UNIVERSITA’ TELEMATICA INTERNAZIONALE UNINETTUNO FACOLTA’ DI PSICOLOGIA CORSO DI LAUREA IN DISCIPLINE PSICOSOCIALI Elaborato finale In Psicobiologia del comportamento umano Parkinson, l'importanza dell'assistenza al paziente e ai caregiver Relatore: Giusy Olivito Docente d'area: Walter Adriani Candidato: Raffaella Ferretti Matricola: 2048HHHCLDIPSI Anno accademico 2014/2015 INDICE Introduzione Capitolo 1 1.1 - Cenni storici 1.2 - Cenni di anatomia 1.3 - Aspetti clinici e diagnostici 1.4 - Trattamento farmacologico Capitolo 2 2.1 - Come aiutare il paziente 2.2 - Trattamento chirurgico 2.3 - Trattamento riabilitativo 2.3 - Trattamento socio-ambientale Capitolo 3 3.1 - Consigli al familiare 3.2 - Sostegno psicologico all'ammalato ed ai familiari 3.4 - Rottura dell'isolamento e confronto con persone con problemi analoghi 3.5 - Come far fronte all'evoluzione della malattia 3.6 - Supporto alle esigenze dei familiari Conclusioni Bibliografia Introduzione Parkinson, l' importanza dell'assistenza al paziente e ai caregiver La malattia di Parkinson è una patologia cronica neurodegenerativa che comporta deficit motori e non-motori notevolmente disabilitanti. Colpisce il 2% della popolazione e crea un decremento della qualità della vita strettamente correlata ad una diminuzione dell’autonomia fisica, del grado di percezione cognitiva e del benessere psico-emotivo, fino a raggiungere una elevata alterazione del grado di abilità nello svolgere le attività della vita quotidiana. Questi deficit progrediscono fino a portare nel tempo ad una disabilità ed inabilità psicofisica totale. Lo studio del morbo di Parkinson richiede un approccio multidisciplinare non solo nella situazione di acuzie, ma durante tutta l’evoluzione della malattia in quanto è una patologia complessa che presenta anche molti aspetti non prettamente neurologici. I sintomi della malattia risultano avere un impatto notevole anche sulla qualità di vita di chi eroga l’assistenza al soggetto malato, coloro che vengono denominati caregiver, e che si occupano di curare la persona affetta da tale morbo. La presenza di un caregiver è associata ad un miglioramento del decorso della malattia in termini di ridotta mortalità e di un mantenimento adeguato della qualità di vita del paziente, ma il disagio psicologico che accompagna la comparsa di una malattia, improvvisa e progressiva, rappresenta la rottura di un equilibrio, in grado di produrre cambiamenti nella vita personale, familiare e sociale. In altri termini, quando una persona si ammala, si ammala nella sua totalità. L’obiettivo di questo lavoro è quello di definire il ruolo del caregiver e di sostenerlo durante la fase relativa alla presa in carico della persona affetta dal Parkinson, al fine di garantire una adeguata continuità assistenziale. I familiari, infatti, necessitano sia di aiuto pratico, sia di sostegno affettivo per riuscire ad adattarsi agli aspetti negativi della situazione. Informazione ed assistenza psicologica possono, perciò, rivelarsi essenziali e decisivi per aiutare sensibilmente i malati ed i familiari ad affrontare questa patologia ed a migliorare la solidarietà all'interno della famiglia. Capitolo I 1.1. Cenni storici Il Parkinson è una malattia neurologica cronica caratterizzata da tremore, rigidità e lentezza dei movimenti, la cui causa scatenante è tutt'ora sconosciuta. A darle il nome fu il medico inglese James Parkinson che nel testo An Essay on Shaking Palsy del 1817 definì “Paralisi agitante” una patologia a carattere progressivo del sistema nervoso centrale. La descrizione del disturbo motorio, che ora porta il suo nome, è così accurata e sintetica da essere attuale: involontario, “moto con forza tremolante muscolare ridotta, di parti non in azione, anche quando vengono sorrette; con propensione a piegare il tronco in avanti e a passare da un’andatura dal passo alla corsa; assenza di alterazioni sensitive e dell’intelletto”. Nella sua descrizione, il medico escluse che la compromissione delle capacità cognitive fosse tipica della malattia, affermando l’assenza di alterazioni dello stato mentale. In realtà egli stesso si era già reso conto che, anche se non dementi, i suoi malati potevano essere affetti da numerosi sintomi riguardanti la sfera cognitiva ed affettiva, aspetti che verranno successivamente con il tempo analizzati. Parkinson descrisse in maniera dettagliata i sintomi della malattia, senza tuttavia riuscire a scoprire le cause del morbo, che secondo lo studioso erano strettamente connesse alla Rivoluzione industriale in Inghilterra, all'inquinamento che questo evento epocale aveva provocato. Nonostante il suo primato, il lavoro del medico inglese rimase praticamente sconosciuto per lungo tempo. Bisogna attendere la fine del diciannovesimo secolo, parecchi decenni dopo la sua morte avvenuta nel 1824, perché il termine “Malattia di Parkinson” venga usato per la prima volta in un testo di medicina dal fisico tedesco Julius Althaus e perché la rigidità muscolare venga inserita tra i sintomi della malattia dal professor Jean Martin Charcot dell’Università Salpétrière di Parigi, che ebbe anche il merito di distinguere questa patologia dalla sclerosi multipla e da altre malattie caratterizzate da tremori. Charcot fu il primo ad utilizzare sui pazienti un trattamento medico somministrando loro l'atropina, un alcaloide estratto da diverse piante della famiglia delle Solanaceae. La conoscenza del morbo si diffuse anche tra il 1917 ed il 1927, quando esplose un'epidemia mondiale d'influenza, denominata "influenza spagnola", causata da un virus che colpiva il sistema nervoso centrale. Questa provocava una infiammazione del cervello e delle meningi che spesso si complicava fino a sfociare in una sindrome parkinsoniana, chiamata post-encenfalica. I pazienti venivano portati in case di cura e il trattamento consisteva essenzialmente nella somministrazione di morfina per calmarli. 1.2. Cenni di anatomia Il morbo di Parkinson si riscontra in maggiore percentuale nel sesso maschile (Baldereschi et al, 2000) e i sintomi possono comparire a qualsiasi età, ma nella maggior parte dei casi si presentano intorno ai 60 anni. La durata della fase preclinica, periodo di tempo che degenerazione intercorre neuronale tra e l'inizio l'esordio della dei sintomi motori, non è nota, ma alcuni studi la datano intorno a 5 anni .