Cinesi o giapponesi?
Giapponese? Cinese? Acqua dolce? Acqua salata? Colore naturale? Durevole nel tempo? Troppo
economica? Troppo cara?
scritto da Alberto Scarani, Paolo Minieri
Inquietanti domande si affollano nella mente dell’acquirente di perle, sia questi un consumatore, un
negoziante o un qualsiasi operatore. Per tentare una modesta risposta teniamo ben presente che
quella delle perle coltivate è un’industria vera e propria e non un’attività estrattiva o una semplice
manifattura.
Calma piatta per lunghi decenni. Poi tutto cambia.
Il dato di fondo è di una semplicità disarmante: l’industria delle perle ha conosciuto così tante
trasformazioni negli ultimi vent’anni che i precedenti decenni appaiono quasi immobili e privi di
significative evoluzioni. Per i settant’anni successivi all’ideazione della tecnica di coltivazione delle
perle in molluschi della varietà Pinctada Fucata in acqua salata, avvenuta nel 1920, da parte dei
giapponesi (i pionieri si chiamavano Tokishi Nishikawa e Tatsuhei Mise assieme al celebre Kokichi
Mikimoto) non si verificarono eventi memorabili. Naturalmente l’attività consolidò il proprio peso,
si raggiunsero risultati via via migliori. Il dato fondamentale fu il declino delle forniture di perle
naturali, le uniche (e molto costose) disponibili in precedenza. Prese così forma la prima industria
mondiale delle perle coltivate. Il quadro si articola solo in tempi più recenti con l’affacciarsi dei
primi concorrenti provenienti dall’Australia e dalla Polinesia Francese. Qui negli anni ’60 e ’70 del
secolo scorso s’erano messe efficacemente a punto tecniche di coltivazione di perle di maggiori
dimensioni ottenute da un mollusco più grande, la Pinctada Maxima. La svolta decisiva risale agli
ultimi anni del secolo scorso. Il mercato cambia radicalmente per l’emergere simultaneo di svariati
fattori. Le perle australiane e quelle scure tahitiane, più costose di quelle giapponesi d’acqua salata,
finalmente e fatalmente scalzano queste ultime dal trono di regine incontrastate delle gemme del
mare. Ciò grazie a valide e costose campagne di marketing, un lavorio tenace protratto per un lungo
decennio. Inoltre, soprattutto le perle nere invadono i mercati con un eccesso di produzione cui il
governo della Polinesia francese non riesce a porre rimedio. Una sfortunata concomitanza congiura
contro le perle akoya (acqua salata) giapponesi. Nel 1996 gli stabilimenti di coltivazione sono
infatti decimati a causa d’una violenta epidemia infettiva che uccide i due terzi dei molluschi
perliferi. È il disastro. Ma un disastro che avviene nel momento peggiore. Perchè?
Le perle australiane e tahitiane sorpassano le akoya giapponesi in pregio. Le perle akoya cinesi le
sorpassano prima in quantità e poi? Perché negli stessi anni una nuova potentissima produttrice si
affaccia alla ribalta perlifera mondiale. La Cina della rivoluzione industriale, dei due sistemi
economici congiunti, quello centralizzato delle agenzie governative che finanziano l’innovazione e
la inoculano in bacini protetti di territorio e quello più moderno dell’iniziativa privata di stampo
capitalistico. La penisola di Leizhou (provincia di Guangdong) e le insenature di Beihau e Hepu
(provincia meridionale di Guangxi) offrivano condizioni simili alla leggendaria area della prefettura
di Mei in Giappone. I primi esperimenti su larga scala di coltivazione erano già stati condotti a
partire dal 1961 per opera ed iniziativa dei piani di sviluppo del partito comunista.
Dal 1993 ai primi anni 2000 le akoya cinesi passano da circa 5 tonnellate fino ad oltre 20. Da tale
enormità di perle prima o poi non era da prevedere un avanzamento della qualità? Possiamo esserne
certi proprio perché le più strutturate imprese giapponesi non tardano ad investire nelle migliaia di
farms del litorale cinese prelevando le qualità adattabili agli elevati standard nipponici. Risultato? A
giudizio di autorevoli studiosi (Pearl World International Pearling Journal ed altri) una
considerevole quantità di fili di perle d’acqua salata esportata dal Giappone sono prodotti in Cina.
