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La psicoanalisi assistita dal cavallo
I. Cavallo e uomo
“Dove vai Itzig?” gli chiede qualcuno.
“Non lo so, interroga il mio cavallo”.
(S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess, 1887-1904)
1. Cenni di storia dell’equitazione
Il comportamento animale è da sempre oggetto di studio per l’uomo in quanto soggetto interattivo all’interno del grande branco degli essere viventi. Da
quando sono apparsi su questo pianeta, gli esseri umani hanno cercato di
comprendere i linguaggi e le modalità di comunicazione degli altri inquilini
con cui si sono trovati a dividere questo piccolo grande spazio che è la nostra Terra. Forse ancora prima che cercare di indagare il proprio animo, gli
uomini hanno provato a costruire teorie sui comportamenti animali per lo
più al fine della caccia; naturalmente l’alimentazione è collegata alla sopravvivenza, quindi la possibilità di prevedere i comportamenti animali avrebbe
dato fin dall’inizio un vantaggio competitivo davvero importante. Certamente
il cavallo non è stato uno dei primi animali a cui l’uomo ha dedicato la propria attenzione; possiamo presumere che si sia dedicato inizialmente ad
altri soggetti molto più riconoscibili e facili da intercettare.
Nel 1834 il giovane archeologo francese Charles Texier scoprì presso
Boõazköy, sull’altopiano dell’Anatolia centrale (circa centocinquanta chilometri a Est di Ankara), quella che poi risulterà essere Khattushash, la capitale
dell’impero ittita, estesa all’epoca del suo massimo splendore su una superficie di centoventi ettari. All’interno del vasto e fortificato centro urbano
sorgeva la cittadella che ospitava il palazzo imperiale, gli edifici pubblici, i
magazzini e gli archivi-biblioteche in cui erano conservati migliaia di documenti statali incisi su tavolette d’argilla in caratteri cuneiformi. Durante la
campagna di scavi eseguita tra il 1906 e il 1912 dalla Società Orientalista
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tedesca sotto la guida dell’assiriologo Hugo Winckler, vennero trovate, tra
la moltitudine di reperti, quattro tavolette d’argilla, poi datate attorno al
1500-1440 a. C., con novecentoquarantasei righe incise sulle due facce;
contenevano un insieme di regole sull’allenamento dei cavalli. L’opera fu
redatta per il re Suppiluliumas I il Grande da un certo Kikkuli, appartenente
al popolo dei Mitanni prima assoggettato e poi assorbito dagli Ittiti. Questo
documento, cui è stato attribuito dai ricercatori il titolo di L’arte di governare
e allenare i cavalli, costituisce la prima testimonianza scritta sinora rintracciata sull’allenamento dei cavalli; esso sembra significare che esistesse una
tradizione di allevamento equestre ancora prima delle testimonianze riferite
all’attività degli Ittiti con i cavalli nell’area del Mediterraneo. Le quattro tavolette costituiscono un vero e proprio “manuale” con un programma basato
su un ciclo di centottanta giornate, con regole precise seppure riferite esclusivamente alla preparazione di cavalli da aggiogare ai carri da guerra.
Sappiamo quindi che da almeno tremilaseicento anni gli uomini si interessano ai cavalli in modo sistematico e con l’idea di interagire; non possiamo
certamente pensare che fin da subito i rapporti siano stati idilliaci e basati
sulla reciproca amicizia.
Le prime testimonianze di cavalli montati ci giungono attraverso le descrizioni mitiche dell’esercito delle amazzoni e dei reparti montati del re
etiope Memnone. I greci per secoli non conobbero l’equitazione. Il cavallo
divenne animale domabile solo quando, non si sa se per caso fortuito o per
ragionamento e ricerca, fu scoperto che poteva essere dominato utilizzando
un elemento di metallo (morso) introdotto nella bocca, più precisamente
nelle parti comprese tra la mascella superiore e quella inferiore libere dai
denti (le barre). È davvero emozionante notare che i numerosi morsi estratti
durante gli scavi archeologici non differiscono molto da quelli utilizzati nell’era moderna; grazie dunque all’utilizzo del morso fu possibile domare il
cavallo e la mano dell’uomo poté determinarne velocità e direzione.
Occorsero secoli e secoli per fornire il cavallo degli altri mezzi ausiliari
necessari per la pratica dell’equitazione: ferratura, sella e staffe. L’antenata
della sella moderna era una coperta ornamentale alla quale gli Assiri nel VIIIVII secolo a. C. attaccarono una sorta di staffa; ne forniscono testimonianza gli
altorilievi assiri trovati a Nimrud (Iraq), che consentono di verificare anche
la posizione del cavaliere in sella. Il cavallo porta una gualdrappa ampia e
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La psicoanalisi assistita dal cavallo
spessa sormontata da una pelle di leopardo disposta per ammorbidire la
seduta del cavaliere; al collo del cavallo si individua un collare, utile elemento per mantenere il cavaliere in equilibrio. La gualdrappa è assicurata sul
cavallo da un pettorale, e le redini, piuttosto corte, sono tenute basse all’altezza della mano del cavaliere da un contrappeso; il cavallo sembra poter
procedere soltanto in linea retta e il cavaliere avere totale autonomia di movimenti per manovrare arco e frecce. Il cavaliere ha le cosce nude, ma le
gambe sono fasciate da protezioni in cuoio sopra il ginocchio e lungo lo stinco. Furono probabilmente gli Hyksos, popolazione di pastori nomadi semiti,
a introdurre il cavallo in Egitto intorno al XVII secolo a. C. e, come confermano le raffigurazioni, il cavallo utilizzato era quasi certamente di origine
mongola. Alcuni libri sacri lasciano pensare che i cinesi montassero già nel
XXI secolo a. C.; gli imperatori iniziarono a mettere in sella l’esercito con
Kao Ti (Gaodi), fondatore della dinastia Han, intorno al 200 a. C., dopo che
furono registrate ingenti perdite nell’esercito ippotrainato a opera dei cavalieri nomadi provenienti dalle steppe del Nord. I cinesi avevano ripreso dalle
popolazioni nomadi che vivevano nelle steppe dell’Asia centrale l’impiego
della sella e della staffa, introdotta in India nel I secolo a. C. come anello
per alluce.
Il primo autore che ha lasciato importanti testimonianze sull’equitazione
nel periodo classico è il greco Senofonte; insieme al suo testo completo Perì
ippikès ci sono giunti anche stralci dell’opera di Simone di Atene, professionista e preparatore di puledri. Molti dei princìpi espressi in quegli scritti
sono tuttora validi, come la posizione in sella che raccomanda le gambe
senza angolazioni di sorta, tese in avanti, simile alla posizione della moderna
equitazione western. Senofonte considerava i percorsi a ostacoli in terreno
vario come una fase importante dell’allenamento del guerriero, il quale avrebbe dovuto saltare tutti gli ostacoli naturali che trovava sulla sua strada come
muri di pietra, dislivelli etc. Senofonte ha anche lasciato importanti consigli
riferiti alla psicologia equina, raccomandando sempre di privilegiare la calma
e la pazienza nell’approccio con l’animale. La storia dell’equitazione e, più
in generale, il rapporto dell’uomo con il cavallo, hanno riguardato nei secoli
un’ampia sfera di applicazione, ma, quanto all’addestramento e all’allenamento specifico dell’animale montato, l’attenzione, per circa duemila anni, è
stata quasi esclusivamente circoscritta alle campagne militari e alle battaglie.
