Scheda di lettura, Piero Coppo, Gennaio 2012 Tagliagambe S. – Malinconico A. 2011 Pauli e Jung. Un confronto tra materia e psiche, Raffaello Cortina, Milano Tagliagambe è filosofo, Malinconico psichiatra e psicoanalista di scuola junghiana. 1. Il sodalizio di due grandi menti. La storia dell’incontro e della relazione tra Pauli e Jung è stata descritta ampiamente in altri testi, riportati in bibliografia. Al fisico si devono la formulazione del “principio di esclusione” che gli valse il Nobel nel 1945 e l’ipotesi dell’esistenza del neutrino. Nel 1927 dopo il suicidio della madre e un matrimonio sbagliato cadde preda dell’alcol e presentò disturbi del comportamento che all’età di 30 anni (1930) lo portò a consultare Jung. Jung trovò Pauli così “stracolmo di materiale arcaico” che, non volendo contaminare questo materiale in alcun modo, lo inviò a una collega alla quale Pauli durante i cinque mesi di analisi espose centinaia di sogni eccezionali. “Fu così che 335 dei 400 sogni furono sognati senza alcun contatto personale con me. Non fu intrapresa alcuna interpretazione degna di nota, poiché il sognatore, in virtù della sua eccellente disciplina scientifica e delle sue doti personali, non aveva bisogno di alcun aiuto da parte di terzi. Si trattava dunque di condizioni proprio ideali per una osservazione e una registrazione aliene da pregiudizi.” (Jung, Psicologia e alchimia). L’insolita procedura fu forse motivata dall’intuizione che ebbe Jung al primo incontro dell’eccezionalità del materiale e della persona e della possibilità di farne un uso scientifico. Infatti, quando poi entrò in contatto con Pauli e iniziò il loro dialogo (La corrispondenza tra di due è stata pubblicata), Jung trasse da questa occasione preziosi stimoli per il suo lavoro su psicologia e alchimia. Usò infatti il materiale, coprendo l’identità del “paziente”, nelle sue lezioni di Eranos1. Pauli trasse dal lavoro con Jung, col quale entrò direttamente in analisi nel 1932, indubbi benefici: riuscì a ritrovare un certo equilibrio, si risposò felicemente anche se non smise mai di bere. Nel 1952 Pauli e Jung pubblicano in un libro, Psiche 1 Da Wikipedia: I “Colloqui di Eranos” (che in greco indica il banchetto, ma di quel tipo che i latini chiamavano coena collaticia, nel quale ognuno porta qualcosa) furono iniziati nel 1933 da Olga Fröbe-Kapteyn (1881-1962), su ispirazione di Rudolf Otto (specialista - nella tradizione di Friedrich Schleiermacher - di storia delle religioni presso l'Università di Marburgo, e traduttore di Platone). Fondata nella sua "Casa Gabriella", che suo padre aveva comprato nel 1926 sul Lago Maggiore, l'annuale conferenza (Tagung) permise a Olga Fröbe-Kapteyn di riunire in una sorta di "scuola di ricerca spirituale" i maggiori studiosi di religioni orientali e occidentali del suo tempo. Dotata di forte volontà, riuscì a coinvolgere Carl Gustav Jung e Martin Buber (che aveva incontrato a un seminario del 1924 nella comunità del Monte Verità, frequentata da personaggi quali il poeta Ludwig Derleth, l'attore Emil Jannings, Chaim Weizmann, Thomas Mann), coinvolgendo l'amica Alice Bailey e via via diversi studiosi, teosofi, e membri della nobiltà europea. Dal 1949 e fino al 1978 ne divenne animatore l'orientalista Henry Corbin, che collocò la sede della Fondazione nella casa Eranos, una bella villa di Ascona. Era lì che si svolgevano le Eranos Tagungen, conversazioni finalizzate allo "studio delle immagini e delle forze archetipali nei loro rapporti con l'individuo", e più in generale all'esplorazione dei mondi interiori dell'uomo, condotta attraverso le metodologie scientifiche proprie di ognuno dei partecipanti. Fino al 1988 ai colloqui di Eranos - incontri annuali, da sempre internazionali e multidisciplinari e i cui atti venivano pubblicati negli Eranos Jahrbuch - parteciparono intellettuali dediti a discipline diverse (religioni comparate, sinologia, islamistica, egittologia, indologia, chimica, biologia, astronomia, mitologia comparata, misticismo, buddhismo zen, letteratura, filosofia, scienze politiche, psicologia), che però condividevano, tutti, l'attività di ricerca, e un orientamento culturale interdisciplinare a tonalità, in senso lato, spiritualista. Tra questi: Martin Buber, Carl Gustav Jung, Mircea Eliade, Károly Kerényi, Gilbert Durand, James Hillman, Erik Hornung, René Huyghe, Gerardus van der Leeuw, Hans Leisegang, Karl Löwith, Louis Massignon, Erich Neumann, Adolf Portmann (direttore dei "Colloqui di Eranos" dopo la morte di Fröbe-Kapteyn), Henri-Charles Puech, Gilles Quispel, Erwin Rousselle, Tilo Schabert, Gershom Scholem, Paul Tillich, Hellmuth Wilhelm, R. C. Zaehner, Marie-Louise von Franz, Heinrich Zimmer (indologo), e gli italiani Ernesto Buonaiuti, Raffaele Pettazzoni e Giuseppe Tucci. Dopo il colloquio del 1988, per iniziativa di Tilo Schabert ed Erik Hornung, i partecipanti, orientati da un'attitudine meno mistica e più "filosofica", costituirono nei due anni successivi una Associazione Amici di Eranos, che ebbe una sua sede sempre ad Ascona, ed iniziò un nuovo ciclo di colloqui. Tra i partecipanti: Remo Bodei, Eiko Kawamura, Enzo Paci, Ilya Prigogine, Gianni Vattimo, Elémire Zolla. e natura, due loro contributi distinti: quello di Pauli “L’influsso delle immagini archetipiche sulla formazione delle teorie scientifiche di Keplero”, e quello di Jung “La sincronicità come principio di nessi acausali” che espongono i