Proprietà aneugeniche e clastogeniche dei campi magnetici a frequenze estremamente basse (ELF) PROPRIETÀ ANEUGENICHE E CLASTOGENICHE DEI CAMPI MAGNETICI A FREQUENZE ESTREMAMENTE BASSE (ELF) ION UDROIU SCUOLA DI DOTTORATO IN IGIENE INDUSTRIALE E AMBIENTALE DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA ANIMALE E DELL’UOMO UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” COORDINATORE: PROF.SSA IRENE FIGÀ-TALAMANCA (DIPARTIMENTO B.A.U.) TUTORE SCIENTIFICO PROF. MAURO CRISTALDI (DIPARTIMENTO B.A.U.) DOCENTI ESAMINATORI: PROF. BRUNO BERTOLINI (UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA”) PROF.SSA RENATA COZZI (UNIVERSITÀ “ROMA3”) PROF. STEFANO MATTIOLI (UNIVERSITÀDI BOLOGNA) Diversi studi hanno esaminato le proprietà genotossiche dei campi magnetici a frequenze estremamente basse (ELF), ma la tesi che questi campi posseggano le suddette proprietà risulta controversa. Lo scopo di questa ricerca è stato quello di individuare un eventuale danno genotossico in topi neonati ed adulti. A tal fine, il test dei micronuclei con colorazione CREST è stato eseguito su campioni prelevati da 15 topi adulti e da 38 neonati esposti per 21 giorni ad un campo magnetico di 50 Hz e 650 µT. I risultati ottenuti nei neonati indicano un aumento delle frequenze medie di eritrociti micronucleati, sia CREST-positivi che CREST-negativi. Nel sangue periferico, la frequenza di eritrociti micronucleati CREST-positivi, pur rimanendo bassa in confronto a quelle indotte da noti mutageni, mostra valori quattro volte superiori rispetto a quella di topi neonati non esposti. Inoltre, è stata rilevata una diminuzione significativa di eritrociti policromatici. Negli adulti, sebbene si sia osservato un valore maggiore delle frequenze di eritrociti micronucleati rispetto a quello di topi non esposti, l’analisi statistica ha evidenziato che tale differenza non è significativa. Si può suggerire che in relazione ai campi magnetici ELF, i topi neonati sono più sensibili rispetto agli adulti, così come avviene per altri agenti mutageni. Infine, questi risultati potrebbero indicare che i campi magnetici ELF influiscono attraverso diverse vie sull’integrità del genoma. In particolare, i dati riguardanti i micronuclei CRESTpositivi evidenziano la necessità di ricercare la possibile relazione tra campi elettromagnetici ed aneuploidia, un fenomeno chiave per capire l’inizio della cancerogenesi. 3 1. Introduzione 5 2. Le radiazioni elettromagnetiche 2.1. L’elettromagnetismo 2.2. Frequenze estremamente basse (ELF) 2.3. Normativa 7 7 9 12 3. Gli effetti biologici 3.1. Epidemiologia 3.2. Ione Calcio 3.3. Radicali liberi 3.4. Promozione tumorale 3.5. Proliferazione cellulare 3.6. Espressione genica 3.7. Attivazione enzimatica 3.8. Teratogenesi 3.9. Ematologia 3.10. Genotossicità 13 13 15 18 19 20 22 23 24 25 25 4. Il test dei micronuclei 4.1. Descrizione citologica 4.2. Test dei micronuclei 4.3. Midollo osseo 4.4. Fegato fetale 4.5. Milza 4.6. Sangue periferico 4.7. Individuazione di aneuploidia 28 28 28 29 30 30 30 31 5. Materiali e metodi 5.1. Disegno sperimentale 5.2. Ceppi utilizzati 5.3. Esposizione 5.4. Prelievi 5.5. Colorazione CREST 5.6. Colorazione May-Grünwald 5.7. Analisi statistiche 34 49 34 34 36 36 37 37 6. Risultati 6.1. Ratti Wistar neonati 6.2. Topi CD1-Swiss neonati 6.3. Topi CD1-Swiss adulti 38 38 39 41 7. Grafici 45 8. Discussione 74 9. Sommario / Abstract 77 10. Bibliografia 79 11. Pubblicazioni e congressi 96 4 1. INTRODUZIONE L’esposizione a campi elettromagnetici non è un fenomeno nuovo. Ciononostante, durante il ventesimo secolo, l’esposizione ambientale a radiazioni elettromagnetiche di origine artificiale si è costantemente accresciuta, a causa della crescente domanda di elettricità, delle continue innovazioni tecnologiche e dei cambiamenti nei comportamenti sociali. Il problema della possibile pericolosità dei campi elettromagnetici non ionizzanti è sorto nel secondo dopoguerra – da principio soprattutto in ambito militare – come conseguenza dell’aumento dei dispositivi utilizzanti questo agente fisico. In seguito, la diffusione delle applicazioni civili dei campi elettromagnetici e l’utilizzo di tecnologie che li producono e diffondono nell'ambiente (come la trasmissione dell'energia elettrica) hanno prodotto un notevole aumento della loro presenza, provocando successivamente preoccupazioni ed allarmi non più nelle sole categorie professionalmente esposte, bensì nell’insieme della popolazione. Ciò si lega anche ad una sensazione di scarsa tutela dovuta altresì alla differenza fra i limiti di sicurezza previsti dalle normative vigenti e le soglie a cui sono associati alcuni effetti (gravi ma non del tutto accertati) legati alle esposizioni croniche. Difatti, le norme di sicurezza sono basate sugli effetti accertati ovvero sui soli effetti acuti: interferenze sulla percezione sensoriale e sull'attività motoria (per le basse frequenze) e riscaldamento dei tessuti (per le alte frequenze). Tuttavia, un crescente numero di studi epidemiologici indicherebbero la presenza di un rischio cancerogeno legato ad esposizioni croniche, anche per valori molto bassi. Inoltre, il fatto che i campi elettromagnetici non possano essere percepiti sensorialmente – e quindi l’impossibilità di avvertire l’esposizione – produce un senso di insicurezza. Sebbene i vantaggi sociali delle applicazioni dei campi elettromagnetici siano generalmente riconosciuti, i soggetti esposti avvertono una distribuzione disomogenea del rischio. In risposta ai crescenti interrogativi sui possibili effetti dei campi elettromagnetici, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha avviato nel 1996 un grande piano di ricerca multidisciplinare, il progetto internazionale PEH-EMF. Sul piano sanitario, i primi effetti nocivi riferiti come conseguenza dell’esposizione ad intensi campi elettromagnetici (cataratta, sterilità) erano indiscutibilmente di natura termica, essendo ascrivibili al surriscaldamento di alcuni organi bersaglio particolarmente vulnerabili (cristallino, gonadi). Dal punto di vista normativo, si delinearono ben presto due diversi approcci. Il primo, proprio dei paesi occidentali, vedeva negli effetti termici l’unico meccanismo di azione e determinava, cosi, normative volte a tutelare gli esposti da un eccessivo riscaldamento locale o sistemico. Il secondo, presente in Unione Sovietica, considerava l’esistenza di una casistica di effetti non termici, collegati principalmente ad alterazioni del sistema nervoso attribuiti ad esposizioni prolungate a campi elettromagnetici di livelli anche molto bassi; tale criterio determinava limiti decisamente più bassi di quelli termici (anche 1000 volte, in termini di potenza). Oggi, mancando un accertamento quantitativo degli effetti non termici, la seconda impostazione è venuta meno e le norme di sicurezza vigenti si riferiscono unicamente agli effetti termici (per le alte frequenze) ed agli effetti acuti dovuti alle correnti indotte (per le basse frequenze). Nel dibattito sui campi elettromagnetici, si pone spesso la domanda se questi inducano effetti biologici. E’ indiscutibile che quando un organismo si trova in un campo elettromagnetico, ha luogo un’interazione tra le forze del campo e le cariche e le correnti elettriche presenti nei tessuti dell'organismo. Tuttavia, per poter parlare propriamente di effetto biologico, si deve verificare una variazione a livello superiore, citologico, istologico o sistemico. Alla luce delle attuali proprietà accertate dei campi elettromagnetici (prima di tutto nell’ambito della magnetoterapia), quindi, l’interrogativo che va posto non è se questi producano degli effetti biologici, ma come variano gli effetti biologici dei campi elettromagnetici al variare dei loro parametri fisici. 5 Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare possibili effetti genotossici in Roditori esposti a campi magnetici a frequenze estremamente basse (ELF). L’esposizione è stata condotta in vivo, vista l’importanza di riprodurre condizioni simili all’esposizione umana, sia su individui adulti che neonati, visto l’interesse e l’attenzione generalmente rivolti al possibile legame tra campi elettromagnetici e leucemie infantili. 6 2. LE RADIAZIONI ELETTROMAGNETICHE 2.1. L’elettromagnetismo L’elettromagnetismo è quella disciplina della fisica che studia sia i fenomeni elettrici che quelli magnetici: dal XIX secolo, infatti, è appurato che elettricità e magnetismo sono intimamente connessi, tuttavia – in alcuni casi (come quello oggetto di questa ricerca) – è possibile indagare separatamente la componente elettrica e quella magnetica. Il campo elettrico viene descritto mediante un vettore E che in ogni punto della regione di spazio indica la direzione, l'intensità ed il verso della forza che agisce su una carica puntiforme unitaria positiva che venga posta in quel punto; l'intensità del campo elettrico si misura in volt al metro (V/m). Le principali relazioni che legano tra loro campo elettrico e carica elettrica sono la legge di Coulomb, che determina il vettore campo elettrico ad una distanza r da una carica puntiforme Q: (1) ed il teorema di Gauss: (2) In condizioni statiche, un campo magnetico è una regione di spazio estesa intorno ad un oggetto percorso da corrente elettrica (detto sorgente del campo), nella quale si manifestano forze su altri oggetti percorsi da corrente elettrica. Il campo magnetico può essere descritto mediante un vettore B detto induzione magnetica (o densità di flusso magnetico) riconducibile alla forza che in ogni punto della regione di spazio si manifesta su una corrente elementare che venga posta in quel punto, ovvero il valore del campo magnetico in un materiale, tenendo conto dei fenomeni di polarizzazione magnetica che il campo stesso vi provoca. Essa è calcolata dall'equazione: (3) dove m è la permeabilità magnetica del materiale e H è l'intensità del campo magnetico (misurata in A/m); l'intensità dell'induzione magnetica si misura in tesla (T). La principale relazione che lega induzione magnetica e corrente elettrica è la legge di Biot-Savart in forma differenziale, nota anche come prima formula di Laplace, che esprime il campo magnetico generato alla distanza r da un conduttore elementare lineare di lunghezza dl percorso da corrente I: (4) dove µ0 è la permeabilità magnetica assoluta dello spazio libero. Una delle caratteristiche più importanti del campo magnetico variabile nel tempo, perlomeno per l'interazione con organismi biologici, consiste nella sua capacità di provocare correnti elettriche all'interno di oggetti conduttori dove in assenza di campo esse non erano presenti; questa proprietà è descritta matematicamente dalla legge dell'induzione di Faraday: (5) 7 dove la linea chiusa Γ delimita la superficie Σ. Per frequenze fino ad almeno alcune centinaia di kHz, le normative internazionali di protezione dai campi elettromagnetici riconoscono nella densità di corrente indotta nei tessuti il principale parametro con cui correlare l'esposizione agli effetti biologici che si manifestano negli individui esposti; è quindi questo il parametro che occorre determinare a partire dalle caratteristiche del campo e dalle modalità di esposizione. Nel caso dell'interazione dei campi elettromagnetici di bassa frequenza con gli organismi biologici, una semplificazione comunemente impiegata è la cosiddetta approssimazione quasistatica, che consiste in pratica nello sfruttare le piccole dimensioni dell'oggetto esposto rispetto alla lunghezza d'onda. È possibile far vedere che in questo caso i problemi di accoppiamento al campo elettrico ed al campo magnetico sono disaccoppiati e quindi possono essere impostati e risolti indipendentemente. Il limite superiore di frequenza per l'applicabilità di questo approccio discende dalla necessità che siano soddisfatte le due seguenti condizioni: i tessuti devono poter essere considerati buoni conduttori e le dimensioni e le distanze coinvolte devono essere piccole rispetto alla lunghezza d'onda interna o – equivalentemente – rispetto alla profondità di penetrazione del campo elettromagnetico nei tessuti. Sebbene a rigore le due condizioni suddette (specie la seconda) siano applicabili fino a non più di 50-100 kHz, spesso si trovano assunte valide fino a qualche megahertz ed oltre. Nei casi in cui è possibile applicare l’approssimazione quasistatica, il problema dell’accoppiamento viene affrontato in due passi. Nel primo passo si risolve il problema esterno all'individuo esposto, omettendo dalle equazioni le derivate temporali (che in regime armonico sono proporzionali alla frequenza), cioè ponendosi in condizioni perfettamente statiche. Questo conduce ad una valutazione sufficientemente accurata del campo elettrico e del campo magnetico all'esterno dell'individuo e della densità di carica sulla sua superficie. Nel secondo passo si reintroducono nelle equazioni le derivate temporali e si prende in considerazione l'effettiva struttura interna dell'organismo, in modo da poter determinare la distribuzione del campo elettrico interno e quindi della densità di corrente indotta, a partire dai risultati del passo precedente. Alle basse frequenze, fino al centinaio di kHz circa, i tessuti si comportano sicuramente come buoni conduttori nei confronti dell'aria circostante l'organismo esposto. Per questo motivo, il campo elettrico non penetra significativamente nei tessuti: tra il campo interno ad essi e quello esterno (in aria) sussiste la seguente relazione, deducibile applicando all'interfaccia aria/tessuto il teorema di Gauss e la legge di conservazione della carica elettrica: (6) dove ε0 è la costante dielettrica assoluta dello spazio libero. In questo modo è possibile considerare l'organismo esposto come un oggetto omogeneo perfettamente conduttore. Il campo elettrico esterno è perturbato dalla presenza dell'organismo, in modo tale che le linee di forza ne sono perpendicolari alla superficie; di conseguenza, sulla superficie stessa viene indotta una distribuzione superficiale di carica elettrica. La variazione temporale della carica superficiale induce delle correnti elettriche all'interno dell'organismo, che lo attraversano completamente (scegliendo preferenzialmente i percorsi a minor resistenza, cioè i tessuti a più alta conducibilità) fino a scaricarsi a terra attraverso le piante dei piedi. Le correnti indotte costituiscono la principale conseguenza dell'esposizione; la loro intensità è proporzionale alla frequenza ed all'ampiezza del campo elettrico: (7) come valore tipico, la costante di proporzionalità AE, in unità del sistema internazionale, vale circa 3x10-9 in distretti importanti come la testa o la regione cardiaca. 8 I tessuti biologici sono pressoché trasparenti al campo magnetico; questo induce però delle correnti in essi, che possono a loro volta generare un campo magnetico secondario in grado di perturbare il campo impresso. È possibile dimostrare che la perturbazione (che dipende dalla frequenza, dalla conducibilità dei tessuti e dalle dimensioni dell’organismo esposto) nel caso dell’uomo è trascurabile per frequenze fino all'ordine del centinaio di kHz. La distribuzione di campo magnetico è pertanto uguale a quella che si avrebbe in assenza dell'individuo esposto e la densità di corrente indotta dalla sua variazione temporale può essere determinata mediante l'applicazione della legge di induzione di Faraday (equazione 5); in questo modo è facile, per esempio, dedurre la seguente soluzione approssimata, valida per una geometria sferica o cilindrica con dimensione caratteristica L: (8) 2.2. Frequenze estremamente basse (ELF) La lunghezza d’onda e la frequenza sono due grandezze fondamentali dei campi elettromagnetici. I quanti (costituenti le onde elettromagnetiche) di frequenza più elevata trasportano più energia di quelli di frequenza più bassa (e lunghezza d’onda maggiore). Alcune onde elettromagnetiche trasportano un’energia tale da essere in grado di rompere i legami tra molecole. Nello spettro elettromagnetico, i raggi gamma emessi dai materiali radioattivi, i raggi cosmici ed i raggi X hanno questa proprietà e sono chiamati “radiazioni ionizzanti”. Convenzionalmente, sono definite tali quelle radiazioni in grado di provocare (a condizioni normali) l’idrolisi. I campi i cui quanti hanno energia insufficiente per rompere i legami molecolari vengono invece chiamati “radiazioni non ionizzanti”. I campi elettromagnetici prodotti da sorgenti artificiali, che svolgono un ruolo di primo piano nel mondo industrializzato – elettricità, radioonde e campi a radiofrequenza – si trovano nella regione dello spettro elettromagnetico a lunghezze d’onda relativamente grandi e frequenze relativamente basse (figura 1), ed i loro quanti non sono in grado di rompere i legami chimici. Figura 1 – Le onde elettromagnetiche (da: Rossi P, Grandi C, Benvenuti F. Le Scienze quaderni n.109, 8089) Le correnti alternate (AC) invertono il loro verso ad intervalli regolari e producono campi elettromagnetici variabili nel tempo. Nei paesi europei l’elettricità cambia verso ad una frequenza di 50 cicli al secondo, o 50 hertz. Di conseguenza, anche i campi magnetici 9 cambiano il loro orientamento 50 volte al secondo. Nell’America settentrionale e in Giappone – invece – l’elettricità ha una frequenza di 60 Hz. I campi elettromagnetici variabili nel tempo prodotti dagli apparecchi elettrici sono un esempio di campi a frequenza estremamente bassa (ELF, extremely low frequency). I campi ELF hanno generalmente frequenze fino a 300 Hz. Altre tecnologie producono campi a frequenza intermedia (IF, intermediate frequency), con frequenze tra 300 Hz e 10 MHz e campi a radiofrequenza (RF) con frequenze da 10 MHz a 300 GHz. Gli effetti dei campi elettromagnetici sul corpo umano dipendono non solo dalla loro intensità, ma anche dalla loro frequenza. I sistemi che forniscono elettricità, e tutti gli apparecchi che la usano, costituiscono le principali sorgenti di campi ELF; gli schermi dei computer, i dispositivi anti-taccheggio e i sistemi i sicurezza sono le principali sorgenti di campi IF; radio, televisione, radar, antenne per la telefonia cellulare e forni a microonde sono le principali sorgenti di campi RF. Questi campi inducono nel corpo umano delle correnti elettriche che, se di intensità sufficiente, possono produrre vari effetti come riscaldamento e scosse elettriche, secondo la loro ampiezza e la loro frequenza. Campi elettrici a bassa frequenza agiscono sul corpo umano, esattamente come agiscono su qualunque altro mezzo composto di particelle cariche. Quando i campi elettrici agiscono su materiali conduttori, influenzano la distribuzione delle cariche elettriche sulla loro superficie e provocano un flusso di corrente attraverso il corpo, verso la terra (figura 2). Figura 2 Figura 3 I campi magnetici a bassa frequenza provocano la circolazione di correnti all’interno del corpo. L’intensità di queste correnti dipende dall’intensità del campo magnetico esterno. Se sufficientemente elevate, queste correnti possono provocare la stimolazione di nervi e muscoli o influenzare altri processi biologici. Sia i campi elettrici sia quelli magnetici inducono differenze di potenziale e correnti nel corpo ma, anche nel caso in cui si sia immediatamente al di sotto di una linea ad alta tensione, le correnti indotte sono piccolissime in confronto alle soglie necessarie per provocare scosse ed altri effetti elettrici (figura 3). L’elettricità viene trasportata su lunghe distanze attraverso linee ad alta tensione. I trasformatori abbassano queste alte tensioni per la distribuzione locale ad abitazioni e uffici. Gli impianti per la trasmissione e la distribuzione, nonché i circuiti degli edifici e gli apparati domestici sono responsabili dei livelli di fondo di campo elettrico e magnetico a frequenza industriale in casa. Nelle abitazioni non situate vicino ad elettrodotti il livello di fondo