Eri un duro, Ercole, ma Roma è piú dura. (Giovanni Pascoli, Iugurtha, trad. ultimo verso) Le lumache dei Romani sono belle Gheddafi e la nascita dell’arrampicata su roccia di Fabrizio Ottaviani e Gaio Sallustio Crispo O ggi parliamo un po’ di antichi Romani, di patrizi e di plebei, di elefanti e soprattutto di latino. Ma parliamo anche di una delle imprese alpinistiche piú remote, molto piú vecchia della salita di Petrarca al Mont Ventoux nel 1336 e ancor piú della scalata del Monte Bianco nel 1786, ossia degli eventi che solitamente vengono indicati quale origine dell’alpinismo, e che a sua volta può essere vista come la nascita dell’arrampicata in roccia. Giovanni Pascoli. Gli uomini sulle montagne Molti episodi dell’antichità raccontano di salite su monti piú o meno famosi, sempre però riferiti a tempi e luoghi che gli anni hanno ormai reso nebulosi e ammantati di leggenda. Sappiamo dell’ascensione di Mosè sul Sinai e di quella di Filippo il Macedone nel 181 a.C, che salí i 1900 metri del monte Haemus in Tracia. L’imperatore Adriano arrivò A sinistra: Giugurta su una moneta. sulla vetta dell’Etna nel 130 d.C., vulcano che a quell’epoca era già abitualmente scalato. In tempi piú recenti, nel 1280, Pietro III d’Aragona raggiunse il Canigou nei Pirenei, ritenendolo la piú alta cima del suo regno, in ogni caso la piú visibile. Si dice che quel sovrano trovò sulla sommità un lago e un drago, fatto questo che trova conferme un po’ ovunque, anche nelle Alpi: la presenza di spiriti e mostri era temuta da tutti e dunque teneva lontano la gente dalle terre alte. Ed era forse proprio per esorcizzare il timore dei draghi che il vescovo Vallier era stato già nel V secolo sui 2800 metri di un altro monte pirenaico che oggi porta il suo nome. Il 1300 ci narra di ulteriori imprese, tra cui la salita del Pilatus, cima svizzera che diverrà celebre due secoli piú tardi, nel 1555, con l’ascensione del naturalista e filosofo zurighese Conrad Gesner. Arriviamo quindi al già citato Monte Ventoso in Provenza, il Ventoux, sul quale il Petrarca salí per una spinta alpinistica autentica, per soddisfare il suo piacere, e non per ragioni militari, come si era sempre fatto in precedenza. Il fatto poi che si trattasse di un grande letterato ha fatto sí che al suo ritorno egli abbia descritto l’itinerario con gran dovizia di particolari, ma anche con uno straordinario lirismo. Proprio per questa sua motivazione interiore la sua ascesa è vista come la nascita dell’alpinismo contemplativo, anche se Petrarca resta piú L ’ H a l f D o m e , u n a d e ll e c u ll e d e ll ’ a r r a m p i c a t a m o d e r n a . 18 VIVERE LA MONTAGNA famoso per Laura e i suoi amori che per le avventure in montagna. Il secolo dopo, un’altra persona straordinaria, Leonardo da Vinci, aveva salito il Momboso o Monte Bo, nelle Alpi Pennine, che, conoscendo il personaggio, a sua volta può essere considerata la prima spedizione alpina scientifica, anche se non abbiamo le prove dei risultati raggiunti. Il grande genio si confrontò ancora con altri monti, restando affascinato soprattutto dalle formazioni rocciose, che dipinse spesso come sfondo dei suoi quadri, primo fra tutti “La vergine delle rocce”. L a V e r g i n e d e ll e r o c c e , Leonardo da Vinci. Il maggior dislivello superato spetta a Bonifacio Rotario da Asti, che per espiare i suoi peccati nel 1358 si sciroppò niente meno che il Rocciamelone in Val di Susa, di 3557 metri, allora ritenuto la vetta piú alta delle Alpi, perché si erge per 3000 metri sopra il monastero di Susa, portando in cima un trittico rappresentante la Madonna. Rammento, per finire, la prima impresa di scalata acrobatica, compiuta nel 1492 da Antoine de Ville, cortigiano di Carlo VIII e specialista di assedi a castelli e fortezze. Questo nobile soldato, per eseguire gli ordini del sovrano, con le sue truppe assediò ed assalí con scale, corde e ganci il Mont Aiguille, come fosse una fortificazione, e raggiunse la sommità con i suoi uomini. Si tratta in effetti di una strana torre calcarea, nella regione di Grenoble, che somiglia molto ad un castello naturale e che all’epoca si diceva avesse pareti