Le strutture temporali nel teatro d`opera

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CARL DAHLHAUS
Le strutture temporali nel teatro d’opera
1. La nozione che tra la struttura temporale di un’opera in musica e quella di una pièce teatrale intercorrono differenze sostanziali e profonde è un luogo comune
dell’estetica teatrale, tanto ovvio e risaputo da alimentare l’illusione che l’essenziale sia
ormai stato detto e ridetto da un pezzo, e tale da scoraggiare un’analisi più precisa. La
circostanza che l’andatura di un testo cantato è più lenta di quella di un testo recitato è
tanto palese da non meritare, verrebbe detto, discussione alcuna; lo stesso dicasi della
differenza tra i recitativi, che quantomeno s’approssimano all’andatura discorsiva d’un
dialogo vero e proprio, e i numeri chiusi di carattere contemplativo, dove il tempo
s’allarga o addirittura si ferma per dar luogo ad un’enfasi lirica destituita di temporalità.
E però s’ingannerebbe chi credesse che la struttura temporale d’un’opera sia tanto
poco problematica da non valere la pena d’una riflessione. Già ad un’analisi superficiale
la differenziazione tra il tempo reale del recitativo e il tempo dilatato o il tempo immaginario dell’aria in un’opera seria o in un grand opéra del secolo XIX si rivela del tutto insufficiente a dar conto delle innumeri gradazioni onde consiste la realtà drammaticomusicale. Se per ora non mette conto di trattare del recitativo, dove di solito il tempo
della forma musicale coincide suppergiù col tempo reale degli eventi rappresentati, il
decorso del tempo nei numeri chiusi risulta invece problematico per il fatto che quasi
sempre esso, a differenza da quello del dramma recitato, non è uniforme ed è anzi, per
così dire, rapsodico. Al tempo continuo del dramma corrisponde nell’opera in musica
un tempo discontinuo.
L’affermazione che nell’opera il tempo non scorre uniforme non ha alcun rapporto
con una considerazione assai banale ch’è indistintamente valida per il dramma come
per l’opera in musica, ossia la circostanza elementare che il tempo (nell’accezione musicale del termine), l’andatura di un evento scenico o di un dialogo possono essere più o
meno svelti o posati. La categoria della discontinuità coglie semmai una poco investigata peculiarità dell’opera in musica: spesso e volentieri la quantità stessa di «tempo rappresentato» oscilla da un estremo all’altro all’interno d’una medesima scena.
Nel finale dell’atto III del Guillaume Tell di Rossini – nella scena del tiro alla mela –,
poniamo, si osservano non meno di quattro diversi rapporti tra il decorso temporale
della forma musicale e il decorso temporale del contenuto drammatico. (1) Nel recitativo, che abbraccia sia dialoghi che eventi scenici, il «tempo rappresentato» – per il quale
invero non si dà unità di misura fissa – coincide a un dipresso col «tempo della rappresentazione»; alla stessa stregua del dramma recitato, v’è convergenza tra il decorso
temporale della forma drammatica e il decorso temporale del contenuto drammatico. (2) Nella Preghiera di Guillaume Tell – la benedizione del figlioletto –, invece, una
situazione che in un dramma recitato durerebbe un breve istante viene dipanata in un
tableau vivant, in un quadro vivente dove l’azione s’arresta senza che si possa però parlare d’un’interruzione e d’un ristagno dello scorrere del tempo: quell’attimo che nella
realtà trascorrerebbe in un baleno può nell’opera, sostenuto dalla musica, dilatarsi in un
rituale; addirittura, la ritualizzazione dell’attimo è, insieme con la pluralità simultanea
dei discorsi nei brani concertati, una delle peculiarità caratterizzanti del genere operistico. (3) Il duetto tra Gessler che infierisce contro Tell padre e figlio e la principessa Mathilde che tenta di salvare almeno il ragazzo è un dialogo, e come tale progredisce nel
tempo, ma la sua andatura, frenata dalle ripetizioni del testo e non uniforme nel suo
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procedere, si discosta dal decorso del tempo reale. (4) Il quintetto conclusivo con coro
appartiene infine al tipo del concertato sottratto al dominio del tempo, dove – col sussidio di reiterazioni verbali copiose – ciascun personaggio, pur nel deflagrare tumultuoso
delle passioni, è calato in se stesso e nei propri sentimenti, quasi monologasse (la medaglia ha due facce: la dimensione temporale resta sospesa perché momentaneamente sospesi sono i rapporti effettivi – sulla scena e nel dialogo – tra i personaggi).
