EMILIO NORELLI Il concordato fallimentare “riformato” e “corretto”* SOMMARIO: 1. La legittimazione alla proposta di concordato. – 2. La proposta di concordato: in generale. – 3. Il contenuto della proposta. – 4. La «ristrutturazione dei debiti»: a) riguardo al soggetto obbligato. – 5. Segue: b) riguardo ai soggetti attivi. – 6. Segue: c) riguardo all’oggetto, nei confronti dei creditori chirografari. – 7. Segue: d) riguardo all’oggetto, nei confronti dei creditori privilegiati. – 8. Segue: e) riguardo al tempo dell’adempimento. – 9. Le garanzie. – 10. Il concordato proposto da uno o più creditori o da un terzo. – 11. Il concordato proposto dal fallito. – 12. Tipologie di concordato: a) il concordato remissorio con (eventuale) garanzia. – 13. Segue: b) il concordato con “cessio bonorum”. – 14. Segue: c) il concordato con assunzione dei debiti e cessione dei beni. – 15. Segue: d) Il concordato con assunzione senza cessione dei beni. – 16. Tempo di presentazione della proposta. – 17. Rapporto fra «elenco provvisorio» e stato passivo. – 18. Limiti temporali della proposta presentata dal fallito. – 19. Il procedimento di formazione del concordato: a) l’esame preventivo della proposta di concordato. – 20. Segue: b) l’approvazione della proposta di concordato. – 21. Segue: c) l’omologazione della proposta di concordato. – 22. Il regime transitorio. 1. La legittimazione alla proposta di concordato. 1. La prima e più significativa innovazione apportata alla disciplina del concordato fallimentare dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), riguarda la legittimazione alla proposta di concordato. Nel sistema della legge fallimentare del 1942 la proposta poteva provenire soltanto dal fallito e non anche da terzi. Ora, invece, l’art. 124 l. fall. espressamente prevede che la proposta può essere presentata, oltre ché dal fallito, «da uno o più creditori o da un terzo»1. La normativa “riformata” del 2006 attribuiva la legittimazione anche al curatore, com’è dato desumere dall’art. 129, secondo comma, nel testo risultante dal predetto d.lgs. («se la proposta di concordato è stata presentata dal curatore […]»). Nella disciplina modificata dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), il riferimento alla proposta del curatore è scomparso, sicché, con l’entrata in vigore (1° gennaio 2008) dell’or citato d.lgs. (il c.d. “decreto correttivo” della riforma), deve ritenersi venuta meno la legittimazione dell’organo gestorio della procedura fallimentare2. 2. La estensione della legittimazione ad una pluralità di soggetti importa non solo che sono accresciute le possibilità di pervenire ad una soluzione concordataria, ma altresì che si dà adito alla possibilità che vi sia una pluralità di proposte in concorrenza fra loro. * Testo provvisorio di un saggio di prossima pubblicazione nella “Rivista dell’esecuzione forzata” (n. 1/2008). 1 La legittimazione del terzo alla proposta di concordato era stata già prevista, nella procedura di amministrazione straordinaria, dall’art. 78 della c.d. “legge Prodi-bis”, ossia il decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274). 2 La legittimazione alla proposta di concordato dell’organo gestorio della procedura è, invece, prevista nell’amministrazione straordinaria “accelerata” delle “grandissime” imprese in crisi, dall’art. 4-bis della c.d. “legge Marzano”, ossia il decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito nella legge 18 febbraio 2004, n. 39, e successive modificazioni. 1 Con questa prima innovazione appare già chiaro come finalità primaria della nuova disciplina è la “ottimizzazione” del soddisfacimento dei creditori che il concordato è indirizzato a realizzare in alternativa alla liquidazione concorsuale dei beni ad opera degli organi fallimentari. Finalità secondaria è la conservazione del complesso produttivo, se questo c’è e merita di essere conservato. E’, infatti, possibile che un terzo (creditore o estraneo che sia), operatore economico, voglia rilevare l’azienda o un ramo dell’azienda del fallito e si faccia avanti, presentando una proposta di concordato. Il complesso produttivo, ove la proposta di concordato sia omologata, potrà, così, “passare di mano” e sotto il nuovo imprenditore essere mantenuto sul mercato e rilanciato. Il “nuovo” concordato fallimentare (più facilmente del “vecchio”) può consentire, in tal modo, la conservazione dei “valori aziendali”, attraverso un diverso assetto proprietario. Il precedente imprenditore, fallito, viene estromesso, ma viene salvata l’impresa, intesa in senso oggettivo come organizzazione produttiva3. 3. Nella nuova disciplina non vi è alcuna differenza fra la proposta presentata «da uno o più creditori» e quella presenta «da un terzo»4, come poteva già sostenersi prima del “correttivo” (giacché creditori e terzi sono soggetti diversi dal fallito, posti sullo stesso piano e trattati allo stesso modo dall’art. 124, primo comma, l. fall.) e si evince ora inequivocabilmente dalle modifiche apportate dall’ultimo intervento legislativo all’art. 124, quarto comma, l. fall. («La proposta presentata da uno o più creditori o da un terzo può prevedere la cessione, oltre che dei beni compresi nell’attivo fallimentare, anche delle azioni di pertinenza della massa, purché autorizzate dal giudice delegato, con specifica indicazione dell’oggetto e del fondamento della pretesa. Il proponente può limitare gli impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta. In tale caso, verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito, fermo quanto disposto dagli articoli 142 e seguenti in caso di esdebitazione»)5, e all’art. 137, settimo comma, l. fall. («Le disposizioni di questo articolo non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti dal proponente o da uno o più creditori con liberazione immediata del debitore»)6. 4. In nessun caso di proposta presentata «da uno o più creditori o da un terzo» si richiede il consenso del fallito, né dalla nuova normativa è dato desumere che egli abbia un qualche potere di veto riguardo al concordato proposto da altri: esso, dunque, può realizzarsi anche contro la volontà del debitore, salva solo la facoltà dello stesso debitore di opporsi all’omologazione, onde far valere l’eventuale assenza di requisiti di legge o un’eventuale lesione dei suoi diritti. 3 Per ulteriori considerazioni sui profili funzionali del nuovo concordato fallimentare si rinvia a E. NORELLI, “La sistemazione dell’insolvenza attraverso il nuovo concordato fallimentare”, in questa Rivista, 2006, 274 ss. 4 In senso conf., G. LO CASCIO, “L’intervento correttivo ed integrativo de decreto legislativo 5/2006”, Fa, 2007, 870. 5 L’art. 9, comma 5, del d.lgs. n. 169 del 2007, stabilisce: «All’articolo 124 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, sono apportate le seguenti modificazioni: […] c) al quarto comma: 1) dopo le parole: “La proposta presentata” sono inserite le seguenti: “da uno o più creditori o”; 2) nel secondo periodo le parole “Il terzo” vengono sostituite dalle seguenti: “Il proponente”». 6 Lo stesso art. 9 al comma 10 detta: «L’articolo 137 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, è sostituito dal seguente: “Art. 137 (Risoluzione del concordato). - Se le garanzie promesse non vengono costituite o se il proponente non adempie regolarmente gli obblighi derivanti dal concordato, ciascun creditore può chiederne la risoluzione. Si applicano le disposizioni dell’articolo 15 in quanto compatibili. Al procedimento è chiamato a partecipare anche l’eventuale garante. La sentenza che risolve il concordato riapre la procedura di fallimento ed è provvisoriamente esecutiva. La sentenza è reclamabile ai sensi dell'articolo 18. Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto nel concordato. Le disposizioni di questo articolo non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti dal proponente o da uno o più creditori con liberazione immediata del debitore. Non possono proporre istanza di risoluzione i creditori del fallito verso cui il terzo, ai sensi dell’articolo 124, non abbia assunto responsabilità per effetto del concordato.”». 2 Con ciò può subito notarsi come il concordato su proposta di uno o più creditori o di un terzo si presenta come una fattispecie complessa, cui concorrono le volontà di soggetti diversi dal titolare del patrimonio che ne è oggetto, il quale ne rimane invece estraneo, e che dunque realizza una singolare ipotesi di disposizione dell’intero patrimonio altrui, invito domino. Il che è possibile, in realtà, solo grazie al provvedimento omologatorio del tribunale (come più avanti meglio si dirà). 2. La proposta di concordato: in generale. 1. La proposta di concordato, da chiunque provenga, consiste in una manifestazione di volontà, che è espressione dell’autonomia negoziale del proponente, ma che deve necessariamente essere riversata in una domanda giudiziale e incanalata in un procedimento: la proposta, infatti, «è presentata con ricorso al giudice delegato» (art. 125, primo comma, l. fall.). Di conseguenza, il regime di essa non può che essere quello degli atti processuali e non quello degli atti negoziali sostanziali7. Lo stesso deve dirsi per le manifestazioni di voto dei creditori, che, pur essendo manifestazioni di volontà, espressione anch’esse di autonomia negoziale, vanno nondimeno qualificate atti processuali, in quanto inserite nel procedimento giudiziale di formazione del concordato. Infatti, per far valere eventuali vizi della proposta o delle manifestazioni di voto, al di fuori dei mezzi di impugnazione propri del procedimento di formazione del concordato (reclamo ex art. 131 l. fall. e ricorso per cassazione) e dell’azione di annullamento ex art. 138 l. fall., «non è ammessa alcuna altra azione di nullità» (art. 138, primo comma, secondo periodo, l. fall.). 2. La proposta di concordato è, sempre, liberamente revocabile dal suo autore, finché non sia stata omologata con provvedimento non più impugnabile. Ciò si desume sia dalla mancanza di una norma che inibisca la revoca8, sia dall’art. 130, primo comma, l. fall., il quale stabilisce che «la proposta di concordato diventa efficace dal momento in cui scadono i termini per opporsi all’omologazione o dal momento in cui si esauriscono le impugnazioni previste dall’articolo 129»: tale disposizione non sembra felicemente formulata; tuttavia, da essa si evince che il concordato diviene impegnativo, e con ciò la proposta diviene irretrattabile, solo con la definitività del provvedimento omologatorio. La proposta, dunque, di per sé sola non produce alcun effetto sul piano sostanziale, né è impegnativa per il suo autore, ancorché sia stata approvata dai creditori. Sul piano processuale, poi, non sembra possa valere a impedire la revoca della proposta, la officiosità del procedimento di formazione del concordato, il quale, una volta aperto su iniziativa del proponente, si sviluppa per mero impulso di ufficio e deve, comunque, sfociare in un provvedimento giudiziale. Infatti, seppure si volesse ritenere che la domanda giudiziale, in cui deve essere contenuta la proposta, non può essere ritirata a ragione dell’officiosità del procedimento, tuttavia, la proposta che, appunto, vi è contenuta, in quanto dichiarazione di volontà negoziale, è pur sempre nella disponibilità del suo autore. Ciò trova, oggi, conferma nella disposizione per la quale, una volta che si sia pervenuti all’approvazione da parte dei creditori, il proponente ha l’onere di chiedere l’omologazione (art. 129, secondo comma, l. fall. ,“corretto”): il che vuol dire che, se egli non presenta la domanda, il 7 In tal senso, cfr. già T. Cassino (decr.), 10-5-1989, DF, 1990, II, 262. Cfr., invece, per un caso in cui è espressamente stabilita dalla legge la irrevocabilità (temporanea) di una dichiarazione a contenuto negoziale, intervenuta in un processo (e costituente perciò atto processuale), l’art. 571, secondo comma, c.p.c., il quale, riguardo al processo di espropriazione immobiliare, stabilisce che l’offerta di acquisto dell’immobile pignorato nella vendita senza incanto «non può essere revocata prima di venti giorni» («se un termine più lungo non è fissato dall’offerente»). 