Il sacro, il religioso, l`agape di Dio. Nuove prospettive nella Teologia

GIORNATA DI STUDIO, 22 novembre 2003
Pierangelo Sequeri
Il sacro, il religioso, l’agape di Dio
Nuove prospettive nella teologia fondamentale
Indicare linee di approfondimento della teologia fondamentale, insistendo sugli
aspetti formali della sua identità disciplinare e del suo statuto epistemologico, non
mi sembra più così istruttivo, come forse lo era sino a questi ultimi anni. In parte,
perché l'impegno di rielaborazione sistematica, generosamente perseguito da molti
studiosi, lascia ormai intravedere che significativi punti di assestamento dei temi e
dell'impianto sono in realtà conquistati. In parte, perché i problemi che in questo
momento mi sembrano più stimolanti riguardano proprio lo sfruttamento teorico
del vantaggio acquisito mediante il formarsi di quei punti di convergenza. Scelgo
perciò quattro punti di ingresso, stabiliti in prossimità degli approdi della teologia
fondamentale più aggiornata, per descrivere alcune direzioni di consolidamento e
di avanzamento. Poiché parlo a un pubblico di esperti, scelgo un approccio
piuttosto diretto, supponendo noti il quadro disciplinare complessivo e i termini
del dibattito di scuola. Desidero anche approfittare dell'occasione per esprimere la
mia gratitudine alle Autorità accademiche e agli stimati Colleghi di questa
prestigiosa istituzione che mi danno l'occasione di questo incontro. In anni ormai
lontani ho studiato e lavorato qui per il mio dottorato, sotto la guida del compianto
p. Juan Alfaro, s.j., che mi è stato maestro e amico. Lo ricordo con stima e affetto,
insieme con tutti coloro dai quali, in questa sede accademica, ho molto ricevuto,
in molte forme.
1. La religione civile separata dal sacro: modernità
Il racconto dei temi di utile approfondimento sul fornte della contemporaneità lo
aggiusterei sulla trama di un’accorta decostruzione teologica della lineare
sovrapposizione fra sacro, religione, cristianesimo. Con duplice vantaggio: (a)
allineamento all’approccio differenziato dell’antropologia culturale e della
filosofia della religione; (b) riscoperta della singolarità cristologica della
critica/compimento religioso della religione (delle religioni).
Nella vicenda culturale della modernità avanzata, l’Illuminismo ha privilegiato
una visione sintetica e cumulativa del sacro che assegna le sue tradizioni religiose
confessanti al profilo antropologicamente basso e culturalmente arcaico
dell’apertura umana alla trascendenza. Il progetto di modernizzazione della
coscienza coincide, in questa visione, con il superamento di questa dipendenza
attraverso il dominio razionale della conoscenza. Il confronto – e il conflitto – del
cristianesimo moderno è sostanzialmente rivolto al profilo critico di questo
progetto di modernizzazione civile, che tende ad inglobare lo stesso cristianesimo
nel quadro delle antiche tradizioni religiose che portano la memoria di un’arcaica
organizzazione della cultura del sapere e delle istituzioni della civiltà. Il
cristianesimo deve così far valere, ad un tempo, due profili della sua differenza,
virtualmente in tensione fra loro. Da un lato, il proprio netto distacco dalle forme
1
del sacro arcaico, espressioni di una religiosità puramente umana e pre-cristiana:
in questo senso globalmente intesa anche come cultura pre-civile, agli occhi della
stessa cristianità occidentale. Dall’altro lato, deve accentuare la propria
identificazione con l’aspetto sacrale della realtà, che marca una visione del mondo
in contrapposizione con la crescente mondanizzazione della cultura sociale.
Lo sviluppo del movimento romantico complica ulteriormente le cose, pur
contribuendo – a suo modo efficacemente – alla riabilitazione della dimensione
antropologica e sociale del sacro e delle tradizioni religiose che ne istituiscono la
memoria. Il romanticismo giudica insufficiente, anzi dannoso, l’indirizzo
illuministico che tende a consegnare la vita dello spirito alla ragione analitica e
tecnica. I miti e i riti della religione, che la nuova cultura vorrebbe confinare nelle
regioni inferiori della coscienza, sono la testimonianza dell’irrinunciabile apertura
dell’umano alle regioni alte della vita dello spirito. In questa tendenza, il concetto
del sacro, in tutte le sue manifestazioni, viene elevato alla sfera più propria
dell’assoluto, dell’origine, del divino. Le forme religiose (soprattutto quelle del
passato) diventano il repertorio prezioso e la memoria indelebile di questa
dimensione ultima della trascendenza. In ciò sta l’elemento ‘nostalgico’ e
‘restauratore’ della corrente romantica, nei confronti del sacro e della religione, di
cui il cristianesimo continua per lo più ad essere ritenuto il vertice riassuntivo. Il
vincolo di un’adesione dogmatica, che requisisce e mortifica l’esperienza del
sacro dentro i vincoli dell’istituzione ecclesiastica confessante, deve però essere
superato, in favore di una religiosità quasi mistica dell’ammirazione e dello
stupore, che si lascia avvolgere dalla potenza estetica e drammatica con cui la
radice sacra dell’essere vive nella natura, nella storia, nella coscienza dell’uomo,
attestando la vita dello Spirito nell’Essere dell’intero universo. In ciò sta
l’elemento virtualmente ‘secolarizzatore’ e ‘progressivo’ dell’anima romantica,
pur esso inteso all’emancipazione dalla regìa cristiano-ecclesiastica del sacro.
Il cristianesimo intercettato da questa doppia linea evolutiva della modernità non
era pronto a elaborare teologicamente la complessità storica e culturale
dell’antropologia del sacro, né ad approntare una visione sufficientemente
differenziata della dimensione religiosa dell’umano. Nella sua tradizione
l’assunzione e il completamento della religiosità naturale, mediante il
cristianesimo, erano ormai il passato. Il sacro degno di questo nome, incorporato
nelle istituzioni ecclesiali sul fondamento dell’attestazione apostolica della
rivelazione, coincideva semplicemente con la sfera del soprannaturale cristiano.
E’ comprensibile pertanto che la secolarizzazione moderna dovesse essere vista,
oltre che come un’apostasia dal cristianesimo, come una regressione culturale. La
romantica esaltazione del sacro, che ne riabilitava l’alto concetto in chiave
antirazionalistica, appariva pur sempre indirizzata in chiave di abbandono della
verità cristiana in favore del sacro naturalistico, anonimo, ambivalente che in essa
appariva superato.
La storia culturale del secolo appena trascorso mostra anche le buone ragioni di
questa resistenza (pur largamente difettosa di interpretazione e di propositività, a
motivo dell’inerzia di una cultura filosofica e teologica inservibile, nella
congiuntura specifica). Nell’attacco portato da Feuerbach e Nietzsche, Marx e
Freud alla filosofia della coscienza e dello spirito – che include l’intera
costellazione cristiana-occidentale, assommata nella critica1 – si annuncia la fine
1
E’ forse qui che l’Occidente impara ad “odiare se stesso”?
2
dell’illusione di una civiltà illuministica che rimane aperta e possibilista nei
confronti dell’apertura religiosa dell’umano, in quanto custodisce il mistero sacro
dell’essere posizionandosi nella naturale apertura della ragione al divino e sulla
soglia del limite che la ragione stessa deve considerare inviolabile per le sue
risorse conoscitive e tecniche.
Nella ragione moderna prende il sopravvento l’ideale di una compiuta
appropriazione umanistica del fondamento, che ora si cerca proprio attraverso la
delegittimazione antropologica della religione e la dissoluzione culturale del
sacro. Entra però in crisi, conseguentemente, anche il progetto credente, insieme
polemico e irenico, di un’articolazione filosofica della religione, capace di tenerla
in connessione con le basi naturali e antropologiche di un condiviso rimando
storico al divino come ultima referenza trascendente della ragione (se non come
principio della certezza del sapere (come ancora in Cartesio), almeno del
fondamento morale (come in Kant) e del senso della storia (come in Hegel). Nella
seconda metà del ‘900, l’uscita da questa impasse è stata prima cercata
nell’individuazione di un senso positivo della seconda secolarizzazione (quella
post-hegeliana della filosofia), apparentemente irreversibile. In tale prospettiva, la
teologia (soprattutto protestante), ha proposto di ritrovare nella tradizione biblicocristiana le basi di una più radicale presa di distanza dal sacro, inteso come arcaico
residuo di una concezione divinizzante del mondo e della storia. L’orientamento,
certamente non privo di un guadagno per la conferma della effettiva singolarità non panteistica e non teocratica - della concezione cristiana del rapporto fra il
divino e la sfera mondana, è risultato tuttavia inadeguato alla comprensione della
natura antropologica e storica del sacro. Ne ha dovuto infine convenire anche la
sociologia dominante della secolarizzazione, che ha riconosciuto la totale
inadeguatezza dell’equazione fra modernizzazione e secolarizzazione, dalla quale
era stata tratta l’idea della fisiologica scomparsa del sacro e della obsolescenza
della religione in concomitanza con lo sviluppo tecnico-economico. Nel passaggio
del secolo, con sorpresa più o meno, felice, l’Occidente ha dovuto constatare la
vasta insoddisfazione delle stesse popolazioni occidentali nei confronti della regia
razionalistica della civiltà e della cultura. L’intellettualità occidentale si è
prontamente adeguata, innescando una vasta e sorprendente critica della
razionalità moderna.
