Parkinson, l`importanza dell`assistenza al paziente e ai

UNIVERSITA’ TELEMATICA INTERNAZIONALE UNINETTUNO
FACOLTA’ DI PSICOLOGIA
CORSO DI LAUREA IN
DISCIPLINE PSICOSOCIALI
Elaborato finale
In
Psicobiologia del comportamento umano
Parkinson, l'importanza dell'assistenza al paziente e ai
caregiver
Relatore: Giusy Olivito
Docente d'area: Walter Adriani
Candidato: Raffaella Ferretti
Matricola: 2048HHHCLDIPSI
Anno accademico
2014/2015
INDICE
Introduzione
Capitolo 1
1.1 - Cenni storici
1.2 - Cenni di anatomia
1.3 - Aspetti clinici e diagnostici
1.4 - Trattamento farmacologico
Capitolo 2
2.1 - Come aiutare il paziente
2.2 - Trattamento chirurgico
2.3 - Trattamento riabilitativo
2.3 - Trattamento socio-ambientale
Capitolo 3
3.1 - Consigli al familiare
3.2 - Sostegno psicologico all'ammalato ed ai familiari
3.4 - Rottura dell'isolamento e confronto con persone con problemi analoghi
3.5 - Come far fronte all'evoluzione della malattia
3.6 - Supporto alle esigenze dei familiari
Conclusioni
Bibliografia
Introduzione
Parkinson, l' importanza dell'assistenza al paziente e ai caregiver
La malattia di Parkinson è una patologia cronica neurodegenerativa che comporta
deficit motori e non-motori notevolmente disabilitanti. Colpisce il 2% della popolazione
e crea un decremento della qualità della vita strettamente correlata ad una diminuzione
dell’autonomia fisica, del grado di percezione cognitiva e del benessere psico-emotivo,
fino a raggiungere una elevata alterazione del grado di abilità nello svolgere le attività
della vita quotidiana. Questi deficit progrediscono fino a portare nel tempo ad una
disabilità ed inabilità psicofisica totale. Lo studio del morbo di Parkinson richiede un
approccio multidisciplinare non solo nella situazione di acuzie, ma durante tutta
l’evoluzione della malattia in quanto è una patologia complessa che presenta anche
molti aspetti non prettamente neurologici.
I sintomi della malattia risultano avere un impatto notevole anche sulla qualità di vita di
chi eroga l’assistenza al soggetto malato, coloro che vengono denominati caregiver, e
che si occupano di curare la persona affetta da tale morbo. La presenza di un caregiver è
associata ad un miglioramento del decorso della malattia in termini di ridotta mortalità e
di un mantenimento adeguato della qualità di vita del paziente, ma il disagio psicologico
che accompagna la comparsa di una malattia, improvvisa e progressiva, rappresenta la
rottura di un equilibrio, in grado di produrre cambiamenti nella vita personale, familiare
e sociale. In altri termini, quando una persona si ammala, si ammala nella sua totalità.
L’obiettivo di questo lavoro è quello di definire il ruolo del caregiver e di sostenerlo
durante la fase relativa alla presa in carico della persona affetta dal Parkinson, al fine di
garantire una adeguata continuità assistenziale. I familiari, infatti, necessitano sia di
aiuto pratico, sia di sostegno affettivo per riuscire ad adattarsi agli aspetti negativi della
situazione.
Informazione ed assistenza psicologica possono, perciò, rivelarsi essenziali e decisivi
per aiutare sensibilmente i malati ed i familiari ad affrontare questa patologia ed a
migliorare la solidarietà all'interno della famiglia.
Capitolo I
1.1. Cenni storici
Il Parkinson è una malattia neurologica cronica caratterizzata da tremore, rigidità e
lentezza dei movimenti, la cui causa scatenante è tutt'ora sconosciuta.
A darle il nome fu il medico inglese James Parkinson che nel testo An Essay on Shaking
Palsy del 1817 definì “Paralisi agitante”
una patologia a carattere progressivo del
sistema nervoso centrale. La descrizione
del disturbo motorio, che ora porta il
suo nome, è così accurata e sintetica da
essere
attuale:
involontario,
“moto
con
forza
tremolante
muscolare
ridotta, di parti non in azione, anche
quando
vengono
sorrette;
con
propensione a piegare il tronco in avanti e a passare da un’andatura dal passo alla corsa;
assenza di alterazioni sensitive e dell’intelletto”.
Nella sua descrizione, il medico escluse che la compromissione delle capacità cognitive
fosse tipica della malattia, affermando l’assenza di alterazioni dello stato mentale.
In realtà egli stesso si era già reso conto che, anche se non dementi, i suoi malati
potevano essere affetti da numerosi sintomi riguardanti la sfera cognitiva ed affettiva,
aspetti che verranno successivamente con il tempo analizzati.
Parkinson descrisse in maniera dettagliata i sintomi della malattia, senza tuttavia riuscire
a scoprire le cause del morbo, che secondo lo studioso erano strettamente connesse alla
Rivoluzione industriale in Inghilterra, all'inquinamento che questo evento epocale aveva
provocato.
Nonostante il suo primato, il lavoro del medico inglese rimase praticamente sconosciuto
per lungo tempo. Bisogna attendere la fine del diciannovesimo secolo, parecchi decenni
dopo la sua morte avvenuta nel 1824, perché il termine “Malattia di Parkinson” venga
usato per la prima volta in un testo di medicina dal fisico tedesco Julius Althaus e
perché la rigidità muscolare venga inserita tra i sintomi della malattia dal professor Jean
Martin Charcot dell’Università Salpétrière di Parigi, che ebbe anche il merito di
distinguere questa patologia dalla sclerosi multipla e da altre malattie caratterizzate da
tremori. Charcot fu il primo ad utilizzare sui pazienti un trattamento medico
somministrando loro l'atropina, un alcaloide estratto da diverse piante della famiglia
delle Solanaceae.
La conoscenza del morbo si diffuse anche tra il 1917 ed il 1927, quando esplose
un'epidemia mondiale d'influenza, denominata "influenza spagnola", causata da un virus
che colpiva il sistema nervoso centrale. Questa provocava una infiammazione del
cervello e delle meningi che spesso si complicava fino a sfociare in una sindrome
parkinsoniana, chiamata post-encenfalica. I pazienti venivano portati in case di cura e il
trattamento consisteva essenzialmente nella somministrazione di morfina per calmarli.
1.2. Cenni di anatomia
Il morbo di Parkinson si riscontra
in maggiore percentuale nel sesso maschile
(Baldereschi et al, 2000) e i sintomi possono
comparire a qualsiasi età, ma nella maggior
parte dei casi si presentano intorno ai 60 anni.