( Bonifati et al, 2005) Il termine Eziopatologia in Medicina è utilizzato per spiegare le cause che provocano una determinata patologia. Nel caso specifico il Parkinson è causato dalla degenerazione delle cellule del sistema nervoso centrale, localizzate in una zona del cervello chiamata substantia nigra, formazione nervosa che si trova in una posizione intermedia tra mesencefalo e diencefalo. I neuroni di questo tessuto si occupano della produzione di una parte di dopamina, neurotrasmettitore endogeno, che va poi ad agire su un altro nucleo che controlla le funzioni motorie nel cervello. I neuroni dopaminergici nella sostanza nera contengono un pigmento che prende nome di neuromelanina, che dà alla cellule quella colorazione scura. Dal momento che i neuroni muoiono o sono rimossi, tale sostanza perde il pigmento. proprio a causa della degenerazione neuronale. I primi sintomi della malattia compaiano quando l'80% del tessuto è stato degenerato. In questa patologia i danni della struttura cerebrale influenzano tutti i cinque principali circuiti che collegano le aree cerebrali: il circuito motorio, oculomotore, associativo, limbico e orbitofrontale. Le strutture coinvolte si trovano in aree profonde del cervello, note come gangli della base. I gangli della base sono un gruppo di nuclei sottocorticali localizzati in entrambi gli emisferi cerebrali interconnessi con la corteccia cerebrale, il talamo ed il tronco dell’encefalo. I quattro nuclei che compongono i gangli della base sono lo striato, il globus pallidus, il nucleo subtalamico e la substantia nigra. Il nucleo striato riceve afferenze principalmente dalla corteccia e dal talamo ed è fittamente collegato al globus pallidus e alla substantia nigra, da cui parte la maggior parte delle efferenze (termine usato per le fibre o vie nervose che conducono in una determinata direzione i potenziali di riposo e di azione proveniente da un determinato punto di partenza), dai nuclei della base alle altre strutture cerebrali. I gangli della base sono coinvolti principalmente nel movimento e partecipano alla loro corretta esecuzione. I neuroni dopaminergici della sostanza nera, mostrano al microscopio dei corpuscoli chiamati corpi di Lewy, che sono considerati una caratteristica specifica della malattia di Parkinson e forse sono proprio questi che diffondono il morbo in tutto il cervello. Tali corpi, aggregati proteici anormali di forma sferica che si sviluppano all'interno delle cellule nervose, sono presenti anche all'interno dei neuroni di pazienti affetti da alcuni tipi di malattie degenerative come nel caso della malattia di Alzheimer e della sindrome di Hallervorden-Spatz. Il loro principale costituente è una proteina denominata alfa-sinucleina presente sia a livello dei nuclei che delle sinapsi (da qui deriva il nome), e potrebbe giocare un ruolo fondamentale nella plasticità sinaptica. Si pensa che la malattia insorga come risultato di una complessa interazione tra la suscettibilità genetica ed i fattori ambientali. Si è infine osservato che i fattori genetici hanno un ruolo fondamentale in questa patologia, in quanto predisposti nel loro genoma a mutazioni che interessano geni codificanti per diversi classi di proteine: molecole coinvolte nel metabolismo della dopamina, enzimi epatici deputati alla detossificazione e le proteine come la sinucleina. 1.3. Aspetti clinici e diagnostici La diagnosi di morbo di Parkinson rimane prevalentemente clinica e si basa sulla presenza di tre sintomi classici, insidiosi, perché progressivi. I principali segni sono: il tremore a riposo, regola re, che scompare durante il movimento, accentuato da sforzi ed emozioni, che scompare nel sonno. La rigidità, la bradicinesia (lentezza dei movimenti automatici) e, in una fase più avanzata, l'instabilità posturale (perdita di equilibrio); Il movimento è detto “del contare le monete” e riguarda solitamente gli arti superiori, spesso esordisce come monolaterale e può arrivare ad interessare il capo. Questi sintomi si presentano in modo asimmetrico (un lato del corpo è più interessato dell'altro). All’inizio i pazienti riferiscono una sensazione di debolezza, di impaccio nell’esecuzione di movimenti consueti, e spesso i sintomi non vengono riconosciuti immediatamente, perché si manifestano in modo subdolo, incostante e la progressione della malattia è tipicamente lenta: non sempre il tremore è presente in tutti i pazienti. Talvolta sono i familiari o i conoscenti che si accorgono per primi che "qualcosa non va" ed incoraggiano l'interessato a rivolgersi al medico. Insieme ai deficit di tipo motorio, vengono riscontrati sintomi di natura differente. Studi sperimentali hanno infatti confermato che il morbo di Parkinson è accompagnato da un disturbo dell’attenzione e in alcuni casi di memoria. Specificamente la memoria di lavoro e le operazioni di recall e dating appaiono compromesse; i deficit interessano non tanto la capacità di memorizzare, quanto la possibilità di accedere ai dati conservati in memoria. La più comune complicanza psichiatrica in questa patologia è rappresentata dalla depressione. Secondo alcuni autori i sintomi depressivi sono presenti nel 25-40% dei casi. Quando la depressione compare in uno stato iniziale della malattia si è riscontrato che si ha un più rapido declino cognitivo (Alonso et al, 2003.) Negli ultimi anni si è compreso che il declino cognitivo associato alla malattia è più diffuso di quanto si pensasse in passato e che può instaurarsi già nelle fasi iniziali della patologia. La valutazione dei sintomi del paziente avviene mediante l’uso di scale di valutazione internazionali. Una delle più usate è la Unified Parkinson’s Disease Rating Scale(Richards et al, 1994). L’uso delle neuroimmagini inoltre consente una conferma diagnostica soprattutto nei casi in cui la diagnosi è dubbia per la presenza di segni clinici atipici. 