dell’induzione magnetica può arrivare fino a circa 0,2 µT. Direttamente al di sotto delle linee i campi sono molto più intensi. L’induzione magnetica al livello del suolo può arrivare fino a diversi microtesla. I livelli di campo elettrico al di sotto degli elettrodotti possono raggiungere i 10 kV/m. Comunque i campi (sia elettrici sia magnetici) decadono con la distanza dalla linea. A distanze comprese tra 50 e 100 metri le intensità dei campi sono normalmente al livello di quelle che si incontrano lontano dalle linee ad alta tensione. Inoltre, le pareti dell’abitazione riducono sostanzialmente i livelli del campo elettrico rispetto a quelli che si incontrano in aree analoghe, all’esterno delle case. Le massime intensità di campo elettrico a potenza industriale si trovano solitamente al di sotto di linee ad alta tensione. Invece, i più intensi campi magnetici a frequenza industriale si trovano nelle immediate vicinanze di motori ed altri dispositivi elettrici, nonché in apparati specialistici come i tomografi a 10 risonanza magnetica utilizzati nella diagnostica per immagini. Nella tabella 1 vengono indicati i valori tipici dell’esposizione domestica. Tabella 1 - Tipiche intensità del campo magnetico prodotto da dispositivi domestici a varie distanze (Fonte: Ufficio Federale per la Sicurezza dalle Radiazioni, Germania, 1999). Le distanze di normale funzionamento sono indicate in grassetto L’esposizione dei passeggeri dei treni deriva soprattutto dal sistema di alimentazione. I campi magnetici nelle carrozze passeggeri possono raggiungere diverse centinaia di microtesla vicino al pavimento, mentre nelle altre zone del compartimento presentano valori più bassi (decine di microtesla). L’intensità del campo elettrico può raggiungere i 300 V/m. Le persone che vivono vicino a linee ferroviarie possono essere soggette a campi magnetici dovuti alle linee aeree di alimentazione; a seconda del paese, questi campi possono essere confrontabili con quelli prodotti dalle linee ad alta tensione. Va infine sottolineato, che in alcune nazioni la corrente utilizzata dai sistemi ferroviari ha una frequenza di 16⅔ Hz, pari alla frequenza di risonanza ciclotronica dello ione calcio. Nella tabella 2 vengono illustrati i valori di alcune esposizioni professionali. Fotocopiatrice Fax Videoterminale Processi elettrolitici Forni a induzione Frequenza (Hz) Induzione magnetica (µT) 50 1,2 50 0,4 50 0,7 0/50 1.000/10.000 1/10000 1.000/6.000 Tabella 2 – Esposizioni professionali 11 2.3. Normativa La maggior parte delle normative nazionali sono basate sulle linee guida elaborate dalla Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Non Ionizzanti (ICNIRP, International Commission on Non Ionizing Radiation Protection). Questa organizzazione non governativa, formalmente riconosciuta dall’OMS, valuta i risultati scientifici che provengono da tutto il mondo. Sulla base di un’approfondita rassegna della letteratura, l’ICNIRP produce linee guida che raccomandano dei limiti di esposizione. Queste linee guida vengono periodicamente riviste e, se necessario, aggiornate. Nella tabella 3 vengono sintetizzate le linee guide ICNIRP. Frequenza industriale europea (50 Hz) Campo elettrico (V/m) Induzione magnetica (µT) Limiti per l’esposizione del pubblico Limiti per l’esposizione professionale 5.000 100 10.000 500 Tabella 3 - Sintesi delle linee guida ICNIRP (1998) Dopo i DPCM 23/4/92 e 28/9/95, l’ultimo provvedimento legislativo riguardante la protezione dai campi elettromagnetici è il DPCM 8/7/03 che fissa i limiti di esposizione ed i valori di attenzione e degli obiettivi di qualità per la protezione della popolazione dalle esposizioni ai campi elettrici e magnetici alla frequenza di rete (50 Hz) generati dagli elettrodotti. Nel caso di esposizione a campi della frequenza di 50 Hz generati da elettrodotti, non deve essere superato il limite di esposizione di 100 µT per l'induzione magnetica e 5 kV/m per il campo elettrico, intesi come valori efficaci. Nella progettazione di nuovi elettrodotti in corrispondenza di aree gioco per l'infanzia, di ambienti abitativi, di ambienti scolastici e di luoghi adibiti a permanenze non inferiori a quattro ore e nella progettazione dei nuovi insediamenti e delle nuove aree di cui sopra in prossimità di linee ed installazioni elettriche già presenti nel territorio, ai fini della progressiva minimizzazione dell'esposizione ai campi elettrici e magnetici generati dagli elettrodotti operanti alla frequenza di 50 Hz, è fissato l'obiettivo di qualità di 3 µT per il valore dell'induzione magnetica, da intendersi come mediana dei valori nell'arco delle 24 ore nelle normali condizioni di esercizio. Per quanto riguarda l’esposizione professionale il limite massimo consentito è di 2 T mediato nel tempo su una giornata di lavoro. 12 3. GLI EFFETTI BIOLOGICI 3.1. Epidemiologia Wertheimer & Leeper (1979) hanno per primi evidenziato un’associazione tra ELF e rischio tumorale. Lo studio ha rilevato come i bambini esposti ad elevati valori di campo – misurati indirettamente – presentavano un rischio di leucemia più che doppio rispetto a quello registrato nel gruppo di controllo. Diverse ricerche eseguite nel decennio successivo hanno ribadito nella maggior parte dei casi questo risultato, rilevando anche associazioni con altre forme tumorali, tanto nell’adulto quanto nel bambino (Tomenius, 1986; Savitz et al., 1988; London et al., 1991). Con gli studi effettuati negli anni ’90, caratterizzati da una maggiore attenzione metodologica, sono stati raggiunti dati attendibili e riproducibili che hanno permesso di escludere un’associazione significativa tra esposizione ai campi ELF e diversi tipi di tumori nell’adulto (Fulton et al., 1980; Lin & Lu, 1989; Myers et al., 1989; Feychting & Ahlbom, 1994; Vecchia, 1997), mentre resta incerta quella con i tumori cerebrali (Cocco et al., 1998; Cocco et al., 1999; Kheifets et al., 1999; Kheifets, 2001), mammari (Kliukiene et al., 1999) e alquanto problematica quella con le leucemie infantili e i linfomi degli adulti esposti per motivi professionali (Severson et al., 1988; Youngson et al., 1991; Verksalo et al., 1993). Molte delle prime ricerche, infatti, presentavano carenze metodologiche e la presenza di fattori confondenti (condizione economica, abitudini sociali, esposizione ad altre fonti elettromagnetiche), spesso sottovalutati (Washburn et al., 1994; Mc Cann et al., 1998). In molti lavori il campionamento si è dimostrato inadeguato, specialmente per il numero troppo esiguo di casi esaminati; in altri, è stata criticata la stima indiretta dell’emissione EM ed il trascuramento delle distanze tra linee di trasmissione e centri di distribuzione. Il valore delle conclusioni tratte è stato sminuito dall’utilizzo di misure indirette e dall’impossibilità di valutare l’esposizione reale, ), come accade – invece – per le ricerche riguardanti altre forme di inquinamento, oltre alla limitata significatività statistica dei risultati conseguiti (Levallois et al., 1995). Viceversa, si è anche sviluppato l’atteggiamento opposto, cioè la tendenza di molti studiosi (Campion, 1997) a considerare aprioristicamente nullo il rischio e ad interpretare in questo modo studi che indicano una problematica complessa. Le conclusioni di Linet et al. (1997) hanno aperto un dibattito che ha indicato l’assenza di un aumento significativo del rischio per le leucemie infantili per esposizioni uguali o inferiori a 0,2 µT, una soglia – tuttavia – soggettiva come evidenziato da studi metodologici antecedenti (Wartenberg & Northridge, 1991). Per valori di esposizione pari a 0,3 µT o superiori (ma inferiori a 0.5 µT), si riscontra una elevata e significativa probabilità di rischio, pari a 1,72. Inoltre, il rischio aumenta decisamente per esposizioni comprese tra 0,4 e 0,49 µT, con un RR di 3,38 per i dati non appaiati e di 6,41 per i dati appaiati. Sintetizzando i risultati ottenuti da Linet (1997), Feychting et al. (1997) e Kheifets et al. (1997), si è valutato che l’esposizione ai campi ELF comporti un incremento di rischio pari o superiore al 20%. Un limite non trascurabile ha gravato – e continua tuttora a gravare – sugli studi epidemiologici: l’insufficiente considerazione delle variazioni temporali dell’esposizione e delle possibili sovrapposizioni di fonti diverse d’emissione. Questo limite, insieme all’eterogeneità di criteri per valutare le emissioni – configurazione di rete, misura della distanza rispetto alla sorgente, misurazione diretta dei campi, esposizione professionale per categorie lavorative – rende spesso impossibile il confronto tra gli studi effettuati ed il rischio stimato varia clamorosamente a seconda del parametro utilizzato. Sono esemplificativi a riguardo, gli studi di Feychting & Ahlbom (1993) e Pool (1990), ove, per un valore di campo magnetico medio > 0,2 µT, monitorato continuativamente nelle 24 ore, la correlazione con l’incidenza di leucemia mieloide acuta risultava pari ad una Odds Ratio di 1,7; il rischio relativo, nei medesimi lavori, risultava prossimo all’unità se la stima dell’emissione veniva sostituita con la determinazione del campo effettuata ad intervalli randomizzati (spot measurements). D’altra parte, va aggiunto che l’eventuale presenza di fattori confondenti e di elementi pregiudicanti la 13 credibilità dei risultati si indirizza unicamente contro l’esistenza di una possibile associazione tra esposizione ai campi EM e leucemia infantile (Wartenberg, 2001), per cui un risultato negativo non costituisce di per sé prova sufficiente e, come è stato suggerito, ci ricorda che “l’assenza di prova non è una prova di assenza” (Altman & Bland, 1995). Più in generale, per quanto riguarda le neoplasie infantili (soprattutto leucemie, ma anche tumori cerebrali e linfatici), i rapporti citati indicano un incremento del rischio per quanti risiedono in prossimità di linee elettriche ad alta tensione. Il rischio relativo (RR) è stimato mediamente attorno a 1,5, il che comporta un aumento del 50% della probabilità di contrarre la malattia per gli esposti rispetto alla popolazione non esposta, un valore simile a quello rilevato da una meta-analisi condotta dalla National Academy of Sciences degli Stati Uniti (NRC, 1997). Questo dato, per l’Italia, dovrebbe tradursi in un aumento di circa 30 casi/anno di leucemie infantili, per un totale di 530 decessi rispetto ai 500 attesi. Livelli di rischio paragonabili, con RR compreso fra 1,3 e 2, sono stati confermati da altre tre meta-analisi recenti che hanno consentito, inoltre, di evidenziare come il monitoraggio continuativo dell’esposizione, rispetto a misurazioni estemporanee (spot measurements), sia il parametro maggiormente attendibile e meglio correlabile all’effetto atteso. Rimangono, invece, incertezze nella definizione di un valore soglia del campo: sembra certo che per valori uguali o inferiori a 0.2 µT non si registri alcuna significativa variazione nel Rischio Relativo, mentre non è ancora chiaro se la maggiore probabilità di contrarre una leucemia si associ a valori di campo superiori a 0,2 o a 0,4 µT (Lagorio & Comba, 1998). Uno studio condotto da Ahlbom et al. (2000) relativo ai dati forniti da nove indagini epidemiologiche ha preso in considerazione un ampio campione, rappresentato da 3203 casi (bambini affetti da leucemia) e da 10.338 controlli. L’esposizione veniva valutata sia indirettamente, sulla base della distribuzione delle reti elettriche, che direttamente, sulla base di misure estemporanee o di monitoraggi continui per 24/48 ore. Determinando il valore di campo per mezzo del monitoraggio continuo, il rischio relativo risultava prossimo allo zero per gli esposti a valori di campo < 0,4 µT, mentre per la frazione di campione cronicamente esposta a valori ≥ 0,4 µT il rischio relativo aumentava a 2 (OR 1,27-3,13, p < 0,002), confermando studi precedenti (Michaelis et al., 1998), a fronte di un RR= 1,24 stimato per mezzo della distribuzione di frequenza computata sulla base della sola configurazione delle reti elettriche; tale rilievo evidenziava la necessità di disporre di dati realmente misurati, e non già presunti, per ottenere stime di rischio attendibili. L’aggiustamento calcolato per eventuali variabili confondenti non modificava i risultati ottenuti che permettevano agli autori del lavoro di concludere che, il rischio determinato per la frazione esposta a valori ≥0,4 µT, “molto improbabilmente poteva essere ascritto alla variabilità del caso”. Per quanto tale rischio possa essere basso, rispetto a quello esplicato da altri fattori (fumo, alimentazione, inquinanti ambientali, etc.), ciononostante non è nullo (Spurgeon, 1999) ed è presumibile, data l’ubiquitarietà delle sorgenti elettromagnetiche, che la popolazione esposta sia sensibilmente più ampia di quanto oggi non si ritenga e ciò determinerebbe un eccesso di casi di morte per leucemia rispetto a quelli prudentemente preventivati tanto da far ritenere ormai ragionevole la rilevanza dei campi ELF quali “probabili” cancerogeni (Rutter, 1998). Sarebbe utile osservare – inoltre – come la “possibile relazione modesta” (Savitz, 2001) fra esposizione a campi magnetici ELF e leucemia, sia caratterizzata da un rischio relativo dello stesso ordine di grandezza di quello fra fumo passivo e cancro ai polmoni (Minder & Pfluger, 2001). Entrambe queste relazioni sono di modesta entità, eppure solo la seconda è ritenuta valida pressoché da chiunque. E’ da sottolineare, inoltre, come le stime attuali prendano in considerazione esclusivamente l’associazione tra campi ELF e mortalità per leucemia, ma non affrontano affatto il rapporto tra i questi campi e la morbilità per leucemia. Infine, non è da trascurare la possibile sinergia tra campi ELF ed altri noti cancerogeni chimici (Kamedula & Kamedula, 1996) o radionuclidi (Henshaw et al., 1996). 14 3.2. Ione Calcio L’ipotesi di una possibile relazione fra esposizione a campi magnetici e cancerogenesi richiede – fra l’altro – una plausibile spiegazione biologica. Per stimolare la replicazione delle cellule somatiche è necessario l’incremento dell’afflusso di ioni calcio. Inoltre, molte proteine coinvolte nella regolazione del calcio sono implicate nella cascata di segnali enzimatici necessaria per la regolazione della crescita cellulare. In base a ciò, è stato ipotizzato che i campi ELF possano interferire con il funzionamento delle proteine transmembrana e modulare l’affinità di legame per il calcio della calmodulina. Per sostenere questa tesi, è stato proposto un modello secondo il quale un campo elettrico esterno oscillante esercita una forza, anch’essa oscillante, su ogni ione situato sulle due facce della membrana cellulare e che viene quindi spinto a muoversi dall’esterno verso l’interno. Se l’ampiezza della vibrazione impressa allo ione dal campo ELF supera una soglia critica, lo ione oscillante può trasmettere un falso segnale di “apertura”, oppure di “chiusura”, dei canali che sono regolati da una differenza di potenziale elettrico (Panagopoulos et al., 2000). I risultati dei primi studi sulla dinamica di flusso transmembranale dello ione calcio, condotti principalmente su tessuti cerebrali, appaiono contraddittori: mentre Blackman et al. (1982) hanno riscontrato un aumento del flusso di ioni calcio sotto l’effetto di un campo ELF, altri ricercatori hanno rilevato l’effetto opposto (Bawin & Adey, 1976). Diversi studi hanno utilizzato modelli cellulari semplici – come quello della diatomea Amphora coffeaeformis (Smith et al., 1987) – monitorando aspetti morfo-funzionali facilmente rilevabili, come la mobilità, in rapporto ad esposizioni di campo che consentissero di realizzare condizioni di risonanza con la frequenza ciclotronica del calcio. La maggior parte di questi studi, tuttavia, hanno prodotto risultati non riproducibili e poco convincenti; esiti positivi, invece, sono stati ottenuti con colture di linfociti umani (Rozek et al., 1987), anche se i tentativi di replicare questi risultati hanno avuto scarso successo (Prasad et al., 1991). L’ipotesi proposta inizialmente da Liboff (1985) e Blackman (1985), e successivamente sviluppata anche sul piano teorico da Zhadin & Novikoff (1998), ha ricevuto importanti conferme sul piano della ricerca sperimentale e teorica, seppur limitata a studi di carattere fisico-chimico. Finora, però, manca ancora un’efficace dimostrazione biologica di tale effetto. Nell’esperimento di Zhadin & Novikoff, una cella di 8 cm3 contenente una soluzione 0,33 g/l di acido glutammico in acqua e posta a temperatura ambiente viene mantenuta a pH opportuno e schermata da campi magnetici esterni da una scatola di “Permalloy”. Due elettrodi d’oro , posti all’interno della cella , sono mantenuti ad una differenza di potenziale di -80 mV (differenza di potenziale propria della membrana di molte cellule animali). A causa di questa differenza di potenziale, una corrente di 32 nanoAmpere fluisce tra i due elettrodi. Un solenoide posto nel fondo della cella viene percorso da una corrente continua (DC) tale da produrre un campo magnetico statico della dimensione del campo magnetico terrestre, mentre un solenoide ad esso coassiale viene percorso da una corrente alternata (AC), capace di produrre campi variabili per intensità e frequenza e paralleli quindi alla direzione del campo magnetico statico. Si osserva che se ad un prefissato valore del campo statico, la frequenza del campo variabile coincide con la frequenza ciclotronica dell’acido glutammico, qualora la sua intensità vari in un intervallo di valori estremamente piccoli, per una durata di 15-20 secondi si produce un aumento dell’intensità di corrente agli elettrodi del 30% circa. Frequenze diverse anche per frazioni di Hz, non producono alcun effetto, mentre valori al di fuori dell’intervallo di intensità sopra indicata non forniscono mutazioni del valore della corrente apprezzabili con il set sperimentale utilizzato da Zhadin. L’esperimento, quindi, solleva un’importante problematica nel campo della fisica. Infatti, a temperature distanti dagli 0° K, cioè nelle condizioni sperimentali dell’esperienza citata, le forze lorenziane responsabili del moto ciclotronico degli ioni, sono di almeno sette ordini di grandezza inferiori alle forze stocastiche agenti su di essi, create dal moto browniano dell'ambiente che li circonda ed aventi intensità uguale a k*T (dove k=costante di Boltzmann, T=temperatura in gradi kelvin), le quali si oppongono a tale 15 moto. Tale paradosso, battezzato ‘Paradosso kT’, trova soluzione nell’approccio teorico fondato sui principi dell’elettrodinamica coerente (Preparata, 1995). Nell’ambito di tale teoria la materia condensata, è concepita come composta da due fasi che si compenetrano spazialmente. Una fase coerente, in cui i componenti microscopici fondamentali (atomi, molecole, ioni) oscillano in uno stato quantistico coerente (analogo a quello del laser) in accordo di fase con specifici modi del campo elettromagnetico all’interno dei “domini di coerenza”, domini spaziali detti “L.d.c.” , la cui estensione è inversamente proporzionale alla frequenza dei modi risonanti. (nell’acqua L.d.c. è circa 500 Å); lo spazio governato da tale condizione è talmente correlato che al suo interno la sua entropia , e quindi la sua temperatura è nulla (Preparata, 2001). La seconda è la fase non coerente: essa è antagonista a quella coerente, tanto più estesa percentualmente quanto più alta è la temperatura del sistema, capace cioè di aggredire con il suo moto browniano le “isole” di coerenza. Essa si insinua negli interstizi degli Ldc, comportandosi da un punto di vista fisico, come un gas imperfetto denso , dotato di entropia crescente al crescere della temperatura. Alla luce di tale teoria è stato studiato e spiegato il comportamento anomalo della variazione di densità dell’acqua in funzione della temperatura, nonché le sue proprietà di solvente in presenza di campi magnetici (Arani et al., 1995). Gli