliano avrebbe continuato ad esercitare il
dominio sulla mente degli uomini e in ciò sarebbe iscritto il tragico successivo fallimento delle proposizioni
trasformative del marxismo.
Anche Gramsci ebbe il suo Hegel..si chiamava Benedetto Croce. Con lui, Gramsci intrattenne una serrata
dialettica, cominciata sulle pagine dell'Ordine nuovo e proseguita in carcere nelle Lettere e nelle riflessioni
dei Quaderni, soprattutto del X dedicato espressamente alla filosofia di Croce.
Era il Croce antimetafisico della Teoria e storia della storiografia quello che aveva colpito Gramsci,
determinandone la dichiarata giovanile adesione. In quell'opera, il filosofo aveva esposto il suo storicismo
affermando che tutto è storia, che tutta la realtà è Spirito e che questo si dispiega nella sua interezza
all'interno della storia, nel suo tendere alla libertà.
Era una storia etico-politica che, agli occhi di Gramsci ebbe sempre (anche nel periodo di più aspra
contrapposizione) alcuni meriti. Era un pensiero filosofico non metafisico e non sistematico, per il fatto di
discendere non da altro pensiero, ma di essere pensiero della realtà storica. Evidenziava l'importanza della
cultura e degli intellettuali nella costruzione dell'egemonia e del consenso. Soprattutto, contemplava al suo
interno quali fattori positivi l'utile, l'economico, la forza, le passioni.
Fattori che Croce aveva mutuato dal suo iniziale entusiasmo per il marxismo e il socialismo negli anni fra il
1895 e il 1900, poi superato e contraddetto da un'avversione dichiarata. Gramsci non mancò di registrare e
denunciare l'involuzione di Croce e il costituirsi del suo pensiero a ideologia della classe dominante, ma non
per questo smise di guardare a lui come ad un interlocutore, anzi. Riteneva il pensiero crociano un valido
antidoto al meccanicismo materialista e rimase sempre fondamentalmente convinto che esso avesse
sempre ruotato, seppure in forma oppositiva, intorno al materialismo storico.
È come se Gramsci volesse in qualche modo salvare Croce dalle sue derive, espungendo dal suo pensiero
ogni residuo metafisico e spingendolo sul terreno della concreta realizzazione storica. Infatti, assegnava a se
stesso e alla sinistra italiana il compito di farsi eredi ed inveratori della filosofia crociana, analogamente a
quanto Marx e i primi teorici della filosofia della prassi avevano fatto per la concezione hegeliana. La famosa
frase marxiana già citata («I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di
trasformarlo») ritornava nelle sue riflessioni completandosi con quella altrettanto famosa di Engels: «Il
movimento operaio tedesco è l'erede della filosofia classica tedesca» (Ludovico Feuerbach e il punto di
approdo della filosofia classica tedesca - 1886).
Per capire meglio quanto il pensatore sardo fosse vicino a quello napoletano, e quanto, al tempo stesso, se
ne allontanasse, può servire richiamare due simili e diverse coppie identitarie: quella crociana di storia e
filosofia, quella gramsciana di storia e politica. Fra le due intercorre tutto ciò che l'uno aborriva e che l'altro
riteneva invece essenziale: la trasformazione della filosofia in ideologia politica capace di smuovere le grandi
masse e farne protagoniste attive e consapevoli di un processo storico di liberazione, rendendolo reale e
non metafisico.
Trasformazione impossibile per Croce che, agli occhi di Gramsci, rimaneva un erudito terrorizzato dall'ipotesi
che le grandi masse popolari potessero essere altro se non massa di manovra di "rivoluzioni passive", come
era avvenuto in funzione antigiacobina nella Rivoluzione Partenopea del 1799.