L’alternanza tra azione scorrevole e azione frenata provoca nell’opera in musica la
dissociazione del tempo in due diversi decorsi temporali: uno, legato alla forma musicale, che si manifesta nella durata effettiva dell’esecuzione, ed uno, legato al contenuto
drammatico, che rappresenta il substrato reale dell’azione e va desunto dall’andamento
dell’azione medesima. Siffatta duplicità della concezione temporale, che lo spettatore
coglie in maniera involontaria e senza necessariamente prenderne coscienza, salta
all’occhio se la si considera sotto il profilo dell’estetica dei generi letterari: essa infatti,
addirittura ovvia nel genere epico-narrativo, è del tutto inconsueta nel genere drammatico-teatrale. Talché l’opera, se se ne analizzano le strutture temporali, esce dalla sfera
del dramma teatrale per avvicinarsi a quella del romanzo. Se nel genere epico, per dirla
con Günther Müller,1 la differenza tra il «tempo della narrazione» e il «tempo narrato» –
ossia la dilatazione o condensazione di singole fasi dell’azione d’una storia – è un dispositivo narrativo dei più ovvii e indispensabili, per il genere drammatico vale invece
l’esatto opposto, quantomeno dentro i confini della singola scena, ove il «tempo della
rappresentazione» viene a coincidere con il «tempo rappresentato» (è vero che tra l’una
e l’altra scena i salti temporali sono ammessi e magari talvolta inevitabili, e però, quantomeno nel dramma classico di forma «chiusa», essi vanno ridotti al minimo necessario:
il precetto aristotelico dell’«unità di tempo» applicato ad una sequenza di scene si lascia
dedurre senza forzature dalla convergenza tra tempo della rappresentazione e tempo
rappresentato all’interno delle singole scene).
La dissociazione del decorso temporale in un tempo della forma e un tempo del contenuto è strettamente legata, a quanto pare, con un altro fattore che accomuna l’opera in
musica al romanzo e la distingue dal dramma: la presenza estetica dell’autore. Come
nel genere epico-narrativo, anche nell’opera la presenza di un «narratore» che pilota gli
eventi è costitutiva sotto il profilo estetico. A differenza dal genere drammatico, dove il
drammaturgo, lungi dal palesare il proprio intervento propulsivo, deve scomparire dietro l’azione rappresentata, quasi essa procedesse da sola, nel teatro d’opera la presenza
percepibile dell’autore non è per nulla un difetto di stile o uno svarione drammaturgico
lesivo dei criteri formali del genere operistico (nel moderno teatro di regia il regista, per
così dire, tiene rispetto all’autore del dramma un ruolo luogotenenziale con diritto di
parola: la concezione registica, anziché dissolversi nell’azione rappresentata, si manifesta in proprio). Nei drammi musicali wagneriani, attraverso la melodia orchestrale intessuta dai Leitmotive, il compositore s’impone in misura soverchiante come soggetto
eloquente che interviene a commentare i casi della vicenda drammatica: Wagner non
era tipo da farsi sommessamente da parte. Ma anche il procedimento della reminiscenza
caro all’opera romantica prewagneriana – un procedimento che dà voce al ricordo suscitato da un evento passato nella memoria dell’autore più che in quella del singolo personaggio drammatico – rappresenta una forma d’intesa diretta tra il compositore e il pubblico, e in quanto tale manifesta tangibilmente la presenza estetica dell’autore nelle vesti
d’un soggetto narrante e commentante.
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G. Müller, Die Bedeutung der Zeit in der Erzählkunst, Bonn, 1947.