studi teorici di sistemi di ioni condotti in conformità a tale teoria hanno evidenziato che essi, in soluzioni acquose molto diluite, formano un sistema perfettamente coerente anche a temperatura ambientale. Alla luce di questi modelli si aprono interessanti prospettive per la comprensione dell’influenza dei campi magnetici nella cinetica degli ioni e delle strutture polari organiche attraverso le membrane cellulari, e quindi sulla loro influenza nei fenomeni omeostatici e sui ritmi circadiani (Novikov & Karnaukov, 1997). Gli esseri viventi sono sottoposti al campo magnetico statico della terra (intorno ai 50 µT) associato a campi ELF, variabili durante il tempo per intensità e frequenza. Una continua sorgente di campi variabili è dovuta alle onde di Schumann (7,8 Hz) che si originano nella ionosfera. Inoltre l’interazione tra vento solare e magnetosfera, modula campi magnetici variabili, i cui parametri di frequenza e di intensità mutano nel corso della giornata, delle stagioni e delle fasi lunari; tali campi sono di intensità e frequenze confrontabile con quelli utilizzati da Zhadin nei suoi esperimenti e quindi entrambi i fenomeni producono frequenze corrispondenti alle frequenze ciclotroniche di molti ioni e strutture polari organiche presenti nel vivente e che quindi potrebbero essere fondamentali per l’equilibrio fisiologico degli esseri viventi (Chiabrera, 1985). Va aggiunto, inoltre, che il sistema nervoso, come documentato da recenti misure di magnetoencefalografia, è in grado di produrre campi magnetici, le cui caratteristiche non sembrano essere semplicemente il “rumore di fondo” dovuto all’attività bioelettrica ed è stata proposta l’ipotesi di una loro funzionalità organica specifica (Rodriguez, 1999). A tuttora i pochi tentativi volti a raggiungere un riscontro biologico del modello proposto si sono rivelati inconcludenti. Hendee et al. (1996), basandosi sulla teoria di Liboff, ripresa da Lednev (1991) e dagli studi di Markov et al. (1993), hanno verificato se l’affinità del calcio aumentasse per la calmodulina in presenza di un campo statico e di uno variabile con valori di frequenza compresi nell’ambito del range di risonanza ciclotronica dello ione. Il modello preso in considerazione era costituito dall’attivazione calcio/calmodulina-dipendente della miosina-chinasi a catena leggera, già in precedenza utilizzato negli studi di Lednev. Le modificazioni del complesso calcio/calmodulina venivano monitorate registrando i cambiamenti ottici indotti dalla variazione di densità di un peptide fluorescente capace di legarsi al complesso. Il sistema veniva esposto a due campi di 16 Hz (corrispondente alla frequenza ciclotronica dello ione calcio anidro) con un valore di induzione magnetica di 20,9 µT. Contrariamente a quanto osservato da Lednev non sono state rilevate variazioni significative nella formazione dei complessi calcio/calmodulina. Anche la teoria avanzata dalla scuola russa non sembra aver trovato conferme neanche quando applicata ai canali ionici del potassio, rivestiti dal pentapeptide gramicidina A che circoscrive uno spazio specifico per i cationi monovalenti. Diversi studi (Galt et al., 1993; Wang & Hlandky, 1994a) hanno escluso che i campi ELF, modellati in modo tale da soddisfare alle 16 condizioni di risonanza ciclotronica che prevedono l’associazione di un duplice campo statico e variabile, possano interferire significativamente con i flussi cellulari del K+, pur considerando un ampio range di valori di intensità magnetica (50-5000 µT) (Wang & Hlandky, 1994b). Altri studi, invece, hanno prodotto risultati contraddittori. Esponendo linfociti T Jurkat ad un campo di 50 Hz (con un’induzione magnetica variabile da 100 µT a 200 µT), si osservano infatti significative modificazioni nell’oscillazione spontanea dello ione calcio il cui afflusso sale dai valori basali di 20-100 nM a 300-400 nM (Linstrom et al., 1993). Tale effetto si accompagna ad un sostenuto aumento dell’inositolo 1,4,5-trifosfato (IP3) il cui reclutamento costituisce una tappa primaria indispensabile nella cascata di reazioni che consegue all’attivazione recettoriale dei linfociti T. I livelli di IP3 crescono da 2 a 40 picomoli per milione di cellule molto precocemente, anche dopo brevi esposizioni al campo ELF, e tale effetto richiede necessariamente la presenza di chelanti intracellulari per il calcio (Korzhsleptsova et al., 1995). E’ tuttavia difficile poter quantificare esattamente i cambiamenti che intervengono a carico del calcio intracellulare, dato che la proporzione di cellule che sembrano rispondere al campo varia nei diversi studi che hanno replicato l’esperimento in oggetto (Walleczek, 1992). E’ probabile che, come già rilevato in precedenza, questo possa dipendere dallo stato di attivazione morfofunzionale in cui si trova il tessuto o la cellula esposta al campo magnetico. Walleczek & Liburdy (1990) hanno osservato come l’esposizione di linfociti a campi ELF (1-20 mT) per brevi periodi (30-60 minuti) induca un aumento dell’afflusso di 45Ca2+, ma esclusivamente nelle colture pretrattate con concanavalina A (ConA), una sostanza mitogena aspecifica ma di indubbia efficacia. Il flusso dello ione era in questo caso strettamente correlato all’ampiezza del campo magnetico e a quella del campo elettrico indotto, e dipendeva da un’afflusso attraverso i canali ionici e non già dal rilascio dello ione da parte dei depositi intracellulari (Liburdy et al., 1993). La natura dell’effetto varia altresì con le condizioni di esposizione e mostra un comportamento paradossale: mentre l’apposizione di un campo sinusoidale (60 Hz, 6,5 mT) incrementa l’afflusso dello ione di 4 volte nelle cellule trattate con ConA (di contro ad un aumento di 2 volte registrato nelle colture trattate con il solo mitogeno), quando le colture venivano collocate in un campo rettangolare (3 Hz, 6.5 mT) l’ingresso dello ione veniva inibito nelle cellule stimolate con ConA e che precedentemente erano risultate sensibili, mentre le colture in precedenza refrattarie alla stimolazione con ConA presentavano un’aumentato afflusso di calcio. Un risultato analogo è stato registrato da Conti et al. (1985a), che hanno bloccato l’ingresso del 45Ca2+ nei linfociti umani stimolati con TPA o PHA, esponendo le colture a campi di 3 Hz. Un più recente lavoro (Walleczek et al., 1994) ha ulteriormente confermato come l’ingresso dello ioni calcio possa essere significativamente rilevato anche dopo brevissime esposizioni e resti comunque intimamente dipendente dallo stato biologico della cellula e specificamente dalla iniziale predisposizione ad un aumentato afflusso di Ca2+. Livelli ancora maggiori di ingresso degli ioni calcio sono stati osservati in cellule ipofisarie esposte a campi di 50 Hz (50 µT) per brevi periodi (30-180 minuti). Il calcio intracellulare cresce da 180 nM a 350 nM, mentre per diversi valori di induzione magnetica (2, 10 o 250 µT) non si rileva alcun effetto (Barbier et al., 1996). L’effetto è limitato alle cellule lattotrope ed è dipendente dalla disponibilità di Ca2+ extracellulare, un rilievo peraltro confermato da altre ricerche che hanno permesso di accertare come l’integrità della pompa del calcio sia indispensabile perché possa manifestarsi l’aumentato ingresso dello ione in presenza del campo magnetico (Cho et al., 1999). Una interpretazione più sofisticata di questi risultati, proposta recentemente (Lange, 2000), chiama in causa più direttamente il ruolo che alcune proteine, come l’actina, rivestono nell’ambito dei trasferimenti ionici che avvengono non solo a livello della membrana, ma anche nell’ambito dei diversi comparti intracellulari. I filamenti di actina, che, tra l’altro concorrono a costituire il citoscheletro dei microvilli, presentano proprietà di trasmissione non-lineare uniche, molte delle quali ricordano quelle dei semiconduttori elettronici: i microfilamenti presentano un’elevata resistenza alla conduzione dei cationi e questa resistenza viene sensibilmente attenuata da supplementi energetici forniti 17 da campi termici, meccanici ed anche elettromagnetici. Poiché la trasmissione ionica è molto lenta attraverso i polielettroliti lineari rispetto alla conduzione elettronica, solo campi elettromagnetici a bassa frequenza possono interagire con i sistemi ionici condensati, un effetto peraltro rilevato anche da altri autori che hanno documentato come i campi ELF possano accelerare il trasferimento di elettroni (electronic tunnelling) nell’ambito dei sistemi biologici complessi (Neshev & Kirilova, 1994). Le caratteristiche della conduzione ionica studiate nei microvilli dei foto- ed audiorecettori depongono a sostegno di un fenomeno accoppiato elettro-meccanico sensibile agli effetti dei campi ELF e tale da rendere ragione del coinvolgimento dei flussi del Ca2+ nei processi che, a livello della superficie del microvillo, regolano il trasposto di sostanze (glucosio, aminoacidi), la modulazione della differenza di potenziale trans-membrana e la cascata di reazioni conseguente all’attivazione dei complessi ormone-recettore. 3.3. Radicali liberi Una spiegazione degli effetti biologici dei campi magnetici ELF si basa sulla ben nota perturbazione della ricombinazione dei radicali liberi (Brocklehurst, 2002). Campi magnetici con intensità pari o superiore a 1 mT esplicano effetti misurabili e significativi sulle reazioni che coinvolgono radicali liberi con spin paralleli (radical pairs) interferendo sui ritmi di precessione degli elettroni spaiati e quindi sulla durata della vita media dei radicali liberi. Una reazione chimica può generare una coppia di radicali nello stato di tripletto con elettroni dotati di spin parallelo. La coppia può interagire per dare luogo ad un prodotto non reattivo solo se uno dei due radicali modifica il proprio stato adottando uno spin antiparallelo (rispetto a quello dell’altro radicale) per rispettare il principio di esclusione di Pauli. Questa trasformazione impone all’elettrone del radicale di disporsi attraverso le tre diverse condizioni dello stato tripletto, ciascuna caratterizzata da un determinato livello energetico: T0, T-1 e T+1. Per quanto i livelli energetici in questione siano “degenerati”, nell’ambito di un campo magnetico statico le “degenerazioni” vengono rimosse e le differenze sono amplificate: se tale intervallo è inferiore al valore soglia della reazione iperfina del sistema, i radicali creati nella condizione di stato tripletto possono essere trasformati in radicali singoletti e quindi reagire per dare luogo ad un prodotto caratterizzato da elettroni appaiati con spin antiparallelo. Se l’intervallo è invece superiore al valore soglia, i radicali creati nello stato T-1 e T+1 non possono interconvertirsi nello stato T0 e quindi reagire; la vita media del radicale finisce così con l’aumentare considerevolmente e questo può sensibilmente incidere sulla cinetica delle reazioni enzimatiche così come sulla produzione di altri radicali liberi. Tuttavia, se un campo magnetico alternato – anche a bassa frequenza – viene sovraimposto al campo statico, il primo è in grado di eccitare gli elettroni, cedendo loro un quantum energetico che consente di conseguire lo stato singoletto e quindi di ricombinarsi per dare vita ad un prodotto non reattivo (Batchelor et al., 1993). Campi magnetici, sia statici che alternati, ancorché caratterizzati da bassi valori (da 0,1 µT a 1 mT), possono così interferire con reazioni enzimatiche che utilizzano radicali liberi come intermedi, influenzandone il destino, la produzione e la disponibilità. In effetti, diversi studi hanno provato l’esistenza di tali effetti sia in sistemi in vitro che su cellule integre. Harkins & Grissom (1994) hanno dimostrato come campi di intensità superiore a 50 mT possano indurre una significativa diminuzione (20%) del rapporto Vmax/Km dell’enzima B12 etanolammina liasi. Anche Taoka et al (1997) hanno rilevato che gli enzimi vitamina B12-dipendenti possono essere influenzati significativamente da campi elettromagnetici. Un altro lavoro ha mostrato come campi anche di pochi mT possano interferire nella reazione del pirene con il dicianobenzene. In quest’ultimo caso si producono consistenti quantità di radicali liberi che, nel momento in cui si ricombinano, emettono fluorescenza: l’intensità della fluorescenza generata dalla reazione fluttua in parallelo con le fluttuazioni del campo magnetico applicato alla soluzione (Hamilton et al., 1988). Nelle micelle alchil-sulfonate e alchil-solfate, dove la fonte di radicali in stato 18 tripletto veniva fornita dal benzofenone, l’applicazione un campo magnetico di un 1 mT aumenta la concentrazione di radicali liberi che sfuggono dalla micella in misura correlabile alla struttura ed al volume dello spazio in cui sono originariamente confinati; è probabile che effetti maggiori possano essere osservati per radicali provenienti da precursori singoletti (e non già tripletti), come avviene per la maggior parte delle reazioni biologiche (Eveson et al., 2000). Sono meno evidenti, invece, i risultati conseguiti su cellule integre. Campi di 0,1 mT a 60 Hz non sembrano influenzare significativamente l’innesco delle reazioni respiratorie e la produzione di radicali liberi nei linfociti di ratto, indotto dagli esteri del forbolo (Roy et al., 1995); anche la produzione di ossido nitrico da parte di macrofagi di topo non è sembrata essere influenzata da un ampio spettro di induzioni magnetiche (1-100 mT), anche se va sottolineato che la frequenza prescelta (1 Hz) probabilmente era inadeguata (Mnaimneh et al., 1996). Recentemente la scuola russa ha presentato i dati relativi al trattamento del germe di grano, esposto, durante la fase di rigonfiamento, a campi ELF a bassa intensità (0,2-1 µT): rispetto ai controlli, nel corso della fase finale del rigonfiamento, si osserva nei semi esposti al campo elettromagnetico una significativa inibizione del rilascio proteico in soluzione ed un sensibile ritardo di maturazione, probabilmente dovuto alla ricostituzione delle proteine di membrana e sicuramente in relazione all’aumentato rilascio di radicali liberi ed all’abbassamento del pH del mezzo (-0,4 pH), dovuto ad una accelerato trasferimento protonico (Aksenov et al., 2000). 3.4. Promozione tumorale Nella maggior parte dei casi, gli studi fin qui condotti non hanno consentito di rilevare un chiaro effetto diretto dei campi ELF sugli acidi nucleici e la probabilità che possano indurre una mutazione cromosomica tale da innescare direttamente l’attivazione di un qualche protooncogene sembra essere sprovvista di plausibilità, anche se l’effetto sulla cinetica di produzione dei radicali liberi può rivestire un ruolo importante a riguardo, ma che deve essere confermato e approfondito. E’ quindi sostenuto dalla maggior parte degli autori un ruolo cocancerogeno, sostenuto dall’ipotesi che i campi ELF potrebbero interferire con il processo di sviluppo neoplastico, aumentando le probabilità di proliferazione di cellule già in precedenza trasformate. Rannug et al. (1993) hanno studiato i topi trattati con DMBA ed esposti ad un campo sinusoidale di 50 Hz (con valori di induzione magnetica variabili da 50 a 500 µT), mantenuto per 20 ore al giorno per due anni. Nessun effetto cancerogeno è stato rilevato, anche se, in animali sottoposti ad un campo intermittente è stata registrata una più elevata, ma non significativa, comparsa di neoplasie cutanee. In ricerche successive (Mc Lean et al., 1991), condotte su un modello murino molto simile, in cui gli animali venivano trattati con DMBA e successivamente con TPA (un noto agente cocancerogeno), si è invece registrato un più elevato indice di comparsa di neoplasie nella fase iniziale di induzione, ma nessuna differenza rilevante nell’arco complessivo di tempo considerato. Risultati contraddittori sono stati pubblicati da Mevissen et al. (1993), i quali hanno registrato sia aumenti (+30%), sia diminuzioni nell’incidenza di tumori mammari in ratti esposti a campi di 50 Hz (30 mT) e trattati con DMBA. Va tuttavia sottolineato che le dimensioni ridotte dei campioni di questi lavori rendono dubbi i risultati conseguiti. I lavori successivi dello stesso gruppo, condotti con modelli metodologicamente più rigorosi, hanno confermato comunque come l’esposizione a campi ELF possa favorire la crescita della ghiandola mammaria di ratto (Loscher, 1993; Mevissen, 1996) e aumenti significativamente la frequenza di neoplasie indotte da DMBA (Thun-Battersby et al., 1999), anche se tale agente veniva somministrato in dosi subottimali, purché l’esposizione al campo (50 Hz, 100 µT) fosse adeguatamente prolungata (24 ore al giorno, per ventisette settimane); in questo modello sperimentale, al termine del trattamento con DMBA, l’incidenza di tumori mammari era del 64,7% nel gruppo esposto al campo ELF, rispetto al 50,5% registrato nei controlli trattati esclusivamente con il cancerogeno (p < 0,01). 19 3.5. Proliferazione cellulare L’ipotesi che i campi elettromagnetici possano influenzare la crescita e lo sviluppo di una neoplasia, implica che tale effetto possa essere mediato da un insieme di interferenze che coinvolgano una o più funzioni cellulari. Numerose ricerche sono state condotte per verificare il possibile ruolo dei campi ELF a riguardo. L’esposizione di linfociti umani stimolati con fitoemoagglutinina (PHA) a campi di 2,5 mT per sei ore (50 Hz) determina un maggiore reclutamento delle cellule nella fase di replicazione con un aumento del tasso di duplicazione del 20%; tale effetto, però, non si osserva se le stesse colture cellulari non vengono pretrattate con il mitogeno (Cossarizza et al., 1989). L’incremento è molto alto per i linfociti prelevati da soggetti adulti (+ 60%) ed ancora maggiore per i campioni prelevati da pazienti affetti da leucemia linfocitica cronica (+ 100%). E’ importante sottolineare come tale risultato sia stato confermato da uno studio indipendente che ha adottato le medesime condizioni sperimentali (Rosenthal & Obe, 1989); nei lavori in cui l’esperimento è stato riprodotto modificando il valore della frequenza (3 Hz) ed aumentando quello dell’induzione magnetica (4,5-6 mT), si è paradossalmente registrata, invece, un’inibizione della replicazione linfocitaria (Conti et al., 1985b; Mooney et al., 1986), suggerendo la probabile esistenza di una “finestra”, alquanto ristretta e definita da ben determinati valori di intensità e periodo, entro i quali è lecito attendersi un effetto promuovente sulla replicazione cellulare. Un effetto di promozione sulla proliferazione cellulare è stato segnalato anche in altri tipi cellulari. Cain et al. (1993) hanno osservato come esponendo colture di fibroblasti umani ad un campo di 60 Hz (0,1 mT) trattati con TPA si ottiene un numero doppio di foci di moltiplicazione, con un incremento del numero di cellule che entrano in mitosi del 200% circa. Un effetto promuovente la crescita di cellule neoplastiche è stato osservato da Wei et al. (2000), i quali, esponendo cellule di astrocitoma umano ad un campo di 60 Hz (3-12 mT per 3-72 ore), hanno amplificato la curva di crescita della coltura; il campo induceva un significativo incremento della frazione mitotica, valutandola sia in condizioni basali sia dopo somministrazione di due agonisti (il carbacolo, un agonista muscarinico, e l’estere del forbolo, PMA), mentre nessun effetto veniva esplicato su astrociti normali della corticale di ratto. La contemporanea aggiunta nel mezzo di coltura di un inibitore specifico della proteina chinasi C (PCK), sopprimeva la proliferazione indotta dal campo elettromagnetico, anche in presenza degli agonisti. Più complesso e articolato è invece l’effetto prodotto da campi ELF sulla crescita e la differenziazione degli osteoblasti umani. Lohmann et al. (2000) hanno osservato che esponendo cellule umane osteblasto-simili (MG63) ad un campo magnetico pulsante di 15 Hz si riduceva significativamente la