La durata della fase preclinica, periodo di
tempo
che
degenerazione
intercorre
neuronale
tra
e
l'inizio
l'esordio
della
dei
sintomi motori, non è nota, ma alcuni studi la
datano intorno a 5 anni .( Bonifati et al, 2005)
Il termine Eziopatologia in Medicina è
utilizzato per spiegare le cause che provocano
una determinata patologia. Nel caso specifico il Parkinson è causato dalla degenerazione
delle cellule del sistema nervoso centrale, localizzate in una zona del cervello
chiamata substantia nigra, formazione nervosa che si trova in una posizione intermedia
tra mesencefalo e diencefalo. I neuroni
di questo tessuto si occupano della
produzione di una parte di dopamina,
neurotrasmettitore endogeno, che va poi
ad agire su un altro nucleo che controlla
le funzioni motorie nel cervello. I
neuroni dopaminergici nella sostanza
nera contengono un pigmento che
prende nome di neuromelanina, che dà alla cellule quella colorazione scura. Dal
momento che i neuroni muoiono o sono rimossi, tale sostanza perde il pigmento.
proprio a causa della degenerazione neuronale. I primi sintomi della malattia compaiano
quando l'80% del tessuto è stato degenerato.
In questa patologia i danni della struttura cerebrale influenzano tutti i cinque principali
circuiti che collegano le aree cerebrali: il circuito motorio, oculomotore, associativo,
limbico e orbitofrontale. Le strutture coinvolte si trovano in aree profonde del cervello,
note come gangli della base.
I gangli della base sono un gruppo di nuclei sottocorticali localizzati in entrambi gli
emisferi cerebrali interconnessi con la corteccia cerebrale, il talamo ed il tronco
dell’encefalo. I quattro nuclei che compongono i gangli della base sono lo striato,
il globus pallidus, il nucleo subtalamico e la substantia nigra.
Il nucleo striato riceve afferenze principalmente dalla corteccia e dal talamo ed è
fittamente collegato al globus pallidus e alla substantia nigra, da cui parte la maggior
parte delle efferenze (termine usato per le fibre o vie nervose che conducono in una
determinata direzione i potenziali di riposo e di azione proveniente da un determinato
punto di partenza), dai nuclei della base alle altre strutture cerebrali.
I gangli della base sono coinvolti principalmente nel movimento e partecipano alla loro
corretta esecuzione.
I neuroni dopaminergici della sostanza nera,
mostrano al microscopio dei corpuscoli
chiamati corpi di Lewy, che sono considerati
una caratteristica specifica della malattia di
Parkinson e forse sono proprio questi che
diffondono il morbo in tutto il cervello.
Tali corpi, aggregati proteici anormali di
forma sferica che si sviluppano all'interno delle cellule nervose, sono presenti anche
all'interno dei neuroni di pazienti affetti da alcuni tipi di malattie degenerative come nel
caso della malattia di Alzheimer e della sindrome di Hallervorden-Spatz.
Il loro principale costituente è una proteina denominata alfa-sinucleina presente sia a
livello dei nuclei che delle sinapsi (da qui deriva il nome), e potrebbe giocare un ruolo
fondamentale nella plasticità sinaptica. Si pensa che la malattia insorga come risultato di
una complessa interazione tra la suscettibilità genetica ed i fattori ambientali.
Si è infine osservato che i fattori genetici hanno un ruolo fondamentale in questa
patologia, in quanto predisposti nel loro genoma a mutazioni che interessano geni
codificanti per diversi classi di proteine: molecole coinvolte nel metabolismo della
dopamina, enzimi epatici deputati alla detossificazione e le proteine come la sinucleina.
1.3. Aspetti clinici e diagnostici
La diagnosi di morbo di Parkinson rimane prevalentemente clinica e si basa sulla
presenza di tre sintomi classici, insidiosi, perché progressivi. I principali segni sono: il
tremore a riposo, regola
re, che scompare durante il movimento, accentuato da sforzi ed emozioni, che scompare
nel sonno. La rigidità, la bradicinesia (lentezza dei
movimenti automatici) e, in una fase più avanzata,
l'instabilità posturale (perdita di equilibrio); Il
movimento è detto “del contare le monete” e
riguarda solitamente gli arti superiori, spesso
esordisce come monolaterale e può arrivare ad
interessare il capo.
Questi sintomi si presentano in modo asimmetrico
(un lato del corpo è più interessato dell'altro).
All’inizio i pazienti riferiscono una sensazione di
debolezza, di impaccio nell’esecuzione di movimenti consueti, e spesso i sintomi non
vengono riconosciuti immediatamente, perché si manifestano in modo subdolo,
incostante e la progressione della malattia è tipicamente lenta: non sempre il tremore è
presente in tutti i pazienti. Talvolta sono i familiari o i conoscenti che si accorgono per
primi che "qualcosa non va" ed incoraggiano l'interessato a rivolgersi al medico.
Insieme ai deficit di tipo motorio, vengono riscontrati sintomi di natura differente. Studi
sperimentali hanno infatti confermato che il morbo di Parkinson è accompagnato da un
disturbo dell’attenzione e in alcuni casi di memoria. Specificamente la memoria di
lavoro e le operazioni di recall e dating appaiono compromesse; i deficit interessano
non tanto la capacità di memorizzare, quanto la possibilità di accedere ai dati conservati
in memoria. La più comune complicanza psichiatrica in questa patologia è rappresentata
dalla depressione. Secondo alcuni autori i sintomi depressivi sono presenti nel 25-40%
dei casi. Quando la depressione compare in uno stato iniziale della malattia si è
riscontrato che si ha un più rapido declino cognitivo (Alonso et al, 2003.) Negli ultimi
anni si è compreso che il declino cognitivo associato alla malattia è più diffuso di
quanto si pensasse in passato e che può instaurarsi già nelle fasi iniziali della patologia.
La valutazione dei sintomi del paziente avviene mediante l’uso di scale di valutazione
internazionali. Una delle più usate è la Unified Parkinson’s Disease Rating
Scale(Richards et al, 1994). L’uso delle neuroimmagini inoltre consente una conferma
diagnostica soprattutto nei casi in cui la diagnosi è dubbia per la presenza di segni
clinici atipici.
1.4. Trattamenti farmacologici
Nonostante la malattia sia nota da circa quasi due secoli, le conoscenze sono progredite
in maniera significativa solo negli ultimi trenta anni. Non è ancora però possibile
guarire dal Parkinson, ma grazie alle tecniche moderne si può garantire al paziente
affetto dalla patologia, una migliore
qualità di vita.