8 3 procedimento si blocca e il concordato non si perfeziona. Ed allora, il proponente, com’è libero di chiedere, o non, l’omologazione, così è libero di revocare la proposta9. Ma se ciò è indiscutibile, alla luce dell’or citata disposizione, prima dell’apertura del giudizio di omologazione, non è men vero dopo che tale giudizio sia stato instaurato con la domanda del proponente: infatti, se la proposta è nella disponibilità del proponente prima, non v’è ragione per cui non debba esserlo anche dopo, finché non si sia trasfusa nel provvedimento omologatorio. Una «proposta», che abbia i requisiti prescritti dall’art. 124 l. fall., costituisce presupposto indefettibile della omologazione, sicché essa deve sussistere non solo al momento dell’apertura del procedimento di concordato, bensì anche al momento della decisione del tribunale (o della corte d’appello, in secondo grado) nel giudizio di omologazione10. 9 Per quanto qui osservato, ed alla luce della citata disposizione del nuovo art. 129, secondo comma, l. fall., deve ritenersi non più attuale l’orientamento di Cass., 26-10-1961, n. 2405 (DF, 1961, II, 733; FI, 1961, I, 1602), la quale ritenne che «la proposta del debitore non possa più essere revocata, trascorso il termine di cui all’art. 125, e pronunziata dal giudice l’ordinanza che dichiara aperto il giudizio di omologazione», poiché, da quel momento, essendo sottratta «l’iniziativa del processo ad ogni potere dispositivo delle parti» e restando, quindi, il processo «regolato in toto dall’impulso officioso», alla sopravvenuta dichiarazione di revoca «non può riconoscersi l’efficacia di un recesso da una domanda giudiziale». In realtà, tale pronuncia, che accoglieva, del tutto condivisibilmente, la concezione “pubblicistica” (o “processualistica”) del concordato fallimentare, da un lato, non dava conto del duplice profilo dell’atto di iniziativa, processuale, quale domanda giudiziale, e negoziale, quale proposta (contenuta nella domanda), e, dall’altro, non spiegava convincentemente perché l’impulso officioso che domina il procedimento non consente la rinuncia alla domanda di concordato: che un procedimento su domanda di parte si sviluppi ex officio, senza bisogno di ulteriori impulsi di parte, non significa necessariamente che debba proseguire nonostante la volontà della parte istante di rinunciare a conseguire la tutela già chiesta, quanto meno quando tale rinuncia sia non già «rinuncia agli atti» (art. 306 c.p.c.), ma «rinuncia all’azione», ossia «definitiva abdicazione del potere di chiedere la tutela giurisdizionale», nel qual caso soltanto essa è manifestazione del potere dispositivo della parte e si connette al principio della domanda (artt. 99 c.p.c., 2907 c.c.) ed è perciò ammissibile anche laddove il processo prescinde dall’impulso di parte (in tal senso, R. VACCARELLA, “Rinuncia agli atti del giudizio”, Enc. dir., XL, Milano, 1989, 961). La decisione della C. S. sembra, comunque, ormai superata dalla nuova normativa sul punto. La più recente Cass., 19-11-1999, n. 12876 (DF, 2000, II, 900; Fa, 2000, 1026; FI, 2000, I, 2582), pur richiamando e ritenendo «ancora attuale» la testé citata decisione, non ha statuito sulla revocabilità della proposta, ma si è limitata a sancire l’inammissibilità del ricorso proposto ex art. 111 Cost. avverso il decreto del tribunale che abbia dichiarato inammissibile la revoca della proposta, sopravvenuta all’apertura del giudizio di omologazione, per difetto dei requisiti della decisorietà e della definitività del provvedimento impugnato, precisando che è solo la sentenza, «quale pronuncia conclusiva del giudizio di omologazione, ad avere il carattere di decisorietà con riguardo alle questioni insorte in sede di giudizio di omologazione, […] con riguardo alla modificabilità od alla sostituibilità dell’originaria proposta di concordato, su cui il giudice delegato ebbe ad aprire quel giudizio». 10 In analogo ordine di idee, già nel vecchio regime, cfr. T. Roma, 9-9-2002, n. 34011/02 (Fall. Maximo s.r.l.), inedita, la quale, a seguito della revoca della proposta di concordato dopo l’ordinanza del giudice delegato di apertura del giudizio di omologazione (art. 129, primo comma, vecchio testo), dichiarò non luogo a pronunciare l’omologazione per sopravvenuta revoca della proposta, così motivando: «Per consolidata giurisprudenza nel concordato fallimentare non può ravvisarsi una fattispecie contrattuale fra il fallito e i suoi creditori: la regolamentazione concordataria del dissesto, in alternativa alla esecuzione fallimentare, nasce ed è imposta solo dalla sentenza di omologazione (art. 135 l. fall.). La proposta di concordato, se non è identificabile nella proposta di contratto ex art. 1326 c.c., è, tuttavia, una dichiarazione di volontà, che costituisce un presupposto indispensabile della sentenza di omologazione. Come tale, essa, può essere revocata dal fallito proponente, fino a che non sia stata pronunciata la sentenza di omologazione, non sussistendo alcuna norma che espressamente lo vieti. Non ha alcuna rilevanza che il concordato sia già stato o meno approvato dai creditori, a norma dell’art. 128 l. fall., proprio perché tale “approvazione” non rappresenta “accettazione” di una proposta contrattuale, ai sensi dell’art. 1326 c.c. Né alla revocabilità della proposta di concordato è di ostacolo la considerazione che la “domanda al giudice delegato”, con cui essa viene avanzata (art. 124, comma 1°, l. fall.), apre un procedimento che si sviluppa per impulso di ufficio e che conserva carattere ufficioso anche nella fase del giudizio di omologazione in forma contenziosa ordinaria (art. 129 l. fall.). La “domanda” ex art. 124 l. fall. è indubbiamente atto processuale e, seppure si voglia ritenere che essa non può essere ritirata a ragione dell’ufficiosità del procedimento, tuttavia, essa (come si evince dall’art. 124 l. fall. e dalle disposizioni seguenti) si distingue dalla “proposta”, la quale, benché contenuta nella “domanda”, ha, invece, natura sostanziale e, in mancanza di norme contrarie, è sempre revocabile, finché non si sia trasfusa nella sentenza. Non ha alcuna incidenza sulla revocabilità della proposta, dunque, nemmeno che sia già stato dichiarato aperto o meno il giudizio di omologazione, ai sensi dell’art. 129 l. fall. Una volta presentata la “domanda”, il procedimento va avanti d’ufficio e deve, comunque, sfociare in un provvedimento giudiziale (del giudice delegato ex art. 125, comma 1°, o ex art. 129, comma 1°, ovvero del tribunale ex art. 130, comma 4 In conclusione, se appare sicuro che la proposta può essere liberamente revocata, fin tanto che non intervenga la pronuncia giudiziale che la omologa in primo grado, e che, invece, essa è definitivamente preclusa una volta che sia divenuto non più impugnabile il provvedimento omologatorio (di primo o di secondo grado), sembra che una revoca che sopravvenga dopo tale provvedimento, ma prima che esso divenga inoppugnabile, ancorché in astratto possibile, può essere neutralizzata dal regime processuale dell’impugnazione esperibile avverso il provvedimento medesimo11. 3. Per quanto innanzi osservato, pare evidente che il procedimento di formazione del concordato non è affatto sussumibile nello schema della conclusione del contratto, secondo la disciplina del codice civile, alla stregua della quale «il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte» (art. 1326, primo comma, c.c.), e «la proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso» (art. 1328, primo comma, c.c.). A riprova di ciò, va, altresì, evidenziato che, mentre la proposta contrattuale è indirizzata all’altra parte (art. 1326 c.c.), la proposta di concordato non è inviata creditori (ma «è presentata con ricorso al giudice delegato»), e che, mentre l’accettazione della proposta contrattuale deve «giungere al proponente» (art. 1326, secondo comma, c.c.) e, quindi, essere a lui indirizzata, le (eventuali) manifestazioni di dissenso dei creditori non devono giungere al proponente (ma devono «pervenire nella cancelleria»: artt. 125, secondo comma, 128, secondo comma, l. fall.). 4. La revoca della proposta comporta il venir meno di un elemento della fattispecie legale, sicché dovrà provvedersi di conseguenza, emettendo il provvedimento richiesto dalla fase in cui la revoca interviene. 5. La proposta sembra, invece, non modificabile: è la stessa struttura procedimentale del concordato che non consente che nel corso della sua formazione la proposta possa esser modificata. Una modifica equivarrebbe a revoca della proposta pendente e presentazione di una nuova proposta, per la quale occorrerà seguire ex novo il medesimo iter della precedente. 6. E’ da ritenere che per la presentazione della proposta di concordato non sia necessaria la difesa tecnica, ossia il patrocinio di un avvocato munito di procura (artt. 82 ss. c.p.c.): lo si desume dall’art. 152, primo comma, l. fall., a tenor del quale «la proposta di concordato per la società fallita è sottoscritta da coloro che ne hanno la rappresentanza sociale». Sicché non trova applicazione la disposizione dell’art. 125, primo comma, c.p.c., la quale esige che il ricorso (come ogni altro atto di parte) sia sottoscritto dal difensore , quando la parte non possa stare in giudizio personalmente. 3. Il contenuto della proposta. 1. Il contenuto della proposta può essere molto vario: la nuova normativa ha “liberalizzato” al massimo la strutturazione del concordato, coerentemente con la “liberalizzazione” della legittimazione all’iniziativa, in vista dell’obiettivo primario della “ottimizzazione” del soddisfacimento dei creditori, nonché di quello secondario della conservazione dei valori aziendali. 1°, l. fall.); ma la “proposta”, che abbia i requisiti prescritti dall’art. 124 l. fall., quale presupposto indefettibile della omologazione, deve sussistere non solo al momento dell’apertura del procedimento di concordato, bensì anche al momento della decisione del tribunale in sede di omologazione; per cui, se la proposta viene revocata prima che la sentenza sia emessa, il concordato non può essere omologato e il tribunale deve comunque provvedere con sentenza, a norma dell’art. 130, comma 1°, l. fall.». 11 Infatti, il proponente che si vede accogliere la domanda di omologazione non può impugnare il provvedimento, assumendo di aver revocato la proposta dopo la pronuncia del provvedimento medesimo; ma la revoca sopravvenuta può essere fatta valere solo da altro legittimato all’impugnazione, nei limiti, tuttavia, consentiti dalla disciplina del mezzo d’impugnazione esperito (reclamo o ricorso per cassazione). 5 Non vi sono più schemi rigidi, nei quali calare la proposta: la formulazione di questa è lasciata alla inventiva degli interessati, sia pure entro limiti ben precisi. 