1.4. Trattamenti farmacologici Nonostante la malattia sia nota da circa quasi due secoli, le conoscenze sono progredite in maniera significativa solo negli ultimi trenta anni. Non è ancora però possibile guarire dal Parkinson, ma grazie alle tecniche moderne si può garantire al paziente affetto dalla patologia, una migliore qualità di vita. Lo studioso Charcot fu il primo ad avere il merito di utilizzare sui pazienti un trattamento medico somministrando ai degenti l'atropina, un alcaloide estratto da diverse piante della famiglia delle Solanaceae. Bisogna però aspettare la fine della seconda guerra mondiale per maggiori sperimentazioni mediche e per adottare delle soluzioni significative per combattere questa patologia. Negli anni sessanta si giunge all'utilizzo della Levodopa, amminoacido intermedio e precursore naturale e chimico della dopamina per compensare la carenza del neurotrasmettitore. Nel tempo un ruolo fondamentale è stato ricoperto dagli anticolinergici, una classe di farmaci in grado di antagonizzare gli effetti fisiologici dell'acetilcolina che possiedono azione simile all'atropina e che sono detti anche "parasimpaticolitici" poiché inibiscono l'azione del sistema nervoso parasimpatico. Sono tuttora usati, ma la loro importanza è diminuita con l'introduzione di farmaci più efficaci, che sono denominati dopaminergici. Questi ultimi sono in grado di compensare la carenza di dopamina nel cervello, che come abbiamo analizzato nei paragrafi precedenti, è la causa determinante del morbo di Parkinson. In seguito sono stati prodotti sinteticamente altri prodotti che svolgono una azione analoga, come la bromocriptina ed il pergolide, utilizzati in casi più gravi. Al pari passo con i progressi della terapia cominciarono però a comparire anche effetti collaterali e complicazioni. Per comprendere quale sia il giusto trattamento, il paziente ha bisogno di essere monitorato costantemente per avere il miglior riscontro farmacologico possibile. Tuttavia, con il progredire della malattia e quindi con la conseguente carenza di dopamina, alcune cellule che contengono una sostanza chiamata acetilcolina, reagiscono intensificando la propria attività. Questo porta ad un peggioramento delle condizioni del paziente. La prescrizione di farmaci anticolinergici e dopaminergici provvede a ridurre l'attività di queste cellule favorendo il miglioramento. Capitolo 2 2.1. Come aiutare il paziente Farmaci, consapevolezza e supporto medico sono le prime tappe da affrontare per aiutare il paziente. È importante concordare con il neurologo che segue l’ammalato il farmaco giusto ed insieme decidere come e quando assumerlo. Questo aspetto dà il via ad un processo di autogestione. Nel momento in cui si sta assumendo il farmaco, è fondamentale capire gli effetti sul malato: sarà il paziente a notare le eventuali modifiche e i miglioramenti da apportare considerata la sua condizione. Tradizionalmente nella gestione della malattia di Parkinson vengono coinvolti neurologi o geriatri, che effettuano trattamenti basati esclusivamente sulla terapia dopaminergica o altri interventi farmacologici. Il tipo di terapia dopaminergica è efficace nel ridurre i sintomi motori, tra cui la bradicinesia (lentezza dei movimenti). Ha però un beneficio limitato nei sintomi non motori del morbo, come la depressione, l’ansia, il declino cognitivo, la disfunzione del sistema autonomo (disturbi della vescica, sudorazione, disfunzione erettile) e nei problemi sensoriali. Oggi si ritiene che per raggiungere uno standard di eccellenza nella cura debbano essere coinvolti un gruppo multidisciplinare di medici in grado di personalizzare la cura a seconda delle esigenze specifiche del paziente, della famiglia, o di coloro che li assistono. Un tale trattamento multidisciplinare può coinvolgere diversi specialisti, tra cui fisioterapisti, logopedisti, dietisti, assistenti sociali e sessuologi. Il neurologo determina la gravità della malattia e stabilisce il trattamento medico, mentre i vari terapisti lavorano congiuntamente per ridurre il processo della malattia e per migliorare la partecipazione della persona alle attività quotidiane. Anche se la malattia di Parkinson è l'unica patologia cronica neurodegenerativa per la quale esistono effettive terapie sintomatiche, nessuno dei trattamenti può rallentare effettivamente la naturale progressione della patologia. Vivere con il Parkinson comporta una serie di cambiamenti nello stile di vita, sia per il paziente che per le persone che gli stanno accanto. Risulta difficile accettare la realtà, il paziente si rende conto che qualcosa non funziona nel controllo del proprio corpo, e anche per coloro che gli vivono accanto non è facile comprendere cosa stia accadendo. Il malato spesso manifesta una forma di depressione, che non è sempre semplice da diagnosticare perché i sintomi vengono spesso confusi con quelli causati dai ritardi e dall'agitazione psicomotoria, dalla fatica nei movimenti e dalla perdita dell'appetito. Molti sintomi inoltre, come la perdita di peso o l'insonnia, vengono considerati come manifestazioni della patologia e non come sintomi depressivi. Nei primi stadi spesso i malati hanno un senso di irritabilità, in altri casi invece si possono anche manifestare casi di depressione grave con sensi di colpa, pianto, perdita di forze e persino pensieri suicidi. Nella fase di trattamento farmacologico per la malattia di Parkinson spesso sono le condizioni psicologiche a peggiorare, talvolta diventa necessario introdurre un trattamento specifico per la depressione. Dal momento che lo stile di vita subisce un cambiamento notevole, il dialogo in famiglia è molto importante, sia per lo scambio di informazioni, che per il sostegno che può essere dato all’ammalato. Una maggiore conoscenza della patologia può aiutare a ridurre l'ansia, migliorando la capacità di far fronte a disabilità emergenti. Studi recenti dimostrano come un programma di educazione sia efficace nel migliorare nei pazienti la percezione della propria salute, nel fornire informazioni e sostegno psicologico e nella collaborazione con il medico al fine di ottenere il miglior trattamento. Prendersi cura del proprio benessere emotivo (salute mentale) è un aspetto vitale nella gestione della malattia. La demenza è il sintomo più comune con lo sviluppo della malattia in età avanzata e può accadere in circa il 40 % di tali pazienti (Alonso et al, 2003.) Questa forma di demenza è essenzialmente causata da differenti alterazioni che avvengono nella corteccia cerebrale, ma la sua base patologica è complessa. Si ritiene che uno dei meccanismi potrebbe essere il deficit dopaminergico che causa i sintomi motori. Una delle nuove terapie per dare sostegno ed aiuto all’ammalato è la terapia di gruppo. Il gruppo è composto da un insieme di individui che condividono uno scopo comune che è caratterizzato da un rapporto di interdipendenza. Questa terapia permette attraverso l’osservazione e il dialogo con gli altri di acquisire informazioni significative per imparare a