frutti della loro collaborazione. Nel libro qui recensito gli AA si propongono di esaminare i mutamenti che il concetto di oggetto fisico, da una parte, e quelli di soggetto e di psiche, dall’altra, subirono in quegli anni cruciali e in seguito a questo intenso rapporto personale tra due pensatori geniali. La speranza è comprendere i risultati di quello cambio e le “prospettive che esso può aprire a una visione unitaria della conoscenza basata su una maggiore e migliore integrazione tra scienze della natura e scienze dell’uomo e su un approccio alla questione del rapporto tra mente e materia meno unilaterale e parziale di quelli correnti e dominanti.” (22) D’altro canto proprio Pauli riteneva che “Oggi … si siano realizzate le condizioni per un rinnovato accordo tra i fisici e i filosofi riguardo ai fondamenti gnoseologici della descrizione scientifica della natura.” (Ib.) Il pensiero Occidentale era condizionato dalle tesi di Descartes; ma la ricerca clinica di Jung a Zurigo non trovava risposte soddisfacenti nella psichiatria organicista e in un approccio “scientifico” (della scienza allora dominante, modellata sul paradigma della fisica meccanicistica) alla mente. Jung contrappose a quell’approccio il concetto di Unus Mundus, un mondo unitario che postula l’esistenza di un collegamento tra le realtà psichiche di ciascun individuo e tra materia e psiche. “Tra le tante possibili definizioni di Unus Mundus, una in particolare può inquadrare il rapporto transpersonale di connessioni: la realtà generale che collassa nella coscienza sperimentata nel vivere quotidiano dall’individuo. In questo caso la coscienza assume il ruolo e la funzione di caso speciale dell’inconscio collettivo, vale a dire di una dimensione la quale, pur non essendo direttamente conoscibile, affiora, palesando le sue strutture.” (25) “In tal caso – scrive Jung, citato in Ib. – l’essere si fonderebbe su un sostrato finora sconosciuto, che possiede natura materiale e al tempo stesso psichica.” Quindi l’inconscio secondo il modello di Jung è il “luogo psichico che custodisce in forma primaria e autonoma i contenuti e le immagini individuali e universali, potremmo dire le verità sul singolo individuo, sui gruppi sociali di appartenenza, sull’intera umanità che contiene l’individuo stesso.” (26) Su questa impostazione ci sarebbe da discutere; sul fatto per esempio che l’inconscio collettivo disponga di una struttura (che per Jung sarebbero gli archetipi) e sulla sua validità “universale”, propria alla specie umana. In gioco è la natura, la “verità” dell’ “inconscio” postulato da Jung. 2. L’inconscio assoluto e gli archetipi Jung e Pauli condividono l’interesse per gli archetipi e per un “inconscio dotato di una vasta realtà oggettiva”. Pauli scrive: “In accordo con la filosofia di Platone, vorrei proporre di interpretare il processo della comprensione della natura (nonché la soddisfazione che l’uomo prova quando capisce, cioè quando diviene cosciente di una nuova conoscenza) come una corrispondenza, cioè come una sovrapposizione … Sembra di gran lunga più soddisfacente postulare a questo punto l’esistenza di un ordine cosmico indipendente dal nostro arbitrio e distinto dal mondo dei fenomeni.” (28) A spingere alla ricerca delle leggi naturali sarebbero immagini originarie, che la mente percepirebbe grazie a un “istinto innato” e che vengono chiamate archetipiche. Queste “idee archetipiche” sarebbero “una ben definita rielaborazione di quello stato profondo della psiche, grazie al quale esso può cominciare a emergere a livello della coscienza. Queste idee archetipiche, a differenza degli archetipi propriamente detti, sono definibili e razionalmente descrivibili e proprio per queste soggette a correzioni.” (30) Gli archetipi, invece, sono per Jung “fattori ordinatori non intuitivi, i quali si manifestano sia psichicamente che fisicamente”. Vi sarebbe un livello inconscio della psiche molto profondo, condiviso dalla totalità degli individui, quindi “collettivo”, sede degli archetipi, principi organizzatori impliciti nella natura umana che si manifestano in punti nodali del mondo delle immagini, da lui chiamati dominanti (Ib.). Si tratterebbe quindi di una intelligenza indipendente da tempo e spazio, scrutabile attraverso la psicologia, al quale ha dato il nome di anima. La pulsione sessuale che per Freud era il volano dello psichismo limitava le potenzialità della psiche in cui, certo, anche la libido sessuale aveva il suo spazio in una grande complessità irriducibile in un “niente altro che”. L’esistenza di dominanti psichiche motiva la ricorrenza di costanti nell’umanità, documentati nella mitologia e nello studio delle religioni comparato. Queste dominanti sono attive e determinano gli elementi non personali della psiche. Per Jung “gli archetipi sono forme senza contenuto, atte a rappresentare solo la possibilità di un certo tipo di percezione e azione. Quando si presenta una situazione che corrisponde a un dato archetipo, allora l’archetipo viene attivato”. (35) L’archetipo in sé è dunque inconoscibile, (è l’archetipo psicoide, imperscrutabile: “Parte invisibile ultravioletta dello spettro psichico. Come tale non sembra suscettibile di coscienza. 