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La nascita dell’equitazione accademica
Fu nel Medioevo che il cavallo cominciò a essere utilizzato anche per fini
agonistici e di piacere. Il cavallo era per tutti il mezzo di trasporto e di lavoro per eccellenza, ma montare a cavallo diventò anche fenomeno di costume per l’aristocrazia, ed esercitarsi nell’equitazione di alta scuola fu presto
un obbligo per ogni nobile. I tornei richiedevano cavalli bene addestrati e
sottomessi e ovviamente anche abili cavalieri. Nel Rinascimento, presso le
corti d’Europa, iniziarono a svilupparsi vere e proprie scuole di equitazione
dove operavano uno o più maestri al servizio dei cortigiani; oltre all’equitazione vi s’insegnava l’uso delle armi, la danza, la musica, la pittura e la
matematica. La capostipite fu l’Accademia di Napoli, che raggiunse il massimo splendore nel XVI secolo per opera di Giovan Battista Pignatelli, attirando allievi da tutta Europa; il gentiluomo napoletano sorpassò tutti i suoi
contemporanei nell’arte del cavalcare e dell’istruire cavalli e cavalieri e fece
erigere a Napoli le prime “cavallerizze” (maneggi). Pignatelli fu il più famoso allievo di Federico Grisone, riconosciuto dai suoi contemporanei come il
padre dell’arte equestre e considerato il più antico tra gli autori di testi sull’equitazione; il suo libro Gli ordini di cavalcare fu stampato per la prima
volta a Napoli nel 1550, e venne poi riprodotto in numerose edizioni sia
italiane sia straniere (fu tradotto in francese, tedesco, spagnolo e inglese). A
Napoli, presso di lui, si formarono anche i futuri capi-scuola francesi Salomon
de La Broue e Antoine de Pluvinel. Tra i grandi autori attivi nella seconda
metà del Cinquecento, periodo in cui vennero dati alle stampe i primi e più
famosi trattati di equitazione ai quali si fa risalire la nascita dell’equitazione
accademica, figura il gentiluomo ferrarese Cesare Fiaschi, che pubblicò a Bologna nel 1556 un Trattato dell’imbrigliare, maneggiare et ferrare cavalli.
Non si hanno notizie precise dell’attività d’autore di Pignatelli, ma è certo
che, attraverso la sua opera di maestro, Napoli si confermò in quel periodo
come il centro d’irradiamento dei princìpi dell’equitazione e della nuova
cultura che si andava formando attorno al cavallo; gli echi se ne possono
cogliere in tutta la letteratura del secolo, dal Mercante di Venezia di
Shakespeare alle Vite del Vasari. La nobiltà di tutta Europa giungeva nella
città partenopea per apprendere l’arte che fu di re e di prìncipi ma anche di
papi, cardinali e alti prelati. La fama di Pignatelli fu talmente grande che
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nei decenni successivi, sino al Seicento inoltrato, per illustrare i propri meriti i cavallerizzi più famosi avrebbero vantato un apprendistato equestre
alla scuola del gentiluomo napoletano o dei suoi allievi. Lo stesso Luigi
XIII imparò l’arte di montare a cavallo da Pluvinel, uno dei discepoli di
Pignatelli, che espose gli insegnamenti trasmessi al re nelle tavole incise da
Crispijn van de Passe per illustrare il libro L’instruction du Roy en l’exercice
de monter à cheval, fatto pubblicare da Menou de Charnizay, discepolo e
amico di Pluvinel, nel 1625 dopo che, abusivamente, era stato dato alla
stampa il libro Le maneige royal nel 1623. Per tutto il Cinquecento e fino
all’Ottocento non vi fu palazzo principesco o reale ove non fosse accolto un
cavallerizzo che istruisse il signore e la sua corte nei nuovi e nobili princìpi
dell’equitazione. Claudio Corte, nobiluomo pavese che aveva avuto il suo
apprendistato equestre a Napoli, divenne cortigiano di Elisabetta I d’Inghilterra; Lorenzino Palmieri dedicò al granduca di Toscana il suo trattato
sulle Perfette regole et modi di cavalcare (1625), mentre Pirro Antonio
Ferraro, autore di uno dei più rinomati trattati del Seicento, Cavallo frenato
(1602), fu cavallerizzo alla corte di Filippo II di Spagna.
Accanto alle corti, anche le accademie divennero, per tutto il Rinascimento e durante il Seicento, centri di diffusione delle tecniche di equitazione.
Le più famose furono l’Accademia cavalleresca di Udine (1609), l’Accademia dei cavalieri del Sole di Pavia, ma soprattutto la Stella di Messina
e la Delia di Padova. Esclusive, riservate per statuto a cavalieri e aristocratici, per accedervi si doveva dimostrare la lontananza dall’esercizio di
qualsivoglia “arte o mercanzia”. L’intento che muoveva gli accademici, come
risulta dai loro statuti, era semplice: esercitarsi nelle armi e nell’equitazione
per confermare la propria preparazione sul campo, e dunque l’essere cavalieri
di fatto. A Palermo il viceré don García di Toledo si fece protettore di una
accademia di cento cavalieri armati di tutto punto che, oltre a essere impiegati in tempo di guerra, partecipavano a tutte le giostre e i tornei. La
Delia di Padova, che avrebbe voluto persino Galileo Galilei tra gli insegnanti
di scienze matematiche per i propri allievi, ingaggiò come cavallerizzo
Luigi Santapaulina, autore del terzo volume dell’apprezzato trattato L’arte
del cavallo (1696) e famoso anche per aver ideato alcuni celebri balletti a
cavallo in occasione dell’arrivo della regina Cristina di Svezia a Roma.
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Dalle corti principesche e dalle accademie cittadine si diffuse in tutta
Europa l’equitazione italiana, tanto che anche in Francia, in Austria e in
altri Paesi sorsero centri deputati all’istruzione secondo le nuove tecniche:
la Scuola spagnola di equitazione di Vienna (1729) e il Cadre Noir di Saumur
(1825), come istituzioni di Stato, sono probabilmente gli ultimi eredi dell’equitazione accademica nata durante il Rinascimento in Italia. All’ombra
del principe e delle accademie il cavallerizzo si trasformerà gradualmente
nello scudiero, responsabile degli allevamenti equini e di tutta l’organizzazione equestre del sovrano.
