EUTANASIA (DIR. COST.) di Antonio D'aloia (Anno di pubblicazione: 2012) Sommario: 1. Il problema costituzionale dell'eutanasia. Una mappa concettuale. - 2. Polisemia dei principi costituzionali sulle questioni bioetiche e sulle decisioni di fine vita. Il consolidamento di significati della tutela della salute come possibile punto di avvio della riflessione. - 3. Consenso informato e diritto di rifiutare le cure: qualche risposta dall'art. 32 Cost. - 4. "Excursus". Giudici e legge nelle questioni bioetiche: gli "end of life cases". Dalla collaborazione al conflitto: appunti sui casi Englaro e Schiavo. - 5. Rifiuto e interruzione di trattamenti life sustaining. Il consenso (dissenso) informato alla prova delle "estreme conseguenze". Esiste un dovere di vivere o di mantenersi in salute? - 6. (Segue). Withdrawing/Withholding medical treatment: la "insostenibile" differenza tra rifiuto e rinuncia ai trattamenti terapeutici. -7. La distinzione tra "lasciar morire" (letting go, letting die) ed "uccidere" (killing). Il discorso dell'eutanasia davanti al suo nodo più intricato. - 8. Stato vegetativo permanente e interruzione delle tecniche di nutrizione e idratazione artificiale. -9. Autodeterminazione, consenso, incapacità del soggetto al momento della cura. - 10. (Segue). Pianificazione anticipata delle cure e living wills: connotati e problematicità del modello. - 11. (Segue). La decisione "senza volontà": tra "best interest" e "substitute judgment standard". 12. (Segue). Il caso Englaro e i dubbi sulla ricostruzione della volontà. Un best interest "soggettivizzato"? 13. Oltre il rifiuto di cure. Eutanasia attiva e suicidio medicalmente assistito. - 14. Eutanasia e Costituzione. Alla ricerca di un inquadramento costituzionale della distinzione tra le diverse ipotesi. - 15. Conclusioni. Il legislatore italiano di fronte alla sfida dell'«eutanasia». 1. Il problema costituzionale dell'eutanasia. Una mappa concettuale. Pensare al tema dell'eutanasia nella prospettiva del diritto costituzionale segnala evidentemente, e da subito, l'insufficienza di un approccio fondato esclusivamente sull'analisi della normativa ordinaria di derivazione penalistica (il riferimento è agli artt. 579 e 580 c.p.)(1). L'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio appaiono un segmento parziale di un fenomeno molto più complesso, non solo per la vastità della dimensione casistica, quanto proprio per la diversa "qualità" di una serie di contesti, e di problematiche che si manifestano (o che vengono proposte) con il linguaggio e la forza giuridica "espansiva" dei diritti(2). La rivendicazione di un controllo sulla fase finale della propria esistenza diventa così uno snodo inedito e assai controverso del dibattito sui valori e sulle implicazioni sostanziali della libertà e della dignità della persona. L'eutanasia va ad occupare un diverso orizzonte tematico(3), e subisce al tempo stesso una profonda trasformazione delle sue motivazioni e delle sue immagini fattuali. In questa nuova dimensione, tutte le nozioni [soprattutto quelle vicine, o quelle apparentemente "oppositive", come appunto eutanasia o accanimento terapeutico(4)diventano incerte, non univoche nella loro proiezione concettuale e nella reciproca distinzione; le difficoltà semantiche(5)sono in realtà lo specchio di questioni sostanziali, che attengono al modo di intendere "beni" fondamentali (come dignità, autonomia, qualità della vita, lo stesso concetto di salute) e situazioni particolari (sofferenza, malattia terminale, situazioni cliniche estreme, …)(6). Su una cosa, tuttavia, sembra esserci un accordo, o almeno un punto di vista abbastanza comune e condiviso. Questa nuova e controversa "storia" dei diritti (legati al corpo. alla salute, alla vita) è l'effetto della alterazione del linguaggio "naturale" della morte, che dalla condizione di fatto (appunto) naturale, ineluttabile, diventa sempre più un processo, governato dalla tecnica e dall'artificialità (7), nell'ambito del quale c'è lo spazio per prendere decisioni che riguardano la propria vita e il modo di avvicinarsi alla morte(8). La rivendicazione di una partecipazione attiva alle decisioni che ci riguardano, di un controllo attraverso il consenso o il dissenso, si pone così quasi alla stregua di una reazione a questa possibilità della tecnica medica di ridefinire "artificialmente" i confini biologici della vita, talvolta oltre e al di fuori dei suoi significati più autentici(9). D'altro canto, un ulteriore corollario di questo dominio tecnologico sulle fasi finali della vita è nell'evidente accentuazione dei profili di ospedalizzazione della morte; una sorta di "espropriazione" dei significati umani e relazionali di questo processo(10). La capacità della tecnica medica di protrarre la vita, almeno come condizione biologica, di produrre una sorta di «twilight zone of suspended animation where death commence while life, in some form, continues (…)» (così la dissenting opinion di Justice Brennan nel caso Cruzan)(11), pone il problema di capire se e in che misura questa vita può essere desiderabile per il paziente, o corrispondere alla sua visione esistenziale e morale; e anche, di individuare, in questi casi, come è stato attentamente evidenziato, chi risulta giuridicamente legittimato a tracciare la linea che segna la fine della vita di ciascuno? Chi decide fino a che punto si deve cercare di protrarre una esistenza che può dirsi tale ormai solo in senso biologico? Chi può stabilire il quantum di tollerabilità dell'intervento della tecnica? Il diretto interessato (e, se incompetente, i suoi familiari, un fiduciario), il medico, un Comitato etico, la maggioranza politica di turno, il giudice, il legislatore costituzionale(12). È in questo contesto che trova spazio quello che anche recentemente è stato definito «il più paradossale dei diritti umani» (13), una specie di ultima libertà (14), il diritto di controllare le fasi finali della propria vita, di decidere se e come intervenire sulla malattia, se e come contrastarla, in alcuni casi persino il diritto di decidere se e come accelerare il processo mortale o determinarlo (con l'aiuto o l'assistenza di altri soggetti). Il tema dell'eutanasia si converte così in quello del "right to die or to letting die", come espressione [che invero, soprattutto nella prima espressione può mostrare una certa pericolosa vaghezza(15)comprensiva di tutta una serie di casi, tra loro molto diversi (anche e soprattutto nella valutazione giuridica), che vanno dal rifiuto di cure(16)alla interruzione/sospensione di presidi terapeutici (anche life-sustaining) già attivati [considerata tradizionalmente come una forma di eutanasia passiva consensuale(17), fino ai confini del suicidio medicalmente assitito e dell'eutanasia attiva in senso proprio(18), che a sua volta contiene l'estremo dell'eutanasia non consensuale(19). La parola "eutanasia", allora, si rivela per quello che è: un concetto che serve appena a descrivere (solo inizialmente) un complesso di situazioni che in realtà lo oltrepassano(20), e che richiedono necessariamente un'attività di precisazione di situazioni, presupposti e limiti; un "contenitore semantico"(21), probabilmente più utile sul piano emotivo(22)che non su quello descrittivo, all'interno del quale l'elemento comune dell'abbreviazione della vita (normalmente con la partecipazione o l'intervento di un terzo, quasi sempre il medico)(23), e quello delle condizioni patologiche "terminali" e/o non reversibili del paziente, accompagnate da sofferenze fisiche e psichiche(24), subisce il diverso impatto qualificativo di elementi quali la volontà (espressa, attuale, anticipata, "presunta") o meno del paziente o di suoi fiduciari, le modalità della sequenza tra azione/omissione del terzo (medico) e accelerazione dell'exitus, la gravità delle condizioni cliniche e la valutazione della proporzionalità o futilità del trattamento terapeutico o di sostegno vitale. Sulla base di questi elementi qualificativi, e del loro variabile incrocio, è possibile tentare un primo approccio descrittivo delle fattispecie che possono rientrare nella dimensione concettuale dell'eutanasia. Adottando il "punto di vista del malato", l'eutanasia può essere "consensuale" o "non consensuale" (differenziando in questo secondo caso le ipotesi dell'eutanasia non volontaria, in cui manca il consenso del soggetto che subisce la condotta, e dell'eutanasia "involontaria" o "contro la volontà", quando cioè la condotta eutanasica si rivolge addirittura contro la volontà del malato. Adottando invece "il punto di vista dell'agente", l'eutanasia può essere "attiva" o "passiva", con l'inquadramento in quest'ultimo tassello definitorio della casistica del right to refuse medical treatment, almeno quando esso viene esercitato nei confronti di trattamenti di sostegno vitale(25), ovvero in situazioni in cui il rifiuto o la rinuncia ad interventi terapeutici (medici) espone il soggetto ad un processo di accelerazione dell'evento "morte" naturalmente collegato alla patologia in atto. In questo senso, allora, secondo l'impostazione che qui si vuole utilizzare, "uccidere" una persona consenziente, o aiutare qualcuno a togliersi la vita, appaiono "etichette" inadatte (sia per "eccessività" che in termini "difettivi") a rappresentare le molteplici "emergenze" e dimensioni che si innestano sulla relazione medico-paziente, e che riguardano la decisione del soggetto malato nei confronti delle cure proposte o avviate, lo stato estremo delle sue condizioni di salute (sia fisiche che psicologiche), la valutazione della appropriatezza o meno di un intervento medico-terapeutico, la possibilità stessa della tecnologia medica di costruire situazioni in cui il processo naturale di morte viene "sospeso", e la condizione del soggetto oscilla tra una fine che non c'è ancora (ma è "imminente" e "inevitabile") e un'esistenza già svuotata di ogni prospettiva. D'altro canto, questa prima perimetrazione tematica chiarisce da subito perché l'eutanasia continua ad essere, da sempre, una delle questioni più difficili e "divisive" nel panorama bioetico, dove è molto arduo trovare punti di mediazione tra opposte visioni. Ad ogni modo, proprio alla luce delle precisazioni concettuali fatte in precedenza, il tema dell'eutanasia (o meglio, dei casi e delle situazioni che è possibile riportare alla nozione di eutanasia) verrà affrontato a partire dalla dimensione costituzionale della salute come diritto individuale e come contenuto della complessa identità psico-fisica di ciascun soggetto. Da qui, almeno una parte del complesso tematismo che si riannoda al concetto di eutanasia può trovare delle soluzioni che presentano un certo grado di ragionevolezza e di assestamento. 2. Polisemia dei principi costituzionali sulle questioni bioetiche e sulle decisioni di fine vita. Il consolidamento di significati della tutela della salute come possibile punto di avvio della riflessione. La scelta della salute come livello di "attacco" della riflessione costituzionale sulle ipotesi eutanasiche appare preferibile anche perché è la meno condizionata, rispetto ad altri valori costituzionali che sono normalmente richiamati in questo contesto, da opzioni morali. Per meglio dire, le opzioni morali, indubbiamente esistono e sono forti anche in relazione al modo di intendere la salute, e la disponibilità della medesima; parlare di salute significa fare riferimento ad un'idea di sé che tiene insieme fisicità e psiche, e che perciò si correla strettamente con la dimensione interiore (e morale) di ciascuna persona(26). Tuttavia, questi aspetti appaiono qui limitati, circoscritti, da un panel più visibile di contenuti normativi e di elementi oggettivi, di quanto non possa avvenire per concetti come vita, dignità umana. Prendiamo il ricorso al valore della vita, al principio giuridico della protezione della vita. Che la vita sia un diritto(27), e che la tutela della vita sia un interesse basilare [quasi una "pre-condizione"(28)di qualsiasi ordinamento giuridico, è un'affermazione persino scontata, sulla quale non possono esserci dubbi. Tutte le Costituzioni lo dichiarano espressamente o lo comprendono implicitamente(29). La nostra Corte costituzionale ne ha parlato alla stregua di «un bene essenziale, (…) soggetto ad una garanzia assoluta» (sent. n. 223/1996). Eppure, impostare il problema in questi termini rischia di essere almeno in parte fuorviante, e certamente lo è fuori dai casi di eutanasia non volontaria o involontaria, quando cioè l'azione o l'omissione che determinano la morte di un soggetto, o la accelerano, sono realizzate senza o contro la volontà di quest'ultimo. In situazioni di questo tipo, è giusto che il principio di indisponibilità della vita (altrui) sia richiamato nel modo più perentorio possibile, alla stregua di un limite invalicabile(30). Niente può giustificare o consentire che un soggetto sia privato di un supporto terapeutico o addirittura sia costretto a subire un intervento eutanasico, pur motivato da intenzioni "pietose", salvo che, nel primo caso, l'intervento terapeutico non configuri un'ipotesi di accanimento(31). Capire poi quando ci si trovi di fronte ad un accanimento terapeutico non è ovviamente facile. I tentativi di descrivere la fattispecie appaiono in realtà nient'altro che un prolungamento delle incertezze definitorie; e ogni elemento del quadro sembra prestarsi a più di una ricostruzione(32). Il caso Bland (su cui si tornerà più avanti) resta una sorta di linea estrema di utilizzazione della risorsa argomentativa del best interest del paziente, ovvero – rovesciando la prospettiva – della futilità e del carattere sproporzionato della cura. A ben vedere, però, anche in quella decisione, non era del tutto accantonato il profilo soggettivo-volontaristico come elemento di rafforzamento della valutazione medica di assoluta inutilità del trattamento life-saving, in quel caso nella forma di un consenso ricostruito in via indiretta, attraverso colloqui con i familiari del ragazzo che si trovava in coma ormai irreversibile. L'eutanasia non consensuale [nel senso di "non volontaria" o "involontaria"(33)continua ad essere in linea di principio sanzionata rigorosamente, anche in quegli ordinamenti che invece hanno avanzato di molto la soglia di accettazione normativa (oltre che culturale) del fenomeno nella sua versione consensuale. È un dato questo non scalfito da qualche tentativo di aggiramento interpretativo del rigore della norma sull'omicidio. Celebre, ma appunto "eccezionale", è la "finzione" giuridica cui ricorre la Corte d'Appello di Milano per assolvere il marito che aveva deliberatamente staccato le macchine che tenevano in vita la moglie, sia pure in condizioni disperate ed irreversibili. Il Giudice, con una motivazione probabilmente azzardata – al di là di quelle che possono essere le ragioni morali della vicenda e della decisione –, non ritenne accertato lo stato vitale della donna «nel lasso di tempo tra l'ultimo monitoraggio ed il momento dell'estubazione»; in sostanza, come è stato efficacemente sottolineato, sceglie «di presumere che la donna avrebbe (già) cessato di vivere» (34) . Un'autorevole dottrina ha parlato, in relazione a questi metodi di attenuazione del rigore di un parametro normativo, di una sorta di «bio-equity che tenta di rimediare alla rigidità e alla percepita ingiustizia del formante codici stico e legislativo attraverso il riferimento alla dimensione equitativa» (35). Ne sarebbe espressione anche l'esperienza inglese relativa alla "gestione penale" dei casi di accompagnamento, da parte di parenti, di soggetti malati in Svizzera per sottoporsi alla procedura di suicidio assistito. L'ordinamento inglese continua a ritenere punibile l'assistenza al suicidio, e pienamente vigente il Suicide Act del 1961; tuttavia, in alcune situazioni(36), tipizzate nelle guide-lines del Director of Public Prosecutions (DPP), che è l'organo della pubblica accusa, l'indicazione è quella di non procedere all'incriminazione, sostanzialmente rinunciando alla prosecution. Tornando allora al ragionamento iniziale, il principio di protezione della vita ha una rilevanza limitata (non basta) quando invece c'è una richiesta del paziente, c'è una sua volontà (qui poi le forme possono essere diverse) di rifiutare o interrompere cure ritenute inutili(37); quando, insomma, piuttosto che esprimere un desiderio di morire, il soggetto chiede di poter vivere quel poco di vita che ancora gli resta (e che è pesantemente gravato da elementi di sofferenza e di decadimento fisico e psichico) secondo modalità più "naturali"(38)e che sente più corrispondenti alla sua valutazione morale, alla sua dignità (39). È possibile provare a tracciare una prima provvisoria conclusione, sulla quale inevitabilmente si ritornerà più avanti. L'affermazione dell'esistenza di un diritto alla vita non può tramutarsi automaticamente in un dovere di vivere a qualunque costo(40); anche perché arrendersi ad una malattia inesorabile non significa scegliere la morte, ma prendere atto di non poterla contrastare, né appare ragionevole che qualcuno sia costretto a sopportare un dolore senza speranza(41). D'altro canto, nemmeno può significare una totale disponibilità della vita medesima, anche fino al punto di pretendere e "deresponsabilizzare" il comportamento attivo di altri, o di rendere irrilevanti le modalità della decisione di accelerare il processo di morte. Il suicidio non è razionalmente punibile(42), e tuttavia sarebbe semplicistico inferire da questo che esso sia un diritto o una facoltà costituzionalmente riconosciuta(43)[quello che alcuni autori americani chiamano "the Right to Waive the Right to live"(44), se non al prezzo di una caricatura degenerativa del concetto stesso di diritto e di libertà (45). Ad ogni modo, appare evidente che l'argomento del valore costituzionale della vita ha un impatto solo parziale sul tema in esame. Per quanto possa sembrare paradossale o improprio, anche chi sostiene le ragioni di una maggiore apertura nel riconoscimento giuridico dell'eutanasia, ovvero chi rivendica la possibilità di controllare le fasi finali della propria esistenza, lo fa invocando il valore della vita, il suo modo di intendere la vita, di dare e mantenere un orizzonte di "senso" e di qualità della vita medesima, in definitiva rimanendo dentro la sfera giuridica e morale di questo "bene"(46). Il conflitto si muove all'interno della stessa dimensione assiologica. Lo sottolinea molto bene Hans Jonas(47), quando scrive: «è il concetto di vita, non quello di morte, che in definitiva governa la questione del diritto di morire (…)». Come pure troppo schematico(48), proprio se lo raffrontiamo alle implicazioni del personalismo costituzionale (dico questo al momento solo come base di lavoro), appare il confronto tra l'etica della sacralità della vita e la dottrina della qualità della vita medesima(49): la vita non è un orizzonte da cui è possibile (e giusto) filtrare tutto il senso irriducibile ed autentico dell'autonomia e dell'esperienza personale di ognuno; di contro, essa nemmeno può essere ridotta ad un ambito di libertà illimitata ed irresponsabile, specchio egoistico di ogni desiderio individuale, anche quello più estremamente autolesionistico, mettendo completamente fuori gioco gli interessi oggettivi, intrinseci, di cui pure essa è portatrice. Se le cose stanno così per la vita, non diversamente credo si debba dire per altri parametri costituzionali, che sono analogamente investiti dalla multidirezionalità delle questioni bioetiche, e, nello specifico, dai dilemmi dell'eutanasia. Il concetto di dignità (umana) manifesta la stessa connotazione polisemica, e in questo senso anche tale paradigma, come è stato efficacemente sottolineato, "provide too little help"(50). Usare perciò la nozione costituzionale di dignità, ovvero insistere sul suo indubbio peso "supercostituzionale"(51), per risolvere il problema etico e giuridico dell'eutanasia non è meno retorico ed emozionale del richiamo al "topos" della vita. Non è un caso che spesso serva a sostenere anche posizioni diametralmente opposte(52). La ricerca di significati della dignità, in un ambiente costituzionale dominato dall'opzione metodologica della ragionevolezza e dal pluralismo etico come condizione di pensabilità stessa del fenomeno costituzionale(53), non può prescindere, da un lato, dall'adattamento del principio alle diverse situazioni concrete, e dall'altro, dalla rilevanza nella sua ricostruzione dell'autonomia personale di ciascun soggetto(54), di quelle concezioni di sé stessi che Dworkin ha identificato nel concetto di "interessi critici", che rappresentano «quanto di speciale c'è» in ogni uomo, e che non può non riguardare soprattutto le scelte sui momenti finali, giacché, se è vero «che viviamo l'intera vita all'ombra della morte. È anche vero che moriamo all'ombra della nostra intera vita» (55). In altre parole, la dignità non può significare per tutti e in tutte le circostanze la stessa cosa; altrimenti finirebbe col contraddire il suo fondamento più autentico nella capacità del soggetto di sviluppare e determinare sé stesso liberamente(56). Su questo terreno, risalta con particolare evidenza la dimensione morale dell'interpretazione costituzionale(57), in specie quando essa ha a che fare con quelle clausole attraverso le quali le moderne esperienze costituzionali hanno cercato di afferrare e di tradurre sul piano della vincolatività giuridica la nuova visione dell'uomo, dei suoi diritti fondamentali, della giustizia(58). Il carattere indeterminato, valutativo, di tali clausole, modifica il normale equilibrio interpretativo tra testo e cultura (e dunque, concezioni morali). Dire cosa corrisponde o meno alla dignità umana diventa così un'operazione inevitabilmente priva di ancoraggi univoci(59), o almeno non riducibile ad una pretesa dimensione "oggettiva" o "innata"(60). Dentro la categoria della dignità operano fattori di configurazione che appartengono alle dinamiche sociali e culturali, e alle convinzioni più intime e profonde di ciascuno, alla sua sfera di autonomia(61). 3. Consenso informato e diritto di rifiutare le cure: qualche risposta dall'art. 32 Cost. Chiedere allora alla Costituzione di darci una risposta netta ed univoca sull'ammissibilità e sui limiti dell'eutanasia come fenomeno complessivo, considerato nella sua varietà strutturale, è certamente un obiettivo molto (forse troppo) ambizioso, persino ingenuo. Su molte cose in relazione a questa "issue", le formule costituzionali hanno una non elevata (o persino bassa) capacità orientativa. Lo si è visto proprio adesso con i principi in tema di tutela della vita e della dignità umana. Qualche risposta più solida, invece, può venire dalla configurazione costituzionale del "bene" della salute, almeno su alcuni stadi della tematica del cosiddetto "end-of-life decisionmaking». Proviamo allora a cominciare da qui questa analisi costituzionale dell'eutanasia. È una scelta giustificabile anche su un piano logico-fenomenico, giacché nelle situazioni "lato sensu" eutanasiche, il primo bene costituzionale ad essere "minacciato" è proprio la salute; la perdita della vita o la accelerazione delle fasi finali dell'esistenza è un fatto successivo. Sul diritto alla salute, in effetti, si è venuta sviluppando una interpretazione che presenta un alto livello di coerenza e di adattabilità alla struttura costituzionale testuale (da noi, in prima battuta, l'art. 32), e al tempo stesso è sorretta da un imponente processo di assestamento che ha interessato sia il livello giurisprudenziale(62)che quello normativo. Il tradizionale modello di relazione tra il medico e il paziente, nel quale tutto ruotava intorno al protagonismo del primo, forte del suo sapere specialistico, ha lasciato il posto ad un modello in cui la cura è (anche) una scelta di autonomia e di consapevolezza del malato, il risultato di una composizione dialettica tra le due figure, e tra le rispettive dimensioni di riferimento: quella tecnica per il medico; quella esistenziale, non solo fisica, ma anche psichica, morale, del paziente, che (almeno tendenzialmente) vede la sua salute attraverso il prisma della sua esperienza interiore, relazionale. La formula del consenso informato esprime efficacemente questa sintesi di libertà e di autonomia nella decisione sulle cure. L'intervento medico poggia su una duplice base di legittimazione. Non è più sufficiente [sebbene resti pur sempre necessaria, come mostra il caso deciso da Cass. pen., n. 13746/2011, cit.(63)la sua appropriatezza o necessità dal punto di vista clinico. Condizione per la sua validità è appunto il consenso informato di chi subisce il trattamento sanitario, proprio perché la scelta se curarsi o meno, in particolare quando ricorrono circostanze gravi o situazioni patologiche estreme, implica inevitabilmente opzioni che non sono soltanto di natura tecnica o legate a presupposti informativi specialistici, ma riflettono molto spesso giudizi o considerazioni che hanno a che fare con la propria prospettiva morale, con la propria rappresentazione della vita e della dignità (64). L'opinion di Cardozo nel caso Schloendorff del 1914(65), e la sentenza della Corte Suprema Federale degli USA nel "case Salgo" del 1957, sono le prime tappe, o almeno quelle più celebri e ricordate(66)del cammino essenzialmente giurisprudenziale della doctrine dell'informed consent, e dell'idea – più in generale – che nella pratica terapeutica non conta solo l'integrità fisica del paziente, ma la sua "self-determination". A partire da questi precedenti (di cui il secondo è certamente più diretto ed esplicito sul punto specifico del consenso basato su una preventiva informazione), il principio secondo cui «Everyone has the right to decide what has to be done to one's own body. This includes the right to be free from medical treatment to which the individual does not consent»(67), diventa uno dei cardini della costruzione di common law sui diritti fondamentali del soggetto malato, conquistandosi progressivamente uno spazio sempre più esteso. Per venire all'esperienza italiana, il leading case è rappresentato dalla sentenza "Massimo" (sent. 18-101990, n. 13), nella quale la Corte d'Assise di Firenze, chiaramente mettendosi nella scia di questo percorso giurisprudenziale, affermava che «nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute ed integrità personale, (…) non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze» (68). Emergono subito, in questa sentenza, i paradigmi che hanno poi guidato la definitiva consacrazione costituzionale del principio del consenso informato. La dimensione essenzialmente individuale della salute non è solo il facile risvolto della scelta costituzionale di rendere tassativi i trattamenti sanitari obbligatori, peraltro ancorandoli ad una logica di necessarietà in rapporto alla tutela della salute collettiva, di altri soggetti; decidere di curarsi, o di non farlo, lasciando che la malattia faccia il suo corso, è una manifestazione della propria identità personale, della autonomia morale di ciascun soggetto, che appartiene al nucleo più intimo ed irriducibile della libertà personale. Il diritto alla salute, anche nella sua versione "negativa" (ma forse sarebbe meglio dire "difensiva" rispetto a comportamenti coercitivi o non rispettosi della volontà individuale del malato), viene così a costituire una proiezione specifica della libertà personale e della sfera dei diritti inviolabili della persona: la lettura dell'art. 32 viene rafforzata dall'incrocio con le principali traiettorie di identificazione e di formazione, nel nostro sistema, dell'esperienza dei diritti fondamentali(69). La sentenza della Suprema Corte di Cassazione sul caso Englaro, del 2007, sarà il punto di svolta nel senso del definitivo radicamento di questa concezione: il principio del consenso informato, dice il Giudice di legittimità, «ha un sicuro fondamento nelle norme della Costituzione: nell'art. 2, che promuove e tutela i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità; nell'art. 13, che proclama l'inviolabilità della libertà personale, nella quale è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo [il riferimento qui è a C. Cost., n. 471/1990(70); e nell'art. 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana (…)». La stessa Corte costituzionale adotterà questa identificazione dei parametri del consenso informato nelle sentenze nn. 438/2008, e 253/2009, in due giudizi relativi al riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni in materia sanitaria, dove però la Corte ha "voluto" inserire questa ricostruzione del quadro costituzionale relativo al rapporto medico-paziente. Secondo il Giudice delle leggi (nella prima sentenza), «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32, secondo comma, della Costituzione». Ad ogni modo, non è stato un percorso lineare e senza resistenze, sebbene queste abbiano margini operazionali sempre più ristretti(71). In sostanza, la teoria e la pratica dell'informed consent sembrano arrivati ad uno stadio di sostanziale "stabilità": si può discutere su alcune implicazioni (delle quali si tratterà più avanti) e divaricazioni tra teoria e pratica(72), su alcune aporie (o insufficienze) del consenso e del suo presupposto conoscitivo(73), finanche sui rischi di "autoreferenzialità" che possono in qualche caso impadronirsi del concetto di self-determination [fino a renderlo quasi una "ossessione", "absolute and ideological"(74), legata ad un "prototipo" di persona che non esiste sempre e in tutte le situazioni(75)ma le coordinate costituzionali di questo processo di enucleazione di significati costituzionali del diritto alla salute sembrano molto convincenti e assestate. A dire il vero, proprio l'art. 32 Cost. è stato sottoposto ad interpretazioni che hanno provato a ridimensionare la portata del divieto generale di trattamenti sanitari obbligatori (con l'eccezione dei casi tassativamente stabiliti dalla legge), insistendo sul fatto che il Costituente, approvando questa norma, in realtà aveva in mente prioritariamente l'esigenza di evitare il ripetersi delle pratiche sperimentali coattive sul corpo umano. Questo almeno, emergerebbe dall'esame dei lavori preparatori della disposizione in esame(76). È un argomento, però, che prova troppo. L'interpretazione delle norme costituzionali, soprattutto in quegli ambiti nei quali è molto forte il peso dell'evoluzione dei contesti umani e sociali, come certamente sono quelli presidiati dalle clausole costituzionali sulla tutela dei diritti e del principio di eguaglianza, non può essere "schiacciata" sul dato dei problemi e degli interessi che il Costituente aveva di fronte(77). Il linguaggio costituzionale è intrinsecamente una trama aperta ad un continuo aggiornamento di senso e di contenuti. Il testo costituzionale è sicuramente una guida, e se si vuole anche un limite di questa "rielaborazione" [nella sua oggettività linguistica(78), ma al tempo stesso proprio il testo, così ricco di concetti indeterminati e di clausole generali(79)che richiamano i contesti umani e sociali, e che poi sono il "cuore" del discorso costituzionale (come "pieno sviluppo della persona", "dignità umana e sociale"), diventa un fattore di mobilitazione della risorsa ermeneutica, secondo modalità nelle quali ovviamente si riduce il ruolo dei lavori preparatori come strumento di orientamento interpretativo. Peraltro, proprio in questo caso, l'evoluzione interpretativa che ha "marcato" il profilo individuale(80)del diritto alla salute, accentuando progressivamente la rilevanza del principio fondamentale del consenso e dell'autodeterminazione (anche) come pretesa di astensione nei confronti degli apparati pubblici e nella relazione medico-paziente(81), appare perfettamente coerente con la struttura linguistica della norma costituzionale. La traduzione del diritto alla salute (anche) come diritto di dare il consenso o di rifiutare un determinato intervento medico-terapeutico ha, perciò, una sicura base costituzionale(82), e non può essere "declassata" ad una opzione di segno "meramente" legislativo(83). I percorsi legislativi e giurisprudenziali hanno avuto certamente un ruolo nel "consolidare" questo risultato, come del resto sempre accade per ogni processo attuativo di una norma costituzionale, che finisce inevitabilmente col riflettersi – in senso rielaborativo e integrativo – sul significato originario della norma(84). Ma non mi sembra si possa dubitare del "tono" costituzionale delle implicazioni individualistiche del diritto alla salute, nel senso dell'autodeterminazione terapeutica. Questo ha delle conseguenze. Se un diritto esiste, ed è direttamente ricavabile dalla Costituzione, la sua effettività non può essere lasciata alla totale discrezionalità del legislatore; né si può sostenere, come ha fatto il Giudice civile nel caso Welby(85)che, fino a quando il legislatore non interviene a precisare modalità e forme di quel diritto al consenso/dissenso terapeutico (nella fattispecie il diritto "di richiedere la interruzione della respirazione assistita e il distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale") che pure, in linea di principio viene identificato e riconosciuto, tale diritto è come "sospeso", "disattivato", di fatto non tutelato(86), almeno non prima di aver verificato che la formale mancanza di un parametro normativo specifico non possa essere "compensata" attraverso una lettura integrata e sistematica dei significati sostanziali ricavabili dagli enunciati costituzionali(87)e degli strumenti di tutela (in particolari di quelli "atipici" e "innominati", come appunto l'art. 700 c.p.c.) disponibili sul piano dell'ordinamento processuale. Ed è proprio questo, vale a dire la rilevazione di un supposto "vuoto legislativo", l'elemento di maggiore criticità della posizione del Giudice romano(88). Il diritto di curarsi o di non farlo, indipendentemente dai riflessi che questa scelta può avere sulla vita di una persona (e quindi anche nelle situazioni patologiche "estreme"), sembra poggiare – come si è detto – su una solida e "autoevidente" base costituzionale, confermata da precise indicazioni legislative o "lato sensu" normative (art. 5 legge n. 145/2001; artt. 17 e 32 del codice di deontologia medica), e da un'ampia e sempre più convergente casistica giurisprudenziale(89). Peraltro, le conferme al principio dell'autodeterminazione terapeutica attraversano la dimensione nazionale degli ordinamenti giuridici. Il principio del consenso informato è diventato ormai una "tradizione comune" di livello costituzionale. Guardando alla esperienza sovranazionale e internazionale di cui siamo direttamente parte, il principio secondo cui i trattamenti terapeutici e sanitari non possono essere effettuati "se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero ed informato", è ora sancito espressamente nella Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina (c.d. Convenzione di Oviedo)(90), cui l'Italia ha dato esecuzione [invero non ancora completamente perfezionata, mancando il deposito dello strumento di ratifica(91)con la legge n. 145/2001(92), e – con diverse modalità testuali – nell'art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, significativamente inserito nella parte dedicata alla "dignità". Infine, la C. Dir. Uomo ha ricondotto il tema del consenso "of mentally adult competent patient" rispetto ai trattamenti medici, al parametro costituzionale-convenzionale del rispetto della vita privata di una persona (art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), e della sua "physical integrity", espressione ritenuta evidentemente comprensiva anche di elementi morali, legati all'interiorità di ciascun soggetto(93). 