2. La normativa del 1942 delineava un unico schema strutturale di proposta, alquanto rigido, articolato in tre elementi indefettibili: a) l’offerta di una determinata percentuale (ai creditori chirografari, oltre ché – era elemento sottinteso, ma imprescindibile – l’impegno al pagamento dell’intero ai creditori privilegiati); b) l’indicazione del tempo del pagamento (ai chirografari); c) la descrizione delle garanzie (art. 124 l. fall., vecchio testo). Corollari indiscussi di tale schema erano che: la percentuale doveva essere uguale per tutti i creditori chirografari; il pagamento dei privilegiati doveva sempre essere integrale e immediato; le garanzie dovevano “coprire” l’intero onere concordatario (compreso, dunque, il passivo privilegiato). Si discuteva se, ed eventualmente in che limiti, le garanzie potessero essere “atipiche”. In tale schema strutturale poteva trovare spazio un solo elemento eventuale: l’«assunzione » da parte di un terzo, il quale «si accolla[va] l’obbligo di adempiere il concordato» (art. 124, secondo comma, l. fall., vecchio testo), ossia si obbligava a provvedere ai pagamenti in favore dei creditori concordatari, dietro cessione a lui stesso di tutte le attività fallimentari, ed eventualmente anche delle azioni revocatorie già promosse dal curatore (art. 124, secondo comma, l. fall., vecchio testo). L’assunzione poteva essere “liberatoria” o “cumulativa”, a seconda che comportasse o meno la liberazione immediata del debitore (art. 136, quarto comma, l. fall., vecchio testo). In ogni caso, anche nella proposta di concordato con assunzione doveva prevedersi: il pagamento di una determinata percentuale ai creditori chirografari, oltre ché il pagamento integrale e immediato dei creditori privilegiati; il tempo del pagamento dei chirografari; e (secondo l’opinione preferibile) le garanzie offerte dall’assuntore. In altri termini, la proposta doveva contenere gli stessi elementi strutturali della proposta di concordato “con garanzia”, cui si aggiungeva come elemento ulteriore l’assunzione, nel duplice profilo dell’intercessione del terzo nei debiti e del trasferimento a lui dei beni fallimentari. Si discuteva, peraltro, se l’impegno dell’assuntore verso i creditori concorsuali potesse essere limitato ai soli creditori ammessi al passivo, o a questi e a coloro che avessero già presentato la domanda di ammissione (in riferimento al disposto dell’art. 135, primo comma, l. fall., rimasto invariato); come pure, se l’assunzione potesse realizzarsi senza cessione dei beni. 3. La nuova disciplina, delineando, in via generale, uno schema di concordato più elastico e “aperto”, consente ai soggetti legittimati di strutturare più liberamente la proposta di concordato, lasciando loro una pluralità di opzioni. Infatti, l’unica proposizione prescrittiva in proposito, che si legge nell’art. 124, secondo comma, l. fall. è quella, di cui alla lettera c), secondo la quale «la proposta può prevedere […] la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti». In realtà, la proposta deve prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti, essendo questi i due requisiti minimi indispensabili del concordato, e la formulazione della disposizione come permissiva (può), anziché prescrittiva (deve), si spiega, perché essa mira a permettere che ciò che è indispensabile («la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti») si realizzi «attraverso qualsiasi forma». 4. La «ristrutturazione dei debiti» non può consistere in altro che nella modificazione dei rapporti obbligatori, la quale può toccare i soggetti e/o l’oggetto e/o il tempo dell’adempimento. La «soddisfazione dei crediti» integra un requisito finalistico: il concordato, comunque strutturato, deve tendere a procurare, in ogni caso, un soddisfacimento, sia pure minimo, per tutti i creditori, nessuno escluso (salvo quanto previsto dall’art. 124, quarto comma, secondo periodo, l. fall., su cui v. oltre). Rispetto a tale soddisfacimento, dunque, la «ristrutturazione dei debiti» si presenta quale mezzo rispetto al fine. 6 Ma per giungere alla «soddisfazione dei crediti», grazie alla «ristrutturazione dei debiti», occorre formulare nella proposta un “programma” o «piano» (come testualmente prevede l’art. 124, terzo comma, l. fall.: «La proposta può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione […]»), compiutamente determinato in tutti i suoi elementi, atteso che la proposta deve ricevere l’approvazione dei creditori e deve, poi, essere recepita nel decreto di omologazione del tribunale, senza che il tribunale stesso possa in alcun modo integrarla o modificarla, potendo solo omologarla o respingerla. 5. Non solo. La proposta, contenente il «piano» mirante alla «soddisfazione dei crediti», passando attraverso la «ristrutturazione dei debiti», non può essere formulata in termini ipotetici od optativi, deve rappresentare un preciso ed inequivoco impegno per il proponente (sia questi il fallito, un creditore o un terzo), suscettibile di divenire vincolante e irrevocabile per lui al completamento della fattispecie, ossia con il provvedimento omologatorio. Ciò risulta evidente da una pluralità di disposizioni (art. 124, quarto comma, secondo periodo, l. fall.: «Il proponente può limitare gli impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo […]»; art. 136, primo comma, l. fall.: «Dopo la omologazione del concordato il giudice delegato, il curatore e il comitato dei creditori ne sorvegliano l’adempimento […]», e terzo comma: «Accertata la completa esecuzione del concordato, il giudice delegato ordina lo svincolo delle cauzioni […]»; art. 137, primo comma, l. fall.: «Se le garanzie promesse non vengono costituite o se il proponente non adempie regolarmente gli obblighi derivanti dal concordato, ciascun creditore può chiederne la risoluzione»; sesto comma: «Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto nel concordato», settimo comma: «Le disposizioni di questo articolo non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti dal proponente o da uno o più creditori con liberazione immediata del debitore»; ottavo comma: «Non possono proporre istanza di risoluzione i creditori del fallito verso cui il terzo, ai sensi dell’articolo 124, non abbia assunto responsabilità per effetto del concordato»). Occorre dunque un «impegno» e che questo impegno sia assunto dal «proponente» (sicché è da escludere che possa prevedersi un impegno che sarà a carico di un terzo diverso dal proponente). Inoltre, detto impegno, come si evince dalle medesime disposizioni testé richiamate, deve essere assunto verso tutti i creditori, nei cui confronti il concordato è destinato a produrre i suoi effetti, più precisamente nei confronti di «tutti i creditori anteriori alla apertura del fallimento, compresi quelli che non hanno presentato domanda di ammissione al passivo» (art. 135, primo comma, l. fall.)12, ossia tutti i creditori concorsuali (chirografari e privilegiati), salvo quanto previsto dall’art. 124, quarto comma, secondo periodo, l. fall. (su cui meglio si dirà più avanti). 6. Non c’è dubbio, allora, che – come già anticipato – la proposta integri una manifestazione di volontà negoziale, ancorché non sufficiente di per sé, e nemmeno a seguito della approvazione dei creditori, a produrre gli effetti del concordato, occorrendo pur sempre la omologazione da parte del tribunale, che completa la fattispecie. 7. Da quanto detto innanzi discende, altresì, che, dovendo gli impegni assunti essere attuali, ossia immediatamente operativi al completamento della fattispecie, e stabili, ossia permanenti fino alla realizzazione dell’obiettivo, non è ammissibile sottoporre la proposta di concordato ad alcuna condizione, sospensiva o risolutiva, né ad alcun termine di efficacia, iniziale o finale: il concordato si fa per chiudere il fallimento con una nuova regolamentazione dei rapporti obbligatori coinvolti, il 12 Non sembra, perciò, legittima (e dovrebbe rilevarsene d’ufficio la irritualità ex art. 125, secondo comma, l. fall.) una proposta di concordato proveniente da un terzo, che dichiarasse di non voler assumere alcun obbligo direttamente vero i creditori, impegnandosi soltanto a pagare una determinata somma alla curatela a fronte della cessione di tutte le attività fallimentari. 7 che esige certezza degli «obblighi assunti» e, quindi, del «piano» che il proponente si impegna ad attuare per procurare ai creditori la «soddisfazione dei crediti» loro promessa13. L’efficacia del concordato non è nella disponibilità delle parti (proponente, creditori), né degli organi del fallimento, ma è stabilita dalla legge, come può evincersi dall’art. 130, primo comma, l. fall. (il quale, con formula, per la verità, inappropriata dice che «la proposta di concordato diventa efficace dal momento in cui scadono i termini per opporsi all’omologazione, o dal momento in cui si esauriscono le impugnazioni previste dall’articolo 129»). 8. Ciò peraltro non vuol dire che non siano prefigurabili nell’ambito del «piano» eventi incerti al cui verificarsi o non verificarsi si preveda che si dovranno porre in essere determinate misure: simili “condizioni” non subordinano all’evento incerto il prodursi o il venir meno degli effetti del concordato, in quanto tale, ma collegano all’evento incerto modalità alternative di realizzazione del «piano», le quali, comunque, debbono essere predeterminate nel «piano» medesimo. 9. E’ fuori discussione – come già nel previgente regime – che la proposta deve, altresì, prevedere, in ogni caso, la soddisfazione integrale e immediata di tutti i crediti prededucibili (c.d. “debiti di massa”). 4. La «ristrutturazione dei debiti»: a) riguardo al soggetto obbligato. 1. Riguardo al soggetto obbligato, può aversi che al fallito si aggiunge o si sostituisce un altro obbligato, sicché il fallito nel primo caso rimane obbligato in solido, nel secondo viene immediatamente liberato (s’intende, una volta divenuto efficace il concordato, ossia quando diventa definitivo il decreto di omologazione: art. 130 l. fall.). Si tratta dell’ipotesi (già nota) di concordato con assunzione (cumulativa o liberatoria). A tale tipo di concordato accenna l’art. 124, secondo comma, lettera c), l. fall., laddove stabilisce che «la proposta può prevedere: […] c) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti […] anche mediante […] accollo». Ed è a questo tipo di concordato che si riferisce anche il quarto comma dello stesso art. 124. 13 La dottrina è sempre stata contraria a ritenere ammissibili clausole contenenti termini o condizioni: cfr. A. BONSIGNORI, Del concordato, in Commentario Scialoja-Branca – Legge fallimentare, Bologna-Roma, 1977, 173; e già G. BONELLI, Del fallimento, 3^ ed., Milano, 1938, III, 27, il quale osservava che «o si avrebbe la continuazione per un tempo determinato o indeterminato di uno stato di fallimento senza procedura di fallimento, che non può esser voluta dalla legge […]; o si avrebbe una riapertura del fallimento senza proclamazione giudiziaria e con effetto retroattivo; ciò che sarebbe un disastro pel credito commerciale». In giurisprudenza cfr. T. Cassino (decr.), 10-5-1989, DF, 1990, II, 262, ove si nega legittimità ad una proposta di concordato sospensivamente condizionata alla rinuncia da parte di alcuni creditori del fallito ad una esecuzione immobiliare promossa in danno di un terzo coobbligato, sul rilievo che termini e condizioni «contrasterebbero con l’esigenza di certezza del concordato», in quanto «differirebbero o metterebbero in forse quella somma di effetti, sostanziali e processuali, che si compendiano nella chiusura del fallimento e che devono prodursi, necessariamente ed automaticamente, al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione, in forza della norma dell’art. 131, ult. comma, legge fall.». Nel senso, invece, dell’ammissibilità di una proposta di concordato preventivo «condizionata»: A. M. AZZARO, “Concordato preventivo e autonomia privata”, Fa, 2007, 1277, il quale, rimanendo sul piano dell’astratta teoria (poiché il concordato è un contratto – egli sostiene –, può essere sottoposto a condizione, in base alla disciplina generale dei contratti, purché non si tratti di «una condizione meramente potestativa, impossibile o illecita»), non si fa carico di spiegare come sia possibile che resti nel limbo della pendenza della condizione sospensiva uno stato di insolvenza, che reclama una immediata regolazione concordataria ovvero una sollecita apertura della procedura fallimentare, né come sia giustificabile e regolabile il travolgimento retroattivo di tutti gli effetti prodotti dal concordato omologato al verificarsi della condizione risolutiva. Pare evidente che l’interesse pubblico alla sistemazione dell’insolvenza non tollera che sia lasciata alle parti private la disponibilità degli effetti del concordato (sia esso preventivo o successivo). 