Lo studioso Charcot fu il primo ad
avere il merito di utilizzare sui pazienti
un trattamento medico somministrando
ai degenti l'atropina, un alcaloide
estratto
da
diverse
piante
della
famiglia delle Solanaceae. Bisogna
però aspettare la fine della seconda
guerra mondiale per maggiori sperimentazioni mediche e per adottare delle soluzioni
significative per combattere questa patologia.
Negli anni sessanta si giunge all'utilizzo della Levodopa, amminoacido intermedio
e precursore naturale e chimico della dopamina per compensare la carenza del
neurotrasmettitore.
Nel tempo un ruolo fondamentale è stato ricoperto dagli anticolinergici, una classe di
farmaci in grado di antagonizzare gli effetti fisiologici dell'acetilcolina che possiedono
azione simile all'atropina e che sono detti anche "parasimpaticolitici" poiché inibiscono
l'azione del sistema nervoso parasimpatico. Sono tuttora usati, ma la loro importanza è
diminuita con l'introduzione di farmaci più efficaci, che sono denominati
dopaminergici. Questi ultimi sono in grado di compensare la carenza di dopamina nel
cervello, che come abbiamo analizzato nei paragrafi precedenti, è la causa determinante
del morbo di Parkinson.
In seguito sono stati prodotti sinteticamente altri prodotti che svolgono una azione
analoga, come la bromocriptina ed il pergolide, utilizzati in casi più gravi. Al pari passo
con i progressi della terapia cominciarono però a comparire anche effetti collaterali e
complicazioni.
Per comprendere quale sia il giusto trattamento, il paziente ha bisogno di essere
monitorato costantemente per avere il miglior riscontro farmacologico possibile.
Tuttavia, con il progredire della malattia e quindi con la conseguente carenza di
dopamina, alcune cellule
che contengono una sostanza chiamata acetilcolina,
reagiscono intensificando la propria attività. Questo porta ad un peggioramento delle
condizioni del paziente. La prescrizione di farmaci anticolinergici e dopaminergici
provvede a ridurre l'attività di queste cellule favorendo il miglioramento.
Capitolo 2
2.1. Come aiutare il paziente
Farmaci, consapevolezza e supporto medico sono le prime tappe da affrontare per
aiutare il paziente. È importante concordare con il neurologo che segue l’ammalato il
farmaco giusto ed insieme
decidere
come
e
quando
assumerlo. Questo aspetto dà
il via ad un processo di autogestione. Nel momento in cui
si sta assumendo il farmaco, è
fondamentale capire gli effetti
sul malato: sarà il paziente a
notare le eventuali modifiche
e i miglioramenti da apportare
considerata la sua condizione. Tradizionalmente nella gestione della malattia di
Parkinson vengono coinvolti neurologi o geriatri, che effettuano trattamenti basati
esclusivamente sulla terapia dopaminergica o altri interventi farmacologici. Il tipo di
terapia dopaminergica è efficace nel ridurre i sintomi motori, tra cui la bradicinesia
(lentezza dei movimenti). Ha però un beneficio limitato nei sintomi non motori del
morbo, come la depressione, l’ansia, il declino cognitivo, la disfunzione del sistema
autonomo (disturbi della vescica, sudorazione, disfunzione erettile) e nei problemi
sensoriali.
Oggi si ritiene che per raggiungere uno standard di eccellenza nella cura debbano
essere coinvolti un gruppo multidisciplinare di medici in grado di personalizzare la cura
a seconda delle esigenze specifiche del paziente, della famiglia, o di coloro che li
assistono. Un tale trattamento multidisciplinare può coinvolgere diversi specialisti, tra
cui fisioterapisti, logopedisti, dietisti, assistenti sociali e sessuologi. Il neurologo
determina la gravità della malattia e stabilisce il trattamento medico, mentre i vari
terapisti lavorano congiuntamente per ridurre il processo della malattia e per migliorare
la partecipazione della persona alle attività quotidiane. Anche se la malattia di
Parkinson è l'unica patologia cronica neurodegenerativa per la quale esistono effettive
terapie sintomatiche, nessuno dei trattamenti può rallentare effettivamente la naturale
progressione della patologia. Vivere con il Parkinson comporta una serie di
cambiamenti nello stile di vita, sia per il paziente che per le persone che gli stanno
accanto. Risulta difficile accettare la realtà, il paziente si rende conto che qualcosa non
funziona nel controllo del proprio corpo, e anche per coloro che gli vivono accanto non
è facile comprendere cosa stia accadendo. Il malato spesso manifesta una forma di
depressione, che non è sempre semplice da diagnosticare perché i sintomi vengono
spesso confusi con quelli causati dai ritardi e dall'agitazione psicomotoria, dalla fatica
nei movimenti e dalla perdita dell'appetito. Molti sintomi inoltre, come la perdita di
peso o l'insonnia, vengono considerati come manifestazioni della patologia e non come
sintomi depressivi. Nei primi stadi spesso i malati hanno un senso di irritabilità, in altri
casi invece si possono anche manifestare casi di depressione grave con sensi di colpa,
pianto, perdita di forze e persino pensieri suicidi. Nella fase di trattamento
farmacologico per la malattia di Parkinson spesso sono le condizioni psicologiche a
peggiorare, talvolta diventa necessario introdurre un trattamento specifico per la
depressione. Dal momento che lo stile di vita subisce un cambiamento notevole, il
dialogo in famiglia è molto importante, sia per lo scambio di informazioni, che per il
sostegno che può essere dato all’ammalato. Una maggiore conoscenza della patologia
può aiutare a ridurre l'ansia, migliorando la capacità di far fronte a disabilità emergenti.
Studi recenti dimostrano come un programma di educazione sia efficace nel migliorare
nei pazienti la percezione della propria salute, nel fornire informazioni e sostegno
psicologico e nella collaborazione con il medico al fine di ottenere il miglior
trattamento. Prendersi cura del proprio benessere emotivo (salute mentale) è un aspetto
vitale nella gestione della malattia. La demenza è il sintomo più comune con lo
sviluppo della malattia in età avanzata e può accadere in circa il 40 % di tali pazienti
(Alonso et al, 2003.) Questa forma di demenza è essenzialmente causata da differenti
alterazioni che avvengono nella corteccia cerebrale, ma la sua base patologica è
complessa. Si ritiene che uno dei meccanismi potrebbe essere il deficit dopaminergico
che causa i sintomi motori. Una delle nuove terapie
per dare sostegno ed aiuto
all’ammalato è la terapia di gruppo. Il gruppo è composto da un insieme di individui che
condividono uno scopo comune che è caratterizzato da un rapporto di interdipendenza.