4. "Excursus". Giudici e legge nelle questioni bioetiche: gli "end of life cases". Dalla collaborazione al conflitto: appunti sui casi Englaro e Schiavo. La vicenda teorica e applicativa del consenso informato è l'emblema di uno dei caratteri principali del biodiritto, che poi si ritrova in modo particolarmente intenso in tutta l'evoluzione del segmento tematico relativo alla disciplina giuridica delle "end-of-life decisions", fino a rappresentarne una costante. La prima elaborazione, in un certo senso la "scoperta" di questi istituti, avviene attraverso la mediazione della decisione giudiziaria. È il giudice ad essere in prima battuta chiamato a dare risposte, a sciogliere nodi problematici, a riempire spazi (più o meno apparentemente) lasciati liberi dall'intervento conformativo del legislatore. In sostanza, il biodiritto è, almeno inizialmente, un diritto giurisprudenziale: le decisioni dei singoli casi assumono – molto spesso in maniera non lineare e con profonde differenziazioni – il compito di illustrare i possibili scenari regolativi delle diverse fattispecie. Il legislatore invece, è costretto a rincorrere, a cercare ipotesi di razionalizzazione che superino le situazioni specifiche, riuscendo a riportare su un piano di "generalità", almeno tendenziale. A volte questa dinamica produce esiti positivi, nel senso che appare idonea a realizzare uno scambio collaborativo tra i due versanti istituzionali, quello della decisione giudiziaria, e quello della decisione politica. Il risultato è quello di una "stabilizzazione" di regole in qualche misura già diffuse o "testate" rispetto ai problemi della vita reale; la legge funziona alla stregua di un elemento di chiusura di un processo di definizione di aperto e gestito dalla giurisdizione a partire dalle situazioni concrete. Per fare un esempio più legato al tema in esame, è sicuramente il caso Quinlan del 1976 a richiamare l'attenzione dei legislatori (soprattutto statali) e ad aprire la stagione del cosiddetto "Natural Death Acts", con la promozione della strategia dei living wills (direttive anticipate). Altre volte, viceversa, questa dinamica produce uno scontro violento, una contestazione vera e propria (tra giudice e legislatore) del reciproco potere, o meglio di come esso viene esercitato, del modo o della estensione dell'intervento dell'uno o dell'altro nell'ambito di queste tematiche, che sono molto "sensibili" per l'opinione pubblica. Il caso Englaro rappresenta da noi, anche su questo terreno (delle questioni sostanziali si parlerà più avanti), un caso esemplare. Com'è noto, infatti, sui dilemmi (morali e giuridici) legati ai contenuti della sentenza "Englaro" e, più in generale all'oggetto del complesso procedimento giudiziario, hanno finito col sovrapporsi, nelle fasi finali della vicenda, una serie di conflitti e di questioni "istituzionali", relativi piuttosto al "modo" di decidere, e alla competenza stessa a decidere un "caso" e un "tema" del genere. In primo luogo, il conflitto di attribuzioni con cui il Parlamento (che fino a quel momento era rimasto - e tuttora lo è - inerte e incapace di assumere su di sé il compito difficile di trovare una mediazione legislativa sulla medicina di fine-vita) ha contestato la facoltà stessa del potere giudiziario (tanto della Suprema Corte che della Corte d'Appello che ha poi autorizzato il distacco del sondino nasogastrico) di risolvere la vicenda in sede giurisdizionale, nella (asserita) assenza di riferimenti legislativi sulla materia, e anzi nel corso di un dibattito parlamentare nel frattempo avviato su queste tematiche. In sostanza, secondo le Camere ricorrenti, il Giudice avrebbe "creato" una norma prima inesistente (avocando a sé "una vera e propria attività di produzione normativa"), invadendo così lo spazio riservato al legislatore, a maggior ragione con riferimento alla disciplina di diritti costituzionali (vita, salute) la cui regolamentazione è espressamente riservata alla legge, e avrebbe persino scavalcato gli ostacoli normativi alla sua ricostruzione evitando di percorrere la via obbligata dell'impugnazione delle norme coinvolte (in particolare gli artt. 357 e 414 c.c. sulla rappresentanza legale del soggetto incapace, ma anche l'art. 5 sempre del codice civile sugli atti di disposizione del proprio corpo(94), e le norme penalistiche sull'omicidio del consenziente e sull'aiuto al suicidio) davanti alla Corte costituzionale, e invece disapplicando arbitrariamente "le norme di legge che avrebbero precluso la soluzione adottata" (le frasi virgolettate sono riprese dai ricorsi della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica). La Corte costituzionale [ord. n. 334/2008(95)ha dichiarato l'inammissibilità del conflitto di attribuzioni proposto, con una motivazione che ha preso le mosse dalla notazione generale (di ordine procedurale più che sostanziale) secondo cui l'ammissibilità di un conflitto avente ad oggetto atti giurisdizionali sussiste «solo quando sia contestata la riconducibilità della decisione o di statuizioni in essa contenute alla funzione giurisdizionale, o si lamenti il superamento dei limiti, diversi dal generale vincolo del giudice alla legge, anche costituzionale, che essa incontra nell'ordinamento a garanzia di altre attribuzioni costituzionali»; e un conflitto di attribuzione nei confronti di un atto giurisdizionale non può ridursi alla prospettazione di un percorso logico-giuridico alternativo rispetto a quello censurato, e «non può essere trasformato in un atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici». Nel caso di specie poi, secondo il Giudice dei conflitti, non appare dimostrato che «i giudici abbiano utilizzato i provvedimenti censurati – aventi tutte le caratteristiche di atti giurisdizionali loro proprie e, pertanto, spieganti efficacia solo per il caso di specie – come meri schermi formali per esercitare, invece, funzioni di produzione normativa o per menomare l'esercizio del potere legislativo da parte del Parlamento, che ne è sempre e comunque il titolare». La Suprema Corte, in sostanza, non ha "inventato" un risultato normativo "nuovo", meno che mai in contrasto con i materiali esistenti, ma ha elaborato una soluzione che, per quanto possa essere su alcuni punti opinabile e certamente non scontata (la qualificazione dei trattamenti di "nia", l" ammissibilità della dichiarazione anticipata di volontà in riferimento agli interventi life-saving di "nutrizione e idratazione artificiale", o la ricostruzione della volontà del soggetto incapace), si mantiene dentro una relazione di coerenza rispetto al complesso normativo rappresentato dalle norme costituzionali e legislative (nonché internazionali e sovranazionali) in tema di salute, di relazione medico-paziente, di autodeterminazione individuale(96); la stessa sequenza interpretativa che collega la pianificazione anticipata delle cure da parte del soggetto incapace al principio del consenso informato appare assolutamente razionale, e trova ampie conferme sul terreno del diritto comparato, sia guardano all'esperienza legislativa che agli orientamenti della giurisprudenza . Diverso ovviamente sarebbe stato se al momento della decisione, ci fosse stata una norma legislativa che avesse consentito la pianificazione anticipata delle cure solo con una modalità "espressa", ovvero che avesse escluso i trattamenti life-sustaining di "nia" dall'ambito oggettivo dell'autodeterminazione individuale. Di fronte ad un chiaro ostacolo normativo, il giudice che avesse voluto contestare la irragionevolezza e la incostituzionalità di una siffatta disciplina limitativa, non avrebbe potuto fare altro che sollevare la questione di costituzionalità davanti alla Consulta. Del resto, la stessa Corte costituzionale, sempre nell'ord. n. 334/2008, aveva segnalato al legislatore la strada dell'intervento legislativo, rilevando «che la vicenda processuale che ha originato il presente giudizio non appare ancora esaurita, e che, d'altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti». Nell'esperienza americana, il punto di massimo conflitto tra giudici e istituzioni politiche nella gestione dei casi di "end-of-life decisions" si è avuto nella vicenda, altrettanto drammatica (al di là dei torti e delle ragioni giuridiche) di Terri Schiavo(97). Le decisioni delle Corti statali (della Florida) che avevano permesso al marito della donna di chiedere l'interruzione del trattamento di sostegno vitale, basandosi su una legge vigente in quello Stato, furono contrastate prima da una legge votata in tempi rapidissimi dal Parlamento della Florida(98)che conferiva al Governatore il potere di disporre la sospensione dell'esecutività degli ordini di interruzione delle terapie lifesaving emessi dalle corti statali, quando « a) il paziente non ha predisposto direttive anticipate; (…) d) un membro della famiglia del paziente abbia contestato la decisione» di interruzione adottata da altro soggetto, e successivamente, dopo che questa legge e il provvedimento sospensivo adottato dal Governatore furono dichiarati incostituzionali da ben due Corti (di primo e di secondo grado) statali, da una legge "speciale" del Congresso degli Stati Uniti (Act for the relief of the parents of Theresa Marie Schiavo, c.d. Terri's Law) che attribuiva alla Corte Federale del Distretto il potere di riesaminare le decisioni definitive delle corti statali e di emanare ingiunzioni volte a riattivare i trattamenti terapeutici di nutrizione ed idratazione artificiale(99). Proprio la Corte Federale Distrettuale, però, chiuse definitivamente la questione (e poco tempo dopo sopraggiunse la morte della donna), ritenendo la domanda dei genitori di Terri Schiavo infondata, sia nel merito, sia per quanto riguarda le condizioni di giustificazione della richiesta tutela cautelare. Due casi molto diversi tra di loro (nel caso Englaro non c'era un conflitto familiare se chiedere o meno la rimozione del sondino nasogastrico; nel caso Schiavo, la legislazione della Florida già consentiva l'interruzione dei meccanismi life-saving). Ma sullo sfondo, interrogativi che si intrecciano, sono complementari, peraltro alimentati dalla urgenza delle situazioni e dalla imminenza di un esito irreversibile: chi può decidere sui grandi conflitti (morali, oltre e prima ancora che giuridici) concernenti la vita e la salute delle persone? Il giudice può intervenire quando manca una legge che definisca i contorni di un diritto di questo tipo (rifiutare le cure anche fino alle estreme conseguenze)? Il legislatore, dal canto suo, può mettere nel nulla decisioni giudiziarie definitive, persino quando queste sono state adottate in conformità ad una base normativa vigente? Io penso(100)che la risposta non stia nella proposizione di una dinamica conflittuale tra giudice e legislatore. Entrambe le dimensioni sono contemporaneamente essenziali per le tematiche biogiuridiche(101). Più in generale, Il diritto, in qualsiasi campo, è sempre l'esito di un processo, al quale concorrono, ciascuno per la sua parte, il legislatore e il giudice, ed entrambi i contributi sono diversamente indispensabili(102). Per molto tempo, almeno nell'esperienza italiana (su questa come su altre tematiche; si pensi ad es. ai numerosi profili problematici riguardanti la procreazione medicalmente assistita), la decisione giudiziaria (ma anche meccanismi regolativi "endogeni", come il codice di deontologia medica) si è mossa in un'area non regolata dal diritto legislativo, svolgendo una funzione sostanzialmente suppletiva, e al tempo stesso obbligatoria, perché il giudice deve comunque dare una soluzione ai casi che vengono portati alla sua attenzione anche quando manca una specifica e puntuale disciplina normativa(103), costruendo questa soluzione attraverso l'incrocio di materiali testuali e logiche ermeneutiche più "generali", che ampliano lo schema concettuale della "legge" alla quale il giudice è soggetto ai sensi del 2° co. dell'art. 101 Cost. (i riferimenti normativi "analoghi", i principi costituzionali e i principi generali dell'ordinamento giuridico, i principi del diritto comunitario ed internazionale, le clausole indeterminate come la dignità, il pieno sviluppo della persona, la vita, la salute)(104); anzi, quasi "deformano" questa relazione tra il giudice e la legge, se è vero che il primo è soggetto alla legge, ma «law is what judges say it is» (105). Nondimeno, anche quando il legislatore interviene, non per questo vengono meno i margini di intervento del giudice: per adattare la rigidità della regola legislativa alla imprevedibile singolarità dei casi (che solo il giudice può osservare da vicino) e al continuo mutare dei paradigmi scientifici e tecnologici, che finisce col rendere provvisorie tutte le "certezze" via via raggiunte(106); ma anche per riaprire i termini del dibattito, proponendo (con gli strumenti dell'interpretazione costituzionalmente conforme o della questione di legittimità costituzionale) una differente proiezione applicativa dei principi costituzionali. In effetti, la storia giuridica delle questioni bioetiche riguardanti la fine della vita sembra proprio caratterizzata da una concorrenza quasi "naturale" tra la dimensione legislativa e quella giudiziaria, l'una inevitabile al pari dell'altra, l'una necessaria per correggere le insufficienze e i limiti dell'altra. Il giudice ha una straordinaria (ed inimitabile dal legislatore) capacità di vedere il caso, i suoi profili particolari, le piccole o grandi differenze che rendono ogni vicenda diversa da un'altra(107). Il giudice ne percepisce la drammaticità, può leggere il contesto, e questo non è irrilevante quando la sua decisione deve appunto confrontarsi con un parametro normativo che magari non c'è, o che deve essere in ogni caso integrato e combinato con i contenuti "aperti" che derivano dai principi e dalle clausole costituzionali indeterminate (quelle sulla dignità, sul pieno sviluppo della persona, sull'identità e sulla libertà personale)(108), ovvero dal loro confronto con norme costituzionali più definite sul piano dei significati, come ad esempio quella sulla salute, con le sue implicazioni in termini di self-determination e consenso. Da un altro angolo di visuale, il diritto di formazione giurisprudenziale nasce da un processo di analisi e di confronto delle argomentazioni delle parti, dei loro avvocati, di altri giudici che si sono occupati dello stesso tema o di questioni analoghe; al tempo stesso, "ritorna" a questo mondo di valutazioni incrociate, di sedimentazioni graduali e "incrementali" (appunto perché legate ai "casi"), attraverso la motivazione, che è uno degli obblighi costituzionali fondamentali del giudice, accanto a quello della soggezione alla legge, e al dovere di imparzialità-terzietà (109). Anche quando c'è la legge, del resto, al giudice spetta comunque un sindacato di ragionevolezza sulle scelte legislative e sul rapporto tra contenuto essenziale dei diritti e (sufficienza o meno della) traduzione normativa del medesimo, o direttamente, o (come è principalmente da noi) alla stregua di un elemento di mediazione rispetto alla competenza del Giudice costituzionale(110). Ed è inevitabile che, attraverso questi percorsi, la dimensione giudiziaria finisca comunque per assumere un ruolo protagonistico. In altre parole, se è vero che il giudice deve muoversi nell'ambito di condizioni testuali che costituiscono il limite costituzionale della sua attività come attività di interpretazione (e non di "creazione") del diritto(111), non si può non vedere che soprattutto i principi costituzionali presentano una incoercibile "apertura semantica"(112), che finisce con il ridurre l'ambizione di oggettività del parametro esplicito, esaltando proprio gli spazi della ricerca (che diventa vera e propria rielaborazione) interpretativa del giudice(113), che si alimenta anche di precedenti giurisprudenziali(114)che provengono da altri ordinamenti(115), il che – da un diverso versante – conferma il carattere contemporaneamente "giurisprudenziale" e "a-territoriale" delle questioni bioetiche(116). Come si nasce, come si muore, altri temi simili, producono domande, percezioni, modi di pensare, rivendicazioni e problemi, che alla fine tendono a convergere e ad attraversare i confini "nazionali" della risposta giuridica e delle risorse sociali e culturali. Lo scambio di modelli argomentativi, di proposte di soluzione dei problemi pratici, capire quali relazioni razionali vi siano tra il caso che dobbiamo decidere o impostare e il modo in cui casi simili sono stati risolti in altre parti del mondo, non deve allora sorprendere né apparire pericoloso, per il semplice fatto che un tale schema è "naturalmente coessenziale" al fenomeno giuridico come "argumentative discipline"(117). Anche l'obiezione "democratica" o quella della irresponsabilità del giudice (per di più in questo caso "straniero") appaiono forzate. A decidere è pur sempre il giudice nazionale, utilizzando però argomenti e categorie interpretative che non possono non riflettere il carattere "globale" dei problemi, e delle risposte ad essi. In questo senso, la questione di riduce a quella – classica in ogni ordinamento costituzionale – dei limiti dell'attività interpretativa del giudice, e del rapporto tra legge e decisione giudiziaria. Dal canto suo, il legislatore stesso, è chiamato a muoversi in coerenza con questo riferimento così "mobile" e complesso, alla cui ricomposizione concorre il giudice: allora, la soggezione del giudice alla legge perde la sua tradizionale impronta a senso unico. In fondo, il giudice e la legge sono "soggetti" ad una trama assiologica unitaria, che vincola entrambi e che entrambi contribuiscono a delineare nei suoi contenuti sostanziali(118). Quando si parla di diritti fondamentali, e dunque di questioni che riguardano il modo di decidere della propria salute e della propria vita, potremmo ben dire con J. Finnis, che «la disciplina specifica [di esso] diventa (…) un affare complesso, in cui nessuno ha veramente l'ultima parola» (119). Il giudice non può non decidere solo perché una legge manca, in particolare quando ravvisa lui stesso l'esistenza di un diritto costituzionalmente riconosciuto (ad es., come è successo nel caso Welby); il legislatore non può pretendere che il giudice aspetti le sue indicazioni, o peggio si faccia interprete e di una sorta di sentimento maggioritario virtualmente rappresentato dalla maggioranza parlamentare e dalle sue posizioni (in questo caso) in tema di bioetica e di disciplina dei casi e delle decisioni di fine vita. Tuttavia, il legislatore può e (anzi) deve intervenire su queste tematiche. Il dibattito su tali fondamentali opzioni non può rimanere confinato nel cerchio delle situazioni concrete individuali. Ci sono questioni sulle quali la società nel suo complesso deve prendere posizione(120), pur con i rischi (che indubbiamente sussistono) di adottare modelli regolativi in prima battuta instabili o tali da determinare conflitti o da essere esposti alle spinte "correttive" dell'interpretazione giudiziaria o degli orientamenti del giudice costituzionale, e con la consapevolezza che nessuna decisione sarà mai completamente condivisa. L'opportunità di una legge sul fine vita non è tanto quella di colmare un vuoto, anche perché forse di un vuoto (almeno nel senso stretto del termine) nemmeno è corretto parlare, proprio per l'intreccio di materiali normativi di diversa provenienza e valore che insistono, con un diverso grado di specificità, sulla protezione della vita, sul rifiuto delle cure, sul divieto di accanimento terapeutico, e su altri profili analoghi o complementari. Il problema è che questi elementi hanno differenti possibilità di combinazione, e di "trasferimento" sul piano dei significati attuativi; per questo, un intervento legislativo serve, per circoscrivere (senza mai poter negare) la libertà interpretativa del giudice(e dell'operatore giuridico in generale), e per restituire una maggiore prevedibilità e certezza al modo di risolvere le situazioni che vengono a delinearsi concretamente(121). Credo che più si alzi la posta in gioco (appunto, la vita, le decisioni sulla salute), più non sia tollerabile alla lunga un sistema in cui sulla stessa questione, o su questioni analoghe, ci siano atteggiamenti interpretativi molto diversi, se non proprio opposti(122). 5. Rifiuto e interruzione di trattamenti life sustaining. Il consenso (dissenso) informato alla prova delle "estreme conseguenze". Esiste un dovere di vivere o di mantenersi in salute? La decisione di intervenire terapeuticamente (o chirurgicamente) nei confronti di una persona, abbiamo detto prima, deve basarsi sul suo consenso informato. Se non c'è consenso, nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario, salvo che tale trattamento non sia previsto dalla legge come obbligatorio, e comunque – in questa evenienza – con il rispetto di determinati limiti e presupposti. Dunque, la cura non è solamente una prestazione alla quale si ha diritto, in particolare in un ordinamento come il nostro che identifica la salute alla stregua di un interesse fondamentale del singolo protetto direttamente dalla Costituzione; è anche una scelta di consapevolezza e di libertà (123), il riflesso di una autonoma manifestazione di volontà del soggetto, che nel prenderla si confronta non solo con indicazioni tecniche o valutazioni di appropriatezza medico-scientifica, ma compie una valutazione che ha innegabili significati morali (al di là della diversa intensità di questi, che dipende da tante variabili, sia oggettive, legate cioè alla situazione clinica, che soggettive, legate cioè al grado di cultura e consapevolezza del paziente, alla sua condizione economica e familiare, alla sua età, ecc. ecc.). Si può decidere di accettare un percorso terapeutico; il corollario è che si può rifiutare o rinunciare ad una cura, e questo al di là delle conseguenze negative che possono derivare da una decisione astensiva o sospensiva(124). In altri termini, la libertà (il diritto) di rifiutare le cure proposte non dipende dalla gravità o dalla irreversibilità degli effetti di tale decisione. Si può scegliere di non curarsi anche se questo determina il "lasciarsi morire", eliminando il contrasto tecnico-scientifico al progredire inesorabile della malattia. Questo è un punto importante, perché collega i due temi, quello dell'eutanasia e quello del consenso/rifiuto di cure. Il rifiuto di cure, quando lascia il soggetto in balia di una malattia "terminale" e senza speranza di guarigione, diventa il primo livello della questione "eutanasia"(125), andando a configurare – come si è già sottolineato – il nucleo "iniziale" della più complessa e articolata nozione di "eutanasia passiva". Non ci sono elementi che consentono di modificare la lettura del diritto alla salute attraverso il principio di autodeterminazione, nelle ipotesi in cui il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche conduca (più o meno rapidamente) alla morte. Anche in un caso del genere, il diritto alla salute comprende il suo "risvolto", vale a dire il diritto di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza lasciando che la malattia faccia naturalmente il suo corso, fino al punto di lasciarsi morire. Per sostenere il contrario, bisognerebbe riuscire a costruire un'argomentazione costituzionale incentrata sul dovere di vivere, e prima ancora di mantenersi in salute: un dovere verso la collettività o verso la propria famiglia o le persone comunque "vicine". Ma questo non appare una strada costituzionalmente possibile, alla luce dell'art. 32, al di là di quelle situazioni in cui non sia la legge (direttamente) a prevedere trattamenti sanitari obbligatori, perché la malattia di un soggetto può condizionare o influenzare la salute (o la malattia) di altri soggetti. Il 2° co. dell'art. 32 non si presta ad una ricomposizione così marcata, nemmeno in nome di un'interpretazione forte del dovere di solidarietà e della salute come interesse della collettività (126). Il Giudice costituzionale ha sempre insistito sul fatto che il presupposto dei trattamenti sanitari obbligatori è essenzialmente nell'esigenza di proteggere la salute degli altri consociati, insieme ovviamente a quella del soggetto che viene sottoposto al trattamento(127). In altri termini, un trattamento sanitario obbligatorio non può essere contrario alle necessità terapeutiche di chi lo subisce, ma nemmeno può essere imposto quando manca un riflesso positivo e di protezione per la salute di altri soggetti (determinati o indeterminati)(128). Il "rispetto della persona umana" poi, costituisce un ulteriore limite dell'ipotesi dei trattamenti sanitari obbligatori, e non sembra fondato ricavarne, invece, una chiave concettuale capace di «vincolare l'individuo anche di fronte a sé stesso»(129). La tesi opposta a quella che fin qui si sta cercando di sostenere è fondamentalmente costruita intorno alla doppia qualificazione costituzionale della salute: diritto dell'individuo e "interesse della collettività". In sostanza, l'interesse della collettività avrebbe un peso per tutte le «questioni relative al rapporto di collaborazione tra paziente e medico, quelle inerenti al consenso informato, il rispetto e l'applicazione delle risultanze della scienza medica, il distinguo tra la cura e l'accanimento terapeutico", ivi comprese «le decisioni su ciò che si può sollecitare e pressare in termini di cura e terapia e ciò che si deve lasciare alla decisione negativa che pone fine alla vita (…)» (130). Intanto, non condivido la sottolineatura della specialità della norma costituzionale sulla salute rispetto ad altre norme costituzionali in tema di diritti fondamentali, per il fatto che solo nell'art. 32 avremmo la contestualità della dimensione individuale e di quella collettiva, del diritto e dell'interesse "esterno" al titolare, finanche del dovere. Ho già espresso altrove il mio dissenso rispetto a queste conclusioni, e alle premesse da cui muovono(131). Ci sono altri casi di diritti in relazione ai quali la Costituzione configura in forme diverse, ma altrettanto palesi, una proiezione anche in termini di doverosità: il lavoro, il voto, l'istruzione, il mantenimento e l'educazione dei figli. In tutti questi casi, tuttavia, il dovere (almeno quando è suscettibile di tradursi in misure coattive) ha sempre un significato di protezione del soggetto titolare del diritto contro i comportamenti di altri soggetti (il caso dell'istruzione obbligatoria), ovvero (come nell'art. 31) di protezione di soggetti terzi (appunto, i minori), e non di protezione del titolare contro sé stesso. Più in generale, penso che tutti i diritti, in linea di principio, abbiano una vocazione collettiva oltre che individuale; in altre parole, l'esercizio dei diritti è un bene per la società, e non solo per chi li esercita. Allo stesso modo, nella prospettiva del personalismo costituzionale, diritti e doveri fanno parte di una dimensione unitaria, inscindibile, gli uni necessari agli altri, come evidenzia la stessa struttura testuale dell'art. 2(132). Non è possibile, allora, caricare di troppe aspettative il fatto che la salute sia anche un "interesse della collettività", sia anche un bene "in sé", e non soltanto un bene "per sé"(133). Dire che la salute è anche un interesse della collettività non può comportare, in altri termini, un rovesciamento del principio della volontarietà dei trattamenti sanitari, se non quando venga in gioco l'interesse (appunto) collettivo ad evitare il propagarsi di una malattia, o conseguenze negative per altri soggetti, fermo restando il criterio della utilità del trattamento (obbligatorio) anche per chi è costretto a subirlo. Il limite per la scelta autonoma di curarsi e di non curarsi, anche se questa decisione avvicina l'esito infausto di una malattia terminale ed inguaribile, non può essere nel fatto stesso di "correggere" la volontà del singolo per proteggerlo contro sé stesso e la sua scelta, liberamente e consapevolmente espressa. Il discorso non può essere impostato nei termini di uno scontro tra autodeterminazione e indisponibilità della vita(134). In questo modo, il dovere, o il concetto di interesse collettivo, finirebbero con l'assumere la connotazione impropria di strumento "morale"(135), non già finalizzato a proteggere gli altri soggetti, ma a limitare la libertà del singolo, anche quando questa non viola o lede specificamente diritti e interessi di terzi(136). Non credo c'entri molto, pertanto, nei casi che tipicamente rientrano nell'ambito delle "end-of-life decisions", sostenere che la salute è anche (anzi, soprattutto) un interesse della collettività, e che le istituzioni devono promuovere a tutti i costi una cultura della vita. Beninteso, io sono convinto che questo (cioè promuovere una cultura della vita) sia certamente un compito fondamentale dello Stato e di tutti i poteri pubblici. Il punto è un altro. Chi rifiuta o chiede di interrompere un trattamento terapeutico (anche necessario per prolungare la vita biologica) perché la sua condizione clinica è ormai (e naturalmente) terminale, non c'è alcuna speranza non solo di miglioramento o di una guarigione, ma nemmeno di una dignitosa "gestione" di queste fasi finali e di un'alleviazione delle sofferenze, non è un soggetto che manifesta una "cultura della morte"(137), o esprime una posizione meramente egoistica, "non relazionale"(138), ovvero rivendica di esercitare un diritto al suicidio o alla "autodistruzione"(139), che dal mio punto di vista resta una costruzione paradossale(140), al di là del fatto che il suicidio è in sé un comportamento incoercibile, se realizzato autonomamente. Nel dramma di chi rifiuta o rinuncia a trattamenti terapeutici ormai inutili, c'è (almeno nella maggior parte dei casi) solo la presa d'atto [non meno "densa" e dolorosa della decisione di fare tutto per curarsi(141)di un processo naturale che non si può impedire ma solo prolungare "artificialmente" e spesso in condizioni che poco hanno a che vedere con la stessa vita umana(142), con il suo senso più autentico, con la sua dignità. Non mi convince, allora (ma lo dico con profondo rispetto delle tesi contrarie), l'idea che possa esistere, ed essere rintracciato nel disegno costituzionale, un "interesse della collettività" così diretto da imporre, in nome di doveri inderogabili di solidarietà (143)ovvero di una nozione oggettiva ed "etero-determinata" [dal legislatore, dal medico, o da altri ancora(144)di dignità, un dovere di curarsi al di là di ogni utilità o beneficio, indipendentemente da quello che ciascun soggetto pensa sia giusto per sé, in rapporto alle sue condizioni, alle sue valutazioni morali, alla sua capacità di sopportazione del dolore e della malattia senza speranza, alla sua concezione di dignità e di vita; da trasformare i malati in "unwilling prisoners of medical technology"(145). Scegliere di non curarsi allora non è "il contrario" della tutela della salute(146). Ma è la tutela della salute riguardata nella sua piena complessità, come condizione che da un lato non può essere imposta a nessuno, se non nei termini previsti dalle leggi e a tutela anche di interessi specifici di altri soggetti o "della collettività", dall'altro deve fare i conti con le esperienze individuali, con le sofferenze reali, con malattie in relazione alle quali la cura (o meglio la terapia) può essere solo un inutile ed intollerabile "appesantimento" di quel poco di vita che resta. Senza che questo debba significare, per forza, come è stato paventato, una "scorciatoia" per l'eutanasia(147). 6. (Segue). Withdrawing/Withholding medical treatment: la "insostenibile" differenza tra rifiuto e rinuncia ai trattamenti terapeutici. Quello che abbiamo detto finora, vale per il rifiuto "originario" di cure, che si ha quando il soggetto non dà il suo consenso all'avvio di un determinato trattamento terapeutico, e altresì nei casi di rinuncia o richiesta di sospensione/interruzione di una terapia già iniziata sulla base di un consenso precedentemente prestato. Su questo punto, è molto chiara la Convenzione di Oviedo sulla biomedicina, secondo cui «la persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso» (art. 5, 3° co.). Può sembrare una precisazione ovvia; ma non lo è. È stato sostenuto infatti, che, una volta dato il consenso o comunque avviato l'intervento sanitario e instaurato il rapporto con il medico e la struttura sanitaria, il soggetto perda o veda sfumare la sua libertà di autodeterminazione terapeutica(148). In sostanza, il consenso prestato ad un trattamento sanitario, muterebbe la qualità e l'intensità del diritto di un soggetto di scegliere se e come curarsi, alterando il valore degli interessi da bilanciare. Mi pare però un ragionamento un po' forzato. I diritti fondamentali non possono essere sottoposti a condizioni o esposti al rischio di "decadenze" o riduzioni legate alla scelta iniziale del soggetto stesso. Peraltro, se si rende in un certo senso irreversibile (o foriero di conseguenze limitative) il momento del consenso, lo si espone ad una inutile quanto pericolosa "drammatizzazione", che non mi sembra affatto coerente con la ratio e la dimensione testuale della norma costituzionale sui trattamenti sanitari. La lettura costituzionale del diritto alla salute non è senza effetti anche sulla funzione del medico, che non è più semplicemente quella di curare ad ogni costo; ma di permettere al paziente, in qualunque momento, e nel quadro di una relazione non più "verticale", ma collaborativa ("di ascolto"), la tutela della sua salute, che significa anche possibilità di esprimere le sue decisioni e la sua volontà sui percorsi terapeutici già avviati, e sulla loro corrispondenza alla propria dignità e alle proprie valutazioni morali in quella particolare fase della vita. 7. La distinzione tra "lasciar morire" (letting go, letting die) ed "uccidere" (killing). Il discorso dell'eutanasia davanti al suo nodo più intricato. Il riconoscimento tendenzialmente generale (almeno sul piano del diritto vivente, sia legislativo che giurisprudenziale) del rifiuto di cure come diritto del soggetto malato, anche nelle ipotesi in cui non curarsi può determinare un decorso infausto – più o meno rapido – della condizione patologica, viene essenzialmente agganciato ad un criterio giustificativo tanto netto nella sua formulazione teorica, quanto incerto nella sua applicazione ad alcune situazioni concrete. In sintesi, rifiutare o rinunciare all'attivazione di un presidio terapeutico ritenuto futile o comunque inutilmente gravoso sul piano della sofferenza e delle difficoltà di vita legate alla malattia, esprime la volontà di non contrastare più la malattia, accettando la conseguenza della morte. È una sorta di presa d'atto che la malattia non può essere più arrestata o curata, e che dunque non resta altro che "letting nature take its course". Nei casi di rifiuto/interruzione di cure, la morte è la conseguenza della malattia, non più contrastata o arginata dagli strumenti terapeutici(149). Diversa è invece la struttura fattuale dell'eutanasia attiva o del suicidio medicalmente assistito, dove la causa della morte è direttamente nel comportamento eutanasico (il più delle volte la somministrazione di farmaci letali, o di farmaci sedativi con dosi letali) del soggetto o del medico (o di altra persona) che lo assiste o lo aiuta. È una linea di distinzione, questa, che appare centrale nella elaborazione giurisprudenziale (in diversi ordinamenti) di questo tema, e che non coincide interamente con la "coppia" concettuale azione (commissiva)-omissione, almeno nel senso che nel concetto di "eutanasia passiva" possono essere fatti rientrare anche comportamenti di "fare attivo" che mettono in pratica una volontà (e una richiesta in questo senso) di interruzione/sospensione di un trattamento(150). Penso innanzitutto alle notissime sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti sui casi Quill e Glucksberg (già in precedenza richiamate)(151), con le quali è stata salvata la costituzionalità di due leggi (rispettivamente degli Stati di New York e di Washington) che puniscono il suicidio medicalmente assistito(152). L'opinion della Corte, scritta dal Chief Justice Rehnquist, traccia in modo netto una linea discretiva tra il rifiuto di cure, anche life-sustaining, e il suicidio assistito, ritenendola fondata su un "rational basis review", in quanto «comports with fundamental legal principles of causation»; infatti, quando il paziente rifiuta o rinuncia alle cure, «he dies from an underlying fatal disease or pathology; but if a patient ingests lethal medication prescribed by a physician, he is killed, by that medication». Per la Corte, o meglio per il suo Presidente e gli altri Justices che hanno aderito totalmente alle conclusioni e all'impostazione motivazionale della sentenza, la differenza tra le due ipotesi (refusing life-sustaining medical treatment and assisted suicide) risiede anche nella diversa intenzionalità del medico nell'uno e nell'altro caso: solo in una situazione di suicidio assistito, egli deve «necessarily and indubitably, intend primarily that the patient be made dead», mentre se attua la volontà del paziente di disattivare un presidio terapeutico, non fa altro che rispettare i suoi legittimi desideri, fondati su un principio giuridico (quello secondo cui "forced medication was a battery") radicato nella tradizione costituzionale di common law(153). Nonostante la schiacciante condivisione di questa decisione sul piano formale (non ci sono state infatti dissenting opinions), in realtà alcune opinioni concorrenti hanno lasciato aperta la porta alla discussione, gettando un'incertezza sul seguito e sulla "stabilità" di questo precedente, con riferimento a punti tematici essenziali. Justice Stevens, in particolare, ha contestato come "illusory" il tentativo di mantenere ferma la distinzione tra "refusing care" e suicidio assistito mediante il criterio dell'intento del medico, poiché «a doctor discontinuing treatment can do so with an intent to harm or kill that patient. Conversely, a doctor who prescribes lethal medication does not necessarily intend the patient's death – rather that doctor may seek simply to ease the patient's suffering and to comly with her wishes» (154). Il secondo caso da considerare è quello di Diane Pretty, approdato alla C. Dir. Uomo, dopo che House of Lords e la Divisional Court avevano respinto la sua istanza di ottenere dall'ufficio del Director of Public Prosecutions l'autorizzazione a farsi assistere dal marito a porre fine alla propria vita, con la garanzia che il medesimo non sarebbe stato sanzionato penalmente come invece previsto Dal Suicide Act inglese. La sentenza del Giudice Europeo dei diritti conferma la ragionevolezza di una legislazione – come quella inglese – che punisce chi aiuta materialmente un'altra persona a suicidarsi. E lo fa proprio separando il profilo del rifiuto di cure, anche quando da esso possa derivare l'aggravamento e la morte del malato (in quanto l'imposizione di un trattamento sanitario finirebbe con l'interferire negativamente sul diritto al rispetto della vita privata, sancito dall'art. 8 della Conv.), da quello del (presunto) diritto di togliersi la vita, con la partecipazione di un terzo soggetto. La norma sulla protezione del diritto alla vita (art. 2 della Convenzione) non può, «(…) without a distortion of language, be interpreted as conferring the diametrically opposite right, namely a right to die, nor can it create a right of self-determination in the sense of conferring on an individual the entitlement to choose death rather than life» (155). Anche qui deve essere sottolineato, a conferma della "complessità" di questi orientamenti (sia sul piano oggettivo, guardando cioè alla difficoltà intrinseca di certi temi, sia sul piano soggettivo, della asimmetria, anche solo parziale, delle opinioni e delle valutazioni dei Giudici), in cui la motivazione (e talvolta l'incrocio di motivazioni concorrenti e dissenzienti) gioca un ruolo "correttivo" della parte dispositiva della pronuncia, e al tempo stesso lancia un segnale di possibili "riposizionamenti" interpretativi, che in un passaggio della sentenza Pretty, la Corte europea accenna ad una rilevanza del profilo della "qualità della vita" all'interno della sfera di significati della nozione di "vita privata", tutelata dall'art. 8 della Convenzione: e non è un passaggio per così dire "marginale", almeno nel senso che esso rischia di erodere o di "circoscrivere", in prospettiva, l'affermazione del carattere "sacro" della vita e la sua centralità nello schema della Carta dei diritti(156). Una oscillazione che si ritrova poi, nella successiva sentenza Haas v. Svizzera, del 20-1-2011, nella quale, da un lato la C. Dir. Uomo ribadisce che gli Stati devono proteggere le persone anche dalle minacce che essi stessi pongono alla propria vita (e dunque la legge svizzera che limita l'accesso al pentobarbitale sodico come strumento di suicidio non viola il diritto al rispetto della vita privata), dall'altro afferma, più chiaramente di quanto non avesse mai fatto in precedenza, che «il diritto di un individuo di decidere in che modo e in quale momento la sua vita deve terminare, a condizione che sia in grado di formarsi liberamente la propria volontà in proposito e di agire di conseguenza, è uno degli aspetti del diritto al rispetto della vita privata ai sensi dell'art. 8 della Convenzione», e lascia impregiudicato il quesito se esista un obbligo positivo degli Stati «di adottare misure che permettano di agevolare un suicidio nella dignità» (157), concludendo nel senso che «the states had a wide margin of discretion in that respect» (158). La sensazione è che il Giudice europeo dei diritti non parli semplicemente di rifiuto/rinuncia di trattamenti terapeutici. Invero, l'espressione "terminare" la vita, il riferimento al "modo" oltre che al "momento" della decisione, sembra riferirsi a comportamenti o richieste (anche) di tipo "commissivo", appunto riconducibili alla pratica del suicidio assistito. Infine, per chiudere questa panoramica di avvio della riflessione, la sentenza della Cassazione che ha rappresentato la "svolta" del caso Englaro, richiama espressamente e fa sua questa conclusione della C. Dir. Uomo, aggiungendo che «il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale» (159). Si tratta di una posizione che, come ho detto prima, è sicuramente chiara e condivisibile sul piano teorico, e nella normalità delle situazioni che possono presentarsi ad una valutazione giuridica. Ordinariamente, il rifiuto di cure è una scelta che lascia il tempo e la possibilità di "tornare indietro", di fare un'altra scelta, e questo non può essere considerato indifferente in rapporto alla dimensione intrinseca della libertà, che significa anche libertà di sbagliare e di modificare le proprie decisioni(160); l'atto eutanasico diretto invece ha una ricaduta istantanea ed irreversibile, costituisce l'evento del morire che è del resto il suo obiettivo diretto, e non si limita a rinunciare a fronteggiare, ovvero a rallentare, la sua "produzione" naturale, causata dalla malattia, come avviene nei casi di rifiuto/interruzione dell'intervento terapeutico. Il diritto di rifiutare le cure non annienta immediatamente ogni altro diritto del soggetto, compreso quello di cambiare le proprie scelte, e di tentare di nuovo un approccio terapeutico alla malattia. Viceversa, il (preteso) diritto di essere aiutati a morire si realizza attraverso modalità che tolgono al soggetto, uno actu e definitivamente, tutti i suoi diritti, svuotandoli del presupposto (logico prima ancora che giuridico) della vita, e questo appare una contraddizione rispetto al concetto stesso di diritto e di libertà (161). Da un diverso punto di vista, cambia