39) può essere solo interpretato attraverso le sue rappresentazioni, estremamente varie, che rimandano a una forma fondamentale, di per sé irrappresentabile, caratterizzata da elementi formali e da un significato di principio. L’inconscio collettivo è una immagine del mondo che si è formata nel corso degli anni. In questa immagine si sono venuti delineando attraverso i tempi determinati tratti, i cosiddetti archetipi o dominanti. L’inconscio collettivo è dunque una sorta di psicosfera, uno spazio transpersonale. Nella metapsicologia junghiana gli archetipi sono collocati in una organizzazione gerarchica: Persona, Ombra, Animus e Anima (da non confondere con anima, con la a minuscola), Sé. [C’è una certa confusione tra inconscio collettivo, archetipo psicoide, archetipo in sé, archetipi dominanti psichiche. Unus Mundus, dove non esistono separazioni, fa da sfondo a questa sistematizzazione. In ogni caso, l’idea è che il singolo umano, ma anche i popoli, ma anche l’umanità in generale sia sotto l’influenza di dominanti sovra personali che io ho chiamato “cultura” cercando di umanizzarle e sottrarle al rischio di una naturalizzazione metafisica. Ma certo ciò non basta a spiegare la dinamica ordinante diffusa, che rende conto delle forme delle conchiglie (Bateson) ma anche dell’intenzione dei singoli sistemi locali di corrispondere all’ordine e all’intenzione in cui sono compresi (frattali, forme viventi, cristalli).] 3. Jung e Kant Nel saggio del 1766 Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica (dove vengono citati episodi straordinari di un filosofo, mistico, medium e veggente) Kant, impegnato in una rigorosa campagna contro il misticismo, ritiene impossibili simili esperienze extra-ordinarie. Jung invece, a partire dalle stesse storie, lavora sull’ipotesi della sincronicità, e sostiene la possibilità di estendere i confini e l’ambito di pertinenza della psicologia allargando la sua base empirica. Per compiere questa mossa teorica Jung fa riferimento alla differenza, che viene tracciata nella Critica della ragion pura, tra il dominio dell’effettualità ( Wirklichkeit) e quello della realtà, esistenza, Existenz (49). Ci sarebbe l’opportunità di ampliare il dominio dell’esperienza psicologica varcando i confini della pura effettualità per cercare di attingere a un livello di realtà non descrivibile con gli strumenti della ricerca scientifica di cui poteva disporre Kant. Il linguaggio comune limita la realtà agli oggetti che cadono sotto i nnostri sensi, secondo l’assioma Nihil est in intellectu quod non antea fuerit in sensu. In questo senso sarebbe reale tutto ciò che proviene, o sembra provenire, direttamente o indirettamente dal mondo accessibile ai sensi. Ma nell’intelletto ci sono molte cose che non derivano da dati sensoriali. “Questa limitazione dell’immagine del mondo risponde all’unilateralità dell’uomo occidentale, unilateralità che si addossa spesso, a torto, allo spirito greco. La restrizione a una realtà materiale ritaglia da una totalità universale una parte enormemente grande, ma pur sempre una parte soltanto, e crea così un settore oscuro che si dovrebbe chiamare irreale o surreale.” (57, cit. da Jung Realtà e surrealtà). Occorre dunque operare un’estensione del concetto di realtà che vada oltre i rigidi confini dell’effettualità e apra lo sguardo anche alla dimensione del possibile. Non tutti i conti tornano con la nostra concezione dell’universo. La coscienza non ha relazione diretta con gli oggetti materiali; percepiamo soltanto immagini trasmesse attraverso un complicato apparato nervoso. “Noi siamo dominati da un mondo che è stato creato attraverso la nostra psiche.” (58, cit. Jung Ib). 4. Pauli e l’ “Interpretazione di Copenaghen” della meccanica quantistica Jung avvertì, attraverso il suo dialogo con Pauli, una possibile profonda convergenza di prospettive e problematiche tra psicologia e fisica. Il punto focale di questa convergenza è costituito dal mutamento della relazione tra il soggetto che osserva e l’oggetto che viene studiato nella meccanica quantistica rispetto alle teorie precedenti. (67) L’atto del misurare perturba il sistema e il valore della proprietà di interesse viene modificato (in modo più o meno infinitesimale) dall’operazione di misurazione: e quindi l’osservatore induce perturbazioni nel sistema che sta misurando. Il principio di indeterminazione di Heisemberg per esempio, (non si può misurare con la stessa accuratezza contemporaneamente posizione e velocità di una particella), ci dice che molte proprietà sono necessariamente indeterminate. E il principio di complementarietà di Bohr afferma che , dato che “ogni tentativo di suddividere i fenomeni richiede necessariamente un cambiamento nel dispositivo sperimentale e introduce così nuove possibilità di interazione tra oggetti e strumenti di misura, non controllabili in linea di principio: per conseguenza, i dati ottenuti in condizioni sperimentali diverse non si possono racchiudere in una singola immagine, ma debbono essere considerati complementari, nel senso che solo la totalità dei fenomeni esaurisce la possibilità di informazione sugli oggetti.” (Bohr, cit. 72) Quindi, “La natura stessa della teoria quantistica ci costringe a considerare la coordinazione spaziotemporale e l’esigenza della connessione causale la cui unione caratterizza le teorie classiche, come aspetti complementari ma reciprocamente escludentesi della descrizione, i quali simbolizzano l’idealizzazione dei concetti di osservazione e di definizione rispettivamente.” (Ib.) [Così, dato un fenomeno psichico, è il dispositivo sperimentale o di osservazione messo in opera a restituirci