Questa terapia permette attraverso l’osservazione e il dialogo con gli altri di acquisire
informazioni significative per imparare a comprendere ed accettare la propria patologia.
Il lavoro di gruppo mette le persone in costante relazione con gli altri facendogli
sperimentare una situazione che li aiuta ad adottare comportamenti spontanei ed ad
esprimersi liberamente. L’utilizzo di questo intervento parte dalla consapevolezza
dell’individuo di non essere solo, ma in continuo rapporto con
gli altri.
Ed è proprio nel contatto relazionale che l’uomo traccia i suoi confini e delimita le sue
dimensioni
emozionali
ed
affettive.
È nel contatto con persone che il paziente trova se stesso ed in questo modo si innesca
un potere curativo. Il pensiero psicoanalitico sostiene che il gruppo soddisfa "il
bisogno universale di appartenenza e della necessità di instaurare una
condizione di unità psicologica con gli altri, che rappresenta il desiderio
nascosto di ristabilire un primigenio stato di benessere incontrastato inerente
all’unione esclusiva con la madre" (Tuttman1986). Il sostegno psicologico è una
terapia che viene consigliata in soggetti con patologie psichiatriche che possono essere
associate al morbo di Parkinson per dare una migliore qualità di vita al malato.
2.2.Trattamento chirurgico
I trattamenti nel caso di malattia di Parkinson sono vari e tra questi un grande passo in
avanti nella terapia della malattia è stato
dato da quello chirurgico. La chirurgia
nella cura del morbo nasce da un
intervento avvenuto nel 1942, ad un
paziente affetto dal morbo. Durante
l’operazione, in seguito alla chiusura della
arteria carotide, sopravvenne un infarto alla parte laterale e anteriore del talamo che
provocò l’immediato cessare del tremore. In seguito un neo chirurgo americano Cooper
avviò la pratica della chirurgia lesionale dei nuclei ventrale anteriore e ventrale del
talamo per eliminare il tremore.
Le procedure chirurgiche comprendono:
- stimolazione profonda del cervello;
- rimozione delle lesioni
- trapianto di cellule (Emborg EM., 2007).
attualmente la tecnica più utilizzata è la chirurgia stereotassica, che permette di trattare
i punti situati in profondità nel parenchima attraverso l’utilizzo di dispositivi
radiologici. La scoperta che alcuni nuclei responsabili della patologia, come il globo
pallido e il nucleo subtalamico, potevano essere trattati chirurgicamente ha permesso di
elaborare una tecnica, detta Deep Brain Stimulation (DBS), che porta ad una buona
riduzione nella dipendenza da levodopa (Lopiano L. et al., 2005). Questo tipo di
intervento viene utilizzato su soggetti anziani con la malattia in stato avanzato, che
hanno problemi legati all’assuefazione derivante dall'uso prolungato di Levodopa. La
stimolazione profonda del cervello ha il vantaggio di essere reversibile e regolabile. La
stimolazione effettuata alte frequenze nella profondità del cervello e la stimolazione del
nucleo subtalamico sembra sia l’intervento più idoneo nella terapia della malattia. Molti
studi hanno infatti dimostrato che grazie a questo tipo di chirurgia non vi è progressione
nella
rigidità,
nel
tremore
e
nella
bradiscinesia
(Lopiano.et
al,2005)
.
2.3. Trattamento riabilitativo
Sappiamo che l’attività sportiva giova all'organismo, ma nel Parkinson il movimento è
compromesso e il paziente tende ad una vita sedentaria. Gli studi effettuati sui malati di
questa patologia hanno rilevato come gli interventi di terapia fisica possano migliorare
oltre che la forza muscolare anche la flessibilità e l’equilibrio (Van Nimwegen et al,
2010), gli effetti più immediati sono un miglioramento nella performance motoria e
nelle abilità cognitive e funzionali (Ebersbach et al, 2008). E’ stato dimostrato che
l’esercizio fisico porta ad una riduzione del tasso di mortalità negli individui affetti dal
morbo. L’allenamento aerobico
in riduce i sintomi motori e
migliora il benessere fisico. Il
regolare
effetti
esercizio
positivi
ha
sulla
infatti
regione
frontale, in quanto media le
funzioni
esecutive.
Presenta
inoltre effetti angiogenici, cioè lo
sviluppo di nuovi vasi sanguigni
che partono da altri già esistenti, migliora la funzione cognitiva specialmente nei
processi esecutivi. Si rende così necessario un ciclo di riabilitazione motoria che stimoli
e corregga l'esercizio fisico quotidiano sin dalle fasi iniziali della malattia. È importante
che il paziente sia veramente disposto ad applicarsi per trarne il massimo beneficio,
mettendo tutto il suo impegno. È stato dimostrato che l'uso di stimoli visivi o uditivi (i
cosiddetti “cues”) possono migliorare la lunghezza del passo, i blocchi improvvisi della
marcia (“freezing”) e l'equilibrio. Molto
importante è l’utilizzo del tapis roulant
(“tappeto ruotante”), strumento fondamentale per migliorare le caratteristiche del passo
(lunghezza e velocità) dei pazienti affetti dal morbo. I deficit nel controllo posturale nei
pazienti possono essere invece influenzati positivamente dall’allenamento di biofeedback fondato sull’equilibrio dinamico (Mirelman et al, 2011). Il paziente ha
difficoltà nell'iniziare in maniera automatica un movimento ed a mantenerlo nel tempo.
Se si utilizza un tapis roulant l'ammalato è obbligato dallo scorrimento a mantenere un
ritmo corretto e costante del cammino, allenandosi così in maniera efficace. Importante
quindi è praticare la fisioterapia, con aree principali di trattamento quali la
deambulazione, l’equilibrio, i trasferimenti (ad esempio il girarsi sul letto o l’ alzarsi da
una sedia), l’atto di afferrare gli oggetti. Le terapie occupazionali e logopediche,
utilizzate per preservare la parola e la deglutizione, sono invece prescritte e praticate
non solo per migliorare le funzioni motorie e le attività della vita quotidiana, ma anche
per evitare l’insorgere e l’aggravamento di sintomi che pongono i pazienti a rischio di
morte precoce quali la disfagia (Raynsmar et al, 2011). Anche le terapie psicologiche
psico-dinamiche o quelle cognitivo-comportamentali, vengono spesso consigliate ai
malati di Parkinson ed ai loro caregiver, con il fine di fornire loro un supporto
costruttivo nell’affrontare la diagnosi ed il decorso della malattia
2.4. Trattamento socio-ambientale
Il trattamento di gruppo oggi è considerato un approccio valido per aiutare l’ammalato
ad uscire dalla ghettizzazione della malattia e a condividere con gli altri i propri dolori
fisici e non. Nei gruppi di sostegno si osserva l’evolversi di varie fasi psicologiche: la
negazione della malattia è un
aspetto fondamentale, in quanto
la mancata accettazione porta ad
un
conseguente
psicologico.
richiede
Il
isolamento
malato
spontaneamente
non
un
intervento psicologico. Spesso
può mostrarsi irritato o scostante
verso le persone vicine: familiari,
amici, psicologo, coordinatore
del gruppo di sostegno. Anche in questa fase il rischio dell’isolamento è molto elevato.