anche la modalità di coinvolgimento dei terzi nelle due situazioni, e lo stesso atteggiamento del medico che assiste il paziente nelle sue fasi finali. Innanzitutto, solo nei casi di suicidio medicalmente assistito e di eutanasia attiva l'intervento di un altro soggetto (essenzialmente il medico) è necessario e determinante, o nel senso dell'agevolazione materiale del comportamento suicidiario (prestazione o dazione del farmaco) o nel senso della diretta realizzazione della condotta eutanasica. In secondo luogo, il medico che somministra il farmaco letale, o lo mette a disposizione del paziente, non può che volere (e dunque proporsi) indubitabilmente e necessariamente la morte del paziente(162). Viceversa, il medico che attua la richiesta di distacco del ventilatore artificiale o del sondino nasogastrico, e ancora di più quello che prende atto e rispetta la volontà del soggetto (diretta o indiretta, attuale o anticipata, questo è un profilo diverso, su cui v. infra) di rifiutare l'attivazione di tali presidi (eventualmente somministrando sedativi che possono accelerare il processo di morte), pur nella consapevolezza che la conseguenza di queste scelte è la morte più o meno rapida e immediata del soggetto, non ha (o non è necessario che abbia) il senso e l'intenzione di uccidere o di aiutare a togliersi la vita, ma pensa (o può pensare) che l'obiettivo principale della sua condotta è rispettare una volontà legittima, accettare che non c'è più niente da fare per contrastare il decorso mortale di una malattia(163). In linea di principio, allora, rimango convinto che la distinzione tra rifiutare le cure (anche fino alle estreme conseguenze, a lasciarsi morire) e chiedere di essere uccisi o aiutati a morire, mantenga una sua rilevanza, almeno "ordinaria". Scegliere di non lottare più, di abbandonarsi alla forza inguaribile di una malattia, interrompendo o rifiutando presidi terapeutici, non è la stessa cosa che chiedere la somministrazione (o la dazione) di un farmaco che sia in grado, direttamente e "da sé", di provocare la morte. Ci sono differenze oggettivamente plausibili tra le due ipotesi, come si è provato ad argomentare, che riguardano sia il dato oggettivo (vale a dire degli strumenti usati, la struttura ontologica del fatto) che il dato soggettivo (relativo all'atteggiamento psicologico dei soggetti agenti, e in particolare del medico, della specifica finalizzazione della condotta)(164). Tuttavia, non si può sfuggire al problema che in alcuni casi questo schema distintivo appare fragile, e la linea di confine tra l'una e l'altra delle due ipotesi si fa davvero impalpabile(165). Mi riferisco all'interruzione e alla rimozione di presidi life-sustaining, che in alcune circostanze di particolare gravità dello stato patologico sottostante, possono innescare un processo che porta alla morte in modo rapido e scontato. In questi casi, l'interruzione del trattamento di sostegno vitale sembra essere qualcosa in più rispetto al "lasciare che la malattia faccia il suo corso". Staccare le macchine determina la morte del soggetto, a volte con una rapidità che si avvicina molto alla immediatezza causale dell'atto eutanasico in senso stretto (o "diretto"). Inoltre, quanto all'argomento del coinvolgimento di un soggetto terzo, è vero che anche nelle ipotesi di richiesta di interruzione di un trattamento life-sustaining ci vuole il medico. Non sorprende perciò che questa linea di distinzione tra uccidere/essere uccisi e "lasciar morire" come conseguenza del rifiuto/interruzione di trattamenti terapeutici sia attaccata da parti opposte: da un lato, sostenendo che aprire all'autodeterminazione astensiva con effetti terminali sia in realtà una sorta di preludio alla legalizzazione dell'eutanasia diretta e del suicidio medicalmente assistito, e che anche la prima ipotesi dovrebbe essere vietata, in quanto «nell'uno e nell'altro caso, si dà un rapporto di causalità diretta, immediata e necessaria tra l'atto e il comportamento dell'operatore sanitario e l'evento-morte» (166); dall'altro, contestando il diverso inquadramento giuridico delle due fattispecie, dietro le quali c'è un tessuto volontaristico comune (il soggetto chiede di non vivere più), alla stregua di una irragionevole disparità di trattamento(167). A sostegno di questa ultima tesi, viene spesso operato un confronto tra due casi molto conosciuti nell'ambito delle "end-of-life decisions": quelli di Ms. B. e di Diane Pretty, dai quali emergerebbe proprio la difficoltà di mantenere i consueti criteri discretivi (intenzione, risultato e causa) tra il versante "passivo" e quello "attivo" (cui è associato normalmente il suicidio medicalmente assistito) dell'eutanasia(168). Proviamo a riflettere sulle due vicende. Quella di Ms. B. era una richiesta di interruzione di un trattamento "artificiale" (nella specie, di staccare il respiratore), e quindi una volontà di abbandonarsi al processo patologico naturale (da parte di una donna tetraplegica, completamente paralizzata dal collo in giù, e costretta ad utilizzare, per la funzione respiratoria, un polmone di acciaio)(169), mentre Diane Pretty (che non era sottoposta ad alcuna terapia di sostegno vitale, pur essendo affetta da una grave malattia neurodegenerativa) chiedeva che il marito potesse aiutarla a realizzare la sua volontà suicidiaria (senza incorrere in responsabilità penale)(170). Per quanto sia difficile mettersi a sofisticare tecnicamente su fatti così intensamente ed emotivamente drammatici, io credo che non sia irragionevole il diverso esito giudiziario delle due richieste. Certo, in entrambi i casi la volontà era quella di "hastening death" (accelerare la morte): nel caso di Miss B. la causa immediata della morte era pur sempre la malattia, la insufficienza organica, che – senza il supporto del respiratore – sarebbe stata lasciata "libera" "to making its course"; per Diane Pretty, invece, la causa immediata della morte era (o sarebbe stata) un'azione deliberatamente ed immediatamente produttiva del risultato letale (prestazione di un farmaco), appunto un "uccidere" in grado di spezzare la continuità tra la malattia e la morte(171). La sequenza "risultato-intenzione-causa" si presentava, nel caso di Diane Pretty, con accenti oggettivamente diversi dal primo, almeno per quanto attiene all'elemento della causa immediata della morte, nonché al rapporto tra azione (omissione mediante azione nel caso di Miss B.), condizione di malattia, risultato. Un altro caso limite, che ci ha interessato più da vicino, è quello che ha riguardato Piergiorgio Welby. Credo che anche qui, però, sia possibile mantenere una differenza legata alla sequenza causale che conduce alla morte. Il distacco della macchina per la ventilazione artificiale, peraltro reiteratamente richiesta dal soggetto, non è stata la "causa" vera e diretta della morte, ma è un fattore che ha rimosso un "ostacolo" tecnologico ad un processo "terminale" che resta "naturale", strettamente ed esclusivamente dipendente dalla (e collegato alla) progressione della malattia(172). La stessa sedazione che ha accompagnato il distacco della macchina non può dirsi "causativa", ma solo «contestuale al compiersi del processo terminale, e finalizzata alla riduzione della sofferenza legata alle difficoltà respiratorie» (173). Killing o letting die, in sostanza, pur nella inevitabilità di zone "grigie" e di reciproca confusione, restano situazioni differenti, sul piano dell'intenzione del soggetto agente (soprattutto del terzo) e sul piano dell'attitudine esclusiva dei due comportamenti a determinare l'evento mortale; e questo anche nelle ipotesi che evidenziano tratti di marcata "analogia". Questa differenza giustifica, secondo il mio punto di vista, che sia mantenuta sul piano giuridico una disciplina diversa. Anche perché, come è stato notato, i rischi di abuso, comunque presenti in entrambe le ipotesi, appaiono minori nei casi di rifiuto o di richiesta di interruzione di trattamenti sanitari, non fosse altro perché le situazioni in cui l'astensione terapeutica produce direttamente e (più o meno) immediatamente la morte del soggetto, sono effettivamente estreme(174), riguardando condizioni patologiche di eccezionale gravità (175). Peraltro, un'azione eutanasica diretta, o di aiuto al suicidio (come la dazione o la somministrazione di un farmaco per accelerare o provocare il decesso di una persona) sarebbe del tutto estranea allo schema teleologico dell'attività medico-sanitaria; in altre parole, se pure si volesse ricercare una base giustificativa a questi comportamenti, essa andrebbe cercata fuori dall'art. 32 e dall'alveo concettuale del principio di autodeterminazione, in una prospettiva che non sembra possa essere semplicemente un adattamento o un'estensione dell'impostazione teorica basata sul consenso informato(176) (ma su questo tornerò infra, nel par. 14). 8. Stato vegetativo permanente e interruzione delle tecniche di nutrizione e idratazione artificiale. Nell'ambito delle tecniche life-sustaining, il vero nodo continua probabilmente ad essere quello di come valutare la condizione dei soggetti in SVP(177), e di come qualificare il trattamento di nutrizione e idratazione artificiale ("Nia"). Il processo che viene attivato dalla sospensione del presidio non presenta quei caratteri di "naturale" collegamento ad una malattia e al suo corso progressivo, dipendendo invece più nettamente e "direttamente" dal fatto stesso del venir meno del procedimento di sostegno vitale. Per altro verso, la Nia costituisce una tecnica davvero poco o nulla invasiva, come ha rilevato la stessa Suprema Corte nella sentenza "Englaro", nella quale ha negato che essa costituisca oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, e ha parlato invece di un «presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale, salvo che, nell'imminenza della morte, l'organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite o che sopraggiunga uno stato di intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato alla particolare forma di alimentazione». Sono tante le incertezze e le aporie che connotano questa vera e propria "zona di confine" della riflessione bioetica sui casi di fine vita. In primo luogo, la qualificazione stessa di questa tecnica: è un trattamento sanitario, come tale riconducibile alla sfera di proiezione del consenso informato? o è una pratica di assistenza ordinaria di base (o una "cura dalla valenza umana"(178), secondo la definizione del CNB nel parere del 2005 su L'alimentazione e l'idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente), con la conseguenza che non sarebbe rinunciabile, ma andrebbe sempre assicurata al paziente? Negli ultimi anni, in verità, sembra prevalere abbastanza nettamente, negli indirizzi scientifici(179), l'idea che la "nia" sia comunque, a prescindere dalla irrilevanza terapeutica in senso stretto – non avendo tale tecnica alcun impatto eziologico o sintomatico sulla condizione patologica (limitandosi a prevenire le conseguenze della impossibilità di nutrizione naturale e a supportare la funzione metabolica) –, un trattamento medico(180), alla luce del fatto che l'attivazione e la gestione di questo procedimento life-sustaining presenta evidenti caratteristiche tecnologiche e mediche, a cominciare dalle sostanze utilizzate, e dalla necessità dell'intermediazione medica nel disporre l'avvio e le modalità posologiche del trattamento, che connotano l'operazione di attivazione di tali mezzi di sostegno vitale(181). Tuttavia, non basta questa notazione per mettere sullo stesso piano, ad esempio, la condizione del paziente in SVP cui viene sospeso il trattamento di "nia", e quella del malato di SLA al quale viene distaccato il respiratore artificiale. Fuori dalle astratte qualificazioni tecnico-scientifiche, è un dato difficilmente contestabile che quest'ultimo muore per una deficienza organica e delle funzioni vitali direttamente causata dalla malattia, non più contrastata o "trattata" nel suo decorso aggressivo da alcuna terapia o meccanismo di integrazione e sostegno delle funzioni vitali; nel caso di un paziente in SVP, come la Englaro, invece, la malattia aveva paradossalmente "esaurito" il suo impatto nella riduzione del soggetto in una condizione di perdita totale delle funzioni cognitive e sensoriali(182), la nia non aveva alcun effetto curativo o sintomatico, ed è stata la rimozione di quel sostegno a "determinare" la progressiva compromissione delle funzioni vitali (respiratorie, cardiovascolari, gastrointestinali, renali) ancora conservate nonostante la condizione di SVP. In sostanza, ciò che rende assolutamente eccentrica la situazione dell'interruzione della terapia di "nia" ad un soggetto in SVP, non è tanto la inevitabilità dell'esito mortale dell'interruzione (che in sé è comune ad altri contesti di distacco di apparecchiature di sostegno vitale), quanto il fatto che la morte sembra più realisticamente derivare non dalla malattia, e dal suo "procedere" naturale non più arginato da un presidio terapeutico, ma dal venir meno del procedimento life-sustaining. Da qui i dubbi sul fatto che possa reggere, rispetto alle situazioni di interruzione del sostegno vitale ai pazienti in SVP, lo schema descrittivo del "letting die", e che non sia questo, invece, un caso di "morte procurata"; e, più in generale, che tali ipotesi possano venire in qualche modo ricondotte al piano giuridico del consenso informato e del rifiuto di cure. Credo che una risposta possa essere tentata a partire dalla "unicità" della condizione del paziente in SVP (accertato, conclamato). La Corte di Cassazione lo ha definito una persona "viva" («persona in senso pieno»), [ha affermato la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza del 2007 sul caso Englaro(183) [«che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie (…)»](184), in quanto il suo stato è al di qua della linea fissata dalla legge n. 578/1993 per l'accertamento della morte(185)(vale a dire la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo); e tuttavia, richiamando considerazioni che ho già fatto in altri contesti, «è una vita svuotata di ogni possibilità di esperienza relazionale e comunicativa, finanche di percezione "emotiva" e sensoriale di quello che accade intorno al malato(186), e quindi anche dell'assistenza che riceve; è una vita che ha veramente poco di "naturale", e che rappresenta solo l'effimero trionfo di una tecnica sempre più potente e al tempo stesso sempre più astratta ed impersonale» (187). Certo, è vero: qui non c'è una malattia che progredisce "naturalmente" e che, non più controllata o contrastata, conduce il soggetto verso l'exitus. Tuttavia, abbiamo un corpo, un organismo, che non è più in grado di funzionare da solo, che non riesce più a sostenere le funzioni vitali, se non aiutato dalla tecnica. Sospendere questo sostegno vitale, allo stesso modo di quanto si è visto per il respiratore artificiale, potrebbe allora rappresentare una scelta di "non impedire" più la morte, un ritrarsi della tecnica di fronte ad un processo di consumazione della vita ormai irreversibile, anche solo parzialmente(188). D'altro canto, forse questa è la più estrema delle condizioni patologiche(189). Anche per questo, e tenendo conto della oggettiva futilità del trattamento life-sustaining, riconoscere uno spazio di efficacia della volontà (anticipata), quando sia stata chiaramente espressa o ricostruibile(190), non sembra possa determinare rischi di estensione ad altre condizioni analoghe (secondo il classico argomento dello "slippery slope"): non c'è niente di veramente analogo allo SVP (quando è definitivamente accertato come tale)(191). A questa stregua, la sospensione del sostegno vitale(192)determina ex se la morte del soggetto, o non è – anche in questo caso, nella sostanza – un ritrarsi della tecnica di fronte ad un processo di consumazione della vita già ormai arrivato ad uno stadio da cui non è in alcun modo possibile tornare indietro, nemmeno minimamente(193)? Non c'è, anche qui, se non una malattia che "avanza" nel suo incedere distruttivo, un corpo che – a causa dell'evento patologico, e della sua conseguenza "totale" e irreversibile sulla condizione del soggetto – non è e non sarà mai più in grado di recuperare nemmeno un frammento minimo di funzioni cognitive e sensoriali, di "vitalità", di stabilire un qualsiasi rapporto di comunicazione con gli altri?(194). Proprio il carattere estremo di questa condizione patologica(195)[fino a qualche anno fa "una sindrome in cerca di un nome"(196), una volta che ne fosse accertata la irreversibilità della medesima(197), potrebbero giustificare un possibile riconoscimento di efficacia della volontà (anticipata) anche in questi casi in cui l'esito mortale consegue immediatamente (o assai rapidamente) alla scelta di astensione terapeutica, attenuando così i limiti concernenti la struttura dei living wills, e la stessa questione legata alla intrinseca "diversità" di questa situazione dello SVP, sia sul piano del tipo di trattamento medico, sia sul piano del rapporto tra interruzione del presidio, aggravamento delle condizioni organiche, esito mortale. Quello che voglio dire è che, di fronte ad una diagnosi confermata e sicura di SVP (nel senso di "permanente", e non semplicemente "persistente")(198), il raffronto tra l'oggettiva futilità del trattamento life sustaining) e l'espressione (sebbene anticipata) di una chiara volontà di rifiutare/sospendere il prolungamento artificiale dell'intervento medico, anche a costo di una rapida accelerazione del processo di fine della vita, potrebbe portare a dare prevalenza, o almeno a riconoscere una qualche validità, all'elemento "soggettivo"(199). Qualcosa è cambiato, invero, anche in rapporto agli obblighi che il professionista medico e la struttura sanitaria hanno nei confronti di queste ipotesi. Il codice di deontologia medica, nella versione del 2006, non afferma più l'obbligo di continuare il sostegno vitale sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo, cioè fino a quando non sia sopraggiunta la morte secondo lo schema legale attualmente vigente (artt. 37); nell'attuale formulazione (art. 39) viene invece fissato il criterio finalistico della ragionevole utilità della terapia di sostegno nei casi «di compromissione dello stato di coscienza», affermandosi che va evitata «ogni forma di accanimento terapeutico». Allora, andando a concludere in relazione questo profilo, appare effettivamente incerta la valutazione in termini giuridico-costituzionali della fattispecie. La Costituzione, come si è più volte sottolineato in questo scritto, riconosce e garantisce il diritto di rifiutare le cure; come si vedrà in seguito, riconosce anche un qualche valore a quella che è stata definita la "pianificazione anticipata" delle cure, cioè alla volontà espressa anticipatamente rispetto al momento della decisione terapeutica, da un soggetto non più in grado di esprimere il suo consenso o il suo dissenso. Questa linea, pur con qualche oggettiva difficoltà, resiste anche in una situazione "estrema" come quella dell'interruzione delle terapie di "nia" ad un soggetto in SVP; sempre che, ovviamente, sia presente e dimostrabile una volontà anticipatamente espressa, in questo senso, dal soggetto. Si può sostenere che la interruzione di questi presidi medici in casi di SVP conclamato e ormai irreversibile, non rappresenti una condotta che uccide, o che provoca la morte, ma una scelta di abbandonare l'ultimo flebile anelito di vita ormai intaccata irreversibilmente e in modo eccezionalmente e radicalmente grave dalla malattia, di non sostenere più un corpo che ancora non è morto, ma che certamente ha quasi interamente perso la condizione concreta (percezione, relazionalità, coscienza) e il senso della vita(200). Davvero, però, siamo al limite della riflessione sul "right to refuse medical treatment" e sul "lasciarsi morire". In questo senso, non mi sembra prospettabile una soluzione per così dire "mandatory", a senso unico. In altri termini, non credo sia possibile sostenere automaticamente la incostituzionalità di soluzioni legislative o di interpretazioni giudiziarie che, incrociando in modo diverso gli elementi del quadro (la "vita" e la "personalita" del soggetto in SVP, la particolarità di una condizione patologica che non è autonomamente e progressivamente letale, il tema relativo ai modi di espressione della volontà terapeutica), pervengano a conclusioni che escludano la "nia", almeno in linea di principio, dai trattamenti riconducibili alla sfera di disponibilità della pianificazione "anticipata", ovvero che richiedano, per giustificare la sospensione, presupposti volontaristici più chiari e diretti. È quello che fa, ad esempio il disegno di legge Calabrò attualmente ancora in discussione al Senato in tema diDisposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento(201). Semmai, può apparire discutibile, in questo testo (che al momento sembra "bloccato" da altre priorità del dibattito politico-parlamentare), l'assoluta rigidità dell'esclusione dei trattamenti di "nia" dall'area del consenso/dissenso informato, della rinunciabilità mediante dichiarazione anticipata(202), e la mancata previsione di deroghe o margini per valutazioni (medico-scientifiche, ma anche "soggettive") legate all'eccezionalità del singolo caso, al grado di certezza sull'irreversibilità dello stato vegetativo e alla sua durata(203), al carattere puntuale ed inequivocabile della volontà (anticipatamente manifestata) di rifiutare un certo tipo di trattamento(204). Per il resto, come ho detto, può essere una questione di discrezionalità politica, e di discrezionalità interpretativa: la preferenza per una delle tesi prospettate non può pretendere l'esclusiva dell'interpretazione "costituzionalmente orientata", negando tale "qualità" all'opinione opposta. 9. Autodeterminazione, consenso, incapacità del soggetto al momento della cura. Finora, abbiamo affrontato, dentro il contenitore della questione "eutanasia", lo stadio iniziale del rifiuto (o della rinuncia) consapevole di cure, anche in quelle situazioni in cui esso più direttamente assume la forma dell'eutanasia (ovviamente "passiva", cioè correlata e conseguente alla rimozione di un presidio terapeutico, anche life-sustaining). Del resto, è su questo profilo che si è andato formando progressivamente un quadro di significati e di riferimenti costituzionali dell'eutanasia. Intorno ad esso abbiamo riscontrato un notevolissimo livello di legittimazione, che ne fa ormai un dato pressoché acquisito nella evoluzione dei sistemi legislativi e della cultura giurisprudenziale, con alcune persistenti incertezze che investono fondamentalmente quelle situazioni in cui il rifiuto o la richiesta di interruzione concernono trattamenti di sostegno vitale (e soprattutto le procedure di "nia"). La protezione giuridica del dissenso terapeutico del paziente è l'espressione di quello che è stato definito "il ritorno della volontà"(205). La decisione sulle proprie cure, anche nel senso di non curarsi, di lasciarsi morire, di non contrastare più una malattia infausta e terminale, è il riflesso dell'autodeterminazione che a ciascun soggetto deve essere riconosciuta come contenuto "sintetico" di diversi principi e valori costituzionali, come la libertà personale, la dimensione individuale del diritto alla salute, la connotazione identitaria e "personale" della dignità, il diritto ad esprimere un consenso libero ed informato(206)su tutto quello che riguarda la propria salute. Ma che succede quando il paziente non può esprimere alcuna volontà nel momento di prendere le decisioni terapeutiche che lo riguardano? Le risposte che a questa domanda hanno dato le esperienze giuridiche, con le loro risorse (legislative e giurisprudenziali), sono abbastanza eterogenee, accomunate dal tentativo di "recuperare", in qualche modo, una volontà attualmente non più in grado di manifestarsi. 10. (Segue). Pianificazione anticipata delle cure e living wills: connotati e problematicità del modello. Certo, la storia giuridica del "right to die" nelle sue differenti configurazioni parte proprio da un caso di decisione sulla continuazione di trattamenti di sostegno vitale nei confronti di un soggetto ormai incapace di esprimere qualunque scelta, senza che nemmeno lo avesse fatto in precedenza. Mi riferisco alla vicenda di Karen Quinlan(207), troppo conosciuta per essere qui di nuovo raccontata. È sufficiente ricordare che la Corte Suprema del New Jersey autorizzò, alla fine di una lunga querelle giudiziaria, il distacco del respiratore artificiale, ma non del sondino naso-gastrico per la nutrizione idratazione artificiale, ritenuto un mezzo "ordinario"(208). Nella visione della Corte, Il rispetto del diritto alla privacy(209)non può venir meno solo perché il soggetto non sia più in grado di esercitarlo; di fronte alla sua accertata incapacità, sono i familiari, proprio perché conoscono la persona malata nelle sue profonde convinzioni avendo vissuto con lei, a dover "vestire i suoi panni mentali", prendendo per quanto possibile la risoluzione che avrebbe preso il paziente, se capace. Fa così il suo ingresso sulla scena del diritto di decidere sulle proprie cure il modello del "decisore sostitutivo", incarnato principalmente nei familiari del soggetto malato, ma anche in un tutore "esterno" nominato dal Giudice, quando i familiari non rappresentano in modo attendibile (nel senso che le affermazioni attribuite alla paziente appaiono generiche, troppo risalenti, legate a circostanze casuali) la volontà presunta del paziente(210). L'eredità del giudizio "in re Quinlan"(211)fu soprattutto, nel "laboratorio" legislativo degli Stati(212), l'invenzione dello strumento delle direttive anticipate (o living wills, testamento biologico, advance directives, dichiarazioni anticipate di trattamento, secondo le diverse denominazioni che a questo meccanismo sono state attribuite nelle diverse legislazioni), che ha avuto, in particolare negli Stati Uniti, una diffusione praticamente generalizzata (solo 2 o 3 Stati non hanno una disciplina di questo tipo). In anni più recenti, poi, il modello è stato riversato nella legislazione di molti Paesi europei: il riferimento è – tra gli altri – alle directives anticipées previste dalla l. francese n. 2005-370 del 22-4-2005(213), al PatientenVerfügung tedesco(214), alle dichiarazioni anticipate disciplinate nel Regno Unito dal Mental Capacity Act del 2005(215), alle istruzioni preventive di cui alla legge spagnola "sui diritti dei pazienti" n. 41 del 14-11-2002 (in Spagna anche molte Comunità Autonome, che ne hanno la competenza, hanno legiferato sul tema)(216). Resta il fatto, tuttavia, che anche dopo la messa in campo di questa risorsa dell'autodeterminazione, i leading cases in tema di end-of-life decisions hanno continuano ad avere ad oggetto situazioni di pazienti incapaci che non avevano lasciato in alcun modo istruzioni o direttive specifiche e scritte in ordine alle cure da intraprendere/continuare o rifiutare/interrompere. Emblematici i casi Cruzan, Schiavo e, per la nostra esperienza, Englaro. In sostanza, quello che si vuole dire è che lo strumento dei living wills non ha avuto e non ha una significativa applicazione sul piano quantitativo(217); nondimeno, è necessario parlarne perché è un profilo molto rilevante nel dibattito sul valore e sui limiti della volontà in campo terapeutico. Una prima notazione deve essere fatta sulla versatilità dello strumento, che può assumere diversi contenuti. In sintesi, il living will è l'atto con cui un soggetto capace, formula una serie di istruzioni e di direttive sulle cure che vuole/non vuole gli siano praticate in determinate situazioni in cui dovesse venirsi a trovare. Molto spesso questo atto contiene anche l'indicazione di un soggetto (fiduciario) chiamato a controllare la corretta attuazione della volontà "anticipata" del paziente; la nomina del fiduciario (si parla di "durable power of attorney for health care, o di Health care representative o di Patient advocate for health care") può essere anche priva di indicazioni sostanziali, nel senso che il soggetto rimette al fiduciario il potere di decidere sulla gestione terapeutica della sua salute nei "contesti" prefigurati nell'atto(218). In questo caso, c'è il rischio oggettivo di una torsione del ragionamento incentrato sul consenso e sulla volontà (ma su questo profilo si tornerà più avanti). Così identificato, nei suoi connotati sostanziali, il modello delle direttive anticipate, appare chiara la sua natura essenzialmente "strumentale". Per dirla diversamente, la dichiarazione anticipata di trattamento è un "contenitore" dell'autodeterminazione individuale in ordine alle scelte che riguardano la propria salute, il che significa che la legittimità dello strumento deve essere valutata in relazione all'ammissibilità o meno del contenuto "negoziale" che con esso si intende rappresentare(219): quello che non si può chiedere per "ora", non lo si può chiedere nemmeno per un momento successivo, e viceversa, almeno in linea tendenziale, quello che si può chiedere esprimendo la volontà al momento della decisione da prendere, lo si può chiedere anche con una indicazione "anticipata". Il living will, quindi, può essere considerato, in linea di principio, una via giuridicamente sostenibile per esprimere la propria volontà di non subire trattamenti medici indesiderati, e come tali non coercibili, alla luce del carattere individuale e volontaristico del diritto alla salute; e questo anche quando si tratta di interventi medici salva-vita(220). Il principio del consenso informato non può dipendere "drasticamente" dall'attualità o dall'anteriorità dell'espressione della volontà. A questa stregua, la "pianificazione anticipata delle cure"(221)appare contrassegnata dai medesimi presupposti costituzionali di giustificazione rispetto alla volontà terapeutica "attuale": il divieto ("tendenziale") di trattamenti sanitari obbligatori, l'inviolabilità della libertà personale, nella quale «è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo» (C. Cost., n. 471/1990), la tutela della persona «non soltanto nel suo essere, per così dire, attuale, ma anche nello sviluppo stesso della sua personalità che si proietta, in prospettiva diacronica, fino a che la persona è – e resta – persona, e quindi anche oltre ai confini della capacità di agire» (222). Se questa ricostruzione è corretta, se cioè dentro i confini del consenso informato come chiave di legittimazione dei trattamenti sanitari non obbligatori è possibile far rientrare anche i casi in cui la volontà sia stata espressa dal paziente anticipatamente rispetto al momento dell'insorgenza della malattia(223), e comunque prima della fase critica in cui bisogna fare delle scelte sulle cure da somministrare, appare possibile allora sostenere che tale strumento ha già, almeno sul piano generale, una sua validità anche in ordinamenti come il nostro, nei quali ancora manca una specifica disciplina legislativa(224). Peraltro, rimanendo al caso italiano, alcuni recenti orientamenti della giurisprudenza e della dottrina hanno ritenuto che un parametro legislativo più puntuale per il modello dell'advance directive può essere già rinvenuto nella recente disciplina dell'amministratore di sostegno(225), in relazione al quale la legge parla di compiti di cura della persona, utilizzando un'espressione che sembra poter comprendere anche la sfera degli interessi personali, e, tra questi, delle decisioni terapeutiche(226). Questo è sicuramente vero, ma tuttavia si tratta di un riferimento che appare parziale e per certi versi persino "fuorviante". Sul primo punto, è stato messo in evidenza che sulla nomina dell'amministratore di sostegno, e sulla determinazione dei suoi poteri ed attribuzioni, il giudice ha una possibilità di intervento che può arrivare fino alla designazione di una persona diversa da quella indicata dal soggetto interessato. Quanto ai dubbi di "travisamento" della ratio della legge e dell'istituto dell'amministrazione di sostegno, si è fatto notare che il primo articolo della legge 6/2004 individui l'ambito soggettivo di operatività del "sostegno" nelle «persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana» (227): e ciò sembrerebbe escludere le situazioni in cui la scelta o l'attività dell'amministratore di sostegno interferiscano con decisioni di fine vita(228). Sta di fatto che, come si è anticipato, non sono stati pochi i decreti giudiziari di nomina di amministratori di sostegno, ritenuti questi ultimi idonei ad esprimere per conto del soggetto interessato anche scelte di rifiuto di cure assimilabili al genus delle end-of-life decisions(229). È interessante notare che queste decisioni contengono quasi sempre una struttura motivazionale densa, e chiaramente orientata alla valorizzazione dei riferimenti costituzionali dell'autodeterminazione terapeutica e del consenso informato (artt. 2, 13, 32 Cost.) nel solco del "precedente Englaro" della Cassazione del 2007(230); in non pochi casi, inoltre, si ammette che il procedimento di nomina dell'amministratore di sostegno possa arrivare fino al punto da chiedere la non attivazione o la interruzione dei trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale. Ad ogni modo ritengo che un intervento più organico (e forse sarebbe il caso di dire meno occasionale e inconsapevole) del legislatore sia in ogni caso necessario o almeno preferibile, per affrontare e dare una sistemazione a tutta una serie di aspetti controversi che appartengono – direi quasi intrinsecamente – al modello delle direttive anticipate(231), e che non conviene certo affidare alla mutevolezza della prassi medica e delle operazioni di bilanciamento eventuale ad opera della giurisprudenza(232): penso alle questioni sulla validità temporale massima delle direttive, sulla revocabilità delle medesime, sui profili di qualità e completezza dell'informazione; e, con riguardo specifico all'utilizzazione dello strumento dell'AdS, alle questioni legate alla discrasia tra la designazione del soggetto "fiduciario" e la nomina da parte del giudice, per la quale molte pronunce continuano a ritenere ineludibile l'attualità della condizione di impossibilità a provvedere ai propri interessi(233). Il fondamento (pure) delle direttive anticipate sul presupposto giuridico-costituzionale del consenso informato non riesce però, almeno dal mio punto di vista, ad assorbire completamente le innegabili differenze che sussistono tra volontà attuale e volontà anticipata (rispetto ad una scelta terapeutica), e a giustificare, di conseguenza, un trattamento giuridico identico di queste due espressioni di volontà. Provo a spiegare questa posizione. Nella pianificazione anticipata delle cure ("advanced health care planning") si registra, inevitabilmente, uno scarto tra i due contesti, quello relativo al momento dell'espressione della volontà, e quello legato alla sua attuazione(234). Non è solo un problema (ovvio) di distanza temporale, che può essere anche consistente, ma di diversità delle conoscenze medico-scientifiche, della disponibilità delle risorse terapeutiche, della stessa condizione psicologica e informativa del soggetto nei due "momenti"(235). A ciò si aggiunga la possibilità che il documento sia redatto con espressioni non puntuali, o equivoche nel significato, o semplicemente rappresenti elementi non perfettamente corrispondenti al dato reale. In ragione di ciò, si è anche sostenuto(236), che una condizione di validità delle dichiarazioni anticipate dovrebbe essere l'attualità della situazione di malattia del soggetto al momento della predisposizione del documento: solo questo fatto, vale a dire l'inserimento del paziente in un percorso terapeutico, potrebbe garantire una diretta informazione sulla patologia, sulla sua "progressione", sulle possibilità di contrasto terapeutico e sugli effetti delle cure ovvero del rifiuto delle medesime. È una tesi questa, probabilmente eccessiva. Non si può escludere infatti, che ci possano essere percorsi informativi autonomi da parte dei soggetti, anche in condizioni di piena salute, oltre al fatto che molti degli elementi e delle situazioni che definiscono il contenuto di una direttiva anticipata, hanno una loro dimensione oggettiva e "autoevidente", tale da non subire effetti modificativi nel tempo. Senza contare che in questo modo si toglierebbe qualsiasi rilevanza al testamento biologico in tutte quelle situazioni cliniche estreme che possono derivare da eventi imprevedibili e improvvisi (incidenti, traumi cerebrali, episodi cardiaci)(237). Nondimeno, Il problema di un rischio di astrattezza, e di disomogeneità tra situazione prefigurata e situazione reale, nell'ambito dello schema della pianificazione anticipata delle cure, esiste, proprio perché queste "dichiarazioni di volontà" possono essere (anche molto) asimmetriche "nel tempo" e "rispetto alle situazioni" alle quali si applicano o dovrebbero applicarsi(238). Queste considerazioni hanno sicuramente un impatto sulla questione dell'efficacia da riconoscere alle direttive anticipate di trattamento, e del ruolo del medico rispetto alla volontà del paziente(239). Lo strumento deve poter mantenere una sua flessibilità, che mal si concilia con pretesi automatismi, nel senso di rendere il medico un mero esecutore del contenuto del living will(240). Il recupero della volontà del paziente in un momento in cui essa non può più essere espressamente manifestata, non deve – per usare un'efficace metafora – sostituire la solitudine di chi non può esprimersi a quella di chi deve decidere(241). Il medico deve essere messo in condizione di poter attualizzare e interpretare la volontà del soggetto malato, e verificarla nella sua effettiva corrispondenza alla situazione clinica concreta. Per fare questo, e d'altro canto per evitare che le direttive anticipate siano ridotte a semplici dichiarazioni inidonee a condizionare l'attività e le scelte del medico, è necessario trovare un giusto equilibrio nella configurazione normativa di tali strumenti(242). Una buona base mi sembra quella offerta dalla Convenzione europea sulla biomedicina di Oviedo (da noi ratificata, sebbene non ancora completamente, con l'approvazione della legge n. 145/2001), che all'art. 9 definisce esplicitamente la manifestazione anticipata delle scelte terapeutiche non come "volontà" (che è un concetto che ha sua maggiore forza semantica), ma come "desideri", o anche "orientamenti" (a seconda della traduzione che si dà ai lemmi "souhaits", dalla versione francese, e "wishes", dalla versione inglese), e stabilisce altresì il medico deve "tener conto", "prendere in considerazione", le indicazioni espresse dal malato prima di cadere in uno stato di incapacità di intendere e di volere. Una formulazione che sembra avvalorare proprio l'impostazione qui accolta: e cioè che le direttive anticipate non sono "tutto" o "niente", ma hanno un valore e una capacità di orientamento dell'azione del medico, che tuttavia non si configura come una dimensione meramente esecutiva(243). Di contro, al di là dei termini usati, deve essere chiaro che tali direttive, una volta che sia stato concluso con "esito" positivo il riscontro di attualizzazione e di corrispondenza della situazione alla volontà del malato, non possono (o non dovrebbero poter) essere "ignorate" o disattese, salva la possibilità del singolo medico (sostituibile da altri) di opporre ragioni di coscienza. I margini di discrezionalità del medico, in altri termini, non dovrebbero oltrepassare l'esigenza di interpretare e "attualizzare" il testamento biologico e la volontà in esso espressa(244); altrimenti, l'effetto sarebbe quello di privilegiare ancora una volta, e in modo probabilmente eccessivo, la valutazione "oggettiva" del professionista(245), a scapito dell'area riconducibile al diritto di rifiutare (anche anticipatamente) le cure, così come definito e configurato dalla giurisprudenza sul caso "Englaro", secondo una interpretazione costituzionalmente "orientata" dei materiali normativi(246). Ma soprattutto, il medico dovrebbe motivare il suo eventuale dissenso rispetto alle istruzioni anticipate lasciate dal paziente(247). Appare opportuno inoltre che le discipline in tema di direttive anticipate prevedano limiti massimi di validità temporale delle direttive, e procedure obbligatorie di rinnovo-conferma delle medesime. 