talmente ardite da essere addirittura piú stretta alla base che alla sommità. Un vero antefatto delle scalate in artificiale che hanno fatto la storia delle Dolomiti! Dobbiamo però parlare di free-climbing, di arrampicata libera. Nel passato chissà quanti cacciatori o soldati o semplici ragazzi hanno scalato dei massi o delle pareti rocciose, ma nessuno ha mai raccontato le loro gesta. Ebbene, si può ritenere che le origini documentate delle scalate risalgano al tempo dei romani, con un’impresa afro-alpina, descritta dallo scrittore e storico Gaio Sallustio Crispo, Sallustio per gli amici, vissuto tra l’86 e il 34 a.C. e che io ho avuto la fortuna di conoscere (si fa per dire) ai tempi del liceo. La sua opera Bellum Iugurthinum (in italiano La guerra giugurtina) narra le alterne vicende della lotta condotta dai Romani contro il re di Numidia Giugurta, tra il 111 e il 105 a.C., e conclusasi con la vittoria del console romano Gaio Mario. Con l’aiuto di Sallustio e usando ampi brani del suo testo, vi descrivo ciò che accadde anni fa e che interessa a noi montanari. Il latino al giorno d’oggi Prima di continuare, mi permetto una digressione linguistica sullo studio del latino. È un tema delicato e dibattuto, trattandosi di una lingua speciale, ovviamente diversa dalle altre perché non la si parla, ma la si legge soltanto. Sono tutti d’accordo nel dire che sia ancora valida e utile per la cosiddetta cultura generale, per capire l’etimologia di certe parole, per i ragionamenti logici, e anche per lo studio di altre lingue, come il tedesco, che hanno una costruzione delle frasi diversa dall’italiano, e dove occorre andare a cercare il verbo e il soggetto, per tradurre e capire dei periodi a volte complessi. A chi piace, chi ha feeling con desinenze e casi, troverà a poco a poco sempre piú piacere nel leggere gli autori latini classici. Certo che a scuola si è assillati dai vocaboli, dalle forme verbali, dalla consecutio temporum e dai voti. E I l M o n t A i g u i ll e . cosí, istigati da compagni che non vedono davanti al proprio naso, pensando che il latino non serva a niente, la maggioranza dei ragazzi che avanza negli studi lo ignora o lo abbandona. Invece è utile e persino divertente scoprire che quasi tutto quello che noi viviamo, pensiamo, sentiamo, era già stato descritto da loro, dai filosofi e dagli scrittori romani (e prima ancora dai Greci). Termino qui la mia difesa di questa lingua, ricordando alcuni giochetti linguistici. Dapprima due famose frasi latine, che sembrano scritte in italiano, ma significano tutt’altro. Il titolo di questo mio articolo richiama la prima, molto nota, che dice cosí: I vitelli dei romani sono belli. Essa non ha niente a che fare con i concorsi di bellezza dei bovini, ma significa “Va, o Vitellio, al suono della guerra del dio romano”. Che in effetti lascia un po’ perplessi, perché in italiano non ha un gran senso. Ma sentite questa: Cane nero magna bella persica, che è in latino anche se sembra mezzo dialetto. Lasciate stare i cani e la frutta, perché vuol dire VIVERE LA MONTAGNA 19 Le lumache dei Romani sono belle per partecipare: Ibis redibis non morieris in bello, ossia “Andrai, ritornerai, non morirai in guerra”, ma che poteva anche significare “Andrai, non tornerai, morirai in guerra”. La frase, come tutti i responsi degli oracoli, è volutamente ambigua (sibillina, appunto) e offre una duplice interpretazione, a seconda della posizione delle virgole. A parte questi giochi della lingua, sono convinto che, a chi piace, il latino possa offrire davvero molto. Siete scettici? Vabbè, allora torno alla nostra avventura, con una premessa storica per inquadrare l’avvenimento. Un po’ di storia africana La Numidia era una regione che si estendeva tra la Mauretania (all’incirca l’attuale Marocco) e i territori controllati da Cartagine (la Tunisia di oggi): in pratica era l’odierna Algeria, anche se per un certo periodo si estese fino alla Cirenaica, ossia la Libia. I Romani erano appena usciti da cento anni di guerre contro Cartagine, con un’alternanza di terribili sconfitte e di vittorie che avevano esteso il loro dominio sul Mediterraneo. L a S