GIORNATA DI STUDIO, 22 novembre 2003 Pierangelo Sequeri Il sacro, il religioso, l’agape di Dio Nuove prospettive nella teologia fondamentale Indicare linee di approfondimento della teologia fondamentale, insistendo sugli aspetti formali della sua identità disciplinare e del suo statuto epistemologico, non mi sembra più così istruttivo, come forse lo era sino a questi ultimi anni. In parte, perché l'impegno di rielaborazione sistematica, generosamente perseguito da molti studiosi, lascia ormai intravedere che significativi punti di assestamento dei temi e dell'impianto sono in realtà conquistati. In parte, perché i problemi che in questo momento mi sembrano più stimolanti riguardano proprio lo sfruttamento teorico del vantaggio acquisito mediante il formarsi di quei punti di convergenza. Scelgo perciò quattro punti di ingresso, stabiliti in prossimità degli approdi della teologia fondamentale più aggiornata, per descrivere alcune direzioni di consolidamento e di avanzamento. Poiché parlo a un pubblico di esperti, scelgo un approccio piuttosto diretto, supponendo noti il quadro disciplinare complessivo e i termini del dibattito di scuola. Desidero anche approfittare dell'occasione per esprimere la mia gratitudine alle Autorità accademiche e agli stimati Colleghi di questa prestigiosa istituzione che mi danno l'occasione di questo incontro. In anni ormai lontani ho studiato e lavorato qui per il mio dottorato, sotto la guida del compianto p. Juan Alfaro, s.j., che mi è stato maestro e amico. Lo ricordo con stima e affetto, insieme con tutti coloro dai quali, in questa sede accademica, ho molto ricevuto, in molte forme. 1. La religione civile separata dal sacro: modernità Il racconto dei temi di utile approfondimento sul fornte della contemporaneità lo aggiusterei sulla trama di un’accorta decostruzione teologica della lineare sovrapposizione fra sacro, religione, cristianesimo. Con duplice vantaggio: (a) allineamento all’approccio differenziato dell’antropologia culturale e della filosofia della religione; (b) riscoperta della singolarità cristologica della critica/compimento religioso della religione (delle religioni). Nella vicenda culturale della modernità avanzata, l’Illuminismo ha privilegiato una visione sintetica e cumulativa del sacro che assegna le sue tradizioni religiose confessanti al profilo antropologicamente basso e culturalmente arcaico dell’apertura umana alla trascendenza. Il progetto di modernizzazione della coscienza coincide, in questa visione, con il superamento di questa dipendenza attraverso il dominio razionale della conoscenza. Il confronto – e il conflitto – del cristianesimo moderno è sostanzialmente rivolto al profilo critico di questo progetto di modernizzazione civile, che tende ad inglobare lo stesso cristianesimo nel quadro delle antiche tradizioni religiose che portano la memoria di un’arcaica organizzazione della cultura del sapere e delle istituzioni della civiltà. Il cristianesimo deve così far valere, ad un tempo, due profili della sua differenza, virtualmente in tensione fra loro. Da un lato, il proprio netto distacco dalle forme 1 del sacro arcaico, espressioni di una religiosità puramente umana e pre-cristiana: in questo senso globalmente intesa anche come cultura pre-civile, agli occhi della stessa cristianità occidentale. Dall’altro lato, deve accentuare la propria identificazione con l’aspetto sacrale della realtà, che marca una visione del mondo in contrapposizione con la crescente mondanizzazione della cultura sociale. Lo sviluppo del movimento romantico complica ulteriormente le cose, pur contribuendo – a suo modo efficacemente – alla riabilitazione della dimensione antropologica e sociale del sacro e delle tradizioni religiose che ne istituiscono la memoria. Il romanticismo giudica insufficiente, anzi dannoso, l’indirizzo illuministico che tende a consegnare la vita dello spirito alla ragione analitica e tecnica. I miti e i riti della religione, che la nuova cultura vorrebbe confinare nelle regioni inferiori della coscienza, sono la testimonianza dell’irrinunciabile apertura dell’umano alle regioni alte della vita dello spirito. In questa tendenza, il concetto del sacro, in tutte le sue manifestazioni, viene elevato alla sfera più propria dell’assoluto, dell’origine, del divino. Le forme religiose (soprattutto quelle del passato) diventano il repertorio prezioso e la memoria indelebile di questa dimensione ultima della trascendenza. In ciò sta l’elemento ‘nostalgico’ e ‘restauratore’ della corrente romantica, nei confronti del sacro e della religione, di cui il cristianesimo continua per lo più ad essere ritenuto il vertice riassuntivo. Il vincolo di un’adesione dogmatica, che requisisce e mortifica l’esperienza del sacro dentro i vincoli dell’istituzione ecclesiastica confessante, deve però essere superato, in favore di una religiosità quasi mistica dell’ammirazione e dello stupore, che si lascia avvolgere dalla potenza estetica e drammatica con cui la radice sacra dell’essere vive nella natura, nella storia, nella coscienza dell’uomo, attestando la vita dello Spirito nell’Essere dell’intero universo. In ciò sta l’elemento virtualmente ‘secolarizzatore’ e ‘progressivo’ dell’anima romantica, pur esso inteso all’emancipazione dalla regìa cristiano-ecclesiastica del sacro. Il cristianesimo intercettato da questa doppia linea evolutiva della modernità non era pronto a elaborare teologicamente la complessità storica e culturale dell’antropologia del sacro, né ad approntare una visione sufficientemente differenziata della dimensione religiosa dell’umano. Nella sua tradizione l’assunzione e il completamento della religiosità naturale, mediante il cristianesimo, erano ormai il passato. Il sacro degno di questo nome, incorporato nelle istituzioni ecclesiali sul fondamento dell’attestazione apostolica della rivelazione, coincideva semplicemente con la sfera del soprannaturale cristiano. E’ comprensibile pertanto che la secolarizzazione moderna dovesse essere vista, oltre che come un’apostasia dal cristianesimo, come una regressione culturale. La romantica esaltazione del sacro, che ne riabilitava l’alto concetto in chiave antirazionalistica, appariva pur sempre indirizzata in chiave di abbandono della verità cristiana in favore del sacro naturalistico, anonimo, ambivalente che in essa appariva superato. La storia culturale del secolo appena trascorso mostra anche le buone ragioni di questa resistenza (pur largamente difettosa di interpretazione e di propositività, a motivo dell’inerzia di una cultura filosofica e teologica inservibile, nella congiuntura specifica). Nell’attacco portato da Feuerbach e Nietzsche, Marx e Freud alla filosofia della coscienza e dello spirito – che include l’intera costellazione cristiana-occidentale, assommata nella critica1 – si annuncia la fine 1 E’ forse qui che l’Occidente impara ad “odiare se stesso”? 2 dell’illusione di una civiltà illuministica che rimane aperta e possibilista nei confronti dell’apertura religiosa dell’umano, in quanto custodisce il mistero sacro dell’essere posizionandosi nella naturale apertura della ragione al divino e sulla soglia del limite che la ragione stessa deve considerare inviolabile per le sue risorse conoscitive e tecniche. Nella ragione moderna prende il sopravvento l’ideale di una compiuta appropriazione umanistica del fondamento, che ora si cerca proprio attraverso la delegittimazione antropologica della religione e la dissoluzione culturale del sacro. Entra però in crisi, conseguentemente, anche il progetto credente, insieme polemico e irenico, di un’articolazione filosofica della religione, capace di tenerla in connessione con le basi naturali e antropologiche di un condiviso rimando storico al divino come ultima referenza trascendente della ragione (se non come principio della certezza del sapere (come ancora in Cartesio), almeno del fondamento morale (come in Kant) e del senso della storia (come in Hegel). Nella seconda metà del ‘900, l’uscita da questa impasse è stata prima cercata nell’individuazione di un senso positivo della seconda secolarizzazione (quella post-hegeliana della filosofia), apparentemente irreversibile. In tale prospettiva, la teologia (soprattutto protestante), ha proposto di ritrovare nella tradizione biblicocristiana le basi di una più radicale presa di distanza dal sacro, inteso come arcaico residuo di una concezione divinizzante del mondo e della storia. L’orientamento, certamente non privo di un guadagno per la conferma della effettiva singolarità non panteistica e non teocratica - della concezione cristiana del rapporto fra il divino e la sfera mondana, è risultato tuttavia inadeguato alla comprensione della natura antropologica e storica del sacro. Ne ha dovuto infine convenire anche la sociologia dominante della secolarizzazione, che ha riconosciuto la totale inadeguatezza dell’equazione fra modernizzazione e secolarizzazione, dalla quale era stata tratta l’idea della fisiologica scomparsa del sacro e della obsolescenza della religione in concomitanza con lo sviluppo tecnico-economico. Nel passaggio del secolo, con sorpresa più o meno, felice, l’Occidente ha dovuto constatare la vasta insoddisfazione delle stesse popolazioni occidentali nei confronti della regia razionalistica della civiltà e della cultura. L’intellettualità occidentale si è prontamente adeguata, innescando una vasta e sorprendente critica della razionalità moderna. 