8 2. A differenza, però, che nello schema del concordato di cui al vecchio art. 124, la proposta di assunzione è svincolata dalla iniziativa, e, quindi, dalla volontà del fallito: mentre prima l’assunzione non poteva non essere contenuta nella proposta del fallito, essendo al fallito riservata in via esclusiva la legittimazione a proporre il concordato, ora il terzo assuntore può presentare la proposta da solo, oppure anche insieme con il fallito, in veste di co-proponente. Se ne tratterà meglio più avanti. 5. Segue: b) riguardo ai soggetti attivi. 1. Riguardo ai soggettivi attivi dei rapporti obbligatori, ossia i creditori, la nuova disciplina sembra ammettere, addirittura, che a loro possano essere sostituiti altri soggetti, quando consente che si possano prevedere nella proposta «operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito» (art. 124, secondo comma, lettera c), l. fall.). Ciò vorrebbe dire che una attribuzione satisfattiva dei crediti concorrenti, anziché essere fatta ai creditori, potrebbe essere fatta a soggetti diversi, sempre ché questi siano società di cui i creditori siano soci, sicché la soddisfazione di costoro non sarebbe diretta, ma indiretta, derivando dall’incremento di valore delle loro partecipazioni per effetto dell’attribuzione fatta alle società partecipate. La norma non dice di più ed il congegno con cui l’operazione può realizzarsi rimane alquanto oscuro. Ci si deve chiedere, tra l’altro, a che titolo la società partecipata (che è soggetto estraneo all’originario rapporto obbligatorio) riceva l’attribuzione (si potrebbe pensare a un meccanismo riconducibile alla figura della delegazione attiva) e se occorra il suo consenso e come e quando questo vada manifestato. 2. Data l’eccezionalità della previsione, sembra che simile «ristrutturazione» soggettiva debba rimanere circoscritta all’ipotesi espressamente prevista, cioè quella dell’attribuzione di titoli o quote in luogo del pagamento di una percentuale, e non possa, comunque, riguardare i creditori privilegiati, quando il concordato ne preveda la soddisfazione integrale, ovvero, per la parte coperta dalla garanzia, qualora di loro sia prevista la soddisfazione non integrale ai sensi del terzo comma dell’art. 124 l. fall., e ciò perché essi non hanno diritto di voto e non possono, quindi, essere costretti ad accettare alcuna forma di soddisfacimento indiretto delle loro ragioni creditorie. 6. Segue: c) riguardo all’oggetto, nei confronti dei creditori chirografari. 1. Riguardo all’oggetto, si può avere, innanzitutto, nei confronti dei creditori chirografari, una riduzione della somma dovuta a ciascun creditore, ossia la previsione del pagamento in una misura percentuale. Dovendosi rispettare la par condicio creditorum, è indispensabile che, in ogni caso, nella proposta sia prevista una percentuale (al limite, anche del 100%)14 e che tale percentuale sia uguale per tutti i creditori chirografari, salvo che si faccia luogo alla suddivisione dei creditori in classi. La percentuale può essere predeterminata nella proposta (come nello schema dell’art. 124 l. fall., vecchio testo) oppure determinata solo a posteriori, ma ciò solo in caso di cessio bonorum (fattispecie di concordato che ora deve ritenersi possibile in base alla nuova normativa: v. infra), nel qual caso la percentuale sarà quella che sarà resa possibile dalla liquidazione dei beni ceduti. 14 Non sembra possa escludersi un concordato che preveda il pagamento integrale anche dei chirografari, purché comunque ci sia una «ristrutturazione dei debiti», e questa può consistere anche nel mero riscadenzamento della debitoria, avendosi così un concordato meramente dilatorio. Nel senso dell’ammissibilità di un concordato meramente dilatorio cfr. T. Cassino (decr.), 10-2-1989, DF, 1990, II, 269. 9 Non è prescritta (come già nella vecchia disciplina) una misura minima della percentuale da offrire; in ogni caso, una percentuale, quale che sia (purché non insignificante o irrisoria), deve esserci per tutti i creditori chirografari, poiché occorre rispettare l’altro requisito indispensabile del concordato, ossia «la soddisfazione dei crediti». Dunque, la predeterminazione della misura della percentuale nella proposta non può mancare, salvo che si preveda la cessione dei beni ai creditori. 2. Come detto, in linea di principio, la percentuale (determinata a priori o a posteriori, che sia) deve essere uguale per tutti i creditori chirografari, in virtù della regola della par condicio creditorum. Ma anche su questo punto la nuova disciplina permette di introdurre una incisiva variante rispetto allo schema tradizionale del concordato, perché l’art. 124, secondo comma, l. fall. consente che la proposta possa prevedere: «a) la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei; b) trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse, indicando le ragioni dei trattamenti differenziati dei medesimi». E’, così, possibile prevedere percentuali diverse per i creditori chirografari collocati in classi diverse, ma all’interno di ciascuna classe riprende vigore la regola della par condicio e, quindi, la percentuale deve essere uguale per tutti gli appartenenti alla classe. 3. La suddivisione dei creditori in classi può farsi soltanto per i creditori chirografari, non anche per quelli muniti di prelazioni. Infatti, costoro debbono essere tutti pagati per intero, sicché non sono ipotizzabili «trattamenti differenziati» riguardo loro. Nell’ipotesi, poi, che ne sia prevista la «soddisfazione non integrale» ex art. 124, terzo comma, l. fall. (su cui v. oltre), per la parte non “coperta” dal valore stimato del bene oggetto della prelazione, essi «sono considerati chirografari» (art. 127, quarto comma, l. fall.), sicché come chirografari (non come privilegiati) possono essere collocati in classi diverse e ricevere trattamenti differenziati15. 4. Sempre con riguardo alle modifiche oggettive, nei confronti dei creditori chirografari, è possibile prevedere nella proposta, anziché il pagamento di una percentuale in danaro, l’attribuzione «di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito», nell’ambito di eventuali «operazioni straordinarie». Anche in tali ipotesi, tuttavia, occorre pur sempre determinare nella proposta la misura percentuale del credito che verrà soddisfatta, anziché col pagamento in danaro, con l’attribuzione di partecipazioni o di titoli, perché ciò esige la par condicio. 5. Le «operazioni straordinarie» non sono meglio individuate, ma la norma sembra richiamare operazioni sul capitale della società fallita o di società terze, che consentano l’assegnazione di titoli azionari o quote di partecipazione o dietro conferimento dei crediti concordatari, o con assolvimento degli obblighi di conferimento per via di compensazione con detti crediti, oppure ancora a titolo di datio in solutum (art. 1197 c.c.). 15 Che la suddivisione in classi non possa riguardare i creditori privilegiati, ma solo i creditori chirografari (e i privilegiati “degradati” a chirografari) trova conferma sia nella disposizione per la quale «il concordato è approvato» se «la maggioranza dei crediti ammessi al voto» si verifica «nel maggior numero di classi» (art. 128, primo comma, secondo periodo, l. fall.), e dalla quale si desume che non sono ipotizzabili classi di creditori non ammessi al voto e tali sono i creditori privilegiati «dei quali la proposta di concordato prevede l’integrale pagamento» (art. 127, secondo comma, l. fall.), e i creditori privilegiati «di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale» per la parte del credito non coperta dalla prelazione (art. 127, quarto comma, l. fall.); sia nella mancata riproduzione, nel nuovissimo testo (di cui al decreto “correttivo”), della disposizione del comma ottavo dell’art. 128 (ante correttivo), per la quale «al fine di quanto previsto dal settimo comma, le classi di creditori non ammessi al voto ai sensi del secondo comma dell’articolo 127» – ossia quelle dei «creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, dei quali la proposta di concordato prevede l’integrale pagamento» – «sono considerate favorevoli ai soli fini del requisito della maggioranza delle classi». In ogni caso, da una piana lettura dell’art. 127, quarto comma, l. fall. risulta chiaro che i creditori «muniti di diritto di prelazione» non hanno mai diritto di voto per la parte del loro credito coperta dalla prelazione. 10 Siffatte operazioni, una volta eseguite, determinano l’estinzione degli originari rapporti obbligatori e la sostituzione di questi con i rapporti “incorporati” nei titoli assegnati o con i rapporti di partecipazione sociale oggetto di attribuzione: si verifica, dunque, una sorta di novazione (art. 1230 c.c.). Ciò comporta che il concordato è adempiuto con l’attribuzione dei titoli o delle partecipazioni ai creditori: dal concordato, infatti, non deriverebbe altro effetto obbligatorio che quello avente ad oggetto l’attribuzione delle azioni o quote, effettuata la quale si esaurirebbe l’adempimento, con conseguente totale liberazione del fallito, sicché eventuali inadempimenti nell’ambito dei rapporti “sostitutivi” non potrebbero mai dar luogo a risoluzione del concordato ex art. 137 l. fall. 6. I titoli e le quote in discorso possono essere sia titoli o quote di nuova emissione o creazione, appositamente emessi o creati per l’attribuzione ai creditori concordatari, sia titoli o quote già esistenti, della stessa società fallita o della società assuntrice del concordato, oppure di società terze: la norma non sembra porre limitazioni al riguardo. 7. Non sembra dubbio, poi, che le operazioni in discorso debbano compiersi alla stregua delle regole del diritto societario (cui la normativa fallimentare non porta alcuna deroga) e che, perciò, ove riguardino il capitale della società fallita, richiedano deliberazioni dell’assemblea adottate nelle forme di legge, vale a dire, in definitiva, il consenso dei soci. 8. La proposta potrebbe, ad es., prevedere il conferimento dei beni fallimentari in una società per azioni o a responsabilità limitata (già costituita o di nuova costituzione, che potrebbe farsi, oggi anche con atto unilaterale, ad iniziativa dello stesso fallito16, di uno o più creditori o di un terzo), con conseguente assegnazione ai creditori delle azioni emesse o delle quote create a fronte del conferimento, a soddisfacimento dei loro crediti. Si potrebbe pensare, altresì, ove il fallito sia una s.p.a. o una s.r.l., ad una operazione di abbattimento, ricostituzione e aumento del capitale della medesima società fallita mediante utilizzo, come conferimento (oppure in via di compensazione), dei crediti concorsuali e conseguente assegnazione ai creditori delle nuove azioni o quote. In tal caso, i beni fallimentari rimarrebbero nel patrimonio della società fallita, sicché, ferma l’identità di questa, muterebbe solo l’assetto societario interno, la compagine sociale, che vedrebbe al posto dei vecchi soci i creditori divenuti soci. In entrambe le delineate fattispecie si avrebbe una «ristrutturazione dei debiti» ben più incisiva che nelle altre ipotesi, poiché i crediti si trasformerebbero in quote di capitale di rischio. 