L’equitazione moderna
Quale fondatore dell’equitazione moderna viene riconosciuto il francese
François Robichon de la Guérinière, scudiero di Luigi XV, che aprì una
accademia a Parigi nel 1715 e diresse il maneggio delle Tuileries dal 1730
fino alla morte. La sua opera L’école de cavalerie è l’esposizione metodica
della sua dottrina che fu ispiratrice della Scuola spagnola di Vienna e di
tutto il movimento francese fino alla Rivoluzione (1789). Nel XIX secolo
l’attenzione dell’addestramento per l’equitazione si concentrò sull’utilizzo
del cavallo per scopi militari: i cavalieri e i cavalli, mutate le condizioni del
combattimento, erano chiamati a percorrere la battaglia velocemente, superando le asperità del terreno, riunendosi in frotta e separandosi rapidamente
per sfuggire all’osservazione nemica e sottrarsi al suo fuoco. L’equitazione
istintiva, una volta prerogativa dei popoli nomadi, ritrovò efficacia nei confronti della rigidità accademica; la preparazione del cavallo militare, vero e
proprio trampolino per l’attività sportiva dei giorni nostri, divenne l’obiettivo
primario. Contemporaneamente, per sport e divertimento, si cominciava a
sviluppare, soprattutto oltre Manica, la caccia a cavallo e l’utilizzo dello stesso
nei grandi spazi all’aperto.
Dall’Italia, più precisamente dalla Scuola di cavalleria di Pinerolo (circa
trenta chilometri a Nord di Torino), parte la storia dell’equitazione nell’era
moderna. Fu in questa sede che alla fine dell’Ottocento il capitano Federico
Caprilli, poco più che trentenne, mise a punto un sistema di equitazione del
tutto innovativo detto “sistema naturale”, che rapidamente si diffuse in tutto
il mondo. Caprilli rivoluzionò il metodo del salto sino a quel momento adot-
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La psicoanalisi assistita dal cavallo
tato; si pensava, infatti, che il miglior modo per saltare gli ostacoli fosse di
alzare l’anteriore del cavallo con il busto rovesciato indietro, immaginando
di mantenere in equilibrio il cavallo con un fortissimo appoggio della mano
sul morso, ma Caprilli, invece, capì che il cavaliere doveva lasciare il cavallo libero di usare il proprio istinto e i propri mezzi per percorrere la campagna e superare gli ostacoli facendo corpo unico con l’animale. Il cavallo
doveva saltare affidandosi al proprio istinto, obbedendo alle semplici indicazioni degli aiuti del cavaliere: le gambe per avanzare e accelerare, le mani
per dirigere, rallentare e fermare.
La Scuola di cavalleria di Pinerolo
Il 15 novembre 1823 re Carlo Felice decretò la costituzione di una scuola
deputata all’insegnamento dell’equitazione per i giovani appartenenti ai corpi
militari presso il castello di Venaria Reale (Torino). Sciolta nel 1848, la
scuola fu ricostituita l’anno successivo nella caserma Principe Amedeo di
Pinerolo, e rappresentò per la piccola cittadina un vero e proprio centro di
attrazione. Nel 1862 l’istituzione si trasforma in Scuola normale di cavalleria
e, successivamente, in Scuola di applicazione di cavalleria, restando tale
fino al 1943, anno della sua soppressione. La costruzione del galoppatoio di
Baudenasca nel 1894 e del maneggio coperto nel 1911, la creazione nel
1875 del Corso allievi veterinari e nel 1880 dell’unica Scuola italiana di
mascalcia consentirono a Pinerolo di dotarsi di un complesso assolutamente
all’avanguardia.
Dopo i primi anni di limitato sviluppo, dovuti alla mancanza di un indirizzo preciso di insegnamento, il primo grande momento di impulso per la
scuola fu dato dal colonnello Lanzavecchia di Buri il quale, nel 1865, accompagnato dal capitano Baralis, visitò le scuole di equitazione di Vienna,
Berlino, Hannover e Saumur approfondendo i metodi adottati all’estero. Fu
Lanzavecchia a decidere di far uscire i giovani cavalieri dallo spazio limitato dei maneggi coperti per addestrarli all’equitazione di campagna,
demandando la loro istruzione a Cesare Paderni. Dopo la morte del capitano
Baralis (1885) la scuola rischiò di essere trasferita a Caserta. Sulla scorta
del successo ottenuto con l’esperienza all’ippodromo romano di Tor di Quinto,
nel 1891 fu deciso di incrementare l’attività della scuola con un corso com-
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Ivan Ottolini
plementare di campagna. La direzione passò al generale Berta, ideatore del
galoppatoio di Baudenasca, che per primo utilizzò purosangue irlandesi. È
in questi anni che si forma alla Scuola di Pinerolo il giovane ufficiale Caprilli,
il quale già nel 1888 intuisce che lo stile sul salto può essere migliorato
introducendo il metodo di equitazione naturale; il grandissimo successo che
subito riscuote fa sì che da tutto il modo arrivino a Pinerolo osservatori e
allievi. Il successo di Caprilli al concorso ippico di Torino del 1902 costituisce la definitiva affermazione del sistema, che viene adottato nelle più
importanti scuole all’estero. Caprilli muore a soli trentanove anni, a Pinerolo,
in seguito a una banale caduta da cavallo; e proprio dopo la scomparsa del
grande maestro la scuola assume la sua fisionomia definitiva.
Sistemata in un grandioso complesso, oggi in parte occupato dal Museo
nazionale dell’Arma di cavalleria, la Scuola era collocata al centro della
cittadina piemontese ed era composta di vari edifici a tre piani. Sul vasto
cortile, dalla parte opposta, si affacciavano le scuderie per i cavalli da
scuola. Le dipendenze laterali, di un solo piano, erano occupate da altre
scuderie, dalle cucine, dai servizi e da un maneggio coperto di metri sessanta per quaranta; vicino alla Scuola si trovava un secondo piccolo maneggio coperto. Nel 1911 venne inaugurato un altro grandioso maneggio (l’unico
ancora oggi esistente) dedicato a Caprilli. La Scuola disponeva di due campi
per le esercitazioni: il primo aveva una pista con uno sviluppo di un migliaio di metri, attraversato da altre piste diagonali, con svariati ostacoli
disposti in ordine progressivo a partire dai trenta centimetri di altezza, per i
cavalli giovani, fino a un metro per i cavalli già addestrati; il secondo campo
rappresentava un vero e proprio ippodromo, studiato da numerose delegazioni straniere per la sua eleganza e la sua funzionalità. Voluto dal generale
Berta e costruito dai genieri lungo gli argini del Chisone, circondato da boschi, l’ippodromo disponeva di una pista lunga tre chilometri e larga venti
metri, dei quali i tre metri più esterni erano coperti di sabbia, i rimanenti in
erba. Il numero delle piste diagonali e trasversali era rilevante e dotate di
ostacoli vari. L’impianto disponeva inoltre di un bacino d’acqua di metri
trenta per venti, con profondità di quattro metri per le esercitazioni delle
traversate a nuoto. Una serie di fili stesi, ai quali erano legate corde con
uncini alle estremità, consentivano ai cavalieri che non sapevano nuotare di
esercitarsi senza pericolo. In un secondo tempo venne costruito, accanto alla
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La psicoanalisi assistita dal cavallo
Scuola, anche un ricovero-ambulatorio per i cavalli ammalati, con box di
isolamento, farmacia, laboratorio di analisi, oltre a un’ampia fucina per gli
allievi fabbri, oggi sede della Scuola di mascalcia. Un altro piccolo edificio
accoglieva un’aula per le lezioni di ippologia, un gabinetto anatomico e una
ricca collezione di ferri di cavallo.