i b i ll a C u m a n a d i M i c h e l a n g e l o n e ll a C a p p e ll a S i s t i n a . “Canta o Nerone le grandi guerre persiane”. Sono frasi trabocchetto, usate per indovinelli e scherzi dagli studenti di latino, come lo è quest’altra: Vate, lustrales carpe, che se la leggete tutta d’un fiato sembra un invito ad andare a lucidarsi le scarpe, mentre invece significa “Vate, raccogli le acque lustrali”, ossia in parole povere “Poeta, prendi l’acqua santa”. Ve ne sono altri di questi trucchetti, come Pelle moras, che non ha nulla a che fare con la pelle scura, ma significa “rompi gli indugi”, ossia “datti da fare”, e persino nel titolo dell’opera di Sallustio che ci fa da guida in questo scritto, il Bellum Iugurthinum, che in italiano non vuol dire “un bel piccolo yogurt”, ma “La guerra contro Giugurta”. Infine cito la celeberrima risposta della Sibilla Cumana, l’indovina a cui un soldato aveva chiesto di predirgli come sarebbe finita la battaglia alla quale stava 20 VIVERE LA MONTAGNA La Tavola di Giugurta. Nelle Guerre Puniche l’abilità militare romana era stata messa a dura prova dai capi cartaginesi, soprattutto da Annibale, il quale, grazie ad ardite manovre come la traversata delle Alpi con tutto l’esercito o all’uso degli elefanti da battaglia, i precursori dei moderni carri armati, aveva fatto intravvedere a Roma lo spettro della sconfitta finale. Sappiamo invece che l’esito fu loro favorevole e che Cartagine fu distrutta, come pretendeva da tempo Catone il Censore, con la famosa frase pronunciata in ogni suo discorso, di qualsiasi argomento trattasse, che finiva, sempre, con questa esortazione: Ceterum censeo Carthaginem delendam esse La cattura di Giugurta. (“Inoltre ritengo che Cartagine debba essere distrutta”). Verso la fine del secondo secolo a.C., quando erano ormai morti i re che erano stati alleati dei romani nelle Guerre Puniche, prese il potere lo spregiudicato Giugurta. Egli ne combinò veramente di tutti colori, comportandosi in modo crudele e traditore anche con i suoi parenti. A volte alleato, a volte nemico della città eterna, il re numida, novello Gheddafi, fu convocato a Roma per giustificare i massacri commessi nel suo regno contro commercianti e uomini d’affari romani e italici (negotiatores), ma non fu arrestato perché, come faceva sempre, aveva corrotto mezzo senato. Sallustio infatti gli fa dire la famosa frase “Non c’è niente a Roma che l’oro non possa comprare”. E già che era nell’Urbe, fece anche uccidere un suo oppositore politico. Il popolo romano gridò allora allo scandalo e i politici del tempo furono alla fine costretti a dichiarargli guerra. Dapprima l’uso sistematico della corruzione permise a Giugurta di cavarsela. Nel 104 a.C. però il comando dell’esercito fu affidato al console Gaio Mario - oggi sarebbe un socialista o un Democratico di Sinistra - che aveva sostituito il nobile Quinto Cecilio Metello, un berlusconiano del Popolo delle Libertà. Mario, che non si lasciò corrompere dall’oro di Giugurta, riuscí infine a sconfiggerlo, anche grazie all’aiuto di Bocco, re dei Getuli e all’azione diplomatica di Lucio Yosemite, grazie ai vari climber americani hippy? Vi sbagliate. Sallustio, che visitò la Numidia nell’86 a. C. come delegato di Roma, sempre nel Bellum Iugurthinum, ai capitoli dal 92 al 94, ci fornisce la descrizione di un rilievo geografico, la Tavola di Giugurta. Si tratta di un’altura piatta e rocciosa, ai margini del Sahara, un locus L’espansione romana nel I secolo. in Nordafrica Cornelio Silla, questore e futuro suo avversario. Il terribile sovrano numida fu cosí catturato e portato prigioniero a Roma, dove morí nel Carcere Mamertino, in circostanze non troppo chiare: chi dice strangolato, chi dice lasciato morire d’inedia. In fin dei conti, con quello che aveva combinato lui agli avversari, gli è andata ancora bene. In ogni caso Giovanni Pascoli ha dedicato a Giugurta, o meglio alla sua morte in prigione, un poemetto in latino, dal titolo appunto Iugurtha, uscito nel 1896, che termina con il verso riportato nell’intestazione di questo scritto. C’è chi paragona l’Italia di oggi alla decadenza dell’impero romano: la