una immagine parziale e specifica, che è però in questo caso anche, per il suo retro-effetto, una ulteriore determinazione.] E’ dunque impossibile tracciare una linea di demarcazione precisa e stabile tra osservatore e osservato. (76) C’è unque una intricazione, un intreccio tra la scelta delle condizioni di osservazione, la situazione creata, e il fenomeno nuovo che si osserva. “Cessa, dunque, di esistere una linea di demarcazione netta tra ciò che si descrive e il modo in cui lo si descrive.” (82) In microfisica ogni incremento di conoscenza guadagnato con una misurazione viene necessariamente pagato con la perdita di altre conoscenza complementari e rende impraticabile la concezione deterministica su cui si fonda la fisica classica. Questo apre a un riesame della questione della causalità, alla enorme disparità tra le dimensioni macroscopiche dell’osservatore e/o dell’apparato sperimentale e quelle sub-microscopiche dell’oggetto osservato, che esige che i singoli eventi atomici siano tanto amplificati da divenire osservabili dai sistemi macroscopici (e scomparendo la disparità di dimensioni, l’indeterminazione perde di significato e le leggi quantistiche per il mondo fisico si riducono gradualmente alle leggi valide nel caso classico). (87) [Quindi, ogni estrapolazione delle acquisizioni della fisica quantistica, nate dalla relazione tra dimensioni così diverse, al mondo ordinario macroscopico, è abusiva; si veda l’uso interessato della crisi del concetto classico di causalità per togliere senso, e storia, ai fenomeni macroscopici che ci coinvolgono nel nostro mondo. Possiamo “solo” dire che a un livello di grandezza infinitesimale, di estrema finezza, le nostre capacità di conoscenza totale, omnicomprensevia, si arrestano; e che il mondo, tale quale lo percepiamo, siamo noi che lo determiniamo; ma l’immagine che ne abbiamo è determinata, particolare, e non ne esaurisce la realtà]. 5. L’ “epistemologia di confine”. Pauli sottopone a Jung come analogia tra meccanica quantistica e psicologia la questione del confine: tra soggetto e oggetto, tra coscienza e inconscio. Nel testo qui censito, esempi di figure inducenti (i triangoli di Kanisza) sono usati per dimostrare la tendenza umana alla massima regolarità, alla chiusura di strutture aperte e di separazione tra la figura e lo sfondo, tendenza frutto di un bisogno che dà corpo e conferisce realtà fenomenica a pure costruzioni del nostro apparato percettivo. Abbiamo cioè bisogno di un confine che separi e distingua e se non c’è, siamo orientati a percepirlo ugualmente. (109) E cioè, “ogni assurgere alla coscienza di contenuti inconsci esercita una reazione incontrollabile su questi stessi contenuti inconsci (il che come è noto esclude per principio un “esaurimento” dell’inconscio a causa del suo divenire conscio.” (110) Se non possiamo conoscere direttamente l’inconscio (perché appena emerge alla coscienza è altro), possiamo però costruirne un modello in base ai suoi effetti, proprio come la fisica delle particelle, pur non potendo conoscerle come tali, sono modellizzabili in base ai loro effetti (comportamenti). “Quando la psicologia ipotizza in base alle sue osservazioni l’esistenza di certi fattori psicoidi irrappresentabili si comporta allo stesso modo della fisica quando costruisce un modello di atomo.” (111, Jung) La psicologia cioè “si vede interdetta ogni asserzione su stati inconsci, vale a dire non esiste nessuna speranza di poter dimostrare scientificamente la validità di una qualsiasi asserzione su di essi. Qualunque cosa asseriamo circa gli archetipi, si tratta di dimostrazioni o concretizzazioni che appartengono alla coscienza.” (Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, 111) La tradizione della fisica classica immaginava l’universo come una associazione di enti osservabili (particelle, fluidi, campi, ecc.)in moto secondo definite leggi forze, in modo da poterci formare un modello mentale nello spazio e nel tempo. Ma “la natura si comporta in maniera diversa. Le sue leggi fondamentali non governano in un modo molto diretto l’universo quale appare nel nostro modello mentale, ma controllano invece un substrato di cui non possiamo formarci un modello mentale senza introdurre qualcosa non pertinente.” (112) Dobbiamo quindi accettare, secondo Heisenberg, il fatto che i dati sperimentali, negli ordini di grandezza molto grandi e molto piccoli, non danno necessariamente luogo a immagini, mentre la loro comprensione esigerebbe una rappresentazione visiva. Nella meccanica quantistica dunque, una volta appurato che l’oggetto si risolve e dissolve in un insieme di proprietà che non sono più spazio-temporali, ma puramente simboliche, e che la categoria di potenzialità è accettata, i concetti di realtà e realismo devono essere rivisti profondamente ed estesi. E in psicologia? La situazione è analoga, perché “Alla psicologia manca una base posta al di fuori del suo oggetto… la psicologia è il “farsi coscienza” del processo psichico ma non è una spiegazione di tale processo, perché ogni spiegazione del fatto psichico non può essere altro che lo stesso processo vitale della psiche. La psicologia deve abolirsi come scienza, e proprio abolendosi raggiunge il proprio scopo scientifico.” (Jung, cit. in 114) Per Jung, dunque, l’analisi non è un procedimento tecnico o scientifico ma un’arte, un processo dialettico, in cui due persone evolvono in un processo di individuazione