Gli allievi ufficiali montavano ogni giorno, in maneggio e in campagna,
cinque cavalli. Nella scuola erano istituiti, inoltre, corsi speciali di tattica,
di veterinaria, di mascalcia, di scherma, di tiro, un corso genieri telegrafisti
per sottotenenti, un corso genieri per soldati e uno di perfezionamento per
sottufficiali. L’effettivo della Scuola, agli inizi del XX secolo, era costituito
da cinquecentocinquantacinque cavalli, tra i quali gli Hunter irlandesi (voluti
dal generale Berta perché meglio rispondevano alle esigenze dell’equitazione di campagna) erano duecenticinquanta; vi erano inoltre centocinque
purosangue inglesi e duecento mezzosangue italiani. Ogni anno un’apposita
commissione ! Caprilli ne fece parte ! si recava in Irlanda per l’acquisto
della rimonta per la Scuola e per gli ufficiali. I cavalli personali degli ufficiali
venivano tirati a sorte; il prezzo veniva stabilito dal comitato militare.
L’insegnamento dell’equitazione alle reclute si divideva in due periodi:
insegnamento con il filetto e insegnamento con il morso, in maneggio e in
campagna. Il corso durava complessivamente quattro mesi.
Dal 1900 al 1938, con la sola interruzione degli anni della prima guerra
mondiale, centoquarantuno ufficiali di trentatré diverse nazioni parteciparono
ai corsi della Scuola di applicazione di cavalleria, a Pinerolo e a Tor di Quinto,
per apprendere l’equitazione naturale. I corsi iniziavano nella cittadina piemontese in ottobre e terminavano a luglio; i partecipanti avevano così la
possibilità di seguire tutto l’addestramento del cavallo giovane, di cinque
anni; successivamente seguivano a Tor di Quinto un ulteriore corso della
durata di tre mesi. Gli ospiti disponevano, oltre ai due cavalli di loro proprietà, dello stesso numero di cavalcature degli allievi della Scuola; agli allievi stranieri, per ragioni di prestigio, erano destinati i migliori. Questi allievi,
che già rappresentavano l’élite dei cavalieri nei loro rispettivi Paesi, al ritorno
in patria contribuivano a diffondere nel mondo il “sistema” caprilliano. L’8
settembre 1943 la Scuola cessò la sua attività dopo essere stata saccheggiata dai tedeschi.
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La Scuola militare di equitazione di campagna di Tor di Quinto
Verso il 1880 gli ufficiali cominciarono a cimentarsi nel cross e a prendere
parte alle frequenti battute di caccia alla volpe, sport diffusissimo specialmente a Roma. Poiché gli ufficiali non riuscivano a distinguersi nei confronti
dei civili, il Ministero della Guerra ritenne opportuno organizzare un corso
complementare di equitazione di campagna dipendente dalla Scuola militare
di Pinerolo e, non essendovi nei pressi della cittadina piemontese una località
che si prestasse per far pratica su un terreno aperto, si decise di portare la
nuova scuola nella campagna romana dove era in uso la caccia alla volpe:
là si poteva trovare un terreno che, con spazi tenuti a pascolo, dolci pendii,
strette marrane e staccionate, costituisse un ambiente ideale per le lunghe
galoppate. Su incarico del ministro Luigi Pelloux fu deciso di cercare e acquistare un terreno.
Gli incaricati ministeriali scelsero un terreno ai bordi del Tevere verso la
via Flaminia, in una zona chiamata Tor di Quinto che, a quei tempi, era periferica, perché la città si spingeva appena fuori porta del Popolo; sul terreno
acquistato esisteva già un ippodromo dotato di una pista di duemilaquattrocento metri, scuderie e tribune. Il governo approvò l’acquisto e vi sistemò
la Scuola che, già dall’inverno 1891, era in funzione per il primo Corso
complementare di equitazione da campagna riservato ai sottotenenti usciti
dalla Scuola di Pinerolo e affidato al marchese di Roccagiovane. Questi, un
esperto cavaliere di campagna, master della caccia alla volpe, per l’occasione fu nominato capitano della milizia territoriale e richiamato in servizio;
il marchese fece donazione all’Arma di cavalleria di alcuni terreni per ampliare la zona dell’ippodromo. Nel 1891 tra i partecipanti al primo corso c’era
anche il tenente Caprilli.
Nel febbraio 1893 nell’ippodromo di Tor di Quinto, che l’autorità militare
aveva completato e sistemato, si svolsero le prime competizioni. Nella prima
giornata di corse fu disputato il Premio apertura, vinto dal tenente Federico
Tesio che montava Esperance; in un’altra giornata fu disputato il Premio
reale, uno steeplechase (gara originariamente disputata in Inghilterra che
prevede il superamento di ostacoli naturali come steccati e fossati) per ufficiali sui quattromila vinto da Goldfinger, montato dal tenente Caprilli. Questa
Scuola di cavalleria fu frequentata in seguito dai tenenti Berta, Pralormo,
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Amalfi, Dodi, Ubertalli, che divennero tra i maggiori sostenitori del nuovo
metodo di equitazione naturale. Furono direttori, vicedirettori e istruttori della
Scuola militare di equitazione di campagna cavalieri della fama di Caffarati,
Forquet, Cacciandra, Formigli, Lombardi, Lequio, Salazar, Bocchini, Conforti,
Bonivento, Bruni, Gutierrez, Campello. La Scuola metteva in luce tutto il coraggio che era necessario per superare ostacoli come: scivolo, cancello in
salita e discesone siti nella parte alta; staccionate, sieponi, muri in cresta,
talus (terrapieno) e doppio talus nell’ippodromo. Solo dopo aver terminato
questo corso un cavaliere poteva considerarsi completo. La Scuola di Tor di
Quinto rimase in funzione fino al 1940.