11. (Segue). La decisione "senza volontà": tra "best interest" e "substitute judgment standard". All'inizio di questo paragrafo abbiamo sottolineato altresì che le difficoltà del raccordo tra lo schema della volontà anticipata (espressa in un living will o in un atto dal contenuto analogo) e il modello teorico dell'autodeterminazione terapeutica e del consenso informato, possono amplificarsi quando la direttiva anticipata consiste nella individuazione di un fiduciario al quale non sono affidate istruzioni specifiche da parte del malato o del rappresentato(248). In questo caso, il fiduciario si configura come un vero e proprio decisore sostitutivo, pur sempre poi chiamato ad un confronto relazionale con le proposte e le posizioni dei medici per la individuazione delle scelte più appropriate sul piano del best interest del paziente, che resta un parametro irrinunciabile anche dell'attività del fiduciario medesimo. In una simile situazione, quando cioè il "mandato" non include indicazioni "sostanziali", il rischio è quello allontanarsi dall'alveo giustificativo dell'autodeterminazione in senso stretto, non essendo sempre chiaro se – e in che misura – la decisione del rappresentante sia realmente una modalità di esplicitazione della volontà del malato, ovvero costituisca una vera e propria volontà sostitutiva. Questo è indubbiamente un limite del modello del durable power of attorney, almeno quando esso non sia accompagnato da vincoli o indicazioni in grado di mantenere una effettiva correlazione tra la "delega" e le direttive di esercizio della medesima, e in definitiva tra l'attività del fiduciario e la volontà del malato(249). In questo senso, merita apprezzamento la presa di posizione della giurisprudenza di legittimità, che ha sottolineato – anche nella decisione sul punto di diritto nella vicenda di Eluana Englaro – l'opinione per cui «il carattere personalissimo del diritto alla salute dell'incapace comporta che il riferimento all'istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza». In altre parole, il bénéfice direct dell'interessato, che costituisce l'obiettivo primario della condotta del fiduciario secondo la formulazione dell'art. 6 della Convenzione di Oviedo, non può configurarsi alla stregua di una nozione meramente "oggettiva": non conta solo ciò che è meglio per il paziente su un piano di valutazione medico-scientifica del suo stato di salute e del livello della malattia, ma ciò che è meglio secondo la sua visione soggettiva e volontaristica, che non può essere mai completamente "assorbita" e "sostituita" dalla scelta del "proxy". Nella sentenza "Englaro", questa esigenza viene espressa con una formulazione a mio parere molto efficace (resta poi, come vedremo, il problema, almeno in linea di principio, di come tale criterio è stato trasferito sul piano dell'istruttoria processuale): il rappresentante deve decidere "con" l'incapace, e non "al posto" o "per" l'incapace. Un modello, questo, che si ritrova, con forti elementi di omologia, nella disciplina tedesca del Patientenverfügung, in cui il "fiduciario" (Betreuer) ha il compito di «esternare e far valere la volontà del paziente», ovvero, in mancanza di istruzioni anticipate, di «accertare le cure mediche desiderate dal paziente o la sua volontà presunta», di «partecipare con il medico (…) ad un colloquio per discutere tale misura (medico-terapeutica) tenendo conto della volontà del paziente»(250). Alla fine, spostandosi dal limitato orizzonte della nostra esperienza, questo è stato il nodo effettivo attorno al quale si è costruita tutta l'elaborazione del rifiuto di cure da parte del paziente incapace, sempre nell'ambito di casi che, come si è avuto già occasione di sottolineare, hanno riguardato pazienti e situazioni cliniche in cui non si riscontravano direttive anticipate o atti analoghi. Con la sentenza Quinlan, prima richiamata, si avvia la ricerca – tuttora in corso, potremmo dire – di come ancorare il più possibile a parametri soggettivo-volontaristici (riferiti ovviamente al paziente) il substituted judgement standard. Il tentativo di "far parlare" ancora chi non può più farlo non deve paradossalmente produrre come risultato quello di avere una decisione presa da un altro soggetto al di fuori di un qualche aggancio con l'autodeterminazione del malato. Il diritto di rifiutare le cure, per alcuni giudici implicato nel diritto di privacy, per altri riconducibile allo spazio applicativo della teoria dell'informed consent, per altri ancora collegato alla due process clause del XIV emendamento o all'inviolabilità del corpo come principio di common law, deve poter essere consentito anche al paziente incapace, ma bisogna fare in modo che la decisione sostitutiva rispecchi il più possibile la sua volontà; altrimenti, si legge in alcune sentenze, «in the absence of adequate proof of the patient's wishes, it is naive to pretend that the right to self-determination seves as the basis for substituted decisionmaking», e diventa preferibile affidarsi al principio del favor vitae: «is it best to err, if at all in favor of preserving life» (251). La decisione della Corte Suprema Federale, nel caso Cruzan, rappresenta un punto di arrivo e di (apparente) assestamento di questa giurisprudenza(252), che in qualche caso aveva adottato, pur con qualche distinzione e cautela, standard più obiettivi, essenzialmente legati ad una valutazione del best interest del paziente(253). La scelta sostitutiva [in materia di rifiuto e rinuncia a trattamenti medici anche life-sustaining, come la nutrizione e l'idratazione artificiale, ed era la prima volta che ciò accadeva(254)deve rappresentare la volontà del malato sulla base di una "clear and convincing evidence", perché non c'è «nessuna automatica garanzia che il giudizio dei familiari più stretti sia necessariamente lo stesso che avrebbe effettuato il paziente» (255). Proprio perché la decisione di interruzione delle cure "salva-vita" è "deeply personal", la volontà del paziente deve essere ricostruita attraverso elevati standards di prova(256). La realtà però non sempre si lascia racchiudere in formule più o meno perentorie. Invero, i problemi e le polemiche restano intatti anche dopo Cruzan, come ha dimostrato la vicenda di Terri Schiavo. Quando si raggiunge la clear and convincing evidence? Qual è il ruolo che sulle decisioni di fine vita giocano o possono giocare elementi "oggettivi" (o più "oggettivi"), come quelli riconducibili al criterio del best interest del paziente, alla futilità del trattamento vitale artificiale, alla gravissima irreversibilità della condizione patologica? La verità è che in assenza di chiare e dirette istruzioni anticipate, non ci sono garanzie che la decisione sostitutiva sia veramente rappresentativa della concezione morale e della valutazione soggettiva del malato. E gli interrogativi prima avanzati sono destinati a rimanere senza risposta, o almeno senza una risposta che sia pienamente soddisfacente(257). I due piani di giustificazione della decisione sostitutiva spesso si incrociano con combinazioni diverse per quanto riguarda le modalità e la "quantità" degli elementi che si riferiscono all'uno o all'altro, nel senso che a volte prevale il dato della volontà "recuperata" o "ricostruita"(258), con l'utilizzazione in chiave di chiusura argomentativa dell'assenza di ogni utilità nella continuazione del trattamento, a volte invece la decisione sembra incentrata più nettamente sul profilo oggettivo della futilità e del best interest, in qualche modo rafforzato dal tentativo di trovare, attraverso i familiari, le tracce di un consenso presunto del malato, o di ancorare il best interest a considerazioni in qualche modo "patient-centered". Il celebre caso di Anthony Bland, deciso dalla House of Lords inglese nel 1993, appare esemplificativo di questa ultima linea di ragionamento, e rappresenta in un certo senso una sorta di alternativa al modello "Cruzan"(259). Quello che è certo è che il criterio del best interest, più viene disancorato da un collegamento con l'atteggiamento "soggettivo" del paziente(260), più ci porta fuori dai confini dell'autodeterminazione e del diritto di non curarsi; verso zone in cui francamente non è facile trovare ragioni costituzionalmente sostenibili – salvo che il trattamento non configuri un'ipotesi di accanimento terapeutico (ed è evidente che qui si incrociano situazioni e definizioni ad elevata "mobilità" ed indeterminatezza)(261)– per abbandonare il (o derogare al) principio di protezione (e di indisponibilità) della vita(262), la cui prevalenza, come ha chiarito ancora la Corte di Cassazione nel 2007, deve essere assicurata «indipendentemente dal grado di salute (…) del soggetto interessato, dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa, nonché dalla mera logica utilitaristica dei costi e dei benefici» (par. 8)(263). Dietro l'angolo (dei tempi "sociali"), purtroppo, si scorgono segnali (al momento ancora marginali o comunque non dichiarati) di un'accentuazione del peso "oggettivistico" di elementi come l'uso razionale delle risorse sanitarie e i limiti quantitativi delle prestazioni finanziarie: il caso Betancourt, nel New Jersey, ad un certo punto interrotto dalla morte del soggetto interessato (malato che sopravviveva in condizioni di SVP, con dialisi, respirazione e nutrizione artificiale) rischia di essere l'emblema di una sanità che – non solo in un sistema privato basato sulle assicurazioni – comincia a ritrarsi di fronte a queste condizioni patologiche, definendo standards di accesso o di mantenimento dei trattamenti life-saving sempre meno legati alla scelta soggettiva del paziente(264). 12. (Segue). Il caso Englaro e i dubbi sulla ricostruzione della volontà. Un best interest "soggettivizzato"? Questo difficile equilibrio tra ragioni "soggettive" dell'interruzione delle cure life-sustaining e rischi di oggettivazione del "giudizio sostitutivo", lo ritroviamo tutto nel caso di Eluana Englaro, e nelle decisioni che hanno accompagnato la vicenda alla sua drammatica conclusione. Forse poche controversie giudiziarie (almeno da noi) sono state studiate e commentate come questa; e dunque molti aspetti si possono dare per conosciuti. La svolta della Corte di Cassazione nel 2007, dopo una serie di precedenti oscillanti della magistratura di merito(265), è incentrata sul ricorso all'istituto civilistico della rappresentanza legale dell'incapace, ritenuto utilizzabile anche nel campo delle decisioni che riguardano interessi personalissimi dell'individuo (come conferma una ampia rassegna di materiali legislativi, dalla Convenzione di Oviedo alla legislazione sull'interruzione volontaria della gravidanza e sulla sperimentazione clinica di medicinali, opportunamente citati dalla sentenza). Il rappresentante però, come si è ricordato in precedenza, secondo la costruzione teorica della Suprema Corte, «deve decidere non "al posto" dell'incapace né "per" l'incapace, ma "con" l'incapace: quindi ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche». In particolare, il principio di diritto sancito dalla Corte di Cassazione, è il seguente: «Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino naso gastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, (…), il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (…), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso appressamento clinico, irreversibile, e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa». La "incondizionata" prevalenza del diritto alla vita in un contesto di assenza di volontà espressa (anche anticipatamente) dal paziente, può cedere, allora, di fronte a queste due condizioni, che devono essere necessariamente compresenti: la prima è una condizione "oggettiva", riguarda le condizioni di salute che vengono delineate in una versione effettivamente "estrema", "eccezionale"; la seconda è invece una condizione "soggettiva", vale a dire una volontà espressa dal (o attribuibile al) soggetto, contestualmente alla decisione terapeutica o almeno anticipatamente. Proprio su questo aspetto, tuttavia, si addensano alcune perplessità, e la stessa successione degli argomenti usati dalla Corte di Cassazione sembra evidenziare alcune contraddizioni. Il riferimento alla "personalità" del soggetto, al suo "stile di vita", ai suoi "convincimenti" (se non direttamente comunicati e testimoniati), rischia di allargare troppo (e perciò, paradossalmente, di assottigliare) la linea giustificativa della volontà e dell'autodeterminazione(266), di renderla "indiretta" [non a caso si parla, anche in alcuni documenti di etica medica, di hipothetical will(267), in qualche misura fuoriuscendo dalle stesse premesse del ragionamento del Giudice di legittimità(268). Non è facile capire quanto questa sia una volontà "ri-costruita" (ma) del soggetto, ovvero una volontà espressa da un decisore sostitutivo, legata essenzialmente al dato oggettivo della totale irreversibilità della condizione patologica, e ad una propria valutazione (in questo caso certamente orientata ai più alti sentimenti di amore e solidarietà verso una figlia) che questa sia la migliore scelta possibile, e soprattutto che sia quello che la persona malata avrebbe deciso se avesse potuto farlo. Ad ogni modo, non è la stessa cosa di una volontà o di un orientamento manifestati espressamente (sebbene non nello stesso contesto temporale) dal soggetto interessato(269). Alla fine, è difficile non vedere che i dubbi legati alla volontà "ri-costruita" indirettamente [attraverso stili di vita, inclinazioni, personalità, e altri parametri "presuntivi"(270)finiscano col costituire un meccanismo indiretto di rivalutazione dello strumento delle direttive anticipate, e della loro idoneità a collegare una decisione terapeutica alla volontà – non più manifestabile – del soggetto. Con tutti i suoi limiti, essenzialmente di attualità e di consapevolezza dell'informazione e della stessa manifestazione di volontà (271), una dichiarazione espressa (per quanto anticipata) sui trattamenti che non si vuole vengano praticati nei propri confronti e in determinate situazioni cliniche, resta pur sempre una garanzia mai pienamente fungibile(272)della corrispondenza della decisione terapeutico-sanitaria alla volontà informata e all'orientamento del soggetto interessato(273). 13. Oltre il rifiuto di cure. Eutanasia attiva e suicidio medicalmente assistito. La mia analisi del fenomeno dell'eutanasia attraverso la lente dei principi costituzionali, e dei significati da essi ricavabili, sebbene con un differente grado di precisione ed univocità, ha avuto, come è parso evidente, un punto di gravitazione nella distinzione tra eutanasia attiva (dentro la quale è possibile ricomprendere anche il suicidio medicalmente assistito) e tutta una vasta serie di situazioni che si situano lungo la linea che dal rifiuto di cure arriva fino alla rinuncia e alla richiesta di interruzione di trattamenti di sostegno vitale, configurabile come eutanasia passiva (ovviamente consensuale). Una distinzione che abbiamo provato a difendere anche laddove oggettivamente le due categorie tendono a confondersi o a sovrapporsi, e diventa davvero complicato dire se una determinata vicenda rientra nell'una o nell'altra; se si tratta semplicemente di non obbligare qualcuno a vivere le ultime fasi della sua vita in balia di una gestione tecnologica inutile e contraria alla sua volontà, realizzando così nient'altro che la pretesa del soggetto "di preservare la propria naturalità"(274), oppure di realizzare un suo diritto (una sua rivendicazione) ad uccidersi o ad essere ucciso. Sta di fatto che questa linea è stata oltrepassata da non pochi ordinamenti, sul piano legislativo. Eutanasia consensuale e suicidio medicalmente assistito sono venuti fuori dal dibattito culturale e giurisprudenziale, e hanno conquistato un posto "formale" nel sistema normativo di alcuni Paesi, superando almeno in parte la convinzione della sent. Rodriguez (v. British Columbia), resa nel 1993 dalla Corte Suprema Canadese, secondo cui «no western democracy expressly permits assisted suicide and that most countries impose criminal penalties for such acts of assistance». Certo, si tratta comunque di eccezioni in un quadro di generale "criminalizzazione", tanto dell'assistenza al suicidio, quanto delle condotte eutanasiche "dirette", anche nei Paesi di common law (quasi tutti gli Stati americani, tutti gli Stati australiani dopo la breve parentesi del Rights of Terminally Ill Act del Northern Territory(275), Canada, Nuova Zelanda, Irlanda, Inghilterra)(276). Appare perciò necessario fare una sintetica panoramica di queste discipline legislative, mettendo in luce le linee di tendenza e le principali soluzioni. Una prima precisazione deve essere fatta. Tutte queste leggi esprimono indubbiamente un "movimento" comune, la scelta di fondo di legalizzare comportamenti che hanno come finalizzazione diretta e specifica quella di uccidere una persona, o di consentirgli di realizzare la sua volontà di suicidio. E tuttavia, physicianassisted suicide ed eutanasia attiva "diretta" [il primo è anche configurato come "eutanasia attiva indiretta"(277)non sono la stessa cosa(278), e in molti casi sono diversi anche i requisiti, i presupposti, le procedure. Cominciamo dal physician-assisted suicide, in relazione al quale le esperienze più rilevanti vengono dagli Usa. Il Death with Dignity Act dell'Oregon (1994) è stata la prima legge a discostarsi dalla tradizione americana del right to refuse medical treatment, spostando "in avanti" il raggio di penetrazione dell'informed consent: non più solo il rifiuto o la rinuncia ad un trattamento medico, ma la richiesta di ottenere un'assistenza farmaceutica per la propria volontà di morire. Secondo questo provvedimento, «un adulto capace residente in Oregon, che il medico curante e il medico consulente certificano afflitto da una malattia terminale e che ha volontariamente espresso il desiderio di morire, può presentare una richiesta scritta di farmaci finalizzata a porre fine alla propria vita in modo umano e degno ai sensi della presente legge» (art. 2.01). Questa legge ha avuto, come si sa, una fase di assestamento molto tormentata. La sua entrata in vigore è stata prima bloccata da un Giudice dell'Oregon, e solo un successivo referendum e il rifiuto della Corte Suprema Federale di pronunciarsi su un ricorso contro la legge, hanno poi permesso che essa venisse in applicazione a partire dal 1997. La questione è tornata ancora alla Corte Suprema nel 2006, dopo che una direttiva del Governo Federale (a firma dell'Attorney General John Ashcroft), fondata sul Controlled Substances Act aveva provato a bloccare la legge disponendo il divieto per i medici di somministrare sostanze per aiutare "intentionally" qualcuno a suicidarsi, sul presupposto che il suicidio medicalmente assistito non è qualificabile alla stregua di una "legittimate medical practice"(279). La Corte Suprema (sent. Gonzales v. Oregon, del gennaio 2006) giudica l'intervento del Governo federale contrario alla separazione ("verticale") dei poteri, sottolineando che «Constitution vests authority over the assisted suicide debate in state legislatures rather the federal Executive». A ben guardare, forse quella della Corte non è soltanto la difesa di un principio di competenza degli Stati. Nella decisione Glucksberg del 1997, la Corte aveva sancito la non incostituzionalità delle leggi che proibiscono il suicidio medicalmente assistito [tuttora presenti nella quasi totalità degli Stati americani(280), lasciando però non del tutto risolto l'interrogativo (che non è affatto contraddittorio, come dimostrano alcuni orientamenti della giurisprudenza statale americana) della sostenibilità costituzionale di leggi opposte a quelle esaminate(281). Sullo sfondo, la Corte segnalava l'esistenza di «an earnest and profound debate» nella società americana sulla legittimità di queste soluzioni che vanno oltre il «withholding/withdrawing medical treatments». Con la sentenza Gonzales, la Corte ci dice che questo dibattito deve continuare, e che la sede più appropriata sono gli Stati, con le loro istituzioni e le loro comunità (282). Un'affermazione di judicial self-restraint, o una prima correzione sostanziale delle posizioni espresse nel precedente del 1997? È troppo presto per dirlo, è probabile comunque che la Corte avrà un'altra occasione di pronunciarsi, perché nel 2008 l'impianto normativo dell'Oregon è stato adottato, attraverso un referendum popolare, anche dallo Stato di Washington(283). Entrambe queste leggi prevedono procedure estremamente minuziose ed accurate per arrivare alla realizzazione del comportamento ammesso. La scelta del modello "autoeutanasico" è chiaramente rivendicata come diversa dall'eutanasia attiva: la legge dell'Oregon è chiara (all'art. 3.14) nell'escludere qualsiasi interpretazione che possa attribuire alle sue disposizioni il significato di «autorizzare un medico o altro soggetto a "terminare" la vita di un paziente con una iniezione mortale o con la pratica dell'eutanasia attiva (…)» (284) . In breve, possono accedere alla procedura di physician-assisted suicide solo pazienti adulti e capaci di intendere e di volere, che soffrano di una malattia allo stato terminale (nella legge di Washington è richiesta anche una prognosi infausta entro i sei mesi), che esprimano volontariamente e per iscritto (alla presenza peraltro di due testimoni) la loro volontà di morire. La diagnosi deve essere confermata e condivisa da due medici, uno dei quali è il medico curante del malato. È sempre possibile, ovviamente, revocare la richiesta; a tal fine, tra la richiesta e la prestazione del farmaco deve intercorrere un lasso di tempo minimo [che va dalle 48 ore (e questo appare eccessivamente "minimo") ai 15 giorni a seconda della modalità di presentazione dell'istanza, rispettivamente scritta e orale](285). Questa rassegna sugli ordinamenti che considerano legale, a certe condizioni, il suicidio medicalmente assistito, può chiudersi con la Svizzera, nella quale la legittimità di tale pratica rinviene il suo fondamento "indiretto"(286)nel fatto chel'art. 115 del codice penale punisce l'aiuto al suicidio solo se commesso "for selfish motives"(287), vale a dire per ragioni egoistiche. In sostanza, se l'assistenza o l'aiuto al suicidio sono finalizzati a permettere al soggetto (che peraltro non deve essere in condizione "terminale" di malattia) una morte dignitosa, non trova applicazione la norma penale(288). Nel suicidio medicalmente assistito la morte è il risultato di una condotta autoeutanasica, per quanto aiutata da un terzo mediante la prestazione di un farmaco letale. Con l'eutanasia attiva anche questo muro viene superato, ed è direttamente il medico a porre fine alla vita del paziente. Olanda e Belgio sono le due espressioni più "avanzate" (o "preoccupanti") del processo di costruzione dell'eutanasia (per mano di un terzo, ma volontaria) come "diritto dell'uomo". Le due legislazioni presentano una sostanziale analogia. Le pochissime differenze [alcune in verità non marginali(289)non impediscono una trattazione comune e sintetica. L'Olanda approda nel 2001 alla legge sulla interruzione della vita su richiesta e sul suicidio assistito dopo un lungo percorso di progressivo riconoscimento della legittimità (290), a certe condizioni, delle condotte eutanasiche volontarie. Un percorso in cui il legislatore ha potuto contare su un retroterra di accettazione culturale e morale del fenomeno molto più diffuso che non in altri Paesi(291), e che ha consentito una serie di passaggi che già nel 1993, pur senza toccare il codice penale (ma agendo solo sulla legge in tema di sepoltura) avevano previsto una deroga alla punibilità dell'omicidio del consenziente, quando ricorrevano determinati requisiti (per lo più ripresi da una complessa elaborazione giurisprudenziale, risalente già agli anni settanta), quali la volontarietà, spontaneità e la ponderatezza della richiesta da parte del malato, il carattere cronico ed insopportabile della malattia, l'assenza di alternative all'atto eutanasico, l'esecuzione scrupolosa dell'atto medesimo, il parere indipendente reso da un altro medico specialista. Con la legge del 2001, questi criteri vengono "stabilizzati" e inseriti direttamente nella sistematica del codice penale, nel senso che ora, anche formalmente, l'eutanasia che rispetti quei presupposti non è più prevista come reato. In sostanza, dalla non punibilità di un fatto astrattamente costituente reato, siamo passati alla non configurabilità del fatto stesso come reato(292). Del 2002 è la legge belga (Act on Euthanasia), chiaramente condizionata dall'esperienza olandese(293). La sequenza procedimentale e la griglia di requisiti di legittimazione dell'eutanasia sono delineate dalle due leggi secondo modalità particolarmente puntuali. Due mi sembrano gli aspetti più rilevanti. Il primo è che la condizione del paziente che chiede e ottiene l'eutanasia non deve avere prospettive di miglioramento e deve essere gravata da sofferenze intollerabili. Non è necessario, però, che la malattia sia ad uno stadio terminale. Una singolare inversione rispetto al modello dell'Oregon, dove invece – come si è visto – il paziente deve essere "terminally ill", sebbene non sia richiesta una condizione di "suffering"(294). L'altro profilo che appare di sicuro interesse e di altrettanto evidente problematicità è la estensione della procedura eutanasica – sempre nelle situazioni prima ricordate – anche ai minori e agli incapaci, con una differenziazione, per i primi, tra la posizione dei cosiddetti "grandi minori" (tra 16 e 18 anni), per i quali i genitori o il tutore debbono essere semplicemente consultati, e i minori di età compresa tra i 12 e i 16 anni, per i quali la legge richiede che ci sia l'assenso dei soggetti che ne hanno la rappresentanza legale(295). Quanto ai maggiorenni (diventati incapaci), sia la legge olandese che quella belga, riconoscono valore alle direttive anticipate, permettendo pertanto l'eutanasia anche in assenza di una volontà "attuale". E questo, in effetti, sembra configurare uno "squilibrio" nel rapporto tra requisiti della volontà ed irreversibilità dell'azione e delle conseguenze(296). Si capisce, allora, perché, da opposti punti di vista, queste due leggi siano considerate il massimo livello di ricoscimento giuridico dell'eutanasia come "diritto dell'uomo", ovvero il punto più alto della deriva di attacco e di relativizzazione del valore della vita. L'eutanasia "pietosa", infine, è stata sostanzialmente depenalizzata in Colombia per effetto di una decisione della Corte Suprema del 1997 (sent. C-239/97 del 20-5-1997)(297). Il modo in cui matura questa posizione della Corte Suprema colombiana è veramente singolare. Il giudizio infatti era stato proposto per sollecitare una dichiarazione di incostituzionalità della norma del codice penale che punisce l'eutanasia pietosa, ritenuta troppo poco severa nel profilo sanzionatorio, e dunque inidonea ad interpretare la funzione primaria di uno Stato democratico che è quella di proteggere la vita delle persone, soprattutto di quelle più deboli. La Corte non solo rigetta l'istanza del ricorrente, giustificando il diverso (e più lieve) regime sanzionatorio dell'omicidio pietoso, quanto soprattutto ribalta la "direzione" del giudizio, esprimendo (una sorta di interpretazione costituzionalmente conforme, e perciò vincolante) la convinzione che l'eutanasia pietosa consensuale, sussistendo alcune gravi ed estreme (terminali) condizioni di malattia e di sofferenza del soggetto, costituisca una "conducta justificada", e perciò non antigiuridica, poiché «(…) si tratta di un gesto di solidarietà determinato non dalla decisione personale di sopprimere una vita, bensì dalla domanda di colui che, per via delle intense sofferenze procurate da una malattia terminale, chiede che lo si aiuti a morire» (298). 14. Eutanasia e Costituzione. Alla ricerca di un inquadramento costituzionale della distinzione tra le diverse ipotesi. Come valutare queste deviazioni dal percorso, pur non lineare e completamente accettato, del "right to refuse medical treatment"? Sul piano costituzionale, quali ragioni possono essere portate a favore o contro queste soluzioni legislative? Questa è la vera questione cruciale su cui si gioca il futuro di tutta questa elaborazione legislativa e giurisprudenziale (oltre che culturale) sui processi di "end-of-life decisionmaking"(299). Forse è vero, come è stato detto, che «non c'è un argomento "da ko"», né sul piano morale né su quello giuridico, «capace di annichilire le resistenze di chi vi si opponga» (300); e che, in particolare, la Costituzione (o le Costituzioni), sia nella loro parte "visible" che in quella "invisible"(301), non siano in grado di dare risposte univoche e definitive su queste nuove sfide della modernità (302), offrendo evidentemente – all'incrocio tra "pluralismo" e "principialismo"(303)– diverse prospettive di ricomposizione e di "ricombinazione" di alcuni suoi "materiali", come "vita", "salute", "dignità", "autonomia"(304). Credo però che sul discrimine tra rifiuto di cure e richiesta (condotta) eutanasica, tra "letting die or nature take its course" e "killing" [con il suicidio medicalmente assistito agganciato a questo secondo versante, quasi come una sorta di "intermediate level"(305), non sia impossibile né irragionevole costruire una diversa collocazione costituzionale dei problemi e delle fattispecie fin qui analizzate. Lasciamo per un attimo da parte la polemica sui "casi limite" (v. retro, a proposito della rinuncia ai trattamenti life-saving). È un problema di classificazione parziale, che non tocca però la sostanziale diversità delle due categorie fenomeniche(306). È rilevante sul piano costituzionale che una vita finisca "naturalmente", anche se dietro l'abbandono al processo naturale c'è o ci può essere spesso una scelta (e dunque la possibilità di un'alternativa) del soggetto(307), e non invece attraverso una condotta a ciò specificamente e direttamente finalizzata? Io penso di sì, che sia possibile almeno rintracciare una preferenza costituzionale per mantenere e giustificare razionalmente questa differenza anche sul piano giuridico. In primo luogo, "the right to refuse medical treatment" è "dentro" il diritto alla salute, ne costituisce l'altra faccia, la parte nascosta, non coercibile della salute come scelta autonoma su (e prima ancora percezione di) sé stessi, che presuppone anche valutazioni morali, interiori. Non si può dire lo stesso per il (preteso) diritto di essere uccisi o aiutati a morire in circostanze di malattia terminale. La Costituzione non lo riconosce; nessuna Costituzione lo fa. Questo potrebbe non significare automaticamente (per riflesso) che si tratta di un comportamento apertamente e assolutamente vietato: tra riconoscere un comportamento come "diritto" e vietarlo, c'è una fascia intermedia di possibili soluzioni regolative. Tuttavia, sono due ipotesi alle quali non è possibile – dal mio punto di vista – (o dovrei dire: non è ancora possibile?) attribuire lo stesso grado di rilevanza e la stessa copertura costituzionale. L'una (il right to refuse), con tutti i suoi limiti e i rischi di fraintendimento, è radicata su una situazione giuridico-soggettiva chiaramente riconosciuta e protetta dalla Costituzione, direttamente (nella forma della tutela del diritto individuale alla salute e della limitazione-esclusione dei trattamenti sanitari obbligatori) o indirettamente (attraverso il richiamo a clausole dal significato ampio come, nell'esperienza americana, quelle della privacy o del due process, ovvero alle tradizioni costituzionali alimentate dall'elaborazione giurisprudenziale e legislativa). L'altra, quella del "diritto" all'eutanasia o al suicidio medicalmente assistito, non può contare sullo stesso aggancio costituzionale. L'obiezione che mi si può fare è che il riferimento costituzionale potrebbe essere anche qui ricostruito in via "indiretta"(308), all'ombra dei significati di clausole come la libertà e l'autonomia morale di ciascun individuo, il pieno sviluppo della persona, la libertà di coscienza e di manifestazione del pensiero(309)– che appunto potrebbero contenere un diritto a non soffrire, e a chiedere un intervento attivo per eliminare questa sofferenza insostenibile –, o lo stesso diritto alla vita rovesciato nel suo contrario(310). In fondo è quello che viene adombrato nella decisione sul caso Haas, laddove la C. Dir. Uomo aggancia al "carro assiologico" del rispetto della vita privata, «il diritto di un individuo di decidere in che modo e in quale momento la sua vita deve terminare, a condizione che sia in grado di formarsi liberamente la propria volontà in proposito e di agire di conseguenza, (…)». Ma appunto, siamo di fronte ad operazioni complesse, "eccentriche" rispetto al processo di "accumulazione" di contenuti che ha riguardato le figure tipiche del costituzionalismo dei diritti, e soprattutto ancora molto lontane dal raggiungere risultati di una qualche "stabilità" e condivisione. I diritti non sono (e non devono essere considerati alla stregua di) "un bene abbandonato che chiunque può far suo e per qualunque scopo", ha scritto Peces-Barba(311). Parlare di "diritto" o di "pieno sviluppo della persona" in relazione ad un atto che sopprime l'individualità, e dunque la possibilità stessa di esercitare ancora una libertà e un'autonomia di scelta (e di cambiare eventualmente una scelta precedente), mi sembra una sorta di "auto-rottura" della razionalità e del linguaggio dei diritti(312). È vero che un ragionamento di questo tipo potrebbe valere anche per il diritto di rifiutare le cure, tuttavia in questo caso la scelta del soggetto – oltre alle connotazioni almeno tendenzialmente ordinarie di "non istantaneità" e "non definitività" degli effetti, e di non volontarietà specifica delle conseguenze letali – non pretende di alterare, ma anzi si "adegua" ai processi naturali della vita e della morte(313). In secondo luogo, come ho appena detto, la costruzione del "diritto di morire" (anche attraverso una condotta direttamente eutanasica o "suicidiaria") appare ancora largamente contrastata sul piano legislativo e giurisprudenziale. Abbiamo davanti "emersioni" assolutamente "minoritarie", che si pongono tuttora come vere e proprie eccezioni rispetto ad una generale posizione di rifiuto di questa opzione; e questo non può non avere una rilevanza sul piano della riconoscibilità in via interpretativa di significati costituzionali, e dunque sulla capacità di assestamento e sulla stessa "coherence" di questi schemi interpretativi. Entrambe queste ipotesi ricostruttive del "right to die" (come "letting die" o nella prospettiva dell'eutanasia diretta e del suicidio medicalmente assistito) hanno però di fronte il valore e il principio della protezione della vita. Un principio che, sebbene non possa più giocare quel ruolo di ostacolo "aprioristico" ed insuperabile per qualsiasi discorso che coinvolga la possibilità stessa di legittimare comportamenti (anche meramente astensivi o di rinuncia) che incidono negativamente sulla salute e sulla vita di un soggetto, resta pur sempre un bene fondamentale «por su directa conexiòn con la misma conservaciòn del nucleo social» (314) . A questa stregua, non sembra indifferente che la erosione del principio di intangibilità della vita avvenga sulla base di un (altro) titolo di legittimazione costituzionale sicuro, incontroverso, e attraverso modalità che mirano a preservare la propria naturalità, gravata dalla malattia, ed essenzialmente a vivere "non clinicamente" i momenti finali della propria esistenza; ovvero sulla base di un riferimento costituzionale tuttora (almeno) incerto e "instabile" nei percorsi di riconoscimento e stabilizzazione, e attraverso una condotta che è direttamente orientata a "dare" la morte, ad alterare istantaneamente un processo naturale, anche se per motivi che possono essere altruistici e solidaristici. Su questa disomogeneità, è possibile mantenere un discrimine abbastanza solido nella valutazione costituzionale delle due ipotesi di "right to die", che in qualche misura avvalora le ragioni di opportunità (non prive peraltro di connessioni giuridiche) che da più parti sono state sollevate contro la legalizzazione dei comportamenti eutanasici "diretti". Mi riferisco soprattutto alla profonda alterazione della identità morale-professionale del medico(315)[motivo che, ad esempio, è alla base della posizione nettamente contraria dell'American Medical Association a tutto ciò che vada oltre il rifiuto di cure, anche salva-vita(316), ai rischi di abuso e di "estensione" dei confini eventualmente stabiliti per il riconoscimento giuridico dell'eutanasia o del suicidio assistito [già registrati nell'esperienza olandese(317), e che possono toccare soprattutto le persone più deboli, e più esposte a processi di "induzione" (per motivazioni e da parti diverse) dell'autodeterminazione(318), infine al riflesso che ammettere o vietare il suicidio medicalmente assistito e l'eutanasia diretta, ha indubbiamente sul piano generale dei valori e delle norme sociali(319), sulla percezione del valore della vita e della forza del "divieto generale di uccidere"(320). 