2. Critica della religione e ritorno del sacro: oggi
In ogni modo, si parla ora di rivincita delle religioni e di ritorno del sacro:
sommando una quantità di fenomeni, assai eterogenei fra loro. A tale riguardo, le
problematiche della modernità ritornano e si intrecciano in modo nuovo, con
singolare ripetitività. Per esempio, l’allarme neo-illuministico circa le sorti della
pace sociale e dei diritti democratici di fronte all’eventualità di una nuova ripresa
della religione all’interno nelle società occidentali. Oppure il ritorno neoromantico della critica spirituale alle istituzioni cristiane, accusate di accettare la
corruzione della loro sacralità, disperdendo i tesori estetici accumulati dalla
liturgia, la qualità mistica attinta dal monachesimo, la custodia della solennità
atemporale delle istituzioni.
Mi sembra che si possa cogliere un elemento caratteristico in questo crocevia di
ritorni del sacro, accompagnato dalla curiosa replica delle reazioni moderne: in
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parte neo-illuministiche (che riprendono i problemi della laicità, del
fondamentalismo, dell’invadenza e dell’anacronismo religioso) e del neoromanticismo (il carattere polimorfo del sacro, la sua eccedenza psichica rispetto
alla fede, l’interesse estetico per il suoi valori simbolici, la visione animistica della
natura e del benessere, l’attrazione dei risvolti esoterici e demoniaci del mistero).
L’elemento caratteristico mi sembra risiedere nel fatto che, nella contemporaneità,
l’idea del sacro polarizza e assorbe la tematica del fondamento ontologico,
imponendole una trattazione tipicamente religiosa: vale a dire, con strumenti
ermeneutici desunti dalle tradizioni religiose, anche quando ci si attesti su una
posizione agnostica o francamente nichilistica circa la possibilità di un discorso
razionale con pretese cognitive-dimostrative circa l’approdo metafisico o
spiritualistico di quell’ermeneutica. Lo spostamento segna un punto a favore della
reazione romantica. Il problema è rappresentato dal fatto che, nel contesto del suo
prodursi, l’intuizione romantica è stata con ogni mezzo privata di dignità razionale
e di legittimità filosofica. Avvenne la stessa cosa con l’Umanesimo e con il
Rinascimento, strumentalmente acquisiti al percorso emancipatore della
modernità laica e razionalistica, in funzione anti-religiosa; ma sostanzialmente
confinati nell’ambito estetico e letterario (soltanto recentemente, ha incominciato
ad apparire qualche cauta ammissione circa la dolosa annessione di un fermento
tutt’altro che ascrivibile all’esplosione di un sapere razionalistico nella concezione
stessa della scienza, della filosofia, dell’antropologia e della politica2). Sono per
altro cose note agli addetti. Ciò che mi interessa puntualizzare qui, è il fatto che la
nostra teologia fondamentale si è lungamente esercitata nella gestione critica
dell’istanza illuministica, in tutti i suoi aspetti. Sicché ha potuto tentarne, e ne
persegue tutt’ora, l’adeguamento o addirittura il superamento (nel senso
hegeliano), con una certa dovizia di mezzi e un ampio ventaglio di prospettive che
rivendicano in ogni modo la loro fondamentale coerenza con il progetto del logos
critico-razionale della modernità (ermeneutica, fenomenologia, filosofie del
linguaggio e della prassi, contaminazioni con le scienze psicologiche e sociali).
Poca confidenza, o addirittura nessuna, essa ha potuto accumulare in termini di
confronto rigoroso e approfondito con l’istanza romantica: tutt’altro che riducibile
al suo cliché ancora dominante (sentimentalismo misticheggiante, soggettivisimo
estetico, vitalismo naturalistico). La filosofia cristiana (cattolica, in specie),
avendo certamente privilegiato – non senza ragione, per le stesse ragioni di
egemonia culturale che stiamo evocando –
l’interlocutore illuministicorazionalistico, si trova in una situazione analoga (e persino a un più basso livello
di aggiornamento nei confronti della nuova problematica religiosa).
2
“Si può tranquillamente ammettere che la stessa civiltà nata dalla riforma intellettuale e
umanistica e dal ritorno alle fonti delle grandi tradizioni classiche fu pure profondamente attratta
ed affascinata dal perenne prestigio di dottrine e ‘visioni del mondo’ che la razionalità ‘moderna’
ha decisamente combattuto, anche se non è mai riuscita ad estriparle in modo definitivo: e cioè
dall’astrologia, dalla magia, dall’alchimia e da altre dottrine o pratiche operative che promettevano
la rivelazione e il dominio degli arcana mundi. Non basta: si deve pure riconoscere che questa
attrazione non fu il frutto di una sconcertante tendenza ad accogliere come verità sapienziali miti e
credenze che gli stessi metodi della filologia umanistica avrebbero poi demistificato, o del
persistere di un’oscura credulità ereditata dai ‘secoli bui’. Al contrario, si trattò di un fenomeno
culturale di grande rilievo, che, sebbene fosse in parte connesso al ritorno di tradizioni ermetiche,
gnostiche e cabbalistiche, già iniziato nei tardi secoli medievali, rispose alle profonde esigenze di
un’età segnata da irreversibili crisi religiose e politiche, ma anche dall’attesa di una radicale
renovatio o reformatio del destino umano”, C. VASOLI, Le tradizioni magiche ed esoteriche nel
Quattrocento, in: C. VASOLI, a c. di P. C. Pissavino, Le filosofie del Rinascimento, Bruno
Mondadori, Milano 2003, 133-153; 133-134.
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Esistono tuttavia due significative polarizzazioni del tema, che si sono evidenziate
nella stagione post-conciliare, e che hanno già trovato larga rispondenza nella
coscienza cristiana e nella teologia critica (come anche nella filosofia). Il rilievo
strategico della loro emergenza appare crescente. Le leggo perciò come una
conferma del carattere non estemporaneo dell’ipotesi che sto formulando, circa il
vantaggio di una nuova articolazione dell’intelligenza della fede con l’orizzonte
contemporaneo della questione del sacro. Mi sembra infatti che se ne debba
argomentare la necessità di una ricerca teologico-fondamentale più analiticamente
impegnata con l’attualità dell’istanza romantica, a vantaggio di un incisivo
aggiornamento del suo trattato de vera religione.
La prima polarizzazione è quella che fissa l’articolazione alta della nozione del
sacro, riavviata poeticamente e misticamente dall’epoca romantica, con la
filosofia prima. E’ la linea che la filosofia contemporanea assume
prevalentemente seguendo le chiavi di accesso all’eredità dell’idealismo
romantico prospettate nelle svolte di Heidegger e di Wittgenstein (che erano
partiti da tutt’altro porto). Qui il sacro appare come sfondo abissale ed enigmatico,
che sta sulla soglia dell’origine del mondo, ma al tempo stesso sfonda la linea del
suo puro cominciamento. Ciò che dal punto di vista del cominciamento del mondo
appare come il nulla, o l’assolutamente indeterminato, nell’ottica del sacro appare
come l’abisso insondabile e inesauribile di tutte le possibili manifestazioni del
divino, oltre che del mondano. Un simile sfondo indica il limite inviolabile
dell’abisso nel quale è racchiuso il mistero della prima e dell’ultima parola sul
senso: libertà del divino e signoria della verità che appaiono a noi da entrambi i
lati del limite insuperabile della nostra finitezza: nella vita e nella morte, nella
bellezza e nella tragedia, nell’unità e nella dispersione, nella potenza e nella
debolezza, nella grazia e persino nel peccato. Il mistero del divino si confonde qui
con il mistero del mondo, in esso convivono gli opposti, la luce e le tenebre, le
virtualità del chaos e le possibilità del kosmos. Nelle pieghe di questo mistero si
intuisce anche una dimensione drammatica: l’abisso dell’origine divina, che sta
oltre ogni fondamento, contiene tutte le potenze (l’ultimo Preyson, vedi gli studi
di Tomatis). Su questo sfondo di comprensione, che comunque annuncia e tiene
fermo il carattere originario della sapienza del sacro nei confronti di ogni rarefatta
e conciliante filosofia dell’essere, ci appare più comprensibile la storia umana:
anche quella religiosa. Il suo modo di decifrare e di agire lo spazio di questo
irriducibile sfondo del sacro, appare effettivamente decisivo per le costellazioni
che il mondo assume, nella storia delle decisioni e delle pratiche in cui la natura
del divino viene interpretata e affrontata, e gli assoluti del desiderio evocati o
rimossi.
L’interpretazione di questo sfondo va rigorosamente elaborata: non è detto che
qualsiasi rimando sia valido. Mi sembra però interessante la sua ripresa critica in
chiave teologica, che consente, in generale, di far valere il carattere
filosoficamente originario del sacro nell’istituzione di qualsiasi discorso intorno
alla verità del fondamento e alla giustizia del senso. Nella filosofia, del resto, è
sempre stato così, a dispetto di ogni denegazione della ricostruzione razionalistica
e polemica della sua storia. E’ così anche ora: là dove il sacro funziona come
referente polemico, la sua interpretazione opera – per lo più surrettiziamente –
come discriminante fondativa per la coerenza del sistema del senso e come
protocollo di legittimazione della sua contemporaneità culturale.
