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Il 23 maggio 1915, esattamente cent’anni fa, nessuno a Bosisio, così come
nel resto d’Italia, poteva sapere, o anche solo lontanamente immaginare,
che cosa sarebbe accaduto il giorno successivo o meglio che cosa avrebbe
rappresentato la Grande Guerra per la storia dell’Umanità.
Certo, si sapeva che le ostilità contro l’Austria sarebbero iniziate proprio il
24 maggio, ma la cosa lasciava quasi tutti abbastanza indifferenti.
La guerra veniva percepita come una cosa lontana, ma soprattutto come
una cosa di pochi e di altri.
Tutto sommato poteva essere tollerata, anche perché la convinzione
generale era che la guerra sarebbe stata molto breve, questione di pochi
mesi. Si pensava che entro l’anno sarebbe finita e che a Natale 1915 le
truppe italiane avrebbero festeggiato, vittoriose, a Vienna.
La gente aveva altro di cui preoccuparsi. Il tormento principale era per la
fame, per la povertà e per le dure condizioni di vita e di lavoro.
Certo, c’era apprensione per la partenza dei primi militari per il fronte, ma
sicuramente nessun terrore. L’angoscia era soprattutto delle madri e delle
mogli. Queste non erano tanto preoccupate di perdere in guerra i loro figli
o i loro mariti, ma semplicemente erano preoccupate di non poterli vedere
per qualche mese, perché - una cosa era certa - sarebbero tornati.
Della guerra tutti avevano un’idea molto approssimativa.
Del resto sul suolo italiano non se ne combatteva una da oltre 40 anni.
Tutti avevano inoltre della guerra una concezione ottocentesca, quasi
cavalleresca ed epica.
D'altronde non poteva che essere così.
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La terza guerra d’indipendenza del 1866 era durata, per esempio, meno di
2 mesi. Su un esercito di 220.000 uomini, ne erano morti 751 pari allo
0,3% del totale, ossia un morto ogni 3.000 persone.
In ordine cronologico l’ultima guerra in patria risaliva alla Presa di Porta
Pia del settembre 1870. Allora la battaglia era durata un solo giorno o
meglio poco più di quattro ore. Tanto era bastato per annettere lo Stato
pontificio all’Italia. Per la Presa di Porta Pia lo sforzo bellico era stato di
65.000 uomini, con perdite limitate a 32 morti e 143 feriti.
Seguì poi la guerra di Libia del 1911, durata poco più di un anno. Per il
conflitto vennero inviati 34.000 uomini. La guerra di Libia era stata
sicuramente più cruenta delle prime, ma i numeri erano pur sempre
modesti: 1.400 uomini morti in combattimento.
In realtà, questa volta, la storia avrebbe preso un’altra strada.
Il primo conflitto mondiale fu esattamente il contrario di quello che tutti
all’inizio avevano immaginato.
Con il passare del tempo e con la conta dei corpi si comprese che le
previsioni iniziali erano state totalmente sbagliate.
Si comprese che la guerra che si stava combattendo non sarebbe stata una
passeggiata. Noi oggi sappiamo che quella del ‘15/18 non fu una guerra tra
le tante, fu la Guerra con al G maiuscola; fu la madre, anzi la matrigna, di
tutte le guerre del XX Secolo.
Il 23 maggio 1915 nessuno, ma proprio nessuno, poteva sapere che il
giorno dopo il mondo avrebbe iniziato a cambiare per sempre e che la
guerra sarebbe diventata un grande acceleratore in ambito sociale, politico
e tecnologico.
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La Grande Guerra fu un catastrofe umana ed anche una frattura storica. Fu
cioè un fatto che ebbe un prima e un dopo; uno di quegli eventi dirompenti
dell’Umanità paragonabile alla caduta dell’Impero romano o alla scoperta
dell’America. La Grande Guerra può essere sicuramente paragonata ad una
grande porta; oltrepassandola l’Umanità ha lasciato alle spalle un’epoca
per entrare direttamente in un’altra.
E il passaggio avvenne nel peggiore del modi.
Al termine del 1918, finite le ostilità, l’Europa si trasformò in un immenso
cimitero.
Il bilancio finale fu sconvolgente: 10 milioni di vite spazzate via.
Durante la guerra in Europa vennero mobilitati 65.000.000 di soldati. Tra
di essi ci furono 20 milioni di feriti e 8 milioni di morti.
Al termine del conflitto l’Europa politica fu stravolta. Dalla cartina
europea scomparvero 4 imperi, alcuni plurisecolari: quello tedesco, quello
austroungarico, quello russo e quello ottomano.
Seguì un drastico ridimensionamento del peso politico dell’Europa sulla
scena internazionale.
La società ne fu sconvolta. La guerra ebbe effetti tragici perché diffuse
anche rancore politico e odio raziale in grado di far germogliare le cause
del Secondo conflitto mondiale. La Grande Guerra fu quindi il ventre
malato che generò i due principali interlocutori del novecento: il
comunismo e il fascismo.
La guerra fu anche un evento di massa: gli italiani chiamati alle armi nel
periodo compreso tra il 1915 e il 1918 furono ben 5.900.000. Le cifre
furono spaventose: vi furono 650.000 morti e 500.000 mutilati, senza
contare le vittime civili.
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Il primo conflitto mondiale fu l’evento collettivo più tragico e dirompente
della storia d’Italia e di Bosisio. Dai libri di storia non risultano fatti così
sconvolgenti. Solo la peste e il colera nel tempo di pace avevano potuto
mietere vittime in numero così elevato.
Il 1915 per noi bosisiesi è stato anche un capitolo, purtroppo tragico, della
nostra storia di famiglia.
Quasi tutti i nuclei familiari del paese persero un figlio, un marito o un
padre.