comprendere ed accettare la propria patologia. Il lavoro di gruppo mette le persone in costante relazione con gli altri facendogli sperimentare una situazione che li aiuta ad adottare comportamenti spontanei ed ad esprimersi liberamente. L’utilizzo di questo intervento parte dalla consapevolezza dell’individuo di non essere solo, ma in continuo rapporto con gli altri. Ed è proprio nel contatto relazionale che l’uomo traccia i suoi confini e delimita le sue dimensioni emozionali ed affettive. È nel contatto con persone che il paziente trova se stesso ed in questo modo si innesca un potere curativo. Il pensiero psicoanalitico sostiene che il gruppo soddisfa "il bisogno universale di appartenenza e della necessità di instaurare una condizione di unità psicologica con gli altri, che rappresenta il desiderio nascosto di ristabilire un primigenio stato di benessere incontrastato inerente all’unione esclusiva con la madre" (Tuttman1986). Il sostegno psicologico è una terapia che viene consigliata in soggetti con patologie psichiatriche che possono essere associate al morbo di Parkinson per dare una migliore qualità di vita al malato. 2.2.Trattamento chirurgico I trattamenti nel caso di malattia di Parkinson sono vari e tra questi un grande passo in avanti nella terapia della malattia è stato dato da quello chirurgico. La chirurgia nella cura del morbo nasce da un intervento avvenuto nel 1942, ad un paziente affetto dal morbo. Durante l’operazione, in seguito alla chiusura della arteria carotide, sopravvenne un infarto alla parte laterale e anteriore del talamo che provocò l’immediato cessare del tremore. In seguito un neo chirurgo americano Cooper avviò la pratica della chirurgia lesionale dei nuclei ventrale anteriore e ventrale del talamo per eliminare il tremore. Le procedure chirurgiche comprendono: - stimolazione profonda del cervello; - rimozione delle lesioni - trapianto di cellule (Emborg EM., 2007). attualmente la tecnica più utilizzata è la chirurgia stereotassica, che permette di trattare i punti situati in profondità nel parenchima attraverso l’utilizzo di dispositivi radiologici. La scoperta che alcuni nuclei responsabili della patologia, come il globo pallido e il nucleo subtalamico, potevano essere trattati chirurgicamente ha permesso di elaborare una tecnica, detta Deep Brain Stimulation (DBS), che porta ad una buona riduzione nella dipendenza da levodopa (Lopiano L. et al., 2005). Questo tipo di intervento viene utilizzato su soggetti anziani con la malattia in stato avanzato, che hanno problemi legati all’assuefazione derivante dall'uso prolungato di Levodopa. La stimolazione profonda del cervello ha il vantaggio di essere reversibile e regolabile. La stimolazione effettuata alte frequenze nella profondità del cervello e la stimolazione del nucleo subtalamico sembra sia l’intervento più idoneo nella terapia della malattia. Molti studi hanno infatti dimostrato che grazie a questo tipo di chirurgia non vi è progressione nella rigidità, nel tremore e nella bradiscinesia (Lopiano.et al,2005) . 2.3. Trattamento riabilitativo Sappiamo che l’attività sportiva giova all'organismo, ma nel Parkinson il movimento è compromesso e il paziente tende ad una vita sedentaria. Gli studi effettuati sui malati di questa patologia hanno rilevato come gli interventi di terapia fisica possano migliorare oltre che la forza muscolare anche la flessibilità e l’equilibrio (Van Nimwegen et al, 2010), gli effetti più immediati sono un miglioramento nella performance motoria e nelle abilità cognitive e funzionali (Ebersbach et al, 2008). E’ stato dimostrato che l’esercizio fisico porta ad una riduzione del tasso di mortalità negli individui affetti dal morbo. L’allenamento aerobico in riduce i sintomi motori e migliora il benessere fisico. Il regolare effetti esercizio positivi ha sulla infatti regione frontale, in quanto media le funzioni esecutive. Presenta inoltre effetti angiogenici, cioè lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni che partono da altri già esistenti, migliora la funzione cognitiva specialmente nei processi esecutivi. Si rende così necessario un ciclo di riabilitazione motoria che stimoli e corregga l'esercizio fisico quotidiano sin dalle fasi iniziali della malattia. È importante che il paziente sia veramente disposto ad applicarsi per trarne il massimo beneficio, mettendo tutto il suo impegno. È stato dimostrato che l'uso di stimoli visivi o uditivi (i cosiddetti “cues”) possono migliorare la lunghezza del passo, i blocchi improvvisi della marcia (“freezing”) e l'equilibrio. Molto importante è l’utilizzo del tapis roulant (“tappeto ruotante”), strumento fondamentale per migliorare le caratteristiche del passo (lunghezza e velocità) dei pazienti affetti dal morbo. I deficit nel controllo posturale nei pazienti possono essere invece influenzati positivamente dall’allenamento di biofeedback fondato sull’equilibrio dinamico (Mirelman et al, 2011). Il paziente ha difficoltà nell'iniziare in maniera automatica un movimento ed a mantenerlo nel tempo. Se si utilizza un tapis roulant l'ammalato è obbligato dallo scorrimento a mantenere un ritmo corretto e costante del cammino, allenandosi così in maniera efficace. Importante quindi è praticare la fisioterapia, con aree principali di trattamento quali la deambulazione, l’equilibrio, i trasferimenti (ad esempio il girarsi sul letto o l’ alzarsi da una sedia), l’atto di afferrare gli oggetti. Le terapie occupazionali e logopediche, utilizzate per preservare la parola e la deglutizione, sono invece prescritte e praticate non solo per migliorare le funzioni motorie e le attività della vita quotidiana, ma anche per evitare l’insorgere e l’aggravamento di sintomi che pongono i pazienti a rischio di morte precoce quali la disfagia (Raynsmar et al, 2011). Anche le terapie psicologiche psico-dinamiche o quelle cognitivo-comportamentali, vengono spesso consigliate ai malati di Parkinson ed ai loro caregiver, con il fine di fornire loro un supporto costruttivo nell’affrontare la diagnosi ed il decorso della malattia 2.4. Trattamento socio-ambientale Il trattamento di gruppo oggi è considerato un approccio valido per aiutare l’ammalato ad uscire dalla ghettizzazione della malattia e a condividere con gli altri i propri dolori fisici e non. Nei gruppi di sostegno si osserva l’evolversi di varie fasi psicologiche: la negazione della malattia è un aspetto fondamentale, in