proliferazione cellulare mentre, contemporaneamente, aumentava la sintesi della fosfatasi alcalina, dell’osteocalcina, del TGFβ-1 e del collagene – espressione inequivocabile di una più sostenuta differenziazione – rispetto a quanto rilevato nelle colture di controllo non esposte al segnale. Al termine dei quattro giorni le colture stimolate dal campo ELF presentavano piccole vescicole di matrice ossea, il che dimostra chiaramente non solo come le cellule umane siano sensibili alla modulazione di un campo elettromagnetico a bassa frequenza, ma anche come questo possa intervenire sui processi differenziativi e replicativi interferendo sulla sintesi ed il successivo rilascio di numerosi fattori enzimatici e di regolazione genica (come il TGFβ-1). In effetti, la capacità di stimolare i processi differenziativi è stata esaminata in diversi sistemi cellulari che, in presenza di un campo magnetico ad intensità crescente (da 0,1 µT a 0,1 mT) hanno mostrato una relazione dose-risposta, valutata sulla base della sintesi e del rilascio di TGFβ-1, una delle più importanti citochine preposte al controllo proliferativo ed alla differenziazione del fenotipo cellulare (Aaron et al., 1999). Inoltre, i campi ELF sollecitano selettivamente e specificamente l’espressione dei recettori di superficie dei linfociti e polimorfonucleati (PBMC) (Felaco et al., 1999). L’effetto è maggiore nelle colture pretrattate con PHA e si accompagna ad un maggior reclutamento in fase S dei PBMC. La differenza tra cellule esposte e non esposte è minima se si prende in considerazione la densità di distribuzione dei recettori CD, ed è 20 massima se si analizza – invece – la sintesi de novo di mRNA codificante per alcuni sottogruppi recettoriali, tra cui il CD4+ in primo luogo (Conti et al., 1999). I risultati prodotti da queste indagini stimolano due considerazioni: la natura della stimolazione (inibizione o promozione) esplicata sulla proliferazione cellulare dipende principalmente dalla frequenza e dall’intensità di campo applicata; l’effetto è pressoché nullo nelle cellule normali quiescenti, mentre è invece significativamente presente nelle cellule in replicazione fisiologica (come gli osteoblasti) o in fase di duplicazione sotto stimolo mitogenico (come i linfociti e le cellule tumorali). E’ pertanto probabile che l’effetto biologico esplicato dai campi ELF sia, da un lato, rigidamente correlato alla natura e alla durata dell’esposizione (intensità, frequenza, cronicità dello stimolo) e, dall’altro, dallo stato di attivazione funzionale dei tessuti esposti (cellule in fase di replicazione attiva o iniziate per cancerogenesi). Sono presenti – in realtà – effetti paradosso, riconducibili a differenze nei sottogruppi cellulari presi in considerazione, come accade per esempio con le cellule di feocromocitoma PC12 trattate con NGF (Nerve Growth Factor), o addirittura i campi elettromagnetici possono non produrre effetti rilevabili a carico della replicazione o dell’apoptosi, come è stato osservato per una linea staminale ematopoietica (FDPC) (Reipert et al., 1996; Reipert et al., 1997). E’ comunque importante osservare che, nella maggior parte dei lavori citati, l’effetto esplicato sulla crescita dei tessuti neoplastici è di tipo promovente e di intensità tale da sovrastare, in alcune condizioni, l’inibizione farmacologica esplicata da antagonisti specifici. Infatti, in uno studio condotto rigorosamente, in aderenza ad un modello semplice e riproducibile, Harland & Liburdy (1994) hanno osservato come l’esposizione continua ad un campo di 60 Hz (1,2 µT) sia in grado di sbloccare efficacemente l’inibizione citostatica esercitata dalla melatonina e dal Tamoxifen sulla crescita di cellule di carcinoma mammario umano (MCF-7). Va aggiunto, infine, come i campi ELF possano sensibilmente influire sulla replicazione mitotica e sul destino differenziativo cellulare agendo sul delicato equilibrio che normalmente regola i processi apoptotici. Campi magnetici statici a bassa intensità (0,6 mT – 6 mT) inibiscono in modo dose-dipendente l’apoptosi farmacologicamente indotta da una varietà di agenti chimici su diverse linee cellulari umane. L’effetto protettivo – che implica un rinvio indefinito della cascata enzimatica che prelude all’attivazione dei processi apoptotici – è strettamente dipendente dalla capacità del campo ELF di promuovere il trasferimento intracellulare di ioni Ca2+ dal mezzo extracellulare ed è limitato a quei sistemi cellulari in cui è stato dimostrato come l’afflusso di ioni Ca2+ abbia un ruolo anti-apoptotico. Sulla base di tali risultati, gli autori concludono sottolineando come “il recupero delle cellule danneggiate può rappresentare un meccanismo plausibile capace di spiegare come i campi magnetici, pur non essendo di per sé mutageni, possano essere spesso in grado di aumentare la frequenza di induzione di mutazioni e di tumori” (Fanelli et al., 1999). Uno studio successivo (Ghibelli et al., 2000), ha confermato tale dato anche a carico dei tessuti tumorali coltivati in presenza di agenti citotossici. L’esposizione a campi ELF (6 mT) di cellule di glioblastoma umano multiforme trattate con etoposide riduce infatti drammaticamente la percentuale di morte cellulare indotta dal farmaco: il tasso d’apoptosi passa dal 50% rilevato nelle colture non esposte, al 27% registrato in presenza di campi ELF. Questa nuova linea di ricerche, per le quali sono comunque necessarie conferme ed approfondimenti da parte di laboratori indipendenti, offre un’interpretazione semplice a sostegno del possibile ruolo oncogenetico dei campi elettromagnetici. La cautela è comunque d’obbligo, dato che anche in questo caso, l’effetto esplicato sembra essere strettamente dipendente dallo stato iniziale di attivazione della coltura cellulare considerata; uno studio condotto da Hisamitsu et al. (1997) ha infatti osservato come i campi a bassa frequenza (50 Hz), mentre non inducevano alcuna sensibile frammentazione dei nucleosomi a DNA (un marker biochimico dell’apoptosi) a carico di linfociti umani e cellule polimorfonucleate circolanti, la stessa esposizione faceva invece aumentare il tasso di apoptosi nelle cellule leucemiche (linee HL-60 e ML-1), già dopo un’ora di stimolazione. Similmente, Santini et al. (2005) hanno osservato un aumento dei metaboliti 21 propri di processi apoptotici in cellule eritroleucemiche K562 esposte per due ore a campi ELF di 1 e 5 mT. 3.6. Espressione genica La possibilità che i campi ELF possano interferire con i meccanismi di regolazione e di espressione genica ha sollevato grande interesse per le evidenti implicazioni derivanti da tale ipotesi. Nelle cellule linfoblastoidi, l’esposizione ad un campo di 60 Hz (100 µT, per 30 minuti) induce quasi immediatamente un’accentuata trascrizione del gene FOS (da 2 a 5 volte rispetto ai controlli) che torna a livelli normali dopo circa un’ora. Nello stesso esperimento risultava maggiormente espresso il gene MYC, mentre il gene JUN presentava un comportamento bifasico, caratterizzato da una ridotta espressione (-70%) nel corso dei primi 30 minuti, e da un incremento del 200-220% dopo circa un’ora. Queste modificazioni si accompagnavano in parallelo ad un sostenuto incremento nel rilascio della PCK, i cui livelli presentavano un picco tra i 15 e i 30 minuti dall’esposizione. La concatenazione di attivazione genica sembra ricalcare fedelmente quanto avviene in corso di stimolazione mitogenica: l’induzione del gene FOS è rapida e transitoria, quella del gene MYC consegue secondo un ritmo analogo a quello osservato in corso di stimolazione con agenti proliferativi, sebbene presenti livelli di espressione relativamente più piccoli. Questi dati, dunque, depongono a favore dell’ipotesi per la quale i campi ELF possono innescare una cascata di segnali che porta all’attivazione mitogena. Gli studi successivamente condotti in quest’ambito (Goodman et al., 1994; Lin et al., 1994; Lin & Goodman, 1995) hanno di fatto sostanzialmente confermato questi primi risultati. I due autori hanno rilevato, nelle cellule HL60, un aumentato livello di trascrizione del gene MYC, della β-actina e dell’istone H2B, pari a tre volte il valore normale, dopo esposizione per 20 minuti a cinque distinti tipi di segnale elettromagnetico (45< ν <72, 0,5< µT < 570). E’ difficile correlare esattamente, secondo un modello lineare, l’intensità della stimolazione esplicata dalle diverse esposizioni ad un modello basato sulla curva dose-effetto, anche se risulta chiaro che la risposta viene ad innescarsi dopo 4 minuti, per diventare quindi massima dopo circa 20 minuti e tornare a valori di controllo dopo quattro ore. Un comportamento analogo è stato rilevato dagli stessi autori a carico di numerosi altri tipi di cellule, esposte a campi a basse frequenze (60 Hz) e bassi valori di induzione magnetica (5,7 µT – 1,1 mT): l’espressione genica viene stimolata nei lieviti, nelle cellule di mieloma di topo e in tre distinti citotipi umani. In nessun caso sono state osservate cellule insensibili agli effetti di tali campi. In studi più recenti, Tao & Henderson (1999) hanno ulteriormente sottolineato l’importanza dei campi ELF nel promuovere processi differenziativi a carico dello stesso citotipo (HL60) che, se esposto ad un campo di 0,1 mT (60 Hz) anche per brevi periodi, acquisisce attività fagocitica così come accade qualora la medesima sospensione cellulare viene ad essere trattata con sostanze cocancerogeniche quali il TPA; il fatto che i campi ELF e concentrazioni sub-ottimali di TPA esplichino congiuntamente un’azione additiva sulla differenziazione cellulare induce gli autori a ritenere che entrambi i fattori condividano un comune target biochimico. L’importanza dei risultati conseguiti da Goodman e Henderson ha riscosso grande interesse, ma ha anche sollevato alcune perplessità, data l’assoluta univocità dei dati presentati. Gli studi finora condotti da altri laboratori (Lacy-Hubert et al., 1995a; Lacy-Hubert et al., 1995b; Saffer & Thurston, 1995a; Saffer & Thurston, 1995b) non hanno consentito di confermare i risultati dei due autori, a dispetto del rigore e delle precauzioni che sono state adottate e che hanno alimentato un articolato e prolungato dibattito. Riassumendo le posizioni assunte dai diversi gruppi di ricerca, Berg (1999) ha recentemente stigmatizzato come esistano profonde discrepanze tra i risultati conseguiti da non meno di sette distinti laboratori per quanto riguarda rilevanti aspetti relativi agli effetti dei campi magnetici a bassa induzione (<0,05 mT) sull’espressione genica (c-myc, c-fos, β-actina, istone 2B, URA-3) delle linee cellulari HL60, elencando un’insieme di possibili cause: differenze nelle procedure di isolamento e 22 frazionamento biochimico; fenomeni di interferenza mal controllabili nell’ambito dei campi magnetici a bassissima intensità; parametri di campo di ampiezza eccessivamente limitata che non consentono di costruire curve dose-risposta attendibili. Rimane, quindi, da chiarire se esiste un ambito di parametri di campo per i quali possa essere supposta l’esistenza di un nesso di causalità tra esposizione magnetica e fenomeni biologici osservati, qual’è il target biochimico su cui si esplica principalmente l’azione dei campi ELF e, infine, qual’è il ruolo e l’influenza che il “rumore” termico ed elettromagnetico proveniente da altre fonti esplica sull’efficienza del campo ELF. A riguardo, sembrano più indicativi gli studi condotti sull’attivazione dei proto-oncogeni e delle chinasi a questi correlate. Nel primo studio realizzato da Uckun et al. (1995), l'attività della chinasi LYN espressa da una linea cellulare di linfociti B è stata stimolata da un campo di 100 µT (60 Hz). L’effetto è risultato rapido (già dopo 2 minuti dall’esposizione) e significativo. I risultati documentati dallo studio rivestono un’importanza considerevole non solo per il rigore con cui sono stati condotti, ma anche perché la linea cellulare presa in considerazione può costituire un ottimo modello di prelinfoma. La LYN-chinasi è nota per essere innescata in seguito ad esposizione a radiazioni ionizzanti (nelle cellule HL-60) e costituisce un marker di innesco di una reazione proliferativa che può preludere alla trasformazione carcinomatosa. Anche altre proteine della stessa famiglia (SRC, FIN e YES) sono note per la loro estrema sensibilità a condizioni di stress biochimico e la loro attivazione si associa a quella del recettore per il PDGF, insieme al quale concorrono ad innescare l’espressione del gene MYC. Un ampio studio condotto da Loberg et al. (2000) sull’espressione di diversi oncogeni ha permesso di rilevare come l’esposizione ai campi ELF possa esplicare un’azione selettiva e differenziata, sebbene non sia possibile identificare uno specifico target genetico. Sono state prese in considerazione colture di cellule umane normali (HME) e trasformate (HBL-100), così come cellule di leucemia promielocitica, esposte per 24 ore ad un campo di 60 Hz, con valori variabili da 0,01 a 1 mT. L’attivazione di numerosi oncogeni è risultata significativamente influenzata dal campo ELF, in alcuni casi con incrementi a carico della trascrizione pari al 150-250%, mentre per altri geni è stata osservata una diminuzione anch’essa significativa (-50%). Tuttavia, non è stata registrata alcuna differenza rilevante tra le tre diverse colture cellulari rispetto alla stimolazione indotta, nel senso che le cellule in esame, tanto quelle normali, quanto quelle “iniziate” o neoplastiche, hanno mostrato di rispondere nello stesso modo alla sollecitazione messa in essere, senza che fosse possibile individuare una espressione specifica a carico di una o più sequenze geniche. Questa considerazione, insieme al fatto che non è stata individuata alcuna relazione dose-risposta tra intensità dello stimolo ed entità della risposta, ha indotto gli autori a concludere che la ricerca non ha consentito di individuare per i campi ELF un target genico plausibile. Uno studio più recente (Romano-Spica et al., 2000), condotto assumendo come modello quello dell’interferenza dei campi ELF con la risonanza ciclotronica del calcio, ha invece individuato un probabile oncogene – l’Est1 - che viene ad essere attivato selettivamente in seguito ad esposizione alle onde elettromagnetiche. Stimolando due distinte culture di cellule ematopoietiche e testicolari (cellule di Leydig), in presenza di un campo a 50 MHz, modulato per l’80% a 16 Hz ortogonale al campo magnetico statico, si è osservata una incrementata espressione dell’mRNA Ets1-correlato tanto nelle cellule linfoblastoidi Jurkat, quanto nelle Leydig TM3. L’effetto è rilevabile esclusivamente per un intervallo di valori ben definito (16 Hz, 0,2-0,4 µT con un campo costante di 45,7 µT); ciò mette in rilievo come, probabilmente, gli effetti biologici dei campi ELF siano vincolati ad un insieme di variabili di campo che individuano un codice informazionale a cui una o più componenti della cellula sono sensibili. 3.7. Attivazione enzimatica Numerose ricerche sono state condotte per evidenziare se e come i campi elettromagnetici a bassa frequenza possano interferire con la sintesi e/o l’attivazione di un complesso di sistemi 23 enzimatici coinvolti nei processi di replicazione e/o differenziamento cellulare. La ornitindecarbossilasi (ODC) è un enzima inducibile tanto da agenti mitogeni (come il TPA), quanto da segnali intracellulari, e i suoi livelli aumentano velocemente in tutti i tessuti in fase di attiva replicazione. Linee cellulari ottenute da linfomi umani, così come le cellule di mieloma di topo, presentano valori di ODC 4-5 volte superiori rispetto alla norma, già dopo un’ora di esposizione ad un campo di elettrico di 1 V/m (60 Hz) (Byus et al., 1987). Risultati simili sono stati ottenuti su altre linee cellulari in condizioni di esposizione simili (Litowitz et al., 1991; Litowitz et al., 1994), caratterizzate da valori di induzione magnetica non superiori a poche decine di microtesla. Molti studi hanno evidenziato come i campi ELF stimolino sia l’uptake della uridina da parte delle cellule, sia l’incorporazione di questa nella sintesi exnovo di RNA. Uno studio di Greene et al. (1991) ha evidenziato un incremento superiore al 60% nell’incorporazione di uridina da parte di cellule leucemiche HL-60 esposte ad un campo di 1 mT (60 Hz) per 1 ora. Azadniv & Miller (1992), che hanno provato a replicare lo studio nelle stesse condizioni, non hanno potuto rinnovare tale risultato, anche se conferme positive sono venute dai lavori di Goodman et al. (1989) e Phillips et al. (1992). Il primo ha rilevato una accentuata sintesi di mRNA nella ghiandole salivari esposte a campi di diversa intensità e frequenza, senza riuscire tuttavia ad evidenziare come l’incorporazione di uridina costituisse il target specifico della stimolazione magnetica, mentre il secondo ha evidenziato che i livelli di uptake ed incorporazione della base azotata aumentano di 2-3 volte a seguito di brevi esposizioni (2 ore) a campi pulsanti di 3,5 mT. In accordo con tali risultati, sono i dati prodotti da Shvetsov et al. (1998), che hanno rilevato come esponendo virus del Sarcoma di Rous a campi elettromagnetici alternanti, calibrati sulla frequenza di risonanza ciclotronica degli amminoacidi ionizzati, si ottiene un’inattivazione funzionale della trascrittasi inversa. 3.8. Teratogenesi Anche se la maggior parte degli studi finora condotti sono finalizzati ad indagare la possibile associazione fra campi elettromagnetici e patologie neoplastiche, sono in costante aumento le ricerche volte a rilevare eventuali proprietà teratogene (Brent, 1999; Levin, 2003). Furuya et al. (1998), hanno rilevato come – esponendo topi a campi magnetici di 50 Hz con un’intensità di 1 mT – si osservasse un aumento di testosterone nel siero a partire dal 13° giorno di esposizione ed una riduzione della proliferazione e della differenziazione della spermatogonia dal 26° giorno. Uno studio condotto sullo sviluppo in vitro di follicoli murini, inoltre, ha evidenziato che i campi ELF potrebbero ridurre la capacità di questi di raggiungere uno stadio di sviluppo, il che è un prerequisito essenziale per il successo riproduttivo (Cecconi et al., 2000). Per quanto riguarda la teratogenesi vera e propria – ossia lo sviluppo di deformazioni e anomalie durante la vita embrionale e fetale, nonché la presenza di aborti o riassorbimenti – i numerosi lavori svolti hanno prodotto risultati contrastanti. Se da un lato ciò deve spingere ad un più rigoroso disegno sperimentale (e, soprattutto, ad un aumento della popolazione campionaria), dall’altro viene sollevato nuovamente il problema della confrontabilità degli esperimenti. Questi, infatti, presentano una notevole eterogeneità, non solo per gli endpoint studiati, ma soprattutto per le modalità di esposizione. A parte la natura del campo applicato (frequenza e intensità), negli studi di teratogenesi è fondamentale il periodo di esposizione. L’organogenesi, infatti, ha dei tempi precisi ed esposizioni durante tutta la gravidanza, durante la sua ultima parte, oppure durante la vita embrionale o quella fetale, interesseranno processi ontogenetici diversi. Studiando le conseguenze dell’esposizione a campi magnetici ELF durante i primi 5-7 giorni di gravidanza (in un modello murino), Svedenstål & Johanson (1995) non hanno rilevato effetti né sulla frequenza di riassorbimenti, né sui livelli di calcio e progesterone nella madre. Anche Ohnishi et al. (2002) e Huuskonen et al. (1998) non hanno riscontrato effetti per quanto riguarda perdite di impianti, numeri di feti vivi, sex ratio, peso dei feti vivi, né sulla frequenza di feti esternamente anomali; tuttavia, hanno rilevato un aumento della frequenza di 24 feti con anomalie scheletriche e viscerali. Anche Mevissen et al. (1994) hanno riscontrato un aumento significativo di anomalie scheletriche minori in ratti esposti a 30 mT durante la gravidanza. Inoltre, Hassa et al. (1999), in seguito all’esposizione di ratte ad un campo verticale di 50 Hz e orizzontale di 20 KHz, di 10 mG, per 8 ore al giorno per i primi 20 giorni di gravidanza, hanno osservato anomalie maggiori e minori ed un ritardo dell’ossificazione dei feti. Un altro studio (Lee et al., 2000), condotto esponendo continuamente tre generazioni di topi a campi di 60 Hz a valori consentiti dalla normativa internazionale (0,5 mT), ha rilevato nei feti della terza generazione frequenti anomalie del sistema cardiovascolare e del cervello, in particolare cortecce cerebrali disorientate e primitive e frequenti segni di apoptosi in questi tessuti. E’ interessante aggiungere a questi studi anche quello effettuato da Rodriguez et al. (2003) su vacche da latte, che ha evidenziato come l’esposizione a campi elettromagnetici possa aumentare la durata del ciclo mestruale. Va infine ricordato, anche se non si tratta di teratogenesi propriamente detta, lo studio di Freeman et al. (1999), che ha rilevato, nelle foglie di piante di soia cresciute sotto tralicci da 675 kV, un maggiore livello di asimmetria fluttuante rispetto alle piane distanti 100 metri. 