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3. L’attraversamento del sacro: l’inedito ebraico
Il profilo alto del sacro offre alla teologia fondamentale un utile protocollo di
mediazione, per superare l’impasse della riduzione della questione del divino al
logicismo della dimostrazione teoretica classica, come anche all’immediato
confinamento dentro le questioni dell’apologia confessionale. Ancora più
interessante, però, mi sembra la possibilità che ne deriva di rivitalizzare in termini
di pensiero teologico rigoroso, i tratti dell’originale rivelazione biblico-cristiana di
Dio.
Il Dio della creazione salvifica, che afferma la sua potenza nella destinazione del
mondo dischiuso per l’uomo alla condivisione della sua stessa beatitudine, si fa
strada fra “i divini” offrendo alleanza con la giustizia di un amore che sta ben
saldo all’interno della sua signoria del sacro. La promessa è giustamente legata
alla corrispondenza: è così che si battono le potenze e le possibilità che gravitano
intorno all’orbita del sentiero tracciato nelle infinite virtualità del sacro nella storia
del creaturale del senso. Il governo del senso sulla linea ontologica ultima del
bene e del male, dell’edificazione e della distruzione, della vita e della morte, non
è faccenda per gli umani. Abitare il soprannaturale, lungo la linea del compimento
per ogni verità e giustizia, è possibile soltanto nello spazio di un’alleanza che –
per l’uomo – vive nell’affidamento. La via che ricongiunge l’origine e il senso,
solo il Signore può definirla e percorrerla – sull’orlo di tutti gli abissi che
avvolgono ogni mondo possibile. I libri biblici della rivelazione ebraica,
percorrono tutti gli estremi possibili di questa drammatica del sacro, dove le carte
si confondono anche per gli uomini timorati di Dio. La Parola passa attraverso la
sacralità della legge mosaica e la ribellione del radicalismo profetico,
l’esasperazione di Giobbe e il disincanto di Qohelet, la moderazione virtuosa della
Sapienza e l’erotica passionale del Cantico. In tal modo abita e incorpora anche il
tormento e l’estasi di tutti gli assoluti del desiderio: trasformando il loro confronto
con le ambigue potenze del sacro (la libertà e la legge, la purezza e l’eros, il
sapere e l’enigma) come altrettanti luoghi di rivelazione del giusto passaggio
attraverso le acque del chaos che si riformano). L’estetica e la drammatica della
creazione del cosmo, a partire dal racconto dell’incantamento e del
fraintendimento della signoria di Dio da parte dell’uomo e della donna, sono assai
più che metafore e ornamento narrativo. Sono percorsi di iniziazione all’intimità
del divino.
La rivelazione di Gesù manifesta apertamente il carattere polemico del passaggio
della fede attraverso il sacro. L’abisso delle forze che ne vengono attratte
nell’orbita dei contrari – religione e irreligione – si concentra sul Figlio, che la
sconta in se stesso, incorporandola nella potenza e nella signoria della giustizia di
Dio. Sigillo inviolabile – per tutti gli umani e per tutti i divini – dell’affidabilità di
Dio e del riscatto della creatura. Comunione di destini e irrevocabilità del legame,
che sfida e attraversa tutte le ombre del sacro che si attivano nella contiguità della
sua potenza creatrice, forzata e dirottata dalla destinazione che il Signore Dio le
ha assegnato.
Il passaggio e la sfida, nella manifestazione di Gesù, non trascurano nulla nel
passaggio attraverso quella prova. Dalla tentazione del Satana, che proprio della
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parola di Dio si serve per dirottare la missione del Figlio: come già il serpente
offrì all’incredulità dell’uomo e della donna il fraintendimento di una somiglianza
con Dio che era già stata offerta graziosa e dono puro. Fino all’esperienza
dell’abbandono di Dio: sigillo commovente e drammatico dell’agape incarnata nel
Figlio, che si espone all’enormità dell’essere frainteso e respinto “nel nome di
Dio”. La singolarità dell’evento cristologico è già tutta racchiusa nell’inaudita
exousia con la quale egli stabilisce – in parole ed opere, passando attraverso il
sacrificio di sè – l’affidabilità dell’agape come suprema verità di Dio: in nome
della quale pronuncia un giudizio irrevocabile nei confronti di ogni devozione
religiosa e di ogni potenza del sacro che vi si opponga. Il Figlio consustanziale di
Dio è dato in ostaggio e in pegno di questa irrevocabile destinazione della fede
richiesta per la vita eterna nella quale Dio vuole stare con l’uomo. L’inaudito
legame restituisce la creazione alla sua verità, la cui giustizia è scritta nell’intimità
di Dio sin da prima della costituzione del mondo. Stabilisce anche un titolo di
appartenenza dell’umano all’intimità di Dio che, proprio mediante Gesù, nessuna
religione – e nessuna irreligione - può espropriare. L’appropriazione avviene
mediante la fede: ossia la libertà dell’affidamento alla giustizia di Dio esibita nel
Figlio, da parte di una coscienza resa trasparente alla sua verità Il punto luminoso
di questa definitiva signoria del Figlio, infatti, è proprio questo: Dio non vuole,
nondimento, essere subito: desidera, con ogni passione, essere creduto, compreso,
amato.
Le potenze mondane, proprio come quelle del sacro – della terra e dell’aria, degli
angeli e dei demoni, della religione e dell’irreligione – devono misurarsi sul
Figlio, ossia su Gesù. Il Figlio Gesù appartiene all’intimità di Dio, l’intimità di
Dio appartiene al Figlio Gesù. O lasciar apparire la loro obbediente complicità con
la signoria del Figlio, che satura la rivelazione della natura divina riposizionando
l’intera creazione dell’uomo nei legami del Padre e dello Spirito, oppure
rinchiudersi nella loro difformità dalla manifestazione della signoria di Dio,
rientrando nell’ombra dell’assoggettamento che è loro destinato. Nell’ottica di
questo ricupero ermeneutico della originaria esperienza del sacro, che indica la
recinzione di ciò che si pone misteriosamente e pericolosamente sulla soglia della
tangenza con l’origine divina, il cui discernimento è indecidibile e ingovernabile
dall’uomo, è possibile restituire maggiore serietà a molti temi classici della
tradizione biblico-cristiana, superficialmente consegnati alla pura forma narrativa
della rappresentazione mitica e arcaica del sacro. (E’ quella che io chiamo
fenomenologia della rivelazione: che è il modo in cui la sua ontologia diviene
accessibile e saputa, non solo l’insieme dei segni che ne rendono credibile
l’incomprensibilità e la metafisica). In Gesù Cristo, la fenomenologia e
l’ontologia del Figlio di Dio sono indissociabili e indissolubili: è questo che
significa credere nell’incarnazione, e non soltanto nella manifestazione del Figlio
o nell’esemplarità di Gesù.
4. Effetti creaturali del sacro: topica e drammatica
Dopo tutto, la serietà con cui la tradizione cristiana custodisce il nucleo di una
rappresentazione del sacro inclusiva di molte differenziazioni ontologiche e
qualitative, che non possono essere semplicemente rimosse o azzerate, dovrebbe
essere pensata più rigorosamente.
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Nella rappresentazione cristiana, la sfera dello spazio occupato dagli angeli e dai
demoni, deve essere differenziata dall’ontologia e dalla qualità del divino e non
può essere gnosticamente confusa con l’intimità della suo mistero santo. Non può
essere neppure simmetricamente contrapposta ad esso, però, come un’alterità che
si riferisca ad un’origine assoluta e irrelata. Esiste dunque una drammatica
dell’universo che scaturisce dalle virtualità etiche della creazione divina, e che
l’unità dell’origine non spiega - non deve spiegare - in termini di astratta e
meccanica derivazione. Dalla libertà della divina signoria creatrice viene anche
libertà nell’essere. Esiste una tensione drammatica fra le virtualità ontologiche
della creazione e la storia qualitativa del differente, che l’ambivalenza del sacro,
nella sua faccia rivolta verso di noi, restituisce da sempre come eccedenza
ingovernabile per l’uomo. L’albero della vita e quello del bene e del male fanno
parte del divino giardino della creazione: ma il comandamento amorevole di Dio
ci protegge dall’ambizione mortale del loro dominio, che non è alla nostra portata.
Questa drammatica è attraversata dall’ordine dell’intenzionalità, della libertà,
dell’obbedienza e della contrapposizione. Essa edifica la sua dimora nella sfera
dell’essere come riverbero della potenza indirizzata alla giustizia e alla santità che
piacciono a Dio: ma anche dello svincolamento autoreferenziale di un contrasto
affettivo con l’origine, che vive parassitariamente – e distruttivamente – all’ombra
dell’energia ricevuta da Dio. L’interpretazione ontologica del sacro non può
essere disgiunta a nessun livello da quella etica: né le due possono essere pensate,
nel loro ortogonale intreccio, semplicemente come il puro rispecchiamento
dell’origine ontica assoluta (è il difetto che, nella nostra tradizione, ha favorito la
semplificazione dell’idea dei trascendentali: eccesso di platonismo, che si ribatte
nella rimozione dell’ambivalenza del sacro, e ne sconta l’ingenuità fra gli eccessi
del dualismo gnostico e il formalismo della riduzione del male al non-essere).