Una fase successiva è la contrattazione: il malato abbandona la collera e cerca di
migliorare la sua qualità di vita. Assume atteggiamenti più benevoli verso i familiari e,
nell’intervento psicologico, assume un atteggiamento collaborativo. Segue la
depressione, il paziente comprende che la propria vita è cambiata ed entra in un
doloroso processo di rassegnazione. Pur consapevole della necessità del sostegno
psicologico, si riduce nel paziente la forza di volontà, e l’ energia per accettare la terapia
per affrontare questa nuova realtà. Solo dopo un lungo periodo l’ammalato arriva alla
accettazione della
malattia. Il paziente abbandona la collera e la depressione, per
raggiungere una serena rassegnazione. Con l’aiuto del sostegno psicologico e del
gruppo, è importante stimolare il paziente ad interessi ed iniziative per migliorare la sua
qualità di vita. La psicosi nella malattia di Parkinson è molto comune, alcuni pazienti
presentano sintomi lievi come le “illusioni non fastidiose”. Un numero minore di
pazienti soffre di allucinazioni uditive. Il dottor Okun, nello studio sulla gestione
delle psicosi di tale patologia, descrive le illusioni di tipo paranoico. L’ammalato
inizialmente si rende conto che quello che sta vedendo o sentendo non è reale. Secondo
Okun: “Nelle fasi successive [di psicosi], i pazienti possono essere confusi e alterare la
cognizione della realtà, cioè, non sono in grado di distinguerla” ( Okun,2002). Per il
caregiver diventa molto impegnativo e stressante aiutare l’ammalato. I farmaci usati per
la cura del Parkinson aumentano i livelli di dopamina nel cervello. La dopamina è un
neurotrasmettitore che funziona come trasportatore di informazioni da un neurone
all’altro. La Levodopa (L- Dopa) è il farrnaco che sostituisce la dopamina
nell’organismo umano ed ha un effetto curativo nel controllo del movimento e delle
allucinazioni. La psicosi non richiede sempre un trattamento, i medici cercano le cause
che hanno determinato le allucinazioni per poi decidere la cura più adeguata. L’uomo
vive nell’ambiente ed è parte integrante di questo, tutte le sue componenti sono
interdipendenti e si scambiano. Questi continui aspetti richiedono un adattamento da
parte dell’individuo che è sottoposto a continue sollecitazioni (o fattori di stress). Per
difendersi l’uomo è dotato di una grande capacità di adattamento, ma l’adattamento
produce stress che crea effetti diversi da persona a persona. Nella malattia di Parkinson i
fattori di stress psicologici giocano un ruolo molto importante. Il malato di Parkinson ha
una tendenza all’ansia, all’angoscia, alla depressione e le abitudini della vita moderna,
contribuiscono ad indebolire le capacità di adattamento e l’efficacia del sistema
immunitario, peggiorando la sua qualità della vita
Capitolo 3
3.1. Consigli al familiare
Colui che si occupa del malato è definito caregiver
(di solito è un familiare) ed
accudisce il paziente affetto dal morbo, spesso anche nella fase più avanzata della
malattia come la demenza . Prestare assistenza quando si è coinvolti affettivamente
rende tutto più difficile, dando vita a sentimenti contrastanti. I familiari del paziente si
trovano ad affrontare la sofferenza di vedere cambiare progressivamente il proprio caro
(padre, madre, marito, moglie). Il malato infatti modifica il proprio rapporto con gli
altri perdendo le capacità e parte di quella identità che prima lo contraddistinguevano
come persona. Questo processo di “separazione” e di “perdita”, che il parente deve
affrontare è molto simile ai sentimenti che si provano quando si vive un lutto. Una
delle fasi che il caregiver deve affrontare è la negazione: il rifiuto di credere che il suo
caro sia affetto dal morbo e dalla demenza. A questo aspetto subentra una fase di
iperattivismo: il bisogno di fare tutto il possibile per sostenere e dare il proprio aiuto
all’ammalato. In un secondo momento il caregiver inizia a provare sentimenti
contrastanti, tra i quali la collera, che sopravviene per la delusione e la frustrazione di
fronte all’impossibilità di fermare il progredire della malattia, affiancata dal senso di
colpa in quanto il familiare si rende conto di aver influenzato con i propri stati d’animo
negativi il paziente. Solo con il tempo si riesce a trovare un equilibrio, a comprendere
la malattia del proprio caro ed ad abituarsi alla sua presenza costante: si inizia ad
accettare la propria impotenza ed il proprio dolore e si potranno assumere
comportamenti più sereni. Il ruolo del caregiver è quello di incoraggiare l’indipendenza
del malato, spronandolo a svolgere da solo, o con un occhio di controllo da parte del
familiare, le mansioni quotidiane. Aiutare a stimolare la memoria residua del paziente,
coinvolgendolo nella vita familiare. Colui che assiste il malato non deve essere
eccessivamente protettivo, deve fornire il proprio aiuto solo quando è necessario e
variando il supporto in base alle capacità ancora presenti nel paziente e alle sue
abitudini di vita, in quanto la presenza del familiare pronto ad intervenire costantemente
in suo aiuto potrebbe peggiorare
il senso di emarginazione ed isolamento che la
malattia crea. Il caregiver deve prendersi cura anche di se stesso, non è umanamente
possibile dedicare tutto il proprio tempo all’ammalato.
3.2. Sostegno psicologico all'ammalato ed ai familiari
Sotto il profilo psicologico è come se
il
parkinsoniano
affrontasse
una
continua lotta contro quello che è il
suo carattere, una ricerca di autonomia
dalla
dipendenza sopravvenuta, un
alternarsi da uno stato di aggressività
ad uno di passività, da un desiderio di
azione all’immobilità, da
una fase di autostima ad una disistima di sé. Questo
alternarsi di sentimenti porta il malato ad allontanarsi dalla realtà. A tal proposito è
importante dare un sostegno di tipo psicologico, individuale, di coppia e di gruppo.