3.9. Ematologia I primi studi sugli effetti ematologici sono stati effettuati in Unione Sovietica su individui professionalmente esposti: nel sangue di lavoratori impiegati in centrali di trasformazione da 500 kV sono stati osservate moderata trombocitopenia, leucocitosi, linfocitosi, monocitosi, tendenza alla reticolopenia, diminuzione di emoglobina e del numero di eritrociti, ritardo nel tasso di sedimentazione (Asanova et al., 1963). Recentemente, invece, Stelletta et al. (2004) hanno riscontrato modificazioni degli antigeni sulla superficie dei linfociti T di mucche allevate vicino a linee di trasmissione a 380 kV, con un’intensità di campo di 1,98-3,28 µT. Studiando globuli rossi di coniglio, Fiorani et al. (1997) hanno rilevato – solo per valori superiori a 500 µT – un aumento di metemoglobina. Un altro studio, condotto su ratti albini (Ali et al., 2003) esposti per un mese ad un campo di 200 µT, ha riscontrato modifiche strutturali nelle molecole di emoglobina, diminuzione di elasticità e permeabilità degli eritrociti ed un deterioramento delle funzioni midollari. Inoltre, Bonhomme-Faivre et al. (1998), hanno rilevato in topi esposti – dopo 20 giorni – una diminuzione di leucociti, eritrociti, linfociti, monociti, emoglobina ed ematocrito; viceversa, hanno registrato anche valori maggiori di MCV (volume corpuscolare medio) negli esposti rispetto ai controlli, un dato che suggerisce un’anemia macrocitica forse dovuta a deficienza di folato o vitamina B12. Taoka et al. (1997) hanno rilevato la soppressione di reazioni enzimatiche vitamina B12-dipendenti, osservando emolisi e disturbi somiglianti ai sintomi di deficienza da vitamina B12. Merita attenzione, infine, l’esperimento di Vallejo et al. (2001) che, esponendo per due generazioni topi OF1 (un ceppo con scarsa incidenza di leucemia) ad un campo di 50 Hz e 15 µT, hanno osservato un’alta incidenza di disordini leucoproliferativi, in particolare di leucemie croniche e linfocitiche 3.10. Genotossicità Diverse ricerche hanno indagato le proprietà genotossiche dei campi magnetici. Alcuni studi sono stati compiuti su campioni prelevati da individui professionalmente esposti: sono stati riscontrati aumenti delle frequenze di micronuclei ed aberrazioni cromosomiche in linfociti di operatori di macchine fotocopiatrici (Iravathy Goud et al., 2004) e di addetti alle linee elettriche e ferroviarie (Nordenson et al., 1984; Nordenson et al., 1988; Skyberg et al., 1993; Valjus et al., 1993; Nordenson et al., 2001). 25 Più numerosi sono gli studi condotti in laboratorio (soprattutto, in vitro). Diverse ricerche hanno negato l’ipotesi che i campi magnetici ELF posseggano proprietà genotossiche (cfr. Vijayalaxmi & Obe, 2005). Huuskonen et al. (1998) non hanno rilevato un aumento di eritrociti micronucleati in topi adulti esposti per 18 giorni ad un campo magnetico di 13 µT; lo stesso risultato è stato ottenuto da Svedenstål & Johanson (1998) con topi adulti esposti per 90 giorni ad un campo di 14 µT e da Abramsson-Zetterberg & Grawé (2001), usando un campo della medesima intensità per 21 giorni, sia in topi adulti che neonati. Maes et al. (2000) hanno esposto linfociti umani (a diverse intensità, fino a 2,5 T), senza trovare alcun effetto significativo per quanto riguarda aberrazioni cromosomiche (CA), scambi di cromatidi fratelli (SCE) e rotture del filamento singolo (SSB). Inoltre, Mc Namee et al. (2002) hanno riportato un’assenza di effetti significativi sui livelli di rotture del DNA in cellule cerebellari di topi immaturi esposti ad un campo magnetico di 60 Hz ed 1 mT per 2 ore; anche Testa et al. (2004) non hanno rilevato danni al DNA (utilizzando molti saggi citogenetica) in emazie umane esposte in vitro per 48 ore ad un campo magnetico di 50 Hz ed 1 mT. D’altro canto, diversi studi hanno riscontrato risultati positivi solo in condizioni di coesposizione con altri agenti mutageni: campi magnetici statici (Tofani et al., 1995; Miyakoshi et al. 2000), benzopirene (Cho & Chung, 2003; Moretti et al., 2005), raggi X (Ding et al., 2003) e vinblastina (Verheyen et al., 2003). Questi risultati hanno prodotto una diffusa opinione – ovviamente non da tutti condivisa – secondo la quale i campi magnetici ELF sarebbero in grado di amplificare, ma non di iniziare, un evento mutageno. Tuttavia, proprio in quest’ultimissimo periodo, stanno aumentando le pubblicazioni di ricerche che rilevano proprietà genotossiche dei campi magnetici ELF in assenza di altri agenti, sia in seguito ad esposizioni in vivo, che in vitro. Lai & Singh (1997a; 1997b; 2004), esponendo ratti, sia per 2 che per 48 ore, a campi magnetici di 60 Hz, di 10, 100 e 500 µT hanno rilevato aumenti di rotture al singolo ed al doppio filamento di DNA nelle cellule cerebrali. Risultati simili sono stati ottenuti da Svedenstål et al. (1999) con cellule cerebrali di topi CBA esposti per 14 giorni a 500 µT. Lai & Singh, inoltre, hanno dimostrato che il danno al DNA veniva evitato pretrattando i ratti con melatonina, N-terz-butil-α-fenillnitrone (Lai & Singh, 1997b), Trolox (un analogo della vitamina E) o 7-nitroindazolo (un inibitore della sintetasi dell’ossido nitrico) – suggerendo quindi un coinvolgimento dei radicali liberi nel meccanismo d’azione dei campi ELF – ed anche con il chelante deferiprone, indicando quindi anche un coinvolgimento del ferro (Lai & Singh 2004). Anche Zmyslony et al. (2000) hanno rilevato un aumento di rotture del DNA in linfociti di ratto esposti ad un campo di 50 Hz e 7 mT in presenza di cationi di ferro. Yokus et al. (2005) hanno invece evidenziato un aumento significativo di 8-idrossi-2’-deossiguanosina (indicativo di un danno ossidativi al DNA) nel plasma di ratti esposti a 970 µT per 50 giorni. Anche Wolf et al. (2005) hanno osservato in cellule leucemiche HL-60, fibroblasti Rat-1 e fibroblasti diploidi WI-38 un picco di rotture del DNA e di formazione di 8-idrossi-2’-deossiguanosina, dopo 24 e 72 ore di esposizione a campi magnetici di 0,5 e 1 mT. Un altro studio, condotto su cellule murine m5S, ha evidenziato un aumento significativo – e dose-dipendente – di aberrazioni cromosomiche di tipo cromatidico per intensità di 5, 50 e 400 mT (Yaguchi et al., 2000). Ivancsits et al. (2002, 2003a, 2003b) hanno rilevato un aumento di rotture al singolo ed al doppio filamento di DNA in fibroblasti umani esposti intermittentemente (5’ on/ 10’ off) ad un campo magnetico di 50 Hz ed 1 mT. Inoltre, Pasquini et al. (2003) hanno osservato un aumento nella frequenza di micronuclei in cellule Jurkat esposte per 24 ore ad un campo di 5 mT e 50 Hz. Infine, Winker et al. (2005) hanno rilevato un aumento, dipendente dal tempo, di micronuclei in fibroblasti diploidi umani, che si è rivelato significativo dopo 10 ore di esposizione intermittente (5’ on/ 10’ off) ad un campo magnetico con intensità di flusso di 1 mT. Malgrado siano numerose le ricerche sui possibili danni prodotti dai campi magnetici all’integrità genomica, pochissimi sono gli studi per quanto riguarda l’induzione di aneuploidia, ovvero la perdita di interi cromatidi o cromosomi. Anche per quanto riguarda le radiofrequenze, finora sono stati pubblicati solo tre studi, i quali hanno rilevato un aumento 26 significativo della monosomia per diversi cromosomi (Othman et al., 2001; Aly et al., 2002; Mashevich et al., 2003). Sugli effetti aneugenici dei campi magnetici ELF, invece, le ricerche pubblicate sono solo tre: due in condizione di co-esposizione con un noto veleno del fuso – la vinblastina – ed un altro con i raggi X. In quest’ultimo, Ding et al. (2003) rilevarono che un campo magnetico di 5 mT, a 60 Hz, induceva un aumento significativo di micronuclei CREST-positivi in cellule CHO precedentemente esposte ai raggi X. Verheyen et al. (2003) hanno riscontrato un aumento statisticamente significativo di micronuclei (senza però discriminare fra quelli contenenti un intero cromosoma o un frammento di esso) in linfociti umani esposti a 80 e 800 µT. Mailhes et al. (1997), infine, hanno rilevato un aumento dell’iperploidia in oociti murini. Si può affermare, quindi, che – malgrado la perdita di cromosomi sia correlata a sindromi mielodisplastiche (Boultwood & Fidler, 1995; Wyandt et al., 1998), tumori solidi (Sandberg, 1990) e leucemia (Neben et al., 2003) – il problema dei possibili effetti aneugenici dei campi magnetici ELF non è ancora stato preso seriamente in considerazione dalla comunità scientifica. 27 4. IL TEST DEI MICRONUCLEI 4.1 Descrizione citologica I micronuclei sono residui nucleari, contenenti cromosomi interi o frammenti di essi: hanno 1 1 forma rotonda o ovale, con un diametro che varia da /20 a /5 del diametro cellulare, a seconda della quantità di cromatina contenuta. Tuttavia, alcuni micronuclei sono così piccoli da poter essere rilevati solo con metodi di microscopia elettronica (Stich et al., 1990). Si trovano nel citoplasma, fuori dal nucleo, a cui assomigliano per forma, struttura e caratteristiche di colorazione. Queste inclusioni possono trovarsi pressoché in ogni tipo di cellula, sia somatica che germinale. Un frammento di cromatidio, prodotto di un evento clastogeno, non viene correttamente segregato all’anafase, essendo acentrico (cioè privo di centromero) e quindi non verrà incluso in uno dei nuclei delle due future cellule figlie (Heddle & Carrano, 1977). D’altronde se durante l’anafase il fuso subisce un danno (di tipo aneugenico) sarà un intero cromosoma a venire malsegregato durante la cariocinesi. In questo modo, nella cellula figlia, oltre al nucleo, si troverà anche un micronucleo. E’ possibile che una cellula contenga più di un micronucleo, ma la presenza di questi in numero superiore o pari a 3 viene considerato sintomo di apoptosi. Diversamente dai danni rilevabili solo nei cromosomi visibili, cioè nelle cellule mitotiche, i micronuclei sono visibili in qualsiasi momento del ciclo cellulare. La presenza di micronuclei è più facilmente rilevabile negli eritrociti di mammiferi, essendo questi delle cellule anucleate. Essi, infatti, sono noti da circa un secolo in ematologia (Howell, 1981; Jolly, 1907) come corpi di Howell-Jolly e non vanno confusi con altre inclusioni intraeritrocitiche, come i corpi Heinz (precipitati di emoglobina dovuti a danni ossidativi), gli anelli di Cabot (residui del fuso mitotico), i corpi di Pappenheimer (granuli ferrosi) o parassiti (Plasmodium, Babesia, Anaplasma). 4.2 Test dei micronuclei Le prime osservazioni su corpi citoplasmatici contenenti materiale nucleare e la cui origine fu attribuita a danni cromosomici furono compiute su spermatozoi murini (Brenneke, 1937) e cellule meristematiche (Thoday, 1951). Per la prima volta, l’induzione di micronuclei fu dimostrata da Evans et al. (1959) su apici radicali di Vicia faba. Successivamente, Fliedner et al. (1964) riportarono l’induzione di “cariomeri” (ovvero micronuclei) nel midollo di pazienti irraggiati. Successivamente, Schmid (Matter & Schmid, 1971) ha messo a punto il test dei micronuclei: le proprietà genotossiche di una sostanza vengono valutate in base alla capacità di aumentare la frequenza di eritrociti micronucleati nel midollo osseo di roditori di laboratorio. Il conteggio avveniva sugli eritrociti policromatici (PCE), cioè su quei globuli rossi immaturi (ma già anucleati) che ancora contengono Rna ribosomiale nel proprio citoplasma. Successivamente, vista la relativa semplicità di questo test e la sua sensibilità, il numero di specie utilizzato per questo saggio mutagenetico è costantemente aumentato. Oltre a quelle vegetali (Guimarães et al., 2000), vanno segnalati i molluschi (Bolognesi et al., 2004), i pesci (Ieradi et al., 1996a; Cavas & Ergene-Gozukara, 2005), gli anfibi (Zoll-Moreux & Ferrier, 1999), gli uccelli (Bhunya & Jena, 1996) e, ovviamente, i mammiferi. L’alto numero di specie utilizzate è dovuto al fatto che il test dei micronuclei è stato spesso impiegato per studi di biomonitoraggio. Tuttavia, anche in laboratorio, l’utilizzo di più specie è una buona prassi, in quanto la sensibilità a diverse sostanze può essere specie-specifica (Friedman & Staub, 1977; Madle et al., 1986). Il test dei micronuclei è stato applicato, sia in vivo che in vitro, su diversi tipi di cellule di mammiferi: mucociti umani (Nersesyan & Adamyan, 2004), cellule uroteliali (Basu et al., 2004), linfociti umani (Almassy et al., 1987; Crebelli et al., 2002), di bovini (Scarfi et al., 1993; Piesova & Sivikova, 2003), di ovini (Sutiakova et al., 2004) e di cani 28 (Catena et al., 1994), eritrociti di ungulati (Ludewig et al., 1991; Balode, 1996; Cristaldi et al., 2004), di gatti (Zuñiga-Gonzalez et al., 1998) e di conigli (Willems et al., 1982), e nei roditori, su spermatidi (Allen et al., 2000), cellule epiteliali intestinali (Fenech & Neville, 1993), macrofagi alveolari (Voitovich et al., 2003), pneumociti (Whong et al., 1990), nefrociti (Robbiano et al., 2004), epatociti (Uryvaeva, 1993), splenociti (Stephanou et al., 1998; Sawant et al., 2001), ma, soprattutto, eritrociti. Infine, il test è stato validato nel 1997 (metodo OECD TG 474, Mammalian Erythrocyte Micronucleus Test) e recepito nella legislazione europea (Direttiva 2000/32/CE). In questo modo è stato possibile sia il monitoraggio ambientale di siti più o meno contaminati, sia lo studio delle proprietà mutagenetiche di un numero considerevole di sostanze: il test dei micronuclei, dopo la sua validazione, è ormai uno dei saggi normalmente usati in tossicologia per studiare i composti chimici o i nuovi prodotti farmaceutici. Fino ad oggi, esso è servito per dimostrare gli effetti mutageni di numerosi composti chimici (Shelby et al., 1993; Narayana et al., 1999), radionuclidi (Cristaldi et al., 1990; Cristaldi et al., 1991), raggi X (Jenssen & Ramel 1978; Sutter et al., 1985), raggi gamma (Uma Devi et al., 1998). E’ inoltre da sottolineare che il test dei micronuclei non consiste nella semplice osservazione di cellule micronucleate, bensì nel rilevamento dell’aumento della frequenza di tali cellule rispetto alla frequenza considerata normale per la specie utilizzata. A tale scopo, va ricordato che la frequenza di eritrociti micronucleati aumenta in molte patologie legate ai tessuti ematico e mieloide, quali mielodisplasia (List & Doll, 1999), anemia emolitica (Soderstrom & Berg, 1970), perniciosa (Olinici et al., 1980) e megaloblastica (Knuutila 1979), leucemia (Hogstedt et al., 1981), istiocitosi (Tatsumi et al., 1988) ed infezioni quali anaplasmosi e babesiosi (Ormiston et al., 1989). Infatti, in quelle patologie in cui si assiste alla distruzione degli eritrociti, l’accelerazione dell’eritropoiesi comporta un esaurimento delle scorte di acido folico e di vitamina B12, la cui assenza – come dimostrato da Fenech (Fenech & Crott, 2002) – induce un danno genotossico. Effetto che quindi può originarsi anche da una carenza alimentare di queste due molecole essenziali per la formazione dei globuli rossi. Va infine aggiunto, però, che aberrazioni simmetriche, come traslocazioni e inversioni, non vengono rilevate in quanto non portano alla formazioni di micronuclei (Heddle et al., 1983). 4.3. Midollo osseo Ad oggi, le cellule su cui è più facilmente applicabile il test dei micronuclei sono gli eritrociti dei mammiferi. Questi possono essere prelevati dagli organi emopoietici: nella quasi totalità dei mammiferi adulti, il principale tessuto emopoietico è il midollo osseo. La maggior parte delle ricerche tossicologiche che fanno uso di questo test, utilizzano proprio il midollo osseo dei roditori. Fra queste, numerosissime sono quelle svolte con campioni prelevati da Mus domesticus (Matter & Schmid, 1971; Holden et al., 1997) e Rattus norvegicus (Matter & Schmid, 1971; Holden et al., 1997), ma anche Cricetulus griseus (Matter & Schmid, 1971), Mesocricetus auratus (Matter & Schmid, 1971; Friedman & Staub, 1977), Cavia porcellus (Matter & Schmid, 1971), Mus spretus (Ieradi et al., 1998; Udroiu, 2002), Rattus rattus (Cristaldi et al., 1985), Apodemus flavicollis (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Ieradi et al., 2003), Apodemus sylvaticus (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Cristaldi et al., 1985), Clethrionomys glareolus (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Ieradi et al., 2003), Microtus agrestis (Abramsson-Zetterberg et al., 1997), Peromyscus leucopus (Meier et al., 1999), Ctenomys torquatus (da Silva et al., 2000), Akodon montanus e Oryzomys nigripes (Bueno et al., 2000). Restano ancora pochi, invece, gli studi condotti con campioni prelevati da specie di altri ordini: Cryptoptis parva (Meier et al., 1999), Oryctolagus cuniculus (Willems et al., 1982), Sus scrofa (Ludewig et al., 1991; Cristaldi et al., 2004), Bos taurus (Cristaldi et al., 2004), Ovis aries (Cristaldi et al., 2004), Equus caballus (Cristaldi et al., 2004), Canis familiaris (MacGregor et al., 1992), Uomo (Jensen & Huttel, 1976; Tanaka et al., 1984). 29 4.4. Fegato fetale Durante l’ontogenesi dei mammiferi, altri organi svolgono la funzione emopoietica prima del completo sviluppo del midollo osseo. Fra questi vi è il fegato, che partecipa alla produzione di emazie durante la vita fetale (Sasaki & Matsumura, 1987; Keller et al., 1999; Rassokhin, 2002) e – in diverse specie – anche durante il periodo neonatale. In questo modo, Cole et al. (1981) hanno attuato, su topi di laboratorio, una variante del test dei micronuclei noto come ‘trasplacentare’: questo prevede l’esposizione della madre e successivamente il rilevamento della frequenza degli eritrociti micronucleati nel fegato dei feti. Gli autori hanno indicato questo test come più sensibile del convenzionale test dei micronuclei sul midollo osseo, nel rilevare un danno genotossico. Infatti, questo saggio può individuare le proprietà mutageniche di sostanze risultate non mutagene con il test convenzionale dei micronuclei, in quanto alcune classi di mutageni non vengono attivate nel midollo osseo (Trzos et al., 1978). E’ quindi importante sottolineare che la grande sensibilità di questo test è dovuta al fatto che il fegato (di feti e neonati) è l’organo in cui avvengono sia l’emopoiesi che l’attivazione dei promutageni. Il test dei micronuclei trasplacentare ha avuto una vasta applicazione in laboratorio, quasi esclusivamente su topi (Chorvatovičova & Ujhazy, 1995; Goncharova et al., 2001), raramente su ratti (Fumero et al., 1981; Maura et al., 1994) o su animali selvatici (Tommasi et al., 1990). Inoltre, alcune ricerche sono state effettuate sui neonati, esposti durante la vita fetale (GomezMeda et al., 2004) o subito dopo la nascita (Kašuba et al., 2002; Bishop et al., 2004), rilevando un’elevata sensibilità del test non solo a causa dell’emopoiesi epatica, ma anche perché nel periodo neonatale si osserva un’accelerazione dell’eritropoiesi, condizione che aumenta la sensibilità agli agenti mutageni (Bishop et al., 2004). 