2. Le grandi aree di applicazione del cavallo
Come abbiamo potuto vedere, l’interazione tra uomo e cavallo ha portato a
costituire quella pratica che è stata definita equitazione. Quest’ultima si è
distinta da sempre in tre grandi aree a seconda del suo impiego: la guerra, il
lavoro e lo sport. Proprio seguendo questo criterio possiamo provare ora a
descrivere queste aree di applicazione del cavallo.
Il cavallo da guerra
A partire dalle prime interazioni tra uomo e cavallo ci fu la netta percezione
che quest’ultimo potesse fornire un grosso vantaggio sul nemico da combattere o conquistare in quanto permetteva al cavaliere di percorrere molta
più strada in velocità e soprattutto di affrontare il nemico con un fedele compagno di battaglia; tutto questo fu naturalmente possibile grazie all’utilizzo
del morso, come abbiamo già notato. L’arte della cavalleria da guerra fu oggetto di studio fin dall’antichità, e cerchiamo qui di tracciarne una breve storia.
La cavalleria nacque all’inizio del XI secolo in seguito alle trasformazioni
sociali e politiche dell’epoca feudale, all’accresciuto ruolo dei castelli e dei
guerrieri che li abitavano, all’adozione di nuove tecniche di combattimento.
Questo sviluppo si accompagnò alla valorizzazione ideologica cui diedero
impulso la Chiesa e la letteratura cortese. Il declino dell’Impero carolingio
fu all’origine della società feudale, rurale, aristocratica e guerriera; il potere
era esercitato dai signori, proprietari di castelli (prima in legno, poi in pie-
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tra), comandanti di guerrieri (milites) che svolgevano compiti di guardia e
di scorta. Alla testa dei loro cavalieri i signori imponevano un loro ordine,
riscuotevano tasse dagli abitanti, ingaggiavano scontri e conducevano razzie
contro i loro vicini.
Non bisogna confondere nobiltà e cavalleria; infatti, ancora nel XI secolo,
i nobili in gran parte comandavano i loro guerrieri ma non si definivano
“cavalieri” (equites). Nei castelli avevano ai loro ordini cavalieri di rango
diverso: cadetti di famiglie impoverite, bastardi, dipendenti liberi, guerrieri
“domestici” o servitori armati, ai quali si aggiunsero a partire dal XII secolo
anche i cavalieri mercenari. I cavalieri, in massima parte di origine non
nobile, provenivano dal mondo contadino; potevano sperare di ottenere dal
signore, in cambio dei buoni servizi resi, una terra o una ricca eredità, ma
l’ingresso nella nobiltà per il tramite della cavalleria era possibile ma raro,
subordinato alla benevolenza dei prìncipi. Questi cavalieri di origine “rustica” perdevano il loro status per tornare a essere contadini allorché si
trovavano nell’impossibilità di continuare a svolgere le loro funzioni (in
caso di malattia, ferimento, età o perdita dell’equipaggiamento). Nobiltà e
cavalleria rimasero quindi distinte nel XI e XII secolo; quasi tutti i nobili
erano cavalieri, ma i cavalieri erano ben lungi dall’essere nobili nel loro
complesso. In seguito, il costo crescente dell’equipaggiamento e la valorizzazione etica della cavalleria ne rafforzarono il carattere elitario, e la nobiltà
riservò quindi la cavalleria ai suoi membri.
Nel corso del XIII secolo numerosi testi giuridici vietavano la vestizione
dei non nobili, salvo in caso di deroga accordata dal prìncipe. Al contrario,
poiché la nobiltà ormai era distintamente definita dalla sola nascita, molti
figli di nobili trascurarono la vestizione, anche quando esercitavano la professione militare; la vestizione divenne in conseguenza una prestigiosa decorazione onorifica. Cerimonia d’ingresso in questa corporazione di guerrieri
d’élite a cavallo, la vestizione compare nei testi a partire dal XII secolo.
Non si trattava di un rituale a sfondo liturgico: erano spesso cerimonie collettive, laiche, compiute dal signore che reclutava i cavalieri, nella sua corte,
in occasione di una festa. Ma la Chiesa ben presto l’ammantò di riti, preghiere
e benedizioni cariche di significati simbolici che vincolavano il cavaliere al
dovere di servire anche la Chiesa, oltre al signore. Il cavaliere riceveva pubblicamente gli “strumenti” della sua professione dopo una “veglia d’armi”;
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La psicoanalisi assistita dal cavallo
rivestito dell’usbergo (tipica maglia medioevale costituita da migliaia di anelli di metallo che proteggeva dai colpi di arma da taglio), gli venivano consegnati la lancia (a volte munita di vessillo) e lo scudo, poi la spada deposta in
precedenza sull’altare; alcuni cavalieri mettevano gli speroni. In seguito il
cerimoniere colpiva il futuro cavaliere sulla nuca o sulla guancia (collata),
gesto che si trasformò più tardi nell’accollata, ossia un lieve colpo con la
lama della spada sulla spalla del cavaliere inginocchiato (XIV-XV secolo).
Nel X-XI secolo il cavaliere combatteva a cavallo nello stesso modo in
cui lo faceva a piedi, maneggiando la picca (o pica) o il giavellotto; la testa
protetta da un casco (che si prolungava in un nasale abbastanza stretto),
indossato sopra una cuffia di maglia, il corpo inguainato in una cotta di
maglia leggera (l’usbergo), i piedi protetti da calze o gambiere di maglia e
al braccio destro portava uno scudo (brocchiere) di forma variabile. All’epoca non esisteva ancora una tecnica di combattimento tipica della cavalleria.
A metà del XI secolo fece la sua comparsa il nuovo metodo di combattimento della carica massiccia, con la lancia in posizione orizzontale fissa,
che sviluppava una formidabile potenza: consentiva di scompaginare le linee
avversarie e di mettere in fuga i fanti; esigeva una grande disciplina, un addestramento assiduo (tornei, quintane) e, di conseguenza, un investimento di
tempo e di risorse finanziarie molto consistente. L’adozione di questa nuova
tecnica si accompagnò a una serie di migliorie dell’armamento: il casco si
trasformò nell’elmo chiuso, l’usbergo si perfezionò grazie alle placche di
metallo che rinforzavano i punti più esposti, la lancia si allungò fino a raggiungere i tre metri e mezzo. Alla fine del sec. XIV apparve l’armatura integrale, articolata, che copriva il cavaliere da capo a piedi; estremamente
costosa, assicurava un’efficace protezione contro le frecce e i colpi di spada,
e scomparve solo in seguito ai progressi dell’artiglieria.