in un’ottica di sistema aperto, continuamento in fieri. [Segue qui una sommaria descrizione delle fasi e delle caratteristiche del processo analitico.] La terapia assume l’immagine di una linea di confine mobile attraverso la quale due verità vengono a fronteggiarsi sino a che i loro bordi possono combaciare, evidenziando il carattere di punti di vista prospettici: un “comune dissenso”. (124) E’ quindi una specifica tecnica di confronto di verità parziali; e Jung cerca di usare concetti base della meccanica quantistica per una lettura del mondo interiore meno distante ed estranea di quella tradizionale rispetto al concetto di realtà fisica. (126) 6. Le relazioni tra effettualità-realtà e io-sé Cosa è per Jung il Sé? Estraneo eppure vicinissimo, coincide con noi eppure non è da noi conoscibile, è un centro virtuale di costituzione tanto misteriosa che può esigere tutto, la parentela con gli animale e con gli dei, con i cristalli e con le stelle, senza suscitare la nostra disapprovazione. L’Io sta al Sé come il patiens all’agens, come l’oggetto al soggetto, perché i fattori determinanti provenienti dal Sé circondano l’Io e perciò lo sovrastano. Come l’inconscio, il Sé è l’esistente a priori dal quale promana l’Io (127). Ma: anche se il Sé ha una natura sopraordinata, esso non può esistere senza l’Io, tanto che oggi si tende a parlare di Asse Io-Sé. E più avanti: “Alle spalle dell’uomo non sta né l’opinione pubblica né il codice morale comune, ma l’individualità di cui è ancora inconscio … Esiste però la possibilità di rendere l”Io” oggetto, è cioè possibile che nel corso dello sviluppo compaia gradatamente una personalità più ampia che prende l’Io alle sue dipendenze …. Essa, in pieno contrasto con il Super-Io freudiano, è individuale; è anzi l’individualità in senso più alto. … Il termine Sé mi è sembrato un termine adatto per questo sostrato inconscio, di cui l’Io è l’effettuale esponente nella coscienza. … Non io creo me stesso, ma piuttosto io accado a me stesso … Fino a che rimane inconscio, il Sé corrisponde al Super-Io freudiano ed è fonte di costanti conflitti morali. Ma se è ritirato dalle proiezioni, cioè non coincide più con le opinioni altrui, allora sappiamo di essere noi a dire di sì o no. Allora il Sé opera come unio oppositorum, dando luogo alla più diretta esperienza del divino psicologicamente concepibile.” (Jung, Il simbolo della trasformazione nella messa, cit. a p. 129) Il Sé per Jung rappresenta quindi l’espressione della soggettività che si snoda in un processo interminabile a partire dalla relazione primaria. Nel bambino, secondo Fordham, c’è ben di più di ciò che è immesso da parte dei genitori. Diventare ciò che si è, e cioè individuarsi, comporta patimenti, la passione dell’Io che deve spogliarsi della sua ostinatezza che si crede libera. L’io, per così dire, patisce violenza dal Sé. (132) L’idea di un Sé è però un postulato trascendente, che si può giustificare psicologicamente ma non dimostrare scientificamente. “Al Sé, dunque, bisogna dare almeno il valore di una ipotesi, come quella della struttura dell’atomo.” (Jung, cit. 133) Per Jung l’Io, come espressione effettuale del Sé, è il centro della coscienza: il Sé, invece, in quanto mondo intermedio tra l’inconscio e la coscienza, ha i caratteri della totalità della determinazione possibile della psiche individuale, e quindi di completezza e di globalità. La psiche, di conseguenza, è intesa come un sistema centrato rispetto al Sé e acentrato rispetto all’Io. (134) E la vita per compiersi, non ha bisogno della perfezione, ma della completezza (143). Ciò che viene inteso con questa parola resta celato in una oscurità metafisica… “Poiché è impossibile sapere qualcosa dei limiti di ciò che non conosciamo, non siamo in grado di stabilire per il Sé un qualsiasi confine. … L’inconscio invece non è altro che la psiche sconosciuta, e dunque anche illimitata perché indeterminata.” (Jung, cit in 144) [Riassumendo. L’Io è l’espressione effettuale del Sé, “centro virtuale di costituzione tanto misteriosa” che tende a determinare l’Io: lo circonda e lo sovrasta. E’ individuale, anzi è l’individualità nel senso più alto. E’ intenzionato, nel senso che spinge a che Io e Sé coincidano, cosicché, divenuto non più inconscio, coincida con l’Io, che sa di essere lui a dire sì o no. Non è la perfezione, ma la completezza. L’Io si è dunque separato, nel suo instaurarsi, dal Sé che può tuttavia reintegrare, riassumendosi con lui nella propria completezza, che è la meta, tra l’altro, del lavoro analitico. Il Sé fa ancora parte dell’individuo, ma non solo di esso (è per una sua parte il rappresentante dell’inconscio?), è “il mondo intermedio”. E’ l’intenzione, il destino in potenza dell’individuazione. L’Io è il suo strumento, ma anche il suo possibile sviamento; e l’individuazione accade quando i due coincidono.] 