D’altro canto un ulteriore indizio della possibile crescita del ramo cinese dell’acqua salata lo si può
ricavare dal raffronto delle percentuali della quota dell’export share che registrano il sorpasso in
valore della Cina sul Giappone. Vale la pena di ricordare che un’indagine gemmologia riesce, con
adeguata strumentazione, ad identificare il tipo di coltivazione (nucleata, d’acqua dolce o salata,
multistrato etc.) ma non può con facilità determinare se una perla akoya (acqua salata) sia stata
allevata nei mari del Giappone o della Cina meridionale. Questa constatazione di fatto sbarra il
percorso a qualsivoglia processo di branding all’origine, con l’inevitabile conclusione, che in effetti
oggi potrebbe essere un nuovo e più definito punto di partenza per l’operatore. Ancora una volta
l’origine geografica non è di per sé una certificazione di qualità. Il prodotto d’acqua salata cinese
resta in larga misura mediamente peggiore di quello giapponese, ma spesso lo eguaglia e talvolta lo
supera soprattutto nelle misure fino ai 7-7,5 mm. Non ci resta che scrollarci di dosso gli attributi
geografici per limitarci a quelli più propriamente scientifici e cioè quelli che ci hanno insegnato e
che valgono da sempre: lo spessore della perlagione, la forma, il colore, la quantità di imperfezioni,
la misura e la composizione del fili. Da questi parametri provengono delle risposte sicure. Forse non
potremo dire alle clienti se le perle che offriamo sono giapponesi. Possiamo dire loro con certezza
che magari sono belle.
Perle d’acqua dolce. Ed inoltre: prodotti coltivati inediti e nuovi trattamenti.
Migliaia di imprese migliaia e migliaia di nuovi addetti hanno comportato un grande sviluppo
all’industria della coltivazione delle perle in Cina. Anche perché l’amministrazione pubblica ha
incoraggiato i produttori garantendo loro un idoneo supporto finanziario per l’impiantazione delle
imprese. Ed è così che nel corso degli anni Novanta si realizza un ulteriore cambio strutturale. Un
nuovo tipo di ostrica, un essere ben robusto e gran lavoratore denominato Hiripsis cumingii, capace
di ospitare molte perle contemporaneamente soppianta la Cristaria Plicata, meno redditizia e
responsabile della scarsa sfericità delle perle freshwater lavorate sino ad allora. Da qui s’origina la
grande escalation delle perle d’acqua dolce. In Cina lo sviluppo è stato vertiginoso: nel 2007 si sono
raggiunte 1600 tonnellate di prodotto. Per la legge dei grandi numeri non poteva non accadere che
la pur esigua minoranza di questa massa assurgesse a livelli d’eccellenza tali da rivaleggiare con le
perle d’acqua salata ( e talvolta con le South Sea). Ed ecco riaffiorare gli equivoci e le valutazioni di
stampo geografico. Spesso gli operatori meno informati sono stati indotti a pensare che sotto il
nome generico di perle cinesi ricadessero indistintamente le perle coltivate scadenti d’acqua salata e
quelle d’acqua dolce.
Sta di fatto che le perle d’acqua dolce hanno inondato il mercato in modo esponenziale negli ultimi
dieci anni, scalando nelle misure fino ai 13 mm e raggiungendo incredibili livelli di sfericità. Come
se non bastasse anche le perle, al pari della quasi totalità delle gemme che compongono il pantheon
gemmologico, sono state oggetto di trattamenti per migliorarne l’aspetto o il colore. La procedura di
routine applicata tradizionalmente alla quasi totalità della produzione consiste in un leggero
sbiancamento ottenuto mediante immersione in soluzioni chimiche (perossido di idrogeno)
contemporaneamente all’esposizione a luce ultravioletta. Ma il boom delle perle tahitiane di
colorazione scura (le uniche coltivate con questi toni) ha innescato una forte pressione sulla
domanda.
Ed ecco che il nitrato di argento ha preso ad essere spesso utilizzato per ottenere un’attraente
colorazione scura da perle di scarsa o media qualità, per lo più d’acqua dolce. Da queste si
producono – a mezzo di tinture coloranti organiche ed inorganiche – sgargianti variazioni di colore.
Altro metodo spesso utilizzato è l’irraggiamento per esposizione ai raggi gamma. Nel caso delle
perle di acqua salata si ottengono di solito colorazioni che vanno dal grigio al blu mentre le perle di
acqua dolce virano ad una colorazione molto più scura e metallica presentando a volte una vistosa
iridescenza superficiale. Più raro il trattamento per ricopertura con cui si raggiunge un deciso
miglioramento della lucentezza. Guardiamoci bene intorno, l’industria delle perle coltivate è in
pieno movimento.