L’etica cavalleresca pose le basi delle future “leggi della guerra”. Nel
XII secolo, salvo che ai margini dell’Occidente cristiano, i guerrieri catturati
in battaglia in genere non venivano più massacrati; si preferiva scambiarli
corrispondendo un riscatto “ragionevole”, e la guerra divenne un’attività
redditizia per i cavalieri. L’ammontare del riscatto dipendeva dal rango sociale del prigioniero; i cavalieri beneficiarono quindi di una tripla protezione: l’armamento, il loro valore commerciale e l’etica cavalleresca che
andava definendosi. La pratica del torneo contribuì alla sua elaborazione;
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Ivan Ottolini
ancor più della quintana (giostra cavalleresca consistente nel colpire un simulacro girevole di un avversario appeso a un palo senza esser colpiti a
propria volta), il torneo permetteva ai cavalieri di esercitare la loro destrezza,
di mettere a punto la loro tattica e di assicurare coesione alle loro fila. Fino
al XIII secolo il torneo fu un’autentica guerra codificata, una mischia collettiva, finché in seguito si trasformò nella giostra, ossia in uno scontro individuale. Il torneo consentiva ai cavalieri, in tempo di pace, di vivere delle
loro armi grazie ai guadagni che ne ricavavano: armature, cavalli, riscatti;
la loro prodezza poteva anche attirare l’attenzione di un patrono-datore di
lavoro o accendere l’amore di una ricca ereditiera. Nel 1130 la Chiesa condannò queste adunate “immorali” e privò della sepoltura cristiana coloro che
vi fossero morti, ma poi nel 1316 le autorizzò di nuovo. In auge fino al termine del Medioevo, il torneo, che riuniva sport, intrattenimento e festa,
rispecchiò meglio della guerra la mentalità e i valori cavallereschi.
Il cavaliere, a prescindere dal suo statuto, serviva il suo signore con le
armi, lo scortava in caso di necessità, vigilava sul suo castello, partecipava
alle spedizioni belliche più o meno importanti. Se era “cavaliere di casa”
sottostava a obblighi ancora più rigidi, quando era ingaggiato o mercenario
serviva sotto contratto per un lasso di tempo determinato, ma in entrambi i
casi si impegnava con un giuramento a obbedire al signore, a non disertare,
a non temere la morte e a non darsi alla fuga in battaglia.
Il servizio della Chiesa e dei deboli, delle vedove e degli orfani costituisce
un altro aspetto dell’etica cavalleresca derivato dall’antica missione reale
ricordata – la consacrazione del sovrano con la consegna della spada. Nel
XI secolo, in seguito al declino del potere centrale, la Chiesa aveva bisogno
di appoggiarsi a protettori più prossimi e, tramite la liturgia, investì di questa
missione prima i patrocinatori e i difensori delle chiese reclutati allo scopo,
in seguito i cavalieri, con la cerimonia di vestizione.
L’etica guerresca è all’origine del senso dell’onore che caratterizzava la
cavalleria. Il credito di un cavaliere dipendeva innanzitutto dal rispetto dei
doveri di fedeltà, di compagnonnage e di ardimento guerriero; ma la ricerca
della prodezza individuale, in aggiunta all’indisciplina e al disprezzo nei confronti di fanti e arcieri, fu talvolta causa di clamorose sconfitte, per esempio a
"a##$n (1187), al-Man%&ra (1250), Poitiers (1356) o Azincourt (1415). I romanzi aggiunsero ai doveri guerreschi il servizio alla dama, legato alla na-
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La psicoanalisi assistita dal cavallo
scita dell’amor cortese, che fu cantato dapprima dai trovatori occitani per
poi diffondersi in tutto l’Occidente; l’amore, ai loro occhi, esaltava le virtù
cavalleresche e spronava il cavaliere ad accrescere il suo valore. Per la sua
dama, che serviva in una sorta di vassallaggio amoroso, il cavaliere era indotto a eccellere, in battaglia e nei tornei, ma anche a frenare l’impazienza,
a disciplinare il desiderio e ad affinare i costumi per piegarsi ai desideri
della sua ispiratrice. L’etica cavalleresca assunse allora, prima nei romanzi
e poi nella realtà, una coloritura cortese e mostrò una tendenza a convertirsi
in galanteria; alla fine del Medioevo il cavaliere si trasformò in gentiluomo,
in uomo di corte o addirittura in cortigiano, e la cavalleria divenne un mito
culturale ispirato dalla letteratura ben più che dalla realtà.
Il cavallo da lavoro
Dalla notte dei tempi, l’uomo ha usato il cavallo nelle proprie attività lavorative; agricoltura e allevamento sono state sicuramente le prime in cui l’ha
impiegato, sia per trascinare l’aratro che per muoversi tra i capi di bestiame.
Tutti abbiamo l’immagine dei vaccari, chiamati diversamente nelle varie parti
del mondo: cowboys, gauchos, vaqueros, guardians, butteri, huasos etc., e
sappiamo che fanno della loro cavalcatura il fidato e difficilmente sostituibile
compagno di lavoro; questo ci dà da subito una prima idea di quanto gli equini siano stati e siano ancora oggi importanti al compimento di molti
impegni umani. Nonostante questa immagine stereotipata, dobbiamo fare
almeno un distinguo tra due tipologie di cavalli da lavoro: quelli da tiro e/o
da soma e quelli da cavalcare.
La prima categoria raggruppa i cavalli più grossi e forti, i cavalli dai
quali un tempo il mondo dipendeva per i trasporti e la forza motrice nell’agricoltura e nell’industria; per secoli, e soprattutto con lo sviluppo delle
strade dopo l’inizio della Rivoluzione industriale, sono stati un elemento
fondamentale dell’economia. Oggi i cavalli pesanti sono utilizzati ancora in
Paesi con economia poco industrializzata e nelle regioni agricole dove la
meccanizzazione è difficile, per alcuni tipi di trasporto – per esempio nel
Nord Europa dalle fabbriche di birra, che sfruttano la pubblicità derivante
dai meravigliosi tiri a quattro o a otto che fanno le consegne – ma certamente all’oggi l’impiego maggiore è nelle fiere e nelle manifestazioni ippi-
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Ivan Ottolini
che. Molti appassionati ippofili non accettano di veder scomparire questa
parte vitale del nostro passato, e sono nate così diverse associazioni per la
difesa delle razze da lavoro. Tra le razze più famose ci sono il TPR (Tiro
Pesante Rapido), il Percheron, il Frisone, gli Irlandesi da tiro, lo Shire, il
Suffolk Punch, il Bretone, l’Ardennese, il Belga e il Norico. Una definizione
più tecnica per le razze da lavoro è a “sangue freddo”; questo non significa
che la loro temperatura corporea sia inferiore a quella dei cosiddetti a
“sangue ardente” o a “sangue caldo”: il termine deriva dalla parola tedesca
Kaltblutigkeit, che significa flemma e solidità. Per le loro dimensioni imponenti e la massiccia muscolatura, i cavalli da lavoro tendono a essere pigri e
poco reattivi. Ci sono stati molti contrasti tra gli studiosi a proposito dell’evoluzione dei “sangue freddo”, ma sembra probabile che si siano sviluppati
sia dai Cavalli della Tundra che dai Cavalli della Steppa; entrambi avevano
la tendenza a crescere di dimensioni, in ambienti paludosi con abbondante
disponibilità di foraggio e clima da freddo a temperato; in un clima freddo
essere più grossi è un vantaggio, perché diminuisce in proporzione la superficie attraverso la quale il corpo perde calore per irradiazione.