Rilevante in questi soggetti è usare la terapia della motivazione. Per motivazione si
intende uno stato interno che attiva, dirige e mantiene nel tempo il comportamento di
un soggetto, quindi è la causa del comportamento. Deriva dal latino movêre, cioè
mettere in movimento. Si riferisce alla “spinta” che porta l’individuo a comportarsi in
un certo modo. E’ uno stato o un desiderio di cambiare, che varia di volta in volta in
base
alle
situazioni
che
si
creano
nel
tempo.
Lo scopo di questa terapia consiste nella rivitalizzazione degli interessi per gli stimoli
esterni, nell’ indurre il malato a relazionarsi con gli altri e ad affrontare e discutere di
argomenti
contingenti
della
realtà
circostante.
(Spanò
Sono tecniche che vengono costruite e personalizzate con
et
al,
2012)
il paziente, per
stabilire insieme degli obiettivi che contribuiscono alla creazione di motivazioni
personali il cui raggiungimento porta ad un evidente miglioramento della salute (Rubak
et al, 2005). Tali tecniche incoraggiano l’autonomia del paziente nel decidere quali
cambiamenti sono necessari e come possono essere raggiunti.
Questa terapia è particolarmente indicata in pazienti con sintomi depressivi. Altro
supporto innovativo nel trattamento di malattie neuro-psichiatriche, come il morbo di
Parkinson, è la terapia di gruppo che ha dato buoni risultati, e che cerca di utilizzare la
forza
del
gruppo
e
la
condivisione
con
gli
altri.
Attraverso il contatto l’uomo traccia i suoi confini e delimita le sue dimensioni
emozionali ed affettive, fornendo risultati soddisfacenti nel quadro dei comportamenti
interpersonali necessari per vivere la malattia in modo “creativo” e “autonomo”.
È nel contatto con gli altri che l’essere umano trova se stesso, nel luogo dove l’Io riesce
ad unire la sua creatività ed unicità con l’adattamento sociale. L’elemento comune a
tutti gli approcci di gruppo è il riconoscimento del potere curativo della relazione con
gli altri, il “ripristino dei vincoli sociali”, che vede come punto di partenza il
superamento
della
solitudine
e
dell’isolamento
(Herman,
1992).
Tale momento può essere visto come una desiderata sosta dall’isolamento, dalla
solitudine, dalla “ghettizzazione” e come una forza più compatta per gestire le
problematiche della malattia, con l’arricchimento del sostegno e del confronto.
Il pensiero psicoanalitico sostiene che il gruppo soddisfa "il bisogno universale di
appartenenza e della necessità di instaurare una condizione di unità psicologica con gli
altri, che rappresenta il desiderio nascosto di ristabilire un primigenio stato di
benessere incontrastato inerente all’unione esclusiva con la madre" (Tuttman 1986),
il "non confermare la sensazione di unicità…." ed il "benvenuto nell’esperienza della
stirpe umana"
(Yalom, 1983).
Il Sé come prodotto dell’interazione sociale porta nella sua distinzione dell’"altro da
Sé", la figura materna, alla formazione dell’Io, che è la componente implicita del Sé.
Dopo l’Io si forma il Me, la componente esplicita, che rappresenta la coscienza di come
il Sé è visto dagli altri (Mead G.H.). Tra le tecniche psicologiche che hanno dato
risultati positivi in questa malattia abbiamo la Bioenergetica.
La Bioenergetica presuppone che ogni soggetto abbia un'energia vitale, che mette in
continua interazione corpo e mente, intervenendo sulla respirazione, sulla contrazione,
sul rilassamento muscolare, sulle motivazioni, sulle sensazioni, sulle emozioni e sui
sentimenti. L’ipnosi, il Mental training e l’immaginazione guidata aiutano il malato di
Parkinson ad affrontare nel miglior modo i continui cambiamenti interpersonali e
relazionali. Anche colui che aiuta e sostiene il paziente ha bisogno di sostegno. Si
tratta di persone non di rado stanche, frustrate, ma coraggiose e tenaci, che cercano di
rendere la vita dei propri parenti più dignitosa. Per l’ammalato sono un sostegno
indispensabile,
vengono chiamati informal caregiver (curanti informali) che si
distinguono dai formal caregiver (curanti formali) che sono i medici, gli infermieri e
tutto il personale formato per prestare assistenza sanitaria. Si tratta di familiari o amici
che, senza avere particolari conoscenze mediche, si prendono cura di un paziente per
tutta la durata della malattia. Secondo una ricerca del 2005 della Center on Aging
Society di Washington:

il 16% dei caregiver si sente esausto;

il 26% avverte come imponente il peso emotivo del loro compito;

il 13% vive una profonda frustrazione vedendo l'assenza di miglioramento del
proprio caro;

il 22% arriva a fine giornata spaventato dal timore di non essere in grado di saper
fronteggiare le responsabilità del ruolo, spaventato dal futuro che lo attende, dalla
propria impotenza.
Oggi la ricerca è rivolta anche nei confronti del caregiver, queste persone soffrono
quanto il malato. L’intervento psicoeducativo nella malattia di Parkinson è cercare
di migliorare la qualità della vita sia nel malato che nel caregiver. Questo intervento
voluto dalla commissione Europea, prevede una fase teorica dove vengono date
informazioni sulla malattia ed una fase pratica in cui è possibile acquisire
praticamente le capacità per affrontare e gestire il morbo. Nella fase teorica il
familiare prende informazioni sul decorso del Parkinson, e su come affrontarla,
chiedendo consulenza sul piano assistenziale ma anche psicologico, come la
creazione di gruppi di autoaiuto per poter ascoltare ed esprimere le proprie
esperienze, le proprie emozioni in un confronto che aiuta ad elaborare e ad accettare
il proprio ruolo. Il Burden del caregiver familiare è quindi il “carico”, il “fardello”,
il “peso” psicologico e fisico che influisce negativamente sia sulla sua che
sull’assistenza al familiare malato. Il caregiver può quindi sentirsi ‘intrappolato’
anche quando l’amore con cui continua a sostenere il suo ruolo è autentico. Oggi i
casi di sofferenza fisica e psichica di chi assiste il malato sono in aumento per il
semplice fatto che sono in aumento i caregiver stessi . Si è riscontrato che prendersi
cura di una persona è stressante e che i caregivers informali di pazienti dementi
spesso hanno un disagio psicologico come l’ansia o la depressione, problemi di
salute fisica, isolamento sociale e diminuzione del tempo da dedicare ai bisogni
personali. Ricerche sono state fatte per individuare quali sono le cause ed il carico
soggettivo al fine di ottimizzare tutti quegli interventi (psicologici, sociali,
farmacologici) in grado di alleviare i compiti e le responsabilità legate all’assistenza,
in modo tale da migliorare il benessere psicologico del familiare e la sua relazione
con il paziente. Di fatto una buona relazione tra il caregiver e l’anziano affetto da
demenza ha effetti positivi sull’evoluzione della malattia e può alleviare alcuni
sintomi comportamentali. Stress, ansia e depressione nei caregiver di pazienti affetti
da demenza risultano spesso correlate tra loro ed associate con variabili simili.