quanto la mancata accettazione porta ad un conseguente psicologico. richiede Il isolamento malato spontaneamente non un intervento psicologico. Spesso può mostrarsi irritato o scostante verso le persone vicine: familiari, amici, psicologo, coordinatore del gruppo di sostegno. Anche in questa fase il rischio dell’isolamento è molto elevato. Una fase successiva è la contrattazione: il malato abbandona la collera e cerca di migliorare la sua qualità di vita. Assume atteggiamenti più benevoli verso i familiari e, nell’intervento psicologico, assume un atteggiamento collaborativo. Segue la depressione, il paziente comprende che la propria vita è cambiata ed entra in un doloroso processo di rassegnazione. Pur consapevole della necessità del sostegno psicologico, si riduce nel paziente la forza di volontà, e l’ energia per accettare la terapia per affrontare questa nuova realtà. Solo dopo un lungo periodo l’ammalato arriva alla accettazione della malattia. Il paziente abbandona la collera e la depressione, per raggiungere una serena rassegnazione. Con l’aiuto del sostegno psicologico e del gruppo, è importante stimolare il paziente ad interessi ed iniziative per migliorare la sua qualità di vita. La psicosi nella malattia di Parkinson è molto comune, alcuni pazienti presentano sintomi lievi come le “illusioni non fastidiose”. Un numero minore di pazienti soffre di allucinazioni uditive. Il dottor Okun, nello studio sulla gestione delle psicosi di tale patologia, descrive le illusioni di tipo paranoico. L’ammalato inizialmente si rende conto che quello che sta vedendo o sentendo non è reale. Secondo Okun: “Nelle fasi successive [di psicosi], i pazienti possono essere confusi e alterare la cognizione della realtà, cioè, non sono in grado di distinguerla” ( Okun,2002). Per il caregiver diventa molto impegnativo e stressante aiutare l’ammalato. I farmaci usati per la cura del Parkinson aumentano i livelli di dopamina nel cervello. La dopamina è un neurotrasmettitore che funziona come trasportatore di informazioni da un neurone all’altro. La Levodopa (L- Dopa) è il farrnaco che sostituisce la dopamina nell’organismo umano ed ha un effetto curativo nel controllo del movimento e delle allucinazioni. La psicosi non richiede sempre un trattamento, i medici cercano le cause che hanno determinato le allucinazioni per poi decidere la cura più adeguata. L’uomo vive nell’ambiente ed è parte integrante di questo, tutte le sue componenti sono interdipendenti e si scambiano. Questi continui aspetti richiedono un adattamento da parte dell’individuo che è sottoposto a continue sollecitazioni (o fattori di stress). Per difendersi l’uomo è dotato di una grande capacità di adattamento, ma l’adattamento produce stress che crea effetti diversi da persona a persona. Nella malattia di Parkinson i fattori di stress psicologici giocano un ruolo molto importante. Il malato di Parkinson ha una tendenza all’ansia, all’angoscia, alla depressione e le abitudini della vita moderna, contribuiscono ad indebolire le capacità di adattamento e l’efficacia del sistema immunitario, peggiorando la sua qualità della vita Capitolo 3 3.1. Consigli al familiare Colui che si occupa del malato è definito caregiver (di solito è un familiare) ed accudisce il paziente affetto dal morbo, spesso anche nella fase più avanzata della malattia come la demenza . Prestare assistenza quando si è coinvolti affettivamente rende tutto più difficile, dando vita a sentimenti contrastanti. I familiari del paziente si trovano ad affrontare la sofferenza di vedere cambiare progressivamente il proprio caro (padre, madre, marito, moglie). Il malato infatti modifica il proprio rapporto con gli altri perdendo le capacità e parte di quella identità che prima lo contraddistinguevano come persona. Questo processo di “separazione” e di “perdita”, che il parente deve affrontare è molto simile ai sentimenti che si provano quando si vive un lutto. Una delle fasi che il caregiver deve affrontare è la negazione: il rifiuto di credere che il suo caro sia affetto dal morbo e dalla demenza. A questo aspetto subentra una fase di iperattivismo: il bisogno di fare tutto il possibile per sostenere e dare il proprio aiuto all’ammalato. In un secondo momento il caregiver inizia a provare sentimenti contrastanti, tra i quali la collera, che sopravviene per la delusione e la frustrazione di fronte all’impossibilità di fermare il progredire della malattia, affiancata dal senso di colpa in quanto il familiare si rende conto di aver influenzato con i propri stati d’animo negativi il paziente. Solo con il tempo si riesce a trovare un equilibrio, a comprendere la malattia del proprio caro ed ad abituarsi alla sua presenza costante: si inizia ad accettare la propria impotenza ed il proprio dolore e si potranno assumere comportamenti più sereni. Il ruolo del caregiver è quello di incoraggiare l’indipendenza del malato, spronandolo a svolgere da solo, o con un occhio di controllo da parte del familiare, le mansioni quotidiane. Aiutare a stimolare la memoria residua del paziente, coinvolgendolo nella vita familiare. Colui che assiste il malato non deve essere eccessivamente protettivo, deve fornire il proprio aiuto solo quando è necessario e variando il supporto in base alle capacità ancora presenti nel paziente e alle sue abitudini di vita, in quanto la presenza del familiare pronto ad intervenire costantemente in suo aiuto potrebbe peggiorare il senso di emarginazione ed isolamento che la malattia crea. Il caregiver deve prendersi cura anche di se stesso, non è umanamente possibile dedicare tutto il proprio tempo all’ammalato. 