In generale possiamo dire che i cavalli da lavoro da cavalcare possono
essere ascritti alla cosiddetta monta western, anche se non è propriamente
corretto, visto che quasi ogni Paese che ha una tradizione di cavalli possiede
un proprio stile di monta e una cultura equestre. Nonostante questo, oggi
potremmo dire che la monta western ha soppiantato in grande scala le altre
tradizioni, facendo quasi perdere la monta da lavoro dei singoli Paesi. Per
monta western si intende una disciplina di equitazione che trova origine
negli Stati Uniti d’America, dai cowbos, nel lavoro nei ranch; dalla marchiatura dei capi alla conduzione del bestiame stesso nelle zone di pascolo si
sviluppa tutta la tradizione di questa monta. La naturale conseguenza del
binomio cavallo-cavaliere, che per esigenza lavorativa doveva basarsi su
rispetto reciproco e fiducia, è il risultato di anni di selezione del cavallo e
un miglioramento della “richiesta” al cavallo dei comandi. Il cowboy, dovendo trascorrere dalle otto alle dodici ore in sella, aveva la necessità di
avere un assetto comodo e stabile (saltare, correre dietro ai vitelli, scendere
in corsa etc.); da qui l’evoluzione della sella western con paletta molto larga
e imbottita, fender larghi e morbidi, staffili lunghi e staffe larghe e profonde.
Tenendo conto che utilizzando il rope (lazo) per prendere i vitelli nasceva
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La psicoanalisi assistita dal cavallo
la necessità di arrestarli (un vitello pesa circa centocinquanta chilogrammi),
la sella si munì anche di un arcione alto e largo e di un pomo basso e largo
all’inizio realizzato in legno, successivamente in ferro e attualmente in acciaio.
Ovviamente, per avere una tranquillità di movimento anche nell’andatura,
venne selezionato un cavallo che avesse un trotto orizzontale – e non verticale – e un galoppo molto fluido e regolare. La selezione all’inizio partì da
cavalli autoctoni (i mustang) e cavalli europei (spagnoli, italiani, del nord
Europa relativamente alle colonizzazioni), fino ad arrivare alla prima linea
di sangue chiamata quarter horse. Sono considerate monte da lavoro anche
la monta maremmana, la tolfetana, la sarda, la napoletana, la siciliana, la murgese, la vaquera, la camarguese, l’araba, la bardigiana, la catria, la haflinger e
la portoghese.
La monta da lavoro è diventata nel tempo anche uno sport equestre non
rientrante tra le discipline inserite nei WEG. Le gare individuali e a squadre
si articolano in varie prove che evidenziano l’origine di questa tipologia di
monta; la monta da lavoro è una versione agonistica delle attività equestri
praticate tradizionalmente per il lavoro in campagna e presso gli allevamenti.
Essa viene regolamentata con precise norme che ne permettono la pratica in
maniera uniforme su tutto il territorio nazionale e consentono, altresì, il
confronto internazionale con le analoghe discipline di monta da lavoro degli
altri Paesi. Questa disciplina ha lo scopo di promuovere le varie tipologie di
monta da lavoro tradizionali. La monta da lavoro è una disciplina che si
compone di quattro diverse specialità: prova di addestramento, prova di attitudine, prova di abilità cronometrata, prova di sbrancamento; solo la sommatoria delle quattro diverse specialità determina la classifica generale.
Specialità Addestramento. È una gara “a giudizio” (non a tempo) che si svolge in un campo rettangolare da metri venti per quaranta nel quale il binomio
in gara, abbigliato e bardato in sintonia con la tipologia di monta dichiarata,
dovrà eseguire determinate manovre su prescritte geometrie (dette figure o
movimenti) in relazione a quanto specificato su un’apposita scheda (detta
ripresa). I Giudici di gara, coadiuvati da un assistente, attribuiranno a ciascuna
figura un punteggio da zero a dieci in relazione a precisione di esecuzione,
fluidità, impulso e sottomissione del cavallo. Il binomio vincitore sarà quello
che avrà conseguito il punteggio maggiore derivato dalla somma dei pun-
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Ivan Ottolini
teggi delle singole figure.
Specialità Attitudine. Anche questa è una gara “a giudizio” (non a tempo):
il binomio dovrà eseguire un percorso superando i relativi ostacoli (difficoltà) che richiamano azioni normalmente svolte durante il lavoro a cavallo.
La prova di attitudine deve mettere in risalto la fluidità dei movimenti, la
regolarità dell’andatura e la precisione dell’esecuzione delle difficoltà prescritte; cadenze eccessive, partenze repentine o soste troppo lunghe che interrompono la regolarità e fluidità della prova saranno fortemente penalizzate. Il
binomio vincitore sarà ancora una volta quello che avrà conseguito il punteggio maggiore derivato dalla somma dei punteggi conseguiti nelle singole difficoltà.
Specialità Abilità cronometrata. Questa è invece una gara a tempo: il binomio dovrà eseguire un percorso superando, come per la Specialità Attitudine,
i relativi ostacoli (difficoltà) che richiamano azioni normalmente svolte durante il lavoro a cavallo, ma impiegando il minor tempo possibile senza abbattere elementi costruttivi delle difficoltà stesse, pena l’attribuzione di
prescritte penalità per ogni errore. Il binomio vincitore sarà quello che, a
parità di penalità sulle difficoltà, avrà concluso il percorso nel minor tempo.
Specialità Sbrancamento. Anch’essa gara a tempo, prevede che il binomio
debba entrare in un campo rettangolare appositamente recintato e contraddistinto da una linea che lo taglia trasversalmente, sbrancare un vitello numerato (a lui assegnato da un sorteggio) dalla mandria che si trova in fondo
al rettangolo, costringendolo per almeno quindici secondi a stazionare nella
metà campo opposta, senza permettere tanto il ricongiungimento del vitello
assegnato alla mandria che il transito della mandria nella metà campo dove
è confinato il vitello. Il binomio ha quarantacinque secondi di tempo dal suo
ingresso in campo per decidere di iniziare la prova oltrepassando la linea
bianca di mezzeria, che coincide con la comunicazione da parte dello speaker
del numero del vitello a lui assegnato; da quel momento novanta secondi
sono a sua disposizione per riuscire nello sbrancamento. Sono previste delle
penalità (da commutare in tempo) nel caso in cui il vitello assegnato si ritrovi sbrancato assieme ad altri elementi della mandria (massimo tre). Il
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La psicoanalisi assistita dal cavallo
binomio vincente sarà quello che avrà sbrancato il vitello nel minor tempo.