4.5. Milza Nella maggior parte dei mammiferi, la funzione emopoietica della milza è confinata al periodo perinatale (Tischendorf, 1969; Tanaka, 1998); in quest’organo, però, avviene la maturazione degli eritrociti policromatici (Blue & Weiss, 1981), ovvero di quei globuli rossi immaturi contenenti ancora il reticolo ribosomiale. Tuttavia, nei Roditori, sebbene il sito principale della produzione di emazie sia il midollo, l’emopoiesi splenica continua anche durante la vita adulta (Wolber et al., 2002). Per questo il test dei micronuclei, oltre che sugli splenociti (Stephanou et al., 1998; Sawant et al., 2001), è applicabile anche a campioni di eritrociti prelevati da milze murine. L’interpretazione dei dati, però, è problematica, in quanto la milza non contiene solo i globuli rossi prodotti in situ, ma anche una porzione di quelli circolanti. Va infine aggiunto che quest’organo riveste una primaria importanza per l’applicabilità del test dei micronuclei, in quanto – in molte specie (fra le quali l’uomo ed il ratto) – al suo interno avviene la rimozione dei micronuclei dagli eritrociti circolanti (Chen & Weiss, 1973; Schlegel & MacGregor, 1984). Quindi, l’utilizzo di una specie non adatta può determinare dei falsi negativi (in quanto i micronuclei indotti non vengono osservati perché rimossi) oppure dei falsi positivi se l’agente utilizzato è splenotossico (provocando, quindi, la mancata rimozione dei micronuclei spontanei). 4.6. Sangue periferico Mentre l’analisi delle frequenze di eritrociti micronucleati prelevati dagli organi emopoietici permette di rilevare un danno recente, l’utilizzo di campioni di sangue circolante consente di valutare gli effetti di un’esposizione prolungata o di un evento passato. In quest’ultimo caso bisogna tener conto della durata della vita media degli eritrociti: questa – infatti – varia a seconda della specie e nei roditori corrisponde a 30 giorni (Schlegel & MacGregor, 1982). In 30 seguito alla prima applicazione del test dei micronuclei su sangue periferico (MacGregor et al., 1980), si è visto un notevole sviluppo di questa tecnica (Sutou, 1996). E’ possibile anche l’utilizzo di specie nelle quali la milza rimuove i micronuclei, a patto – però – che vengano conteggiati solo gli eritrociti policromatici (Grawe, 2005): tuttavia, in questo modo è rilevabile solo un danno avvenuto recentemente. Oppure, si possono utilizzare individui molto giovani, nei quali la milza non ha ancora sviluppato la funzione di rimozione dei micronuclei (Udroiu et al., in stampa). L’applicazione del test dei micronuclei a campioni di sangue periferico ha interessato molte specie, anche con finalità di biomonitoraggio, visto che il prelievo non richiede necessariamente il sacrificio dell’animale. Ad oggi sono stati condotti studi su: Microtus oeconomus (Materiy & Maslova, 1978), Mus domesticus (Ieradi et al., 1996b), Mus spretus (Ieradi et al., 1998; Udroiu, 2002), Rattus rattus (Parida & Mohapatra, 1986), Rattus norvegicus (Abramsson-Zetterberg et al., 1999), Apodemus flavicollis (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Ieradi et al., 2003), Apodemus sylvaticus (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Cristaldi et al., 1985), Clethrionomys glareolus (Abramsson-Zetterberg et al., 1997; Ieradi et al., 2003), Microtus agrestis (Abramsson-Zetterberg et al., 1997), Ctenomys torquatus (da Silva et al., 2000), Ctenomys minutus (Heuser et al., 2002), Sus scrofa (Ludewig et al., 1991; Cristaldi et al., 2004), Bos taurus (Balode, 1996; Volmer et al., 2001; Cristaldi et al., 2004), Ovis aries (Cristaldi et al., 2004), Equus caballus (Cristaldi et al., 2004), Canis familiaris (MacGregor et al., 1992) 4.7. Individuazione di aneuploidia La presenza di un micronucleo è indicativa di un evento clastogeno – causante un’anomalia strutturale del genoma – oppure di un evento aneugenico – causante un’anomalia numerica. Per discernere fra queste due origini, in un primo momento venivano osservate le dimensioni dei micronuclei (Yamamoto & Kikuchi, 1980; Valadaud-Barrieu, 1983). Tuttavia, questo metodo – oltre che estremamente soggettivo – è anche concettualmente sbagliato, in quanto è stata rilevata la possibilità che all’interno dei micronuclei avvenga sintesi di Dna, con conseguente aumento delle dimensioni di questi (Thomson & Perry, 1988). Successivamente, sono state messe a punto delle tecniche in grado di superare questi limiti, basate sull’individuazione dell’eventuale presenza del centromero o del cinetocore (indicativa di un passato evento aneugenico). Il cinetocore, una struttura tri-lamellare presente su entrambi i lati della regione centromerica (Jokelainen, 1967; Cherry et al., 1989), detta anche costrizione primaria, è composto da proteine specializzate e si forma sulla superficie esterna del centromero durante la G2-profase (Rattner et al., 1998). Sono stati identificati dominî strutturali distinti all’interno della regione della costrizione primaria: un dominio esterno cinetocorico associato con la matrice fibrosa e chiamato corona fibrosa; un domino centrale composto soprattutto da eterocromatina centromerica; un dominio interno di appaiamento dove i cromatidi fratelli sono in contatto. Il disco interno è l’unico ad essere associato con il DNA (Cooke et al., 1993). La regione centromerica è composta da eterocromatina, si replica nella tarda fase S (Broccoli et al., 1989) e la sequenza che specifica la locazione del centromero sul cromosoma è chiamata locus CEN (Pluta et al., 1995). Diversamente dagli artropodi e dalle piante – caratterizzati da cromosomi olocentrici ove il microtubulo si attacca su tutta la lunghezza del cromatidio – nei vertebrati il centromero è il punto in cui il microtubulo si attacca al cinetocore ed è anche il luogo di associazione fra cromatidi fratelli (Willard, 1990). Un’importante scoperta fu fatta da Moroi et al. (1980) quando rilevarono che nel siero dei pazienti affetti dalla sindrome CREST (una forma di sclerodermia autoimmune) erano presenti anticorpi contro antigeni cinetocorespecifici. In seguito, in diversi mammiferi (Uomo, Topo, Ratto, Criceto, Muntjac) sono state individuate varie proteine del complesso centromero/cinetocore (Willard, 1990; Craig et al., 1999). Nella tabella 4 vengono illustrate le principali proteine individuate. 31 Proteina CENP-A CENP-B CENP-C CENP-D INCENPs CLIPs kDa 17-19 80 140 50 135 , 155 ? Sito Centromero Dominio centrale Dominio cinetocorico Dominio cinetocorico Centromero interno Dominio di appaiamento Commenti ‘Istone’ centromero-specifico Proteina legante Dna satellite Specifico per centromeri attivi? Associazione cromatidi fratelli Legame cromatidi fratelli Tabella 4 - Principali proteine centromeriche, da Willard (1990). E’ stato dimostrato che uno o più antigeni CENP sono coinvolti, direttamente o indirettamente, nella funzione del centromero con esperimenti in cui anticorpi iniettati in colture di tessuti di mammiferi hanno interrotto sia la progressione dei cromosomi verso il fuso alla prometafase, sia la transizione tra metafase e anafase. Va detto che vengono continuamente scoperte nuove proteine centromeriche e che – solo fra quelle maggiormente studiate – se ne annoverano almeno una dozzina. Fra queste, va ricordata CENP-A, abbastanza simile all’istone H3. Ancor più studiata è CENP-B, per le sue caratteristiche, ma anche per gli irrisolti enigmi che continua a porre. Questa proteina – situata nel dominio centrale – sembra essere altamente conservata in Topo, Uomo, Cercopiteco e Criceto (Stitou et al., 1999) e si lega ad una sequenza specifica detta ‘box CENP-B’. Questo ‘box’ è lungo 17 bp (paia di basi) di cui 15 formano la sequenza canonica (5-TTCGNNNNANNCGGG-3) necessaria per il legame con la proteina (Masumoto et al., 1993) ed è stato individuato nel Dna satellite α dell’Uomo e di altri Primati (Haaf et al., 1995), nel Panda gigante (Wu et al., 1990), in Tupaia belangeri (Haaf & Ward, 1995), Apodemus (Fukushi et al., 2001), Gerbillus nigeriae (Volobouev et al., 1995), Acomys (Kunze et al., 1999) e nel Dna satellite minore di Topo domestico (Wong & Rattner 1988). Per diverso tempo, è stata opinione comune che il legame fra CENP-B ed il motivo altamente conservato del CENP-B box avesse un’importanza funzionale per la formazione del centromero nei mammiferi. Tuttavia, diversi dati stridevano fortemente con tale convinzione. Questa sequenza, infatti, non è presente nei satelliti α di proscimmie, gibboni ed altre scimmie (Haaf et al., 1995), non è presente nel Ratto (de Stoppelaar et al., 1997) ed è assente nel cromosoma Y sia dell’Uomo che del Topo (Kapoor et al., 1998). Per fare chiarezza su questo punto, Kapoor et al. (1998) hanno studiato il cinetocore di topi ai quali era stato cancellato il gene cenpb (codificante l’omonima proteina) e visto che questo risultava normale e perfettamente funzionale, sono giunti alla conclusione che CENP-B non è indispensabile. La possibilità che cenpb sia un vestigio evolutivo viene scartata dagli autori, in quanto altamente conservata (il che suggerisce una funzione altamente conservata che ha limitato la divergenza della sequenza della proteina) e fa loro pensare che la funzione di CENP-B sia ridondante con un altro polipeptide. Visto che strutturalmente CENP-B è simile alle trasposasi pogo-simili (Kapoor et al., 1998), Kipling & Warburton (1997) hanno proposto che il box CENP-B sia presente, non a causa di un qualche ruolo legato alla funzione del centromero, ma per il suo possibile ruolo nel modulare l’evoluzione del genoma inducendo degli “hotspots” per la ricombinazione. Va ricordata la posizione di Vig (1998), che indica nella conformazione spaziale – e non nelle sequenze conservate – la caratterizzazione funzionale della costrizione primaria. Vi sono cambiamenti nella complesso delle proteine del centromero/cinetocore durante la divisione cellulare che accompagnano l’assemblaggio e il disassemblaggio del cinetocore e la condensazione/decondensazione del centromero. Le proteine centromeriche, quindi, possono essere divise in costitutive – presenti in ogni momento della vita cellulare – e facoltative – che si associano col centromero solo durante la mitosi (Brinkley et al., 1992). Fra queste ultime vi sono: CENP-E, CENP-F, INCENPS MCAK, 3F3/2 (Weaver et al., 2003). Sono costitutive, 32 invece, CENP-A, -B, -C, -G (con struttura e localizzazione simile a CENP-B, ma presente anche sul cromosoma Y) e CENP-I. La scoperta fatta da Moroi et al. (1980), portò Brenner et al. (1981) ad utilizzare gli anticorpi dei pazienti con sindrome CREST per individuare in situ – tramite immunofluorescenza indiretta – i cinetocori. In seguito, questa tecnica è stata applicata al test dei micronuclei, permettendo di distinguere fra micronuclei di origine clastogena e quelli di origine aneugenica (Degrassi & Tanzarella, 1988; Miller & Adler, 1990). Diversi autori hanno seguito con successo questo esempio, utilizzando diversi tipi cellulari, di diversi animali: uomo (Sgura et al., 2001), topi di laboratorio (Gudi et al., 1990; Cicchetti et al., 1999), criceti (Sgura et al., 2000), Topo selvatico dal collo giallo, Arvicola rossastra e Topo algerino (Degrassi et al., 1999; Tanzarella et al., 2001), ed ovini (Degen et al., 1997). Vi sono stati anche tentativi – senza successo – di utilizzare questo metodo su campioni di ratto. In uno studio sulla genotossicità del tricloroetilene, l’analisi fallì a causa dell’ingente colorazione aspecifica di fondo (Kligerman et al., 1994). De Stoppelaar et al. (1997) hanno usato sia siero di pazienti con la sindrome CREST, sia anticorpi CREST commerciali, ma – dato che questi ultimi diedero risultati insoddisfacenti – sono giunti alla conclusione che questa tecnica non è adatta per cellule di ratto. Recentemente, invece, presso il Nostro laboratorio, sono stati colorati con successo anche campioni di ratto (Udroiu et al., in stampa). Resta comunque aperta la questione della sensibilità nel riconoscere i cinetocori di ratti: nel siero CREST sono infatti presenti anticorpi anti-CENP-A, -B, -C ed –E. Quest’ultimo non è utile se non durante la mitosi (quindi non dà risultati visibili nel test dei micronuclei); CENP-B – come già detto – non è presente nel Ratto e gli anticorpi anti-CENP-A sembrano non reagire in questa specie (Palmer et al., 1987). Oltre alla colorazione CREST, esistono altre tecniche per riconoscere il contenuto di un micronucleo, che si basano essenzialmente sull’individuazione del Dna centromerico o di quello satellite. Ciò si può ottenere tramite la tecnica PRINS- Primed in situ Dna synthesis (Russo et al., 1996; Basso and Russo, 2000). E’ stata inoltre messa a punto una tecnica per compiere un’ibridazione immunofluorescente in situ (FISH) utilizzando sonde per specifiche sequenze del DNA satellite I del Ratto (Hoebee & Stoppelaar, 1996; de Stoppelaar et al., 1997) o di quello α dell’Uomo (Kirsch-Volders et al., 1996; Darroudi et al., 1996). Una raffinata combinazione della colorazione CREST con quella FISH permette di distinguere i micronuclei originati da un danno al fuso mitotico, CREST+/FISH+ (quindi ancora dotati di cinetocore) e quelli CREST-/FISH+, originati da un danneggiamento del cinetocore stesso (Sgura et al., 2001). Va infine ricordata un’altra, basata sull’individuazione di interi cromosomi, chiamata SKY: spectral karyotyping (Komae et al., 1999). 33 5. MATERIALI E METODI 5.1. Disegno sperimentale In un primo esperimento preliminare, è stato eseguito il test dei micronuclei con colorazione CREST su campioni di fegato e sangue periferico prelevati da un gruppo di 10 ratti neonati, esposti durante la vita intra-uterina ad un campo magnetico di 500 µT. Questi sono stati confrontati con dei campioni prelevati da un gruppo di 12 ratti neonati non esposti. L’esposizione (e la stabulazione del gruppo non esposto) è stata svolta dal gruppo di ricerca del Dott. Settimio Grimaldi (Area della Ricerca TorVergata, CNR). Successivamente, il test dei micronuclei con colorazione CREST è stato eseguito su campioni di fegato e sangue periferico prelevati da un gruppo di 38 topi neonati provenienti dallo stabulario del Dipartimento di Istologia ed Embriologia Medica, Università. "La Sapienza" (resp. Prof.ssa Rita Canipari), esposti durante la vita intra-uterina ad un campo magnetico di 650 µT. Questi sono stati confrontati con dei campioni prelevati da un gruppo di 36 topi neonati non esposti (sham). Su questi due gruppi è stato anche eseguito un confronto fra le percentuali di eritrociti policromatici nel sangue periferico. Un terzo gruppo di 5 animali – inoltre – è stato esposto a raggi X (3 Gy) ed utilizzato come controllo positivo per verificare la validità della tecnica utilizzata. Nell’ultimo esperimento, il test dei micronuclei con colorazione CREST è stato applicato su campioni di midollo osseo e sangue periferico prelevati da un gruppo di 15 topi adulti, esposti per 21 giorni ad un campo magnetico di 650 µT. Questi sono stati confrontati con dei campioni prelevati da un gruppo di 15 topi adulti non esposti. Anche in questo caso, un terzo gruppo di 6 animali è stato esposto a raggi X (3 Gy) ed utilizzato come controllo positivo. 5.2. Ceppi utilizzati Gli animali utilizzati appartenevano alle specie Rattus norvegicus e Mus domesticus, rispettivamente dei ceppi Wistar e CD-1 Swiss, provenienti dalla Charles Rivers Italia. Il ceppo Wistar è di tipo outbred (ovvero prodotto da esoincroci) e fu selezionato per la sua bassa incidenza di idronefrosi. In età avanzata, la principale causa di morte è la leucemia linfocitica granulare. La gestazione dura 21-23 giorni e la figliata di solito è di 11-12 individui. Anche il ceppo CD-1 (ICR)BR Swiss è outbred ed è caratterizzato dall’assenza degli antigeni CD-1. La gestazione dura 19-21 giorni e la figliata di solito è di 10-11 individui. Le frequenze di micronuclei non sembrano dipendere né dal sesso né dall’età e sono simili a quelle degli altri ceppi (Sato et al., 1995) 5.3. Esposizione La temperatura e l’umidità relativa dello stabulario sono state mantenute rispettivamente a 2022°C e 40-50% e l’illuminazione artificiale dalle 8 am alle 8 pm. Pellets ed acqua sono stati disponibili ad libitum per tutto il periodo dell’esperimento. Il campo magnetico di 650 µT è stato generato da solenoidi (figura 4), costruiti dall’Ing. Angelico Bedini e dal CTER Raffaele Palomba (Ispesl), lunghi 90 cm e con un diametro di 25 cm, tenuti accesi per 24 ore al giorno e alimentati da corrente di frequenza industriale (50 Hz). 34 Figura 4 - Solenoidi All’interno di un solenoide ideale di lunghezza infinita, il campo magnetico rimane costante; in un solenoide reale – purché con una lunghezza maggiore del diametro – tale condizione è vera nella sua parte centrale. La direzione del campo, inoltre, è perpendicolare alla sezione del solenoide (figura 5); se quest’ultimo è percorso da una corrente alternata (come nel caso di questo esperimento), il verso del campo cambia con la stessa frequenza della corrente. Figura 5 – Campo magnetico generato da un solenoide La temperatura e l’umidità relativa all’interno del solenoide erano pari a quelle del resto dello stabulario. Il tempo totale dell’esposizione è stato di 21 giorni. I gruppi non esposti (controlli negativi, ovvero sham) sono stati tenuti, nello stesso periodo in cui avveniva l’esposizione, in dei solenoidi spenti. La figura 6, mostra il periodo di esposizione dei neonati in relazione all’emopoiesi embrionale, fetale e perinatale. Al giorno 7,5 della gestazione inizia l’emopoiesi nel sacco vitellino (con eritropoiesi primitiva); nei giorni 8,5 e 9,5 l’emopoiesi diviene intra-embrionale e ed è svolta dalla splancnopleura para-aortica (P-Sp); nel 10° giorno l’emopoiesi (adesso con eritropoiesi definitiva) avviene nell’ aorta-gonade-mesonefro (AGM); quindi si sposta nel fegato (giorno 11) e da qui una parte delle colonie emopoietiche si spostano nella milza (Keller et al., 1999). 35 Figura 6 - Organi emopoietici e periodo di esposizione Dopo la nascita, inizia l’emopoiesi nel midollo osseo; la milza mantiene la sua funzione di organo eritropoietico secondario per tutta la vita dei murini (Wolber et al., 2002), mentre il fegato cessa tale funzione intorno al 5° giorno dopo la nascita nel topo (Sasaki & Matsumura, 1987) ed intorno al 7° nel ratto (Rassokhin, 2002). L’esposizione è iniziata al 3° giorno di gestazione (momento in cui viene confermata la gravidanza, tramite la verifica della presenza del tappo vaginale) ed è terminata al 3° giorno dopo la nascita, quando è avvenuto il sacrificio. In questo modo, al momento del prelievo dei campioni, verosimilmente tutti gli eritrociti presenti negli animali si erano formati in presenza del campo magnetico. Per quanto riguarda i controlli positivi l’esposizione ai raggi X invece è avvenuta il 3° giorno dopo la nascita ed il sacrificio 24 ore dopo per i neonati. Topi adulti della stessa età del gruppo esposto ai campi magnetici sono stati irraggiati e sacrificati 24 ore dopo. L’esposizione ai raggi X è stata effettuata presso il laboratorio della Dott.ssa Francesca Degrassi (Istituto di Biologia e Patologia Molecolari, CNR) grazie ad un apparato Gilardoni (250 kV, 6 mA, filtro Al 3 mm) ad una dose di 0,5 Gy/min per 6 minuti. 