7. Esplorando il mondo intermedio La psiche appare, all’esplorazione, non come una unità ma come una contradditoria molteplicità di complessi; che sono la componente fondamentale e imprescindibile del mondo interiore. L’Io viene considerato uno dei molteplici complessi. In alcune opere letterarie, i demoni sono nocchieri delle energie. La personalità dell’uomo, che è un sistema essenzialmente aperto, tende a trasformarsi in sistema chiuso ad opera di una dominante, una costellazione che concentra l’attenzione su determinati oggetti e rende l’apprendimento selettivo. [Coex?] “In ogni istante della nostra attività enormi settori della realtà viva e irripetibile ci passano accanto inosservati e senza lasciare traccia alcuna soltanto perché le nostre dominanti erano concentrate altrove. In questo senso esse si frappongono tra noi e la realtà.” (151) L’ideale è invece il sistema aperto, verso l’altro da sé, il nuovo, l’imprevisto. Jung continua su questa linea; quando l’Io eccede nella sua unilateralità e assume una dominanza che lo porta a liberarsi degli altri complessi, compromette l’integrazione del sistema psiche e produce una disgregazione in seguito alla quale gli altri complessi diventano autonomi. La vita psichica è quindi per lui un sistema pluralistico e dinamico capace di autoregolazione che si basa sull’equilibrio tra le funzioni e sulla presenza di un confine tra coscienza e inconscio che consenta la necessaria distinzione o taglio tra questi due ambiti ma che non deve mai trasformarsi in una linea di demarcazione troppo netta tale da determinare un eccesso di distanza e rendere impraticabile quella che lui chiama, prendendola in prestito dalla matematica, la funzione trascendente. Essa è un processo naturale, una manifestazione dell’energia che si sprigiona dalla tensione tra i contrari, e consiste un una successione di processi fantastici che emergono spontaneamente in sogni e visioni. “Quelle nette separazioni e opposizioni tra conscio e inconscio, che osserviamo tanto chiare nelle nature nevrotiche ricche di conflitti, sono quasi sempre dovute a una notevole unilateralità dell’atteggiamento cosciente, che dà assoluta preminenza a una o due funzioni, mentre le altre vengono indebitamente cacciate in secondo piano. Rendendo coscienti e vivendo le fantasie, le funzioni inconsce e inferiori vengono assimilate dalla coscienza,: processo che, naturalmente, non si svolge senza agire profondamente sull’atteggiamento della coscienza …. A questa modificazione, che è raggiunta mediante il confronto con l’inconscio, ho dato il nome di funzione trascendente.” (Jung cit. in 158) E’ dunque “un ponte sul solco”; ha la meta di condurre alla rivelazione dell’uomo essenziale, alla realizzazione della personalità originariamente contenuta nel germe embrionale in tutti i suoi aspetti. E’ l’attuazione e il dispiegarsi dell’originaria totalità potenziale (160). La nuova coscienza che mergerà alla fine di questo processo tuttavia non saturerà né esautorerà mai l’inconscio. [Contrariamente a quanto auspicato da Freud.] Il confine dunque deve unire distanziando e distanziare unificando. L’accadere del confine è perciò l’evento originario e fondamentale della vita psichica che esige, per il suo sviluppo, una divisione che perciò unifichi. Questa è l’essenza della funzione simbolica (161). Il simbolo costituisce una sorta di “mediazione di energia” tra l’inconscio e il conscio, mediazione che deve tener conto dell’enorme disparità tra queste dimensioni che, proprio come nella meccanica quantistica, esige che le manifestazioni di quest’ultimo siano amplificate fino a poter emergere nella coscienza. Il simbolo è lo strumento fondamentale di questa ampliazione; ci mette di fronte a una sorta di presenza/assenza che ha un significato non ancora assegnato dal processo di significazione dell’insieme psichico. Non traendo origine da alcunché e volendo diventare qualcosa, questa presenza/assenza è ciò che la coscienza e il sapere psicologico non conoscono e devono pensare. “Per queste sue caratteristiche ciò di fronte al quale ci pone il simbolo è un vuoto che non è però un nullla, ma anzi una profonda, seppur peculiare, funzione di significazione, in quanto instaura uno stato di apertura che ci obbliga a porci in una posizione riflessiva e interrogativa.” (162) Per esplorare questa funzione del simbolo, occorre riferirsi al pensiero platonico che ha trovato nelle tesserae hospitales un elemento chiave per comprendere il processo creativo di cui il simbolo è parte imprescindibile. La tessera spezzata in una parte visibile, e in una temporaneamente staccata (ciascuna nelle mani di distinti soggetti che dovevano attuare il reciproco riconoscimento) evoca il suo complemento assente. La loro riunione dà all’uno e all’altro il diritto all’ospitalità nei diversi campi. Il simbolo acquista significato e diventa creativo non per il fatto che le due parti vengano effettivamente fatte combaciare, ma nella possibilità che ciò si verifichi. La funzione della significazione sta nella linea che potenzialmente unisce i due bordi della tessera spezzata che è un nulla, un vuoto. Questa divisione unificante corrisponde a quel centro virtuale della personalità complessiva pensato da Jung (163). Il trattamento delle nevrosi viene dunque presentato come la ricerca del potenziale dell’individuo, cioè della totalità delle sue determinazioni possibili, in definitiva della sua realtà come estensione e potenziamento della sua effettualità (165). Per questo, è importante che la coscienza assuma il materiale inconscio simbolicamente, uscendo dalla modalità semeiotica di analizzare i segni dell’inconscio e cogliendoli invece come simboli. La nevrosi sarebbe dunque la proposta di un tentativo di guarigione, e la coazione a ripetere il continuo a ribadire la necessità di un tale lavoro. Non si tratterebbe dunque di guarire la nevrosi, ma di guarire attraverso la nevrosi. A differenza di Freud, che pensava che l’inconscio è alla nascita