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2. L’«unità di tempo» nel dramma – la coincidenza (in linea di principio) tra il «tempo della rappresentazione» e il «tempo rappresentato» nel flusso dei dialoghi – si rivela,
ad un esame più serrato della struttura temporale, come il corrispettivo di una scissione
che in un certo senso salta tanto più all’occhio in un altro aspetto del dramma parlato,
mentre ha invece tenue rilievo nel romanzo: nel dramma il tempo si dissocia in un tempo reale, scenicamente evidente, e in un tempo immaginario, meramente evocato, o, per
dirla in altre parole, nel tempo presente dei dialoghi e nel tempo non-presente onde
trattano i dialoghi. Nel dramma teatrale, quantomeno in quello che Volker Klotz ha denominato «dramma di forma chiusa»,2 quasi ogni istante è gravato di riferimenti al passato e al futuro che per un verso danno voce all’antefatto e per l’altro sospingono
l’azione verso il suo traguardo e fine. La struttura del dramma – che a detta di Emil
Staiger3 si fonderebbe su di una concezione del tempo orientata verso il futuro – è teleologicamente orientata.
Diverso il caso dell’opera in musica, che a ben vedere è un dramma del presente assoluto, dove l’antefatto decade al rango di una mera, onerosa dilucidazione degli eventi
scenici, da liquidare in fretta, e non è invece un fattore propulsivo dell’azione che lo
spettatore debba tenere costantemente presente (il modello idealtipico del libretto
d’opera è quello dell’azione priva di antefatto, come quella delineata per Meyerbeer nel
Prophète di Eugène Scribe). Se però nell’opera in musica perfin l’antefatto è più un male
inevitabile che non un fondamento del costrutto drammaturgico vero e proprio (quel
costrutto, per intenderci, ch’è scenicamente e musicalmente manifesto), del tutto estranei ed alieni le riescono – anche quando si veda costretta ad adottarli – quei procedimenti che nel dramma parlato consentono la tessitura di una azione seconda, immaginaria, che scorre parallela agli eventi visibili, e cioè la teicoscopia (ossia il resoconto di
eventi che si svolgono fuori della scena, fuori della portata visiva degli spettatori, effettuato in diretta e in simultanea – quasi a mo’ di radiocronaca – da uno dei personaggi
presenti in scena: la parola greca viene a dire «sguardo dalle mura»), le narrazioni di
messaggeri, l’«azione nascosta» (per «azione nascosta» Robert Petsch4 intende eventi
che, a differenza dall’antefatto, ricadono nell’ambito temporale dell’azione drammatica
ma che non vengono mostrati e vanno però desunti dal dialogo).
È inequivocabilmente vero che il dramma musicale wagneriano compartecipa della
struttura temporale del dramma parlato: esso intesse una fitta rete di riferimenti retrospettivi e prospettivi, tiene sempre presente l’antefatto come fattore propulsivo
dell’azione, e adotta le tecniche della teicoscopia, dell’invio di messaggeri e dell’«azione
nascosta» quasi fossero un’ovvietà per l’opera in musica. Ma la circostanza non dice invero un gran che sull’estetica dell’opera in musica – un’estetica che soltanto a costo di
distorcere la realtà storica si lascerebbe formulare muovendo da premesse wagneriane –
, e la dice invece lunga sulla diversità tra l’opera e il dramma musicale (il Musikdrama
non è – come invece reputava Wagner – il telos, il traguardo e culmine della storia
dell’opera: esso rappresenta piuttosto, rispetto alle leggi del genere teatrale-musicale,
una deroga ispirata allo statuto e ai criteri del dramma parlato).