5.4. Prelievi Il prelievo dei campioni è avvenuto sotto la supervisione del docente guida Prof. Mauro Cristaldi (Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo, Università “La Sapienza”) e della Dott.ssa Luisa Anna Ieradi (Istituto per lo studio degli Ecosistemi, CNR). Il fegato (dei neonati) è stato rimosso e posto in un vetrino da orologio contenente una soluzione di siero fetale bovino (80%) e ed una di EDTA 25 mM, quindi sminuzzato. Il midollo rosso (degli adulti), invece, è stato prelevato dai femori, previa asportazione parziale delle porzioni epifisarie prossimale e distale, inserendo nel canale midollare l’ago di una siringa da insulina contenente la soluzione di siero fetale bovino ed EDTA. Le sospensioni così ottenute (sia dal fegato che dal midollo osseo) sono state aspirate più volte con una pipetta eparinizzata e successivamente centrifugate a 800 rpm per 5 minuti. A centrifugazione avvenuta, è stato rimosso il sovranatante, il corpo di fondo è stato risospeso e quindi è stato eseguito lo striscio. Il sangue è stato prelevato dalle vene giugulari. Gli strisci sono stati lasciati ad asciugare a temperatura ambiente, fissati in metanolo a -20°C e conservati alla medesima temperatura. Sono stati inoltre prelevati campioni per il Comet test (Chiuchiarelli, 2004), l’analisi delle anomalie delle creste palatali (Migliorini, 2005) e delle anomalie spermatiche (Bruckmann, 2005), facenti parte – insieme al presente eleborato – di un insieme di studi coordinati dal Dott. Livio Giuliani e Prof. Mauro Cristaldi (ISPESL, Piano di attività, 2001). 5.5. Colorazione CREST La colorazione a immunofluorescenza con anticorpi CREST è stata eseguita presso il laboratorio della Prof.ssa Caterina Tanzarella (Dipartimento di Biologia, Università “RomaTre”) 36 Durante la colorazione, come esposto più avanti, verranno utilizzati più volte nei lavaggi dei vetrini il tampone fosfato (PBS) con siero di albumina bovina (BSA) ed il PNM. Per prepararne 500 ml, si aggiungono a 400 ml di acqua, 100 ml di tampone fosfato (pH 8), 2,5 ml di Nonidet (Igepal), 0,1 g. di sodio azide e 25 g. di latte in polvere non grasso. Quindi si lascia incubare a 37° C, a bagnomaria, per 2 ore, per poi conservarlo a 4° C. Gli strisci vengono rifissati in metanolo assoluto per 30’, quindi lavati in PBS-Tween20 (0,01%) per 4’ e successivamente in PNM per 5’. In seguito viene applicato (30 µl per vetrino) l’anticorpo CREST anticinetocore (Antibodies Inc.) diluito 1:1 in PBS-Tween20 (0,1%), si copre il vetrino con parafilm e si lascia incubare overnight a 37°C in camera umida. L’indomani si effettuano 3 lavaggi di 5’ in PBS-BSA (1%) ed uno in PNM per 5’. Viene quindi applicato il secondo anticorpo (Rabbit anti-human IgA + IgG + IgM(H+L) FITC coniugato, Sigma Immunochemicals) diluito 1:80 in PBS-BSA (1%), si copre il vetrino con parafilm e si lascia incubare per 45’ in camera umida a 37°C. Poi si eseguono nuovamente 3 lavaggi di 5’ in PBS-BSA (1%) ed uno in PNM per 5’. A questo punto, si applica il terzo anticorpo (Goat anti-Rabbit IgG(H+L) FITC coniugato, ICN) diluito 1:150 in PBS-BSA (1%) si copre il vetrino con parafilm e si lascia incubare per 40’ in camera umida a 37°C. Successivamente, si effettuano 5 lavaggi di 3’ in PBS-BSA (1%) e 2 lavaggi di 5’ in PBS freddo. In seguito i vetrini vengono colorati per 10’ in una choplin al buio contenente 2,5µg/ml di 4’-6’-diamidino-2-fenilindolo (DAPI; Sigma-Aldrich) diluito in PBS e poi risciacquati in PBS per 1’. Infine, si colora con ioduro di propidio (1 µg/ml per il sangue, 2,5 µg/ml per midollo e fegato) in soluzione Antifade (Vector Laboratories), si coprono gli strisci con vetrini coprioggetto 24x50mm, per poi smaltarli e refrigerarli a +4°C, per almeno 1 ora prima di poterli osservare. I micronuclei sono stati individuati con un microscopio Zeiss Axiophot con luce UV e quindi classificati in base alla reazione dell’anticorpo anticinetocore. Le frequenze di micronuclei sono state determinate contando 2000 eritrociti per animale. 5.6. Colorazione May-Grünwald Il colorante May-Grünwald viene filtrato con un filtro Whatman GF/A. Gli strisci vengono quindi colorati per 3’ e successivamente viene rimosso il colorante in eccesso. Quindi, si colora con May-Grünwald diluito (1:1) in acqua bidistillata. La percentuale di eritrociti policromatici nel sangue periferico è stata analizzata in 40 topi neonati (20 controlli e 20 esposti) contando 1000 eritrociti per animale. 5.7. Analisi statistiche Dall'analisi delle distribuzioni dei micronuclei con il test di Shapiro-Wilk, è emerso che i dati non sono distribuiti normalmente e che non lo erano neanche dopo averli trasformati con la funzione di Cox (xtr = x1/2). E’ stato, quindi, utilizzato il test di Kolmogorov-Smirnov (Mitchell & Brice, 1986) per calcolare i livelli di significatività delle differenze fra le frequenze medie di eritrociti micronucleati totali (ME), eritrociti micronucleati CRESTpositivi (ME+), eritrociti micronucleati CREST-negativi (ME-) dei diversi gruppi. Le distribuzioni delle percentuali di eritrociti policromatici, invece, sono risultate normali; per l’analisi di questi dati è stato quindi utilizzato il test t di Student. Sono state considerate significative quelle differenze con p < 0,05. 37 6. RISULTATI 6.1. Ratti Wistar neonati La tabella 5 ed il grafico 1 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei campioni di fegato. La frequenza media del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,15 ± 0,55) non è risultata significativamente più elevata della frequenza media del gruppo non esposto (x = 0,17 ± 0,25). Tabella 5 - Test dei micronuclei su fegato di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati Sham ELF n 12 9 ME/1000 E 0,17 0,17 Dev. Std 0,58 0,25 Err. Std. 0,18 0,08 Tutti i micronuclei che sono stati individuati nei campioni di fegato, sia quelli prelevati dagli individui esposti che quelli prelevati dagli individui non esposti, erano Crest-negativi, come si può osservare nella tabella 6. Tabella 6 - Test dei micronuclei su fegato di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-negativi Sham ELF n 12 9 ME-/1000 E 0,17 0,17 Dev. Std 0,58 0,25 Err. Std. 0,18 0,08 La tabella 7 ed il grafico 2 indica le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei campioni di sangue periferico. La frequenza media del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 1,50 ± 1,05) non è risultata significativamente più elevata della frequenza media del gruppo non esposto (x = 1,46 ± 1,62). Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-negativi (tabella 8, grafico 3), la frequenza media del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 1,50 ± 1,05) non è risultata significativamente più elevata della frequenza media del gruppo non esposto (x = 1,42 ± 1,59). Tabella 7 - Test dei micronuclei su sangue periferico di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati Sham ELF n 12 10 ME/1000 E 1,46 1,50 Dev. Std 1,62 1,05 Err. Std. 0,51 0,33 Tabella 8 - Test dei micronuclei su sangue periferico di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-negativi Sham ELF n 12 10 ME-/1000 E 1,42 1,50 Dev. Std 1,59 1,05 Err. Std. 0,50 0,33 Inoltre, per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 9, grafico 4), si è riscontrato che la frequenza media del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0) era minore della frequenza media del gruppo non esposto (x = 0,04 ± 1,44), ma tale differenza non è 38 risultata statisticamente significativa. Nella tabella 10, infine, vengono indicate le percentuali di eritrociti micronucleati Crest-positivi. Tabella 9 - Test dei micronuclei su sangue periferico di ratti neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-positivi Sham ELF n 12 10 ME+/1000 E 0,04 0 Dev. Std 1,44 0 Err. Std. 0,04 0 Tabella 10 - Test dei micronuclei su sangue periferico di ratti neonati: percentuali di eritrociti micronucleati CREST-positivi Sham ELF n° eritrociti 24.000 20.000 ME 35 15 ME+ 1 0 % ME+ 2,86% 0% 6.2. Topi CD1-Swiss neonati La tabella 11 ed il grafico 5 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei campioni di fegato. Le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,76 ± 0,38) e di quello esposto ai raggi X (x = 25,40 ± 4,02) sono risultate significativamente più elevate (rispettivamente, p < 0,005 e p < 0,001) della frequenza media del gruppo non esposto (x = 0,42 ± 0,33). Il grafico 6 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati. Tabella 11 - Test dei micronuclei su fegato di topi neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati Sham ELF Raggi X n 36 38 5 ME/1000 E 0,42 0,76 ** 25,40 *** Dev. Std 0,33 0,38 4,02 Err. Std. 0,05 0,06 1,80 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-negativi (tabella 12, grafico 7), le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,63 ± 0,36) e di quello esposto ai raggi X (x = 23,70 ± 3,17) sono risultate maggiori di quella del gruppo non esposto (x = 0,36 ± 0,33), ma la differenza è risultata statisticamente significativa solo nel caso del gruppo esposto ai raggi X (p < 0,005). Il grafico 8 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-negativi. Tabella 12 - Test dei micronuclei su fegato di topi neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-negativi Sham ELF Raggi X n 36 38 5 ME-/1000 E 0,36 0,63 23,70 ** *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 39 Dev. Std 0,33 0,36 3,17 Err. Std. 0,05 0,06 1,42 Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 13, grafico 9), l’analisi statistica ha evidenziato una differenza statisticamente significativa (p < 0,001) solo confrontando il gruppo non esposto (x = 0,05 ± 0,16) con quello esposto ai raggi X (x = 1,70 ± 1,40) e non con quello esposto ai campi magnetici (x = 0,13 ± 0,22). Il grafico 10 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-positivi. Nella tabella 14, inoltre, vengono indicate le percentuali di eritrociti micronucleati Crest-positivi. Tabella 13 - Test dei micronuclei su fegato di topi neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-positivi Sham ELF Raggi X n 36 38 5 ME+/1000 E 0,05 0,13 1,70 *** Dev. Std 0,16 0,22 1,40 Err. Std. 0,03 0,04 0,62 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Tabella 14 - Test dei micronuclei su fegato di topi neonati: percentuali di eritrociti micronucleati CRESTpositivi Sham ELF Raggi X n° eritrociti 72.000 76.000 10.000 ME 30 58 254 ME+ 4 10 17 % ME+ 13,33% 17,24% 6,69% La tabella 15 ed il grafico 11 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei campioni di sangue periferico. Le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 4,42 ± 2,66) e di quello esposto ai raggi X (x = 31,60 ± 3,83) sono risultate significativamente più elevate (p < 0,001) della frequenza media del gruppo non esposto (x = 2,07 ± 1,68). Il grafico 12 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati. Tabella 15 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati Sham ELF Raggi X n 36 38 5 ME/1000 E 2,07 4,42 *** 31,60 *** Dev. Std 1,68 2,66 3,83 Err. Std. 0,28 0,43 1,71 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-negativi (tabella 16, grafico 13), le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 3,76 ± 2,63) e di quello esposto ai raggi X (x = 30,50 ± 3,94) sono risultate significativamente più elevate (rispettivamente, p < 0,001 e p < 0,025) della frequenza media del gruppo non esposto (x = 1,92 ± 1,76). Il grafico 14 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-negativi. 40 Tabella 16 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-negativi Sham ELF Raggi X n 36 38 5 ME-/1000 E 1,92 3,76 *** 30,50 * Dev. Std 1,76 2,63 3,94 Err. Std. 0,29 0,43 1,76 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Inoltre, anche per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 17, grafico 15), le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,66 ± 0,51) e di quello esposto ai raggi X (x = 1,10 ± 0,42) sono risultate significativamente più elevate (rispettivamente, p < 0,025 e p < 0,001) della frequenza media del gruppo non esposto (x = 0,15 ± 0,26). Il grafico 16 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-positivi. Nella tabella 18, infine, vengono indicate le percentuali di eritrociti micronucleati Crest-positivi. Tabella 17 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-positivi Sham ELF Raggi X n 36 38 5 ME+/1000 E 0,15 0,66 * 1,10 *** Dev. Std 0,26 0,51 0,42 Err. Std. 0,04 0,08 0,19 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Tabella 18 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati: percentuali di eritrociti micronucleati CREST-positivi Sham ELF Raggi X n° eritrociti 72.000 76.000 10.000 ME 149 336 316 ME+ 11 50 11 % ME+ 7,38% 14,88% 3,48% Confrontando le percentuali di eritrociti policromatici (tabella 19), la media del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 14,44 ± 3,15) è risultata significativamente inferiore (p < 0,025) di quella del gruppo non esposto (x = 17,47 ± 4,43). Tabella 19 – Percentuali di eritrociti policromatici nel sangue periferico di topi neonati Sham ELF n 20 20 % PCE 17,47 14,44 * Dev. Std 4,43 3,15 Err. Std. 0,99 0,70 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 6.3. Topi CD1-Swiss adulti La tabella 20 ed il grafico 17 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei campioni di midollo osseo. Le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 1,27 ± 0,56) e di quello esposto ai raggi X (x = 22,75 ± 7,10) sono risultate maggiori di quella del gruppo non esposto (x = 1,03 ± 0,67), ma la differenza è risultata statisticamente 41 significativa solo nel caso del gruppo esposto ai raggi X (p < 0,001). Il grafico 18 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati. Tabella 20 - Test dei micronuclei su midollo osseo di topi adulti: frequenze medie di eritrociti micronucleati Sham ELF Raggi X n 15 15 6 ME/1000 E 1,03 1,27 22,75 *** Dev. Std 0,67 0,56 7,10 Err. Std. 0,17 0,14 2,90 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-negativi (tabella 21, grafico 19), l’analisi statistica ha evidenziato una differenza statisticamente significativa (p < 0,001) solo confrontando il gruppo non esposto (x = 0,90 ± 0,66) con quello esposto ai raggi X (x = 21,83 ± 6,83) e non con quello esposto ai campi magnetici (x = 1,10 ± 0,51). Il grafico 20 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-negativi. Tabella 21 - Test dei micronuclei su midollo osseo di topi adulti: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-negativi Sham ELF Raggi X n 15 15 6 ME-/1000 E 0,90 1,10 21,83 *** Dev. Std 0,66 0,51 6,83 Err. Std. 0,17 0,13 2,79 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 22, grafico 21), le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,17 ± 0,31) e di quello esposto ai raggi X (x = 0,92 ± 0,38) sono risultate maggiori di quella del gruppo non esposto (x = 0,13 ± 0,23), ma la differenza è risultata statisticamente significativa solo nel caso del gruppo esposto ai raggi X (p < 0,025). Il grafico 22 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-positivi. Le percentuali di eritrociti micronucleati Crest-positivi sono indicate nella tabella 23. Tabella 22 - Test dei micronuclei su midollo osseo di topi adulti: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-positivi Sham ELF Raggi X n 15 15 6 ME+/1000 E 0,13 0,17 0,92 * Dev. Std 0,23 0,31 0,38 Err. Std. 0,06 0,08 0,15 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Tabella 23 - Test dei micronuclei su midollo osseo di topi adulti: percentuali di eritrociti micronucleati CREST-positivi Sham ELF Raggi X n° eritrociti 30.000 30.000 12.000 ME 31 38 273 ME+ 4 5 11 42 % ME+ 12,90% 13,16% 4,03% La tabella 24 ed il grafico 23 indicano le frequenze di eritrociti micronucleati osservate nei campioni di sangue periferico. Le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 1,87 ± 0,81) e di quello esposto ai raggi X (x = 9,17 ± 1,40) sono risultate maggiori di quella del gruppo non esposto (x = 1,63 ± 0,72); tuttavia, la differenza è risultata statisticamente significativa solo nel caso del gruppo esposto ai raggi X (p < 0,001). Il grafico 24 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati. Tabella 24 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi adulti: frequenze medie di eritrociti micronucleati Sham ELF Raggi X n 15 15 6 ME/1000 E 1,63 1,87 9,17 *** Dev. Std 0,72 0,81 1,40 Err. Std. 0,18 0,21 0,57 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Anche nel caso degli eritrociti micronucleati Crest-negativi (tabella 25, grafico 25), l’analisi statistica ha evidenziato una differenza statisticamente significativa (p < 0,001) solo confrontando il gruppo non esposto (x = 1,50 ± 0,60) con quello esposto ai raggi X (x = 8,75 ±1,21) e non con quello esposto ai campi magnetici (x = 1,57 ± 0,65). Il grafico 26 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-negativi. Tabella 25 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi adulti: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-negativi Sham ELF Raggi X n 15 15 6 ME-/1000 E 1,50 1,57 8,75 *** Dev. Std 0,60 0,65 1,21 Err. Std. 0,15 0,17 0,49 *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 Per quanto riguarda gli eritrociti micronucleati Crest-positivi (tabella 26, grafico 27), le frequenze medie del gruppo esposto ai campi magnetici (x = 0,30 ± 0,32) e di quello esposto ai raggi X (x = 0,42 ± 0,58) sono risultate maggiori di quella del gruppo non esposto (x = 0,13 ± 0,23), ma le differenze non sono risultate statisticamente significative. Il grafico 28 mostra le distribuzioni delle frequenze di eritrociti micronucleati Crest-positivi. Le percentuali di eritrociti micronucleati Crest-positivi sono indicate nella tabella 27. Tabella 26 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi adulti: frequenze medie di eritrociti micronucleati CREST-positivi Sham ELF Raggi X n 15 15 6 ME+/1000 E 0,13 0,30 0,42 Dev. Std 0,23 0,32 0,58 Err. Std. 0,06 0,08 0,24 Tabella 27 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi adulti: percentuali di eritrociti micronucleati CREST-positivi Sham ELF Raggi X n° eritrociti 30.000 30.000 12.000 ME 49 56 110 ME+ 4 9 5 43 % ME+ 8,16% 16,07% 4,54% Per confrontare i dati dei topi adulti con quelli dei neonati (grafico 29), è possibile comparare solo le frequenze di eritrociti micronucleati rilevate nel sangue periferico (tabella 28). Tutte le medie, sia degli esposti ai campi magnetici che dei non esposti, per ogni tipo di micronuclei (Crest-positivi, Crest-negativi e totali), sono risultate maggiori nei neonati rispetto agli adulti. Tuttavia, confrontando le frequenze medie di eritrociti micronucleati dei topi neonati non esposti con quelle degli adulti, le differenze non sono risultate statisticamente significative né per quanto riguarda i micronuclei Crest-negativi (rispettivamente, x = 1,92 ± 1,76 e x = 1,50 ± 0,60), né per i Crest-positivi (rispettivamente, x = 0,15 ± 0,26 e x = 0,13 ± 0,23), né per i micronuclei totali (rispettivamente, x = 2,07 ± 1,68 e x = 1,63 ± 0,72). Diversamente, confrontando le frequenze medie di eritrociti micronucleati dei topi neonati esposti con quelle degli adulti, la differenza è risultata statisticamente significativa (p < 0,01) per quanto riguarda i micronuclei Crest-negativi (rispettivamente, x = 3,76 ± 2,63 e x = 1,57 ± 0,65); non è risultata significativa per i Crest-positivi (rispettivamente, x = 0,66 ± 0,51 e x = 0,30 ± 0,32), mentre lo è stato (p < 0,001) per quanto riguarda i micronuclei totali (rispettivamente, x = 4,42 ± 2,66 e x = 1,87 ± 0,81). Tabella 28 - Test dei micronuclei su sangue periferico di topi neonati e adulti Sham Neonati Adulti ELF Neonati Adulti n ME-/1000 E ME+/1000 E ME/1000E 36 15 1,92 ± 1,76 1,50 ± 0,60 0,15 ± 0,26 0,13 ± 0,23 2,07 ± 1,68 1,63 ± 0,72 38 15 3,76 ± 2,63 1,57 ± 0,65* 0,66 ± 0,51 0,30 ± 0,32 4,42 ± 2,66 1,87 ± 0,81*** *: p < 0.025; **: p < 0.005; ***: p < 0.001 44 ME / 1000 E 45 0 0,05 0,1 0,15 0,2 0,25 0,3 0,35 0,4 Sham Grafico 1: Frequenze di ME nel fegato di ratti neonati ELF 7. GRAFICI 46 ME / 1000 E 0 0,5 1 1,5 2 2,5 Sham Grafico 2: Frequenze di ME nel sangue periferico di ratti neonati ELF 47 ME- / 1000 E 0 0,5 1 1,5 2 2,5 Sham Grafico 3: Frequenze di ME- nel sangue periferico di ratti neonati ELF 48 ME+ / 1000 E 0 0,01 0,02 0,03 0,04 0,05 0,06 0,07 0,08 0,09 Sham Grafico 4: Frequenze di ME+ nel sangue periferico di ratti neonati ELF 49 ME / 1000 E 0 5 10 15 20 25 