2. Critica della religione e ritorno del sacro: oggi In ogni modo, si parla ora di rivincita delle religioni e di ritorno del sacro: sommando una quantità di fenomeni, assai eterogenei fra loro. A tale riguardo, le problematiche della modernità ritornano e si intrecciano in modo nuovo, con singolare ripetitività. Per esempio, l’allarme neo-illuministico circa le sorti della pace sociale e dei diritti democratici di fronte all’eventualità di una nuova ripresa della religione all’interno nelle società occidentali. Oppure il ritorno neoromantico della critica spirituale alle istituzioni cristiane, accusate di accettare la corruzione della loro sacralità, disperdendo i tesori estetici accumulati dalla liturgia, la qualità mistica attinta dal monachesimo, la custodia della solennità atemporale delle istituzioni. Mi sembra che si possa cogliere un elemento caratteristico in questo crocevia di ritorni del sacro, accompagnato dalla curiosa replica delle reazioni moderne: in 3 parte neo-illuministiche (che riprendono i problemi della laicità, del fondamentalismo, dell’invadenza e dell’anacronismo religioso) e del neoromanticismo (il carattere polimorfo del sacro, la sua eccedenza psichica rispetto alla fede, l’interesse estetico per il suoi valori simbolici, la visione animistica della natura e del benessere, l’attrazione dei risvolti esoterici e demoniaci del mistero). L’elemento caratteristico mi sembra risiedere nel fatto che, nella contemporaneità, l’idea del sacro polarizza e assorbe la tematica del fondamento ontologico, imponendole una trattazione tipicamente religiosa: vale a dire, con strumenti ermeneutici desunti dalle tradizioni religiose, anche quando ci si attesti su una posizione agnostica o francamente nichilistica circa la possibilità di un discorso razionale con pretese cognitive-dimostrative circa l’approdo metafisico o spiritualistico di quell’ermeneutica. Lo spostamento segna un punto a favore della reazione romantica. Il problema è rappresentato dal fatto che, nel contesto del suo prodursi, l’intuizione romantica è stata con ogni mezzo privata di dignità razionale e di legittimità filosofica. Avvenne la stessa cosa con l’Umanesimo e con il Rinascimento, strumentalmente acquisiti al percorso emancipatore della modernità laica e razionalistica, in funzione anti-religiosa; ma sostanzialmente confinati nell’ambito estetico e letterario (soltanto recentemente, ha incominciato ad apparire qualche cauta ammissione circa la dolosa annessione di un fermento tutt’altro che ascrivibile all’esplosione di un sapere razionalistico nella concezione stessa della scienza, della filosofia, dell’antropologia e della politica2). Sono per altro cose note agli addetti. Ciò che mi interessa puntualizzare qui, è il fatto che la nostra teologia fondamentale si è lungamente esercitata nella gestione critica dell’istanza illuministica, in tutti i suoi aspetti. Sicché ha potuto tentarne, e ne persegue tutt’ora, l’adeguamento o addirittura il superamento (nel senso hegeliano), con una certa dovizia di mezzi e un ampio ventaglio di prospettive che rivendicano in ogni modo la loro fondamentale coerenza con il progetto del logos critico-razionale della modernità (ermeneutica, fenomenologia, filosofie del linguaggio e della prassi, contaminazioni con le scienze psicologiche e sociali). Poca confidenza, o addirittura nessuna, essa ha potuto accumulare in termini di confronto rigoroso e approfondito con l’istanza romantica: tutt’altro che riducibile al suo cliché ancora dominante (sentimentalismo misticheggiante, soggettivisimo estetico, vitalismo naturalistico). La filosofia cristiana (cattolica, in specie), avendo certamente privilegiato – non senza ragione, per le stesse ragioni di egemonia culturale che stiamo evocando – l’interlocutore illuministicorazionalistico, si trova in una situazione analoga (e persino a un più basso livello di aggiornamento nei confronti della nuova problematica religiosa). 2 “Si può tranquillamente ammettere che la stessa civiltà nata dalla riforma intellettuale e umanistica e dal ritorno alle fonti delle grandi tradizioni classiche fu pure profondamente attratta ed affascinata dal perenne prestigio di dottrine e ‘visioni del mondo’ che la razionalità ‘moderna’ ha decisamente combattuto, anche se non è mai riuscita ad estriparle in modo definitivo: e cioè dall’astrologia, dalla magia, dall’alchimia e da altre dottrine o pratiche operative che promettevano la rivelazione e il dominio degli arcana mundi. Non basta: si deve pure riconoscere che questa attrazione non fu il frutto di una sconcertante tendenza ad accogliere come verità sapienziali miti e credenze che gli stessi metodi della filologia umanistica avrebbero poi demistificato, o del persistere di un’oscura credulità ereditata dai ‘secoli bui’. Al contrario, si trattò di un fenomeno culturale di grande rilievo, che, sebbene fosse in parte connesso al ritorno di tradizioni ermetiche, gnostiche e cabbalistiche, già iniziato nei tardi secoli medievali, rispose alle profonde esigenze di un’età segnata da irreversibili crisi religiose e politiche, ma anche dall’attesa di una radicale renovatio o reformatio del destino umano”, C. VASOLI, Le tradizioni magiche ed esoteriche nel Quattrocento, in: C. VASOLI, a c. di P. C. Pissavino, Le filosofie del Rinascimento, Bruno Mondadori, Milano 2003, 133-153; 133-134. 4 Esistono tuttavia due significative polarizzazioni del tema, che si sono evidenziate nella stagione post-conciliare, e che hanno già trovato larga rispondenza nella coscienza cristiana e nella teologia critica (come anche nella filosofia). Il rilievo strategico della loro emergenza appare crescente. Le leggo perciò come una conferma del carattere non estemporaneo dell’ipotesi che sto formulando, circa il vantaggio di una nuova articolazione dell’intelligenza della fede con l’orizzonte contemporaneo della questione del sacro. Mi sembra infatti che se ne debba argomentare la necessità di una ricerca teologico-fondamentale più analiticamente impegnata con l’attualità dell’istanza romantica, a vantaggio di un incisivo aggiornamento del suo trattato de vera religione. La prima polarizzazione è quella che fissa l’articolazione alta della nozione del sacro, riavviata poeticamente e misticamente dall’epoca romantica, con la filosofia prima. E’ la linea che la filosofia contemporanea assume prevalentemente seguendo le chiavi di accesso all’eredità dell’idealismo romantico prospettate nelle svolte di Heidegger e di Wittgenstein (che erano partiti da tutt’altro porto). Qui il sacro appare come sfondo abissale ed enigmatico, che sta sulla soglia dell’origine del mondo, ma al tempo stesso sfonda la linea del suo puro cominciamento. Ciò che dal punto di vista del cominciamento del mondo appare come il nulla, o l’assolutamente indeterminato, nell’ottica del sacro appare come l’abisso insondabile e inesauribile di tutte le possibili manifestazioni del divino, oltre che del mondano. Un simile sfondo indica il limite inviolabile dell’abisso nel quale è racchiuso il mistero della prima e dell’ultima parola sul senso: libertà del divino e signoria della verità che appaiono a noi da entrambi i lati del limite insuperabile della nostra finitezza: nella vita e nella morte, nella bellezza e nella tragedia, nell’unità e nella dispersione, nella potenza e nella debolezza, nella grazia e persino nel peccato. Il mistero del divino si confonde qui con il mistero del mondo, in esso convivono gli opposti, la luce e le tenebre, le virtualità del chaos e le possibilità del kosmos. Nelle pieghe di questo mistero si intuisce anche una dimensione drammatica: l’abisso dell’origine divina, che sta oltre ogni fondamento, contiene tutte le potenze (l’ultimo Preyson, vedi gli studi di Tomatis). Su questo sfondo di comprensione, che comunque annuncia e tiene fermo il carattere originario della sapienza del sacro nei confronti di ogni rarefatta e conciliante filosofia dell’essere, ci appare più comprensibile la storia umana: anche quella religiosa. Il suo modo di decifrare e di agire lo spazio di questo irriducibile sfondo del sacro, appare effettivamente decisivo per le costellazioni che il mondo assume, nella storia delle decisioni e delle pratiche in cui la natura del divino viene interpretata e affrontata, e gli assoluti del desiderio evocati o rimossi. L’interpretazione di questo sfondo va rigorosamente elaborata: non è detto che qualsiasi rimando sia valido. Mi sembra però interessante la sua ripresa critica in chiave teologica, che consente, in generale, di far valere il carattere filosoficamente originario del sacro nell’istituzione di qualsiasi discorso intorno alla verità del fondamento e alla giustizia del senso. Nella filosofia, del resto, è sempre stato così, a dispetto di ogni denegazione della ricostruzione razionalistica e polemica della sua storia. E’ così anche ora: là dove il sacro funziona come referente polemico, la sua interpretazione opera – per lo più surrettiziamente – come discriminante fondativa per la coerenza del sistema del senso e come protocollo di legittimazione della sua contemporaneità culturale. 