L’abisso misterioso della vita generata nella contiguità dell’origine divina è più
vasto – nel bene e nel male – di quello che possiamo riconoscere nella storia del
mondo a noi nota. La storia della libertà e la storia dell’essere hanno proporzioni
di vastità inimmaginabile, irriducibili a quelle della coscienza e dell’esistenza
governata dall’umano.
La potenza dell’unico Signore dell’universo nel quale crediamo – il Padre il Figlio
lo Spirito Santo – è misteriosa potenza di governo e separazione, all’interno di
questo intreccio dei possibili che vengono alla luce nella creazione. Signoria
immane e sottile, esercizio di una giustizia inarrivabile, che riconduce la creatura
dentro l’orizzonte ontico dell’eterno legame della vita destinata e dell’agape
divina: senza distruggere semplicemente la storia della vita (celeste, umana,
mondana) e senza azzerare la qualità intenzionale e affettiva che ne compone la
verità ontologica e ne istituisce il senso escatologico. Essa ha da essere assicurata
al mondo che le è destinato, custodita nella forma del suo compimento, proprio in
quanto sfera dell’essere libero e responsabile, affettivamente determinata e
creaturalmente riconciliata nei confronti del suo legame con l’intimità divina che
l’ha desiderata quale destinatario dei suoi eterni legami. E’ impossibile per noi
anche soltanto cercare di immaginare, come possa essere fatta valere ogni volta –
e infine, una volta per sempre – la stabilità di questa definitiva differenza:
integrando, pur senza contiguità e confusione possibile, l’effetto dei percorsi di
iniziazione. L’appropria ontologica della qualità buona, nella sfera creaturale della
libertà, deve pur essere decisa dalla configurazione intenzionale degli affetti in cui
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si genera temporalmente. Nella drammatica della rappresentazione cristiana di
questo processo, la serietà di questa ambivalenza del rapporto fra origine e
compimento si mantiene pur sempre nell’orizzonte contiguo al divino. Anch’esso
ha una dimensione eterna, non vola via nel puro e semplice niente. Nelle pieghe
della relazione indissolubile fra l’origine increata e l’esistenza del creato, trae
esistenza. Il luogo ontologico della purificazione, quello della perdizione, quello
del compimento, abitano pur sempre l’orizzonte del legame con l’origine:
incorporano la storia del mondo nell’orizzonte della signoria del divino, che
include fra le pieghe della sua libera invenzione la drammatica ambivalenza del
sacro. L’essere eterno illumina – anche sub contrario – la signorile liberalità della
grazia e della passione in cui il mistero di agape si concede all’azzardo di un
interlocutore degno di questo nome.
Nella recezione dell’uomo, tutto questo viene alla percezione della coscienza
nell’esperienza del sacro: tema di affidamento supremo e rischio permanente,
nell’ambiguità che avvolge l’umana memoria – finita, limitata, confusa –
dell’imprinting creaturale di un’originaria e misteriosa confidenza con Dio. Non
solo viene alla coscienza, ma soprattutto preme affettivamente su di essa,
nell’ambito di una sfera ontologica del senso che non si lascia ricondurre al
linguaggio.
Esiste una grammatica – e una drammatica - delle forze, che abbiamo
graziosamente consegnato alla psicologia, alla biologia, alla fisica, di cui la
filosofia e la teologia sembrano sapere ormai poco o nulla. Fino a tutto il Seicento
hanno fatto parte della teologia della grazia e – per questa via, dell’antropologia e
dell’ontologia dell’essere. La filosofia neoscolastica non ne ha voluto sapere più
nulla L’ambiguo e intermittente interesse odierno per la mistica rischia così di
confermare soltanto il carattere di compensazione irrazionalistica e pulsionale che
l’ordine degli affetti garantisce ad una ontologia della verità e della coscienza che
lo ignorano puramente e semplicemente la sua metafisica. L’organizzazione
logica del semantico, che espelle ciò che non si lascia ricondurre al concetto, non
capisce più nulla di ciò che non si lascia comprendere in termini di nesso causale
o, al più, di relazione formale, ma solo come tema regale della filosofia prima, il
cui logos originario è responsorialità di tracce affettive e responsabilità di legami
intenzionali. E così genera una spenta filosofia dell’essere – della verità, come
della giustizia - che ignora completamente l’intreccio originario e già divino della
libertà e delle forze. Privandosi così di un sapere all’altezza dell’erotica e della
drammatica escatologica del senso, che è poi quella originaria della qualità etica
dei significati: attrazioni e repulsioni, congiungimenti e separazioni, legami e
affinità, affidamenti e fedeltà. Fino ai paradossi del passaggio attraverso gli
opposti, la cui verità l’inconscio decifra affettivamente, anche quando la coscienza
ne dissimula razionalmente la giustizia: doveroso amore dei nemici e doverosa
resistenza agli amici, logoramento della libertà nell’esaltazione di sé ed
esaltazione dell’identità nella consegna di sé.
Tutte queste cose si lasciano comprendere solo nei pressi del sacro, dove la
rivelazione del significato è strettamente intrecciata con la relazione del senso.
Capire in quale modo si riveli il divino secondo la sua verità, comporta la
necessità di patire le pressioni e le dislocazioni del sacro in cui si è
immediatamente avvolti, non appena ci si avvicini alla domanda su Dio: non solo
9
chi è Dio, ma anche chi è Dio, cosa fa e cosa vuole. E soprattutto quali sentimenti
prova nei nostri confronti.
5. Le forme religiose: memoria e iniziazione al divino
Innumerevoli sintomi della latenza di questo percorso, nella filosofia e nella
cultura contemporanea giacciono sparsi, oscurati dal canone della razionalità
agnostica e dell’irrazionalismo esoterico che appaiono dominanti. Attendono di
essere raccolti, collegati, fatti valere, portati ad effetto. La teologia riuscirà a
trovare la spregiudicatezza, la pazienza, la tenacia necessaria per illuminare la rete
che la congiunzione di questi punti potrebbe far apparire? Ritroverà lo slancio
filosofico di un pensiero ontologico alto e creativo, oppure si accontenterà di
procurare estemporaneo arredo intellettuale al gergo metafisico e devoto della sua
lingua più corrente? Noi teologi siamo naturalmente i destinatari della
responsabilità ecclesiale che scaturisce da questa domanda. Non vi indugeremo,
perciò, in questa sede. Vorrei piuttosto indicare due piste che già ora potrebbero
essere percorse, con gli strumenti già approntati dalla ricerca della migliore
teologia fondamentale.
La prima pista riguarda il tema della religione, come contesto nel quale si decide
esistenzalmente – antropologicamente ed eticamente – della verità di Dio per
l’uomo, che deve essere riscattata dall’ambivalenza del sacro, senza che ci si
possa immaginare di poter semplicemente evacuare il sacro, come portandosi in
una sfera alternativa, estranea, semplicemente sottratta o contrapposta ad esso. Il
confronto e il dialogo fra le religioni trova qui il contesto in cui la singolarità
cristiana può e deve far valere l’unicità della fede evangelica come canone
universale di verità per la qualità della religione che tende – ovunque e
oggettivamente – al suo compimento in Spirito e verità. La rivelazione del Figlio
in Gesù, appare, proprio su questo punto, straordinariamente luminosa: tanto
inaudita quanto dirimente. Forse la nostra è proprio l’epoca del cristianesimo
chiamato a concentrarsi sulla credibilità dell’attestazione di Gesù, a riguardo del
modo in cui le religioni devono essere abitate e trascese mediante l’agape
evangelica di Dio. Come è avvenuto per altri spunti della rivelazione (come ad
esempio la dignità individuale della coscienza, o la necessaria autonomia della
cittadinanza), si presentano ora le condizioni epocali di un risolutivo insediamento
della religione come scrigno che custodisce la qualità spirituale dell’uomo per
l’avvento di Dio.
L’esasperazione strumentale dell’identità religiosa, attratta nella sfera dei molti
conflitti del nostro tempo (di natura essenzialmente economica), è anche un
provocazione che va smontata dal suo carattere di pretestuoso argomento per
l’irreligione, e contemporaneamente indirizzata al consolidamento del consenso
fra le religioni intorno alla qualità autentica della religione. La necessità di questo
impegno è apparsa, negli ultimi decenni, oggetto di uno speciale impegno:
dialogico, ma anche critico. Il carattere irreversibile di questo processo di
chiarificazione, si è manifestato contestualmente all’emergere di una doppia
sollecitazione, apparentemente contrastante.