Razze tipiche del cavallo da lavoro. Il quarter horse è sempre stato molto
versatile: dal lavoro di mandriano a innumerevoli discipline western quali
attacchi, salto e galoppo su brevi distanze. Perfetto per la scuola di base e
avanzata fino alle gare, impiegato nell’ippoterapia e da sogno nelle rilassanti
passeggiate… Cavallo a sangue molto caldo, è docile e intelligente. Utilizzato dai trainer, è formidabile nelle attività che richiedono “cow-sense”
(istinto naturale della mandria). Alcune delle specialità sportive in cui viene
usata questa razza sono il reining, il western pleasure, il barrel racing, il
ranch sorting, il team penning, il team roping, il cutting etc. La sede del
libro genealogico di questa razza, l’American Quarter Horse Association o
AQHA, è ad Amarillo in Texas, e in questi uffici ci sono i documenti degli
esemplari di tutto il mondo. Questo cavallo è sempre attento al comando
del cavaliere, vivace e giocherellone. Il quarter prende il nome dal “quarto
di miglio”, la corsa cronometrata su tale lunghezza; si tratta infatti del cavallo più veloce al mondo su percorso corto, grazie alle sue caratteristiche
morfologiche che lo rendono completamente diverso anche nell’ossatura
rispetto alle altre razze. Ha la fronte larga e gli occhi espressivi, le orecchie
piccole e mobili, le mandibole molto sviluppate incorniciate in una testa
piccola. L’incollatura è arcuata e possente, non sproporzionata, il garrese di
media centoquarantacinque centimetri, il petto largo e scolpito, il dorso breve
dritto e ben sviluppato, il posteriore muscoloso e il più delle volte doppio;
attaccatura della coda bassa, spalla inclinata a quarantacinque gradi rispetto
al terreno e abbastanza lunga, gli arti robusti con articolazioni larghe e asciutte
e gli stinchi e i tendini ben asciutti e staccati, con pastorali di lunghezza media e piedi piccoli ma ben conformati e forti. I cowboy dicono che ha “good
mind”, intelligenza mista a disponibilità verso l’addestramento e l’apprendimento, buon carattere, costanza e affidabilità.
Suo “fratello diretto” è il paint horse, che ha stesse caratteristiche del
quarter; la sua statura varia tra i centocinquanta e i centosessantacinque
centimetri, il peso intorno ai cinquecento chilogrammi. Questi cavalli sono
conosciuti soprattutto per la loro indole tranquilla e affidabile, ma anche vivace, forte e indipendente; non è scontroso, ma calmo e adatto al trotto. Il
suo particolare manto è molto pregiato ai concorsi di dressage. A seconda
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Ivan Ottolini
del mantello può essere tobiano e overo, e con un incrocio di questi (tovero).
Il paint veniva in passato utilizzato principalmente come cavallo da lavoro,
e anche attualmente viene sellato abbastanza diffusamente con sella western.
Un esemplare che all’origine fu allevato e selezionato dai Nativi americani,
che lo ritenevano dotato addirittura di poteri magici, derivati dal suo particolare manto pezzato simile a quello dei bovini, importanti soprattutto per
difendere il cavaliere in battaglia quasi come una sorta di scudo.
Altro “quasi fratello” è l’Appaloosa, una razza questa volta con il suo tipico mantello a chiazze originaria del Nord America; lo si riconosce dalla
caratteristica “coperta” sul posteriore, che lo rende veramente unico nella
colorazione. È di tipo mesomorfo con un’altezza al garrese di centoquarantacinque-centosessantratre centimetri e di peso di circa quattro-cinquecento
chilogrammi. Questo cavallo ha cacciato il bisonte con i nativi americani
per moltissimi anni! Il suo nome deriva dal fiume Palouse, che delimitava i
territori dei loro primi allevatori. Le prime testimonianze di cavalli dal
manto maculato sono antichissime; nelle grotte di Lascaux e Perche-Merle
in Francia sono state rinvenute delle pitture rupestri che raffigurano cavalli
macchiati risalenti a circa diciottomila anni a. C.; gli studiosi ipotizzano che
questi potessero essere gli antenati dell’appaloosa. Il moderno appaloosa,
grazie al miglioramento con il Purosangue inglese e il quarter horse, ha ora
un aspetto meno rustico, anzi, a eccezione del mantello, il modello è pressoché identico al quarter. Le tre importanti particolarità degli appaloosa
sono la sclera bianca come gli uomini (mentre la maggior parte delle altre
razze equine hanno la sclera nera), gli zoccoli striati verticalmente, la pelle
screziata in particolare sul naso e vicino ai genitali.
Il cavallo da sport
Il XIX secolo ha visto un radicale cambiamento nell’impiego del cavallo.
Per più di duemila anni l’umanità è dipesa da loro per il trasporto, l’agricoltura, l’industria e la guerra, ma più recentemente queste necessità sono
andate sparendo e sono finite le richieste di cavalli per tali mansioni. Il numero complessivo delle razze equine è drammaticamente diminuito, anche
se non ovunque.
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La psicoanalisi assistita dal cavallo
In molti Paesi il governo sostiene l’allevamento e l’uso dei cavalli da
sport, non solo perché porta prestigio, ma anche perché l’equitazione è una
pratica sportiva che forma il carattere e contribuisce alla salute fisica. Il
numero dei cavalli da sport dunque cresce, e sono state create molte nuove
razze per rispondere alla richiesta di cavalli che abbiano temperamento
adatto per essere addestrati e cavalcati, e le doti atletiche necessarie per il
salto e la corsa. Molte antiche razze, soprattutto da carrozza e da guerra,
come l’Hannover, hanno ricevuto nuovo sangue per diventare più adatte
all’impiego nell’equitazione sportiva e amatoriale.
I cavalli da sport sono compresi in due categorie, tradizionalmente
definite “sangue ardente” e “sangue caldo”. Come per i “sangue freddo”, i
termini non si riferiscono a differenze nella temperatura del sangue, ma a
differenze di genealogia e di temperamento. Vi sono solo due razze “sangue
ardente”, l’Arabo e il Purosangue, le famose razze progenitrici di quasi tutti i
“sangue caldo”; queste non sono razze pure, ma sono state sviluppate attraverso mescolanze tra “sangue caldo” e talvolta anche qualche “sangue
freddo”, razze create mediante incroci e allevamenti selettivi per venire incontro alle richieste più diffuse. Non sono flemmatici come i “sangue freddo” ma neppure di temperamento vivo come i “sangue ardente”, con un carattere che permette di addestrarli e utilizzarli per l’uso da sella o alla carrozza.
Non è possibile stilare neppure una minima lista delle razze cosiddette da
sport, perché sono veramente una grande quantità e molto diverse tra loro;
possiamo però citare alcune delle specialità sportive in cui sono impiegate: salto ostacoli, concorso completo, dressage, attacchi, endurance, cross country,
voltegggio, polo etc.
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