5 3. L’attraversamento del sacro: l’inedito ebraico Il profilo alto del sacro offre alla teologia fondamentale un utile protocollo di mediazione, per superare l’impasse della riduzione della questione del divino al logicismo della dimostrazione teoretica classica, come anche all’immediato confinamento dentro le questioni dell’apologia confessionale. Ancora più interessante, però, mi sembra la possibilità che ne deriva di rivitalizzare in termini di pensiero teologico rigoroso, i tratti dell’originale rivelazione biblico-cristiana di Dio. Il Dio della creazione salvifica, che afferma la sua potenza nella destinazione del mondo dischiuso per l’uomo alla condivisione della sua stessa beatitudine, si fa strada fra “i divini” offrendo alleanza con la giustizia di un amore che sta ben saldo all’interno della sua signoria del sacro. La promessa è giustamente legata alla corrispondenza: è così che si battono le potenze e le possibilità che gravitano intorno all’orbita del sentiero tracciato nelle infinite virtualità del sacro nella storia del creaturale del senso. Il governo del senso sulla linea ontologica ultima del bene e del male, dell’edificazione e della distruzione, della vita e della morte, non è faccenda per gli umani. Abitare il soprannaturale, lungo la linea del compimento per ogni verità e giustizia, è possibile soltanto nello spazio di un’alleanza che – per l’uomo – vive nell’affidamento. La via che ricongiunge l’origine e il senso, solo il Signore può definirla e percorrerla – sull’orlo di tutti gli abissi che avvolgono ogni mondo possibile. I libri biblici della rivelazione ebraica, percorrono tutti gli estremi possibili di questa drammatica del sacro, dove le carte si confondono anche per gli uomini timorati di Dio. La Parola passa attraverso la sacralità della legge mosaica e la ribellione del radicalismo profetico, l’esasperazione di Giobbe e il disincanto di Qohelet, la moderazione virtuosa della Sapienza e l’erotica passionale del Cantico. In tal modo abita e incorpora anche il tormento e l’estasi di tutti gli assoluti del desiderio: trasformando il loro confronto con le ambigue potenze del sacro (la libertà e la legge, la purezza e l’eros, il sapere e l’enigma) come altrettanti luoghi di rivelazione del giusto passaggio attraverso le acque del chaos che si riformano). L’estetica e la drammatica della creazione del cosmo, a partire dal racconto dell’incantamento e del fraintendimento della signoria di Dio da parte dell’uomo e della donna, sono assai più che metafore e ornamento narrativo. Sono percorsi di iniziazione all’intimità del divino. La rivelazione di Gesù manifesta apertamente il carattere polemico del passaggio della fede attraverso il sacro. L’abisso delle forze che ne vengono attratte nell’orbita dei contrari – religione e irreligione – si concentra sul Figlio, che la sconta in se stesso, incorporandola nella potenza e nella signoria della giustizia di Dio. Sigillo inviolabile – per tutti gli umani e per tutti i divini – dell’affidabilità di Dio e del riscatto della creatura. Comunione di destini e irrevocabilità del legame, che sfida e attraversa tutte le ombre del sacro che si attivano nella contiguità della sua potenza creatrice, forzata e dirottata dalla destinazione che il Signore Dio le ha assegnato. Il passaggio e la sfida, nella manifestazione di Gesù, non trascurano nulla nel passaggio attraverso quella prova. Dalla tentazione del Satana, che proprio della 6 parola di Dio si serve per dirottare la missione del Figlio: come già il serpente offrì all’incredulità dell’uomo e della donna il fraintendimento di una somiglianza con Dio che era già stata offerta graziosa e dono puro. Fino all’esperienza dell’abbandono di Dio: sigillo commovente e drammatico dell’agape incarnata nel Figlio, che si espone all’enormità dell’essere frainteso e respinto “nel nome di Dio”. La singolarità dell’evento cristologico è già tutta racchiusa nell’inaudita exousia con la quale egli stabilisce – in parole ed opere, passando attraverso il sacrificio di sè – l’affidabilità dell’agape come suprema verità di Dio: in nome della quale pronuncia un giudizio irrevocabile nei confronti di ogni devozione religiosa e di ogni potenza del sacro che vi si opponga. Il Figlio consustanziale di Dio è dato in ostaggio e in pegno di questa irrevocabile destinazione della fede richiesta per la vita eterna nella quale Dio vuole stare con l’uomo. L’inaudito legame restituisce la creazione alla sua verità, la cui giustizia è scritta nell’intimità di Dio sin da prima della costituzione del mondo. Stabilisce anche un titolo di appartenenza dell’umano all’intimità di Dio che, proprio mediante Gesù, nessuna religione – e nessuna irreligione - può espropriare. L’appropriazione avviene mediante la fede: ossia la libertà dell’affidamento alla giustizia di Dio esibita nel Figlio, da parte di una coscienza resa trasparente alla sua verità Il punto luminoso di questa definitiva signoria del Figlio, infatti, è proprio questo: Dio non vuole, nondimento, essere subito: desidera, con ogni passione, essere creduto, compreso, amato. Le potenze mondane, proprio come quelle del sacro – della terra e dell’aria, degli angeli e dei demoni, della religione e dell’irreligione – devono misurarsi sul Figlio, ossia su Gesù. Il Figlio Gesù appartiene all’intimità di Dio, l’intimità di Dio appartiene al Figlio Gesù. O lasciar apparire la loro obbediente complicità con la signoria del Figlio, che satura la rivelazione della natura divina riposizionando l’intera creazione dell’uomo nei legami del Padre e dello Spirito, oppure rinchiudersi nella loro difformità dalla manifestazione della signoria di Dio, rientrando nell’ombra dell’assoggettamento che è loro destinato. Nell’ottica di questo ricupero ermeneutico della originaria esperienza del sacro, che indica la recinzione di ciò che si pone misteriosamente e pericolosamente sulla soglia della tangenza con l’origine divina, il cui discernimento è indecidibile e ingovernabile dall’uomo, è possibile restituire maggiore serietà a molti temi classici della tradizione biblico-cristiana, superficialmente consegnati alla pura forma narrativa della rappresentazione mitica e arcaica del sacro. (E’ quella che io chiamo fenomenologia della rivelazione: che è il modo in cui la sua ontologia diviene accessibile e saputa, non solo l’insieme dei segni che ne rendono credibile l’incomprensibilità e la metafisica). In Gesù Cristo, la fenomenologia e l’ontologia del Figlio di Dio sono indissociabili e indissolubili: è questo che significa credere nell’incarnazione, e non soltanto nella manifestazione del Figlio o nell’esemplarità di Gesù. 4. Effetti creaturali del sacro: topica e drammatica Dopo tutto, la serietà con cui la tradizione cristiana custodisce il nucleo di una rappresentazione del sacro inclusiva di molte differenziazioni ontologiche e qualitative, che non possono essere semplicemente rimosse o azzerate, dovrebbe essere pensata più rigorosamente. 7 Nella rappresentazione cristiana, la sfera dello spazio occupato dagli angeli e dai demoni, deve essere differenziata dall’ontologia e dalla qualità del divino e non può essere gnosticamente confusa con l’intimità della suo mistero santo. Non può essere neppure simmetricamente contrapposta ad esso, però, come un’alterità che si riferisca ad un’origine assoluta e irrelata. Esiste dunque una drammatica dell’universo che scaturisce dalle virtualità etiche della creazione divina, e che l’unità dell’origine non spiega - non deve spiegare - in termini di astratta e meccanica derivazione. Dalla libertà della divina signoria creatrice viene anche libertà nell’essere. Esiste una tensione drammatica fra le virtualità ontologiche della creazione e la storia qualitativa del differente, che l’ambivalenza del sacro, nella sua faccia rivolta verso di noi, restituisce da sempre come eccedenza ingovernabile per l’uomo. L’albero della vita e quello del bene e del male fanno parte del divino giardino della creazione: ma il comandamento amorevole di Dio ci protegge dall’ambizione mortale del loro dominio, che non è alla nostra portata. Questa drammatica è attraversata dall’ordine dell’intenzionalità, della libertà, dell’obbedienza e della contrapposizione. Essa edifica la sua dimora nella sfera dell’essere come riverbero della potenza indirizzata alla giustizia e alla santità che piacciono a Dio: ma anche dello svincolamento autoreferenziale di un contrasto affettivo con l’origine, che vive parassitariamente – e distruttivamente – all’ombra dell’energia ricevuta da Dio. L’interpretazione ontologica del sacro non può essere disgiunta a nessun livello da quella etica: né le due possono essere pensate, nel loro ortogonale intreccio, semplicemente come il puro rispecchiamento dell’origine ontica assoluta (è il difetto che, nella nostra tradizione, ha favorito la semplificazione dell’idea dei trascendentali: eccesso di platonismo, che