Un antefatto o un’«azione nascosta» non appartengono di necessità alla vera sostanza
drammaturgica d’un’opera, anche là dove essi paiano gravare soverchiamente
sull’intreccio: lo comprovi un esperimento mentale volto a spiegare come mai il libretto
del Trovatore verdiano, non a torto malfamato, non abbia però mai arrecato pregiudizio
V. Klotz, Geschlossene und offene Form in Drama, München, 1969.
E. Staiger, Grundbegriffe der Poetik, Zürich, 1946.
4 R. Petsch, Wesen und Formen des Dramas, Halle a. d. S., 1945.
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all’efficacia scenica e musicale dell’opera. La polemica di chi ridicolizza le assurdità del
libretto fallisce il bersaglio. Si tratta infatti, per dirla con un paradosso, d’un libretto
squinternato eppure funzionale, giacché alla fin fine le sue palesi manchevolezze non
contano. La storia dell’infante scambiato e gettato nel fuoco non è affatto il cardine del
dramma ed è anzi, a ben vedere, un superfluo di più nell’azione, se per azione s’intenda
non già quel raccontino riassuntivo che le «guide all’opera» sogliono propinare al pubblico come «contenuto» del dramma – un intreccio aggrovigliato e inestricabile – bensì
l’insieme degli eventi che assumono evidenza scenica e motivano la forma musicale. La
sostanza d’un’opera risiede in ciò che si vede, non in ciò che si lascia narrare. E per
comprendere gli eventi che costituiscono la vera azione scenico-musicale del Trovatore
basta sapere che la madre di Azucena è stata bruciata viva, e che l’odio con cui il Conte
di Luna perseguita Manrico non arretra neppure dinanzi alla di lui madre poiché Luna
ha di che temere la vendetta di Azucena. Che poi Manrico sia o non sia figlio di Azucena è tutto sommato indifferente: l’orrifica scena finale è quasi un’aggiunta posticcia anziché la cogente conclusione dell’azione visibile (distinta dall’azione narrabile). La fine
vera e propria dell’opera, la soluzione d’un irretimento tragico gravato da equivoci fatali, la dà la morte di Leonora. E non esagera chi afferma che il Trovatore è potuto diventare un’opera di repertorio fortunatissima non già ad onta bensì in virtù d’un libretto efficace nonostante tutto. Il pubblico, sebbene penetri poco o nulla l’antefatto e l’«azione
nascosta», coglie tuttavia l’essenziale, giacché gli eventi che la musica rappresenta riescono comprensibili anche soltanto per via pantomimica, e non richiedono d’esser motivati mediante racconti o riflessioni. L’azione seconda, immaginaria, che costituisce lo
sfondo occulto degli eventi reali e visibili si può trascurare senza danno. Nell’opera in
musica, dramma del presente assoluto, importa soltanto ciò ch’è immediatamente percepibile: e se gli eventi messi in scena sono drastici quanto occorre, gli eventi riferiti a
voce saranno magari, come nel Trovatore, assurdi e aggrovigliati, senza che ciò nulla tolga alla consapevolezza del pubblico d’aver reso giustizia all’opera.
3. Nel dramma parlato – e nel Musikdrama, che ne riflette la struttura drammaturgica
e temporale – l’antefatto e l’«azione nascosta» procurano una seconda catena di eventi
che non di rado s’attesta con pari importanza accanto alla catena degli eventi scenicamente manifesti: alla presenza concreta di ciò che viene mostrato in scena si contrappone la presenza astratta di ciò che viene riferito. E nel dramma parlato il decorso temporale immaginario, evocato per mera forza di parole, riesce talvolta non meno costitutivo, ai fini del contesto significante globale, di quanto lo sia il «tempo reale» dei dialoghi
e degli eventi scenici. Al contrario, nell’opera in musica l’azione meramente riferita, ove
mai il librettista non l’abbia comunque evitata, riesce quasi sempre sbiadita e insignificante: il tempo presente è l’unico che conti nel teatro d’opera.
La concentrazione sul tempo scenico reale comporta, nell’opera in musica, una semplificazione che, come s’è già detto, è il rovescio di una articolazione determinata dalla
differenza tra «tempo della rappresentazione» e «tempo rappresentato» e analoga alla
tecnica romanzesca della dilatazione e contrazione dei decorsi temporali. Per soprammercato, l’analisi, ove non voglia sacrificare la precisione alla plausibilità, si complica
ancora di più in quanto il concetto del tempo inerente alla forma musicale – contrapposto a quello inerente al contenuto drammatico –, lungi dall’essere un concetto semplice,
rappresenta una categoria composita.