un contenitore vuoto che via via si riempie del rimosso, Jung asseriva la potenza e l’autonomia creativa dell’inconscio già alla nascita (167). E quindi per Jung quanto emerge dall’inconscio non deve apparire come sintomo; e il materiale psichico non è spiegabile: ciò significa che da un atteggiamento riduzionistico che isola degli elementi e definisce a priori lo “spazio di pensabilità” all’interno del quale rintracciare le possibili spiegazioni, occorre passare a un atteggiamento di autentica apertura a ulteriori interpretazioni, non prevedibili a priori (in questo va oltre Kant e la Critica della ragion pura, considerando la “totalità della determinazione della res” come un orizzonte aperto). E quindi, anche importanza del contesto come sfondo, mai dato per sé, ma sempre espressione di un determinato momento. Solo le “zone di confine” dove non c’è chiara distinzione tra dentro e fuori, e nelle quali vige più di una giurisdizione, si configurano come la salvaguardia di spazi logici autentici ci possibilità (169). Al loro interno si possono compiere operazioni che deformano l’orizzonte di pensabilità, come quelle del “metodo di aggiunta”, o amplificazione che sviluppano in ampiezza e profondità le espressioni inconsce, amplificandole in modo di portarle a un livello che ne permetta una lettura psicologica. Nell’insieme, si tratta non tanto di un metodo ma di una via “che riesce a pensare congiuntamente e tenere compresenti il contesto di partenza, le possibilità di lettura e di interpretazione che esso offre, la rottura del vincolo formale da esso costituito, l’apertura a nuovi sfondi e a nuovi spazi di pensabilità, l’uscita da una dinamicità chiusa.” (170) Abbiamo quindi conoscenza di qualcosa, e possiamo produrre più coerenze dallo stesso contesto problematico, non allorché esercitiamo il nostro pieno controllo su di essa, “bensì solo quando siamo capaci di custodire quelle che poi sono le sue zone d’ombra, e quindi manteniamo velate certe sue parti. Nel caso dei materiali psichici, c’è verità soltanto in quella mezza luce, in quella sorta di translucidità…” che sopporta il mistero in un orizzonte di attesa. (171) Non si tratta quindi di rifiutare l’attività interpretativa, ma di considerare ogni comprensione possibile come non esaustiva e capace di rinviare ad altre comprensioni possibili. La creatività emerge nel vuoto attraverso le immagini. Nel suo “esperimento” Jung se si fosse fermato alle emozioni, sarebbe stato distrutto dai contenuti dell’inconscio. Scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni appare dunque come un livello di integrazione raggiunto (181). [si vedano le pratiche di integrazione in RO: “Spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente”, Jung cit a p. 205)]. 8. La dinamica psichica Io e Sé, liberazione dalla maschera, eccetera. Una dinamica che si incardina in diversi stadi, caratterizzati il primo da una psiche di natura multipla, frammentata, articolata in unità complessuali sdotate di relativa autonomia e indipendenza; il secondo dall’autonomia, l’eteronomia e la reciproca dipendenza di parti che risultano capaci di rinunciare a sé capaci di raggiungere provvisoriamente un coordinamento che le sovrasta; ilo terzo è il passaggio dissolutivo della complessità raggiunta, verso una unità della psiche che può essere solo tendenziale. (200) Sul Gioco della Sabbia, , pp 209 e segg. 9. Causalità e sincronicità “Il principio di sincronicità afferma che un certo evento psichico trova un parallelo in qualche evento esterno, non psichico e che tra i due non esiste nessun nesso causale.” (Jung cit in 218) Si parla di sincronicità quando, tra un evento esterno e uno interno, sussitono queste cinquye condizioni insieme: parallelismo di significato; parallelismo temporale; impensabilità dlela relazione causale; inapplicabilità delle leggi di tipo statistico (improbabilità che andrebbe espressa mediante una grandezza incommensurabile); rilevante presenza del fattore affettivo. (220) Per trattare questi fenomeni Jung fa riferimento alla teoria degli archetipi. “Questo inconscio però rappresenta una “psiche” che è identica a sé in tutti gli uomini, e che, al contrario dell’elemento psichico a noi noto, è imperscrutabile… gli archetipi sono fattori formali che coordinano processi psichici inconsci: sono patterns of behaviour.” (Jung, cit. in 222) La coincidenza significativa o il legame trasversale di eventi che non possono essere spiegati causalmente, sta nella loro “consentaneità”: il tertium comparationis è il senso…” (Jung cit. in 223) Tra causalità magica e misteriosa corrispondenza Jung sceglie la seconda, anche se questa costringe non a corregger ei principi in vigore per interpretare la natura, ma aggiungerne uno, operazione che in scienza si può fare solo per gravi motivi. Ma, per esempio, il rapporto tra psiche e corpo non potrebbe essere inteso come un fenomeno sincronistico, piuttosto che causale? (225) La sincronicità porta a considerare gli elementi della realtà e le loro relazioni insieme, in una volta sola, in modo continuo, come manifestazione di un globale presentarsi di coincidenze significative. (226) [Ma è necessario qui postulare un principio unico, coordinatore, formale, come l’archetipo?] In fisica quantistica, le particelle di una determinata configurazione manifestano correlazioni di comportamento, pur in assenza di qualsiasi forza dinamica che ne sia responsabile e le