si ribatte nella rimozione dell’ambivalenza del sacro, e ne sconta l’ingenuità fra gli eccessi del dualismo gnostico e il formalismo della riduzione del male al non-essere). L’abisso misterioso della vita generata nella contiguità dell’origine divina è più vasto – nel bene e nel male – di quello che possiamo riconoscere nella storia del mondo a noi nota. La storia della libertà e la storia dell’essere hanno proporzioni di vastità inimmaginabile, irriducibili a quelle della coscienza e dell’esistenza governata dall’umano. La potenza dell’unico Signore dell’universo nel quale crediamo – il Padre il Figlio lo Spirito Santo – è misteriosa potenza di governo e separazione, all’interno di questo intreccio dei possibili che vengono alla luce nella creazione. Signoria immane e sottile, esercizio di una giustizia inarrivabile, che riconduce la creatura dentro l’orizzonte ontico dell’eterno legame della vita destinata e dell’agape divina: senza distruggere semplicemente la storia della vita (celeste, umana, mondana) e senza azzerare la qualità intenzionale e affettiva che ne compone la verità ontologica e ne istituisce il senso escatologico. Essa ha da essere assicurata al mondo che le è destinato, custodita nella forma del suo compimento, proprio in quanto sfera dell’essere libero e responsabile, affettivamente determinata e creaturalmente riconciliata nei confronti del suo legame con l’intimità divina che l’ha desiderata quale destinatario dei suoi eterni legami. E’ impossibile per noi anche soltanto cercare di immaginare, come possa essere fatta valere ogni volta – e infine, una volta per sempre – la stabilità di questa definitiva differenza: integrando, pur senza contiguità e confusione possibile, l’effetto dei percorsi di iniziazione. L’appropria ontologica della qualità buona, nella sfera creaturale della libertà, deve pur essere decisa dalla configurazione intenzionale degli affetti in cui 8 si genera temporalmente. Nella drammatica della rappresentazione cristiana di questo processo, la serietà di questa ambivalenza del rapporto fra origine e compimento si mantiene pur sempre nell’orizzonte contiguo al divino. Anch’esso ha una dimensione eterna, non vola via nel puro e semplice niente. Nelle pieghe della relazione indissolubile fra l’origine increata e l’esistenza del creato, trae esistenza. Il luogo ontologico della purificazione, quello della perdizione, quello del compimento, abitano pur sempre l’orizzonte del legame con l’origine: incorporano la storia del mondo nell’orizzonte della signoria del divino, che include fra le pieghe della sua libera invenzione la drammatica ambivalenza del sacro. L’essere eterno illumina – anche sub contrario – la signorile liberalità della grazia e della passione in cui il mistero di agape si concede all’azzardo di un interlocutore degno di questo nome. Nella recezione dell’uomo, tutto questo viene alla percezione della coscienza nell’esperienza del sacro: tema di affidamento supremo e rischio permanente, nell’ambiguità che avvolge l’umana memoria – finita, limitata, confusa – dell’imprinting creaturale di un’originaria e misteriosa confidenza con Dio. Non solo viene alla coscienza, ma soprattutto preme affettivamente su di essa, nell’ambito di una sfera ontologica del senso che non si lascia ricondurre al linguaggio. Esiste una grammatica – e una drammatica - delle forze, che abbiamo graziosamente consegnato alla psicologia, alla biologia, alla fisica, di cui la filosofia e la teologia sembrano sapere ormai poco o nulla. Fino a tutto il Seicento hanno fatto parte della teologia della grazia e – per questa via, dell’antropologia e dell’ontologia dell’essere. La filosofia neoscolastica non ne ha voluto sapere più nulla L’ambiguo e intermittente interesse odierno per la mistica rischia così di confermare soltanto il carattere di compensazione irrazionalistica e pulsionale che l’ordine degli affetti garantisce ad una ontologia della verità e della coscienza che lo ignorano puramente e semplicemente la sua metafisica. L’organizzazione logica del semantico, che espelle ciò che non si lascia ricondurre al concetto, non capisce più nulla di ciò che non si lascia comprendere in termini di nesso causale o, al più, di relazione formale, ma solo come tema regale della filosofia prima, il cui logos originario è responsorialità di tracce affettive e responsabilità di legami intenzionali. E così genera una spenta filosofia dell’essere – della verità, come della giustizia - che ignora completamente l’intreccio originario e già divino della libertà e delle forze. Privandosi così di un sapere all’altezza dell’erotica e della drammatica escatologica del senso, che è poi quella originaria della qualità etica dei significati: attrazioni e repulsioni, congiungimenti e separazioni, legami e affinità, affidamenti e fedeltà. Fino ai paradossi del passaggio attraverso gli opposti, la cui verità l’inconscio decifra affettivamente, anche quando la coscienza ne dissimula razionalmente la giustizia: doveroso amore dei nemici e doverosa resistenza agli amici, logoramento della libertà nell’esaltazione di sé ed esaltazione dell’identità nella consegna di sé. Tutte queste cose si lasciano comprendere solo nei pressi del sacro, dove la rivelazione del significato è strettamente intrecciata con la relazione del senso. Capire in quale modo si riveli il divino secondo la sua verità, comporta la necessità di patire le pressioni e le dislocazioni del sacro in cui si è immediatamente avvolti, non appena ci si avvicini alla domanda su Dio: non solo 9 chi è Dio, ma anche chi è Dio, cosa fa e cosa vuole. E soprattutto quali sentimenti prova nei nostri confronti. 5. Le forme religiose: memoria e iniziazione al divino Innumerevoli sintomi della latenza di questo percorso, nella filosofia e nella cultura contemporanea giacciono sparsi, oscurati dal canone della razionalità agnostica e dell’irrazionalismo esoterico che appaiono dominanti. Attendono di essere raccolti, collegati, fatti valere, portati ad effetto. La teologia riuscirà a trovare la spregiudicatezza, la pazienza, la tenacia necessaria per illuminare la rete che la congiunzione di questi punti potrebbe far apparire? Ritroverà lo slancio filosofico di un pensiero ontologico alto e creativo, oppure si accontenterà di procurare estemporaneo arredo intellettuale al gergo metafisico e devoto della sua lingua più corrente? Noi teologi siamo naturalmente i destinatari della responsabilità ecclesiale che scaturisce da questa domanda. Non vi indugeremo, perciò, in questa sede. Vorrei piuttosto indicare due piste che già ora potrebbero essere percorse, con gli strumenti già approntati dalla ricerca della migliore teologia fondamentale. La prima pista riguarda il tema della religione, come contesto nel quale si decide esistenzalmente – antropologicamente ed eticamente – della verità di Dio per l’uomo, che deve essere riscattata dall’ambivalenza del sacro, senza che ci si possa immaginare di poter semplicemente evacuare il sacro, come portandosi in una sfera alternativa, estranea, semplicemente sottratta o contrapposta ad esso. Il confronto e il dialogo fra le religioni trova qui il contesto in cui la singolarità cristiana può e deve far valere l’unicità della fede evangelica come canone universale di verità per la qualità della religione che tende – ovunque e oggettivamente – al suo compimento in Spirito e verità. La rivelazione del Figlio in Gesù, appare, proprio su questo punto, straordinariamente luminosa: tanto inaudita quanto dirimente. Forse la nostra è proprio l’epoca del cristianesimo chiamato a concentrarsi sulla credibilità dell’attestazione di Gesù, a riguardo del modo in cui le religioni devono essere abitate e trascese mediante l’agape evangelica di Dio. Come è avvenuto per altri spunti della rivelazione (come ad esempio la dignità individuale della coscienza, o la necessaria autonomia della cittadinanza), si presentano ora le condizioni epocali di un risolutivo insediamento della religione come scrigno che custodisce la qualità spirituale dell’uomo per l’avvento di Dio. L’esasperazione strumentale dell’identità religiosa, attratta nella sfera dei molti conflitti del nostro tempo (di natura essenzialmente economica), è anche un provocazione che va smontata dal suo carattere di pretestuoso argomento per l’irreligione, e contemporaneamente indirizzata al consolidamento del consenso fra le religioni intorno alla qualità autentica della religione. La necessità di questo impegno è apparsa, negli ultimi decenni, oggetto di uno speciale impegno: dialogico, ma anche critico. Il carattere irreversibile di questo processo di chiarificazione, si è manifestato contestualmente all’emergere di una doppia sollecitazione, apparentemente contrastante. 