15. Conclusioni. Il legislatore italiano di fronte alla sfida dell'«eutanasia». Al di là delle valutazioni giuridiche, come si è visto molto complicate ed opinabili, questo dell'eutanasia è un tema che ha ormai preso un posto centrale nel dibattito sociale del nostro tempo (anche in Italia), e che sarà ulteriormente alimentato da altri casi, soprattutto se dovesse permanere questo stato di fluidità del parametro legislativo. Un problema culturale, politico, di questa portata, non lo si può affrontare solo nelle Aule dei Tribunali, e sul piano del confronto interpretativo, e della "singolarità" delle soluzioni giurisprudenziali. La stessa "norma giudiziaria" ha bisogno di un quadro di riferimento che possa orientarne il lavoro di traduzione interpretativa di principi e concetti giuridico-costituzionali ad elevata indeterminatezza. I tempi sono più che maturi perché il Parlamento si assuma la responsabilità di intervenire, e di approvare una legge sul fine vita. Non c'è solo un problema di diritti o di libertà di singole persone coinvolte nelle endof-life decisions, ma questioni più generali, che attengono anche all'organizzazione del servizio sanitario, al rapporto tra paziente-medico-struttura sanitaria, alle esigenze di un uso razionale delle risorse finanziarie e strumentali, al modo complessivo di considerare queste nuove issues che emergono da «this intersection of medicine and technology and humanity and the law all the time» (321). Nella decisione con cui ha respinto il conflitto di attribuzioni proposto dal Parlamento nei confronti delle Corti che hanno deciso il caso Englaro (ord. 334/1988), il Giudice costituzionale ha invitato il legislatore a ricercare «adeguati punti di equilibrio tra i fondamentali beni costituzionali coinvolti». Questo significa sicuramente qualcosa in primo luogo sul piano dei contenuti che la legge dovrebbe assumere per essere appunto coerente con questo assetto "bilanciato" delle soluzioni regolative. Trovare "adeguati punti di equilibrio" richiede che nessuno dei valori in gioco sia totalmente affermato o negato. Provando a scendere sul terreno concreto della identificazione dei principi di riferimento, in una legge sugli end-of-life cases che voglia essere costituzionalmente sostenibile alla luce di questo criterio tracciato dalla Corte, sia il principio dell'intangibilità e della protezione della vita che il principio dell'autodeterminazione terapeutica devono poter giocare un ruolo importante ma non esclusivo. La vita di una persona non può essere ridotta a mero oggetto della volontà e delle pulsioni individuali, quali che siano le modalità e le situazioni in cui si chiede di poterne disporre. D'altro canto, richiamare la indiscutibile primarietà di questo valore della vita come "presupposto" di tutti gli altri diritti della persona e della stessa ordinata convivenza civile, non può servire a chiudere di per sé la partita: rifiutare o rinunciare a trattamenti terapeutici, anche a costo di abbandonarsi al decorso naturale della malattia e di accelerare il "processo del morire", può essere un diritto legittimamente esercitabile in presenza di alcune condizioni patologiche o in rapporto a determinate convinzioni morali e personali. Dentro questo "range" in cui nessun valore può essere completamente sacrificato, c'è spazio, come si è fatto rilevare, per scelte che possano – nelle diverse situazioni particolari (pensiamo ai casi di pazienti in SVP, ai trattamenti di "nia") – accentuare l'uno o l'altro dei due "pilastri". Anche il metodo della decisione legislativa può avere un riflesso positivo sulla ricerca dell'equilibrio "sostanziale". Si è sempre sostenuto che le leggi in tema di bioetica dovrebbero avere un approccio "mite". Si può essere d'accordo, a condizione di non trasformare la "mitezza" in una sorta di alibi per discipline troppo generiche ed inconcludenti. Anche perché, a volte, non decidere ha delle conseguenze tutt'altro che "miti"(322). Per altro verso, una legge che prende posizione non è per forza di cose un muro non più superabile. L'intervento popolare attraverso il referendum, il lavoro della magistratura sul piano dell'applicazione ai singoli casi o della verifica della ragionevolezza costituzionale (in collaborazione con il Giudice costituzionale), l'impatto condizionante che può derivare da decisioni dei Giudici "sovranazionali" (da noi soprattutto la C. Dir. Uomo), possono sempre rimettere in discussione le cose, e indicare nuovi livelli di bilanciamento. Sarebbe positivo se ciò avvenisse ordinariamente, vale a dire come prassi legislativa di "manutenzione" e verifica. In questo senso, l'esperienza francese delle leggi sulla bioetica, sottoposte ad una revisione periodica contrassegnata da un ampio coinvolgimento delle strutture tecnico-consultive e degli stessi cittadini, costituisce un tipico modello "procedure-oriented": l'ultima legge in ordine di tempo, la n. 814/2011, è stata approvata attraverso un processo partecipativo che si è tradotto nella forma – particolarmente "avanzata" – degli États généraux de la bioétique, e che ha registrato la consultazione, da parte del decisore legislativo, di vari apparati tecnico-scientifici, come l'Agenzia Nazionale sulla biomedicina, e la Commissione nazionale consultiva per l'Etica nelle Scienze della vita e nella sanità (323). Pensiamo solo alle conseguenze che sull'impianto – originariamente rigido – della legge sulla procreazione medicalmente assistita (legge n. 40/2004), hanno avuto (e avranno) le soluzioni interpretative di alcuni Tribunali (ad esempio in tema di diagnosi pre-impianto), la decisione della Corte costituzionale sulla illegittimità ed irragionevolezza della norma che prevede un numero fisso di embrioni da impiantare a prescindere dalle esigenze concrete legate alla salute della donna (n. 151/2009). Due dovrebbero essere, dal mio punto di vista, i presupposti metodologici per una buona legge sul "decisionmaking" alla fine della vita, e, più in generale sulle questioni bioetiche(324): In primo luogo, Il legislatore dovrebbe abbandonare la tentazione di fare "da solo", trascurando il contributo importante che può venire da altri soggetti e da altre risorse procedurali. Con riguardo alle decisioni di fine vita, si sono ormai delineati dei punti di consolidamento, nell'interpretazione giudiziaria, nella prassi medica alla luce del codice deontologico. Sarebbe sbagliato pensare di accantonarli completamente, caricandosi una responsabilità esclusiva che poi non riuscirebbe a reggere l'impatto della domanda sociale(325). Al di là del conflitto sul caso Englaro, la posizione della Suprema Corte di Cassazione contiene delle "basi interpretative" che in larghissima parte sono costituzionalmente equilibrate(326), e ben inserite in un contesto più largo di circolazione e di influenza reciproca dei "formanti" culturali e giurisprudenziali. Si può discutere su come disciplinare la situazione dei soggetti in SVP, su come ricostruire la volontà del soggetto non più capace, ma partendo dalle premesse indicate in quella decisione(327). L'errore del disegno di legge Calabrò, tanto per fare un esempio diretto, è stato proprio in questo(328): aver pensato ad una legge sul fine vita per "regolare i conti" con la magistratura, e per prendersi una sorta di "rivincita" rispetto all'esito del conflitto di attribuzioni e dello scontro con il Presidente della Repubblica sul decreto legge, e al fallimento delle altre iniziative (come la direttiva "Sacconi" sul divieto di interruzione della "nia" basato sulla Convenzione sui diritti dei disabili, o l'atto di indirizzo della Regione Lombardia che di fatto mirava ad impedire alle strutture sanitarie pubbliche di dare attuazione al pronunciamento definitivo della magistratura) con le quali soprattutto una parte dello schieramento politico italiano ha provato a disattivare le decisioni della Magistratura rese nell'ambito del giudizio Englaro. Ed è singolare che quasi contemporaneamente a questo "accanimento" legislativo (tentato)(329), lo stesso Parlamento abbia votato una legge sulle cure palliative (la n. 38/2010) che si basa su premesse culturali completamente diverse da quelle sostenute e "veicolate" nel d.d.l. Calabrò: consapevolezza della dimensione complessa (fisica e psichico-relazionale) della salute, importanza dell'autonomia come principio fondamentale della relazione terapeutica, attenzione alla "qualità" della vita come percepita e valutata dal soggetto malato, nella intimità della sua sfera esistenziale. Secondo profilo: il rapporto tra discrezionalità politica e dato tecnico-scientifico. Sulle questioni bioetiche, e quindi anche sui casi di fine vita, l'evoluzione delle cognizioni scientifiche e delle soluzioni tecniche applicative, piaccia o no, diventa un fattore di co-produzione del diritto(330). Nello specifico, il modo come la scienza medica definisce situazioni come lo SVP, o tecniche come le procedure di "nia", o standard per accertare le condizioni cliniche di un soggetto, non può essere estromesso dal processo di configurazione giuridico-normativa di questi stessi elementi(331). La razionalità scientifica diventa, in relazione a questi argomenti, un "pezzo" del giudizio di ragionevolezza, e di legittimità costituzionale di una legge(332). In questo senso, vanno le chiare affermazioni della Corte costituzionale nellasent. 282/2002, in tema di terapie elettro-convulsionanti, e nella sent. n. 151/2009, in tema di procreazione medicalmente assistita(333). Il biodiritto, in sostanza, ha bisogno del dialogo tra i due sistemi, quello politico-legislativo, e quello scientifico, come elemento di "qualità" sostanziale del prodotto normativo. C'è un'altra, non meno importante strada rispetto a decidere su quello che si può fare e quello che invece è inammissibile, che il legislatore dovrebbe percorrere, e che va, in un certo senso, alle radici culturali, sociali, di questa nuova domanda di "diritto". Il legislatore deve avvertire come fondamentale il compito di offrire dei rimedi alla solitudine talvolta disperata dei pazienti in condizioni terminali ed inguaribili, e delle loro famiglie. Chi chiede di essere lasciato (o aiutato a) morire non lo fa solo perché le sofferenze e i sintomi "esteriori" della malattia, unite all'assenza di speranza di guarigione, possono essere talvolta insostenibili(334). Spesso, una richiesta di questo tipo nasconde un'esigenza diversa, di solidarietà materiale e sociale, di servizi adeguati ai malati in condizioni terminali e ai loro bisogni esistenziali di quella delicatissima, ultima, fase della vita. La promozione effettiva delle cure palliative(335)che non sono una risorsa complementare rispetto all'eutanasia, ma al contrario una alternativa ai due estremi dell'eutanasia e dell'accanimento terapeutico(336); la creazione di molte (e diffuse sul territorio) strutture di assistenza e di sostegno materiale e psicologico per il malato e i suoi familiari, l'incentivazione del modello degli hospices(337), la individuazione come livelli essenziali di determinate risorse [come ad esempio le attrezzature tecnologiche per consentire ai malati di sla di comunicare(338); tutte queste cose (e molte altre) possono costituire un'alternativa concreta per consentire di mantenere, fino alla fine, la "qualità" e il senso umano e dignitoso della propria esistenza. Anche su questo, la nostra Costituzione [penso soprattutto all'art. 38, 2° co.(339), è più "significante" e attuale di quanto talvolta si pensi. ----------------------(1) TRIPODINA, «Eutanasia», in Diz. Cassese, III, Milano, 2006, 2369; A. CERRI, Osservazioni a margine del caso Englaro, inwww.astrid-online.it, 2009, 5. È R. DWORKIN, The Right to Death, in The New York Review of Books, XXXVIII, n. 3, 31 jan. 1991, a dire, a proposito di uno dei casi più celebri in tema di end-of-life decisions, che «the tragedy of Nancy Cruzan's life is now part of American Constitutional Law». (2) In termini GEMMA, Diritto a rinunciare alla vita e suoi limiti, in Scritti in onore di L. Carlassare, III, Napoli,, 1030, che parla apertamente di incostituzionalità delle norme penalistiche nella parte in cui ricomprendono anche ipotesi in cui esiste un diritto a por fine alla propria vita anche con l'intervento di terzi. (3) Su questo "cambio di paradigma", v. F. REY MARTINEZ, Eutanasia y derechos fundamentales, Madrid, 2008, 92. Come rileva Y. KAMISAR, The Rise and Fall of the Right to Assisted Suicide, in FOLEY-HENDIN (ed.), The Case against Assisted Suicide, Baltimore-London, 2002, 69, «Throughout most of American history no one would have supposed biomedical policy could or should be made through constitutional adjudication (…) However, Roe v. Wade and Cruzan v. Director (…) were to change all that». (4) Sulla difficoltà di capire quando ricorre accanimento terapeutico, o uso sproporzionato delle risorse mediche, v. F.MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, Criminalia, 2006, 77. (5) Che portano a preferire termini e concetti più vasti, come "dignità del morente", "diritto a scegliere la propria morte" o "right to die", come rileva S. MAFFETTONE, Il valore della vita, Milano, 1998, 268. (6) Come rileva P. ZATTI, Maschere del diritto, Volti della vita, Milano, 2009, 229, vi sono concetti giuridici che paiono destinati a condurre l'interprete e il giudice a sperimentare i confini del proprio compito e degli strumenti loro affidati: i limiti del diritto e della giurisdizione. L'idea di salute è uno di questi. V. altresì M. PORZIO, «Eutanasia», in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 103, secondo cui «Con la parola eutanasia risultano sul piano storico designati situazioni e comportamenti notevolmente diversi fra loro»; l'A. sottolinea perciò le scarse capacità orientative del vocabolo. (7) Cfr. E. LECALDANO, Bioetica. Le scelte morali, Roma-Bari, 2009, 47, che scrive: «in questi casi la morte di un essere umano si sviluppa come un processo lunghissimo e innaturale». Sull'accanimento della tecnica rispetto alla naturalità di certi fenomeni, v. D. CALLAHAN, The Trobled dream of life, New York, 1999. (8) Come sottolinea acutamente S. RODOTÀ , Tecnologie e diritti, Bologna, 1995, 144, «dove esistevano necessità, oggi sono possibili scelte». Sull'artificialità che «(…) consente scelte e decisioni dove prima regnavano il caso e il destino»; v. anche R. CHUECA RODRIGUEZ, El marco constitucional del final de la propria vida, in Rev. Española de Derecho Constitucional, 2009, n. 85, 104, secondo cui «la muerte ha transformado su naturaleza, desde la condiciòn de hecho natural, a una especie de proceso en el marco del cual pueden tomarse decisiones». (9) D. CARUSI, Tutela della salute, consenso alle cure, direttive anticipate: l'evoluzione del pensiero privatistico, RCDP 2009, 1, 15, secondo cui la possibilità del prolungamento della vita, la spinta possente della tecnica in direzione della maggiore possibile "quantità" di vita, rende distinguibili dal punto di vista biopsichico diverse "qualità" della vita. Sia consentito, in tema, il rinvio ad A. D'ALOIA, Diritto alla salute e rifiuto delle cure anche in situazioni "estreme". Una prova difficile per il diritto costituzionale e la teoria dei diritti fondamentali, in Il diritto come prassi. I diritti fondamentali nello Stato costituzionale, a cura di Pomarici, Napoli, 2010, 134-135. (10) Cfr. C. VIGILANTI, Le D.A.T. (Dichiarazioni anticipate di trattamento), ovvero quando il diritto diventa latitante, inwww.forumcostituzionale.it, 2010, 2; nonché G. VOLPE, Per una dimensione umana della morte, GP, 1993, 154, e I. ILLICH,Nemesi medica. L'espropriazione della salute, Milano, 1976, 144. (11) Anche E. LECALDANO, «Eutanasia», in Encicl. Delle Scienze Sociali, III, Roma, 1993, 710, sottolinea che gli esseri umani possono essere fatti sopravvivere anche di fronte a gravi e irreversibili situazioni di funzioni biologiche essenziali. Cfr. anche le riflessioni di GALIMBERTI, Il corpo, Milano, 1994, 46, che parla di «cadaveri resuscitati dal sapere scientifico», eDEFANTI, Vivo o morto?, Milano, 1999, 67. (12) È questo il punto di forse di maggior interesse per il costituzionalista, come rileva A. RAUTI, Certus an, incertus quando: la morte e il diritto del paziente all'«ultima parola» fra diritto, etica e tecnica, in FALZEA (ed.), Thanatos e Nomos. Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, Napoli, 2009, 266/267. (13) L. BATTAGLIA, Bioetica senza dogmi, Soveria Mannelli, 2009, 267. Cfr. H. JONAS, Il diritto di morire, Genova, 1991, 7: «diritto di morire, che strana combinazione di parole!». (14) È il titolo (in francese) del libro di A. KAHN, L'ultime liberté , Paris, 2008. In GIORELLO-VERONESI, La libertà della vita, Milano, 2006, 63, si legge che «un individuo cui quel diritto (il diritto di morire) viene negato è per ciò stesso un oppresso, in quanto viene privato della più piena ed estrema espressione della propria autodeterminazione». (15) MEISEL-CERMINARA, The Right to Die. The Law of End-of-Life Decisionmaking3, Aspen Publishers, 20062010, 1-3/1-4, che tuttavia rilevano ormai come tale formulazione sia sostanzialmente "equated" con quella di "euthanasia", e che, nel linguaggio comune, il "right to die" sia un aspetto del "right to refuse medical treatment". (16) Per l'inserimento della tematica del rifiuto di cure come primo livello della problematica eutanasica, v. C. TRIPODINA,Intervento al Forum L'eutanasia tra bioetica e biodiritto, Riv. dir. cost., 2007, 348-349, che riconduce appunto al tema il rifiuto consapevole di cure da parte del paziente, che il medico è tenuto a rispettare ai sensi dell'art. 35 del codice deontologico, come forma di eutanasia passiva volontaria o consensuale. (17) RIPEPE, Intervento al Forum L'eutanasia tra bioetica e biodiritto, cit., 347; SMORTO, Note comparatistiche sull'eutanasia,Diritto e Questioni Pubbliche, 2007, 7, 144. Contesta la parziale sovrapposizione tra diritto di rifiutare le cure ed eutanasia passiva consensuale, ritenuta un'espressione impropria e fuorviante, F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 61-62; in tal senso, anche P. CENDON, I malati terminali e i loro diritti, Milano, 2003, 202. (18) Sulla capacità "comprensiva" dell'espressione "right to die", v. GENTILI, Come colmare il divario tra diritto e società? In cerca di coerenza tra "right to die", suicidio assistito ed eutanasia in Canada, in Forum Biodiritto 2008, Percorsi a confronto. Inizio vita, fine vita e altri problemi, a cura di Casonato-PiciocchiVeronesi, Padova, 2009, 353. MEISEL-CERMINARA, op. cit. (19) Per F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 70, è questa la forma più grave di eutanasia, che si connota per una triplice offensività, «in quanto violazione: a) del principio della salvaguardia della vita; b) del principio del consenso (…); c) del principio dell'eguaglianza e della pari dignità dei soggetti, cioè di essere rispettati nel loro diritto alla propria morte: di vivere il proprio morire e di non essere privati dell'esperienza del proprio dolore e della propria irripetibile morte (conciliativa, liberatoria o angosciante che sia)». (20) Non a caso A. KAHN, op. cit., 29 ss., ne parla "al plurale": "les euthanasies". Vedi, per una rassegna delle diverse definizioni e significati, M. OTLOWSKI, Voluntary Euthanasia and Common Law, Oxford, 1997, 4-7. (21) Così C. VIGILANTI, Le D.A.T., cit., 12. (22) E. LECALDANO, Eutanasia, cit., 710. (23) CHECCOLI, Brevi note sulla distinzione tra eutanasia attiva e passiva, in www. forum costituzionale.it, 410-2008, 2 e 6. (24) In termini, v. P. SINGER, Practical Ethics2, Cambridge, 1993, 175; e D. NERI, Eutanasia, valori, scelte morali, dignità delle persone, Roma-Bari, 1995, 13. Sui presupposti "oggettivi" dell'eutanasia, non sempre invero presenti allo stesso modo in tutte le legislazioni che hanno regolato questo tema, v. F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 57; edRIPEPE, op. cit., 347. (25) Per queste classificazioni, e per le relative espressioni definitorie, si è fatto riferimento all'ampio ed attento studio di C. VIGILANTI, Le D.A.T., cit., 10-11. V. anche CHECCOLI, op. cit., 2 e 6-7. (26) V. P. ZATTI, op. cit., 231, e 234-235, secondo cui «ciò non significa che lo standard sia irrilevante, che la competenza medica sia fuori causa, ma solo che la valutazione dello stato del paziente in termini di salute è necessariamente dialettica, (…) e non può obliterare la coscienza del paziente». (27) F. MODUGNO, I "nuovi diritti" nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 1995, 16 ss., parla di "diritto implicito". (28) VIOLINI, Bioetica e laicità , in AA.VV., Problemi pratici della laicità agli inizi del secolo XXI, (Annuario Associazione Italiana dei Costituzionalisti), Padova, 2008, 226; NICOTRA, "Vita" e sistema dei valori nella Costituzione, Milano, 1997, 29, 63, 103 ss. (29) Sulle molte indicazioni costituzionali, sia esplicite che implicite, che riguardano la tutela del diritto alla vita, v. G.GEMMA, «Vita (diritto alla)», in Digesto/pubbl., XV, Torino,1999, 680 ss. (30) Così anche l'art. 1, 1° co., lett. a), del d.d.l. unificato in tema di Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento, al momento in discussione al Senato dopo l'approvazione con modifiche alla Camera dei deputati in data 12-7-2011. (31) Per F.D. BUSNELLI, Vicende di fine vita, in Diritto alla salute e alla "vita buona" nel confine tra il vivere e il morire. Riflessioni interdisciplinari, a cura di Stradella, Pisa, 2011, 133, «in dubio pro vita, dunque; senza mai superare, beninteso, il confine dell'accanimento terapeutico». Una recente sent. della Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. IV, n. 13746/2011) ha affermato il principio in forza del quale nemmeno il consenso della persona malata può legittimare un'operazione chirurgica non in grado di recare al malato nessun apprezzabile beneficio o speranza di migliorare la propria condizione, quando tale intervento produce un aggravamento delle condizioni e la morte del soggetto (in questo caso, si trattava di un intervento di laparatomia tradizionale, dal quale era derivato un processo emorragico letale); su questa decisione, v. G. GRASSO, Consenso informato, libertà di scelta e disponibilità del proprio corpo, in Lo statuto giuridico delle informazioni, a cura di Cocco, Milano, 2012, 56. (32) In un parere del Consiglio Superiore di sanità del 2006 si legge, come definizione dell'accanimento terapeutico, la seguente formulazione: «somministrazione ostinata di trattamenti sanitari in eccesso rispetto ai risultati ottenibili e non in grado, comunque, di assicurare al paziente una più elevata qualità della vita residua, in situazioni in cui la morte si preannuncia imminente ed inevitabile»; per BUSNELLI, Intervento al Forum L'eutanasia tra bioetica e biodiritto, cit., «L'accanimento terapeutico è una nozione che non appartiene alla nostra tradizione (…). Ed è un concetto di misura: non lo si può fissare, perché è una linea e non un punto. In ragione di ciò, credo che una discrezionalità personale del medico sia ineliminabile». (33) Per una distinzione tra queste due tipologie, v. ancora P. SINGER, op. cit., 176 ss., per il quale «Euthanasia is involuntary when the person killed is capable of consenting to her own death, but does not do so, either because she is not asked, or because she is asked and chooses to go on living. Non-voluntary euthanasia occurs when the individual is incompetent to consent to or refuse euthanasia and has made no prior decision». (34) Il riferimento è al caso Forzatti, sent. Ass. A. Milano, 21-6-2002, n. 23, GDir, 2002, 40, 47 ss.; sulla vicenda, v.PICIOCCHI, Le fonti del biodiritto: la complessità del dialogo, in CASONATO-PICIOCCHI, Biodiritto in dialogo, Padova, 2006, 93 ss. Per uno sguardo ad altri ordinamenti, v. a proposito della "exception d'euthanasie", (solo) proposta dal CCNE (Comité Consultatif National d'Ethique pour les sciences de la vie et de la santé), mai accolta dal legislatore francese anche se probabilmente applicata nel caso Humbert, E. PULICE, La disciplina del fine vita nell'ordinamento francese, in Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, a cura di D'Aloia, Napoli, 2012, 4-5 dell'estratto; e A. KAHN, op. cit., 75, e 115 ss. (35) C. CASONATO, Il fine-vita bel diritto comparato, fra imposizioni, libertà e fuzzy sets, in Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, cit., 13 dell'estratto, secondo cui «pare insomma delinearsi un quadro d'insieme in cui ordinamenti appartenenti a tradizioni giuridiche anche assai diverse, di civil law come di common law, sono accomunati dall'esigenza di superare un diritto penale (ed in particolare i reati di omicidio del consenziente ed assistenza al suicidio) che pare ai giudici, alle giurie, talvolta alla stessa pubblica accusa troppo rigido ed incapace di trattare con proporzione ed equità le caratteristiche peculiari di casi che, grazie alle tecniche rianimatorie e di sostegno vitale, sempre più frequentemente emergono ed emergeranno nell'ambito del fine-vita». (36) Il riferimento è al celebre caso di Debbie Purdy del 2009, su cui v. Ch. BARON, The Right to Die: Themes and Variations, in Trattato di biodiritto, a cura di Rodotà-Zatti, Il Governo del Corpo, a cura di Canestrari, Milano, 2011, 1857 ss. In particolare, la rinuncia all'azione penale riguarda le ipotesi in cui «(…) the victim had reached a voluntary, clear, settled and informed decision to commit suicide; the suspect whose wholly motivated by compassion; the actions of the supspect although sufficient to come whithin the definition of the offence, where of only minor encouragement or assistance; the suspect had sought to dissuade the victim from taking the course of action which resulted in his or her suicide; the actions of the suspect may be characterized as reluctant encouragement or assistance in the face of a determined wish on the part of the victim to commit suicide; the suspect reported the victim's suicide to the police and fully assisted them in they enquiries into the circumstances of the suicide or the attempt and his or her part in providing encouragement or assistance». In tema, v. l'interessante contributo di L. SCAFFARDI, Decisioni di fine-vita in Inghilterra e Galles. Le più recenti polizie in materia di aiuto al suicidio, in Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, cit.; nonché M.MORI, Svolta storica sul fine vita in Inghilterra: lo sgretolamento del vitalismo prosegue inarrestabile, Bioetica, 2010, 1, 5 ss. (37) Come sostiene P. ZATTI, op. cit., 301, si tratta del diritto a rifiutare mezzi medici per il prolungamento della vita (anche 305, dove afferma: la questione non è se sia nel migliore interesse del paziente di morire, ma se sia nel suo miglior interesse subire un trattamento che prolunga la vita). (38) Come nota C. VIGILANTI, Le D.A.T., cit., 19, «L'interruzione del trattamento non altera la naturalità dell'evento morte, ma anzi impedisce che ciò avvenga, e rappresenta il segno del limite della medicina». (39) Cfr. CATTORINI, La morte offesa, Bologna, 1996, 19, secondo cui il rifiuto di un trattamento medico sproporzionato «non equivale alla ricerca della morte in nome della indegnità del vivere, ma piuttosto alla ricerca di una modalità di vita più degna, anche se più breve». (40) Sull'incoercibilità del dovere di vivere, v. SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, RIDPP, 1995, 725; e, da ultimo, F. REY MARTINEZ, Eutanasia, cit., 147, 155. (41) Vedi GEMMA, Diritto a rinunciare alla vita e suoi limiti, cit., 1028, secondo cui non è configurabile un interesse pubblico così estensivo da comportare l'imposizione di un'esistenza individuale piena di sofferenza. (42) P. BARILE, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, 59. (43) Come fa ad esempio CORRADINI, Democrazia, suicidio, eutanasia, MSCG, 1992, 177. (44) Per una valutazione critica di questa formula concettuale, v. John B. MITCHELL, Understanding assisted suicide. Nine issues to consider, Ann Arbor (University of Michigan Press), 2007, 141-142, aggiungendo: «So, even if I have a right to live (which is questionable), the state does not necessarily have to let me waive that right». (45) Si può leggere, nel senso prospettato («Michigan did not criminalize suicide not mean that suicide is a right»), una sentenza della Corte Suprema del Michigan, People v. Kevorkian (527 N.W. 2d 714, 447 Mich. 436, del 1994) ; v. anche, nello stesso senso, John B. MITCHELL, op. cit., 135 ss. Come ho sostenuto in A. D'ALOIA, "Diritto" e "diritti" di fronte alla morte. Ipotesi ed interrogativi intorno alla regolazione normativa dei comportamenti eutanasici, in Bioetica e diritti dell'uomo, a cura di Chieffi, Milano, 2000, 186, «(…) si tratterebbe di uno strano diritto soggettivo: inutilizzabile se non una volta sola, perché la sua eventuale utilizzazione sarebbe di fatto irreversibile producendo l'annullamento dell'oggetto stesso del diritto, non giustiziabile rispetto a comportamenti contrati, riuscendo arduo immaginare una imputazione di responsabilità e la conseguente sanzione a carico di qualcuno (ad esempio per violenza privata) che impedisse anche coattivamente il suicidio di una persona». (46) C. MANCINA, La laicità al tempo della bioetica, Bologna, 2009, 81. (47) H. JONAS, op. cit., 50. (48) In generale, critica lo stato del dibattito bioetico in Italia, RIPEPE, op. cit., 345-346, parlando di «un mero alternarsi di monologhi (…): una specie di partita di ping pong tra cattolici e laici, in cui tutto quello che hanno da dire gli uni e gli altri appare scontato in partenza, e ognuno continua a tirare imperterrito le sue prevedibili racchettate senza curarsi di rispondere a quelle dell'altro, e senza nemmeno cercare un accordo con lui sulle regole del gioco». Dietro l'apparente radicalità dello scontro laici/cattolici, è possibile registrare anche posizioni in qualche misura più inclini al confronto e alla ricerca di punti di mediazione, o semplicemente cariche di significati da esplorare e da "contestualizzare": si pensi alle tesi espresse da H. KUNG, Il diritto di morire con dignità , trad. it., Milano, 1997; ovvero al documento della Congregazione della dottrina per la fede, del 5-3-1980, che in alcune parti sembra prefigurare la recessività del dovere di curarsi rispetto a cure "sproporzionate", e la rinunciabilità di trattamenti che procurerebbero solo un prolungamento penoso e precario della vita, nell'imminenza di una morte inevitabile; ad alcuni passaggi del Discorso di Papa Paolo VI al Congresso dei Medici Cattolici del 1970 (in L'Osservatore Romano, 12/13-101970) in cui il Pontefice afferma: «il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un'inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo»; o infine al documento "Christliche Patientenverfugung", del 1999, testo comune di Cattolici e Protestanti, in cui si giustifica la eutanasia "passiva" e quella "indiretta" (v. A. RAUTI, op. cit., 224). Sempre nell'ambito delle Chiese cristiane, va ricordato un documento del 2003 della Conferenza Pastorale della Chiesa Evangelica Luterana in Italia (CELI) che esprime un giudizio di ammissibilità sull'eutanasia passiva, affermando che il giudizio si basa sul fatto che intento di questa è "lasciar morire", nel senso che il medico prende atto della impotenza della scienza. Posizioni analoghe sono state espresse dalla Conferenza Generale delle Chiese Cristiane Avventiste, come ricorda CHIARELLA, L'eutanasia: un problema giuridico al di là del bene e del male, inThanatos e Nomos. Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, a cura di Falzea, Napoli, 2009, 148. (49) Una sintesi del quale si può vedere in GEMMA, «Vita (diritto alla)», cit., 673 ss.; in tema, v. altresì N.L. CANTOR, Déjà vu all over again: the false dichotomy between sanctity of life and quality of life, Stetson Law Rev., 35, 2005, 90 ss. (50) Cass R. SUNSTEIN, The Right to Die, Yale Law Journal, 1997, (106), 1136. (51) RUGGERI-SPADARO, Dignità dell'uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), PD, 1991, 3, 343 ss.; nonché A.RUGGERI, Appunti per uno studio sulla dignità dell'uomo, secondo diritto costituzionale, Rivista AIC, 2011, 1, 6, secondo cui «la dignità infatti precede e fonda la Costituzione ma è anche la Costituzione nel suo Begriffskem. È prima e fuori ma anche dentro la Costituzione, di cui costituisce appunto il cuore pulsante, il perno attorno al quale ruotano le dinamiche che connotano sia la forma di governo che la forma di Stato». (52) Vedi RAO N., Three concepts of dignity in Constitutional Law, Notre Dame L. Rev., 2011, 86, 232, che nota appunto come «intrinsic human dignity has been sometimes associated with the autonomy to make one's own end-of-life decisions, including access to assisted suicide. Similarly, human dignity has been associated with the sanctity of life and not affirmatively acting to end life, no matter how delibitated». Cfr. LUCIANI, Positività, meta positività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare, cit., 1062-1063; e FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, tra laicità e postsecolarismo, RIDPP, 2007, 559, che a proposito del concetto di dignità umana, sottolinea il rischio che funga da bene ricettacolo delle reazioni di panico morale da cui veniamo sopraffatti. C. PICIOCCHI, La dignità nel fine vita: un concetto dirimente?, in Il diritto alla fine della vita, cit., 17 dell'estratto, sottolinea come proprio alla dignità umana si richiamano numerose sentenze (ad es. del Bundesgerichtshof tedesco) per fondare il diritto all'autodeterminazione del paziente in SVP. (53) Cfr. G. ZAGREBELSKY, Fragilità e forza dello Stato costituzionale, Napoli, 2006, 28, secondo cui «il punto di aggancio più fecondo della teoria dello Stato costituzionale, la sua condizione storico-materiale fondamentale, è oggi la democrazia pluralista»; e ancora «Pluralismo e Costituzione si implicano tra di loro (…). Pluralismo e principialismo sono i due lati (quello sociale e quello giuridico) della stessa medaglia. Tutto ciò è denso di significati, al di là della Costituzione, per la concezione del diritto, in generale». (54) Sul rapporto tra dignità e autonomia personale, vedi da ultimo PORCIELLO, Eutanasia e principi fondamentali: la costituzionalizzazione del dilemma etico, in Thanatos e Nomos. Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, cit., 9, secondo cui cercare di definire una volta per tutte la dignità di una vita per esempio, escludendo così facendo tutti gli altri possibili significati, vuol dire rigettare fin dalle basi il sistema costituzionale ed il pluralismo etico di cui questo si fa portatore; v. anche, per considerazioni analoghe, F. SACCO, Note sulla dignità umana nel "diritto costituzionale europeo", in I diritti fondamentali e le Corti in Europa, a cura di Panunzio, Napoli, 2005, 587. (55) R. DWORKIN, Life's dominion, trad. it. Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano, 1994, 274, 291 ss., 294. Per G. ZAGREBELSKY, Intorno alla legge, Bologna, 2009, 108-109, «Tutti sottoscrivono il principio di difesa della dignità umana. Ma la dignità umana postula, permette, oppure vieta che i malati terminali decidano in libertà se richiedere l'eutanasia? (…)». In tema, v. anche C. PICIOCCHI, La dignità nel fine vita: un concetto dirimente?, cit., 17 dell'estratto, la quale, sul concetto di dignità, sostiene che «proprio nell'intreccio con la volontà individuale è possibile individuare un punto di riferimento, che pare appartenere ad una sorta di comune senso costituzionale transnazionale». (56) Cfr. R. ALEXY, A Theory of Constitutional Rights, Oxford, 2004, 234, secondo cui la dignità si basa sulla comprensione dell'essere umano come una creatura intellettuale e morale capace di determinare e sviluppare se stesso liberamente. Analogamente, v. CASABONA, The end of life: final remarks, in Il diritto alla fine della vita, cit., 3 dell'estratto. (57) Sull'inevitabilità del rapporto tra morale e interpretazione costituzionale dei diritti, v. le recenti riflessioni di G. PINO,Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, 2010, 115, il quale sottolinea che lo Stato costituzionale codifica espressamente, tramite la sua Costituzione, alcuni contenuti morali: diritti fondamentali, ideali di giustizia, valori, aggiungendo che il ricorso a forme di argomentazione morale è inevitabile soprattutto nell'interpretazione di clausole costituzionali indeterminate e connotate in senso valutativo: « (…) nello Stato costituzionale sembra verificarsi una radicale connessione interpretativa tra diritto e morale, (….), anche se ovviamente le considerazioni morali non sono senza restrizioni, ma filtrate, mediate, bilanciate con considerazioni giuridiche (di diritto positivo e relative alla cultura giuridica)» (212). (58) Per M. LUCIANI, Positività, meta positività e parapositività dei diritti fondamentali, cit., 1056, i diritti vivono sia in una dimensione giuridica che in una dimensione etica. Sul diritto come settore particolare dell'etica, v. G. SILVESTRI, Dal potere ai principi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, 36. Cfr. anche la celebre riflessione di O. WENDELL HOLMES, The Path of the Law, Collected Legal Papers, Harcourt, 1920, 170, sul diritto come "the fitness and external deposit of our moral life". (59) Per AGOSTA, Se l'accanimento legislativo è peggio di quello terapeutico: sparse notazioni al disegno di legge in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento, in www.forumcostituzionale, 2009, 15, è una pretesa titanica stabilire cosa sia la dignità in uno Stato costituzionale. (60) In tema di fine vita, non credo che possa valere come riferimento il caso celebre (nella giurisprudenza francese) del "lancio del nano", su cui v. M. RUOTOLO, Appunti sulla dignità umana, in AA.VV., Scritti in onore di F. Modugno, IV, Napoli, 2011, 3144 ss., che appunto parla di una dignità "innata" come fondamentale presupposto dell'autodeterminazione. In quel caso, l'uso "autonomo" e "volontario" della propria condizione era in funzione di una sorta di "divertimento discriminatorio" (perché basato sulla diversità fisica) da parte del pubblico. La scelta di non curarsi, o di lasciarsi morire, da parte di un paziente in stato terminale, appare una situazione assolutamente lontana e differente, anche solo per il fatto che non è l'affermazione di un'autodeterminazione contro la dignità, ma di una volontà che è al tempo stesso espressione di dignità. (61) Per PRISCO, La dignità del malato tra pluralismo delle morali ed etica di Stato, in Il diritto alla fine della vita, cit., 22 dell'estratto, «(…) – nel prisma della dignità – confluiscono sentimenti di se stessi non oggettivabili nella medesima e cioè per tutti unica misura, (…), in ragione della pesatura dei propri affetti e impegni umani che si ritenga di valutare liberamente, gli unici verso cui si è in effetti davvero responsabili e i soli che possono correlativamente giocare un ruolo dialettico nell'opzione tra la cura (medica) e il prendersi cura (umano), nell'accompagnare cioè gli ultimi momenti della vita di una persona in condizione terminale e/o meramente vegetativa". Cfr. anche STAIANO, Legiferare per dilemmi sulla fine della vita: funzione del diritto e moralità del legislatore, in Il diritto alla fine della vita, cit., 7 dell'estratto, per il quale «La dignità, (…), è percezione personale del proprio benessere, del rispetto di sé, della permanenza di senso nella propria vita, nell'ambito dei rapporti interpersonali in cui il singolo è coinvolto. La dignità è dunque concepibile solo come connessa al perdurare della propria persona nella sua unicità e irripetibilità (…): solo la singola persona potrà valutare se questo orizzonte di senso – per essa e solo per essa – resti aperto in ipotesi di perdita di consapevole capacità di relazione con il mondo o di prosecuzione artificiale delle funzioni vitali». (62) Cfr. MEISEL-CERMINARA, op. cit., 2.4, parlano di «growing consensus», aggiungendo che «No Court has rejected the right to die in wholesale fashion». (63) Vedi G. GRASSO, op. cit., rilevando che «il consenso informato viene considerate allora come un requisito necessario, ma non sufficient, dovendosi creare un difficile punto di equilibrioi, all'interno del rapport tra medico e paziente, tra la decisione del primo, tenuto a rispettare le regole del codice deontologico, e l'eventuale "desiderio" del malato di vedersi curato comunque, anche contro ciò che il codice deontologico (e forse il buonsenso) prevede». (64) (65) CASONATO, Il consenso informato. Profili di diritto comparato, 2009, paper, 2. Schloendorff v. Society of N.Y. Hosp. (Corte d'Appello dello Stato di New York, 211 N.Y. 125, 129) è un caso di rimozione non autorizzata di una massa tumorale (v. anche G. Steven NEELY, The Constitutional Right to Suicide, New York, 1994, 104), e costituisce l'avvio di quel percorso culturale e giuridico in base al quale il chirurgo che fa un'operazione senza il consenso del paziente commette un "assault" per il quale possono essere chiesti danni. Come sottolineaCARRASCO DURAN M., Constitutionalising biolaw, in CASONATO (ed.), Life, Technology and Law, Padova, 2007, 19, in questa decisione viene in rilievo non solo l'integrità fisica, ma per la prima volta il right to self determination. In realtà però, va detto che il termine specifico "informed consent" risale per la prima volta alla sent. Salgo vs. Leland Stanford Jr., University Board of Trustees, del 1957. (66) Come ricorda J. KATZ, The Silent World of Doctor and Patient, New York, 1984, 50, già