Quello che nel lessico musicale si chiama tempo, l’andatura d’un brano di musica, si
determina di norma come tempo dell’unità di misura d’una data specie di battuta (la
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semiminima nel 2/4, 3/4, 4/4, la minima nel 2/2, eccetera): càpita però anche che il
tempo sia scisso, e allora la coesistenza di Andante e Allegro o di Adagio e Moderato
andrà riferita a due unità di misura diverse e simultanee. Il tempo, dunque, in apparenza
un mero dato di fatto, può nell’opera in musica trasformarsi in un problema.
Un luogo comune da tutti accettato vuole che la musica, canovaccio sonoro della
messinscena, detti legge alla regia operistica. Accattivante nella sua semplicità,
l’assioma che vede prescritto nel tempo della musica il ritmo dell’azione d’una scena operistica, e che perciò ravvisa nella partitura il crittogramma d’un libro di regia, è meno
innocua di quanto non sembri. Infatti non v’è affatto, in linea di principio, pacifica convergenza tra l’andatura della musica come la percepisce l’ascoltatore (il tempo dell’unità
di misura) e il tempo scenico degli eventi e dei dialoghi d’una data scena operistica, e
anzi la frequente divergenza tra l’andatura musicale e l’andatura scenica è un problema
dei più ardui che incontri una regia operistica avvertita.
La divaricazione tra il tempo della battuta e il tempo del discorso verbale è il più banale dei modi in cui si scinda la struttura temporale, né richiede analisi. Ad ogni buon
conto, nel primo «numero» del Guillaume Tell di Rossini, l’introduzione, la duplicità
dell’unità di battuta è il congegno che consente di mediare tra gradi bruscamente discordi del tempo musicale: al momento dell’uscita in scena di Melchthal il contrasto simultaneo tra il veloce 6/8 dell’orchestra e la declamazione grave e sostenuta di Tell
rappresenta un grado intermedio tra l’Allegro vivace e il Maestoso del successivo assolo
di Melchthal (nel duetto numero 10 tra Mathilde e Arnold Rossini ricorre ancora una
volta allo stesso espediente per procurare la transizione dall’Agitato all’Andantino).
La circostanza che l’andatura musicale di una scena operistica non debba necessariamente combaciare col tempo dei dialoghi o degli eventi scenici è il presupposto d’una
peculiarità tanto ovvia ed elementare quanto poco investigata: nell’opera in musica un
andamento rallentato dell’azione scenica, e financo il suo ristagno, possono benissimo
conciliarsi con un moto d’affetti violento, che s’esprime nella musica. Al cospetto d’una
discrepanza tra il tempo degli eventi e quello degli affetti la musica si trova, per così dire, a dover scegliere se adottare l’una o l’altra andatura (e talvolta, come s’è detto, essa
sa addirittura forgiare due tempi diversi e simultanei).
I tempi onde consiste la struttura temporale d’una scena d’opera – l’andatura musicale come tempo dell’unità di battuta, l’andatura dell’azione e del dialogo tra i personaggi,
il tempo degli affetti che li animano, infine la quantità di «tempo rappresentato» che costituisce il contenuto di realtà d’una data scena – si sovrappongono nel dramma in musica e intrecciano a vicenda rapporti che oscillano tra gli estremi della impercettibile
convergenza e della crassa divergenza (una divergenza invero rivelatrice, se proprio attraverso di essa prendiamo coscienza della struttura temporale). Ammesso che la schietta coincidenza dei tempi si possa considerare un «tipo ideale» aproblematico e automotivato, si tratterà allora soltanto di dar conto delle deviazioni e delle discordanze, alla
luce del carattere drammatico della situazione scenica. Il fatto che il tempo dialogico
d’una scena contraddica il tempo della battuta, o che il tempo della battuta devii dal tempo degli affetti, o che infine il «tempo rappresentato» s’interrompa e resti sospeso nonostante il tumultuare delle passioni, il fatto – in altre parole – che la struttura temporale
di una scena sia scossa da crepe e fenditure, andrà esplicitato e giustificato: anziché liquidarlo a cuor leggero come una di quelle tali stranezze dell’opera in musica che ne rivelerebbero la sostanziale irrealtà, occorre prenderne coscienza ed esaminarlo come
specifico mezzo d’una drammaturgia che muove da presupposti musicali per produrre
effetti teatrali.