10 Da un lato il confronto interreligioso presenta oggi dimensioni e caratteristiche che ancora ieri sembravano impensabili. Le antiche tradizioni religiose appaiono tutt’altro che inerzie residuali di un mondo non ancora raggiunto dalla civilizzazione cristiana. La loro ripresa di iniziativa manifesta anche nuove forme di vitalità: in parte favorita dal ricupero spirituale di tradizioni minacciate dalle parti eticamente e antropologicamente più corrosive della civilizzazione occidentale, in parte contaminate e strumentalizzate dai giochi della conflittualità politica più esasperata. Simmetricamente, lo sguardo cristiano nei loro confronti si è da tempo disposto su una linea di giusta attenzione, che mira a identificare in esse la dignità dell’esperienza religiosa dell’uomo, che si pone in atteggiamento di ascolto e obbedienza nei confronti del divino. Il loro nuovo carattere propositivo richiede tuttavia il ricupero di un atteggiamento più francamente dialettico e interlocutorio, irriducibile ad una mera interpretazione propedeutica nei confronti della rivelazione cristiana. D’altro canto, la forma della coscienza agnostica, che prende distanza dall’identificazione credente, anche quando manifesta apertura nei confronti della sensibilità religiosa, costituisce per molti aspetti un tratto qualificante della cultura occidentale e della nuova cittadinanza europea. Il fenomeno si manifesta con effetti ambivalenti e contraddittori. Favorisce infatti, senza alcun dubbio, la progressiva espulsione del profilo etico dalla sfera della cultura sociale condivisa, dirottandolo nell’ambito di un pluralismo ideologico omologo a quello del cosiddetto pluralismo delle confessioni religiose. (E’ una specie di seconda secolarizzazione: la prima ha posto una barriera insormontabile fra religione e verità, la seconda fra libertà e morale). Per contraccolpo, l’erosione dei valori forti dello spirito prodotta da questa seconda secolarizzazione, genera un vuoto il cui risucchio attrae in ordine sparso le più disparate forme del sacro. Mistiche e sataniche, rituali e libidiche, selvagge ed estetiche, terapeutiche e distruttive. In parte esse trovano ospitalità nelle convenzionali pratiche religiose, in parte si dislocano in luoghi succedanei alla religione tradizionale (oroscopi, diete, psicoterapie, tecniche del godimento e del benessere). Dentro questo miscuglio fluttua indubbiamente, con qualche smarrimento, anche l’autentica domanda di ricupero dell’interiorità e della spiritualità, dei valori e della trascendenza. In Occidente, questa domanda, figlia di una condivisa sensazione di disorientamento e di impotenza, si accompagna con un moto di risentimento collettivo nei confronti della civiltà religiosa dalla quale veniamo. Di fatto, è in gran parte risentimento nei confronti del cristianesimo. A motivo della sua presunta volontà di egemonia, che appare insopportabilmente dispotica, ma anche a fronte della sua condiscendenza nei confronti della secolarizzazione, giudicata eccessiva. In questo quadro, complesso e contraddittorio, mi sembra che la teologia fondamentale sia chiamata a concentrarsi sempre più, nel prossimo futuro, intorno al tema essenziale della qualità etico-teologale della religione nell’esperienza umana complessiva. 6. L’incondizionato etico di Dio: novum cristologico Alla ripresa della filosofia prima nell’orizzonte ontologico dell’ambivalenza del sacro, di cui si diceva, potrà dunque opportunamente affiancarsi un’etica teologico-fondamentale della qualità religiosa che interpreta, indirizza, governa il 11 sacro. Le potenze del sacro – che stanno sempre sul crinale degli assoluti del desiderio: riconoscimento dell’origine, esperienza dell’amore puro, approdo alla felicità indefettibile, impossibile speranza di una vita eterna - senza regolazione di una forma religiosa adeguatamente istituita, sono anche potenzialmente distruttive3. Non basta infatti che la religione si presenti come interpretazione autentica e regolazione spirituale del sacro. Essa deve mostrarsi all’altezzza dell’azzardo che si prende, affrontando il compito di indirizzare l’uomo alla salvezza e al compimento. Deve perciò scontare in se stessa, a favore dei terzi, il conflitto con il sacro che quell’azzardo comporta. Lotta col Satana, lotta con l’Angelo, e intimità con Dio che viene a capo – con ogni timore e tremore – della loro irriducibile differenza. Non così semplice da stabilire, anche nel solco di un’alta manifestazione del divino. Nell’attestazione di Gesù, il primato dell’evangelo di Dio si esercita esplicitamente nei confronti di una deriva che la religione, nelle mani degli uomini, non è mai in grado di scontare: per quanto santa e ineccepibile sia la sua origine. Il lato interessante di questa dialettica, dal punto di vista teologicofondamentale, sta nel fatto che in questo punto la credibilità cristologica della manifestazione del Figlio, che compie l’attesa religiosa, e la singolarità teologica della pretesa di Gesù di Nazareth, che scandalosamente la depista, trovano il loro punto di perfetta sovrapposizione dialettica. Il primo tratto può essere equivocato in molti modi, se lo si scioglie dal rigore del suo legame con quella pretesa. La seconda è religiosamente indifendibile, se non si apprezza la giustizia che sta davanti a chiunque abbia occhi per vedere e orecchi per intendere. Non si può osare tanto, religiosamente parlando, se non si è il Figlio che esercita la signoria incondizionata e universalmente inclusiva dell’agape di Dio. Non si è il Figlio, se non si coinvolge Dio con sé stessi fino a quel punto di identificazione esclusiva. La differenza unica è in tal modo virtualmente posta, già sul piano del riconoscimento e dell’affidamento. O si punta tutto sull’esclusività dell’identificazione di Gesù, o si può seguire chiunque altro. Nella chiave della critica religiosa della religione, non ci sono comparazioni intermedie delle quali venire a capo con l’alchimia delle differenze interne alla sfera del prodigioso, né ai processi di legittimazione delle tradizioni del sacro: la pietra e l’albero, il monte e il tempio. Gesù avanza sin dall’inizio della sua attestazione nel solco di una rappresentanza che si insedia direttamente nello spazio della verità di Dio che si manifesta: qui ed ora, in lui e per mezzo di lui. La rappresentazione appare – giustamente, del resto – al limite di una scandalosa sostituzione: oltrepassamento della la linea di confine che non dovrebbe essere osato, dal testimone in cerca del supremo accredito agli occhi dell’uomo religioso. In quella rappresentazione, nondimeno, si fa del pari evidente la radicale consegna del Figlio allo spregiudicato attaccamento di Dio nei confronti della creatura. Fino all’accettazione dell’annichilimento, che sconta fino all’ultima goccia, nella signoria del Crocifisso, lo svuotamento del carico di assoggettamento che 3 Annoto, estemporaneamente, la vistosa percezione di un mutato scenario, quanto all’interrogazione sul rapporto fra religione e violenza, negli ultimi decenni. All’inizio degli anni ’70 la chiave della domanda era sostanzialmente imperniata sulla possibilità religiosa di legittimare la violenza nei confronti della natura intrinsecamente oppressiva del sistema civile (capitalistico, tecnocratico, borghese, totalitario). Negli ultimi anni, l’interrogativo si addensa di nuovo, in tutt’altra chiave, intorno al carattere intrinsecamente dispotico del sacro, che coinvolge automaticamente le forme fideistiche della religione. In modo esemplare, le forme monoteistiche, in passato giudicate come la forma più alta e più pura del pensiero della trascendenza. 12 l’immagine della potenza divina porta fatalmente in sé (del quale il Dio biblico è consapevole, nel suo continuo trattenerla; e sulla cui intimità invidiosa il Mentitore specula sempre, sin dall’inizio). La pretesa (Anspruch) di rappresentanza di Gesù consegue qui la sua massima evidenza e il suo peculiare paradosso. Gesù manifesta l’autorevolezza della sua attestazione della verità di Dio fronteggiando criticamente la religione tramandata, della quale riconosce per altro l’origine divina e nei riguardi della quale proclama l’intenzione di un assoluto compimento, ‘fino all’ultima virgola’. Ancora più interessante, è il fatto che il senso di questa dialettica del ridimensionamento e del compimento viene in certo modo fissata come criterio permanente del limite intrinseco alla religione che non si lascia giudicare e misurare dall’agape di Dio attestata dal Figlio. Anche quando invochi il Signore, anche quando abbia compiuto prodigi in suo nome, anche quando permanga nel vincolo della sua sequela. Insomma, anche quando si faccia religione cristiana. Nel governo della dialettica di questo circolo delicato e difficile, la fede evangelica mette in campo uno strumento di inaudita potenza. Questo strumento consiste nel duplice legame istituito dall’evangelo di Gesù, il cui referente – inaggirabile, indistruttibile, eterno – è confessato dai suoi discepoli come incarnazione del Figlio, che decide della qualità degli umani e dei divini. Il modo più alto della sua manifestazione, quello in cui si decide la verità della sua pretesa insieme con l’affidabilità della sua obbedienza, è appunto la critica religiosa della religione. Il primo lato del legame è la qualità etica della teo-logia: il divino incompatibile con l’atteggiarsi di Gesù di fronte all’umano nella prova è revocato in dubbio: la sua sacralità è ambigua, la sua adorazione è sospetta. Il richiamo all’ambivalenza della religione sacrale e