Solo le madri di Abbondio Binda, Bernardo Viganò e Giovanni Rusconi
ebbero la triste “consolazione” di poter piangere le spoglie mortali dei loro
figli presso il nostro cimitero.
Tutti gli altri caduti vennero sepolti altrove o non vennero affatto sepolti
perché i loro corpi non si trovarono più.
Durante la I GM prestarono servizio militare circa 350 bosisiesi, alcuni
poco più che ragazzi.
In totale partì in guerra 1/3 dell’intera popolazione maschile, volendo
contare anche i bambini e i neonati. Una percentuale sino ad allora
inimmaginabile.
Dei 350 militari partiti in guerra, ne morirono 38.
Di essi, otto erano trentenni, gli altri trenta tutti ventenni.
L’età media dei ns. caduti fu di 26 anni.
Il più vecchio, ossia Enrico Sangiorgio di anni ne aveva 38 anni; il più
giovane, ossia Luigi Ratti, ne aveva 18.
Il primo a morire fu il ventiduenne Mario Zappa, dato per disperso in
combattimento l’11 giugno 1915 sul Medio Isonzo; l’ultimo a morire
Bernardo Viganò, morto per malattia il 13 marzo 1920 all’età di 25 anni.
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Più che uccisi, i nostri giovani vennero macellati. Giovanni e Natale
Redaelli trovarono la morte sul Monte San Michele, tristemente noto
perché i nostri militari vennero gasati e finiti con le mazze chiodate dai
reparti ungheresi incaricati della mattanza.
L’anno più tragico della guerra fu per i bosisiesi il 1917, ossia l’anno della
disfatta di Caporetto.
In quel maledetto anno perirono 16 fanti, quasi la metà di tutti i caduti
della guerra.
Durante il conflitto 22 ragazzi morirono in combattimento.
La prova della violenza e della ferocia degli scontri armati sta nei numeri:
9 corpi dei 22 caduti in combattimento non vennero più ritrovati.
I loro resti mortali furono smembrati o resi irriconoscibili dalle esplosioni.
I 38 caduti che oggi ricordiamo e onoriamo scrissero con il loro sangue le
storie più eroiche e dolorose della I GM.
Nessuno di loro fu un privilegiato, furono tutti soldati semplici, tranne
Enrico Brenna, promosso sergente, che non ebbe comunque alcun
vantaggio per il grado.
E’ documentato che i ns. ragazzi morirono nelle battaglie sul Monte San
Michele, sull’altopiano di Asiago, sul Monte Santo, sul Monte Grappa,
nelle operazioni di ripiegamento dalla disfatta di Caporetto, sul Carso, in
Val Lagarina, sul Medio Isonzo.
Morirono anche nella battaglia della Bainsizza, ossia nell’undicesimo
scontro isontino. Impressionante il computo degli uomini annientati nella
battaglia: 19.000 morti, 35.000 dispersi, 89.000 feriti. In questa battaglia
l’Italia aveva subito il più spaventoso salasso di vite umane dall’inizio
della guerra.
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Tra i ns. caduti due di essi, ossia Pietro Crippa e Paolo Farina, vennero
fatti prigionieri dagli austriaci. Morirono di stenti e di malattia, in
solitudine e lontano da casa e dai propri cari.
Le condizioni di vita furono disumane quanto le battaglie.
Il tifo e il colera causarono vittime non meno dei proiettili dei nemici: 15
ns. ragazzi, ossia quasi la metà di tutti i ns. caduti, perirono infatti per
malattia.
Di questi quindici, tre morirono dopo la fine della guerra.
Fusi Italo morì addirittura il 4 novembre 1918, proprio il giorno della fine
delle ostilità.
Al termine del conflitto le vedove dei militari furono 8 e 18 gli orfani di
guerra, dell’età compresa tra i 12 anni e i 7 mesi.
Al termine della guerra nulla fu più come prima.
Anche i 300 soldati ritornati a casa ebbero cicatrici indelebili,
specialmente nello spirito.
Il trauma della guerra si attenuò solo con la generazione successiva.
L’impatto della Grande Guerra fu dirompente anche per i numeri. Il
dramma non fu quindi solo personale, bensì collettivo.
Per capire di cosa stiamo parlando per la nostra comunità, ragioniamo in
cifre.
Tenuto conto che nel 1915 Bosisio contava poco più di 2.000 abitanti e
poco più di 500 famiglie, il conteggio aggiornato sarebbe oggi all’incirca
di 700 uomini chiamati alle armi e di 80 morti in combattimento. Insomma
cifre veramente da capogiro.
Oggi ci ritroviamo qui insieme per fare memoria di tutti i ns ragazzi che
combatterono durante la Guerra del ‘15/18. Ricordiamo chi partì e tornò;
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ricordiamo chi restò e continuò ad attendere, ossia le madri, i padri, le
mogli e i figli dei caduti, ma soprattutto ricordiamo loro, i caduti della
guerra, che partirono e non tornarono più.
Oggi vogliamo ricordarli senza retorica, evitando frasi fatte e luoghi
comuni.
Cercheremo di farlo tutti insieme e con parole essenziali, ma soprattutto
con gesti significativi.
Dei caduti ricorderemo tra poco i nomi, i cognomi, l’età e il luogo di
morte.
Procederemo in questo modo perché ciò che vogliamo ricordare non sono
tanto i fatti della Grande Storia, quanto piuttosto chi con il sangue e la vita
fece la Grande Guerra.
Ricordare cosa è stato e chi ne è stato vittima è un dovere morale, ma
anche una necessità personale e collettiva perché, come noto, quelli che
non sanno ricordare il passato, sono condannati a ripeterlo.
Grazie.
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