9. Simili fattispecie, certamente ammissibili ai sensi della nuova disciplina, suscitano forti perplessità sul piano della conformità a Costituzione, dal momento che, con esse, in sostanza, si viene ad imporre ai creditori non consenzienti di entrare in una società e di apportarvi i loro crediti: sorge, quindi, il dubbio della violazione del principio di libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) e della connessa garanzia dell’autonomia negoziale privata, poiché i creditori non consenzienti si troverebbero ad essere partecipi, contro o in assenza di una loro scelta volontaria, di un’attività economica e astretti a un vincolo negoziale non voluto, che li priva dei loro crediti. Va evidenziato che nelle prefigurate fattispecie non vi sarebbe soltanto incisione dei diritti dei singoli creditori: il problema non è tanto se per volontà della “maggioranza” (prevista dalla legge) si possa (per il necessario tramite del provvedimento omologatorio del tribunale) “disporre” dei crediti coinvolti nel concordato (riducendo la somma dovuta e fissando nuove scadenze) – il che è fuori discussione –, ma se possa costituirsi, per volontà della “maggioranza”, un rapporto giuridico 16 Il fallito potrebbe, all’uopo, utilizzare somme non comprese nel fallimento ex art. 46 l. fall., oppure giovarsi dell’intervento di un terzo che adempia in suo luogo l’obbligo del conferimento (art. 1180 c.c.). 11 “nuovo”, di partecipazione ad un’attività economica, e imporsi tale rapporto anche a chi non lo voglia: proprio ciò – a mio avviso – non è compatibile con i principi costituzionali17. 10. Non vi sarebbe, invece, alcun problema, ove fosse prevista l’attribuzione di obbligazioni convertibili in azioni (della società fallita o della società conferitaria), poiché, in tal caso, ciascun creditore avrebbe la facoltà di scelta, se diventare azionista o rimanere creditore. 11. Le predette attribuzioni non sembra, comunque, possano essere previste per i creditori privilegiati, giacché essi hanno diritto al soddisfacimento integrale e immediato e correlativamente sono esclusi dal voto (art. 127, secondo comma, l. fall.), salvo quanto previsto dagli artt. 124, terzo comma, e 127, quarto comma, l. fall., per cui non possono essere obbligati ad accettare, contro la loro volontà, qualcosa di diverso da un pagamento in danaro. 7. Segue: d) riguardo all’oggetto, nei confronti dei creditori privilegiati. 1. La nuova disciplina, infrangendo un dogma, quello della intangibilità dei creditori muniti di prelazione (comunemente definiti tutti “privilegiati”), rende possibile incidere anche la posizione di tali creditori, prevedendo che vengano soddisfatti non integralmente. Anche rispetto a loro si ammette una «ristrutturazione» come modificazione dell’oggetto dei rapporti obbligatori, ma solo nel senso di prevedere che essi vengano soddisfatti «in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) designato dal tribunale» (così il nuovo testo “corretto” dell’art. 124, terzo comma, l. fall., mentre il testo del 2006 recitava: «avuto riguardo al valore di mercato attribuibile al cespite o al credito oggetto della garanzia indicato nella relazione giurata di un esperto o di un revisore contabile o di una società di revisione designati dal tribunale»)18. 17 Sembra pertinente il richiamo alla giurisprudenza costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 38, 41, 42, 44 Cost., delle norme sull’«imponibile di mano d’opera», di cui al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 16 settembre 1947, n. 929, contenente norme circa il massimo impiego di lavoratori agricoli (ratificato con legge 17 maggio 1952, n. 621), osservando, tra l’altro, che tali norme vengono «a gravemente interferire e incidere sulla personale iniziativa dell’operatore agricolo», in quanto «la libera valutazione e conseguente autodeterminazione in ordine a quelli che, a suo giudizio, possono essere gli adeguati elementi per dimensionare l’azienda e provvedere alla sua interna organizzazione sono notevolmente turbate o sostituite da immissione, nel complesso equilibrio dell’azienda, di elementi non richiesti, spesso non ritenuti idonei». Di tal ché, non può riconoscersi la legittimità di norme «le quali, anziché informate a una generale visione nelle prospettate direzioni», indicate nel terzo comma dell’art. 41 Cost. (ossia «idonee a delineare, da un punto di vista della generale utilità, programmi diretti a stimolare, indirizzare, coordinare l’attività economica al fine di dare effettivo incremento alla produzione, agganciandosi eventualmente anche a nuove risorse offerte dal mercato internazionale, e di creare, come è auspicabile, una situazione tale che possa naturalmente determinare fruttuoso assorbimento di mano d’opera»), «siano congegnate in modo da interferire nell’attività economica di singoli operatori, turbando e comprimendo quell’iniziativa privata che è garantita dal primo comma dello stesso articolo». Infatti, «l’obbligo imposto ad operatori di assumere prestatori d’opera anche contro la valutazione da essi fatta della organizzazione della propria azienda resta estraneo al disposto del terzo comma e non può inquadrarsi nelle provvidenze di ordine generale ivi previste» (sentenza 16/30-12-1958, n. 78). 18 Sembra che la mancanza della relazione giurata del professionista avente i requisiti di legge (e, quindi, anche la mancanza di tali requisiti) sia rilevabile d’ufficio sia dal giudice delegato, in sede di esame preventivo della proposta ex art. 125 l. fall., sia dal tribunale in sede di omologazione ex art. 129 l. fall., non potendosi ritenere «rituale» una proposta che preveda la soddisfazione non integrale dei creditori privilegiati senza che vi sia una relazione di stima (di un soggetto abilitato) che determini la misura di tale soddisfazione non integrale, né che in siffatta ipotesi la procedura possa considerarsi «regolare». Al contrario, sembra che eventuali manchevolezze o errori nella relazione non possano essere rilevati d’ufficio né dal giudice delegato, in sede di esame preventivo della proposta ex art. 125 l. fall., né dal tribunale in sede di omologazione ex art. 129 l. fall., riflettendosi sul contenuto della proposta e, quindi, incidendo non sulla «ritualità» bensì sulla “legittimità sostanziale” della proposta medesima, e possano, perciò, essere dedotti come motivo di opposizione dal creditore interessato che si ritenga leso. Nel giudizio di omologazione, a seguito 12 2. Nel limite indicato, dunque, anche i creditori privilegiati ora possono subire una riduzione del loro credito, ma solo «per la parte residua del credito», ossia per la parte per la quale la prelazione non opera per incapienza del bene che ne è oggetto, in quanto essi per tale parte «sono considerati chirografari» (art. 127, quarto comma, l. fall.). Ciò vuol dire, allora, che per questa parte residua hanno diritto di voto e deve essere prevista anche per loro una percentuale. Tale percentuale deve essere quella stessa offerta ai creditori chirografari, e, quindi, una percentuale uguale per tutti, se non vi è suddivisione in classi; invece, può essere differenziata, se detti privilegiati, per la parte “degradata”, sono collocati in una o più classi diverse. In quest’ultimo caso, però, va rispettata la prescrizione, secondo cui «il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione» (art. 124, terzo comma, secondo periodo, l. fall.)19: in altri termini, ai creditori privilegiati collocati in una certa classe per la parte “chirografaria” del loro credito si deve attribuire una percentuale maggiore di quella attribuita alla classe dei creditori privilegiati che hanno grado inferiore nell’ordine della cause legittime di prelazione. 3. Da quanto detto discende che un credito privilegiato può essere “degradato” per intero a chirografario (e ricevere il relativo trattamento nel concordato), ove il valore del bene oggetto della prelazione copra solo (in tutto o in parte) i crediti privilegiati di grado pozione. 4. La disposizione dell’art. 124, terzo comma, l. fall. consente pure di risolvere un altro problema, quello del trattamento da farsi al credito privilegiato, quando non vi sia nel patrimonio fallimentare il bene oggetto della prelazione. In simile situazione, il credito privilegiato, ai fini del concordato (diritto di voto e percentuale), può essere considerato interamente chirografario (ancorché ammesso al passivo con prelazione), poiché non essendovi il bene, non può esservi un «ricavato in caso di liquidazione» (e non occorre alcuna «relazione giurata»). Pertanto, se la proposta ne prevede il pagamento integrale, nulla quaestio: il titolare di esso come creditore privilegiato (così ammesso al passivo o riportato nell’elenco provvisorio) non ha diritto di voto; ma la proposta ne può prevedere «la soddisfazione non integrale», e allora il creditore va trattato come creditore chirografario per l’intero credito. A meno che il bene non possa essere recuperato mediante «azioni di pertinenza della massa» (in primis, le revocatorie), già autorizzate dal giudice delegato, delle quali sia prevista nella proposta la cessione a un terzo assuntore (art. 124, quarto comma, l. fall.), nel qual caso si dovrà tener conto del presumibile valore di realizzo del bene. 5. Si pone, poi, il problema se la esistenza del bene nel patrimonio fallimentare sia da verificare solo al momento della proposta o se possano aver rilievo, e come, fatti successivi (sopravvenuta acquisizione del bene oggetto della prelazione durante l’iter che porta all’omologazione della proposta di concordato). 6. Le nuova disciplina, a seguito del “decreto correttivo”, sembra applicabile non solo ai creditori muniti di prelazioni speciali (privilegio speciale, pegno, ipoteca), ma anche a quelli assistiti da dell’opposizione, il tribunale, ex art. 129, quinto comma, l. fall. potrebbe disporre consulenza tecnica d’ufficio (sia su richiesta di parte sia d’ufficio) per verificare i vizi denunciati dall’opponente. 19 Tale prescrizione non attiene alla «ritualità» (ossia alla “legittimità formale”) della proposta, ma concernendo il contenuto della proposta e, quindi, le posizioni di diritto soggettivo dei singoli creditori, tocca la “legittimità sostanziale” della proposta medesima. La violazione, pertanto, non può essere rilevata d’ufficio né dal giudice delegato, in sede di esame preventivo della proposta ex art. 125 l. fall., né dal tribunale in sede di omologazione ex art. 129 l. fall., ma può essere dedotta come motivo di opposizione dal creditore interessato che si ritenga leso. 13 prelazione generale, ossia da privilegio generale sui mobili (ai sensi dell’art. 2746 c.c.: «Il privilegio è generale o speciale. Il primo si esercita su tutti i beni mobili del debitore, il secondo su determinati beni mobili o immobili»). Ciò si evince dalla modifica dell’art. 124, terzo comma, l. fall., laddove all’espressione «creditori muniti di diritto di prelazione» del testo del 2006 si è sostituita l’espressione «creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca», e all’espressione «valore di mercato attribuibile al cespite o al credito oggetto della garanzia» l’espressione «valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione». Quindi, poiché pegno e ipoteca attribuiscono una prelazione che non può che essere speciale (ossia esercitabile solo su quel determinato bene che è oggetto del diritto di garanzia), la “correzione” riguarda i creditori assistititi da privilegio, i quali ora, sia esso speciale o generale, possono tutti essere soddisfatti non integralmente20. Si legge, infatti, nella Relazione ministeriale al d.lgs. n. 169 del 2007: «Al terzo comma, in accoglimento dell’osservazione della Camera, si precisa che il debitore ha la possibilità di offrire un pagamento in percentuale non solo ai creditori muniti di un privilegio speciale, nella parte in cui il credito sia incapiente, ma anche a quelli muniti di un privilegio generale, sempre nella misura in cui tale credito non risulti capiente»21. 