sacrificale, se lo volessimo finalmente ascoltare nella sua pura rivelazione, è uno dei punti più forti e luminosi della singolarità evangelica: solo il Figlio poteva osarlo in quei termini. Dio si lascia apprezzare in rapporto alla manifestazione della giustizia, che anche i più piccoli sono in grado di riconoscere. Il giudizio – Matteo 25! – non ha bisogno di cavillare sul dono della fede e non sopporta sofismi sulle difficoltà dell’altruismo. Il Signore si lascia incontrare nell’evidenza di una radice del mistero santo di Dio scritta sulle tavole della dedizione e della cura. In quel punto zero della grazia, universalmente offerta nella provocazione della perdutezza dell’altro, si iscrive la salvezza di ognuno. Punto e basta. Il secondo legame è simmetrico al primo, fa sistema con esso e chiude il cerchio della rivelazione inosabile eppure apparsa come irrevocabile. Il secondo legame è appunto la qualità teo-logica dell’etica: la relazione, l’azione - il pensiero, persino – rivolto all’altro uomo (e donna, Gv 4!) decide la qualità della relazione con Dio in Spirito e verità. L’emozionante consegna del rapporto teologale all’edificazione dei legami di agape, che sfidano la morte e scommettono sull’eterno, è l’evento dirimente della novità cristiana. Viene l’ora ed è questa, accade l’evento ed è questo. La compatibilità con la manifestazione e l’attestazione di Gesù fa la differenza dell’adorazione in spirito e verità. La coincidenza di quella rivelazione con quella relazione riscatta ogni estraneità: etnica, sociale, religiosa. E consegna al nominalismo e alla simulazione – alla menzogna, dice Giovanni – ogni pratica difforme: per quanto devota. Ciò avviene in ogni tempo e in ogni luogo possibile della religione storica: compresa quella che il cristianesimo stesso, di volta in volta, assume, abita, incorpora. Infine, neppure “chi dice Signore, Signore”, oppure “il Cristo qui, il Cristo là”, ci 13 mette necessariamente sulla traccia di Gesù: l’unica evidenza in cui il Figlio possa e debba essere riconosciuto. (Anche questo sottile abisso abbiamo imparato a sorvolare, nella rivelazione inaudita di Gesù, che ci insegnò il gioco cruciale di una testimonianza della verità di Dio senza comparazione storica: talora affidata alla libertà di “gridare sui tetti” ciò che molti vorrebbero fosse detto sottovoce, talora ammonita severamente di “non dire a nessuno” parole che consegnano il mistero santo al fraintendimento irrimediabile). La franca confessione dell’evangelo di Dio, che ha l’identità di Gesù come referente assoluto, patisce la rimozione del sacro e la propaganda religiosa allo stesso modo. Il fondamento di questa rigorosa limitazione del potere della religione stessa, in Gesù, è il potere esclusivo che il Figlio riceve dall’abbà-Dio. Questa esclusività è vista, dal lato della storia, nel fatto che il suo principio sta nella parola e nell’azione di Gesù che la istituisce. Dal lato del cristianesimo, nella viva coscienza del fatto che, per far valere questa esclusività è proporzionalmente necessario esplicitare quella limitazione: assumerla generosamente, farsene carico coraggiosamente, esaminare se stessi con ogni rigore autocritico. Sempre, nella religione, si formano e riformano clericalismi, rabbinismi, fondamentalismi, esoterismi, gnosticismi, durezze di cuore, divisioni mortali, autoesaltazioni di ogni genere, derive superstiziose e contaminazioni di ogni sorta. Alcune sono riconoscibili come il frutto del peccato dell’uomo. Altre sono insidiosamente incistate nell’invocazione del nome di Dio. Quando Gesù respinge il dominio delle città del mondo a vantaggio della sua missione, sapendo che l’offerta viene dal maligno, o quando avverte che i giusti saranno perseguitati nel nome di Dio, credendo di fargli cosa grata, mette in campo una linea del giudizio permanente, che non intende certo risparmiare i suoi. Anzi, a loro chiede il rigore di una confessione totalmente spregiudicata, al riguardo: quale non è possibile su nessun fondamento puramente religioso dell’esistenza. La religione che si accontenta di provare semplicemente la propria coerenza con se stessa, rende testimonianza a se stessa, non a Dio. Il Figlio stesso neutralizzò definitivamente l’autoreferenzialità del circolo di un’apologetica viziata, restituendo al Padre l’origine e il compimento della sua giustificazione. 7. La verità religiosa dentro i limiti della pura rivelazione. La testimonianza evangelica chiede doppio coraggio: non si può abbandonare la religione, non ci si può semplicemente abbandonare ad essa. Su questo punto Paolo spinge semplicemente a fondo il punto di innesco della rivelazione di Gesù. Non avrebbe potuto osare tanto, se l’autorevolezza del Signore, Gesù Crocifisso e Risorto, non avesse indicato – e patito, e confermato – l’evidenza definitiva della rivelazione. La virtù della religione, che dunque articoleremo opportunamente nei confronti del puro incantamento del sacro, è la via condizionale – necessaria e limitata – di una fede che non può fare semplicemente sistema con essa. La dialettica della Legge e della Grazia è quella della Promessa e del Regno. L’avvento del Regno anche quando dormiamo, onora proprio così, anticipandola e regolandola, la verità della Promessa, altrimenti troppo umana. La Grazia si lascia comprendere come il riscatto della Legge: perciò, e solo così, opera come il suo necessario compimento, altrimenti inchiodato all’astuzia del peccato e 14 all’ingenuità del diritto. Il trasferimento paolino dell’evangelo del Signore in un nuovo codice, quello dell’universalismo cristiano che gli appartiene di diritto, apre il campo al colloquio con tutta la religione possibile – e tutte le religioni pensabili – senza perdere neppure uno iota della rivelazione di Gesù, conservandone identica la forma e la forza. Lavora sullo stesso nucleo, insiste sulla medesima dialettica. Non c’è nessun Paolo fondatore del cristianesimo, qui, che abbia trasformato la libera sequela dell’evangelo nel vincolo autoreferenziale di una nuova religione, alla quale Gesù non aveva pensato. L’icona di Gesù, saldamente attestata nella verità cristocentrica di Dio, è la stessa che regola l’obbedienza della fede di Pietro, che intende la verità della religione entro i limiti di una relazione di Dio che non fa accezione di persona. Filtra nella franchezza di Giacomo, il saggio mediatore di passaggi difficili, che stringe sul legame cristologico dei due comandamenti, indicando la custodia dei più deboli il sigillo di una religione pura, che fa la differenza. Risplende nella linea invalicabile fissata da Giovanni, il mistico, che rimarca – all’interno del cristianesimo stesso – la menzogna di una religione che confessa Dio e mortifica l’uomo. La purificazione della religione – non dalla religione – è il compito storicamente più alto e difficile affidato ai discepoli del Signore. Impossibile e necessario. Essi devono scontarlo nella loro carne e nel loro spirito, compiendo in favore dell’ekklesìa dei testimoni, e di tutti i loro protetti, ciò che manca alla passione di Gesù Cristo. Nei decenni trascorsi, premuta dalla rappresentazione di una secolarizzazione che avrebbe condotto la religione al declino come forma civile, anche la teologia cristiana ha sperimentato la possibilità di un’interpretazione e di una pratica non religiosa del cristianesimo, contrapponendo la singolarità della fede evangelica all’universalità della forma religiosa. Il contraccolpo era comprensibile. La tesi, pur con i suoi eccessi, ha riportato alla luce la verità di una dialettica che era stata indubbiamente oscurata. La dialettica della religione e della fede è un nucleo vitale per la comprensione del cristianesimo: nella sua anomala singolarità e perciò nella sua universalità. Rimane il fatto che la pura contrapposizione della fede alla religione taglia semplicemente fuori l’universale umano della relazione con Dio. L’universale autentico, effettivo, appropriato all’attraversamento reale del sacro: non quello della religione razionale del pensiero, inventata dalla filosofia occidentale della modernità, per via di progressiva rarefazione mentale del cristianesimo. Lo spazio e la lingua della religione rimane quello in cui la rivelazione cristologica si è attestata concretamente secondo la la sua verità: proprio l’incarnazione del Figlio sbarra la strada alla rimozione della religione quale condizione di una maggiore purezza della fede. La religione infine è lo spazio esistenziale – corporeo e spirituale, culturale e sociale – in cui la fede è messa alla prova quanto alla sua capacità di onorare il carattere non estemporaneo dell’insediamento di Dio nel tempo storico. Non c’è proprio nessun altro modo di andare a toccare le nervature della carne e le intimità dello spirito in cui l’esistenza si trova toccata nell’intimo è riscattata e plasmata secondo la verità destinata. La religione è la lingua e la memoria, gli affetti e le pratiche, dentro le quali la relazione con Dio si fa sentire. La religione indirizza l’ethos del coinvolgimento credente con Dio a frequentare l’intimità affettiva del bios umano, che non vuole rimanere estraneo al contatto del divino. E’ qui il banco di prova della fede che salva: o l’uomo e la donna che ci sono, anima e corpo, passione e pensieri, esaltazioni e ferite quante sono, oppure niente. Nel Figlio Gesù, abbiamo 15 la certezza che Dio sa che cosa intendiamo quando sbottiamo: “chi mi libererà da questo corpo di morte?”