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Il terzetto numero 11 nell’atto II del Guillaume Tell rossiniano si presenta all’inizio
come un concertato d’azione e di dialogo: Tell e Walther Fürst tentano di riconvertire
alla causa della liberazione elvetica il fedifrago Arnold, collaborazionista degli oppressori austriaci per amore della principessa asburgica Mathilde. Alla notizia
dell’assassinio di suo padre, Melchthal, il dialogo s’interrompe di botto, il movimento
delle repliche e controrepliche cede ad uno sgomento esterrefatto: una situazione che
nella realtà o nel dialogo parlato durerebbe un solo attimo nell’opera in musica si dilata
in un cantabile espressivo che parrebbe dilagare addirittura nell’incommensurabile. Le
parole del testo che sostengono il canto sono soltanto il veicolo verbale di ciò che Richard Wagner chiamava «sonoro silenzio», come dire la mess’in musica
dell’ammutolimento provocato dall’urto d’una situazione tragica. Quello che nel tempo
reale, nel «tempo rappresentato», è un fuggevole istante di ineffabilità assume dunque
nel «tempo della rappresentazione» operistica una fattispecie sonora dalla durata irreale: il testo verbale è ridotto a mero substrato d’una melodia che, a ben vedere, è senza
parola, e parla direttamente dall’intimo dei personaggi sbigottiti. Alla stessa stregua del
cantabile anche la cabaletta conclusiva del terzetto, ripetendo senza posa grida di libertà
e giuramenti di vendetta, conferisce una durata irreale ad un momento che nella realtà e
nel dramma parlato trascorrerebbe in una manciata di secondi: il gesto enfatico della riscossa e della sollevazione resta impietrito in un quadro vivente (il tableau vivant è un
fenomeno alla moda nell’età della Restaurazione).
Basta un’analisi sommaria per illustrare come l’andatura musicale sia nella prima
parte del terzetto un tempo dettato dall’andamento del discorso, nella seconda e nella
terza invece un tempo dettato dagli affetti. Il dialogo vero e proprio, nel quale il «tempo
della rappresentazione» combacia a un dipresso col «tempo rappresentato»,
s’interrompe di colpo alla fine della prima parte, una sorta di «scena» melodizzata: il
tempo in cui sotto il profilo formale e musicale dilagano il cantabile e la cabaletta è, dal
punto di vista del contenuto, irreale; e le parole del testo, che nella realtà sarebbero mere interiezioni stupefatte o incitative, mediante lirismi e reiterazioni di frasi si dilatano
in una pseudolingua ch’è mero supporto verbale alla musica e che sotto il profilo poetico non chiede d’esser presa alla lettera: proprio perché non dice nulla, essa cede il passo
ad una musica capace di dar voce alla situazione drammatica.
Parlare di una «musicalizzazione» priva di funzioni drammaturgiche, di un avvicendamento subitaneo dal «dramma musicale» (la scena) all’«opera lirica» (il cantabile e la
cabaletta), sarebbe fuorviante: la divergenza tra il decorso temporale inerente alla forma
e il decorso temporale inerente al contenuto si lascia interpretare appieno in termini
drammaturgici (anche se l’accoppiata di cantabile e cabaletta rappresenta uno schema
morfologico-musicale prefigurato, vincolante per la librettistica ottocentesca). Che un
istante di muto sgomento emerga dalla sequela degli eventi come momento critico del
dramma e venga dilatato in una durata irreale, oppure un gesto simbolico venga dal
musicista pietrificato in un tableau vivant ad effigiare l’idea portante dell’azione, sarà sì
poco motivato sotto il profilo del realismo, ma lo è molto sotto il profilo drammaturgico. Proprio in virtù della divergenza del decorso temporale formale dal decorso temporale della realtà la forma musicale è capace di rendere giustizia all’importanza drammatica d’una situazione che meriti di essere evidenziata. In altre parole, la discrepanza di
«tempo della rappresentazione» e «tempo rappresentato» non poggia su basi astrattamente musicali bensì si fonda su ragioni teatrali-musicali: si tratta, senza ombra di dubbio, di un artificio schiettamente e legittimamente teatrale, ad onta del fatto ch’esso è
sconosciuto al dramma parlato.