in Pratt v. Davis (118 Ill. App. 161, 79 N.E. 562 del 1905), la Corte aveva affermato che: «Under a free government at least, the free citizen's first and greatest right, which underlies all the others –the right to inviolability of his person, in other words, his right to himself- is the subject of universal acquiescence, and this right necessarily forbids a physician or surgeon, however skill or eminent (…) to violate without permission the bodily integritiy of his patient (…) and [to operate] on him without his consent or knowledge». GRASSO, op. cit., 20 ss., ci ricorda come la grande letteratura e la storia, già da tempi assai risalenti (da Platone a Molière, ad Edgar Allan Poe), ci hanno lasciato testimonianze important e ricche di spunti di riflessione sui profile della medicina difensiva, «intimamente collegata al tema del consenso informato». (67) Questo passo (per rimanere all'interno del circuito giurisprudenziale del common law) è ripreso dalla sentenza della Corte Suprema Canadese, nel caso Rodriguez v. British Columbia, del 1993; sempre in questa decisione, è scritto che «(…) To impose medical treatment on one who refuses constitute battery, and our common law has recognized the right to demand that medical treatment which would extent life be withheld or withdrawn. Canadian Courts have recognized a common law right of patients to refuse consent to medical treatment, or to demand that treatment, once commenced, be withdrawn or discontinued. This right has been specifically recognized to exist even if the withdrawal from or refusal of treatment may result in death». (68) Successivamente la Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. I, 11-7-2002, n. 26646), ha ritenuto ravvisabile il reato di violenza privata nella condotta di quei sanitari che violano il dissenso del paziente, imponendogli un trattamento terapeutico contro la sua volontà consapevolmente espressa. (69) Come sottolinea P. VERONESI, Il corpo e la Costituzione. Concretezza dei "casi" e astrattezza della norma, Milano, 2007, 10, secondo cui «sul piano della libertà personale che la Costituzione edifica la piramide rovesciata entro cui sono progressivamente collocati tutti i diritti della sfera individuale e pubblica». (70) Come nota S. ROSSI, «Corpo umano (atto di disposizione sul)», in Digesto/civ., Agg., Torino, 2012, 232, « l'art. 13 Cost., fuoriuscito dalle ristrette prospettive che ne caratterizzavano la portata precettiva, acquisisce la dimensione di principio massimo di libertà, chiamato ad operare in ogni frangente in cui si esprime la persona umana (…)». (71) CARUSI, op. cit., 16. Si pensi alla sent. c.d. Volterrani (Cass. pen., sez. I, 11-7-2002, n. 26446) secondo cui in tema di attività medico-chirurgica, in mancanza di attuazione e piena ratifica della convenzione di Oviedo, deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente. (72) Vedi B. SALVATORE, La lesione del diritto all'autodeterminazione terapeutica: violazione del consenso e risarcimento del danno, in Il diritto alla fine della vita, cit., 2 ss. dell'estratto; nonché PALMERINI, Cura degli incapaci e tutela dell'identità nelle decisioni mediche, RDC, 2008, III, 366, secondo cui «le limpide affermazioni circa il carattere volontario di ogni trattamento medico (…) cedono a valutazioni spurie, a sottili distinguo, a velate forme di elusione, quando non a vere e proprie smentite, nella giurisprudenza che si confronta con i casi concreti». (73) Il problema, sollevato tra gli altri da A. MEISEL, Informed Consent and Information Overload, in Il diritto alla fine della vita, cit., 3 dell'estratto, può ridursi alla notazione che «is too much information of too much complexity». Per l'A., «The irony, (…) is that more information has long been seen as the antidote to excessive paternalism in the doctor-patient relationship. Now it is possible that more information will undermine, rather than promote, autonomy», e inoltre «not only are all patients different in their abilities to use information, there are vast differences in the way information is provided to patients by physicians». In conclusione, per Meisel, «informed consent needs to be viewed as an educational process (…) rather than a legal requirement, (…), the legal goal of protecting doctors fron liability would still be achieved, but as a byproduct of this education rather than the other way around». Questi rischi e ambiguità del discorso del consenso informato sono sottolineati anche da E. ROSSI, Profili giuridici del consenso informato: i fondamenti costituzionali e gli ambiti di applicazione, in Il diritto alla fine della vita, cit., nonché in Rivista AIC, 2011, 4, 9. (74) Come rileva B. BARBISAN, Paradoxes and fictions of the "Right to die": Hyper-Rationalism in the Quinlan Case, in Il diritto alla fine della vita, cit., 26 dell'estratto. (75) CARL E. SCHNEIDER, Bioethics with a Human Face, 69 Ind. L. J., 1076 (94), 1078-1080, secondo cui «hyper-rationalism seductively justifies discussing human behavior without doing the empirical work necessary to discover how people actually behave». Analogamente, v. J. KATZ, op. cit., 83, il quale conclude che «the legal vision of informed consent, based on self-determination, is still largely a mirage», pur aggiungendo: «Yet a mirage, since it not only deceives but also can substain hope, is better that no vision at all», e ancora, «The call to liberty, embedded in the doctrine of informed consent, has only created an atmosphere in which freedom has the potential to survive and grow». (76) Questa tesi è stata riproposta anche come opinione di minoranza in documento del CNB su Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico (del 24-10-2008); v. anche M. OLIVETTI, No, l'art. 32 non parla di Eluana, Europa, 31-3-2009. Sul punto, si può ricordare che nell'intervento di Moro in A.C. del 28-1-1947, se è vero che l'illustre Costituente democristiano dice (a proposito della formula che poi diventerà il 2° co. dell'art. 32): «si tratta prevalentemente del problema della sterilizzazione di altri problemi accessori»; prima aveva chiaramente affermato, in una chiave di lettura ben più generale, che «si tratta di un problema di libertà individuale che non può non essere garantito dalla Costituzione». (77) È il senso del recente bellissimo libro di Cass. R. SUNSTEIN, A Constitution of Many Minds. Why the Founding Document Doesn't Mean What It Meant Before, Pricenton, 2009, di cui ritengo utile citare almeno questo passaggio conclusivo: «(…) the content of the American Constitution has significantly changed as result of citizen's beliefs and commitments, developing over time. Americans celebrate the stability of their Constitution. But generational change is a fact of constitutional life (210)». (78) F. MODUGNO, Interpretazione per valori e interpretazione costituzionale, in Scritti sull'interpretazione costituzionale, Napoli, 2008, 29. (79) Sulla categoria in oggetto, v. da ultimo l'attenta ricostruzione di F. PEDRINI, Clausole generali e Costituzione. Una (prima) mappa concettuale, in www.forumcostituzionale.it, 19-11-2009, che mette in evidenza come «(…) dalla (pur necessaria) preliminare assegnazione di un significato alla disposizione contenente una c.g., a causa delle caratteristiche intrinseche della c.g. (e segnatamente della sua apertura al meta-giuridico in senso diacronico), non potrà comunque desumersi un contenuto semantico "compiuto" in ogni suo dettaglio e soprattutto sottratto una volta per tutte al trascorrere del tempo». (80) Cfr. già F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, cit., 42 e 46. (81) Cfr., ex multis, L. CHIEFFI, Ricerca scientifica e tutela della persona. Bioetica e garanzie costituzionali, Napoli, 1993, 139 ss.; e TRIPODINA, Il risvolto negativo del diritto alla salute: il diritto di rifiutare le cure. Studio in prospettiva comparata di due recenti casi italiani: il caso Welby e il caso Englaro, in Sistemi costituzionali, diritto alla salute e organizzazione sanitaria, a cura di Balduzzi, Bologna, 2009, 369 ss. (82) Contra, v. C. CASTRONOVO, Autodeterminazione e diritto privato, in AA.VV., Autodeterminazione. Un diritto di spessore costituzionale?, Milano, 2012, 57-58, secondo cui «(…) Dall'art. 32 non si può dunque ricavare l'autodeterminazione circa il proprio continuare ad esistere, né in particolare dal fatto che al comma 2 esso faccia divieto di trattamenti sanitari obbligatori salvo che questi siano previsti dalla legge. (…) Non lo si può affermare sul piano dell'interpretazione storica e, quanto ad un'ipotetica interpretazione evolutiva, è ancora più difficile sostenere che una norma dettata, (…), a tutela della salute, possa essere richiamata nella vicenda del fine vita, (…)»; nonché A. NICOLUSSI, Lo sviluppo della persona umana come valore costituzionale e il cosiddetto biodiritto, I, 2009, 25. (83) È la tesi di MANGIAMELI, Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it, 2009.. Molto critico su quello che definisce il presunto diritto costituzionale all'autodeterminazione, è C. SARTEA, Fine vita: cronache perplesse dal dibattito mediatico sulla fase legiferante, I, 2009, 2, 195, il quale segnala l'equivoco dell'accostamento consenso informato/autodeterminazione, parlando di «presunto diritto costituzionale all'autodeterminazione terapeutica», e di principi costituzionali «fatti oggetto di manipolazione ed acrobazie ermeneutiche piuttosto problematiche». (84) Dice R. NANIA, Il valore della Costituzione, Milano, 1986, 110: «L'attuazione è, a sua volta, portatrice di valori, e pur senza elevarsi a potere originario di creazione (…), vuole riflettere in sé l'attualità sociale e quelle esigenze che il Costituente (…) non aveva potuto nemmeno prefigurarsi». Cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 9, secondo cui «il diritto costituzionale è un insieme di materiali di costruzione, ma la costruzione in concreto non è l'opera della Costituzione in quanto tale ma di una politica costituzionale che si applica alle possibili combinazioni di quei materiali». (85) Mi riferisco all'ordinanza del 16-12-2006, su cui v. le critiche di C. CASONATO, Il consenso informato, cit. 153, e di TRIPODINA,Intervento, cit., 375. Secondo il Giudice di questo caso, l'assenza di una disciplina specifica «del rapporto medico-paziente e sulla condotta del medico ai fini dell'attuazione pratica del principio dell'autodeterminazione per la fase finale della vita umana», lascia il campo aperto alla prevalenza del principio di indisponibilità del bene della vita, al quale si collegherebbe «un preciso obbligo giuridico di garanzia del medico di curare e mantenere in vita il paziente». (86) Una posizione diversa è stata espressa invece dal G.I.P. del Tribunale di Roma sent. n. 9729 del 23-72007) che ha invece dichiarato il "non luogo a procedere" nei confronti del dott. Mario Riccio, che aveva praticato il distacco del respiratore artificiale su richiesta di Piergiorgio Welby. Si legge a pag. 25 della sentenza che «(…) quando si riconosce l'esistenza di un diritto di rango costituzionale, quale quello all'autodeterminazione individuale e consapevole in materia di trattamento sanitario, non è, poi, consentito lasciarlo senza tutela, rilevandone, in assenza di una normativa secondaria di specifico riconoscimento, la sua concreta inattuabilità sulla scorta dell'esistenza di disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto contrario, quali gli artt. 5 c.c., (…), e 575, (…), 579 e 580 c.p.». (87) Sulla esistenza, nel campo dei diritti fondamentali, di una sorta di «competenza concorrente del legislatore e del continuum Corte-giudici», e sulla possibilità di intervento delle giurisdizioni «in caso di protratto silenzio del legislatore», v. M. DOGLIANI, L'amministrazione dei diritti fondamentali: un insolubile dilemma costituzionale, in Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, a cura di Fioravanti, Roma-Bari, 2009. (88) Parla di una decisione "pilatesca", e di un "paradosso giudiziario", M. VILLONE, Il diritto di morire, Napoli, 2011, 20-21. Critico verso questa decisione anche V. BALDINI, L'attuazione dei diritti fondamentali come scelta politica e come decisione giurisdizionale, Rivista AIC, 2011, 3, 11, secondo cui «Tale decisione è parsa subito poco condivisibile nella misura in cui, riprendendo il vecchio indirizzo classico-liberale, (…), giunge per un verso ad emancipare il legislatore da ogni vincolo derivante dalla norma costituzionale, depauperandone l'efficacia prescrittiva immediata. D'altro canto, essa condiziona l'effettività della tutela costituzionale (peraltro, come detto, pienamente ammessa dal giudice stesso) dell'individuo al previo intervento del legislatore». (89) Una rassegna pressoché completa di questi riferimenti è contenuta proprio nella sentenza della Cassazione sul caso Englaro, prima richiamata. (90) Art. 5: «une intervention dans le domain de la santé ne peut être effectuée qu'après que la personne concernée y a donné son consentement libre et éclairé». (91) Su tale vicenda, v. per tutti A. GUAZZAROTTI, Il caso Welby: adattamento ai Trattati e deleghe non attuare, Quad. C, 2/2007, 357. (92) Va ricordato che la Corte costituzionale, nella sent. 251/2008, a proposito della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, all'epoca non ancora ratificata, ha affermato che un simile documento può essere utilmente richiamato, ancorché privo di efficacia giuridica formale, perché espressivo di principi comuni ai vari ordinamenti nazionali, analogamente a quanto aveva precedentemente ritenuto per la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nelle sent. n. 394/2006, nn. 135 e 445 del 2002, in tema, v. M. LUCIANI, Positività, meta positività e parapositività dei diritti fondamentali, cit., 1070. (93) CASONATO, Il consenso informato. Profili di diritto comparato, cit., 3. Sulle più recenti evoluzioni della doctrine della C. Dir. Uomo sui casi di fine vita, dopo la decisione del caso Pretty (il riferimento è al caso Haas e al più recente e ancora sub iudice – almeno nel merito – caso Koch), v. infra, par. 7. (94) Il carattere anacronistico e incompiuto dell'art. 5 c.c., e la sua sostanziale estraneità ai temi del fine vita, è ora ben evidenziato da S. ROSSI, «Corpo umano (atto di disposizione sul)», cit., 227-228 ss., che parla di «norma palesemente inadeguata», i cui limiti sono sostanzialmente incompatibili rispetto al tema dei trattamenti sanitari (233), concludendo nel senso che bisogna «dimenticare l'art. 5 c.c., (…), incapace di comprendere e integrare il conflitto tra libertà e responsabilità, soprattutto troppo esile – sotto il profilo dogmatico – per essere in grado di governare la forza espansiva del diritto alla salute. Non sembri pertanto fuori luogo proporne l'oblio o la disapplicazione (…)». Una posizione opposta è sostenuta da C. CASTRONOVO, Autodeterminazione e diritto privato, cit., 61, per il quale "«questa norma (l'art. 5 c.c.), (…), è quella dalla quale si può ricavare meglio che da altri luoghi normativi l'inesistenza di un diritto al suicidio» (che tuttavia, almeno secondo me, resta un modo sbagliato di porre la questione delle decisioni di rifiuto o di rinuncia di cure anche fino alle estreme conseguenze). (95) Per un commento a questa ordinanza, v. per tutti R. ROMBOLI, Il conflitto tra poteri dello Stato sulla vicenda Englaro: un caso di evidente inammissibilità , in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 11-122008. (96) In un inusuale comunicato di precisazione da parte del Primo Presidente della Corte di Cassazione, si ribadiva che «la Corte si è limitata ad affermare un principio di diritto sulla base della interpretazione costituzionalmente orientata della legislazione vigente (…) e non ha in alcun modo travalicato il proprio specifico compito istituzionale di rispondere alla domanda di giustizia del cittadino, assicurando la corretta interpretazione della legge, nel cui quadro si collocano in modo primario i principi costituzionali e la Convenzione di Oviedo». (97) Per una puntuale descrizione della vicenda di Terri Schiavo, v. M. VILLONE, op. cit., 7-15. (98) Una vera e propria "legislative adjudication", come nota C. BOLOGNA, Sentenze in forma di legge? Il caso Englaro e la lezione americana della vicenda di Terri Schiavo, in www.forumcostituzionale.it, 25-2-2009. (99) In generale, sulla successione della vicenda giudiziaria e istituzionale di Terri Schiavo, v. SMORTO, op. cit., 177-179; e K.L. CERMINARA, Tracking the storm: the far-reaching power of the forces propelling the Schiavo cases, Stetson Law Review, 35 (2005), 147 ss. (100) Non da ora: sia consentito il rinvio a D'ALOIA, Norme giustizia diritti nel tempo delle biotecnologie, Introduzione a Bio-tecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia costituzionale, a cura di D'Aloia, Torino, 2005, XIV ss. (101) V. A. SANTOSUOSSO, Corpo e libertà , Milano, 2001, 302 ss. (102) G. AMATO, Il "potere diviso" e l'interpretazione della legge, QG., 2003, 2, 317. Cfr. anche P. GROSSI, Crisi della legge e processi di globalizzazione, in Quaderni del dottorato di ricerca in Diritto ed Economia, Napoli, 2004, 20-21, secondo cui «L'interpretazione (…) ritorna momento essenziale del processo produttivo del diritto e momento interno allo stesso procedimento produzione. (…) la irreale separazione fra un testo legislativo blindato come una casamatta e la sua immersione nella vita per il tramite della interpretazione/applicazione è sempre più oggetto di una indilazionabile revisione, nella tensione a congiungere comando e testo necessariamente astratti alla concretezza dell'operosità dell'interprete/applicatore in unico processo produttivo della norma». (103) Cfr. le illuminanti riflessioni di G. SILVESTRI, Scienza e coscienza: due premesse per l'indipendenza del giudice, DPb, 2, 2004, 412 e 438. (104) V. ora, in tema, l'importante lavoro di BIFULCO, Il giudice è soggetto soltanto al "diritto", Napoli, 2008. (105) La frase riportata è la parafrasi di un'affermazione del Chief Justice Hughes riportata in DANIELSKYTULSHIN,Autobiographical notes of Charles Evan Hughes, Harvard University Press, 1973, 143. (106) Sul rapporto tra diritto e scienza come rapporto tra due incertezze, v. ancora G. SILVESTRI, Scienza e coscienza: due premesse per l'indipendenza del giudice, cit., 411. (107) Sul punto, v. le acute riflessioni di Ch. H. BARON, Decisioni di vita o di morte. Giudici vs. legislatori come fonti del diritto in bioetica, Parma, 2003, paper. Sulla necessità di discutere di queste tematiche a partire dai casi, v. P. VERONESI, Il corpo e la Costituzione, cit., 15 ss. (108) Come rileva G. ZAGREBELSKY, Fragilità e forza dello Stato costituzionale, cit., 46-47, «in un diritto per principi i fatti vengono illuminati e animati, diventano "casi problematici" che sollevano domande, mentre in un "diritto per regole" si può ragionare come se essi siano meri accadimenti. Potremmo fare molti esempi (…). I più chiarificatori riguardano i casi nuovi, come quelli che nascono dalle applicazioni della tecnologia biomedica agli eventi della nascita, della vita e della morte». (109) Sul punto, poi, nota N.L. CANTOR, Legal frontiers of Death and Dying, Bloomington, Indiana Univ. Press, 1987, 113, che «A judge provides a more impartial decision-maker than either family members potentially influenced by financial considerations or their own suffering or discomfort, or doctors potentially distracted by the needs of the institution or other patients or the family's anguish». (110) Secondo G. PINO, op. cit., 213, nello stato costituzionale contemporaneo la gestione dei diritti fondamentali è condivisa tra giudici e legislatore, ci sono cose che spettano agli uni e cose che spettano agli altri. (111) Dice R. BIN, L'ultima fortezza. Teoria della Costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996, 67, «le disposizioni costituzionali sono come i picchetti che si appongono per delimitare i terreni e i territori: chi deve tracciare i confini (il limite tra ciò che è costituzionalmente lecito e ciò che non lo è) non può ignorare i picchetti, non può saltarli (…). I picchetti sono stati apposti proprio per segnare punti "non falsificabili" attraverso cui i confini non possono passare». (112) Cfr., da ultimo, O. CHESSA, Cos'è la Costituzione? La vita del testo, Quad. C, 2008, 1, 59; nonché C. PINELLI,L'interpretazione costituzionale tra teoria e giurisprudenza, in St. Paladin, Padova, 2004, 13, secondo il quale la presenza nei testi costituzionali di disposizioni di principio costituisce «il modo in cui il diritto costituzionale è in grado di reagire alle incognite del tempo». (113) Per F. MODUGNO, Interpretazione per valori e interpretazione costituzionale, cit., 29, nell'attività interpretativa (specialmente di una norma costituzionale) «non c'è solo l'oggettività del testo da interpretare, bensì pure la soggettività del soggetto interpretante, quella che è stata definita la «precomprensione», o anche l'ineliminabilità di quelli che Lavagna denominava «contesti umani» e quindi anche, inevitabilmente, «contesti culturali» e «contesti sociali», tramiti necessari per fissare il significato degli enunciati e per proporre la norma. Essi sono suscitati dagli oggetti evocati e dai contenuti degli enunciati medesimi». (114) Anche legislativi e dottrinali, come nota S. RAGONE, La comparazione come tecnica strumentale all'interpretazione e all'applicazione dei principi: il caso del rifiuto dei trattamenti medici vitali, in Il diritto alla fine della vita, cit. Sulla circolazione dei formanti giurisprudenziali, v. G. DE VERGOTTINI, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna, 2010; e, per la dottrina americana (dove il dibattito è molto acceso, anche dentro la Corte Suprema Federale, andando ad impattare sui rapporti tra costituzionalismo e teoria democratica), V. PERJU, The puzzling parameters of the Foreign Law Debate, Boston College Law School Faculty Papers, nonché in Utah Law Rev., 2007, 167 ss., e C. SUNSTEIN, A Constitution of many minds, cit., 187 ss. Negli Usa, com'è noto, non ha avuto successo il tentativo di approvare un "Constitutional Restoration Act" (presentato al Congresso nel 2004) il cui scopo fondamentale era (tra l'altro) quello di vietare alle Corti federali "from recognizing the laws of foreign jurisdictions and International law as the supreme law of our land". (115) Sul metodo della comparazione come elemento fondamentale dell'interpretazione costituzionale, v., in generale, G.BOGNETTI, Diritto costituzionale comparato. Approccio metodologico, Modena, 2011, 73. (116) D'ALOIA, Norme giustizia diritti, cit., XV. Cfr. A. SANTOSUOSSO, Il diritto delle decisioni di fine vita e il diritto transnazionale, in Il diritto alla fine della vita, cit., parla di "flussi giuridici transnazionali", e di "migrazione di nuclei concettuali giuridici tra diversi paesi". Una posizione critica su questo fenomeno dello "scambio transnazionale di diritti umani" o di pratiche interpretative intorno ai medesimi, è espressa da P. CAROZZA, Il traffico dei diritti umani nell'età postmoderna, in Il traffico dei diritti insaziabili, a cura di Antonini, Milano, 2007, 89 ss., secondo cui «(…) si tratta di un mercato affetto da amnesia storica e culturale. La circolazione dei diritti umani si svolge senza alcun riferimento reale al modo in cui la dignità umana e il bene comune sono stati ricostruiti e realizzati in concreto nelle diverse civiltà nel corso della storia (…). Si tratta di un mercato di ideologie, e non di ideali. (…) privilegia preferenze culturali e politiche altamente contingenti rispetto alla genuina esperienza umana»; nonché, proprio con riferimento al contenuto e alle implicazioni del principio di autodeterminazione, da L. ANTONINI, Autodeterminazione nel sistema dei diritti costituzionali, in AA.VV., Autodeterminazione. Un diritto di spessore costituzionale?, cit., 25-26. (117) Vedi F. VIOLA, Diritti umani e globalizzazione del diritto, Napoli, 2009. Pur mantenendo, sul tema specifico del fine vita, posizioni diverse da quelle qui sostenute, A. RUGGERI, Appunti per uno studio sulla dignità dell'uomo, secondo diritto costituzionale, cit., 12, sottolinea che «proprio grazie alla leale cooperazione tra le Corti (l'A. pensa soprattutto al rapporto tra corti interne e corti internazionali e sovranazionali) (…) può infatti svilupparsi e prendere corpo una sorta di diritto intercostituzionale, (…), al servizio dell'uomo, dei suoi bisogni elementari, della sua dignità: un diritto che – (…) – è anche, seppur non solo, intergiurisprudenziale, siccome frutto del mutuo sussidio che le Corti sono chiamate a darsi sul terreno della salvaguardia dei diritti». (118) Ad ogni modo, rileva M. LUCIANI, Positività, meta positività e parapositività dei diritti fondamentali, cit., 1059, «tra il porre del legislatore e il porre del giudice c'è una insuperabile differenza logica, proprio sul piano dei margini di discrezionalità, (…), il secondo non può mai arrivare all'apprezzamento politico non motivato del primo». (119) J. FINNIS, Natural Law and Natural Rights, Oxford, Clarendon Press, 1980, 220. Come dice J. RAZ, The Morality of Freedom, Oxford, Clarendon Preess, 1986, 257, «constitutional rights are devices for effecting a division of power between various branches of Government (…) the effect is that the current extent of, say, the legal right of free expression is a combined result of both legislation and judicial action». Cfr. anche V. BALDINI, op. cit., 16, che parla di «efficienza in chiave cooperativa che può legare l'attività del giudice a quella del legislatore, senza pregiudicare (…) il ruolo del Parlamento come organo di decisione politica (…), In tal senso, non è incongruo ritenere che lo "Stato giurisdizionale" possa declinarsi come una forma evoluta dello Stato costituzionale di diritto, nel quale trova un fondamentale riconoscimento la primazia dell'istanza di libertà (…)». (120) Sul punto che «non esistono però solo decisioni individuali, ma anche decisioni politiche da prendere, è alla comunità che spetta decidere fino a che punto permettere ai suoi membri di scegliere la morte», v. le riflessioni di R.DWORKIN, Il dominio della vita, cit., 249. Anche nella sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, Stato di Washington v. Glucksberg, che noi richiameremo più volte in questo lavoro, il Giudice Federale conclude proprio auspicando che su questo tema della disciplina dei casi di fine vita, il dibatto coinvolga la società democratica e le sue istituzioni. (121) Un esempio delle incertezze che possono derivare dall'assenza di una disciplina legislativa delle decisioni di fine vita è dato anche dalla vicenda dei Registri comunali sulle direttive anticipate, istituiti da non pochi Comuni e Province, con provvedimenti che sono stati fortemente avversati dal Governo (Berlusconi), con l'emanazione di una Circolare interministeriale (Ministeri dell'Interno, della Salute, del Lavoro e delle Politiche Sociali), in data 19-11-2010, che, sulla base della premessa secondo cui le funzioni legislative e amministrative attinenti alle dichiarazioni anticipate di volontà sono riservate ai poteri statali, e alla competenza del legislatore nazionale, ha definito tali provvedimenti come "privi di effetti giuridici". Sulla tematica, v., con notazioni critiche nei confronti della Circolare ministeriale, STRADELLABONACCORSI,L'esperienza dei Registri delle Dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario tra linee guida e prospettive di regolazione del fine vita, in Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, cit.; e S. ROSSI, Tre Ministri e una Circolare: nota sui registri comunali delle dichiarazioni anticipate, in www.forumcostituzionale.it, 9 -2-2011. (122) Su questi rischi di diseguaglianza e di "incertezza del diritto", collegati ad un "aggressive judicial role", v. Cass R.SUNSTEIN, The Right to Die, cit., 1124. In un obiter dictum contenuto in una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 30/2011), sembra prefigurarsi una rilevanza costituzionalmente necessaria della funzione nomofilattica, proprio come garanzia di certezza del diritto. (123) Contra, C. CASTRONOVO, Dignità della persona e garanzie costituzionali nei trattamenti sanitari obbligatori, J, 1990, 193, secondo cui «in quanto diritto sociale la salute non consente di essere configurata alla stregua dei diritti di libertà: non è questa la lettera né l'intonazione dell'art. 32 Cost.». Sulla doppia natura del diritto alla salute, come pure di altri diritti sociali, sia consentito rinviare ad A. D'ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, Padova, 2002, 28. Cfr. anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, A. D'ALOIA,Diritto di morire? La problematica dimensione costituzionale della «fine della vita» , in PD, 1998, 601 ss.; TRIPODINA, Eutanasia, diritto, Costituzione nell'età della tecnica, DPb, 2001, 113 ss, e, in generale, M. LUCIANI, Sui diritti sociali, DD, 1995, 565, secondo cui «Che un diritto sia considerato "sociale" ovvero "di libertà" dipende dunque dalla sua storia, o tutt'al più dal prevalere dell'uno o dell'altro degli aspetti che sono tipici di tutti i diritti fondamentali (…). È al suo interno, dunque, all'interno di ciascun diritto, che si deve cogliere la differenza tra le varie componenti, evidenziando in che misura e in che modo esso richieda vere e proprie prestazioni, ovvero semplici astensioni pubbliche». (124) Sul "right to refuse" come logico corollario del "right to consent" "medical treatment", v. (richiamando l'opinion of the Court della decisione Cruzan) R.S. OLICK, Taking advance directives seriously: prospective autonomy and decisions near the end of life, Washington-D.C., 2001, 9; e M.I. UROFSKY, Letting go. Death, Dying, and the Law, New York, 1993, 33. (125) LECALDANO, Bioetica. Le scelte morali, cit., 94. (126) Secondo CHECCOLI, op. cit., 13, voler anteporre una lettura collettivistica del diritto alla salute significherebbe sovvertire il testo costituzionale. Diametralmente opposta è invece la lettura da ultimo rilanciata da NICOLUSSI, Al limite della vita: rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, Quad. C, 2, 2010, 277, che parla di «decostituzionalizzazione o revisione strisciante della costituzione, quale si determinerebbe se l'art. 32 ne risultasse stravolto come avverrebbe senz'altro se, da norma che tutela espressamente la salute, venisse presentata come norma che tutela il suo contrario». (127) Cfr., in termini, L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, PD, 1997, 599; S.P. PANUNZIO, Trattamenti sanitari obbligatori e Costituzione, DS, 1979, 875. In senso confermativo, v. anche C. Cost., n. 307/1990. (128) Si legge in C. Cost., n. 258/94, GiC, 1994, 2102, che «è proprio questo ulteriore scopo (preservare lo stato di salute degli altri), attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute come diritto fondamentale». Per una tesi contraria, volta ad ammettere l'intervento coattivo a tutela della salute del singolo, anche in assenza di riflessi negativi o di pericoli per la salute degli altri e della collettività, v., tra gli altri, da D'ADDINO SERRAVALLE, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, Napoli, 1983, 134 ss., spec. 147-148 e 155-156. (129) Secondo l'impostazione, ad esempio, di BUSNELLI, Intervento, cit., 349. (130) Così S. MANGIAMELI, Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it, 2009, 18-19. Per un'impostazione analoga, v. A. RUGGERI, Il testamento biologico e la cornice costituzionale (prime notazioni), inwww.forumcostituzionale.it, 2009, spec. 7 ss, e 13 dove parla di un «diritto-dovere di prendersi cura di sé fino in fondo». (131) D'ALOIA, Al limite della vita: decidere sulle cure, Quad. C, 2010, 2, 241 ss. Critiche molto ben argomentate a questa impostazione possono leggersi anche in A. MORELLI, Tra Babele e il nulla. Questioni etiche di fine vita, «nichilismo istituzionale» e concezioni della giustizia, in Thanatos e Nomos, cit., 170/171. (132) Rimando per queste considerazioni, ad D'ALOIA, I diritti come immagini in movimento. Tra norma e cultura costituzionale, Introduzione a Diritti e Costituzione. Profili evolutivi e dimensioni inedite, a cura di D'Aloia, Milano, 2003, XXXV ss. (133) L'espressione è di A. RAUTI, op. cit., 245 e 250, che però sostiene una posizione assolutamente linea con la ricostruzione avanzata in questo scritto. (134) Come sembra fare invece BUSNELLI, Intervento, cit., 349, secondo cui «se il principio di indisponibilità della vita umana deve essere preso sul serio, esso non può non comportare anche limiti alla autodeterminazione del paziente». (135) (136) V. PORCIELLO, op. cit., 8-9. Come dice GEMMA, «Vita (diritto alla)», cit., 696, i diritti e le libertà trovano limiti, ma le varie formule che contrassegnano tali limiti, denotano sempre interesse di altri soggetti, pubblici e privati, contrapposti ai diritti costituzionalmente tutelati. Non v'è alcuna traccia, nelle disposizioni costituzionali, e nella interpretazione corrente delle stesse, di una concezione paternalistica, cioè non è mai configurata una limitazione dell'autonomia dei soggetti – salvo i casi di incapacità – in funzione della realizzazione degli interessi dei soggetti medesimi. (137) Mi sembra drammaticamente profondo, in questo senso, un passo della "Lettera al Presidente della Repubblica", di Piergiorgio Welby, del 22-9-2006: «Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l'amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche (…)». (138) In questo, non ho alcuna difficoltà a condividere quanto sostenuto da G.U. RESCIGNO, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l'art. 32, co. 2, Cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita,DPb, 1, 2008, 102, a proposito del fatto che la decisione di rifiutare un trattamento sanitario non è vero «che ricade soltanto sull'interessato e non tocca gli altri. (…) quella decisione riguarda inevitabilmente il coniuge, il convivente, i figli, i parenti, gli amici». (139) Come ritiene, ad esempio, M. FAGGIONI, Intervento al Forum L'eutanasia tra bioetica e biodiritto, cit., 368-369. (140) Così anche A. RUGGERI, Le dichiarazioni di fine vita tra rigore e pietas costituzionale, in www.personaedanno.it, 2009, 7, aggiungendo che «(…) se non è un diritto, nessun dovere può perciò gravare su altri di assecondarlo, meno che mai su coloro che sono preposti istituzionalmente alla cura della salute (…)». (141) E dunque non può configurarsi come una "dismissione" volontaria della dignità da parte del soggetto, come sembra sostenere A. RUGGERI, Appunti per uno studio sulla dignità dell'uomo, secondo diritto costituzionale, cit., 5. (142) Cfr. le riflessioni di G. REALE, Il dogma e la vita. Conversazione con Roberta De Monticelli, MicroMega, 2, 2009, 155-156. (143) Come prova a fare, tra gli altri, A. NICOLUSSI, Rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari e obblighi del medico, in GENSABELLA FURNARI-RUGGERI, Rinuncia delle cure e testamento biologico, Torino, 2010, 33, secondo cui «la salute, da diritto dell'essere verrebbe piegata nelle forme di un modello proprietario (…) che non può corrispondere al principio di solidarietà nel quale la costituzione (art. 2) ha incastonato i diritti della persona». (144) È la prospettiva (solo) adombrata da E. ROSSI, op. cit., 18 dell'estratto. Sui rischi di una siffatta utilizzazione del concetto di dignità come valore supercostituzionale, v. AGOSTA, op. cit., 16. (145) L'espressione è tratta da N.L. CANTOR, Déjà vu all over again, cit., 100. (146) In questo senso, invece, NICOLUSSI, Al limite della vita: rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, cit., 277. (147) L'espressione è di D'AGOSTINO, Il caso umano e politico di Piergiorgio Welby: "pietà e chiarezza", I, 2007, 78. (148) Secondo la tesi di G. CARLIZZI, Forma e valore della decisione giuridica. Spunti di riflessione a partire dal "caso Welby/Riccio", relazione nell'ambito del ciclo di seminari su Il diritto come prassi: i diritti fondamentali nello Stato costituzionale. B. Caso Welby e bilanciamento dei principi, S. Maria Capua Vetere, 11/12-122008, paper, 12-14, ora in U.POMARICI (ed.), Il diritto come prassi, cit., 119 ss., 123 ss., 130, «(…) quanto meno con riguardo alla materia dei trattamenti sanitari salvifici (…) il punto di vista dell'individuo può avere spazio solo nei casi di rifiuto di trattamenti nuovi o, eccezionalmente, di pretesa di interruzione di trattamenti attivati contro la propria volontà (…) Nel secondo caso, invece (interruzione di trattamenti salvifici volontariamente assunti), egli è entrato sua sponte in una sfera di azione professionale finalizzata alla sua cura, sicché entra in gioco una forma di socialità che supera la volontà empirica dei singoli medici, impone di tener conto della funzione istituzionale della relativa categoria e impedisce di accollarle un obbligo che contraddirebbe tale funzione». Questa tesi, che appare rilanciata anche nel documento del CNB su Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione medico-paziente, prima cit., è ora condivisa anche da NICOLUSSI, Al limite della vita: rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, cit., 279 ss. (149) In tal senso, correttamente, MILLER-FINS-SNYDER, Assisted suicide and refusal of treatment: Valid distinction or Distinction without a difference?, in SNYDER-KAPLAN (eds.), Assisted suicide. Common finding ground, Bloomington-Indianapolis, 2002, 20, secondo cui «the cause of death is not the withdrawal of treatment, but the underlying disease. By contrast, in assisted suicide the cause of death is the ingestion of lethal medication prescribed by a physician»; pur aggiungendo tuttavia, subito dopo (p. 23), che «some cases of withdrawing life-sustaining treatment and forgoing food and water might be reasonably classified as assisted suicide». (150) Per questa posizione, v. anche la sent. del Bundesgerichtshof (BGH) 454/09 del 2011, su cui v. A. GATTI, La liceità dell'eutanasia passiva realizzata attraverso un'azione commissiva nel più recente orientamento giurisprudenziale tedesco, inwww.forumcostituzionale.it, 8-6-2011; e E. VIGATO, La sentenza del Bundesgerichtshof sulla interruzione del sostegno vitale,Quad. C, 2011, 1, 132 ss. (151) Sui casi Vacco v. Quill (521 U.S. 793) e Washington v. Glucksberg (521 U.S. 702), v. riassuntivamente Ch. BARON, The Right to Die: Themes and Variations, cit., 1850 ss. (152) In dottrina, v. Y. KAMISAR, Are Laws against Assisted Suicide Uncostitutional?, Hastings Cent. Rep., may-june 1993, 32, secondo cui queste leggi "are fully constitutional"; contra, v. Robert A. SEDLER, Constitutional Challenges to Ban on "Assisted Suicide": The View form without and Within, in Melvin I. UROFSKY-Philip E. UROFSKY (ed.), The Right to Die. Definitions and moral perspectives, New York, 1996, 189 ss. (153) Su questa sentenza, e sulle sue conseguenze, v., ex multis, N.M. GORSUCH, The Future of Assisted Suicide and Euthanasia, Pricenton, 2006, 14 ss. (154) Vedi B. BARBISAN, Il "diritto di morire" negli Stati Uniti secondo l'interpretazione costituzionale del XIV emendamento, DPb, 2001, 175 ss. (155) Su questa sentenza, e più in generale sulla vicenda di Diane Pretty, v., con diversi accenti, BIFULCO, Esiste un diritto al suicidio assistito nella CEDU?, Quad. C, 2003, ????; ID., Esiste un diritto al suicidio assistito nella Cedu?, Quad. C, 2003, 166 ss.; C. CASONATO, Introduzione al biodiritto2, Torino, 2009, 161 ss.; SMORTO, op. cit., 163 ss.; TRIPODINA, Primavera 2002: la "questione eutanasia" preme sull'Europa, DPCE, 2003-I, 361 ss. (156) Si legge nella sentenza C. Dir. Uomo, che: «sans nier en aucune maniére le principe du