3.2. Sostegno psicologico all'ammalato ed ai familiari Sotto il profilo psicologico è come se il parkinsoniano affrontasse una continua lotta contro quello che è il suo carattere, una ricerca di autonomia dalla dipendenza sopravvenuta, un alternarsi da uno stato di aggressività ad uno di passività, da un desiderio di azione all’immobilità, da una fase di autostima ad una disistima di sé. Questo alternarsi di sentimenti porta il malato ad allontanarsi dalla realtà. A tal proposito è importante dare un sostegno di tipo psicologico, individuale, di coppia e di gruppo. Rilevante in questi soggetti è usare la terapia della motivazione. Per motivazione si intende uno stato interno che attiva, dirige e mantiene nel tempo il comportamento di un soggetto, quindi è la causa del comportamento. Deriva dal latino movêre, cioè mettere in movimento. Si riferisce alla “spinta” che porta l’individuo a comportarsi in un certo modo. E’ uno stato o un desiderio di cambiare, che varia di volta in volta in base alle situazioni che si creano nel tempo. Lo scopo di questa terapia consiste nella rivitalizzazione degli interessi per gli stimoli esterni, nell’ indurre il malato a relazionarsi con gli altri e ad affrontare e discutere di argomenti contingenti della realtà circostante. (Spanò Sono tecniche che vengono costruite e personalizzate con et al, 2012) il paziente, per stabilire insieme degli obiettivi che contribuiscono alla creazione di motivazioni personali il cui raggiungimento porta ad un evidente miglioramento della salute (Rubak et al, 2005). Tali tecniche incoraggiano l’autonomia del paziente nel decidere quali cambiamenti sono necessari e come possono essere raggiunti. Questa terapia è particolarmente indicata in pazienti con sintomi depressivi. Altro supporto innovativo nel trattamento di malattie neuro-psichiatriche, come il morbo di Parkinson, è la terapia di gruppo che ha dato buoni risultati, e che cerca di utilizzare la forza del gruppo e la condivisione con gli altri. Attraverso il contatto l’uomo traccia i suoi confini e delimita le sue dimensioni emozionali ed affettive, fornendo risultati soddisfacenti nel quadro dei comportamenti interpersonali necessari per vivere la malattia in modo “creativo” e “autonomo”. È nel contatto con gli altri che l’essere umano trova se stesso, nel luogo dove l’Io riesce ad unire la sua creatività ed unicità con l’adattamento sociale. L’elemento comune a tutti gli approcci di gruppo è il riconoscimento del potere curativo della relazione con gli altri, il “ripristino dei vincoli sociali”, che vede come punto di partenza il superamento della solitudine e dell’isolamento (Herman, 1992). Tale momento può essere visto come una desiderata sosta dall’isolamento, dalla solitudine, dalla “ghettizzazione” e come una forza più compatta per gestire le problematiche della malattia, con l’arricchimento del sostegno e del confronto. Il pensiero psicoanalitico sostiene che il gruppo soddisfa "il bisogno universale di appartenenza e della necessità di instaurare una condizione di unità psicologica con gli altri, che rappresenta il desiderio nascosto di ristabilire un primigenio stato di benessere incontrastato inerente all’unione esclusiva con la madre" (Tuttman 1986), il "non confermare la sensazione di unicità…." ed il "benvenuto nell’esperienza della stirpe umana" (Yalom, 1983). Il Sé come prodotto dell’interazione sociale porta nella sua distinzione dell’"altro da Sé", la figura materna, alla formazione dell’Io, che è la componente implicita del Sé. Dopo l’Io si forma il Me, la componente esplicita, che rappresenta la coscienza di come il Sé è visto dagli altri (Mead G.H.). Tra le tecniche psicologiche che hanno dato risultati positivi in questa malattia abbiamo la Bioenergetica. La Bioenergetica presuppone che ogni soggetto abbia un'energia vitale, che mette in continua interazione corpo e mente, intervenendo sulla respirazione, sulla contrazione, sul rilassamento muscolare, sulle motivazioni, sulle sensazioni, sulle emozioni e sui sentimenti. L’ipnosi, il Mental training e l’immaginazione guidata aiutano il malato di Parkinson ad affrontare nel miglior modo i continui cambiamenti interpersonali e relazionali. Anche colui che aiuta e sostiene il paziente ha bisogno di sostegno. Si tratta di persone non di rado stanche, frustrate, ma coraggiose e tenaci, che cercano di rendere la vita dei propri parenti più dignitosa. Per l’ammalato sono un sostegno indispensabile, vengono chiamati informal caregiver (curanti informali) che si distinguono dai formal caregiver (curanti formali) che sono i medici, gli infermieri e tutto il personale formato per prestare assistenza sanitaria. Si tratta di familiari o amici che, senza avere particolari conoscenze mediche, si prendono cura di un paziente per tutta la durata della malattia. Secondo una ricerca del 2005 della Center on Aging Society di Washington: il 16% dei caregiver si sente esausto; il 26% avverte come imponente il peso emotivo del loro compito; il 13% vive una profonda frustrazione vedendo l'assenza di miglioramento del proprio caro; il 22% arriva a fine giornata spaventato dal timore di non essere in grado di saper fronteggiare le responsabilità del ruolo, spaventato dal futuro che lo attende, dalla propria impotenza. Oggi la ricerca è rivolta anche nei confronti del caregiver, queste persone soffrono quanto il malato. L’intervento psicoeducativo nella malattia di Parkinson è cercare di migliorare la qualità della vita sia nel malato che nel caregiver. Questo intervento voluto dalla commissione Europea, prevede una fase teorica dove vengono date informazioni sulla malattia ed una fase pratica in cui è possibile acquisire praticamente le capacità per affrontare e gestire il morbo. Nella fase teorica il familiare prende informazioni sul decorso del Parkinson, e su come affrontarla, chiedendo consulenza sul piano assistenziale ma anche psicologico, come la creazione di gruppi di autoaiuto per poter ascoltare ed esprimere le proprie esperienze, le proprie emozioni in un confronto che aiuta ad elaborare e ad accettare il proprio ruolo. Il Burden del caregiver familiare è quindi il “carico”, il “fardello”, il “peso” psicologico e fisico che influisce negativamente sia sulla sua che sull’assistenza al familiare malato. Il caregiver può quindi sentirsi ‘intrappolato’ anche quando l’amore con cui continua a sostenere il suo ruolo è autentico. Oggi i casi di sofferenza fisica e psichica di chi assiste il malato sono in aumento per il semplice fatto che sono in aumento i caregiver stessi . Si è riscontrato che prendersi cura di una persona è stressante e che i caregivers informali di pazienti dementi spesso hanno un disagio psicologico come l’ansia o la depressione, problemi di salute fisica, isolamento sociale e diminuzione del tempo da dedicare ai bisogni personali. Ricerche sono state fatte per individuare quali sono le cause ed il carico soggettivo al fine di ottimizzare tutti quegli interventi (psicologici, sociali, farmacologici) in grado di alleviare i compiti e le responsabilità legate all’assistenza, in modo tale da migliorare il benessere psicologico del familiare e la sua relazione con il paziente. Di fatto una buona