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4. Se la differenza tra «tempo della rappresentazione» e «tempo rappresentato» è tutto sommato un tratto di natura epica, che accomuna l’opera in musica al romanzo e la
distanzia dal dramma parlato, la drammaturgia operistica s’accosta in maniera palmare
alla tecnica narrativa nell’uso del quadro di genere o di colore, di cui quasi nessuna opera dell’Ottocento va priva: sotto l’egida d’un’estetica incentrata sul «caratteristico»,
contraltare dell’estetica del «bello», il secolo XIX indulgeva agli effetti della couleur locale
sonora.
Il drammaturgo letterario è di regola costretto a dissolvere in azione e in movimento
– in discorso scenico – la rappresentazione di uno stato di quiete, di una condizione inerte: da questo procedimento derivano quei dialoghi di Ibsen e Čechov che mentre
paiono girare a vuoto espongono, senza darlo a divedere, i motivi propulsori d’una sequela di eventi. Invece nel genere epico la descrizione immediata di casi ricorrenti o di
dati durevoli è un artificio dei più elementari e ovvii, indispensabili a qualsiasi narrazione: quanto alla struttura temporale di siffatte descrizioni, Günther Müller, non senza
una certa qual pedantesca preziosità terminologica, la designa come «iterativodurativa». Con un pizzico di esagerazione – e ad onta di più sottili distinzioni filosofiche del concetto di ‘tempo’ –, al cospetto del procedimento epico che consiste nel catturare e comprimere (per così dire) la perpetuità dentro la struttura temporale d’un unico
evento, potremmo parlare di un «tempo della rappresentazione» privo di «tempo rappresentato»: nel decorso temporale formale in cui è calato lo svolgimento narrativo si
rispecchia uno stato di cose, una condizione inerte (di quiete o di moto) che, come persistente durata o come continuo ricorso dell’identico, esorbitano dalla concezione del
tempo inteso come processo.
La tecnica narrativa s’avvale della descrizione successiva di eventi e cose che accadono o si danno simultaneamente in luoghi diversi: ma delineare partitamente i dati di un
panorama che poi nella fantasia del lettore si ricompongono in simultaneità è un metodo che ha lasciato tracce notevoli nel teatro d’opera, e che soltanto un’estetica operistica
unilateralmente ispirata alla drammaturgia teatrale ha potuto misconoscere. L’introduzione che apre l’atto I del Guillaume Tell di Rossini – sul quale l’analisi torna a soffermarsi non già perché si tratti di un caso fuor del comune bensì perché,
all’opposto, esso rappresenta bene la norma – è un quadro di genere composto di settori
eterogenei: gli attori o le comparse che li popolano – contadini, pastori, un pescatore,
nonché, cupo e assorto, l’eroe eponimo – sono sparsi per la scena senza nessun vero
rapporto reciproco, e sotto il profilo drammaturgico sono accomunati soltanto dal fatto
di appartenere tutti all’immagine ideale d’una Svizzera di fantasia. Ma la simultaneità
implicita nel quadro complessivo, ben realizzata nella veste scenica, nella veste musicale si sfalda in una illustrazione successiva, giacché i caratteri melodici dei singoli settori
della scena contrastano troppo bruscamente, né si lascerebbero cumulare in un brano
concertato senza dar luogo a strutture contrappuntistiche affatto incompatibili con la
concezione rossiniana dell’unitarietà formale. Il coro dei contadini, la romanza del pescatore e il tetro lamento di Tell sull’oppressione asburgica vengono esposti l’uno dopo
l’altro, quasi fossero stazioni successive di una vicenda e non facce diverse di un unico
quadro di cose. Mentre il panorama scenico permane inalterato, la musica delinea e dipinge quello stesso panorama ricorrendo alle risorse di una couleur locale sonora, ma lo
fa adottando il metodo del narratore che passa di luogo in luogo e suggerisce al lettore
un quadro complessivo, sì, tratteggiandolo però brano a brano.