caractère sacré de la vie protégé par la Convention, la Cour considère que c'est sous l'angle del l'article 8 que la notion de la qualité de la vie prende toute sa signification. A une époque où l'on assiste à une sophistication médicale coissante (…) des nombreuses persones redoutent qu'on les force à se maintenir en vie (…) dans un état de grave délabrement physique ou mental aux antipodes de la perception aiguë qu'elles ont d'elles-mêmes et de leur identité personnelle». Parla, a proposito di questa parte della decisione, di tracce di perplessità nella motivazione, F.D. BUSNELLI, La faticosa evoluzione dei principi europei tra scienza e giurisprudenza nell'incessante dialogo con i diritti nazionali, RDC, 289. (157) Secondo I.A. COLUSSI, Quando a Strasburgo si discute di fine vita. Casi e decisioni della Corte Europea dei diritti dell'uomo in tema di eutanasia e suicidio assistito, in Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, cit., 8 dell'estratto, «La Corte, forse spaventata dall'interrogativo, si limita a ritenere legittima la legislazione svizzera e ad affermare rapidamente che, anche se essa rappresentasse un'interferenza nella vita privata, sarebbe proporzionata». Sulla sentenza Haas, v., con rilievii critici, M. ZANICHELLI, L'aiuto al suicidio può essere un obbligo degli Stati? Paradossi del "diritto di morire", Quad. C, 2011, 2, per la quale «il caso Haas mette in luce la slippery slope che può generarsi dal riconoscimento di nuovi diritti. Il linguaggio dei diritti ha una intrinseca forza persuasiva e "gravitazionale" (…). Riconducendo la libertà di scegliere tempo e modo della propria morte al diritto al rispetto della vita privata, la Corte ha messo in condizione gli individui di far valere tale diritto»; nonché D. BUTTURINI, Note a margine di Corte E.D.U. Haas contro Svizzera, Rivista AIC, 2011, 3. Il 31-5-2011, la C. Dir. Uomo ha dichiarato l'ammissibilità al merito di un altro caso di violazione del preteso "diritto" al suicidio assistito (Ulrich Koch v. Germania, n. 497/09); si tratta di un caso più simile a Pretty che non ad Haas, riguardando una donna sofferente di quadriplegia sensoriale e motoria totale, che si era vista respingere le sue richieste d acquisto e somministrazione del pentobarbitale sodico allo scopo di porre fine alla sua esistenza. La donna poi è andata in Svizzera per realizzare il suo "diritto di morire", presso la clinica "Dignitas", e il marito ha continuato la battaglia legale, contestando non solo la violazione dell'art. 8 Conv. EDU da parte delle autorità tedesche, ma anche la violazione dell'art. 13, sub specie del mancato riconoscimento, da parte dei giudici tedeschi, del suo diritto a rappresentare gli interessi della moglie (ormai deceduta), e a vedere decisa nel merito la sua causa. (158) La tesi secondo cui il "diritto al suicidio" contiene non solo "a right to non interference", ma anche un "positive or welfare right", nel senso che «others (e tra questi, si intende, anche i poteri pubblici) have a duty to assist the individual with suicide», è sostenuta, tra gli altri, da M. PABST BATTIN, Ethical issues in suicide, Prentice-Hall, 1995, 184-185. (159) Si legge ancora nella sentenza, che «(…) Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è spazio – nel quadro dell'alleanza terapeutica che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza (…) (per queste conclusioni, ora accolte dalla sentenza della Suprema Corte, sia consentito rinviare ad A. D'ALOIA, Diritto di morire? La problematica dimensione costituzionale della "fine della vita", cit., 611 e 622)». Anche per E. ROSSI, op. cit., 14 dell'estratto, tra i compiti del medico «vi è quello di favorire – in chiave non ideologica né paternalistica – il consenso alle terapie, specie quando la scienza medica disponga di strumenti in grado di salvare la vita, o quantomeno di apportare benefici concreti alla salute. (…) Il sanitario non deve sottrarsi né al suo ruolo di promotore della salute e della vita, né a quello di curante chiamato a prestare la propria assistenza anche alla persona che consapevolmente respinga una determinata proposta terapeutica». (160) Sulla libertà come "possibilità di scelta", come "empirismo proiettato verso il futuro", v., anche per opportuni riferimenti bibliografici, A. PACE, Libertà e diritti di libertà , in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 14-7-2009, 19 ss.; su questi "contenuti" del concetto costituzionale di libertà, v. anche D'ALOIA, "Diritto" e "diritti" di fronte alla morte, cit., 202-203. Un grande maestro come Ludovico Geymonat (la frase è riportata in GIORELLO-VERONESI, La libertà della vita, Milano,2006, 57) ha scritto: «che mai sarebbe la libertà, se non si desse la libertà di cambiare?». (161) Sia consentito ancora il rinvio a D'ALOIA, "Diritto" e "diritti" di fronte alla morte, cit., 202. v., in termini, A. KAHN, op. cit., 37, e L.R. KASS, Is there a Right to Die?, Hasting Center Rep., 1993, 39-40. A queste considerazioni si è replicato, in dottrina, affermando che non è vero che non esistono diritti utilizzabili una sola volta: «ogni singolo diritto di credito una volta esercitato e soddisfatto si estingue; pertanto è la categoria dei diritti di credito che è utilizzabile più volte, tante quanti sono i diritti di credito che vengono in essere, non il singolo diritto; e non si vede perché ciò non dovrebbe valere anche per il diritto a morire» (CHECCOLI, op. cit., 33, nt. 103). Il punto è proprio questo: l'attuazione del (preteso) "diritto a morire" non cancella (rectius: estingue) un "singolo" elemento di una categoria di diritti, ma la possibilità stessa di avere un qualsiasi diritto; in più lo fa in modo istantaneo, sottraendo al soggetto l'opzione di "tornare indietro», di scegliere diversamente, di avere ancora una possibilità. (162) Cfr. ancora F. REY MARTINEZ, Eutanasia, cit., 171, che sottolinea il "cambio di ruolo" del medico nei contesti di eutanasia autorizzata. (163) Il problema della sedazione "terminale" e la teoria del doppio effetto: il medico si propone solo il risultato positivo, lenire la sofferenza, la morte è già scritta nel decorso naturale della malattia, v. M. FUSCO, Le tematiche di fine vita tra dolore e diritto, in Il futuro della bioetica. Una scienza nuova per il XXI secolo, a cura di Prodromo, Torino, 2008, 281 che richiama M. REICHLIN, L'etica e la buona morte, Torino, 2002, 89 ss. (164) BUSNELLI, Intervento, cit., 348, sottolinea che è proprio il carattere specificante della finalizzazione a presidiare la soglia di accesso all'eutanasia. Sottolinea Ignazio Marino, in MARTINI-MARINO, Credere e conoscere, Torino, 2012, 70, «per il medico c'è anche un problema pratico: per iniettare con una siringa nella vena di una persona una sostanza che la condurrà al decesso nel giro di qualche attimo non basta soltanto la compassione verso un malato, serve anche la fredda determinazione di compiere un atto che intenzionalmente e immediatamente causa la morte». Contra, cfr. la nota posizione conseguenzialista di Rachels, secondo cui la distinzione è implausibile perché, non importa come, in entrambi i casi si vuole raggiungere lo stesso scopo; in tema v. anche MAFFETTONE, op. cit., 276. (165) Parla di una distinzione tra quelle logicamente più travagliate e soggette ad un gioco di specchi, ZATTI, op. cit., 301, rilevando che in entrambi i casi il medico tiene la condotta necessaria perché al paziente sia permesso di morire in conseguenza del suo stato patologico che egli non desidera curare. Negli stessi termini, v. l'ampio studio di N.L. CANTOR,On hastening death without violating legal and moral prohibitions, Loyola Univ. Chi. Law journal, 37 (2006), 409 ss., second cui «a physician's withdrawal of life support is unquestionably an action precipitating death» (410), e che sostanzialmente non ci sono molte differenze tra le due categorie, tanto che appare evidente «the hypocrisy of pretending that physicianassisted suicide death is only lawful in Oregon». (166) A. RUGGERI, Appunti per uno studio sulla dignità dell'uomo, secondo diritto costituzionale, cit., 17. (167) Cfr., su questi profili, RIPEPE, op. cit., 347, secondo cui «si tratta concettualmente di due ipotesi diverse (il che non esclude naturalmente, l'esistenza di casi in relazione ai quali può risultare difficile stabilire se rientrino nella prima o nella seconda ipotesi»; una posizione analoga è espressa da N. CANTOR, On hastening death without violating legal and moral prohibitions, Loyola Univ. Chicago Law Journal, 37, 2006, 408 ss. (168) C. CASONATO, Il consenso informato, cit., 9-10. Sul primo caso, v. altresì i dubbi espressi da CAVALLA, Diritto alla vita, diritto sulla vita. Alle origini delle discussioni sull'eutanasia, DS, 1, 2008, 24. (169) [169] In questo caso, la High Court of Justice di Londra, con sentenza del 22-3-2002, accolse l'istanza di Miss B., intimando all'ospedale di rispettare ed attuare la volontà di interrompere il trattamento da parte della donna, e condannando altresì la struttura sanitaria ad un risarcimento danni per "unlawful trespass". La Corte in particolare respinse l'argomento, sostenuto dalla difesa della struttura sanitaria, secondo cui la richiesta di interrompere un trattamento salva-vita denoterebbe una condizione di incapacità del soggetto richiedente, rendendo la richiesta medesima invalida; secondo il Giudice inglese, «there is a presumption that a patient has a mental capacity to make decisions whether to consent or refuse medical treatment offered to him or her. (…) a seriously disabile patient who is mentally competent has the same right to personal autonomy and to make decisions as any other person with mental capacity». Sulla vicenda, v. C. CASONATO, Introduzione al biodiritto, cit., 161. (170) Diversamente dal caso di Miss B., le azioni giudiziarie di Diane Pretty furono respinte dagli organi della giustizia inglese (Divisional Court e House of Lords). La questione approdò poi alla C. Dir. Uomo, che giudicò legittima la posizione dei Giudici inglesi e il contenuto del Suicide Act, in base al quale le richieste della Pretty erano state rigettate; su questa complessa vicenda giudiziaria, v. SMORTO, op. cit., 163 ss. (171) Diversamente, C. TRIPODINA, Primavera 2002: la "questione eutanasia", cit., 370, si chiede se «corrisponde (…) davvero ad un principio di giustizia che l'identica rivendicazione, (…) sia legata in modo così definitivo e dirimente a fattori totalmente accidentali, quali l'essere fisicamente in grado di togliersi la vita da soli piuttosto che il non esserlo; l'essere attaccati ad una macchina di cui si può rivendicare lo spegnimento piuttosto che il non esserlo; l'aver bisogno, per morire, che trattamenti siano somministrati, piuttosto che sottratti». (172) Contra, v. CHECCOLI, op. cit., 27, secondo cui «(…) si è soliti ricondurre all'ipotesi di eutanasia passiva anche il caso del distacco delle apparecchiature di sostegno vitale, (il caso Welby), che però, a voler adottare un approccio esclusivamente naturalistico, è in tutto e per tutto una condotta attiva: è infatti evidente, sulla base della ricostruzione sopra descritta, che, soprattutto nel caso di eutanasia passiva diretta, la morte è immediata conseguenza di un decorso causale di eventi posto in essere da colui che "stacca la macchina"» Per F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 69, invece la vicenda di Welby rientra nella sfera del diritto di rifiutare le cure. (173) F. REY MARTINEZ, Eutanasia, cit., 128, che distingue tra sedación terminal e sedación en agonÍa. (174) Come rileva John B. MITCHELL, op. cit., 151, «(…) pulling the plug is naturally self-limiting and circumscribed. It is narrowly limited as to time, place, and circumstances: a hospital, a dying patient who is dependent on a machine with a few days or hours to live. Suicide, even for the terminally ill, can cover a far broader scenario of time, place, and circumstances». (175) Cfr. Cass R. SUNSTEIN, The Right to Die, cit., 1997, 1153. Notano ancora MILLER-FINS-SNYDER, op. cit., 24, che «Patient self-determination is much more fundamentally at stake in refusal of treatment and decisions to stop eating and drinking than in request for lethal medication. Failure to respect these former decisions by imposing unwanted medical treatment (…) involved lack of consent to bodily invasion of a competent person, constituting a gross violation of personal freedom and rights. In contrast, failure to honor a patient's voluntary request for lethal medication interferes with self-determination but does non amount to a comparable violation of the person. Individuals denied requested lethal medication remain free to seek death by stopping any life-sustaining treatment or refraining from eating and drinking. (…)». (176) Per una prospettiva analoga, da me già sostenuta in "Diritto" e "diritti" di fronte alla morte. Ipotesi ed interrogativi intorno alla regolazione normativa dei comportamenti eutanasici, in Bioetica e diritti dell'uomo, a cura di Chieffi, Torino, 2000, 200 ss., v. ora F.G. PIZZETTI, Alle frontiere della vita. Il testamento biologico tra valori costituzionali e promozione della persona, Milano, 2008, 173 ss. (177) Quasi tutti i leading cases di questa tematica così "sensibile" e drammatica fanno riferimento allo SVP; lo nota K.L.CERMINARA, op. cit., 175. (178) Critico verso queste operazioni linguistiche di "nascondimento" dell'artificio è F.D. BUSNELLI, Vicende di fine vita, cit., 136. (179) È la posizione ad esempio della Società italiana di nutrizione parenterale ed entrale (SINPE) riportata da F.G.PIZZETTI, op. cit., 275 ss. (180) DEFANTI, Uno stimolo al dibattito per una buona morte, Bioetica, 2001, 255. Sulle procedure di "nia" come trattamento ordinario, sostegno vitale, si pronunciò, sebbene con molte dissenting opinions, il Comitato Nazionale di Bioetica nel 2005, con il parere intitolato L'alimentazione e l'idratazione dei pazienti in stato vegetativo persistente, parlando di «forme ordinarie di assistenza di base, sempre dovute salvo che il paziente non possa più assimilare e metabolizzare». In senso completamente diverso, sono le conclusioni esposte nelle Linee Guida SINPE per la Nutrizione artificiale ospedaliera del 2002, secondo le quali il trattamento di "nia" è una terapia medica, indispensabile per la sopravvivenza, e a volte impiegata in condizioni di difficile valutazione etica; in tale documento, si segnalava altresì la necessità di valutare sempre il rapporto rischio-beneficio prima di intraprendere questo trattamento, che può essere futile perché non garantisce l'individuo nella sua piena e completa identità ed etica di persona. In dottrina, favorevole a considerare la "nia" come trattamento medico, è P. VERONESI, Il corpo e la Costituzione, cit., 228. (181) Come ricorda L. SHEPERD, If that ever happens to me. Making life and death decisions after Terri Schiavo, The University of North Carolina Press, 2009, 147, «the formulas are regulated by the Federal Food and Drug Administration as "medical foods", and the feeding tubes are regulated as "medical devices"». Per G. FERRANDO, Stato vegetativo permanente e sospensione dei trattamenti medici, in Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, Milano, 2005, 146 ss., «non c'è nulla di ordinario, normale, naturale nella condizione del paziente in SVP, (…), idratazione e nutrizione artificiali sono un vero trattamento medico, quello che viene somministrato non è cibo, ma una miscela di nutrienti e sostanze chimiche appositamente preparate dai medici»; inoltre, «la decisione di sospendere può essere l'estremo atto di rispetto della sua autonomia e della sua dignità, (a condizione di ) verificare la legittimazione dei soggetti che chiedono la sospensione, la condizione di irreversibilità della perdita di coscienza, l'inutilità delle cure, le intenzioni eventualmente espresse in precedenza». (182) Nota C. BORGOÒO, Rifiuto delle cure. Il dibattito sulla nutrizione e l'idratazione artificiale nella Chiesa Cattolica, in Il diritto alla fine della vita, cit., 3 dell'estratto, «lo SVP non è una malattia terminale, nel senso che non porta alla morte in breve tempo, anzi, come lo stesso nome lascia intravvedere, si tratta piuttosto di una situazione stabile»; analogamente, a proposito del caso Cruzan, v. Y. KAMISAR, When is There a Constitutional Right to Die? When Is There No Constitutional "Right to Live"?, Georgia Law Rev., 25, 1991, 1213. (183) Niente di più lontano da alcuni approcci ipersoggetivisti, per I quali, in situazioni del genere «non c'è autonomia da ledere. [Essi] costituiscono esempi di non-persone umane» (è la posizione ad esempio espressa da H.T. ENGELHARDT jr.,Manuale di bioetica, Milano, 1991, 126. (184) Cfr., in tal senso, anche L. SHEPERD, op. cit., 19. Per F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 80, «il negare la dignità umana sulla base del criterio della coscienza è scivolare sulla china eugenetico-razzista della negazione di tale dignità anche ai soggetti infermi di mente, dementi, ritardati, colpiti da ictus, o di una graduatoria della dignità umana in base al criterio della maggiore o minore coscienza». (185) STANZIONE-SALITO, Il rifiuto "presunto" alle cure: il potere di autodeterminazione del soggetto incapace, I, 2008, 76. (186) Non credo possa rilevare, a contrario (potendo semmai essere importante sul piano diagnostico, dell'accertamento dello SVP rispetto alle altre condizioni di "disordine della coscienza", come lo SMC (o Stato di minima coscienza) o gli SV a vario titolo reversibili), la possibilità – attraverso le nuove metodologie diagnostiche di neuroimaging (come la PET e la fMRI) – di evidenziare risposte metaboliche cerebrali che sembrano attivarsi in alcune aree sottoposte a stimolazione di tipo cognitivo; v., su questa prospettiva, comunque estremamente interessante e problematica, lo studio di S. ZULLO,Stato vegetativo: decisioni e ricadute normative alla luce delle nuove metodologie di neuroimaging, in Il diritto alla fine della vita, cit., ???? ss.; cfr. anche C.A. DEFANTI, Osservazioni sul documento del gruppo di lavoro ministeriale su "Stato vegetativo e di minima coscienza", Bioetica, 2010, 2, che critica la forzata rappresentazione ottimistica che emerge dal documento del gruppo di lavoro, che rischia di alterare – con messaggi di altro tipo – la ricerca e il confronto scientifico sullo SV, (187) D'ALOIA, Il diritto di rifiutare le cure e la fine della vita. Un punto di vista costituzionale sul caso Englaro, DUDnt, 3. 2009. Come ha scritto H. JONAS, op. cit., 49, il vero compito della medicina è «mantenere la fiamma della vita viva, non la sua cenere ardente». (188) Può essere interessante notare che in un Rapport dell'Assemblea Nazionale francese, «sur la proposition de loi de M. Jean-Marc Ayrault et plusieurs de des collègues relative au droit de finir sa vie dans la dignité», progetto di legge che rappresenta, nelle intenzioni dei proponenti, un ulteriore "passo in avanti" rispetto alla l. 22-4-2005 "relative aux droits des malades et à la fin de vie", il caso di Eluana Englaro viene ascritto alla categoria del "laisser mourir"; anche A. RAUTI,op. cit., 248-249, parla di "morte non impedita", e non di "morte procurata". (189) «Un incubo tra gli incubi del nostro tempo (…)» per F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 78. (190) Cfr. anche le riflessioni di P. ZATTI, 2009, 307, secondo cui considerare la volontà pregressa in questi casi non è sbagliato anche perché «a fronte di ciò non si leva una possibile (anche minima) utilità finale del trattamento che imponga un bilanciamento». Come è stato attentamente rilevato (SEMPLICI-VIGNA-AZZONI, Il "testamento biologico". Quattro premesse di una condivisione possibile, 2009, paper), l'art. 53 del codice di deontologia medica fa divieto ai medici di «collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale» se la persona, adeguatamente informata «sulle gravi conseguenze che un digiuno protratto può comportare sulle sue condizioni di salute», rifiuta di nutrirsi. Si può considerare sufficiente a rovesciare questa conclusione il fatto – ovviamente importante – che la propria volontà non possa essere più confermata "qui ed ora"? (191) L'importanza di accertamenti scientifici accurati, prolungati, e, possibilmente svolti anche da professionisti diversi, per evitare il rischio di diagnosi affrettate, e persino errate di SVP, è sottolineato da L. SHEPERD, op. cit., 20 ss., che cita proprio alcuni casi di "improvviso" risveglio da SVP, che in realtà avevano alle spalle una diagnosi sbagliata. (192) Senza contare che «nella delicatissima ed eccezionale situazione del fine-vita, ogni trattamento può dirsi di sostegno lato sensu vitale»: così S. AGOSTA, op. cit., 8, che aggiunge: «che significato avrebbe, difatti, vietare l'interruzione di idratazione ed alimentazione e non pure quella di una dialisi o di un antibiotico contro un'infezione o di un antitrombolitico o di un unguento antipiaghe? In quella straordinaria condizione di totale dipendenza, l'ammalato, pur regolarmente idratato, si spegnerebbe comunque tra atroci sofferenze (…)». (193) Può essere interessante notare che in un Rapport dell'Assemblea Nazionale francese, «sur la proposition de loi de M. Jean-Marc Ayrault et plusieurs de des collègues relative au droit de finir sa vie dans la dignité», progetto di legge che rappresenta, nelle intenzioni dei proponenti, un ulteriore "passo in avanti" rispetto alla l. 22-4-2005 "relative aux droits des malades et à la fin de vie", il caso di Eluana Englaro viene ascritto alla categoria del "laisser mourir"; anche A. RAUTI,op. cit., 248/249, parla di "morte non impedita", e non di "morte procurata". (194) Come dice R. DWORKIN, Il dominio della vita, cit., 297-299, «non è vero che l'eutanasia, nei termini larghi (…), offende sempre la sacralità della vita, a volte la difende (…) nella vita c'è un contributo naturale e un contributo umano, e anche il contributo umano non deve essere sempre frustrato o sprecato (…), il problema è capire come la sacralità deve essere intesa e rispettata (…). Lasciar morire una persona in un modo che altri approvano, ma che essa considera in orribile contraddizione con la sua vita, è una forma di tirannia odiosa e distruttiva» (300). In termini analoghi, v. G. Steven NEELY,op. cit., 110; e T. MC CONNELL, Inalienable Rights. The Limits of Consent in Medicine and the Law, Oxford Univ. Press, 2000, 94, secondo cui «Legally permitting voluntary active euthanasia is compatible with the right to life having the legal status of inalienability» . (195) «Un incubo tra gli incubi del nostro tempo…» per F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 78. (196) Così G. COSMACINI, Testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta, Bologna, 2010, 84, richiamando un lavoro scientifico di Bryan Jennet e Fred Plum su Lancet dell'1-4-1972. (197) Invero, anche questo elemento è molto controverso. Per una parte della letteratura scientifica, il concetto di permanenza applicato allo stato vegetativo avrebbe una valenza "probabilistica": così, P. BONGIOANNI, Persona e fine vita. Dialogo tra medicina e diritto sulle direttive anticipate di trattamento sanitario. Il ruolo del neuropsicologo: valutazione della capacità di intendere e di volere, in Diritto alla salute e alla "vita buona" nel confine tra il vivere e il morire. Riflessioni interdisciplinari, a cura di Stradella, Pisa, 2010, 89-90, «è assurdo parlare di certezza di irreversibilità. Il termine "permanente" è intrinsecamente inesatto, sia dal punto di vista linguistico sia da quello medico». (198) L'importanza di accertamenti scientifici accurati, prolungati, e, possibilmente svolti anche da professionisti diversi, per evitare il rischio di diagnosi affrettate, e persino errate di SVP, è sottolineato da L. SHEPERD, op. cit., 20 ss., che cita proprio alcuni casi di "improvviso" risveglio da SVP, che in realtà avevano alle spalle una diagnosi sbagliata. Sulla difficoltà di fare diagnosi accurate e certe nel campo dello SV, e sull'importanza che potrebbero avere le tecniche neuro-diagnostiche come la Risonanza magnetica funzionale (o fMRI), v. G. COSMACINI, op. cit., 84-85; C. BORGOÒO, op. cit., 5 dell'estratto. (199) Cfr. anche le riflessioni di P. ZATTI, op. cit., 307, secondo cui considerare la volontà pregressa in questi casi non è sbagliato anche perché "a fronte di ciò non si leva una possibile (anche minima) utilità finale del trattamento che imponga un bilanciamento". In termini analoghi, v. altresì le considerazioni di E. PALMERINI, Che cosa si può fare per la "vita buona"? La prospettiva del giurista, in Diritto alla salute e alla "vita buona" nel confine tra il vivere e il morire. Riflessioni interdisciplinari, cit., 57-58, secondo cui «L'approccio più sensato dal punto di vista giuridico al dilemma posto dalla condizione di un paziente in stato vegetativo non è, infatti, chiedersi se la sua vita sia buona e dunque meriti di essere preservata; ma se si debba prolungare un trattamento medico che, somministrato in assenza di consenso, almeno trova giustificazione nella obiettiva corrispondenza al bene di chi lo subisce (…). La necessaria combinazione di due aspetti, quello oggettivo – la gravità ed irreversibilità della condizione clinica del paziente, di pura sopravvivenza vegetativa – e quello soggettivo – la congruenza della decisione assunta con la personalità di quest'ultimo o addirittura con eventuali dichiarazioni anticipate – è posta proprio quale argine a soluzioni che esprimano un giudizio puramente soggettivo sulla qualità della vita di persone con disabilità». Come è stato attentamente rilevato (SEMPLICI-VIGNA-AZZONI, Il "testamento biologico". Quattro premesse di una condivisione possibile, 2009, paper), l'art. 53 del Codice di deontologia medica fa divieto ai medici di «collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale» se la persona, adeguatamente informata «sulle gravi conseguenze che un digiuno protratto può comportare sulle sue condizioni di salute», rifiuta di nutrirsi. Si può considerare sufficiente a rovesciare questa conclusione il fatto – ovviamente importante – che la propria volontà non possa essere più confermata "qui ed ora"? (200) G. COSMACINI, op. cit., 59 e 62, parla, a proposito dello SVP, di «un tempo di nessuno (sconfinante nella morte)», richiamando l'espressione usata nel film di Ingmar Bergman "Il posto delle fragole", vale a dire colui che «è morto pur essendo vivo». (201) Il d.d.l. (che risulta dall'unificazione di ben 14 disegni di legge) è stato approvato in prima lettura dal senato in data 26-3-2009, e in seconda lettura (con modifiche) dalla Camera dei Deputati, in data 12-72011. (202) Si prevede, all'art. 3, 4° co., del testo approvato dalla Camera dei Deputati, che «(…) alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente in fase terminale i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento». (203) In riferimento alla vicenda di Eluana Englaro, il decreto della Corte d'Appello di Milano (A. Milano, sez. I civ., 25-6-2008), con il quale – a seguito della sent. della Cassazione n. 21748/2007 – è stato autorizzata «l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico», fa riferimento anche alla «straordinaria durata dello Stato Vegetativo Permanente (e quindi irreversibile) (…)» in cui versava la giovane donna. Si pensi altresì al caso Aruna Ramachandra Shanbaug deciso dalla Corte Suprema dell'India il 7-3-2011, dove la donna era (al momento del giudizio) in SVP da ben 37 anni! Per un commento a questa vicenda, v. M.CAPPELLETTI, Verso la legittimazione dell'eutanasia passiva in India: the Aruna case, in www.biodiritto.eu, 2012. (204) Come suggerito ad esempio da F.G. PIZZETTI, op. cit., 280. (205) È il titolo del libro di E. CALÒ , Il ritorno della volontà , Milano, 1999. (206) Questo almeno sul piano teorico, giacchè non si può negare che la procedura del consenso abbia subito uno slittamento verso forme di gestione essenzialmente burocratiche e formalistiche; v. C. CASONATO, Introduzione al biodiritto1, Torino, 2006, 10. Senza contare che condizioni e motivazioni economiche possono certamente incidere sulla libertà effettiva del consenso, come rileva attentamente NICOLUSSI, Al limite della vita: rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, cit., 287. (207) Come scrive M.I. UROFSKY, op. cit., «Karen Quinlan: the debate begin». (208) Karen Quinlan, com'è noto, morì di polmonite acuta dopo ben dieci anni dal distacco del respiratore; infatti, i medici non fecero ricorso, per curare la polmonite, alla terapia antibiotica, considerati un mezzo "straordinario" di cura, o comunque un trattamento sanitario e medico a tutti gli effetti. (209) Per un parallelo tra Quinlan e Roe, sebbene bisogna tener conto che nel secondo caso l'autonomia non è esercitata dal "soggetto" che "subisce" la decisione, v. Ch. BARON, The Right to Die: Themes and Variations, cit., 1843. (210) L. MINGARDO, Quinlan, Cruzan ed Englaro. La giurisprudenza americana in tema di substituted judgement attraverso gli occhi di un giudice italiano: la (ri)costruzione della volontà del paziente incapace, in Forum Biodiritto 2008, cit., 407. (211) E di tutta una serie di altri casi in cui molte Corti Supreme americane affermarono «the right of terminally, incurably ill and permanently semi-comatose person to decide his or her own treatment», su cui v. B. BARBISAN, Paradoxes and fictions of the "Right to die": Hyper-Rationalism in the Quinlan Case, in Il diritto alla fine della vita, cit., ??? ss. Di una "Quinlan legacy" parla R.S. OLICK, op. cit., 2 ss., 21 ss. Analogamente, a livello federale, il Patient Self-Determination Act del 1990, fu la ricaduta politica del caso Cruzan, e della sentenza della Corte Suprema Federale (25). (212) Secondo Cass R. SUNSTEIN, The Right to Die, cit., 1124, il sistema federale è in generale adatto ad esperimenti comparativi. (213) Sulla loi Léonetti v. S. HENNETTE VAUCHEZ, La fin de vie en France: droits du patient ou droits du médecin?, in Il diritto alla fine della vita, cit. (214) Su cui vedi CHIARELLA, Interrogativi sul «diritto al rifiuto delle cure»: consenso e incapacità nelle scelte di fine vita, cit., 119-120. (215) Vedi G. COSMACINI, op. cit., 112-113. (216) Sull'ordinamento spagnolo, e sul progetto di legge statale su "los derechos de la persona ante el proceso del final de la vida", v. F. REY MARTINEZ, Qué significa en el ordinamento espaòol el derecho a "vivir con dignidad el proceso de la muerte"?, in Il diritto alla fine della vita, cit. (217) Cfr. ancora SIMONCINI-CARTER SNEAD, I profili costituzionali delle decisioni sulle cure di persone incapaci tra libertà e giusto processo (con uno sguardo oltreoceano), Quad. C, 1, 2010, 15 e 18. (218) Sui diversi modelli di direttive anticipate, v. una consistente rassegna in J. DONALD SMITH, Right-to-Die Policies in the American States, New York, 2002, 78 ss.; nonché B.D. COHEN, The essential Guide to a Living Will, New York, 1991, 31 ss. (219) In questi termini, già A. D'ALOIA, Diritto di morire?, cit., 618 ss. (220) Da ultimo, la disciplina tedesca del Patientverfügung, comprende espressamente tra i trattamenti sui quali è possibile esprimere la volontà anticipata di sospensione, anche l'idratazione e l'alimentazione artificiale; del resto, in questo senso, si era già espressa la Corte Suprema Federale (Bundesgerichtshof) con la sent. dell'8-6-2005. Sull'esperienza tedesca, v. ora M.L. CHIARELLA, Interrogativi sul «diritto al rifiuto delle cure»: consenso e incapacità nelle scelte di fine vita, cit., 119 ss. (221) F.G. PIZZETTI, op. cit., 69 ss. Un'espressione analoga ("pianificazione sanitaria anticipata") è usata anche nel documento del Comitato Nazionale di Bioetica sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, del 18-12-2003, 6. (222) F.G. PIZZETTI, op. cit., 137. Per una posizione analoga, v. anche G. GRASSO, op. cit., 95. (223) Sui living wills come strumento dell'autodeterminazione, finalizzato "to preserving autonomy", v. MEISEL-CERMINARA, op. cit., 7.15 e 7.21 ss. (224) L'utilizzabilità del living will in Italia anche in assenza di una regolamentazione legislativa espressa, è stata sostenuta da A. SANTOSUOSSO, A proposito di living will e di advance directives: note per il dibattito, PD, 1993, 477; di recente, v. anche L. CARLASSARE, La Costituzione, la libertà, la vita, in www.costituzionalismo.it, 2009, 3. (225) Cfr. T. Modena, 13-5-2008, che parla di «assoluta superfluità di un intervento del legislatore volto a introdurre e a disciplinare il c.d. testamento biologico». Per un commento a questo provvedimento, v. G. SALITO, Designazione preventiva dell'amministratore di sostegno e testamento biologico, I, 2009, 2, 207, che invita invece a ridimensionare l'analogia o meglio l'identità; secondo l'A. (212) sono due fattispecie diverse, distinte per presupposti e finalità: l'amministratore di sostegno non può essere equiparato al fiduciario dell'attuazione delle direttive anticipate, se non altro per il fatto che il primo è nominato dal giudice, mentre il secondo dovrebbe essere incaricato direttamente dall'interessato. (226) Cfr. A. LOMBARDI, Direttive anticipate, testamento biologico ed amministrazione di sostegno, GM, 2008, 10, 2534 ss., secondo cui l'amministrazione di sostegno può essere strumento attuativo delle direttive anticipate, astrattamente idoneo a conferire all'amministratore anche un potere di esprimere decisioni in ordine alla cura e al ricovero dell'amministrato, in via generale o con riferimento ad uno specifico trattamento terapeutico o chirurgico; e G. BONILINI,Testamento per la vita e amministrazione di sostegno, in www.fondazioneveronesi.it, 2005, 192-193, secondo cui l'aspetto più significativo dell'istituto è proprio nei compiti di cura della persona che competono all'amministratore di sostegno, e che ne fanno un Istituto che non può essere più riguardato soltanto nella prospettiva dell'amministrazione dei beni del beneficiario. (227) F.D. BUSNELLI, Vicende di fine vita, cit., 134. (228) Tra le decisioni che hanno respinto la richiesta di nomina di un AdS in vista di future decisioni relative a trattamenti sanitari, vedi ad es. T. Verona, (decr.) 4-1-2011; T. Roma, (decr.) 1-4-2009; T. Pistoia, 1-42009; T. Genova, (decr.) 6-3-2009. (229) Per una rassegna di queste decisioni, v. C. VIGILANTI, Sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di amministrazione di sostegno e decisioni di fine vita, cit., 6 ss. dell'estratto, e B. VIMERCATI, Amministrazione di sostegno e consenso informato: un rapporto controverso, entrambi in Il diritto alla fine della vita, cit., ??. (230) Tra le principali pronunce, v. T. Modena, (decr.) 13-5-2008 e 5-11-1008; T. Firenze, (decr.) 22-122010. (231) In questo senso, v. la condivisibile posizione espressa nei lavori appena citati di C. VIGILANTI, Sui recenti orientamenti giurisprudenziali, cit., 6 ss. dell'estratto, e di B. VIMERCATI, op. cit. (232) G.M. FLICK, A proposito di testamento biologico: spunti per una discussione, PD, 2009, 527. (233) Cfr. T. Cagliari, (decr.) 14-12-2009; T. Varese, (decr.) 25-8-2010. Anche per G. GRASSO, op. cit., 96, serve «una legge che cerchi di attualizzare per quanto possibile la volontà espressa dal malato, allora per ora, (…) sfruttando le virtualità della l. 9 gennaio 2004, n. 6, in tema di amministrazione di sostegno». (234) In tal senso, v. DE CAPRIO, La morte della mente e i limiti della ragione, Napoli, 1998, 62-64. (235) E. PALMERINI, Che cosa si può fare per la "vita buona"? La prospettiva del giurista, cit., 59, che, proprio a proposito delle direttive anticipate, sottolinea il rischio di «un apprezzamento impreciso, non autenticamente informato, perché privo della comprensione che solo l'esperienza può dare». (236) V. A. PESSINA, Contributo, in AA.VV., Dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari. Raccolta di contributi forniti alla Commissione igiene e Sanità , documentazione di Commissione, XII Comm. Perm. del Senato, XV Legisl., n. 5, 2007, 183. Talvolta, le posizioni sono anche più nette, nel senso di circoscrivere l'efficacia della volontà ai casi di stretta contestualità con la scelta terapeutica. In una recente sentenza della III sez. civile della Corte di Cassazione (Cass., 22-5-2008, n. 23767), relativa al caso del rifiuto di trasfusioni di sangue da parte dei testimoni di Geova, si legge che il dissenso (del paziente) deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata: «Esso deve, cioè esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata, un'intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto "ideologica", ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una precomprensione: in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l'informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute». (237) Ed è in effetti quello che fa, almeno nella sua versione attuale, anche l'art. 4 del d.d.l. unificato in tema di Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento, il quale, al 6° co., espressamente esclude l'applicabilità della d.a.t. «in condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato». Come ho rilevato in altra sede (Il diritto di rifiutare le cure e la fine della vita. Un punto di vista costituzionale sul caso Englaro, DUDInt, 2009, 3, 393), un'applicazione di questa norma al di fuori dalle situazioni di "prima urgenza" (si pensi al soggetto che giunge al pronto soccorso in stato di incoscienza o alla vittima di un arresto cardiaco), nelle quali appare ragionevole che il medico sia autorizzato ad intervenire senza preoccuparsi dell'esistenza o meno di una dat, e del suo contenuto, rischierebbe di delimitare fortemente l'ambito attuativo della nuova disciplina delle dichiarazioni anticipate. (238) V. CAVALLA, op. cit., 27. In questo senso, v. anche il documento del Comitato Nazionale di Bioetica sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, del 18-12-2003, 6-7 e 14, dove si aggiunge: «questo è già un primo e decisivo argomento (ma non certo l'unico) contro una rigida vincolatività delle dichiarazioni anticipate, che, anche se redatte con estremo scrupolo, potrebbero rivelarsi non calibrate sulla situazione esistenziale reale nella quale il paziente potrebbe venire a trovarsi». (239) Dice F.D. BUSNELLI, Intervento, cit., 383: «(…) un eventuale divieto contenuto nelle direttive anticipate non va posto sullo stesso piano del rifiuto delle terapie (…). Mentre, infatti, il rifiuto vale a chiudere una vicenda procedimentale aperta da una proposta del medico e concerne una situazione patologica in atto, la direttiva apre una vicenda procedimentale destinata ad essere chiusa, in un modo o nell'altro, dal medico, se e quando la situazione patologica ipotizzata dall'interessato divenga attuale e il paziente non sia più in grado di manifestare la sua volontà». (240) In questo senso, v. anche le acute riflessioni di F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 64 ss. (241) Sulla Direttiva come strumento che spezza la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere, così M. DE TILLA, Introduzione, in Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, cit., XIII. Sottolinea i rischi di un esasperato individualismo, che non si concilia con quello che è stato chiamato il mondo silenzioso dei rapporti tra medico e paziente (richiamando il titolo del libro di J. KATZ, The silent world of Doctor and Patient, cit.), F.D. BUSNELLI, Il diritto e le nuove frontiere della vita umana, I, 1987, 274. Cfr. anche le riflessioni di S. MAFFETTONE, op. cit., 285, secondo cui questi strumenti vanno senz'altro incoraggiati, «anche se non va dimenticato che queste formule possono facilitare talvolta l'operato del medico, ma non mai sostituirsi ad una decisione morale meditata». (242) L. BATTAGLIA, op. cit., 271, parla di strumento flessibile e aperto, idoneo proprio per questo a regolare situazioni eticamente controverse. (243) Si legge infatti nel Rapporto esplicativo sull'art. 9 della Convenzione, che «(…) tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano necessariamente essere eseguiti. Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell'intervento e la scienza ha da allora fatto progressi, potrebbero esserci le basi per non tenere in conto l'opinione del paziente. Il medico dovrebbe quindi, per quanto possibile, essere convinto che i desideri del paziente si applicano alla situazione presente e sono ancora validi, prendendo in considerazione particolarmente il progresso tecnico in medicina». Cfr. anche NICOLUSSI, Al limite della vita: rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, cit., 290-291, che in relazione a questo punto mette a confronto l'esperienza francese (il riferimento è alla l. n. 2005-370 del 22-4-2005, relativa «aux droits des malades et à la fin de vie»), molto vicina alla impostazione della Convenzione europea sulla biomedicina, e la soluzione offerta invece dalla cultura giuridica tedesca e da quella anglosassone (tra cui appunto l'esperienza USA), più incline a riconoscere alle direttive anticipate un impatto vincolante automatico (e in un certo senso anche deresponsabilizzante) sulle decisioni e sui comportamenti del medico; cfr. sulla Germania e sulla recente "Drittes Gesetz zur Änderung des Betreuungsrechts", che appunto disciplina il c.d. "Patientenverfügung", v. anche M.L. CHIARELLA, op. cit., 119-120. (244) R.S. OLICK, op. cit., 214. Vedi altresì G.M. FLICK, op. cit., 529, secondo cui «come non sarebbe giusto azzerare retroattivamente la volontà di allora del soggetto, così non si può azzerare la valutazione attuale del medico». (245) Propone una vincolatività relativa delle direttive, come via mediana tra l'efficacia vincolante automatica e la totale rimessione di ogni decisione alla discrezionalità del medico, F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 66. (246) A. RAUTI, op. cit., 262-263. In questo senso, appaiono troppo "chiuse" le formulazioni contenute nel d.d.l. unificato in precedenza cit. Le dichiarazioni anticipate contengono "orientamenti" che «sono presi in considerazione dal medico curante», il quale può non seguire tali orientamenti espressi dal paziente senza motivazioni particolari, essendo sparita (nel testo attualmente in discussione) l'affermazione per cui la decisione di disattendere era essenzialmente legata al caso «in cui la dichiarazione anticipata di trattamento non sia più corrispondente agli sviluppi delle conoscenze tecnico-scientifiche e terapeutiche». Già altrove (Il diritto di rifiutare le cure e la fine della vita, cit., 392) ho espresso l'opinione che, in un contesto di questo tipo, il medico continui ad essere un arbitro con troppi margini di discrezionalità, che oltrepassano la semplice esigenza di interpretare e "attualizzare" il testamento biologico e la volontà in esso espressa; e ovviamente questa discrezionalità va ad occupare e a comprimere lo spazio del diritto di rifiutare (anche anticipatamente) le cure, e il risultato è indubbiamente restrittivo rispetto alle potenzialità interpretative del parametro costituzionale già sperimentate e praticate in sede giudiziaria (ad es. nel caso Englaro). (247) In tal senso, v. C. VIGILANTI, Le D.A.T., cit., 24. Cfr. per l'esperienza francese, anche E. PULICE, op. cit., 12 dell'estratto. (248) Per un ampio studio dei diversi modelli di living wills, v. ora F.G. PIZZETTI, op. cit., 401 ss. (249) Sia consentito, sul punto, il rinvio a A. D'ALOIA, Autonomia individuale e situazioni critiche, in Medicina ed etica di fine vita, a cura di Coltorti, Napoli, 2004, 266 e 273-274. (250) Vedi F.D. BUSNELLI, Vicende di fine vita, cit., 135. (251) Così la Corte Suprema del New Jersey nel caso "in re Conroy", del 1985. Su questo caso, relativo ad una donna di 84 anni, mentalmente incapace, v. Ch. BARON, The Right to Die: Themes and Variations, cit., 1845. (252) Sulla decisione Cruzan come svolta, anche se in quel caso la Corte ha deciso contro la richiesta dei genitori (affermando che «the choice between life and death is a deeply personal decision of obvious and overwhelming finality. We believe Missouti may legitimately seek to safeguard the personal elemento f this choice through the imposition of heightened evidentiary requirements»), e con una decisione 5-4, con diverse concurring opinions nell'ambito della maggioranza, v. Carl E. SCHNEIDER, The Road to Glucksberg, in ID. (ed.), Law and end of life, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 2000, 16. Sta di fatto, come rileva N.L. CANTOR, Déjà vu all over again: the false dichotomy between sanctity of life and quality of life, cit., 91, molti Stati hanno adottato sul piano legislativo il criterio elaborato da Cruzan della "clear and convincing evidence". Appare importante altresì sottolineare che il precedente Cruzan è stato richiamato talvolta anche fuori dai casi di "right to die" in senso stetto. In particolare, la parte in cui Cruzan sottolinea il fondamentale interesse dello Stato alla protezione della vita, è stata adottata come base per affermare un diritto del malato terminale ad accedere a farmaci sperimentali quando le cure disponibili non hanno alcuna possibilità di utilizzazione in relazione al suo stato patologico; cfr. Abigail Alliance for Better Access to Developmental Drugs v. Von Eschenbach (D.C. Circuit Court, 21-11-2006), su cui v. il commento di MEISELCERMINARA, op. cit., 1A - 36/37. Per la dottrina italiana sul caso Cruzan, v. per tutti G. PONZANELLI, Nancy Cruzan, la Corte Suprema degli Stati Uniti e il "right to die", FI, 1991, IV, 74 ss. (253) La Court of Appeal della California, nel caso "In re Barber", del 1983, afferma chiaramente che «if it is not possible to ascertain the choice the patient would have made, the surrogate ought to be guided in his decision by the patient's best interest». La New Jersey Supreme Court, nel caso Conroy, del 1985, prova ad articolare il criterio del "best interest" in due sub-criteri: "limited-objective test", in cui il fiduciario deve cercare di esprimere il best interest del paziente per come egli stesso lo avrebbe espresso prima di diventare incompetente, e il "pure objective test", che invece si basa su una valutazione eminentemente oggettiva, senza poter avere alcun riguardo, nemmeno presuntivo, ai "wishes" del paziente; su questi casi, v. la sintesi in MEISEL-CERMINARA, op. cit., 4.52/53. (254) C. TRIPODINA, Profili comparatistici dell'eutanasia. Itinerari giuridici alla scoperta di un "diritto" in via di riconoscimento,DPCE, 2001, IV, 1743. Va sottolineato tuttavia che questo argomento compare in cinque opinioni dei Justices, alcune delle quali dissenzienti, cioè non ricomprese nella formazione della maggioranza; v. W.H. COLBY, From Quinlan to Cruzan to Schiavo: What have We Learned?, Loyola Univ. Chic. Law Journal, 37 (2006), 289. (255) Su questa sentenza, v. tra gli altri, P. TEACHOUT, A time to die: A proposed Constitutional framework for dealing with End-of-life decisions in a world transformed by modern technology, in C. CASONATO (ed.), Life, Technology and Law, cit., 68. (256) È necessaria una manifestazione effettiva, provata e documentabile delle opzioni del paziente, così anche A.SANTOSUOSSO, Il paziente non cosciente e le decisioni sulle cure: il criterio della volontà dopo il caso Cruzan, FI, 1991, IV, 73; e L.MINGARDO, op. cit., 405 ss. Una posizione diversa è espressa, con riferimento ai casi di SVP (e in particolare al caso di Terri Schiavo) da L. SHEPERD, op. cit., 95, 186, secondo cui in questa situazione-limite dovrebbe valere anche una considerazione "oggettiva" sulla intollerabilità di una vita in quelle condizioni, e andrebbe verificata la giustificazione a continuare il trattamento. (257) Per B.R. SCHALLER, Understanding Bioethics and Law, Westport, 2008, 167, il riferimento all'autonomia del paziente rischia di essere «a fiction in the context of surrogate decision-making». (258) Le legislazioni di molti Stati americani richiedono espressamente il subjective standard judgment, proprio per evitare rischi di abuso e di allontanamento dalla prospettiva volontaristica, di protezione dell'autodeterminazione del paziente; cfr. MEISEL-CERMINARA, op. cit., 4.33. (259) Come nota L. MINGARDO, op. cit., 411, mentre i giudici americani centrano la decisione sulla volontà del diretto interessato, quelli inglesi attribuiscono grande importanza alla valutazione dei medici, sul best interest oggettivo del paziente, e sulla futilità del sostegno vitale artificiale, ricostruito nei termini di un accanimento terapeutico. Cfr., sul caso Bland, anche J. KEOWN, Euthanasia, Ethic and Public Policy. An argument against legalisation, Cambridge University Press, 2002, 221, nella visione di alcuni dei giudici che si sono occupati del caso Bland (il riferimento è alla opinion di Sir Stephen Brown, della High Court), il corpo di A. Bland «kept functioning as a biological unit. (…) His spirit has left him and all that remains is the shell of his body»; e ancora (opinion di Lord Justic Hoffmann, della Court of Appeal), «His body is alive, but he has non life in the sense that event the most pitifully handicapped but conscious human being has a life. (…) Bland's existence was a humiliation. He was grotesquely alive». (260) Con molta precisione MEISEL-CERMINARA, op. cit., 4.03, spiegano la differenza sostanziale tra i due criteri: «(…) under the best interest standard the surrogate is to do what is best for the patient in the surrogate's own judgment, thug based on objective criteria, whereas under the substituted judgment standard the surrogate is to attempt to replicate what the patient would decide if capable of doing so». (261) A proposito di accanimento terapeutico, S. ROSSI, «Corpo umano (atto di disposizione sul)», cit., 246, parla di «termine (…) complesso e mutevole, che attiene più alle regolarità che alle regole dell'arte medica", aggiungendo (nota 221) che "la complessa determinazione dell'accanimento clinico avviene prevalentemente sulla base di due parametri di carattere non assoluto: da un lato, la valutazione in scienza e coscienza da parte del medico; dall'altro, la percezione soggettiva del paziente». (262) In termini, v. E. ROSSI, op. cit., 16 dell'estratto; e G.U. RESCIGNO, Dal diritto di rifiutare un trattamento sanitario secondol'art. 32, comma 2, cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, cit., 97 ss., secondo cui non è dato rintracciare una disposizione costituzionale diretta o indiretta che attribuisca a qualcuno «il potere di decidere, al posto dell'interessato non in grado di decidere, la esclusione o la interruzione di un determinato trattamento sanitario ritenuto invece dalla scienza medica utile per la guarigione o comunque per la sopravvivenza del paziente». (263) Aggiunge la Corte di Cassazione (Cass., n. 21748/2007, cit.): «Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente. La tragicità estrema di tale stato patologico (…) non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale che il Servizio Sanitario deve continuare ad offrire e che il malato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte (…)» (par. 7.5.). (264) Sulla vicenda, v. problematicamente, M. VILLONE, op. cit., 64 ss., il quale, pur sottolineando il "grave ed inaccettabile pericolo" che si annida in situazioni di questo tipo, svolge le seguenti considerazioni: «(…) è inevitabile che le risorse – umane, organizzative, finanziarie – impegnate a tenere in vita chi una vita degna non potrà mai più avere non saranno disponibili e spendibili per pazienti che in ipotesi potrebbero ricavarne un maggiore e decisivo beneficio. (…) Quindi, il bilanciamento non è tra il diritto individuale del paziente da un lato, e l'astratto interesse all'equilibrio di bilancio e all'efficienza del sistema sanitario dall'altro. È in realtà tra diritti individuali omogenei e comparabili». Sul tema, v. altresì R. COHEN ALMAGOR, The Right to Die with Dignity, Rutgers Univ. Press, 2001, 207 ss., secondo cui «The constraints on the financial resources allocated for care of the ill force us to consider, in an honest and serious manner, the tension between the ideal and the real»; infine, parlano di un "unspoken argument", rilevando come «economic necessity is causing massive changes in the future content of our health care», HUMPHRY-CLEMENT, Freedom to Die, New York, 1998, 313 ss. e 334. (265) Ricorda che è stato un lungo percorso, con posizioni iniziali assolutamente contrarie, M.L. CHIARELLA, Interrogativi sul «diritto al rifiuto delle cure» , cit., 101-102; la stessa Suprema Corte di Cassazione, con l'ord. 8291/2005, aveva negato che il tutore potesse compiere atti personalissimi, come appunto quello di decidere l'interruzione di un trattamento life-saving. (266) Per F. VIGANÒ , L'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiali nei confronti di pazienti in stato vegetativo permanente: la prospettiva penalistica, in www.forumcostituzionale.it, 2009, 19, «(…) la soluzione della Cassazione – splendidamente motivata e certamente compatibile con le fonti normative vincolanti per il giudice (…) – resta de iure condito controvertibile, in relazione sia alla scelta del parametro (la volontà presunta), cui ancorare la valutazione relativa agli interessi dell'incapace in ambito sanitario, sia soprattutto alla difficoltà pratiche di accertamento di una tale volontà presunta». Più drasticamente, si esprimono C. CASTRONOVO, Autodeterminazione e diritto privato, cit., 71, sostiene che «sotto le specie di una autodeterminazione virtuale, in quanto nel caso concreto impossibile, si è giunti all'eterodeterminazione, la quale non trova alcuna giustificazione alla luce di quanto siamo venuti dicendo fin qui»; e F.MANTOVANI, Autodeterminazione e diritto penale, in AA.VV., Autodeterminazione. Un diritto di spessore costituzionale?, cit., 139-140, che sottolinea la mancanza, nel caso di Eluana Englaro, di tutti i requisiti minimi di validità del consenso. (267) Il riferimento è ad un Memorandum dello Swedish National Council on Medical Ethics del 13-11-2008, riportato in F.D. BUSNELLI, Vicende di fine vita, cit., 120. (268) In termini, v. già A. D'ALOIA, Il diritto di rifiutare le cure e la fine della vita. Un punto di vista costituzionale sul caso Englaro, cit., 3, 2009, 382-383. Cfr. anche SIMONCINI-CARTER SNEAD, op. cit., 8-9, secondo cui «(…) quanto è sottile, allora, in questi casi, la linea che separa una decisione effettuata sulla base della concezione della dignità della vita che presumiamo avesse il soggetto incapace, da una decisione presa sulla base della concezione della dignità della vita che oggi ha il suo tutore. Scelta, che ripugnerebbe a tutti, compresa la Corte di Cassazione (che infatti ha escluso, nella sentenza citata, che la scelta astensiva possa essere "espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato (…)». Come rileva L. MINGARDO, op. cit., 426, «l'osmosi che la Cassazione opera fra i livelli reale/virtuale consenta di celare sotto le vesti della rappresentazione della volontà una mera apparenza di volontà. La procedura ricostruttivo-descrittiva della volontà del paziente sembrerebbe farsi, allora, non più ricostruzione di eventi storici, ma procedimento di costruzione di un'immagine narrativa coerente solo con sé stessa». Ancora più critico, M. ESPOSITO, Note minime sul periclitare del confine tra legge e giurisdizione, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, paper, 2009, 7, secondo cui la Suprema Corte «inscena una ricostruzione della presunta volontà della sig.ra Englaro che (…) si profila poco plausibile (per il lungo lasso di tempo trascorso dal gravissimo incidente sino ai giorni nostri)». (269) Cfr. S. PRISCO, Laicità. Un percorso di riflessione2, Torino, 2009, 177, secondo cui Pier Giorgio Welby ha deliberatamente gestito il suo congedo dalla vita, per Eluana Englaro hanno in sostanza deciso altri. (270) Appare opportuno segnalare che, nella recente legge tedesca sul Patientverfügung del 18-6-2009 (Gesetz zur Patientverfügungen), si prevede che la volontà possa essere accertata «non solo attraverso precedenti dichiarazioni, sia scritte che orali, ma anche sulla base di (…) convinzioni etiche e religiose, e gli altri principi di valore personale dell'interessato»; il che ripropone le incertezze segnalate a proposito della sentenza della Cassazione sul caso Englaro; in questo senso, correttamente, NICOLUSSI, Al limite della vita: rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, cit., 291, nt. 81. Sui contenuti del modello tedesco del Patientverfügung v. anche, con valutazioni invece positive, F.D. BUSNELLI, Vicende di fine vita, cit., 118-119, e 135. (271) Anche in presenza di una direttiva anticipata, non vi è comunque garanzia che il soggetto non abbia cambiato idea, o che non l'avrebbe cambiata se vi avesse riflettuto ancora; così R. DWORKIN, Il dominio della vita, cit., 263. (272) Nel d.d.l. unificato, cit., all'art. 4, 2° co., è stabilito espressamente che «(…) Eventuali dichiarazioni di intenti o orientamenti espressi dal soggetto al di fuori delle forme e dei modi previsti dalla presente legge (forma scritta, atto avente data certa, firma del soggetto interessato maggiorenne) non hanno valore e non possono essere utilizzati ai fini della ricostruzione della volontà del soggetto». Anche qui, appare chiaro il riferimento "oppositivo" al caso Englaro. (273) Secondo A. SANTOSUOSSO, Il paziente non cosciente e le decisioni sulle cure: il criterio della volontà dopo il caso Cruzan, cit., 71, fuori dei casi in cui il paziente abbia formulato dettagliate direttive in un documento scritto, oppure vi sia una prova certa della sua volontà, è scorretto analizzare le decisioni sui trattamenti in termini di diritto del paziente di decidere quando ci si basa soltanto su precedenti dichiarazioni informali o su convinzioni religiose. Queste infatti, per quanto importanti, non integrano gli estremi di una vera e propria decisione sui trattamenti medici. (274) U. NANNINI, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1983, 548. (275) Il riferimento è alla legge n. 12/1995 del Northern Territory of Australia (NTOA Rights of Terminally Ill Act), riportata in Bioetica, 1996, 351 ss. Questa legge fu però quasi subito abrogata dall'Euthanasia Law act (legge Federale) del 1997. Sulla vicenda, v. KUHSE, Eutanasia volontaria, politica e diritto. Un resoconto dall'Australia, Bioetica, 1997, 292 ss. (276) P. LEWIS, Assisted Dying and Legal Change, Oxford, 2007, 9, 11. (277) C. CASONATO, Introduzione al biodiritto, cit., 99. (278) Come sottolineano proprio le legislazioni che consentono, a certe condizioni, il suicidio assistito, ma continuano a punire l'eutanasia diretta. (279) Sulla vicenda, v. l'ottima sintesi contenuta in MEISEL-CERMINARA, op. cit., 1A-17/18. (280) C. TRIPODINA, Profili comparatistici, cit., 2001, IV, 1741. (281) Sulle ambiguità della sentenza Glucksberg, nonostante l'unanimità (persino sorprendente) del voto dei Justices, v. S.M. SUTER, Ambivalent unanimity: an analysis of the Supreme Court's holding, in C.E. SCHNEIDER, (ed.), Law and end of life, cit., 25 ss., che sottolinea come quella decisione fu caratterizzata da ben 5 opinioni concorrenti, alcune delle quali (soprattutto quella di justice Stevens) profondamente diverse nell'impostazione di alcune premesse teoriche del discorso (tra cui appunto, come già si è ricordato, l'esistenza e l'estensione di un «constitutionally cognizable liberty interest in determining the circumstances of one's death in some cases»), rispetto alla opinion of the Court redatta dal Chief Justice; e N.M. GORSUCH, op. cit., 15 ss. (282) Sulla vicenda, v. N.M. GORSUCH, op. cit., 219 ss.; e MEISEL-CERMINARA, op. cit., 1- A5, che rileva come soprattutto la opinion di Justice Stevens insiste su questo punto. (283) Cfr. K.B. O'REILLY, Washington becomes 2nd State to allow physician-assisted suicide, American Medical News, nov. 24, 2008. Proposte analoghe sono state fatte negli anni scorsi, o molto recentemente, anche in California, Maine, Montana (in questo Stato, peraltro, la Corte Suprema, con sent. del 31 dec. 2009, pur non accogliendo la ricostruzione del suicidio assistito alla stregua di un diritto costituzionalmente protetto, ha statuito nel senso della ammissibilità del suicidio assistito disciplinato dal Terminally Ill Act, affermando che «We find no indication in Montana law that physician aid-in-diyng provided to terminally ill, mentally competent adult patients is againsts public policy», e ancora che «Usurping a mentally competent, incurably ill individual's ability to make end-of-life decisions and forcing that person against his will to suffer a prolonged abd excruciating deterioration is, at its core, a blatant and untenable violation of the person's fundamental right of human dignity»: sul caso Baxter et al. v. Montana, v. M. VILLONE, op. cit., 69-70, il quale ricorda che è stato successivamente bocciato il tentativo di overruling per via legislativa della pronuncia della Supreme Court statale): per una panoramica generale su queste esperienze, v. C.M. WESTER MITTAN, Physician-Assisted Death: a legal research guide, Buffalo, New York, 2009, 6. Mentre molti Stati espressamente vietano il suicidio medicalmente assistito (p. 9 ss.), e questa è stata anche una reazione alla scelta dell'Oregon, come nota B. ROSENFELD, Assisted suicide and the right to die, Washington, 2004, 39; e sul piano federale, è vigente l'Assisted Suicide Funding Restriction Act del 1997, che proibisce l'uso di fondi federali a sostegno delle pratiche di physician-assisted suicide. (284) P. TEACHOUT, op. cit., 91. (285) Per questi aspetti sia consentito rinviare ad A. D'ALOIA, "Diritto" e "diritti" di fronte alla morte, cit., , 197-198. Sul piano dell'esperienza (il riferimento è ovviamente solo per l'Oregon), i numeri non sono particolarmente elevati, sebbene si riscontri una forte crescita percentuale: siamo passati da 18 casi del 1997 a 49 del 2007. Secondo alcuni autori (ad es. P.TEACHOUT, op. cit., 90 ss.; in termini più problematici v. John B. MITCHELL, op. cit., 158-160) questo sconfesserebbe le paure dello slippery slope nei casi di legalizzazione delle pratiche eutanasiche. (286) In tema, v. A. DI CARLO, La scelta di non legiferare in material di eutanasia: il caso della Svizzera, in Il diritto alla fine della vita, cit., ???? ss. (287) V. G. BOSSHARD, Switzerland, in GRIFFITHS-WEYERS-ADAMS (eds.), Euthanasia and Law in Europe, Oxford and Portland, 2008, 463 ss., part. 470; nonché C. CASONATO, Introduzione al biodiritto, cit., 99, e C. TRIPODINA, Profili comparatistici, cit., 1746-1747. (288) Resta sanzionato, dall'art. 114, l'omicidio del consenziente, anche nella forma della somministrazione in dosi letali di un farmaco a pazienti terminali e in grave stato di sofferenza. (289) La legge belga non prevede il suicidio medicalmente assistito; v. F. REY MARTINEZ, Eutanasia, cit., 54 ss. (290) SMORTO, op. cit., 153 (291) E in effetti, i dati dell'esperienza evidenziano una significativa utilizzazione della procedura eutanasica; cfr. C.CASONATO, Introduzione al biodiritto, cit., 96; e F. REY MARTINEZ, Eutanasia, cit., 58 ss., il quale evidenzia altresì alcuni segnali di estensione applicativa delle condizioni previste dalla legge, con vicende che hanno riguardato l'eutanasia di malati cronici o di soggetti che non avevano espresso una chiara volontà in questo senso, ovvero anche l'eutanasia "non medica". L'esperienza olandese (al contrario di quello che si è visto prima a proposito dell'esperienza dell'Oregon), secondo B.ROSENFELD, op. cit., 169-170, confermerebbe l'argomento dello "slippery slope". (292) Continua invece ad esserci reato quando la medesima azione viene commessa senza il rispetto delle prescrizioni legislative, e da parte di soggetto diverso dal medico curante: v. C. TRIPODINA, Profili comparatistici, cit., 1734. V. anche G.BOGNETTI, La legge olandese su eutanasia e suicidio assistito, CorG, 6, 2001, 705. (293) Sulle due leggi, e sulle vicende che ne hanno preparato l'approvazione, v. l'ampio studio in GRIFFITHSWEYERS-ADAMS(eds), Euthanasia and Law in Europe, Oxford and Portland, 2008, 11 ss. e 257 ss. Sostanzialmente modellata sulla legislazione olandese e soprattutto belga, è anche la Law on Euthanasia and Assisted Suicide, introdotta in Lussemburgo nel 2008. (294) Cfr. le critiche di N.M. GORSUCH, op. cit., 177-178. (295) C. CASONATO, Introduzione al biodiritto, cit., 97, che sottolinea come la legge belga preveda questa possibilità solo per i minori emancipati, in ciò differenziandosi dalla legge olandese. (296) V. C. TRIPODINA, Profili comparatistici, cit., 1745 ss. (297) Vedila in Bioetica, 1999, 536 ss.; su questa sentenza, e in generale sulle tematiche del fine vita nell'esperienza (legislativa e giurisprudenziale) latinoamericana, v. M. ACEVEDO, Eutanasia: uno sguardo sugli Stati latino americani. La volontà anticipata del paziente, in Il diritto alla fine della vita, cit., 2012. Cfr. anche, sul caso del Messico, I. SPIGNO, Le decisioni di fine vita tra dignità umana e tutela delle diversità: la Ley de Voluntad Anticipada del Distretto Federale (Città del Messico), inIl diritto alla fine della vita, cit., ??? ss. (298) In un altro passo della sentenza, la Corte Suprema afferma «se il modo in cui gli individui considerano la morte riflette le loro convinzioni, [essi] non possono essere costretti a vivere quando, per le circostanze estreme nelle quali si trovano, non lo stimano desiderabile né compatibile con la loro dignità, con l'inammissibile argomento che una maggioranza lo stima un imperativo religioso o morale». (299) Lo sottolinea anche F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 70. (300) Così, S. MAFFETTONE, op. cit., 288. (301) Vedi ora lo splendido contributo di L.H. TRIBE, The invisible Constitution, Oxford University Press, 2008. (302) Cfr. C. TRIPODINA, Il diritto nell'età della tecnica, Il caso dell'eutanasia, Napoli, 2004, 155-156, che sottolinea appunto la possibilità di interpretazioni configgenti. (303) Cfr. ancora, le fondamentali riflessioni di G. ZAGREBELSKY, Fragilità e forza dello Stato costituzionale, cit., 35 ss., il quale sottolinea come «il richiamo ad un principio scritto nella Costituzione è spesso solo il modo per aprire una discussione che si sposta altrove. Nei dossier dei giudici costituzionali trovano posto non solo le opinioni dei giuristi ma anche le discussioni tra filosofi morali (…)». (63) Le Costituzioni come tali sono di solito incapaci di imporre univoche soluzioni. Tutte le opinioni vi possono trovare i principi che vengono utili per sostenere la propria battaglia e imporre la propria visione. (304) Come rileva correttamente F. REY MARTINEZ, Eutanasia, cit., 81, «Ciertamente, ni la Constituciòn espaòola, ni ninguna otra (asta ahora), aluden expresamente a ella. Esto no quiere decir que no haya una respuesta constitucional; lo que occurre es que la interpretaciòn deberà ser elaborada a partir de otros principios y reglas del texto. La norma constitucional asì construida (màs que simplemente hallada) serà por necesidad menos consistente y màs sujeta a controversia (…), pero esto no la invalida a priori como respuesta constitucional adequada». (305) (306) In tal senso, C. TRIPODINA, Profili comparatistici, cit., 1721. Come notano infatti KOPELMAN-DE VILLE, The contemporary debate over Physician-Assisted Suicide, in ID. (ed.), Physician-Assisted Suicide: what are the issues?, Dordrecht-Norwell, 2001, 18, il fatto che due cose (oggetti, o elementi di valutazione) diverse presentino elementi di confusione o di indistinzione, non significa che sono la stessa cosa, e che non possiamo differenziarle. (307) In questo ha ragione N.M. GORSUCH, op. cit., 53, quando dice che «(…) in deciding to withdraw the sorts of life-sustaining medical technology now available to us, or in deciding not to employ it, we cannot ignore the fact that we are making a judgment and a choice. Death remains a fact of life, but we can now choose whether or not to interrupt and delay nature's progress». Una valutazione analoga è fatta da N.L. CANTOR, On hastening death without violating legal and moral prohibitions, cit., 411. (308) Per C. TRIPODINA, Eutanasia, cit., 2372, vi sono profili del diritto di morire, «quali il diritto ad uccidersi ed essere uccisi, intorno ai quali la Costituzione non dice in modo in equivoco, e su di essi la possibilità di sottoporre il testo (e il silenzio del testo) a interpretazioni configgenti rimane aperta». (309) In termini, v. C. TRIPODINA, Il diritto nell'età della tecnica, cit., 253 ss. Per questa studiosa, «la tutela della libertà di coscienza parrebbe rappresentare quel peso che fa pendere la bilancia costituzionale dalla parte dell'etica della qualità della vita, posto che tanto nel piatto della bilancia dell'etica della sacralità della vita che in quello dell'etica della qualità della vita, stanno i pesi del diritto alla vita, del rispetto della dignità umana, della solidarietà sociale, dell'uguaglianza (anche se letti in modo antitetico…)». (310) H. JONAS, op. cit., 50. E. LECALDANO, 2009, 77 ss. (311) PECES BARBA, Teoria dei diritti fondamentali, Milano, 1993, 5. (312) V. ancora PECES BARBA, op. cit., 210 ss.; A. D'ALOIA, "Diritto" e "diritti" di fronte alla morte, cit., 202. (313) Sull'importanza del richiamo alla struttura ontologica dei processi naturali come limite alle "manipolazioni" giuridiche, v. BUSNELLI, Il diritto e le nuove frontiere della vita umana, in Scritti in onore di A. Falzea, I, Milano, 1991, 105-111. (314) F. REY MARTINEZ, Eutanasia, cit., 155; v. anche CAVALLA, op. cit., 17, che parla della tutela della vita come nucleo basilare di un codice internazionale dei diritti umani. (315) Sul punto v. F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 74. Sottolinea il rischio di torsione e di snaturamento della professione medica, anche S. MAFFETTONE, op. cit., 290. Cfr. anche Cass R. SUNSTEIN, The Right to Die, cit., 1145, secondo cui «such a right may encourage the phisycians to make personal or cost-benefit judgments that disserve many patient's interest». In senso contrario, v. COHEN ALMAGOR, op. cit., 84, il quale sostiene che «(…) the nature of medicine is not a static concept. It is in constant flux, and through the ages it has developed through the use of various standards and norms. (…) An acrobatic argument that acknowledges technological advances but dismisses the evolving ethical issues that pose uncomfortable and disturbing questions is unfair to the patient community». (316) Secondo le indicazioni dell'AMA (riportate in N.M. GORSUCH, op. cit., 67) «withdrawing or withholding of life-sustaining treatment is not inherently contrary to the principles of beneficence and nonmalfeasance». Ritiene invece che «Although the A.M.A. takes a public stand against physician-assisted suicide, it seems opposed only to its legalization, non to its practice», Ch. BARON, The Right to Die: Themes and Variations, cit., 1852. (317) All'esperienza olandese fa riferimento anche la opinion of the Court nel giudizio Glucksberg; si legge infatti in un passaggio che anche in Olanda, «regulation of practice [of assisted suicide] may not have prevented abuses in cases involving vulnerable persons, including severely disabled neonates and elderly persons suffering from dementia». Cfr. In tema, G. GENTILI, op. cit., 374. (318) V., su questo punto, le attente riflessioni di Cass R. SUNSTEIN, The Right to Die, cit., 1124, che sottolinea il pericolo che il physician-assisted suicide si traduca in un elemento che, in pratica, «decrease rather than increase patient autonomy»; infatti, «a vulnerable person with perhaps a short time to live might be subject to various psychological pressures from family, certainly if family members are feeling great distress and also ifnontrivual sums of money are at stake. The closing stages of life can, in short, create conflicts of interest between a patient and the patient's family members. The patient may wish to live as long as possible, family members may believe thet this is a situation of great tragedy, difficulty, and expense, and that it will be much better when it is over». In termini analoghi, v. altresì P. LEWIS, op. cit., 42, per il quale «The social legitimacy and easy availability of effective assistance to commit suicide that would necessarily follow recognition of suicide as a right would (…) contribute to a climate in which both subtle and obvious forms of duress would cause many who would not otherwise do do to choose suicide, whether or not they are mentally or emotionally disturbed». (319) Cfr. ancora Cass R. SUNSTEIN, The Right to Die, cit., 1143; in generale sul fatto che le «end-of-life decisions – including assisted suicide – have broader communal implications», v. Y. KAMISAR, Are Laws against Assisted Suicide Uncostitutional?, cit., 39. (320) F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 71. (321) Così W.H. COLBY, op. cit., 281-282. (322) Come dice D. BERTHIAU, Law, bioethics and practice in France: forging a new legislative pact, Springer Science+Business Media, 7-4-2012, e, «None of the regulation can therefore be qualified as "neutral"». (323) Su questa esperienza, v. S. PENASA. (324) Dando ovviamente per scontato un terzo (ma in realtà, preliminare) presupposto, e cioè che questa non diventi mai una "area di settled consensus"; lo dice, in relazione alla vicenda di Terri Schiavo, K.L. CERMINARA, op. cit., 176. (325) Per S. STAIANO, op. cit., 17 dell'estratto, sarebbe «utile una legge di consolidamento del diritto vivente, come si è venuto definendo negli orientamenti dei giudici; non certo una legge che lo contrastasse e lo negasse nei capisaldi». In fondo, questo sarebbe un modo di esercitare quelle caratteristiche di "umiltà" e "concretezza" che si ritiene che il giurista debba sempre avere di fonte a questi casi e a queste "domande" di diritto: v., in generale, G.M. FLICK, op. cit., 510. (326) Come ho fatto notare in D'ALOIA, Al limite della vita, cit., 266, la Suprema Corte non abbandona l'idea della centralità e di una tendenziale indisponibilità del bene della vita; resta ancorata alla dimensione del right to refuse medical treatment, prova (secondo me correttamente) a tracciare e a mantenere una distanza con le ipotesi eutanasiche, e sulla questione specifica sottoposta al suo esame individua una griglia molto "stretta" di condizioni per ammettere la rilevanza della volontà pregressa del paziente incapace. (327) Come sottolinea attentamente V. BALDINI, op. cit., 17, «principi quali l'autodeterminazione del paziente, la dignità umana, (…), non sembrano oggi poter essere adeguatamente portati a compimento nei processi di decisione politica senza un previo apprezzamento, nello svolgersi del processo legislativo, delle argomentazioni giurisprudenziali che li investono (…)». (328) Per alcune decise e ben argomentate critiche al disegno di legge, v. A. MORELLI, op. cit., 167-168, che parla di un testo che per un verso contiene disposizioni normative superflue, poiché ripetitive di principi e divieti già altrove enunciati, e per altro verso previsioni gravemente dannose, che riducono sensibilmente gli spazi di autodeterminazione del paziente. (329) Sulla plurima incostituzionalità del d.d.l. Calabrò, v. le attente riflessioni di M. VILLONE, op. cit., 46 ss. (330) Cfr., in argomento, M.C. TALLACCHINI, La costruzione giuridica della scienza come co-produzione tra scienza e diritto, inSANTOSUOSSO-GENNARI, Le questioni bioetiche davanti alle Corti, Notizie di Politeia, 2002, 65, 126 ss.; e S. JASANOFF, The Science at the Bar: Law, Science, Technology in America, Harvard University Press, Cambridge Mass., 1995. (331) Sui rischi di un legislatore "dogmatico", che "deve vincere, non convincere", v. S. BAGNI, Dov'è finita la carità? Riflessioni etico-giuridiche sul testamento biologico, in www.forumcostituzionale.it, 2009. Si veda anche P. RESCIGNO, Pluralità degli ordinamenti ed espansione della giuridicità , in Fine del diritto?, a cura di P. Rossi, Bologna, 2009, 81 ss., 91. Ho trovato molto convincente il ragionamento, sul punto, di G. GRASSO, op. cit., 96, quando sostiene la necessità di «una legge che non rifiuti mai la cultura del dubbio, che porta a dover riaccertare ogni volta il valore e l'efficacia di quanto a suo tempo dichiarato dal paziente, perché nello scorrere del tempo si deve ridurre drasticamente, pur senza potersi sempre del tutto eliminare, ogni margine di incertezza e di volubilità sulla corrispondenza tra i desideri di ieri e quelli dell'oggi, ma sappia superare sempre i limiti intrinseci di una cultura del dubbio che diventa ideologia e che nega, ad esempio, che i trattamenti di sostentamento non di tipo squisitamente terapeutico possano diventare oggetto della dichiarazione anticipata di trattamento, così come deve avvenire per i trattamenti sanitari tout court». (332) Vedi A. SPADARO, Sulle tre forme di legittimazione (scientifica, costituzionale e democratica) delle decisioni nello Stato costituzionale contemporaneo, in Bio-tecnologie e valori costituzionali, cit., 569 ss. (333) In tema, v. da ultimo, le riflessioni di P. VERONESI, Le cognizioni scientifiche nella giurisprudenza costituzionale, Quad. C, 2009, 3, 591 ss.. (334) V., in tal senso, F. REY MARTINEZ, Eutanasia, cit., 77; e B. ROSENFELD, op. cit. (335) V. ora la l. 15-3-2010, n. 38 recante "Disposizioni per garantire l'accesso alla cure palliative e alla terapia del dolore". Mi sembra importante che questa legge sancisca il principio per cui l'accesso alle cure palliative (definite come «insieme di interventi terapeutici e diagnostici, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un'inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici»); sul tema, cfr. B. PEZZINI, Diritto costituzionale alla salute, trattamento sanitario, cure palliative: spunti di riflessione sulla relazione terapeutica, in Diritto alla salute, cit., 169 ss. (336) In questo senso, correttamente, F.D. BUSNELLI, Vicende di fine vita, cit., e Le cure palliative, entrambi in Diritto alla salute, cit., 123 ss., e 187 ss., ricordando, anche alla luce di alcuni documenti normativi (come la Direttiva tedesca del 20-12-2007 sulle cure palliative), che tali trattamenti mirano a mantenere, promuovere e migliorare la qualità della vita e l'autodeterminazione delle persone severamente ammalate e a consentire loro una vita dignitosa fino alla morte nel loro ambiente familiare o in una struttura sanitaria. La riconduzione dell'accesso alle cure palliative ai livelli essenziali di assistenza è ora ribadita anche dalla Corte costituzionale, nella recentissima sent. n. 115/2012; cfr. anche l'art. 1, 3° co., del d.d.l. unificato in tema di "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento", cit. (337) Sull'importanza degli hospices, che possono anche essere momenti di socializzazione di umanizzazione della sofferenza, e che però richiedono scelte economiche di peso v. le attente e condivisibili considerazioni di A. RAUTI, op. cit., 231. (338) (339) F.D. BUSNELLI, Intervento, cit., 381. Cfr. NICOTRA, op. cit., 149 ss., secondo cui «la disposizione richiamata segna il punto di convergenza di una serie di compiti pubblici diretti a rimuovere condizioni negative di vita davanti alle quali l'uomo potrebbe avvertire un profondo senso di sfiducia e maturare il proposito di rinunciare alla propria esistenza».