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Da un lato il confronto interreligioso presenta oggi dimensioni e caratteristiche
che ancora ieri sembravano impensabili. Le antiche tradizioni religiose appaiono
tutt’altro che inerzie residuali di un mondo non ancora raggiunto dalla
civilizzazione cristiana. La loro ripresa di iniziativa manifesta anche nuove forme
di vitalità: in parte favorita dal ricupero spirituale di tradizioni minacciate dalle
parti eticamente e antropologicamente più corrosive della civilizzazione
occidentale, in parte contaminate e strumentalizzate dai giochi della conflittualità
politica più esasperata. Simmetricamente, lo sguardo cristiano nei loro confronti si
è da tempo disposto su una linea di giusta attenzione, che mira a identificare in
esse la dignità dell’esperienza religiosa dell’uomo, che si pone in atteggiamento di
ascolto e obbedienza nei confronti del divino. Il loro nuovo carattere propositivo
richiede tuttavia il ricupero di un atteggiamento più francamente dialettico e
interlocutorio, irriducibile ad una mera interpretazione propedeutica nei confronti
della rivelazione cristiana. D’altro canto, la forma della coscienza agnostica, che
prende distanza dall’identificazione credente, anche quando manifesta apertura nei
confronti della sensibilità religiosa, costituisce per molti aspetti un tratto
qualificante della cultura occidentale e della nuova cittadinanza europea. Il
fenomeno si manifesta con effetti ambivalenti e contraddittori. Favorisce infatti,
senza alcun dubbio, la progressiva espulsione del profilo etico dalla sfera della
cultura sociale condivisa, dirottandolo nell’ambito di un pluralismo ideologico
omologo a quello del cosiddetto pluralismo delle confessioni religiose. (E’ una
specie di seconda secolarizzazione: la prima ha posto una barriera insormontabile
fra religione e verità, la seconda fra libertà e morale). Per contraccolpo, l’erosione
dei valori forti dello spirito prodotta da questa seconda secolarizzazione, genera
un vuoto il cui risucchio attrae in ordine sparso le più disparate forme del sacro.
Mistiche e sataniche, rituali e libidiche, selvagge ed estetiche, terapeutiche e
distruttive. In parte esse trovano ospitalità nelle convenzionali pratiche religiose,
in parte si dislocano in luoghi succedanei alla religione tradizionale (oroscopi,
diete, psicoterapie, tecniche del godimento e del benessere). Dentro questo
miscuglio fluttua indubbiamente, con qualche smarrimento, anche l’autentica
domanda di ricupero dell’interiorità e della spiritualità, dei valori e della
trascendenza. In Occidente, questa domanda, figlia di una condivisa sensazione di
disorientamento e di impotenza, si accompagna con un moto di risentimento
collettivo nei confronti della civiltà religiosa dalla quale veniamo. Di fatto, è in
gran parte risentimento nei confronti del cristianesimo. A motivo della sua
presunta volontà di egemonia, che appare insopportabilmente dispotica, ma anche
a fronte della sua condiscendenza nei confronti della secolarizzazione, giudicata
eccessiva.
In questo quadro, complesso e contraddittorio, mi sembra che la teologia
fondamentale sia chiamata a concentrarsi sempre più, nel prossimo futuro, intorno
al tema essenziale della qualità etico-teologale della religione nell’esperienza
umana complessiva.
6. L’incondizionato etico di Dio: novum cristologico
Alla ripresa della filosofia prima nell’orizzonte ontologico dell’ambivalenza del
sacro, di cui si diceva, potrà dunque opportunamente affiancarsi un’etica
teologico-fondamentale della qualità religiosa che interpreta, indirizza, governa il
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sacro. Le potenze del sacro – che stanno sempre sul crinale degli assoluti del
desiderio: riconoscimento dell’origine, esperienza dell’amore puro, approdo alla
felicità indefettibile, impossibile speranza di una vita eterna - senza regolazione di
una forma religiosa adeguatamente istituita, sono anche potenzialmente
distruttive3. Non basta infatti che la religione si presenti come interpretazione
autentica e regolazione spirituale del sacro. Essa deve mostrarsi all’altezzza
dell’azzardo che si prende, affrontando il compito di indirizzare l’uomo alla
salvezza e al compimento. Deve perciò scontare in se stessa, a favore dei terzi, il
conflitto con il sacro che quell’azzardo comporta. Lotta col Satana, lotta con
l’Angelo, e intimità con Dio che viene a capo – con ogni timore e tremore – della
loro irriducibile differenza. Non così semplice da stabilire, anche nel solco di
un’alta manifestazione del divino.
Nell’attestazione di Gesù, il primato dell’evangelo di Dio si esercita
esplicitamente nei confronti di una deriva che la religione, nelle mani degli
uomini, non è mai in grado di scontare: per quanto santa e ineccepibile sia la sua
origine. Il lato interessante di questa dialettica, dal punto di vista teologicofondamentale, sta nel fatto che in questo punto la credibilità cristologica della
manifestazione del Figlio, che compie l’attesa religiosa, e la singolarità teologica
della pretesa di Gesù di Nazareth, che scandalosamente la depista, trovano il loro
punto di perfetta sovrapposizione dialettica.
Il primo tratto può essere equivocato in molti modi, se lo si scioglie dal rigore del
suo legame con quella pretesa. La seconda è religiosamente indifendibile, se non
si apprezza la giustizia che sta davanti a chiunque abbia occhi per vedere e orecchi
per intendere. Non si può osare tanto, religiosamente parlando, se non si è il Figlio
che esercita la signoria incondizionata e universalmente inclusiva dell’agape di
Dio. Non si è il Figlio, se non si coinvolge Dio con sé stessi fino a quel punto di
identificazione esclusiva. La differenza unica è in tal modo virtualmente posta, già
sul piano del riconoscimento e dell’affidamento. O si punta tutto sull’esclusività
dell’identificazione di Gesù, o si può seguire chiunque altro. Nella chiave della
critica religiosa della religione, non ci sono comparazioni intermedie delle quali
venire a capo con l’alchimia delle differenze interne alla sfera del prodigioso, né
ai processi di legittimazione delle tradizioni del sacro: la pietra e l’albero, il monte
e il tempio. Gesù avanza sin dall’inizio della sua attestazione nel solco di una
rappresentanza che si insedia direttamente nello spazio della verità di Dio che si
manifesta: qui ed ora, in lui e per mezzo di lui. La rappresentazione appare –
giustamente, del resto – al limite di una scandalosa sostituzione: oltrepassamento
della la linea di confine che non dovrebbe essere osato, dal testimone in cerca del
supremo accredito agli occhi dell’uomo religioso. In quella rappresentazione,
nondimeno, si fa del pari evidente la radicale consegna del Figlio allo
spregiudicato attaccamento di Dio nei confronti della creatura. Fino
all’accettazione dell’annichilimento, che sconta fino all’ultima goccia, nella
signoria del Crocifisso, lo svuotamento del carico di assoggettamento che
3
Annoto, estemporaneamente, la vistosa percezione di un mutato scenario, quanto
all’interrogazione sul rapporto fra religione e violenza, negli ultimi decenni. All’inizio degli anni
’70 la chiave della domanda era sostanzialmente imperniata sulla possibilità religiosa di
legittimare la violenza nei confronti della natura intrinsecamente oppressiva del sistema civile
(capitalistico, tecnocratico, borghese, totalitario). Negli ultimi anni, l’interrogativo si addensa di
nuovo, in tutt’altra chiave, intorno al carattere intrinsecamente dispotico del sacro, che coinvolge
automaticamente le forme fideistiche della religione. In modo esemplare, le forme monoteistiche,
in passato giudicate come la forma più alta e più pura del pensiero della trascendenza.
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l’immagine della potenza divina porta fatalmente in sé (del quale il Dio biblico è
consapevole, nel suo continuo trattenerla; e sulla cui intimità invidiosa il
Mentitore specula sempre, sin dall’inizio). La pretesa (Anspruch) di
rappresentanza di Gesù consegue qui la sua massima evidenza e il suo peculiare
paradosso. Gesù manifesta l’autorevolezza della sua attestazione della verità di
Dio fronteggiando criticamente la religione tramandata, della quale riconosce per
altro l’origine divina e nei riguardi della quale proclama l’intenzione di un
assoluto compimento, ‘fino all’ultima virgola’. Ancora più interessante, è il fatto
che il senso di questa dialettica del ridimensionamento e del compimento viene in
certo modo fissata come criterio permanente del limite intrinseco alla religione
che non si lascia giudicare e misurare dall’agape di Dio attestata dal Figlio. Anche
quando invochi il Signore, anche quando abbia compiuto prodigi in suo nome,
anche quando permanga nel vincolo della sua sequela. Insomma, anche quando si
faccia religione cristiana.
Nel governo della dialettica di questo circolo delicato e difficile, la fede
evangelica mette in campo uno strumento di inaudita potenza. Questo strumento
consiste nel duplice legame istituito dall’evangelo di Gesù, il cui referente –
inaggirabile, indistruttibile, eterno – è confessato dai suoi discepoli come
incarnazione del Figlio, che decide della qualità degli umani e dei divini. Il modo
più alto della sua manifestazione, quello in cui si decide la verità della sua pretesa
insieme con l’affidabilità della sua obbedienza, è appunto la critica religiosa della
religione.