Confrontando però i risultati delle diverse indagini spesso è possibile individuare
risultati contrastanti circa specifiche associazioni. Per questo motivo è necessario
condurre indagini. Per migliorare le condizioni dei caregiver sarebbe utile
intervenire in due direzioni: cercare di dedicare più tempo a se stessi ed informarlo.
Dare ai caregivers la possibilità di usufruire di interventi finalizzati ad affrontare il
senso di fallimento e lo stress fisico, fornendo sostegno psicologico individuale,
quale counseling breve o supporto psicologico continuativo ed informale. Gli
interventi di sostegno dovrebbero essere strutturati in modo da non richiedere al
caregiver un eccessivo investimento di tempo personale e di risorse psicofisiche per
evitare un aumento del carico soggettivo.
3.3. Rottura dell'isolamento e confronto con persone con problemi analoghi
Le
malattie
degenerative
e
croniche hanno un
decorso lento che
distrugge
il
sentimento
di
autostima che si ha
di se stessi con
ripercussioni
psicologiche.
Accettare
propria
che
vita
la
sta
cambiando nell’ammalato di Parkinson e che ogni cambiamento segue un inevitabile
adeguamento, provoca una uno stato di stress continuo. Anche se è una malattia
neurologica dovuta alla carenza di dopamina, sullo stato di benessere della persona
giocano un ruolo importante anche i fattori psicologici: situazioni di stress possono
avere forti effetti negativi sui sintomi motori rendendo inefficace il trattamento
farmacologico. Spesso il malato ha problemi motori in pubblico scatenandogli stress, e
allontanandolo dagli altri portandolo talune volte ad una
totale chiusura sociale.
Importante affrontare per il paziente sedute psicologiche dove vengono analizzate le
situazioni che provocano disagio, aiutandolo ad effettuare il training per superare lo
stress e ad evitare un isolamento sociale attraverso l’accettazione della malattia. È
fondamentale per il malato far conoscere ai familiari i sentimenti che prova in quel
momento:
come
vive
la
malattia
e
cosa
significa
per
lui.
In determinate circostanze vengono introdotti anche “giochi delle parti” tramite
“videofeedback”, così il malato può esercitarsi applicando, in situazioni problematiche
ricorrenti,
determinate
regole
di
comportamento.
Il problema non va affrontato chiudendosi in se stessi con la propria malattia e
isolandosi socialmente, è invece necessario imparare ad utilizzare al meglio i propri
spazi di benessere fisico. Incontri di gruppo costanti tra gli ammalati e i loro partner
sono un valido metodo psicologico, perché in questo contesto il malato è portato ad
accettare più facilmente il confronto sulle difficoltà e viene stimolato ad essere più
attivo. Nel gruppo è possibile ed utile essere seguiti da un esperto per sfogare
l’aggressività e le tensioni interne che possono compromettere la relazione con gli altri.
In questo contesto si è maggiormente motivati a realizzare una corretta respirazione, a
rilassarsi e ad attuare i movimenti corretti, ad imparare ed a riorganizzare le proprie
energie nei momenti di crisi motoria nella deambulazione e nel linguaggio. È
importante imparare a cercare di avere un pensiero creativo e positivo da utilizzare per
affrontare momenti di difficoltà. Lavorare con il gruppo rinforza il malato, aiutandolo
ad un migliore adattamento e stimolandolo nella creatività.
3.4. Come far fronte all'evoluzione della malattia
I sintomi che caratterizzano alcune volte l’insorgenza della malattia sono: perdita
dell’olfatto, stipsi, tempi di reazione lunghi, livelli alti di emoglobina e sonnolenza
diurna. Questi non sono sintomi determinanti ma possono essere predittivi e spesso si
evidenziano 7 - 8 anni prima delle disabilità motorie. Fondamentale è la diagnosi
precoce per affrontare le cure giuste per rallentare l’avanzare del Parkinson. I sintomi
principali della malattia sono la perdita del controllo motorio, la rigidità degli arti, ma
quando questi sintomi sono evidenti la malattia è già in uno stadio avanzato, e già ha
alterato la vita e la quotidianità dell’individuo. Il medico è fondamentale per dare le
corrette informazioni e suggerimenti utili sullo stile di vita da adottare. Una volta
ottenute le informazioni il paziente sarà agevolato nell’affrontare la malattia e stimolato
ad avere un approccio propositivo, positivo ed anche combattivo. Il paziente potrà
accettare di essere malato solo dopo aver avuto le giuste informazioni ed aver capito le
reali cause della malattia e
le sue conseguenze, riuscendo a mettere in atto
comportamenti utili per convivere nel miglior modo possibile con la patologia.
Importante nel Parkinsoniano è l’allenamento fisico che migliora le capacità motorie e
cliniche,
mentre è stato rilevato che ciò non avviene con una vita sedentaria e
stressante. Infatti questo tipo di vita favorisce la progressione della disabilità clinica e
della malattia. Per combattere e rallentare il decorso del Parkinson bisogna praticare
esercizio motorio, cognitivo ed attività ludiche. La cura di sé è fondamentale ed è alla
base per raggiungere uno stato di benessere. Bisogna effettuare esercizi, avere una
corretta alimentazione e cercare di raggiungere uno stato di relax, bilanciando questi
fattori in modo da aiutare il corpo e la mente a svolgere nel miglior modo possibile i
propri compiti quotidiani. Si è riscontrato che le persone già affette da questa malattia
che praticano uno sport riducono del 70% il rischio di cadute e migliorano l'umore.