7. Se questo è l’intendimento del legislatore, non resta che prenderne atto, non senza evidenziare le difficoltà applicative della nuova norma, di cui il legislatore sembra non aver tenuto conto. Il privilegio generale, avendo ad oggetto tutti i beni mobili del debitore, nell’esecuzione concorsuale, non si appunta su uno o più determinati beni individuabili a priori al momento dell’apertura della procedura (come invece accade per le prelazioni speciali), ma comprende la massa indistinta delle attività mobiliari, anche quelle che sopravverranno nel corso della procedura, sicché l’oggetto di esso è determinabile solo a posteriori, al momento cioè del riparto, e consisterà nelle somme di danaro ricavate non solo dalla vendita dei beni mobili, ma anche da ogni altra entrata realizzata dal curatore, che sia non riconducibile alla liquidazione di beni immobili. Infatti l’art. 111-ter, secondo comma, l. fall. stabilisce che «la massa liquida attiva mobiliare è costituita da tutte le altre entrate», diverse da quelle che costituiscono «la massa liquida attiva immobiliare», ossia diverse dalle «somme ricavate dalla liquidazione dei beni immobili, come definiti dall’articolo 812 del codice civile, e dei loro frutti e pertinenze, nonché dalla quota proporzionale di interessi attivi liquidati sui depositi delle relative somme» (primo comma). Ciò posto, il «ricavato in caso di liquidazione», su cui potrebbe essere fatto valere il privilegio generale e che deve essere quantificato nella relazione giurata, deve comprendere tutte le attività diverse da quelle immobiliari, e quindi il «valore di mercato attribuibile» alle cose mobili, ai crediti, ai titoli di credito, alle partecipazioni societarie e agli altri diritti mobiliari esistenti nel patrimonio fallimentare, nonché le somme di danaro già incassate dal curatore a qualunque titolo (diverso dalla vendita di immobili)22, dal momento che sono «sono mobili tutti gli altri beni» (art. 812, terzo comma, c.c.) diversi da quelli che sono qualificati «immobili» (dall’art. 812, commi primo e secondo) e «le disposizioni concernenti i beni mobili si applicano a tutti gli altri diritti» che non siano «diritti reali che hanno per oggetto beni immobili» (art. 813 c.c.). Si rende, perciò, necessaria una precisa inventariazione delle attività mobiliari ex art. 87 l. fall.. Il momento al quale fare riferimento sembra essere quello della presentazione della proposta di concordato, dovendo per forza di cose la relazione giurata far riferimento a un preciso momento anteriore alla sua redazione. 20 In senso conf.: A. JORIO, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Aggiornamento al d.lgs. 169/2007, Bologna, 2007, 50, il quale, tuttavia, rileva come «il nuovo 3° co. non sia al riguardo del tutto perspicuo»; L. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, 2^ ed., Torino, 2007, 276. 21 Nel parere della Commissione Giustizia della Camera dei deputati si era invitato il Governo a valutare «l’opportunità di prevedere la possibilità che sia offerto un pagamento in percentuale non solo al creditore privilegiato speciale, nella parte in cui il credito sia incapiente, ma anche a quello generale, sempre nella misura in cui il credito non sia capiente». 22 Secondo GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, cit., 276, bisognerebbe tener conto anche dell’esito delle azioni recuperatorie e revocatorie e dei tempi di realizzo. Ma ciò appare molto problematico. 14 Sembra, poi, che il «ricavato in caso di liquidazione» debba essere determinato al netto del presumibile ammontare delle spese relative alle operazioni di realizzo, nonché della quota-parte di crediti prededucibili (ivi compreso il compenso del curatore), che dovrebbe gravare sulla massa attiva mobiliare, se (in alternativa al concordato) si procedesse alla liquidazione fallimentare, in quanto deve assicurarsi al creditore privilegiato una soddisfazione non minore di quella che otterrebbe attraverso il riparto fallimentare. 8. Il professionista «designato dal tribunale»23 deve essere «in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d)», l. fall., ossia deve essere «un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili e che abbia i requisiti previsti dall’articolo 28, lettere a) e b)», l. fall., vale a dire i requisiti per la nomina a curatore fallimentare: «a) avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti; b) studi professionali associati o società tra professionisti, sempre che i soci delle stesse abbiano i requisiti professionali di cui alla lettera a)»; in questo secondo caso, «all’atto dell’accettazione dell’incarico, deve essere designata la persona fisica responsabile» dell’espletamento dell’incarico medesimo. 9. La «relazione giurata» viene ad integrare la proposta di concordato, la quale solo se poggiata su di essa può proseguire il suo corso24. La medesima relazione, in quanto redatta su iniziativa del proponente e al di fuori di ogni controllo dei creditori, non può minimamente vincolare questi ultimi. I creditori privilegiati, direttamente ad essa interessati, avendo diritto di voto per la parte del credito per la quale la proposta di concordato sulla base della relazione non prevede la soddisfazione integrale (art. 127, quarto comma, l. fall.), potranno far valere le loro doglianze, esprimendo il loro dissenso ex art. 128, secondo comma, l. fall., e, poi, mediante l’opposizione nel giudizio di omologazione ex art. 129, commi secondo e terzo, l. fall. Altrettanto potranno fare gli altri creditori. Nel corso del giudizio di opposizione sembra che non possa essere escluso l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio per riesaminare le valutazioni fatte dal professionista designato. In difetto di dissenso e di opposizione, una volta omologata la proposta di concordato, la «relazione giurata» non sembra più contestabile, in quanto recepita nel provvedimento omologatorio. 8. Segue: e) riguardo al tempo dell’adempimento. 1. Riguardo al tempo dell’adempimento, una modificazione dei rapporti obbligatori può consistere nella previsione di una o più (nuove) scadenze per il pagamento della percentuale o l’attribuzione dei titoli o delle quote. L’indicazione nella proposta del tempo del pagamento è sicuramente necessaria, ove non si preveda la cessione dei beni, e salvo che si voglia offrire il pagamento immediato di tutti i creditori (art. 23 S’intende, dal tribunale fallimentare (art. 23, primo comma, l. fall.), quindi dal collegio, che provvederà «con decreto» (art. 23, secondo comma, l. fall.). La designazione va chiesta da chi vi ha interesse, ossia dal proponente, con ricorso (art. 737 c.p.c.). La designazione potrà essere chiesta e fatta, indifferentemente, prima o dopo la presentazione della proposta, nulla disponendo la norma al riguardo. Posto che si tratta di una mera «designazione» per il compimento di un atto, cui l’interessato potrà dar corso oppur no (se egli vorrà presentare la proposta o mandare avanti la proposta, che preveda la soddisfazione non integrale di crediti privilegiati, dovrà munirsi della relazione giurata, la quale non potrà essere fatta che dal designato), e non del conferimento di un incarico per un’attività che il giudice reputi debba essere svolta nel caso concreto, al fine di essere «assistito» nel compimento di atti che non è in grado di compiere da sé solo (art. 68 c.p.c.), il professionista non può essere qualificato come «ausiliare» del tribunale né del giudice delegato, non assistendo né l’uno né l’altro; nemmeno può essere qualificato come «coadiutore» del curatore, posto che egli non interviene a coadiuvare il curatore in operazioni di sua competenza (art. 32, secondo comma, l. fall.). Il suo compenso, perciò, non può che essere a carico dell’interessato che ne ha chiesto la designazione e la liquidazione dovrà essere fatta, in base alle tariffe professionali, nei modi ordinari, non dal tribunale designante, né dal giudice delegato, al quale ultimo spetta di liquidare i compensi soltanto agli incaricati «la cui opera è stata richiesta dal curatore nell’interesse del fallimento» (art. 25, primo comma, n. 4, l. fall.). 24 La relazione appare, dunque, essere una condizione di procedibilità della proposta (v. infra). 15 1183, primo comma, c.c.: «Se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla immediatamente»), come risulta dal sesto comma dell’art. 137 l. fall. («Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto nel concordato») e dal terzo comma dell’art. 138 l. fall. («Il ricorso per l’annullamento deve proporsi nel termine di sei mesi dalla scoperta del dolo e, in ogni caso, non oltre due anni dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto nel concordato»). Nel caso si preveda la cessione dei beni ai creditori, invece, il tempo del pagamento non può essere prefissato e risulterà dai riparti del ricavato della liquidazione dei beni ceduti. 2. Il riscadenzamento del debito può riguardare solo i creditori chirografari, ma non può toccare i creditori privilegiati, se non per la parte dei loro crediti “degradata” a chirografo, ai sensi dell’art. 124, terzo comma, l. fall.: tali creditori sono esclusi dal voto e, pertanto, hanno diritto al pagamento immediato, oltre ché integrale. 3. Un particolare riscadenzamento è quello che può realizzarsi con l’attribuzione di titoli obbligazionari o titoli di debito emessi dalla stessa società fallita ovvero dalla società assuntrice del concordato: tali titoli rappresentano un tipico strumento di finanziamento a medio-lungo termine e possono consentire, grazie alla loro commerciabilità, una più lunga dilazione delle scadenze. 9. Le garanzie. 1. La nuova disciplina nulla dice in punto di garanzie, relativamente alla proposta, salvo, poi, a prevedere che può chiedersi la risoluzione del concordato «se le garanzie promesse non vengono costituite» (art. 137, primo comma, l. fall.), ed ora, a seguito del “correttivo”, anche che il giudice delegato, cui la proposta di concordato è presentata, «chiede il parere del curatore, con specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione ed alle garanzie offerte» (art. 125, primo comma, l. fall.). 2. Rispetto alla disciplina del 1942, sembra che non sia più necessario che la proposta di concordato preveda la costituzione di garanzie a copertura dell’intero onere concordatario (come, invece, si doveva ritenere – a mio avviso – necessario per il disposto dell’art. 124, primo comma, vecchio testo). Infatti, il nuovo art. 124 l. fall. non richiede più che la proposta contenga «la descrizione delle garanzie offerte per il pagamento». La prestazione di sufficienti garanzie non fa più parte integrante dello schema legale della proposta di concordato e non condiziona più, quindi, l’ammissibilità della proposta. Nemmeno si può più discutere, allora, dell’ammissibilità di garanzie “atipiche”, ossia diverse da quelle (reali o personali) previste dalla legge: qualunque garanzia, tipica o atipica, è legittima. La prestazione o meno di garanzie, la tipicità o atipicità di esse, la misura della copertura dell’onere concordatario, che realizzano, sono tutti elementi del “merito” della proposta, non diversamente dalla serietà e affidabilità delle garanzie stesse, le quali, dunque, vanno valutate solo in termini di idoneità (in concreto) a dare sicurezza dell’adempimento, valutazione, questa, che refluisce in quella della convenienza della proposta. 3. Tale valutazione è rimessa, in prima battuta, al curatore, il cui parere, obbligatorio, ma non vincolante, deve aver riguardo specificamente alle «garanzie offerte» (art. 125, primo comma), se queste vi sono, ed al comitato dei creditori, del quale si richiede il «parere favorevole» (art. 125, secondo comma), parere, dunque, vincolante, perché la proposta possa andare avanti; e, in seconda battuta, ai creditori, chiamati ad approvare la proposta. Va subito evidenziato che il “correttivo” – rispetto al testo del 2006 – ha capovolto il “rango” del parere dei predetti due organi, rendendo “vincolante” (nel senso che sarà chiarito più avanti) il 16 parere del comitato che prima era solo obbligatorio e meramente obbligatorio, invece, il parere del curatore che prima era vincolante. Ciò ben si giustifica, perchè si è voluto che sia l’organo rappresentativo del ceto creditorio, ossia dei diretti interessati, a fare una valutazione di merito decisiva per dar corso alla fase deliberativa del concordato, coerentemente con l’impostazione “liberistica” della nuova disciplina. 