Il primo lato del legame è la qualità etica della teo-logia: il divino incompatibile
con l’atteggiarsi di Gesù di fronte all’umano nella prova è revocato in dubbio: la
sua sacralità è ambigua, la sua adorazione è sospetta. Il richiamo all’ambivalenza
della religione sacrale e sacrificale, se lo volessimo finalmente ascoltare nella sua
pura rivelazione, è uno dei punti più forti e luminosi della singolarità evangelica:
solo il Figlio poteva osarlo in quei termini. Dio si lascia apprezzare in rapporto
alla manifestazione della giustizia, che anche i più piccoli sono in grado di
riconoscere. Il giudizio – Matteo 25! – non ha bisogno di cavillare sul dono della
fede e non sopporta sofismi sulle difficoltà dell’altruismo. Il Signore si lascia
incontrare nell’evidenza di una radice del mistero santo di Dio scritta sulle tavole
della dedizione e della cura. In quel punto zero della grazia, universalmente
offerta nella provocazione della perdutezza dell’altro, si iscrive la salvezza di
ognuno. Punto e basta. Il secondo legame è simmetrico al primo, fa sistema con
esso e chiude il cerchio della rivelazione inosabile eppure apparsa come
irrevocabile. Il secondo legame è appunto la qualità teo-logica dell’etica: la
relazione, l’azione - il pensiero, persino – rivolto all’altro uomo (e donna, Gv 4!)
decide la qualità della relazione con Dio in Spirito e verità. L’emozionante
consegna del rapporto teologale all’edificazione dei legami di agape, che sfidano
la morte e scommettono sull’eterno, è l’evento dirimente della novità cristiana.
Viene l’ora ed è questa, accade l’evento ed è questo. La compatibilità con la
manifestazione e l’attestazione di Gesù fa la differenza dell’adorazione in spirito e
verità. La coincidenza di quella rivelazione con quella relazione riscatta ogni
estraneità: etnica, sociale, religiosa. E consegna al nominalismo e alla simulazione
– alla menzogna, dice Giovanni – ogni pratica difforme: per quanto devota. Ciò
avviene in ogni tempo e in ogni luogo possibile della religione storica: compresa
quella che il cristianesimo stesso, di volta in volta, assume, abita, incorpora.
Infine, neppure “chi dice Signore, Signore”, oppure “il Cristo qui, il Cristo là”, ci
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mette necessariamente sulla traccia di Gesù: l’unica evidenza in cui il Figlio possa
e debba essere riconosciuto. (Anche questo sottile abisso abbiamo imparato a
sorvolare, nella rivelazione inaudita di Gesù, che ci insegnò il gioco cruciale di
una testimonianza della verità di Dio senza comparazione storica: talora affidata
alla libertà di “gridare sui tetti” ciò che molti vorrebbero fosse detto sottovoce,
talora ammonita severamente di “non dire a nessuno” parole che consegnano il
mistero santo al fraintendimento irrimediabile). La franca confessione
dell’evangelo di Dio, che ha l’identità di Gesù come referente assoluto, patisce la
rimozione del sacro e la propaganda religiosa allo stesso modo.
Il fondamento di questa rigorosa limitazione del potere della religione stessa, in
Gesù, è il potere esclusivo che il Figlio riceve dall’abbà-Dio. Questa esclusività è
vista, dal lato della storia, nel fatto che il suo principio sta nella parola e
nell’azione di Gesù che la istituisce. Dal lato del cristianesimo, nella viva
coscienza del fatto che, per far valere questa esclusività è proporzionalmente
necessario esplicitare quella limitazione: assumerla generosamente, farsene carico
coraggiosamente, esaminare se stessi con ogni rigore autocritico. Sempre, nella
religione, si formano e riformano clericalismi, rabbinismi, fondamentalismi,
esoterismi, gnosticismi, durezze di cuore, divisioni mortali, autoesaltazioni di ogni
genere, derive superstiziose e contaminazioni di ogni sorta. Alcune sono
riconoscibili come il frutto del peccato dell’uomo. Altre sono insidiosamente
incistate nell’invocazione del nome di Dio. Quando Gesù respinge il dominio
delle città del mondo a vantaggio della sua missione, sapendo che l’offerta viene
dal maligno, o quando avverte che i giusti saranno perseguitati nel nome di Dio,
credendo di fargli cosa grata, mette in campo una linea del giudizio permanente,
che non intende certo risparmiare i suoi. Anzi, a loro chiede il rigore di una
confessione totalmente spregiudicata, al riguardo: quale non è possibile su nessun
fondamento puramente religioso dell’esistenza. La religione che si accontenta di
provare semplicemente la propria coerenza con se stessa, rende testimonianza a se
stessa, non a Dio. Il Figlio stesso neutralizzò definitivamente l’autoreferenzialità
del circolo di un’apologetica viziata, restituendo al Padre l’origine e il
compimento della sua giustificazione.
7. La verità religiosa dentro i limiti della pura rivelazione.
La testimonianza evangelica chiede doppio coraggio: non si può abbandonare la
religione, non ci si può semplicemente abbandonare ad essa. Su questo punto
Paolo spinge semplicemente a fondo il punto di innesco della rivelazione di Gesù.
Non avrebbe potuto osare tanto, se l’autorevolezza del Signore, Gesù Crocifisso e
Risorto, non avesse indicato – e patito, e confermato – l’evidenza definitiva della
rivelazione. La virtù della religione, che dunque articoleremo opportunamente nei
confronti del puro incantamento del sacro, è la via condizionale – necessaria e
limitata – di una fede che non può fare semplicemente sistema con essa.
La dialettica della Legge e della Grazia è quella della Promessa e del Regno.
L’avvento del Regno anche quando dormiamo, onora proprio così, anticipandola e
regolandola, la verità della Promessa, altrimenti troppo umana. La Grazia si lascia
comprendere come il riscatto della Legge: perciò, e solo così, opera come il suo
necessario compimento, altrimenti inchiodato all’astuzia del peccato e
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all’ingenuità del diritto. Il trasferimento paolino dell’evangelo del Signore in un
nuovo codice, quello dell’universalismo cristiano che gli appartiene di diritto, apre
il campo al colloquio con tutta la religione possibile – e tutte le religioni pensabili
– senza perdere neppure uno iota della rivelazione di Gesù, conservandone
identica la forma e la forza. Lavora sullo stesso nucleo, insiste sulla medesima
dialettica. Non c’è nessun Paolo fondatore del cristianesimo, qui, che abbia
trasformato la libera sequela dell’evangelo nel vincolo autoreferenziale di una
nuova religione, alla quale Gesù non aveva pensato. L’icona di Gesù, saldamente
attestata nella verità cristocentrica di Dio, è la stessa che regola l’obbedienza della
fede di Pietro, che intende la verità della religione entro i limiti di una relazione di
Dio che non fa accezione di persona. Filtra nella franchezza di Giacomo, il saggio
mediatore di passaggi difficili, che stringe sul legame cristologico dei due
comandamenti, indicando la custodia dei più deboli il sigillo di una religione pura,
che fa la differenza. Risplende nella linea invalicabile fissata da Giovanni, il
mistico, che rimarca – all’interno del cristianesimo stesso – la menzogna di una
religione che confessa Dio e mortifica l’uomo.
La purificazione della religione – non dalla religione – è il compito storicamente
più alto e difficile affidato ai discepoli del Signore. Impossibile e necessario. Essi
devono scontarlo nella loro carne e nel loro spirito, compiendo in favore
dell’ekklesìa dei testimoni, e di tutti i loro protetti, ciò che manca alla passione di
Gesù Cristo.
Nei decenni trascorsi, premuta dalla rappresentazione di una secolarizzazione che
avrebbe condotto la religione al declino come forma civile, anche la teologia
cristiana ha sperimentato la possibilità di un’interpretazione e di una pratica non
religiosa del cristianesimo, contrapponendo la singolarità della fede evangelica
all’universalità della forma religiosa. Il contraccolpo era comprensibile. La tesi,
pur con i suoi eccessi, ha riportato alla luce la verità di una dialettica che era stata
indubbiamente oscurata. La dialettica della religione e della fede è un nucleo
vitale per la comprensione del cristianesimo: nella sua anomala singolarità e
perciò nella sua universalità. Rimane il fatto che la pura contrapposizione della
fede alla religione taglia semplicemente fuori l’universale umano della relazione
con Dio. L’universale autentico, effettivo, appropriato all’attraversamento reale
del sacro: non quello della religione razionale del pensiero, inventata dalla
filosofia occidentale della modernità, per via di progressiva rarefazione mentale
del cristianesimo. Lo spazio e la lingua della religione rimane quello in cui la
rivelazione cristologica si è attestata concretamente secondo la la sua verità:
proprio l’incarnazione del Figlio sbarra la strada alla rimozione della religione
quale condizione di una maggiore purezza della fede. La religione infine è lo
spazio esistenziale – corporeo e spirituale, culturale e sociale – in cui la fede è
messa alla prova quanto alla sua capacità di onorare il carattere non estemporaneo
dell’insediamento di Dio nel tempo storico. Non c’è proprio nessun altro modo di
andare a toccare le nervature della carne e le intimità dello spirito in cui
l’esistenza si trova toccata nell’intimo è riscattata e plasmata secondo la verità
destinata. La religione è la lingua e la memoria, gli affetti e le pratiche, dentro le
quali la relazione con Dio si fa sentire. La religione indirizza l’ethos del
coinvolgimento credente con Dio a frequentare l’intimità affettiva del bios umano,
che non vuole rimanere estraneo al contatto del divino. E’ qui il banco di prova
della fede che salva: o l’uomo e la donna che ci sono, anima e corpo, passione e
pensieri, esaltazioni e ferite quante sono, oppure niente. Nel Figlio Gesù, abbiamo
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la certezza che Dio sa che cosa intendiamo quando sbottiamo: “chi mi libererà da
questo corpo di morte?”. L’alternativa dirimente è un corpo di vita, in cui la morte
e la risurrezione del Signore si fanno sacramento in cui tocchiamo e siamo toccati:
se Cristo non è risorto, la nostra fede è vana. Nella splendida cristologia della
lettera agli Ebrei, è splendidamente riassunto il nostro punto di forza
nell’attraversamento del sacro. Senza questa incorporazione tutti i sacrifici sono
vani, in qualsiasi modo. In virtù delle parole e dei segni che marcano la carne e
l’anima, tutte le ferite hanno accesso al loro riscatto.