Ma Rossini non si ferma alla mera accumulazione di episodi musicali diversi, alla
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successione illustrativa mutuata dall’epica: nella seconda strofa del canto del pescatore
interviene il controcanto di Tell che però, sebbene replichi le parole del suo lamento politico, rinunzia al tono sostenuto del suo monologo e si adegua vocalmente al tono della
romanza del pescatore (la voce di basso di Tell si riduce a mero sostegno dell’assolo del
tenore). La capacità di illustrare un quadro di cose composito ed immoto attraverso contrasti musicali simultanei senza che però l’eterogeneità dei caratteri melodici incrini o
disgreghi la struttura musicale è una risorsa che la tecnica del concertato operistico conquistò soltanto in una fase evolutiva ben più avanzata di quanto non comportassero le
premesse medesime dello stile e dell’estetica rossiniani.
La simultaneità di vicende diverse o di spezzoni dialogici multipli configura un tipo
di concertato ch’è peculiare al teatro musicale del secolo XX, sebbene talune scene operistiche dell’Ottocento – come i quartetti del Rigoletto o del Don Carlos o di Otello – lo anticipino. Rispetto alla tecnica romanzesca della descrizione successiva di eventi o stati
simultanei, la simultaneità delle azioni, artificiosa quanto si voglia sotto il profilo della
disposizione spaziale, rappresenta per così dire un ripristino della struttura temporale
propriamente intesa: il «tempo della rappresentazione» e il «tempo rappresentato», divaricati nel romanzo, combaciano invece senza scarti nell’opera in musica, genere irrealistico per eccellenza. Il decorso temporale inerente alla forma e quello inerente al contenuto, in tali casi, coincidono. Per altro verso la simultaneità di scene diverse o addirittura eterogenee – un procedimento che in un’opera come Die Soldaten di Bernd Alois
Zimmermann rappresenta la conseguenza ultima della tecnica della simultaneità nei
concertati tradizionali, e che in prospettiva storica va senz’altro inteso come estensione
della tecnica del concertato dalle voci di un solo dialogo alle scene di un intiero atto –
tocca un punto estremo di divergenza dalla drammaturgia teatrale, la quale soltanto nel
teatro dell’assurdo tollera la molteplicità simultanea dei discorsi. È dunque proprio in
virtù dell’aspetto realistico della sua struttura temporale, in virtù della convergenza tra
i decorsi temporali della forma e del contenuto, che la scena simultanea nell’opera moderna – un tipo di scena che esalta le risorse più suggestive della Nuova Musica applicate al teatro musicale – si discosta tanto dal teatro drammatico quanto dal romanzo,
generi letterari ambo costretti a descrivere l’uno dopo l’altro eventi e stati di cose simultanei (laddove anzi il decorso temporale formale, il «tempo della narrazione» o «della
rappresentazione», incide talvolta su quello sostanziale, sul «tempo narrato» o «rappresentato», fino a suscitare l’illusione che avvenimenti simultanei, sol per essere narrati o
rappresentati successivamente, siano anche accaduti in tempi diversi). Beninteso, sia nel
teatro che nel romanzo il rapido avvicendamento di luogo e la frantumazione dei dialoghi consentono quantomeno di evocare la simultaneità ch’è sottintesa. Ma il luogo elettivo del contrasto simultaneo – che ad onta della sua paradossalità spaziale riesce con la
sua struttura temporale a mutuare un frammento di realtà in un’immagine teatrale efficace – è il teatro d’opera.
Fonte
Carl Dahlhaus, Zeitstrukturen in der Oper, in «Die Musikforschung», XXXIV (1981),
pp. 2-11. Traduzione di Giuseppina La Face Bianconi.
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