. L’alternativa dirimente è un corpo di vita, in cui la morte e la risurrezione del Signore si fanno sacramento in cui tocchiamo e siamo toccati: se Cristo non è risorto, la nostra fede è vana. Nella splendida cristologia della lettera agli Ebrei, è splendidamente riassunto il nostro punto di forza nell’attraversamento del sacro. Senza questa incorporazione tutti i sacrifici sono vani, in qualsiasi modo. In virtù delle parole e dei segni che marcano la carne e l’anima, tutte le ferite hanno accesso al loro riscatto. Nel solco della religione lo spazio della notitia Dei si apre all’altezza delle potenze del sacro, nel cui mistero indecifrabile – fiduciosamente e pericolosamente – abitano i figli di Adamo. Essi sono raggiunti in molti modi dalla traccia indelebile di un’originaria confidenza con il Signore della creazione, per il quale vengono al mondo. Intercettati inestricabilmente, anche, dall’incorporazione dell’antica diffidenza che in quel rapporto si è insinuata: della quale è impastata la storia che ereditiamo, alla quale la libertà concorre in forme sempre nuove. Quella diffidenza genera effetti disparati: induce alla rassegnazione di un distacco inevitabile e alla indifferenza di una presenza incerta; suscita risentimento violento e sacrificale, induce alla ricerca di sostituzioni improbabili e distruttive. Nello spazio di quella diffidenza, che le potenze mondane dell’aria, del suolo e del sottosuolo alimentano incessantemente, anche la religione dell’uomo cerca di adattarsi, come a tentoni, con mille sacrifici, mille scongiuri, mille superstizioni. In questo solco mi sembra aprirsi una strada migliore anche per l’evangelizzazione in contesto interreligioso. Il cristianesimo attesta la verità ultima della religione, di tutta la religione dell’uomo: compresa quella in cui la fede evangelica ha nutrito e nutre la promessa del riscatto della creazione, inaugurato con la fede di Abramo. Compresa quella in cui essa articolerà necessariamente, nei tragitti più diversi, l’evidenza storica della sua forma testimoniale. Per essere fatta valere secondo la singolarità dell’evangelo, esplicitamente istruita e realizzata da Gesù, quell’attestazione avanza di pari passo con il riconoscimento del limite della religione nei confronti del legame risolutivo – indistruttibilmente creaturale, inarrivabilmente escatologico - fra la verità di Dio e la salvezza dell’uomo. La centralità di questo tema nella manifestazione di Gesù mi pare inequivocabile. Penso che qui risieda anche l’elemento strategico per la chiarificazione della novità evangelica della rivelazione: incomparabile, appunto, con la tradizione religiosa, proprio perché irriducibile alla mera apologia di una religione come anche alla pura giustificazione della religione. La limitazione cristologica della religione – a differenza di quella degli stessi profeti, che rappresenta certamente la premessa più alta della critica religiosa della religione in cui si fa intendere l’assoluta radicalità della rivelazione del Figlio – non riguarda semplicemente i difetti della sua coerenza, ma la portata intrinseca della sua capacità di sottrarsi stabilmente (e di sottrarre compiutamente) all’ambivalenza del sacro, a motivo della sua mescolanza col peccato. Ciò vale dal lato dell’effettiva manifestazione storica della giustizia di Dio, come pure da quello dell’effettiva conciliazione del cuore con la verità di Dio. Gesù stesso si pone come il punto di incondizionato discrimine per il riconoscimento di quella manifestazione e per l’affidabilità di quella conciliazione. Rifiutandosi di rinviare questo discrimine ad altro che alla sua originaria confidenza con l’abbà-suo, Gesù 16 mette in campo lo scandalo del profeta religioso che si fa rivelazione di Dio, in luogo di rinviare ad una parola sacra di Dio che lo precede. 8. L’ ethos occidentale dell’irreligione: un compito Dirottando tutta la verità di Dio sulla giustizia di agape, Gesù indica la forma autentica della relazione spirituale con Dio, collocandola nell’orizzonte di una manifestazione del divino universalmente riconoscibile, apprezzabile, affidabile nella sfera della relazione corporea dell’umano. La strada di ogni deriva dispotica della rivelazione divina, come quella di ogni carattere esoterico della relazione credente, è sbarrata in radice. Con questo sbarramento, si chiude però anche l’ultimo varco per la pretestuosa innocenza dell’umana autoimmunizzazione nei confronti dell’attestazione credente che impegna sul discernimento del sacro e guida alla verità della religione. L’invenzione moderna dell’agnosticismo, dalle belle apparenze di equidistanza civile e laica, liberale e democratica, nei confronti della pretesa di venire a capo degli enigmi del sacro e dei conflitti religiosi, si pronuncia pur sempre sugli assoluti del desiderio e sulla giustizia di agape. In questo modo si è già contaminati dal sacro e imbarcati con la religione. Non esiste infatti altro modo – finché esisteranno i paradossi del desiderio e le evidenze di agape – di pronunciarsi su di essi. Senza decisioni nell’orizzonte della fede e senza pronunciamenti sul senso della religione, non avremmo linguaggio per il desiderio. Nella prospettiva della fede cristiana d’altro canto – ma lo sfondo sul quale si disegna la sua peculiare interpretazione è quello della coscienza religiosa tout-court, come ha già indicato, nella sua parte rimossa, la pur tanto celebrata fenomenologia religiosa di Rudolf Otto – si è sempre nella relazione con Dio e ci si pronuncia sempre a suo riguardo: positivamente, negativamente, indifferentemente. L’implicito assoluto della verità e della giustizia del senso, che viene in campo con l’attitudine a giudicare la vita dal punto di vista del bene e del male, è sempre impiantato sulla memoria religiosa del sacro, prima che sull’orizzonte trascendentale del senso. (Lacan, qui, mi sembra infinitamente più istruttivo e pertinenete di Heidegger). Anche in questa prospettiva penso ai vantaggi di un inquadramento teologico della dialettica alla quale alludo parlando di una critica religiosa della religione. La serietà cristiana della critica religiosa della religione anticipa e sbarra la strada per la critica della religione che ne trae argomento a buon mercato per l’omologazione dell’irreligione. L’elusione del caso serio che la religione tiene in campo – quella che chiamo la deriva dell’irreligione – ha un prezzo altissimo: chiude l’orizzonte della trascendenza che rende pensabile la qualità spirituale dell’umano, erode l’etica condivisa che rende praticabile l’ordine degli affetti che vi corrisponde. L’Occidente ha avviato da tempo la sperimentazione di questa rimozione. La legittimazione culturale dell’ideale di cittadinanza fondato su questa rimozione, cerca il sostegno di una filosofia della decostruzione, che si fonda sull’esclusione di quella che indica ogni pregiudiziale metafisico-religiosa del sapere: della realtà, come del senso. Di questa esclusione la filosofia non produce più neppure la giustificazione, sancita come l’a priori del suo punto di consenso più avanzato. 17 Da un lato la presunta ovvietà della sua denegazione è posta a carico della constatazione di un nichilismo per così dire ambientale, che ha congedato ogni pensiero del fondamento; dall’altro è fatta valere come legittima difesa della cultura civile nei confronti di un protocollo ideologico intrinsecamente funzionale ad una governance sociale dispotica e antidemocratica. L’incoerenza di questa doppia pregiudiziale è largamente eccepibile, sotto il profilo teorico. Dal punto di vista pratico, tuttavia, il circolo vizioso nel quale pluralismo e nichilismo si alimentano reciprocamente è percepito come insolubile. L’istituzione di una verità pubblicamente vincolante appare al senso comune diffuso un minaccia per i valori (cristiano-)occidentali dell’individualità personale; d’altro canto, il varco aperto dal pluralismo per l’arbitrio soggettivo e l’erosione di tutti i valori condivisi, è consensualmente percepito come una deriva di intollerabile disgregazione del senso. Su questo sfondo, il tradizionale apparato teorico del rapporto fra verità e libertà appare incapace di interrompere il circolo. La decostruzione occidentale esercita enfaticamente la critica del dominio epocale esercitato dal blocco tecnico-economico della razionalità condivisa, ma poi agevola servizievolmente l'interesse di quest’ultima al riduzionismo che essa pratica nei confronti della coscienza morale e religiosa, esclusivamente in base all’ingombro che essa rappresenterebbe per l’emancipazione della scienza e del diritto funzionali all’economia libidinale. In questo quadro, la filosofia e la politica appaiono largamente in ostaggio di una figura presuntivamente avalutativa della ragione, che pratica il linguaggio alto della moderna emancipazione della libertà, e della dignità del sapere, a copertura di un protocollo meramente strumentale della razionalità, che rende perfettamente irrilevante la soggettività e l’intersoggettività della coscienza umana effettivamente condivisa. La classica deduzione metafisica della qualità spirituale, come anche la moderna elaborazione delle condizioni trascendentali della coscienza, con tutti i loro meriti, sono ora insufficienti per la giustificazione antropologica del modo in cui la fede religiosa – nel suo inveramento e nella sua emancipazione cristologica dall’ambivalenza del sacro – onora l’apertura dell’umano alla giustizia dell’esistere. La questione non è solo teorica, ma anche pratica e sociale: richiede pertanto di essere affrontata su diversi piani. Per quanto riguarda il compito della teologia fondamentale a questo riguardo, come forse a qualcuno è noto, attribuisco grande importanza allo sviluppo teoricamente rigoroso e culturalmente creativo di due fronti di ricerca, che enuncerò qui brevemente. 