Nel solco della religione lo spazio della notitia Dei si apre all’altezza delle
potenze del sacro, nel cui mistero indecifrabile – fiduciosamente e
pericolosamente – abitano i figli di Adamo. Essi sono raggiunti in molti modi
dalla traccia indelebile di un’originaria confidenza con il Signore della creazione,
per il quale vengono al mondo. Intercettati inestricabilmente, anche,
dall’incorporazione dell’antica diffidenza che in quel rapporto si è insinuata: della
quale è impastata la storia che ereditiamo, alla quale la libertà concorre in forme
sempre nuove. Quella diffidenza genera effetti disparati: induce alla rassegnazione
di un distacco inevitabile e alla indifferenza di una presenza incerta; suscita
risentimento violento e sacrificale, induce alla ricerca di sostituzioni improbabili e
distruttive. Nello spazio di quella diffidenza, che le potenze mondane dell’aria, del
suolo e del sottosuolo alimentano incessantemente, anche la religione dell’uomo
cerca di adattarsi, come a tentoni, con mille sacrifici, mille scongiuri, mille
superstizioni.
In questo solco mi sembra aprirsi una strada migliore anche per
l’evangelizzazione in contesto interreligioso. Il cristianesimo attesta la verità
ultima della religione, di tutta la religione dell’uomo: compresa quella in cui la
fede evangelica ha nutrito e nutre la promessa del riscatto della creazione,
inaugurato con la fede di Abramo. Compresa quella in cui essa articolerà
necessariamente, nei tragitti più diversi, l’evidenza storica della sua forma
testimoniale. Per essere fatta valere secondo la singolarità dell’evangelo,
esplicitamente istruita e realizzata da Gesù, quell’attestazione avanza di pari passo
con il riconoscimento del limite della religione nei confronti del legame risolutivo
– indistruttibilmente creaturale, inarrivabilmente escatologico - fra la verità di Dio
e la salvezza dell’uomo. La centralità di questo tema nella manifestazione di Gesù
mi pare inequivocabile. Penso che qui risieda anche l’elemento strategico per la
chiarificazione della novità evangelica della rivelazione: incomparabile, appunto,
con la tradizione religiosa, proprio perché irriducibile alla mera apologia di una
religione come anche alla pura giustificazione della religione. La limitazione
cristologica della religione – a differenza di quella degli stessi profeti, che
rappresenta certamente la premessa più alta della critica religiosa della religione in
cui si fa intendere l’assoluta radicalità della rivelazione del Figlio – non riguarda
semplicemente i difetti della sua coerenza, ma la portata intrinseca della sua
capacità di sottrarsi stabilmente (e di sottrarre compiutamente) all’ambivalenza
del sacro, a motivo della sua mescolanza col peccato. Ciò vale dal lato
dell’effettiva manifestazione storica della giustizia di Dio, come pure da quello
dell’effettiva conciliazione del cuore con la verità di Dio. Gesù stesso si pone
come il punto di incondizionato discrimine per il riconoscimento di quella
manifestazione e per l’affidabilità di quella conciliazione. Rifiutandosi di rinviare
questo discrimine ad altro che alla sua originaria confidenza con l’abbà-suo, Gesù
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mette in campo lo scandalo del profeta religioso che si fa rivelazione di Dio, in
luogo di rinviare ad una parola sacra di Dio che lo precede.
8. L’ ethos occidentale dell’irreligione: un compito
Dirottando tutta la verità di Dio sulla giustizia di agape, Gesù indica la forma
autentica della relazione spirituale con Dio, collocandola nell’orizzonte di una
manifestazione del divino universalmente riconoscibile, apprezzabile, affidabile
nella sfera della relazione corporea dell’umano.
La strada di ogni deriva dispotica della rivelazione divina, come quella di ogni
carattere esoterico della relazione credente, è sbarrata in radice. Con questo
sbarramento, si chiude però anche l’ultimo varco per la pretestuosa innocenza
dell’umana autoimmunizzazione nei confronti dell’attestazione credente che
impegna sul discernimento del sacro e guida alla verità della religione.
L’invenzione moderna dell’agnosticismo, dalle belle apparenze di equidistanza
civile e laica, liberale e democratica, nei confronti della pretesa di venire a capo
degli enigmi del sacro e dei conflitti religiosi, si pronuncia pur sempre sugli
assoluti del desiderio e sulla giustizia di agape. In questo modo si è già
contaminati dal sacro e imbarcati con la religione. Non esiste infatti altro modo –
finché esisteranno i paradossi del desiderio e le evidenze di agape – di
pronunciarsi su di essi. Senza decisioni nell’orizzonte della fede e senza
pronunciamenti sul senso della religione, non avremmo linguaggio per il
desiderio. Nella prospettiva della fede cristiana d’altro canto – ma lo sfondo sul
quale si disegna la sua peculiare interpretazione è quello della coscienza religiosa
tout-court, come ha già indicato, nella sua parte rimossa, la pur tanto celebrata
fenomenologia religiosa di Rudolf Otto – si è sempre nella relazione con Dio e ci
si pronuncia sempre a suo riguardo: positivamente, negativamente,
indifferentemente. L’implicito assoluto della verità e della giustizia del senso, che
viene in campo con l’attitudine a giudicare la vita dal punto di vista del bene e del
male, è sempre impiantato sulla memoria religiosa del sacro, prima che
sull’orizzonte trascendentale del senso. (Lacan, qui, mi sembra infinitamente più
istruttivo e pertinenete di Heidegger).
Anche in questa prospettiva penso ai vantaggi di un inquadramento teologico della
dialettica alla quale alludo parlando di una critica religiosa della religione. La
serietà cristiana della critica religiosa della religione anticipa e sbarra la strada per
la critica della religione che ne trae argomento a buon mercato per l’omologazione
dell’irreligione. L’elusione del caso serio che la religione tiene in campo – quella
che chiamo la deriva dell’irreligione – ha un prezzo altissimo: chiude l’orizzonte
della trascendenza che rende pensabile la qualità spirituale dell’umano, erode
l’etica condivisa che rende praticabile l’ordine degli affetti che vi corrisponde.
L’Occidente ha avviato da tempo la sperimentazione di questa rimozione. La
legittimazione culturale dell’ideale di cittadinanza fondato su questa rimozione,
cerca il sostegno di una filosofia della decostruzione, che si fonda sull’esclusione
di quella che indica ogni pregiudiziale metafisico-religiosa del sapere: della realtà,
come del senso. Di questa esclusione la filosofia non produce più neppure la
giustificazione, sancita come l’a priori del suo punto di consenso più avanzato.
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Da un lato la presunta ovvietà della sua denegazione è posta a carico della
constatazione di un nichilismo per così dire ambientale, che ha congedato ogni
pensiero del fondamento; dall’altro è fatta valere come legittima difesa della
cultura civile nei confronti di un protocollo ideologico intrinsecamente funzionale
ad una governance sociale dispotica e antidemocratica. L’incoerenza di questa
doppia pregiudiziale è largamente eccepibile, sotto il profilo teorico. Dal punto di
vista pratico, tuttavia, il circolo vizioso nel quale pluralismo e nichilismo si
alimentano reciprocamente è percepito come insolubile. L’istituzione di una verità
pubblicamente vincolante appare al senso comune diffuso un minaccia per i
valori (cristiano-)occidentali dell’individualità personale; d’altro canto, il varco
aperto dal pluralismo per l’arbitrio soggettivo e l’erosione di tutti i valori
condivisi, è consensualmente percepito come una deriva di intollerabile
disgregazione del senso. Su questo sfondo, il tradizionale apparato teorico del
rapporto fra verità e libertà appare incapace di interrompere il circolo.
La decostruzione occidentale esercita enfaticamente la critica del dominio epocale
esercitato dal blocco tecnico-economico della razionalità condivisa, ma poi
agevola servizievolmente l'interesse di quest’ultima al riduzionismo che essa
pratica nei confronti della coscienza morale e religiosa, esclusivamente in base
all’ingombro che essa rappresenterebbe per l’emancipazione della scienza e del
diritto funzionali all’economia libidinale. In questo quadro, la filosofia e la
politica appaiono largamente in ostaggio di una figura presuntivamente
avalutativa della ragione, che pratica il linguaggio alto della moderna
emancipazione della libertà, e della dignità del sapere, a copertura di un protocollo
meramente strumentale della razionalità, che rende perfettamente irrilevante la
soggettività e l’intersoggettività della coscienza umana effettivamente condivisa.