visita a Roma di Gheddafi di qualche tempo fa in effetti ricorda quella del re Giugurta, narrata da Sallustio, col petrolio al posto dell’oro. In ogni caso il dualismo tra i nobili e i democratici ci dice che il mondo non è cambiato molto. I fratelli Gracchi, Tiberio e Gaio, erano i Kennedy dei Romani, assassinati anche loro perché si battevano contro i privilegi della casta nobiliare, opponendosi agli interessi economici dei ricchi proprietari; lo stesso Gaio Mario in politica era una specie di Obama (volevo scrivere un Clinton, ma chissà cosa avreste pensato), che si scontrava con Silla/Bush. Ma ora arriviamo finalmente al nostro tema. Infatti durante la guerra giugurtina, in occasione di una delle battaglie combattute per la conquista di un forte numida, si è verificato un episodio di interesse per questa rivista. L’invenzione del free climbing Voi credete forse che l’arrampicata libera sia nata negli anni ‘70 nella valle dello Caio Mario e L u c i o C o r n e l i o S i ll a . horridus nei pressi dell’attuale confine tra la Tunisia e l’Algeria, ora meta turistica, con la cima raggiungibile grazie ad una tortuosa rampa di gradini scavati nella roccia. Erat inter ceteram planitiem mons saxeus, ossia “sul resto della pianura si elevava un monte roccioso”, molto alto e abbastanza largo per contenere una fortezza di medie proporzioni. Il solo punto di accesso era uno strettissimo sentiero (uno perangusto aditu relicto), visto che da tutte le parti la montagna era scoscesa per sua natura, come se fosse stata tagliata ad arte dall’uomo. Mario ad ogni costo cercò di conquistare quella posizione, non da ultimo perché vi era nascosto il tesoro del re. Ma l’impresa riuscí piú per caso che per un piano appositamente studiato. La fortezza, infatti, era ben munita di uomini e di armi, di un’abbondante scorta di grano e di una sorgente d’acqua; la sua posizione non permetteva la costruzione di terrapieni o l’uso di torri o di altre macchine da guerra. L’assedio della roccaforte dunque languiva senza particolari successi, molti assalitori erano stati feriti o uccisi, scoraggiando cosí i legionari e rendendo baldanzosi i difensori. Ma i Romani, come sapete, erano anche fortunati e allora la sorte e gli dei ci misero lo zampino. Tra i legionari ve ne era uno, un certo Ligure (quidam ligus), che chiameremo Gaio Tigullio Alassio, un soldato semplice delle coorti ausiliarie (ex cohortibus auxiliariis miles gregarius). Non vorrei ora fare della facile ironia, ma i Liguri, assieme agli Scozzesi e a un altro popolo del quale non bisogna parlare per evitare di essere tacciati di antisemitismo, hanno una certa loro caratteristica, un’inequivocabile fama di persone avvedute e, ehm… ehm, come dire, un po’ attente alle spese… Immaginiamoci il nostro Tigullio, dopo mesi di campagna militare, nel deserto, ai limiti del Sahara, con la durezza imposta ai legionari romani. Oddío, il rancio lo ricevevano, ma sapete come è al militare, anzi in guerra. Ogni extra bisognava pagarselo e se si può, ci si arrangia. Ebbene Tigullio, uscito un giorno dalla tenda e dall’accampamento in cerca d’acqua, non lontano dal fianco del castello opposto a quello dei combattenti, vide una lumaca (coclea, nel senso di chiocciola) strisciare fra le rocce. Pensò subito da quanto non mangiava delle escargots alla bourguignonne, che già allora erano una leccornia. Dunque, ne prese una, poi ne raccolse un’altra, un’altra ancora, già pregustando non solo la scorpacciata, ma addirittura la rivendita ai suoi commilitoni, perché si sa che i Liguri sono dei gran commercianti (mercatores). Si stava innalzando a poco a poco tra gli arbusti e le roccette del monte, tutto intento nella raccolta, quando improvvisamente si accorse di essere già molto in alto. Guardava l’accampamento (castra) giú in basso e lassú la cima non piú cosí lontana. Continua Sallustio, con qualche taglio al testo e un paio di licenze di traduzione del sottoscritto, “Vedendo il luogo deserto, il desiderio naturale nell’uomo di compiere un’impresa difficile, gli suggerí un altro progetto (animum alio vertit). In quel punto si trovava un grande leccio abbarbicato fra le