9. L’assoluto affettivo: ontologia dell’intersoggettività Il primo è quello di una convincente fenomenologia dell’essere sociale, capace di restituire riconoscimento per l’umano-che-è-comune. L’essere sociale, qui, non è semplicemente l’essere associato: è piuttosto la qualità umana dell’essere-almondo come qualità già data per essere condivisa, onde la coscienza intende tutte le forme del desiderio in termini di riconoscimento intersoggettivo della sua qualità spirituale. La metafisica dell’essere spirituale e l’impostazione trascendentale della coscienza, devono essere capaci di rifondarsi e rielaborarsi fenomenologicamente 18 nel dispiegamento di questa unità originaria dell’esperienza dell’umano condiviso. Non c’è alternativa. L’elemento decisivo, per la praticabilità di questo compito, sta però nel fatto che, nonostante il racconto interessato della filosofia decostruttiva, l’umano dato e condiviso nella sfera del riconoscimento intersoggettivo si dà effettivamente come l’universale. L’umano che è comune è tuttora il presupposto di un’intesa sui tratti qualificanti della qualità soggettiva dell’umano, che è l’oggettività più sicura del pianeta. La sua evidenza che oltrepassa tutte le differenze possibili. Persino i limiti del linguaggio, perché non è un significato linguistico: piuttosto la condizione per la decodifica e la traduzione dei linguaggi, altrimenti semplicemente impensabile. L’uomo, la donna e la generazione. La parola data e il tradimento, l’egoismo e l’amicizia, la coscienza della finitezza e la dignità nella prova. I tratti dell’umano che è comune, sono universalmente riconoscibili come referenti non linguistici dell’universale umano effettivamente dato. Tutti scaturiscono dall’esperienza della relazione, e tutti sono in essa riconoscibili: ritrovati, come un dato che precede la coscienza e il linguaggio. Sarà forse tempo di mettere mano al curioso pregiudizio che domina il linguaggio occidentale, dove “soggettivo” significa per ciò stesso non oggettivo, arbitrario, inaffidabile? Paradosso curioso: la soggettività è la figura di valore dell’umano comune che è più convintamente difesa, ma anche la qualità più spontaneamente associata alle forme inattendibili dell’evidenza condivisa e attendibile. A cominciare da quelle che abitano l’umano condiviso e universalmente distribuito (che viene poi evocato, seguendo strumentalmente una retorica della natura umana alla quale non si è più disposti a concedere nulla, come il presupposto dei diritti umani che ne dovrebbero orientare eticamente l’adempimento). Non sarà già qui, nell’improbabile ricerca di un’oggettività dell’umano non inquinata dalla qualità soggettiva, il pregiudizio che accomuna le rimozioni metafisiche e scientifiche dell’umano, dal quale dovrebbero apprendere – fenomenologicamente – l’intimità ontologica della sua costituzione. Il secondo cespite di approfondimento, lo vedrei nella necessità di impegnarsi esplicitamente nell’articolazione di quello spazio dell’umana interiorità che è irriducibile alla coscienza noetica come all’anima separata. E’ quello che chiamo – in attesa di meglio – l’ordine degli affetti. La sua riduzione all’inconscio psicanalitico si è prodotta, in mancanza di meglio, nell’orizzonte di una filosofia razionalistica della coscienza che ne ha largamente trascurato l’elaborazione. Anche qui, una rivincita postuma dell’istanza romantica, che la metafisica e la scienza dominanti hanno respinto con troppo sdegno, per rapporto alla loro incapacità di venirne a capo. In questo ambito si gioca una partita decisiva in ordine alla possibilità di restituire dignità al sapere dell’anima. La strada però è segnata: sviluppi sintomatici e convergenti della fenomenologia (soprattutto francese), si trovano già in prossimità dei punti cruciali. Il riposizionamento del nesso rivelazione-agape, nel luogo della filosofia prima e dell’etica teologale, consente un approccio diretto alla teologia cristiana. Si tratta di uscire dall’enfatico sentimentalismo del primato dell’amore, ma anche di rinunciare alla mortificazione della fede sulla linea del trascendentalismo cognitivo. L’esplorazione non comincia astrattamente dall’ordine del cuore e dagli affetti della mente dell’homo sapiens. Essa muove, concretamente, a partire dai legami dell'uomo, della donna, della generazione, la cui costellazione affettiva – non solo famigliare, bensì sociale-totale – è certamente determinante nei confronti di ogni umana prossimità, ma anche 19 decisiva per l’umana costituzione del cuore e della mente. Bisogna infatti che la lingua di agape sia capace di nominare e di articolare sin dall’inizio il suo rapporto con l’eros che prende forma in quei legami. Per poterlo fare, deve ripartire dall’alto, ricostruendo i nessi in cui l’ordine degli affetti appare inequivocabilmente fondato e giustificato (e corrispondentemente, censurato e rimosso) nell’orizzonte dell’intimità del divino. La denuncia dell’incongrua saldatura fra la sacralizzazione libidica del Sé e la dispotica autoreferenzialità del Sacro, rappresenta la questione cruciale per la nuova lettura teologico-cristiana dei nomi divini. La congiuntura epocale di questa sovrapposizione deve incoraggiarci a chiudere la partita a riguardo di quello che si è potuto ricavare – ermeneuticamente e religiosamente – dal monoteismo della filosofia greca. L’assoluto divino per il quale il mondo è niente, rispetto al quale i significati che portiamo in vita sono modeste copie di essenze immutabili, il motore immobile che muove ogni cosa os eromenon (in quanto oggetto d’amore), chiuso nella luce della propria mente autocontemplativa, dove la nostra vita e la nostra morte sono pure notizie, assolutamente incapaci di scalfire la beatitudine di un eterno autogodimento, esce definitivamente dalla sua innocente necessità. Nell’impianto faraonico e imperiale di quel modo di essere del divino principio possiamo ora scorgere anche i tratti della personalità narcisistica. Da quando Narciso appare nella cultura occidentale il modello più stabile e diffuso dell’umano ideale, in grado di produrre adattamento mentale della normalità delle aspirazioni, ma anche ai protocolli della cultura alta dell’umanesimo, noi siamo in grado di analizzare dettagliatamente i lati distruttivi della sua proiezione assoluta. Il Dio-Sé realizza qui un’identità per la quale il carattere costitutivo della relazione responsabile è ontologicamente inessenziale: impotente a stabilire – e ristabilire – un ordine del senso razionalmente e affettivamente condiviso. E pertanto, un’identità provvista della sua specifica legittimazione. A questo effetto di deriva vedo personalmente associata l’enfasi retorica di nuovo assegnata alla forma astratta della donazione assoluta, per essenza indicata come perfettamente estranea ad ogni forma di reciprocità e di scambio. Donazione a perdere che ha il suo risvolto ambivalente in una tale autoreferenzialità della grazia da rischiare la pura specularità del narcisismo. Diventando una sorta di rifinitura etica dell’autosufficienza narcisistica, l’oblatività indifferente al legame sigilla teologicamente la perfetta nullità della dignità relazionale: non solo in termini di impossibilità della restituzione, ma anche di censura del riconoscimento. E quindi dell’autorità istituita dalla giustizia della relazione, del legame fondato sulla parola data, della dignità relazionale dell’umano che è comune, tipicamente condiviso nei modi dell’essere personale. Il destino religioso del postmoderno si decide anche in rapporto al segno che vuole essere riconosciuto negli eccessi di un rigido monoteismo del Sé, che ha il suo luogo nell’intimità di un essere desiderante la cui portata e la cui verità oltrepassano la coscienza, il bios e il linguaggio. Il suo accesso al riconoscimento è questione di forze, non solo di forme. Se si sbaglia nell’ordine degli affetti, la coscienza non basta per venirne a capo. La fermezza della testimonianza cristiana resa all’intrinseca unità e alle implicazioni affettive delle verità relazionali di Dio (creazionistica, cristologica e trinitaria) farà la differenza per l’Occidente prossimo venturo. 20