spieghi, comportandosi come se “fiutassero” la presenza di altre particelle. Una situazione di coordinazione di questo tipo si produce al di fuori di ogni causa. Anche rispetto all’evoluzione, Pauli ricorda quel “terzo tipo” di leggi di natura che consiste “nel correggere le fluttuazioni del caso tramite coincidenze dotate di un senso e di un fine, di eventi non casualmente connessi … vorrei proporre alla discussione l’ulteriore ipotesi che questo globale presentarsi di coincidenze significative nell’evoluzione biologica indichi la presenza di un fattore psichico che procede di pari passo con esse e che compare su un piano più alto come emozionalità, ovvero eccitazione.” (Pauli, cit. in 231). L’evoluzione sarebbe quindi ordine emergente affilato dalla selezione; anche se resta aperto il problema di come spiegare questo ordine, emergenza spontanea assolutamente fondamentale nel vivente [cfr simmetrie e ordine in Bateson]. Esisterebbe dunque, secondo Jung, “non solo la possibilità ma addirittura una certa probabilità che materia e psiche siano due aspetti diversi di una stessa cosa” (Jung, cit in 235); per lui quindi è necessaria una vera e propria rifondazione concettuale della psicologia. In questa ottica gli archetipi appaiono dunque: “come espressioni di dimensioni apparentemente “impossibili” dell’esperienza, le stesse evocate dalla fenomenologia paranormale , o dalla ricca messe delle rilevazioni psicopatologiche sulle svariate manifestazioni comportamentali di stati alterati di coscienza. Fenomeni certamente classificati e classificabili, ma che ora sono richiamati nella loro meno tranquillizzante modalità di segnali di una dimensione del reale in parte inafferrabile, in una dimensione che, però il raggiungimento di particolari dimensioni psichiche – per esempio, certe situazioni di setting – può rendere possibile, posto però che si sia appunto realizzata una disponibilità di fondo a una simile rilevazione di senso – il Tao di Lao Tze – negli eventi. Che poi non è altro che la possibilità di esperire senza restrizioni categoriali, di osservare prescindendo da quella griglia di sviluppi spazio-temporali nei quali avviene la nostra esperienza ordinaria , accedendo a quel sostrato indeterministico di contatto tra mentale e fisico che sarebbe, per Jung, regolato dall’archetipo nella sua nuova accezione.” (La Forgia, cit. in 236) Da questo punto di vista l’archetipo appare il fuoco in cui convergono più piani del discorso junghiano: “ è ora l’operatore della sincronicità, ciò che regola l’accesso e l’orientamento in quella condizione psicoide – retta da tale principio – che Jung ha inseguito per tutta la sua ricerca, fondandovi in sostanza la possibilità di ogni significativo incontro psicoterapico. … Già allora tale contatto con l’alterità prendeva l’aspetto di un superamento dei limiti della coscienza da realizzarsi come impulso al raggiungimento di una dimensione di “omogeneità e conformità” alla natura che richiede – come direbbe lo Jung della sincronicità – di porre da un lato la coscienza e di attendere che da lì possa emergere il Tao.” (La Forgia, p. 237) 10. La sincronicità e la “complessità di accoppiamento” Il “terzo tipo di leggi naturali” intermedio tra il vecchio tipo ndi spiegazione della natura, basato sul presupposto di un osservatore indipendente, e l’idea di un caso “cieco”, privo di finalità. Secondo Pauli (244 e segg.) Calibrare l’elemento pulsionale, quello razionale e quello spirituale o sovrasensibile (246): Le teorie del cervello che considerano come fattore chiave del funzionamento cerebrale la formazione di aggregati. Vi sono processi generatori di ordine e organizzazione. Questi aggregati sono stabili per essere efficaci (253) e capaci di integrazione (Edelman e Tononi). Sulla informazione estrinseca domina quella intrinseca; l’uomo non può accedere alla realtà esterna direttamente, ma per il tramite di una cascata di processi di mediazione. (255) [cfr Laughlin, e la penetrazione simbolica] La scienza non sarebbe più l’immagine di una realtà da rispecchiare fedelmente, ma anche riflesso dell’uomo nello specchio della natura, e non dell’uomo astratto, ma di quello concreto, storico, culturale. La scienza non sarebbe più, dunque, o non solo una scoperta progressiva del segreto del mondo, bensì anche il tentativo di dare al mondo un significato. (260) Quindi Edelman e Tononi criticano il “realismo ingenuo” e aderiscono a ciò che chiamano “realismo condizionato” e una “epistemologia a fondamento biologico”. (261) La complessità di accoppiamento tra l’informazione intrinseca e gli stimoli esterni e l’informazione da essi veicolata permette di pensare oltre la causalità delle corrispondenze. Il rapporto complesso con gli oggetti (esempio, la tazzina di caffè) impone la necessità di sostituire il pensiero oggettivante, fondato su una pretesa autonomia e autosufficienza delle cose, con una ontologia delle relazioni (266). La stabilità degli organismi viventi e degli aggregati mette in gioco il fatto che, senza l’intervento di nessun meticoloso apparato supervisore o di alcuna cabina di regia, tutti i pezzi di ricambio vadano perfettamente al loro posto, in un gioco di reciproco coordinamento e di sincronizzazione perfetta, rigenerando la stessa identica forma per durate temporali enormi rispetto alla scala temporale dei processi molecolari. (268) 11. Conclusioni Una specie di sintesi dei capitoli precedenti.