30 Sham ELF Grafico 5: Frequenze di ME nel fegato di topi neonati Raggi X 50 n° individui 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 0 ME / 1000 E 0,5 1 1,5 Grafico 6: Distribuzione delle frequenze di ME nel fegato di topi neonati sham ELF 51 ME- / 1000 E 0 5 10 15 20 25 30 Sham ELF Grafico 7: Frequenze di ME- nel fegato di topi neonati Raggi X 52 n° individui 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 0 ME- / 1000 E 0,5 1 1,5 Grafico 8: Distribuzione delle frequenze di ME- nel fegato di topi neonati sham ELF 53 ME+ / 1000 E 0 0,5 1 1,5 2 2,5 Sham ELF Grafico 9: Frequenze di ME+ nel fegato di topi neonati Raggi X 54 0 5 10 15 20 25 30 35 0 ME+ / 1000 E 0,5 1 1,5 Grafico 10: Distribuzione delle frequenze di ME+ nel fegato di topi neonati n° individui sham ELF 55 ME / 1000 E 0 5 10 15 20 25 30 35 Sham ELF Grafico 11: Frequenze di ME nel sangue periferico di topi neonati Raggi X 56 n° individui 0 1 2 3 4 5 6 7 0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 3,5 4 4,5 5,5 6 ME / 1000 E 5 6,5 7 7,5 8 8,5 9 9,5 Grafico 12 - Distribuzione delle frequenze di ME nel sangue periferico di topi neonati 10 10,5 11 11,5 sham ELF 57 ME- / 1000 E 0 5 10 15 20 25 30 35 Sham ELF Grafico 13: Frequenze di ME- nel sangue periferico di topi neonati Raggi X 58 n° individui 0 1 2 3 4 5 6 7 0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 3,5 4 4,5 5,5 6 ME- / 1000 E 5 6,5 7 7,5 8 8,5 9 9,5 10 10,5 Grafico 14 - Distribuzione delle frequenze di ME- nel sangue periferico di topi neonati 11 11,5 sham ELF 59 ME+ / 1000 E 0 0,2 0,4 0,6 0,8 1 1,2 1,4 Sham ELF Grafico 15: Frequenze di ME+ nel sangue periferico di topi neonati Raggi X 60 0 5 10 15 20 25 30 0 ME+ / 1000 E 0,5 1 1,5 sham ELF Grafico 16: Distribuzione delle frequenze di ME+ nel sangue periferico di topi neonati n° individui 61 ME / 1000 E 0 5 10 15 20 25 Sham ELF Grafico 17: Frequenze di ME nel midollo osseo di topi adulti Raggi X 62 n° individui 0 1 2 3 4 5 6 0 0,5 ME / 1000 E 1 1,5 2 2,5 Grafico 18: Distribuzione delle frequenze di ME nel midollo osseo di topi adulti sham ELF 63 ME- / 1000 E 0 5 10 15 20 25 30 Sham ELF Grafico 19: Frequenze di ME- nel midollo osseo di topi adulti Raggi X 64 0 1 2 3 4 5 6 0 0,5 ME- / 1000 E 1 1,5 2 sham ELF Grafico 20: Distribuzione delle frequenze di ME- nel midollo osseo di topi adulti n° individui 65 ME+ / 1000 E 0 0,2 0,4 0,6 0,8 1 1,2 Sham ELF Grafico 21: Frequenze di ME+ nel midollo osseo di topi adulti Raggi X 66 0 2 4 6 8 10 12 0 ME+ / 1000 E 0,5 1 sham ELF Grafico 22: Distribuzione delle frequenze di ME+ nel midollo osseo di topi adulti n° individui 67 ME / 1000 E 0 2 4 6 8 10 12 Sham ELF Grafico 23: Frequenze di ME nel sangue periferico di topi adulti Raggi X 68 n° individui 0 1 2 3 4 5 0 0,5 1 ME / 1000 E 1,5 2 2,5 3 3,5 Grafico 24: Distribuzione delle frequenze di ME nel sangue periferico di topi adulti sham ELF 69 ME- / 1000 E 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Sham ELF Grafico 25: Frequenze di ME- nel sangue periferico di topi adulti Raggi X 70 n° individui 0 1 2 3 4 5 6 0 0,5 ME- / 1000 E 1 1,5 2 2,5 Grafico 26: Distribuzione delle frequenze di ME- nel sangue periferico di topi adulti sham ELF 71 ME+ / 1000 E 0 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7 Sham ELF Grafico 27: Frequenze di ME+ nel sangue periferico di topi adulti Raggi X 72 0 2 4 6 8 10 12 0 ME+ / 1000 E 0,5 1 sham ELF Grafico 28: Distribuzione delle frequenze di ME+ nel sangue periferico di topi adultti n° individui 73 ME / 1000 E 0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 3,5 4 4,5 Sham Sangue ELF Neonati Sham Fegato ELF Sham Adulti Sangue ELF Sham Grafico 29 - Frequenze di eritrociti micronucleati in topi neonati e adulti Midollo ELF CREST- CREST+ 8. DISCUSSIONE Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare l’ipotesi che i campi magnetici a frequenze estremamente basse (ELF) possano produrre danni genotossici. A tal fine, il test dei micronuclei con colorazione CREST è stato applicato su campioni prelevati da Roditori (neonati ed adulti) esposti cronicamente a tali campi. In un primo esperimento preliminare, sono stati utilizzati campioni prelevati da ratti neonati impiegati in un’altra sperimentazione svolta dal gruppo di ricerca del dott. Grimaldi. L’esposizione durante la vita intra-uterina ad un campo magnetico di 500 µT non ha prodotto un danno genotossico: non sono stati rilevati – infatti – aumenti significativi nelle frequenze di eritrociti micronucleati, né nel fegato, né nel sangue periferico. Un’esposizione durante la vita intra-uterina ad un campo di intensità maggiore (650 µT) ha prodotto, invece, un danno genotossico in topi neonati. La diversità di risultati può essere dovuta a vari elementi: differenze nella sensibilità specie-specifica, nello sviluppo dell’emopoiesi e nei tempi dell’ontogenesi. I risultati ottenuti nei topi neonati, inoltre, contrastano con quanto osservato da Abramsson-Zetterberg & Grawé (2001). Tuttavia – oltre ad alcune disuguaglianze nel disegno sperimentale e nei protocolli usati – le due differenze principali sono l’intensità del campo (14 µT nel lavoro del 2001) ed il momento del prelievo; i due autori, infatti, dopo un’esposizione di 18 giorni in utero, hanno atteso 35 giorni – un tempo superiore alla vita media degli eritrociti murini – prima di sacrificare gli animali. Il danno genotossico è stato osservato sia nel fegato che nel sangue periferico. Il fatto che le frequenze di eritrociti micronucleati siano risultate più elevate nel sangue circolante indica un accumulo di questi ultimi nella circolazione periferica. Grazie a questo fenomeno, l’effetto mutageno è ancor più evidente. Diversamente, l’esposizione – sempre di 21 giorni – al medesimo campo magnetico non ha prodotto un danno genotossico rilevabile nei topi adulti. Questo risultato è in accordo con quanto osservato da Huuskonen et al. (1998), Svedenstål & Johanson (1998) e AbramssonZetterberg & Grawé (2001), i quali hanno utilizzato campi di intensità ben minore (13 e 14 µT). La differenza fra topi neonati e adulti nei risultati ottenuti in questo lavoro potrebbe avere diverse cause. Si può ipotizzare che nel caso dell’esposizione a campi magnetici – così come avviene per molti agenti mutageni – gli individui che sono nella fase di sviluppo siano più sensibili rispetto a quelli adulti. Un risultato in accordo con tale ipotesi è stato ottenuto da Chiuchiarelli (2004) eseguendo il Comet test su campioni prelevati dagli animali utilizzati in questo lavoro. E’ comunque provato che un’accelerazione dell’emopoiesi induca un aumento nella produzione di micronuclei (Suzuki et al., 1989) – a causa della deficienza di folato dovuta al massiccio impiego di questo nell’eritropoiesi – e che, per questo motivo, individui molto giovani presentino frequenze di eritrociti micronucleati più alte degli adulti (Bishop et al., 2004). Ciò, nondimeno, è vero anche per le altre specie di mammiferi (Feldman et al., 2000) e può rappresentare una condizione sensibilizzante nei confronti dei mutageni. Altre ipotesi, quali un coinvolgimento del metabolismo materno-fetale, sebbene suggestive, non possono essere avanzate sulla base di questi dati. E’ interessante notare, inoltre, come nei neonati si sia rilevata una diminuzione di eritrociti policromatici (o reticolociti). Vista l’entità di tale riduzione non si può parlare di reticolopenia, tuttavia questo fenomeno, di tipo ematologico, potrebbe condividere la propria origine con l’aumentata micronucleogenesi. Alcuni studi hanno dimostrato l’influenza dei campi magnetici sugli enzimi vitamina B12-dipendenti (Harkins & Grissom, 1994; Taoka et al., 1997) e questa potrebbe essere la spiegazione per sintomi simili alla deficienza di tale vitamina in seguito all’esposizione a campi ELF osservati da alcuni autori (Asanova et al., 1963; Taoka et al., 1997; Bonhomme-Faivre et al., 1998). Tale effetto sulla vitamina B12, quindi, potrebbe influenzare sia l’eritropoiesi – e determinare i livelli di reticolociti osservati 74 – sia la produzione di micronuclei, tramite l’accumulo di omocisteina e conseguente aumento di radicali liberi (figura 7), ovvero di specie reattive dell’ossigeno (ROS). Figura 7 - Possibili cause degli effetti osservati nei topi neonati esposti Il coinvolgimento dei radicali liberi nell’interazione fra campi magnetici e DNA continua a guadagnare consensi nella comunità scientifica, grazie a contributi di natura sia teoretica, sia sperimentale. L’ipotesi che i campi magnetici ELF possano aumentare la durata della vita media dei radicali liberi (Brocklehurst, 2002) – e quindi incrementarne la concentrazione all’interno della cellula – sembra trovare riscontro nei risultati ottenuti da Lai & Singh (1997b; 2004), i quali hanno osservato l’induzione di un danno genotossico dopo l’esposizione ai suddetti campi e – inoltre – che tale danno non si produceva in presenza di anti-ossidanti. Tramite lo stesso approccio, è stato dimostrato il coinvolgimento del ferro (Zmyslony et al., 2000; Lai & Singh, 2004). A riguardo, è importante sottolineare che nel nucleo si trovano concentrazioni di ferro maggiori che nel citoplasma, a causa di una pompa ATP-asica (Meneghini, 1997), che atomi di ferro sono intercalati nel DNA e che complessi DNA-ferrosi catalizzano la produzione di radicali idrossilici meglio del ferro (Floyd, 1981). Oltre ai danni che possono arrecare al DNA, è importante ricordare che i radicali liberi hanno – per certo – effetti pleiotropici, che possono variare da risposte citotossiche a mitogene, a seconda della concentrazione, della durata dell’esposizione e del tipo di cellula o tessuto interessato (Davies, 2000). L’aumento significativo di eritrociti micronucleati CRESTpositivi, osservato nei topi neonati, è indicativo di un evento aneugenico, ovvero di un danno al fuso mitotico. Schuessler & Schilling (1984) hanno indicato che l’interazione fra ROS e fuso mitotico può produrre aneuploidia. E’ stato poi evidenziato che anche alterazioni dell’omeostasi del calcio intracellulare possano indurre aneuploidia (Mailhes et al., 1997). Ciò ha una notevole importanza alla luce delle numerose prove prodotte a favore dell’ipotesi che i campi magnetici ELF aumentino l’afflusso di ioni Ca++ (Lacy-Hulbert et al., 1998). In effetti, già Livingston et al. (1986) suggerirono che i campi magnetici possono intervenire nella formazione del fuso e – ancor prima – Chiabrera et al. (1984) proposero che variazioni delle concentrazioni citoplasmatiche di ioni Ca++ indotte dai campi magnetici stimolano la depolimerizzazione della tubulina (il principale componente dei microtubuli del fuso). Diversi lavori, anche se non rivolti al rilevamento di danni genotossici, indicano effetti dei campi ELF sull’apparato mitotico (Bardasano et al., 1986; Mailhes et al., 1997; Rapley et al., 1998; Dattilo et al., 2005). Anche Lenzi (1966; 1983) indicò – oltre ad effetti sul ciclo cellulare 75 suggestivamente simili a quelli delle radiazioni ionizzanti – anomalie durante la mitosi con conseguente malsegregazione cromosomica. Si può congetturare anche di un possibile effetto diretto (cioè non mediato dallo ione calcio o dai ROS) dei campi magnetici ELF sul fuso mitotico. Non in base a fenomeni di risonanza – la cui frequenza cade nello spettro delle radiofrequenze per i microtubuli (Pokorný, 2004) – bensì, tramite un’influenza sui magnetosomi attaccati al citoscheletro (Binhi, 2004), oppure sulla matrice elettro-densa dei centrosomi. Tuttavia, fino ad ora, non esistono indicazioni né sul piano sperimentale né su quello modellistico. Riassumendo, la figura 7 mostra i molteplici meccanismi d’azione che possono spiegare gli effetti osservati nei topi neonati esposti ai campi magnetici ELF. Anche se, in termini assoluti, i livelli di micronuclei indotti non sono alti quanto quelli causati da noti mutageni, questi risultati – se confermati da altri studi – possono indicare che i campi magnetici possiedono differite capacità di danneggiare l’integrità del genoma. E’ importante notare che, in questo esperimento, l’esposizione cronica ai campi ELF ha causato un aumento di due volte degli eritrociti micronucleati CREST-negativi e di quattro volte di quelli CREST-positivi. Alla luce di questi dati – dunque – e dell’assenza di danno rilevata nei topi adulti, si possono trarre alcune conclusioni. Innanzitutto, sull’importanza di condurre in questo campo ricerche in vivo; già Barnothy (1964) aveva indicato come fosse necessario, per ottenere lo stesso effetto, usare intensità maggiori in singole cellule o tessuti rispetto all’intero organismo. Ciò indica, innanzitutto, un effetto di amplificazione che va di pari passo con l’aumentare della complessità del sistema (Adey, 1980). “Si è visto che gli interi organismi sono i più sensibili ai campi elettromagnetici, organi isolati e cellule lo sono meno e soluzioni di macromolecole lo sono ancor meno […] La presenza di un’aumentata sensibilità ai campi elettromagnetici solo in sistemi biologici complessamente organizzati può essere considerata come una delle manifestazioni della specifica natura della vita – la sua organizzazione” (Presman, 1970). E’ altrettanto importante presupporre che le proprietà da indagare possano variare, anche radicalmente, al variare del soggetto o campione che si studia. Non solo l’età – quindi – ma anche il tessuto o tipo cellulare in esame può determinare la rilevabilità di un effetto. Il fatto che alcuni tessuti ed organi, quali il cervello (Kirschvink et al., 1992), il midollo osseo e la milza (Attia & Yehia, 2002), presentino quantità importanti di ferro è un elemento importante da tener presente. A questo va aggiunto che diverse cellule possono avere diverse sensibilità e che tale sensibilità può variare durante la vita cellulare. Infine, l’indicazione più originale che emerge da questo lavoro è la necessità di investigare a fondo il possibile legame tra esposizione ai campi magnetici e aneuploidia. I numerosi studi epidemiologici condotti finora hanno investigato la relazione fra campi ELF e cancerogenesi; in base a ciò, numerose ricerche si sono concentrate sulle possibili proprietà clastogene di tali campi. Tuttavia, anche l’aneuploidia viene considerata con sempre maggiore interesse, quale fenomeno coinvolto nello sviluppo della cancerogenesi. Perfino, alcune recenti teorie vedono l’aneuploidia come l’unico evento scatenante delle malattie neoplastiche (Li et al., 2000). Inoltre, è stato evidenziato come eventi aneugenici – determinanti un’instabilità cromosomica – durante la vita intra-uterina possano portare a leucemie e sindromi mielodisplastiche dopo la nascita (Plumb et al., 1997; Nakanishi et al. 1999). Maggiori ricerche in questo senso potranno permettere progressi sia nel campo della magnetoterapia oncologica (utilizzando i campi magnetici in funzione antiblastica), sia nel settore dell’igiene pubblica ed industriale, contribuendo a fornire le basi per l’individuazione – e successivamente la valutazione – del rischio per quei gruppi ambientalmente e professionalmente esposti. 76 9. SOMMARIO Negli ultimi 20 anni sono state eseguite numerose ricerche per indagare la possibile relazione tra cancerogenesi ed esposizione ai campi elettromagnetici. Diversi studi hanno esaminato le proprietà genotossiche dei campi magnetici a frequenze estremamente basse (ELF), ma – ad oggi – la tesi che questi campi posseggano le suddette proprietà risulta controversa. Lo scopo di questa ricerca è stato quello di individuare un eventuale danno genotossico in topi neonati ed adulti. A tal fine, il test dei micronuclei è stato eseguito su campioni prelevati da 15 topi adulti esposti per 21 giorni ad un campo magnetico di 50 Hz e 650 µT. Inoltre quattro femmine gravide sono state esposte durante la gravidanza ed i 38 neonati sono stati sacrificati al terzo giorno dopo la nascita (per un’esposizione totale di 21 giorni). Per distinguere quei micronuclei contenenti un intero cromosoma da quelli contenenti un frammento, è stata utilizzata la colorazione con anticorpo CREST. Il test è stato eseguito su eritrociti prelevati da sangue periferico (sia adulti che neonati), fegato (neonati) e midollo osseo (adulti). I risultati ottenuti nei neonati indicano un aumento delle frequenze medie di eritrociti micronucleati, sia CREST-positivi che CREST-negativi. Nel sangue periferico, la frequenza di eritrociti micronucleati CREST-positivi, pur rimanendo bassa in confronto a quelle indotte da noti mutageni, mostra valori quattro volte superiori rispetto a quella di topi neonati non esposti. Inoltre, è stata rilevata una diminuzione significativa di eritrociti policromatici. Negli adulti, sebbene si sia osservato un valore maggiore delle frequenze di eritrociti micronucleati rispetto a quello di topi non esposti, l’analisi statistica ha evidenziato che tale differenza non è significativa. Si può suggerire – quindi – che in relazione ai campi magnetici ELF, i topi neonati sono più sensibili rispetto agli adulti, così come avviene per altri agenti mutageni. Infine, questi risultati potrebbero indicare che i campi magnetici ELF influiscono attraverso diverse vie sull’integrità del genoma. In particolare, i dati riguardanti i micronuclei CRESTpositivi evidenziano la necessità di ricercare la possibile relazione tra campi elettromagnetici ed aneuploidia, un fenomeno chiave per capire l’inizio della cancerogenesi. Abstract Aneugenic and clastogenic properties of extremely low frequencies (ELF) magnetic fields In the last 20 years, several studies have been carried out in order to investigate the possible relation between carcinogenesis and electromagnetic fields exposure. Several studies have examined the genotoxic properties of extremely low frequencies (ELF) magnetic fields, but until now, the hypothesis that these fields are genotoxic is controversial. The aim of this work was to detect a potential genotoxic damage in newborn and adult mice. In order to do this, the micronucleus test have been performed on samples taken from 15 adult mice exposed for 21 days to a 50 Hz, 650 µT magnetic field. Moreover, four pregnant mice were exposed during the whole pregnancy and the 38 newborn were sacrificed 3 days after birth (for a total exposure time of 21 days). CREST staining was used to distinguish between micronuclei containing a whole from chromosome and those containing a fragment. The micronucleus test have been performed on erythrocytes sampled from peripheral blood (both from adults and newborns), liver (newborns) and bone marrow (adults). Results obtained in newborn mice show an increase of both CREST-positive and CRESTnegative micronuclei mean frequencies. In peripheral blood, the mean frequency of CRESTpositive micronuclei, is four times higher than that of the non-exposed newborn mice, even though its value is low in comparison with the frequencies induced by known mutagens. Moreover, a significant decrease of polychromatic erythrocytes has been detected. 77 In adults, even if the mean frequencies of micronucleated erythrocytes were higher than those of the non-exposed mice, the statistical analysis revealed that this difference was not significant. Therefore, it may be suggested that in relation to ELF magnetic fields like for other mutagenic agents, newborn mice are more sensitive than adults. Finally, these results may indicate that ELF magnetic fields influence through different ways on the genome integrity. In particular, the data concerning CREST-positive micronuclei stress the need to investigate the possible link between electromagnetic fields and aneuploidy, a key-phenomenon to understand the start of carcinogenesis. 78 10. BIBLIOGRAFIA Aaron KR, Ciombor DM, Keeping H, Wang S, Capuano A, Polk C. 1999. Power frequency fields promote cell differentiation coincident with an increase in transforming growth factor β-1 expression. 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