10. Il concordato proposto da uno o più creditori o da un terzo. 1. Chiarito quanto innanzi sui due requisiti-base della proposta di concordato, ossia la «ristrutturazione dei debiti» e la «soddisfazione dei crediti», possono individuarsi alcune diverse tipologie di concordato sulla base del contenuto che la proposta può assumere in relazione alla diversa possibile modulazione dei predetti requisiti. Va, tuttavia, preliminarmente verificato quali sono, in generale, i limiti di contenuto della proposta che si impongono in relazione al soggetto proponente. 2. La legittimazione a proporre il concordato conferita a «uno o più creditori» o a «un terzo» (art. 124, primo comma, primo periodo) pone il problema dei limiti, di carattere sostanziale, a cui la proposta presentata da costoro deve soggiacere, perché non ne risulti illegittimamente lesa la sfera giuridico-patrimoniale del fallito. Benché la norma nulla dica al riguardo, sembra che non possa ammettersi che un creditore o un terzo possa proporre un concordato, da cui derivino impegni del fallito, da adempiersi a seguito dell’omologazione, così come potrebbe fare il fallito, se fosse egli a fare la proposta. Un soggetto diverso dal fallito può indubbiamente proporre un concordato che abbia efficacia obbligatoria nei confronti dello stesso proponente, come pure un concordato che produca effetti dispositivi sui beni del fallito, ossia un concordato che comporti il trasferimento di beni e diritti del fallito a un terzo. In ogni caso, dovendo, come si è detto, qualunque proposta di concordato, da chiunque presentata, prevedere l’assunzione di un qualche impegno da parte del proponente verso i creditori concordatari, è chiaro che la proposta proveniente da un creditore o da un terzo non può non avere anche (o soltanto) un’efficacia obbligatoria a suo carico, vale a dire non può esaurirsi in un mero trasferimento (ossia avere un’efficacia meramente traslativa). Ciò che, invece, sembra doversi escludere è che il concordato proposto da un creditore o da un terzo possa avere efficacia obbligatoria a carico del fallito, senza il concorso della volontà di questo, e, quindi, se il fallito stesso non si rende co-proponente il concordato medesimo. Diversamente, la proposta proveniente solo da un creditore o da un terzo determinerebbe (ove mai fosse omologata) una inammissibile compressione dell’autonomia negoziale, in violazione dei principi desumibili dagli artt. 41 e 42 Cost. Tant’è vero che, in caso di inadempimento, il fallito, pur non proponente, andrebbe (assurdamente) incontro alla sanzione penale per il delitto di bancarotta semplice, per non avere «soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato […] fallimentare» (art. 217, primo comma, n. 5, l. fall.): il che dimostra che le obbligazioni concordatarie non possono che essere «assunte» volontariamente dal fallito e giammai essergli imposte senza il concorso della sua volontà. 3. Per quanto riguarda, invece, un concordato con efficacia traslativa, un concordato, cioè, che comporti il trasferimento dei beni fallimentari al proponente (oltre ché l’assunzione di obblighi da parte di costui), non sembrano esserci problemi: i beni del fallito sono già assoggettati all’esecuzione concorsuale, in virtù della sentenza di fallimento, che costituisce una sorta di “pignoramento generale”, per cui detti beni sono già sottratti al potere di disposizione del debitore, astretti al vincolo di destinazione al soddisfacimento dei creditori e sottoposti alla potestà degli organi pubblici mirante a realizzare tale soddisfacimento. Si tratta, allora, solo di stabilire come si debba procedere per raggiungere tale obiettivo: un terzo (o un creditore o un gruppo di creditori) 17 può proporre un concordato che prefiguri soluzioni alternative, più vantaggiose, rispetto alla liquidazione fallimentare, soluzioni che possono implicare anche la fuoriuscita dei beni dal patrimonio del fallito e il trasferimento allo stesso proponente o ad altro soggetto25. Ciò è possibile perché la legge attribuisce al tribunale il potere di far sì che la proposta, concorrendo il consenso maggioritario dei creditori, divenga il «concordato», ossia una nuova regolamentazione delle obbligazioni coinvolte nel dissesto, obbligatoria per tutti i creditori concorsuali, oltre ché per il debitore (art. 135 l. fall.), realizzando così un’alternativa rispetto agli strumenti esecutivi di attuazione della responsabilità patrimoniale del debitore (artt. 2740-2910 c.c.). Il fallito, dunque, di fronte alla liquidazione fallimentare dei suoi beni, come di fronte al concordato proposto da terzi, si trova nella stessa posizione di mera soggezione, creata dalla sentenza di fallimento. Ma ciò, appunto, sempre ché non si preveda l’assunzione di impegni a suo carico, per l’adempimento del concordato, nel qual caso, evidentemente, andandosi al di là della mera soggezione, in cui egli è già posto, non può prescindersi dal concorso della sua volontà e, dunque, da una sua partecipazione alla proposta concordataria. Pertanto, nel limite indicato, la norma che consente la proposta del terzo appare costituzionalmente legittima, perché essa non si risolve in una indebita intromissione nell’altrui sfera giuridicopatrimoniale, espropriativa dei beni e/o lesiva dell’autonomia negoziale del fallito, ad opera di terzi (il proponente, i creditori che approvano la proposta, il tribunale che la omologa), in violazione degli artt. 41 e 42 Cost., ma costituisce uno strumento rivolto a consentire che il patrimonio del debitore, che rappresenta la “garanzia generica” dei creditori, sia utilizzato per procurare il soddisfacimento dei creditori stessi. 4. La proposta presentata da «uno o più creditori o da un terzo» deve avere quali destinatari “necessari”: a) i creditori «ammessi al passivo, anche provvisoriamente»; b) i creditori «che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta»; può (ma non deve) essere indirizzata anche agli «altri creditori», vale a dire ai creditori concorsuali (ossia «anteriori alla apertura del fallimento»: art. 135, primo comma, l. fall.) che non hanno presentato alcuna domanda di ammissione (né tempestiva, né tardiva). Ciò è quanto dispone l’art. 124, quarto comma, secondo periodo, l. fall., il quale non consente al proponente (che non sia il fallito) di escludere dal novero dei destinatari dei suoi «impegni» alcuno dei creditori testé indicati sub a) e b), consentendogli, invece, di non impegnarsi nei confronti degli altri, ferma restando, in tal caso, la responsabilità verso costoro del fallito non proponente. Con tale disposizione si permette di circoscrivere l’ambito dell’efficacia soggettiva del concordato, il quale, altrimenti, ove manchi nella proposta una espressa clausola limitativa degli impegni del proponente, obbligherebbe quest’ultimo nei confronti di tutti i creditori concorsuali, ancorché non insinuatisi, ai sensi dell’art. 135, primo comma, l. fall. Sarebbe, quindi, illegittima una proposta (proveniente da «uno o più creditori o da un terzo») che fosse limitata ai creditori ammessi al passivo (vuoi che si rivolga ai soli creditori che siano già stati ammessi al tempo della presentazione, vuoi che si rivolga anche a quelli che vengano ammessi successivamente fino alla omologazione e, dunque, alla chiusura del fallimento). In quanto non rispondente allo schema legale, siffatta proposta sarebbe «irrituale», sicché il giudice delegato, 25 Quanto rilevato spiega anche – a mio avviso – la differenza fra concordato preventivo e concordato fallimentare in punto di iniziativa (e cioè di legittimazione alla proposta): riguardo al concordato fallimentare la proposta del terzo è possibile, perché il patrimonio dell’insolvente è già sottoposto all’esecuzione concorsuale, in virtù della sentenza di fallimento; riguardo al concordato preventivo, invece, non è possibile che l’iniziativa venga da un terzo, perché il patrimonio non è ancora assoggettato a vincolo e la proposta del terzo si risolverebbe in un’indebita intromissione nel patrimonio altrui e in una menomazione della libertà negoziale e di iniziativa economica privata dell’imprenditoredebitore. In senso conf., cfr. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, cit., 272, il quale osserva che, «una volta dichiarato il fallimento e privato il debitore della disponibilità della sua impresa e del suo patrimonio non vi è ragione perché una regolazione alternativa alla liquidazione secondo le regole della procedura del fallimento debba necessariamente passare attraverso l’iniziativa del debitore, ormai fallito e spossessato». 18 rilevatane la illegittimità “formale”, dovrebbe rifiutare l’ordine di comunicazione di essa ai creditori ex art. 125, secondo comma, l. fall. 4.1. La portata precettiva della disposizione dell’art. 124, quarto comma, secondo periodo, l. fall.va meglio chiarita. I creditori «ammessi al passivo» sono i creditori ammessi con provvedimento definitivo prima della pronuncia (in primo o in secondo grado) del decreto di omologazione; vale a dire: i creditori risultanti dallo stato passivo esecutivo (art. 96, quinto comma, l. fall.), contro i quali non sia stata proposta impugnazione ex art. 98, terzo comma, l. fall.; i creditori (già esclusi dallo stato passivo e poi) ammessi a seguito di opposizione ex art. 98, secondo comma, l. fall. con provvedimento non più impugnabile; i creditori tardivi ammessi con decreto ex art. 101 l. fall. non impugnato ex art. 98, terzo comma, l. fall.; i creditori tardivi (già esclusi dal giudice delegato con decreto ex art. 101 l. fall. e poi) ammessi a seguito di opposizione ex art. 98, secondo comma, l. fall. con provvedimento non più impugnabile. Tali creditori hanno, incontestabilmente, il diritto di partecipare ai riparti fallimentari (art. 111 l. fall.), e, così, di ottenere pagamenti non più ripetibili (salvo revocazione: art. 114 l. fall.); pertanto, dovendo il concordato (per la sua stessa ragion d’essere) assicurare risultati quanto meno equivalenti a quelli conseguibili attraverso la liquidazione e la ripartizione dell’attivo, la proposta di concordato non può non contenere l’impegno del proponente al soddisfacimento (nella misura e nei modi ivi indicati) di tutti i predetti creditori, incondizionatamente, ossia con preclusione di qualsiasi contestazione in ordine alla esistenza e all’ammontare del credito ed alle prelazioni che eventualmente lo assistono. E ciò anche se il provvedimento di ammissione viene emesso o diventa definitivo dopo la presentazione della proposta, purché prima della chiusura del fallimento a seguito dell’omologazione, ma sempre ché l’opposizione o la domanda tardiva (in accoglimento della quale è disposta l’ammissione al passivo) sia anteriore alla presentazione della proposta (perché se posteriore, il proponente può, ma non deve impegnarsi nei loro confronti, come testualmente prevede la norma in esame). 