relazione tra il caregiver e l’anziano affetto da demenza ha effetti positivi sull’evoluzione della malattia e può alleviare alcuni sintomi comportamentali. Stress, ansia e depressione nei caregiver di pazienti affetti da demenza risultano spesso correlate tra loro ed associate con variabili simili. Confrontando però i risultati delle diverse indagini spesso è possibile individuare risultati contrastanti circa specifiche associazioni. Per questo motivo è necessario condurre indagini. Per migliorare le condizioni dei caregiver sarebbe utile intervenire in due direzioni: cercare di dedicare più tempo a se stessi ed informarlo. Dare ai caregivers la possibilità di usufruire di interventi finalizzati ad affrontare il senso di fallimento e lo stress fisico, fornendo sostegno psicologico individuale, quale counseling breve o supporto psicologico continuativo ed informale. Gli interventi di sostegno dovrebbero essere strutturati in modo da non richiedere al caregiver un eccessivo investimento di tempo personale e di risorse psicofisiche per evitare un aumento del carico soggettivo. 3.3. Rottura dell'isolamento e confronto con persone con problemi analoghi Le malattie degenerative e croniche hanno un decorso lento che distrugge il sentimento di autostima che si ha di se stessi con ripercussioni psicologiche. Accettare propria che vita la sta cambiando nell’ammalato di Parkinson e che ogni cambiamento segue un inevitabile adeguamento, provoca una uno stato di stress continuo. Anche se è una malattia neurologica dovuta alla carenza di dopamina, sullo stato di benessere della persona giocano un ruolo importante anche i fattori psicologici: situazioni di stress possono avere forti effetti negativi sui sintomi motori rendendo inefficace il trattamento farmacologico. Spesso il malato ha problemi motori in pubblico scatenandogli stress, e allontanandolo dagli altri portandolo talune volte ad una totale chiusura sociale. Importante affrontare per il paziente sedute psicologiche dove vengono analizzate le situazioni che provocano disagio, aiutandolo ad effettuare il training per superare lo stress e ad evitare un isolamento sociale attraverso l’accettazione della malattia. È fondamentale per il malato far conoscere ai familiari i sentimenti che prova in quel momento: come vive la malattia e cosa significa per lui. In determinate circostanze vengono introdotti anche “giochi delle parti” tramite “videofeedback”, così il malato può esercitarsi applicando, in situazioni problematiche ricorrenti, determinate regole di comportamento. Il problema non va affrontato chiudendosi in se stessi con la propria malattia e isolandosi socialmente, è invece necessario imparare ad utilizzare al meglio i propri spazi di benessere fisico. Incontri di gruppo costanti tra gli ammalati e i loro partner sono un valido metodo psicologico, perché in questo contesto il malato è portato ad accettare più facilmente il confronto sulle difficoltà e viene stimolato ad essere più attivo. Nel gruppo è possibile ed utile essere seguiti da un esperto per sfogare l’aggressività e le tensioni interne che possono compromettere la relazione con gli altri. In questo contesto si è maggiormente motivati a realizzare una corretta respirazione, a rilassarsi e ad attuare i movimenti corretti, ad imparare ed a riorganizzare le proprie energie nei momenti di crisi motoria nella deambulazione e nel linguaggio. È importante imparare a cercare di avere un pensiero creativo e positivo da utilizzare per affrontare momenti di difficoltà. Lavorare con il gruppo rinforza il malato, aiutandolo ad un migliore adattamento e stimolandolo nella creatività. 3.4. Come far fronte all'evoluzione della malattia I sintomi che caratterizzano alcune volte l’insorgenza della malattia sono: perdita dell’olfatto, stipsi, tempi di reazione lunghi, livelli alti di emoglobina e sonnolenza diurna. Questi non sono sintomi determinanti ma possono essere predittivi e spesso si evidenziano 7 - 8 anni prima delle disabilità motorie. Fondamentale è la diagnosi precoce per affrontare le cure giuste per rallentare l’avanzare del Parkinson. I sintomi principali della malattia sono la perdita del controllo motorio, la rigidità degli arti, ma quando questi sintomi sono evidenti la malattia è già in uno stadio avanzato, e già ha alterato la vita e la quotidianità dell’individuo. Il medico è fondamentale per dare le corrette informazioni e suggerimenti utili sullo stile di vita da adottare. Una volta ottenute le informazioni il paziente sarà agevolato nell’affrontare la malattia e stimolato ad avere un approccio propositivo, positivo ed anche combattivo. Il paziente potrà accettare di essere malato solo dopo aver avuto le giuste informazioni ed aver capito le reali cause della malattia e le sue conseguenze, riuscendo a mettere in atto comportamenti utili per convivere nel miglior modo possibile con la patologia. Importante nel Parkinsoniano è l’allenamento fisico che migliora le capacità motorie e cliniche, mentre è stato rilevato che ciò non avviene con una vita sedentaria e stressante. Infatti questo tipo di vita favorisce la progressione della disabilità clinica e della malattia. Per combattere e rallentare il decorso del Parkinson bisogna praticare esercizio motorio, cognitivo ed attività ludiche. La cura di sé è fondamentale ed è alla base per raggiungere uno stato di benessere. Bisogna effettuare esercizi, avere una corretta alimentazione e cercare di raggiungere uno stato di relax, bilanciando questi fattori in modo da aiutare il corpo e la mente a svolgere nel miglior modo possibile i propri compiti quotidiani. Si è riscontrato che le persone già affette da questa malattia che praticano uno sport riducono del 70% il rischio di cadute e migliorano l'umore. Nelle cure spesso però si presta grande attenzione a quelli che sono i bisogni fisici del paziente e si tralasciano i bisogni mentali e sociali. È essenziale per l’ammalato essere stimolato psicologicamente in modo da risvegliagli vecchi interessi. Altro fattore importante sia per la sicurezza dell’ammalato che dal punto di vista terapeutico in caso di demenza, è l’ambiente. Infatti nelle varie fasi della malattia può condizionare sia lo stato funzionale che il comportamento del paziente. La comunicazione con il malato in una fase avanzata del Parkinson con sintomi di demenza si riduce e bisogna seguire degli accorgimenti: controllare le capacità visive, uditive, cercare di essere chiari nello scandire le parole, mostrare affetto con contatto fisico ed essere attenti al linguaggio corporeo del malato, che spesso riesce a comunicare solo con messaggi diversi da quelli verbali. 