rocce: il suo tronco per un certo tratto s’incurvava verso il basso, poi si drizzava e si alzava in altezza, come si verifica in natura per tutte le piante. Il Ligure, aggrappandosi via via ai rami dell’albero e alle rocce sporgenti (eminentibus saxis), riuscí a giungere sulla sommità, proprio alle spalle della fortezza. Mentre tutti i Numidi erano intenti a osservare la battaglia dall’altro lato, Tigullio esaminò ogni cosa che riteneva potesse tornargli utile in seguito, poi ripercorse la stessa via, non piú a caso, VIVERE LA MONTAGNA 21 Le lumache dei Romani sono belle come nel corso della salita, ma saggiando tutti gli appigli ed esplorando tutt’intorno. Un vero Messner ante litteram. Quindi si recò subito da Gaio Mario, il suo capo, e gli raccontò per filo e per segno la sua impresa; gli consigliò di attaccare la fortezza dal lato da cui era salito, offrendosi come guida nella pericolosa scalata.” La prima guida alpina e l’arrampicata artificiale “Mario scelse cosí cinque dei piú agili fra i trombettieri e i suonatori di corno e assegnò loro come scorta quattro centurioni. A tutti comandò di attenersi agli ordini di Tigullio e fissò l’esecuzione per il giorno seguente. Quelli che dovevano compiere la scalata, seguendo le istruzioni della guida, avevano cambiato armi e tenuta (arma ornatumque mutaverant): avevano la testa e i piedi nudi (capite atque pedibus nudis) per vedere meglio e per arrampicarsi piú agevolmente sui sassi. Tigullio procedeva per primo e, come una vera guida alpina dei giorni d’oggi, fissava delle corde alle rocce e a vecchie radici sporgenti, perché i soldati, aggrappandovisi, salissero piú facilmente.” E cosí nasce anche l’arrampicata artificiale! “Talvolta sorreggeva con le mani quelli che erano spaventati dal percorso insolito, e dove la salita presentava maggiori difficoltà, li mandava avanti ad uno ad uno senza armi, e poi li seguiva con il loro equipaggiamento. Era il primo a saggiare gli appigli che non gli sembravano sicuri; salendo e scendendo piú volte per lo stesso tratto, e poi facendosi subito da parte, infondeva coraggio agli altri. Alla fine, dopo una lunga ed estenuante fatica, raggiunsero la fortezza, che da quel lato era sguarnita, perché tutti, come gli altri giorni, erano rivolti dalla parte del Gli elefanti da guerra spaventano i legionari Romani. nemico. Ora, mentre tutti, Romani e nemici, erano presi dal combattimento giú nella pianura e lottavano con grande accanimento da entrambe le parti, gli uni per la gloria e il dominio, gli altri per la salvezza (magna utrimque vi pro gloria atque imperio his illis pro salute certantibus), d’improvviso, alle loro spalle, risuonarono gli squilli delle trombe e dei corni.” Colti di sorpresa, spaventati da quel fragore, i Numidi sbandarono e fuggirono, permettendo cosí agli assalitori che li fronteggiavano in pianura di avvicinarsi di slancio alla fortezza. “Dopo di ciò i Romani li incalzarono ancor piú violentemente, li travolsero, i piú li ferirono senza finirli; avanzarono poi sui corpi dei caduti e, assetati di gloria, fecero a gara nello scalare il muro, senza che nessuno si fermasse a far preda”. Sallustio termina il racconto di questo episodio con una frase che al tempo stesso è piena di orgoglio romano, ma denota anche un certo rincrescimento per il modo in cui la vittoria era stata raggiunta: Sic forte correcta Mari temeritas gloriam ex culpa invenit. Cosí la temerarietà di Mario, aiutata dalla fortuna, trasse motivo di gloria da un errore. E cosí gli uomini impararono ad arrampicare. s Fonti Gaius Sallustius Crispus, Bellum Iugurthinum, con traduzioni in parte dell’autore dell’articolo e in parte riprese da “La guerra Giugurtina,” con commento di Marcello Campodonico, Signorelli editore Milano, 1928 e dal testo in skuola.tiscali.it. Roger Frison-Roche e Sylvain Jouty, Storia dell’Alpinismo, ed. Corbaccio. Bruno Fertorri, La storia di Roma, Fratelli Fabbri Editori. Atlante Storico Zanichelli, ed. 2010 – 2011. Giovanni Pascoli, Iugurtha, 1896 Foto dell’Half Dome da images-photography-pictures.net Foto della Tavola di Giugurta da usr.toscana.it e da dimavv.org 22 VIVERE LA MONTAGNA