Nelle cure spesso però si presta grande attenzione a quelli che sono i bisogni fisici del
paziente e si tralasciano i bisogni mentali e sociali. È essenziale per l’ammalato essere
stimolato psicologicamente in modo da
risvegliagli vecchi interessi. Altro fattore
importante sia per la sicurezza dell’ammalato che dal punto di vista terapeutico in caso
di demenza, è l’ambiente. Infatti nelle varie fasi della malattia può condizionare sia lo
stato funzionale che il comportamento del paziente. La comunicazione con il malato in
una fase avanzata del Parkinson con sintomi di demenza si riduce e bisogna seguire
degli accorgimenti: controllare le capacità visive, uditive, cercare di essere chiari nello
scandire le parole, mostrare affetto con contatto fisico ed essere attenti al linguaggio
corporeo del malato, che spesso riesce a comunicare solo con messaggi diversi da quelli
verbali.
3.5. Supporto alle esigenze dei familiari
Il Parkinson per la famiglia rappresenta un momento di crisi pur essendo una malattia
che ha una insorgenza graduale. In genere si ritiene che quando il morbo colpisce un
familiare, i parenti e spesso il coniuge debbano comportarsi razionalmente,
manifestando comprensione e solidarietà per l’ammalato. Ma alcune volte il confronto
con la malattia può provocare reazioni inaspettate: alcune famiglie cercano di essere
collaborative nell’affrontare la malattia, altre non riescono ad accettarla. L’ andamento
progressivo della patologia richiede al nucleo familiare un continuo adattamento ai vari
cambiamenti che si presentano con il progredire del morbo. Proprio per il suo continuo
evolversi è importante conoscere tutte le caratteristiche della malattia in modo da
imparare a gestirla senza lasciarsi prendere dallo sconforto. Importante è accettarla e
affrontarla giorno per giorno, perché è lunga e accompagna il malato dal momento
della sua insorgenza per tutto l’arco della sua vita. La prima difficoltà che si presenta,
sia per il paziente che per i familiari, è l’accettazione della diagnosi. Comprendere la
diagnosi e diventare consapevoli di ciò che comporta essere ammalato di Parkinson
spesso provoca nell’intero nucleo familiare uno stato di profonda depressione,
disperazione ed impotenza. Inizialmente può succedere di negare la malattia in modo
da non dovere affrontare un dolore insostenibile, provocando un ritardo nell’iniziare le
cure. A prendersi cura dell’ammalato spesso è un coniuge o un figlio. Questi sono
costretti ad adattarsi e ad effettuare continue modifiche
agli equilibri ed alle
dinamiche familiari, per aiutare il paziente ad affrontare la comparsa di nuovi sintomi.
In alcuni casi la famiglia manifesta stanchezza e sofferenza per lo stress psico-fisico
causato dall’assistenza del malato. I familiari come il paziente hanno bisogno sia di
aiuto pratico, sia di sostegno affettivo per potersi adattare a questi continui cambiamenti
e situazioni negative che si presentano continuamente. Quindi informazioni ed
assistenza psicologica sono essenziali per aiutare i malati e i famigliari ad affrontare e le
nuove situazioni e a migliorare la solidarietà all’interno della famiglia. Solo attraverso
l’accettazione dei reciproci problemi che i componenti della famiglia possono reagire in
modo costruttivo. Un terzo dei familiari sono lavoratori e sono costretti a sommare
l’attività assistenziale a quella lavorativa e il loro ruolo è fondamentale perché solo
grazie al parente il paziente riceve conforto ed assistenza di cui necessita. La maggiore
sfida che il caregiver si trova ad affrontare è quella di riuscire a gestire quotidianamente
l’assistenza al familiare malato, in contemporanea ad altre attività ,come occuparsi della
casa, le pulizie del malato, le cure mediche, l’assistenza alle terapie e l’organizzazione
per coordinare le varie persone che forniscono assistenza. Curare ed assistere un
ammalato di Parkinson può essere un espressione di amore verso una persona cara ma
allo stesso può diventare sia fisicamente che psicologicamente un compito gravoso ed
esasperante. L’impegno richiesto può diventare molto pesante procurando stress al
familiare. È quindi importante elaborare cognitivamente ed affettivamente la malattia,
comprendere, accettare
le emozioni che prova l’ammalato. Questa elaborazione
avviene nel tempo, poco per volta dando la possibilità al malato ed ai familiari di
adattarsi ai cambiamenti. Le esigenze da soddisfare dei caregiver sono l’informazione
sul procedere della patologia e sulla terapia medica da seguire. Nei familiari nasce il
bisogno di avere conferme rispetto ai nuovi ruoli che vengono assunti. La nuova realtà
che il partner è costretto ad affrontare gli provoca un senso di disagio, e solo attraverso
una rete di informazioni e consigli può essere messo in condizione di svolgere al meglio
la nuova attività. Importante è confrontarsi con chi è nella stessa situazione, favorendo
lo scambio d’informazioni, e cercare un supporto psicologico, perché anche colui che
non vive la malattia in prima persona ha necessità di conforto, ascolto e sostegno
psicologico. Il familiare ha bisogno sia di un sostegno affettivo che di un aiuto pratico
per abituarsi a questa nuova situazione che gli può provocare stanchezza, e sofferenza
per lo stress psicofisico causato dall’assistenza a casa del malato. Quindi un corretto
piano assistenziale e terapeutico deve coinvolgere sia il malato che tutti i componenti
della famiglia.
Conclusioni
Con il progressivo allungamento della vita media stanno assumendo sempre maggiore
importanza le problematiche correlate all’invecchiamento e, tra queste, disturbi
cognitivi di funzioni quali la memoria, il ragionamento, il linguaggio, l’orientamento, o
ancora disturbi comportamentali che riguardano la sfera emotiva e la capacità di
rapportarsi correttamente alla realtà. A questo proposito lo scopo dello studio nasce per
approfondire la conoscenza delle varie fasi del morbo di Parkinson, malattia cronica
neuro degenerativa progressiva che colpisce più comunemente gli anziani. Uno degli
obiettivi della tesa è stato quello di approfondire l’impatto che questa patologia ha
sull’intero nucleo familiare, cercando di comprendere le dinamiche che si creano tra il
malato e i suoi caregiver. In questo studio si è evidenziato come la qualità di vita dei
malati di Parkinson e di chi li assiste sia notevolmente alterata a causa dei sintomi della
patologia e di come essi necessitino di informazioni specifiche, che prevengano i rischi,
migliorando la quotidianità. Per alleviare efficacemente l’impatto della malattia sui
pazienti e sui loro caregiver è necessario dunque valutare tutti i fattori legati alla
patologia per poterla conoscere ed affrontarla insieme, sostenuti e guidati da dei
professionisti della salute.
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Ringrazio la mia famiglia che mi ha sostenuto e la mia amica Susy che ha affrontato
questo percorso con me.