Quanto poco il filosofo amasse il conflitto era più che evidente a Gramsci che, al riguardo, gli muoveva due
circostanziate accuse. La prima, aver annacquato la filosofia di Hegel; laddove il tedesco, con la sua
dialettica degli opposti, aveva postulato che dallo scontro tra l'antitesi (la rottura rivoluzionaria) e la tesi
(l'ordine costituito) potesse derivare una sintesi del tutto nuova e non prevedibile, l'italiano, con la sua
dialettica dei distinti, aveva derubricato l'antitesi a semplice momento innovativo funzionale ad una sintesi di
cui fosse già previsto (da chi, se non dai filosofi?) quanto di passato vi sarebbe stato conservato. La
seconda, aver scritto una Storia d'Europa e una Storia d'Italia che, cominciando l'una dopo il 1815, l'altra
dopo il 1870, significativamente omettevano i momenti della forza e della lotta rappresentati, rispettivamente,
dalla Rivoluzione francese e dal periodo napoleonico, e dal Risorgimento.
In tal modo, Croce si palesava per quello che aveva sempre negato di essere: l'ideologo della classe
dominante, preposto alla difesa della sua egemonia culturale e dei suoi interessi.
Sono, come si vede, critiche radicali che vanno ad aggiungersi alle altre di cui parlavamo in precedenza, ma,
come già notato da diversi autori (Galasso e Agazzi, fra gli altri), Gramsci non giunge mai ad una
demolizione teorica del crocianesimo. Resta in lui qualcosa di non risolto che, a nostro parere, può essere
colto in quella sintesi critica definitiva dell'idealismo esposta al paragrafo17 dell'XI Quaderno: «Non si può
parlare di Spirito quando la società è raggruppata, senza necessariamente concludere che si tratti di spirito
di corpo, ma se ne potrà parlare quando sarà avvenuta l'unificazione..questo processo di unificazione storica
avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che
sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete..C'è
quindi una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta
per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano "Spirito" non è un punto di
partenza ma d'arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente
universale, e non già un presupposto unitario».
Qui si vede chiaramente che Gramsci non contesta all'idealismo, e quindi a Croce, la nozione di Spirito, ma
solo il fatto che esso è un punto di arrivo e non di partenza, è l'universale
da conquistare. È il famoso capovolgimento dello storicismo crociano: non
sarebbe lo Spirito a fare la storia, ma lo Spirito sarebbe creato dalla storia
nel suo incessante avanzare. Tutto preso dalla realizzazione di un
concreto divenire storico di liberazione umana, Gramsci, come già Marx,
omette però di considerare che esso non può avvenire finché, perdurando
la nozione stessa di Spirito, la creatività non venga ricondotta alla realtà
psichica umana, senza alienarla religiosamente in un Oltre indefinito e
trascendente. Ogni critica dell'astrazione finisce per rimanere sul terreno
dell'avversario che si intende combattere (sia esso Hegel o Croce), se non
si toglie definitivamente dall'astrazione la stessa origine del pensiero,
riconducendola alla fisiologia della nascita umana, come teorizzato da
Massimo Fagioli sin dal 1970.
Tutto ciò ci riporta all'oggi (Bambino donna e trasformazione dell'uomo è
giunto di recente alla sua ottava edizione). Non staremmo a parlare di
Gramsci, se non volessimo, ricollegandoci a quella grande ricerca e anche
evidenziandone alcune criticità, cercare risposte alla crisi di identità e di
idee che investe attualmente la Sinistra. C'è ancora una grande energia in
essa e bisogna evitare che si disperda e vada incontro a ennesime
delusioni, cercando soluzioni parziali o battendo strade già percorse.
Parlare di natura umana, di nuova antropologia, aprirsi a teorie e prassi di ricerca che ormai da decenni
hanno prodotto scoperte fondamentali in questo campo, può sembrare inessenziale e lo è senz'altro per chi
concepisca la politica come acquisizione di potere o semplice buona amministrazione, ma è viceversa
decisivo per chi voglia restituire piena dignità agli esseri umani, permettendone la più ampia realizzazione.
Giampiero Minasi