La classica deduzione metafisica della qualità spirituale, come anche la moderna
elaborazione delle condizioni trascendentali della coscienza, con tutti i loro
meriti, sono ora insufficienti per la giustificazione antropologica del modo in cui
la fede religiosa – nel suo inveramento e nella sua emancipazione cristologica
dall’ambivalenza del sacro – onora l’apertura dell’umano alla giustizia
dell’esistere. La questione non è solo teorica, ma anche pratica e sociale: richiede
pertanto di essere affrontata su diversi piani. Per quanto riguarda il compito della
teologia fondamentale a questo riguardo, come forse a qualcuno è noto,
attribuisco grande importanza allo sviluppo teoricamente rigoroso e culturalmente
creativo di due fronti di ricerca, che enuncerò qui brevemente.
9. L’assoluto affettivo: ontologia dell’intersoggettività
Il primo è quello di una convincente fenomenologia dell’essere sociale, capace di
restituire riconoscimento per l’umano-che-è-comune. L’essere sociale, qui, non è
semplicemente l’essere associato: è piuttosto la qualità umana dell’essere-almondo come qualità già data per essere condivisa, onde la coscienza intende tutte
le forme del desiderio in termini di riconoscimento intersoggettivo della sua
qualità spirituale.
La metafisica dell’essere spirituale e l’impostazione trascendentale della
coscienza, devono essere capaci di rifondarsi e rielaborarsi fenomenologicamente
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nel dispiegamento di questa unità originaria dell’esperienza dell’umano condiviso.
Non c’è alternativa. L’elemento decisivo, per la praticabilità di questo compito,
sta però nel fatto che, nonostante il racconto interessato della filosofia
decostruttiva, l’umano dato e condiviso nella sfera del riconoscimento
intersoggettivo si dà effettivamente come l’universale. L’umano che è comune è
tuttora il presupposto di un’intesa sui tratti qualificanti della qualità soggettiva
dell’umano, che è l’oggettività più sicura del pianeta. La sua evidenza che
oltrepassa tutte le differenze possibili. Persino i limiti del linguaggio, perché non è
un significato linguistico: piuttosto la condizione per la decodifica e la traduzione
dei linguaggi, altrimenti semplicemente impensabile. L’uomo, la donna e la
generazione. La parola data e il tradimento, l’egoismo e l’amicizia, la coscienza
della finitezza e la dignità nella prova. I tratti dell’umano che è comune, sono
universalmente riconoscibili come referenti non linguistici dell’universale umano
effettivamente dato. Tutti scaturiscono dall’esperienza della relazione, e tutti sono
in essa riconoscibili: ritrovati, come un dato che precede la coscienza e il
linguaggio. Sarà forse tempo di mettere mano al curioso pregiudizio che domina il
linguaggio occidentale, dove “soggettivo” significa per ciò stesso non oggettivo,
arbitrario, inaffidabile? Paradosso curioso: la soggettività è la figura di valore
dell’umano comune che è più convintamente difesa, ma anche la qualità più
spontaneamente associata alle forme inattendibili dell’evidenza condivisa e
attendibile. A cominciare da quelle che abitano l’umano condiviso e
universalmente distribuito (che viene poi evocato, seguendo strumentalmente una
retorica della natura umana alla quale non si è più disposti a concedere nulla,
come il presupposto dei diritti umani che ne dovrebbero orientare eticamente
l’adempimento). Non sarà già qui, nell’improbabile ricerca di un’oggettività
dell’umano non inquinata dalla qualità soggettiva, il pregiudizio che accomuna le
rimozioni metafisiche e scientifiche dell’umano, dal quale dovrebbero apprendere
– fenomenologicamente – l’intimità ontologica della sua costituzione.
Il secondo cespite di approfondimento, lo vedrei nella necessità di impegnarsi
esplicitamente nell’articolazione di quello spazio dell’umana interiorità che è
irriducibile alla coscienza noetica come all’anima separata. E’ quello che chiamo
– in attesa di meglio – l’ordine degli affetti. La sua riduzione all’inconscio
psicanalitico si è prodotta, in mancanza di meglio, nell’orizzonte di una filosofia
razionalistica della coscienza che ne ha largamente trascurato l’elaborazione.
Anche qui, una rivincita postuma dell’istanza romantica, che la metafisica e la
scienza dominanti hanno respinto con troppo sdegno, per rapporto alla loro
incapacità di venirne a capo.
In questo ambito si gioca una partita decisiva in ordine alla possibilità di restituire
dignità al sapere dell’anima. La strada però è segnata: sviluppi sintomatici e
convergenti della fenomenologia (soprattutto francese), si trovano già in
prossimità dei punti cruciali. Il riposizionamento del nesso rivelazione-agape, nel
luogo della filosofia prima e dell’etica teologale, consente un approccio diretto
alla teologia cristiana. Si tratta di uscire dall’enfatico sentimentalismo del primato
dell’amore, ma anche di rinunciare alla mortificazione della fede sulla linea del
trascendentalismo cognitivo. L’esplorazione non comincia astrattamente
dall’ordine del cuore e dagli affetti della mente dell’homo sapiens. Essa muove,
concretamente, a partire dai legami dell'uomo, della donna, della generazione, la
cui costellazione affettiva – non solo famigliare, bensì sociale-totale – è
certamente determinante nei confronti di ogni umana prossimità, ma anche
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decisiva per l’umana costituzione del cuore e della mente. Bisogna infatti che la
lingua di agape sia capace di nominare e di articolare sin dall’inizio il suo
rapporto con l’eros che prende forma in quei legami. Per poterlo fare, deve
ripartire dall’alto, ricostruendo i nessi in cui l’ordine degli affetti appare
inequivocabilmente fondato e giustificato (e corrispondentemente, censurato e
rimosso) nell’orizzonte dell’intimità del divino.
La denuncia dell’incongrua saldatura fra la sacralizzazione libidica del Sé e la
dispotica autoreferenzialità del Sacro, rappresenta la questione cruciale per la
nuova lettura teologico-cristiana dei nomi divini. La congiuntura epocale di questa
sovrapposizione deve incoraggiarci a chiudere la partita a riguardo di quello che si
è potuto ricavare – ermeneuticamente e religiosamente – dal monoteismo della
filosofia greca. L’assoluto divino per il quale il mondo è niente, rispetto al quale i
significati che portiamo in vita sono modeste copie di essenze immutabili, il
motore immobile che muove ogni cosa os eromenon (in quanto oggetto d’amore),
chiuso nella luce della propria mente autocontemplativa, dove la nostra vita e la
nostra morte sono pure notizie, assolutamente incapaci di scalfire la beatitudine di
un eterno autogodimento, esce definitivamente dalla sua innocente necessità.
Nell’impianto faraonico e imperiale di quel modo di essere del divino principio
possiamo ora scorgere anche i tratti della personalità narcisistica. Da quando
Narciso appare nella cultura occidentale il modello più stabile e diffuso
dell’umano ideale, in grado di produrre adattamento mentale della normalità delle
aspirazioni, ma anche ai protocolli della cultura alta dell’umanesimo, noi siamo in
grado di analizzare dettagliatamente i lati distruttivi della sua proiezione assoluta.
Il Dio-Sé realizza qui un’identità per la quale il carattere costitutivo della
relazione responsabile è ontologicamente inessenziale: impotente a stabilire – e
ristabilire – un ordine del senso razionalmente e affettivamente condiviso. E
pertanto, un’identità provvista della sua specifica legittimazione. A questo effetto
di deriva vedo personalmente associata l’enfasi retorica di nuovo assegnata alla
forma astratta della donazione assoluta, per essenza indicata come perfettamente
estranea ad ogni forma di reciprocità e di scambio. Donazione a perdere che ha il
suo risvolto ambivalente in una tale autoreferenzialità della grazia da rischiare la
pura specularità del narcisismo. Diventando una sorta di rifinitura etica
dell’autosufficienza narcisistica, l’oblatività indifferente al legame sigilla
teologicamente la perfetta nullità della dignità relazionale: non solo in termini di
impossibilità della restituzione, ma anche di censura del riconoscimento. E quindi
dell’autorità istituita dalla giustizia della relazione, del legame fondato sulla
parola data, della dignità relazionale dell’umano che è comune, tipicamente
condiviso nei modi dell’essere personale.
Il destino religioso del postmoderno si decide anche in rapporto al segno che
vuole essere riconosciuto negli eccessi di un rigido monoteismo del Sé, che ha il
suo luogo nell’intimità di un essere desiderante la cui portata e la cui verità
oltrepassano la coscienza, il bios e il linguaggio. Il suo accesso al riconoscimento
è questione di forze, non solo di forme. Se si sbaglia nell’ordine degli affetti, la
coscienza non basta per venirne a capo. La fermezza della testimonianza cristiana
resa all’intrinseca unità e alle implicazioni affettive delle verità relazionali di Dio
(creazionistica, cristologica e trinitaria) farà la differenza per l’Occidente
prossimo venturo.
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