3.5. Supporto alle esigenze dei familiari Il Parkinson per la famiglia rappresenta un momento di crisi pur essendo una malattia che ha una insorgenza graduale. In genere si ritiene che quando il morbo colpisce un familiare, i parenti e spesso il coniuge debbano comportarsi razionalmente, manifestando comprensione e solidarietà per l’ammalato. Ma alcune volte il confronto con la malattia può provocare reazioni inaspettate: alcune famiglie cercano di essere collaborative nell’affrontare la malattia, altre non riescono ad accettarla. L’ andamento progressivo della patologia richiede al nucleo familiare un continuo adattamento ai vari cambiamenti che si presentano con il progredire del morbo. Proprio per il suo continuo evolversi è importante conoscere tutte le caratteristiche della malattia in modo da imparare a gestirla senza lasciarsi prendere dallo sconforto. Importante è accettarla e affrontarla giorno per giorno, perché è lunga e accompagna il malato dal momento della sua insorgenza per tutto l’arco della sua vita. La prima difficoltà che si presenta, sia per il paziente che per i familiari, è l’accettazione della diagnosi. Comprendere la diagnosi e diventare consapevoli di ciò che comporta essere ammalato di Parkinson spesso provoca nell’intero nucleo familiare uno stato di profonda depressione, disperazione ed impotenza. Inizialmente può succedere di negare la malattia in modo da non dovere affrontare un dolore insostenibile, provocando un ritardo nell’iniziare le cure. A prendersi cura dell’ammalato spesso è un coniuge o un figlio. Questi sono costretti ad adattarsi e ad effettuare continue modifiche agli equilibri ed alle dinamiche familiari, per aiutare il paziente ad affrontare la comparsa di nuovi sintomi. In alcuni casi la famiglia manifesta stanchezza e sofferenza per lo stress psico-fisico causato dall’assistenza del malato. I familiari come il paziente hanno bisogno sia di aiuto pratico, sia di sostegno affettivo per potersi adattare a questi continui cambiamenti e situazioni negative che si presentano continuamente. Quindi informazioni ed assistenza psicologica sono essenziali per aiutare i malati e i famigliari ad affrontare e le nuove situazioni e a migliorare la solidarietà all’interno della famiglia. Solo attraverso l’accettazione dei reciproci problemi che i componenti della famiglia possono reagire in modo costruttivo. Un terzo dei familiari sono lavoratori e sono costretti a sommare l’attività assistenziale a quella lavorativa e il loro ruolo è fondamentale perché solo grazie al parente il paziente riceve conforto ed assistenza di cui necessita. La maggiore sfida che il caregiver si trova ad affrontare è quella di riuscire a gestire quotidianamente l’assistenza al familiare malato, in contemporanea ad altre attività ,come occuparsi della casa, le pulizie del malato, le cure mediche, l’assistenza alle terapie e l’organizzazione per coordinare le varie persone che forniscono assistenza. Curare ed assistere un ammalato di Parkinson può essere un espressione di amore verso una persona cara ma allo stesso può diventare sia fisicamente che psicologicamente un compito gravoso ed esasperante. L’impegno richiesto può diventare molto pesante procurando stress al familiare. È quindi importante elaborare cognitivamente ed affettivamente la malattia, comprendere, accettare le emozioni che prova l’ammalato. Questa elaborazione avviene nel tempo, poco per volta dando la possibilità al malato ed ai familiari di adattarsi ai cambiamenti. Le esigenze da soddisfare dei caregiver sono l’informazione sul procedere della patologia e sulla terapia medica da seguire. Nei familiari nasce il bisogno di avere conferme rispetto ai nuovi ruoli che vengono assunti. La nuova realtà che il partner è costretto ad affrontare gli provoca un senso di disagio, e solo attraverso una rete di informazioni e consigli può essere messo in condizione di svolgere al meglio la nuova attività. Importante è confrontarsi con chi è nella stessa situazione, favorendo lo scambio d’informazioni, e cercare un supporto psicologico, perché anche colui che non vive la malattia in prima persona ha necessità di conforto, ascolto e sostegno psicologico. Il familiare ha bisogno sia di un sostegno affettivo che di un aiuto pratico per abituarsi a questa nuova situazione che gli può provocare stanchezza, e sofferenza per lo stress psicofisico causato dall’assistenza a casa del malato. Quindi un corretto piano assistenziale e terapeutico deve coinvolgere sia il malato che tutti i componenti della famiglia. Conclusioni Con il progressivo allungamento della vita media stanno assumendo sempre maggiore importanza le problematiche correlate all’invecchiamento e, tra queste, disturbi cognitivi di funzioni quali la memoria, il ragionamento, il linguaggio, l’orientamento, o ancora disturbi comportamentali che riguardano la sfera emotiva e la capacità di rapportarsi correttamente alla realtà. A questo proposito lo scopo dello studio nasce per approfondire la conoscenza delle varie fasi del morbo di Parkinson, malattia cronica neuro degenerativa progressiva che colpisce più comunemente gli anziani. Uno degli obiettivi della tesa è stato quello di approfondire l’impatto che questa patologia ha sull’intero nucleo familiare, cercando di comprendere le dinamiche che si creano tra il malato e i suoi caregiver. In questo studio si è evidenziato come la qualità di vita dei malati di Parkinson e di chi li assiste sia notevolmente alterata a causa dei sintomi della patologia e di come essi necessitino di informazioni specifiche, che prevengano i rischi, migliorando la quotidianità. Per alleviare efficacemente l’impatto della malattia sui pazienti e sui loro caregiver è necessario dunque valutare tutti i fattori legati alla patologia per poterla conoscere ed affrontarla insieme, sostenuti e guidati da dei professionisti della salute. Bibliografia 1.Baldereschi M, Di Carlo A.,Rocca W, Vanni P.Maggi S. Perissinotto E. Grigoletto F. Amaducci L. Inzitari D. Parkinsons disease and Parkinson in a Longitudinal study Neurology Novembre 2000. Pag 14,55:1358-63 2. Bonifati V.Rohe CF. Breedyeld GJ. 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