4.2. I creditori «ammessi provvisoriamente» si identificano nei creditori esclusi dal giudice delegato che, avendo proposto (prima della presentazione della proposta di concordato) opposizione allo stato passivo, hanno ottenuto nel corso del giudizio ex art. 99 l. fall. un provvedimento di ammissione provvisoria, come pure nei creditori tardivi che (avendo proposto la domanda di ammissione prima della presentazione della proposta di concordato ed essendo stati esclusi dal giudice delegato) hanno proposto opposizione avverso il decreto di esclusione ex art. 101 l. fall., ottenendo anch’essi nel corso del giudizio ex art. 99 l. fall. un provvedimento di ammissione provvisoria. Ma tali sembra debbano essere ritenuti anche i creditori opponenti che, all’esito del giudizio dinanzi al tribunale, siano stati ammessi con decreto, contro il quale sia stato proposto o sia ancora proponibile ricorso per cassazione (art. 99, dodicesimo comma, l. fall.); come pure i creditori ammessi nello stato passivo ovvero tardivamente ex art. 101 l. fall., i cui crediti siano stati impugnati ex art. 98, terzo comma, l. fall. (sempre ché l’impugnazione non sia stata ancora definitivamente rigettata). Tutti costoro si ritrovano, infatti, al momento della chiusura del fallimento conseguente alla omologazione, nella comune condizione di essere ammessi al passivo con un provvedimento non ancora divenuto definitivo, e, quindi, di essere ammessi «provvisoriamente». Tali creditori, se il fallimento dovesse proseguire, avrebbero diritto agli accantonamenti nei riparti parziali (art. 113, primo comma, n. 2, 3 e 4, l. fall.) e a vedere tutelata la loro posizione in ordine al riparto finale, il quale, infatti, non si potrebbe fare, prima che siano definiti i giudizi pendenti che hanno ad oggetto i loro crediti (come si desume, da un canto, dall’art. 117, primo comma, l. fall., secondo cui «nel riparto finale vengono distribuiti anche gli accantonamenti precedentemente fatti», e, dall’altro canto, dall’impossibilità di prosecuzione dei predetti giudizi dopo la chiusura del fallimento ex art. 120 l. fall.). 19 Ciò posto, pare evidente che la proposta di concordato non può non riguardare anche loro e contenere l’impegno del proponente a soddisfarli (nella misura e nei modi ivi indicati), ma non incondizionatamente: avendo essi un titolo non definitivo, il proponente può, ma non deve, impegnarsi, nella proposta, a pagarli, a prescindere da un (successivo) accertamento giudiziale del loro credito. Se la proposta contiene simile impegno, nulla quaestio; altrimenti, il proponente, una volta omologata la proposta, e, quindi, perfezionatosi il concordato, sarà tenuto a fare accantonamenti a loro favore per somme pari a quelle cui essi avrebbero avuto diritto in caso di ammissione con provvedimento definitivo. I creditori in questione sono, infatti, «creditori contestati» e dovrà, perciò, trovare applicazione la disposizione per cui «le somme spettanti ai creditori contestati, condizionali o irreperibili, sono depositate nei modi stabiliti dal giudice delegato» (art. 136, secondo comma, l. fall.). Tale deposito dovrà, allora, essere fatto e mantenuto, in attesa che il credito in contestazione sia accertato giudizialmente per via ordinaria: non potendosi proseguire, dopo la chiusura del fallimento, i procedimenti endofallimentari di accertamento del passivo, si dovrà instaurare ex novo un procedimento di cognizione secondo la comune disciplina del codice di rito26. 4.3. Angolo trattamento dovrà essere fatto ai creditori ammessi con riserva, per essere i loro crediti «condizionati» o a questi equiparati («quelli che non possono farsi valere contro il fallito, se non previa escussione di un obbligato principale»: art. 55, terzo comma, l. fall.), ovvero «crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento» (art. 96, terzo comma, n. 1 e 3, l. fall.). Costoro hanno diritto agli accantonamenti non solo nelle ripartizioni parziali (art. 113, primo comma, n. 1, l. fall.), ma altresì nel riparto finale (art. 117, sondo comma, l. fall.), in attesa dell’avveramento della condizione o del passaggio in giudicato del provvedimento (da cui è dipesa la riserva). Anche nei loro confronti, perciò, la proposta di concordato deve contenere l’impegno del proponente a provvedere al soddisfacimento (nella misura e nei modi ivi indicati), subordinatamente al verificarsi degli eventi di cui si è in attesa, e, una volta intervenuta l’omologazione, si dovrà effettuare il deposito delle «somme spettanti», «nei modi stabiliti dal giudice delegato» (art. 136, secondo comma, l. fall.)27. 4.4. Se il proponente (che non sia il fallito) può evitare di impegnarsi nei confronti dei creditori che non hanno presentato domanda (né tempestiva né tardiva) di ammissione al passivo, a maggior ragione egli non è tenuto ad assumere alcun impegno verso i creditori definitivamente esclusi dallo 26 Conferma di ciò si trae dalla disposizione dell’art. 120, quarto comma, l. fall., per la quale «il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per gli effetti di cui all’articolo 634 del codice di procedura civile», ove è chiaro che si fa riferimento a un «decreto» divenuto definitivo, perché non più impugnabile (il riferimento alla «sentenza» appare, invece, un refuso, essendosi precisato nell’art. 99 l. fall., ultima versione, che i provvedimenti di accertamento del passivo sono dati sempre e solo con decreto). Se, chiuso il fallimento, un decreto di ammissione definitivo può essere utilizzato dal creditore solo come «prova scritta» del credito, un decreto non definitivo non può avere alcuna efficacia. 27 Per i creditori ammessi con riserva per «mancata produzione del titolo» (dipendente «da fatto non riferibile al creditore»), i quali pure hanno diritto agli accantonamenti nelle ripartizioni parziali (art. 113, primo comma, n. 1, l. fall.), dovendo «la produzione» avvenire «nel termine assegnato dal giudice», è da ritenere che la riserva debba essere sciolta (ex art. 113-bis, l. fall.) prima della chiusura del fallimento, non essendo per loro previsti accantonamenti nel riparto finale (accantonamenti in tal sede – i quali «non impediscono la chiusura della procedura» – possono, e debbono, essere fatti soltanto per i crediti ammessi con riserva perché condizionali o perché accertati con provvedimento non ancora passato in giudicato: art. 117, secondo comma, l. fall.). Pertanto, anche in caso concordato deve provvedersi allo scioglimento della riserva prima dell’omologazione, e, quindi, della chiusura, di modo che, se il credito risulterà ammesso «definitivamente», il proponente sarà tenuto al soddisfacimento incondizionato del creditore al pari di ogni altro «creditore ammesso»; se il credito risulterà escluso e il creditore proporrà opposizione, il proponente sarà tenuto nei suoi confronti subordinatamente all’accertamento giudiziale (post-fallimentare) del credito, ma dovrà, comunque, medio tempore, fare il deposito della «somma spettante», trattandosi di un «credito contestato» (art. 136, secondo comma, l. fall.); se, infine, il credito risulterà definitivamente escluso, per mancata proposizione dell’opposizione avverso il provvedimento di esclusione, il proponente non sarà per nulla obbligato verso il creditore. 20 stato passivo (vuoi perché il provvedimento di esclusione del giudice delegato, su domanda tempestiva o tardiva, non è stato impugnato con l’opposizione ex art. 98, secondo comma, l. fall., vuoi perché l’opposizione, pur proposta, è stata rigettata con pronuncia non più impugnabile, vuoi perché il provvedimento di ammissione del giudice delegato è stato impugnato ex art. 98, terzo comma, l. fall. e la decisione del tribunale di accoglimento dell’impugnazione non è più impugnabile). Deve, anzi, ritenersi che sia del tutto naturale che la proposta di concordato, presentata da «uno o più creditori o da un terzo», non sia rivolta (anche) ai creditori (definitivamente) esclusi dallo stato passivo, sicché costoro, pur in mancanza di una espressa clausola di esclusione, non sono annoverabili fra i destinatari della proposta (salvo espressa clausola di inclusione) e, quindi, fra i soggetti nei cui confronti si esplicano, a seguito e in virtù dell’omologazione, gli effetti del concordato (art. 135, primo comma, l. fall.). Essi, pertanto, non potranno pretendere alcunché dal proponente in sede di esecuzione del concordato, né saranno mai legittimati a chiedere la risoluzione del concordato medesimo (come confermato dall’art. 137, settimo comma, l. fall.). Tuttavia, anche verso di loro, come verso i creditori non insinuatisi, «continua a rispondere il fallito», posto che il provvedimento di esclusione dallo stato passivo produce «effetti soltanto ai fini del concorso» (art. 96, sesto comma, l. fall.): chiuso il fallimento, il creditore escluso, che è rimasto estraneo al concordato e non risente, quindi, degli effetti di questo (art. 135, primo comma, l. fall.), non essendosi formato un giudicato negativo dell’esistenza del credito, può ancora pretendere il pagamento – per l’intero e non solo nella percentuale concordataria – dal fallito tornato in bonis e agire in giudizio nei suoi confronti per l’accertamento del credito e la conseguente condanna (art. 120, terzo comma, l. fall.). 5. Quanto innanzi esposto rende palese come dalla esaminata disciplina si evinca che lo stato passivo esecutivo è imprescindibile ai fini del concordato, perché la proposta non può non recepire le risultanze di esso, di guisa che ne riesce determinato l’ambito dei destinatari della proposta medesima e, così, circoscritta l’efficacia soggettiva del concordato (art. 135, primo comma, l. fall.) e delineata la base della sua esecuzione (art. 136 l. fall.). Pertanto, pur quando la proposta sia presentata prima della pronuncia del decreto di esecutività dello stato passivo (art. 124, primo comma, l. fall.), a questo bisognerà comunque pervenire, sicché occorrerà, in ogni caso, completare il procedimento di formazione dello stato passivo prima della definizione del giudizio di omologazione. Concludendo sul punto, può osservarsi che, limitatamente ai crediti ammessi al passivo, i provvedimenti di accertamento del passivo, ancorché produttivi di «effetti soltanto ai fini del concorso» (art. 96, sesto comma, l. fall.), finiscono per essere vincolanti, nei limiti indicati, anche ai fini del concordato: il che, tuttavia, avviene non già per forza propria di quei provvedimenti, bensì, di riflesso, in virtù del decreto di omologazione, nel quale è recepita la proposta, il cui contenuto deve conformarsi a quanto con essi stabilito. 11. Il concordato proposto dal fallito. 1. L’art. 124 l. fall., come si è visto, sembra consentire che la proposta proveniente dal fallito possa essere riempita del più vario contenuto, purché essa miri alla «soddisfazione dei crediti». Tuttavia, questa libertà non è senza limiti. In linea generale, può dirsi che il concordato deve tendere ad assicurare ai creditori il massimo soddisfacimento possibile e, quindi, non sembra legittima una proposta che miri a consentire al fallito di limitare la sua responsabilità patrimoniale, mettendo al sicuro e sottraendo alle aspettative di soddisfacimento dei creditori una parte dei suoi beni: ciò è incompatibile coi principi di cui agli artt. 2740 e 2910 c.c. 21 2. La proposta del fallito può prevedere l’assunzione di obblighi a carico del medesimo fallito (concordato “remissorio”: con efficacia obbligatoria), oppure l’assunzione di obblighi da parte di un soggetto diverso dal fallito con o senza il connesso trasferimento di beni e diritti del fallito all’assuntore (concordato con assunzione dei debiti e cessione dei beni), oppure ancora la sottrazione al fallito (s’intende: per dopo l’omologa e, quindi, la chiusura del fallimento ex art. 130, secondo comma, l. fall.) di poteri inerenti ai suoi diritti (concordato con cessio bonorum). 3. Come si è detto, pare ragionevole ritenere che, quando il concordato abbia efficacia obbligatoria a carico del fallito, imponga, cioè, al fallito di tenere determinati comportamenti per la sua stessa esecuzione, non si possa prescindere dal concorso della volontà del fallito, il quale, perciò, deve essere o unico proponente o co-proponente il concordato. 4. Il concordato proposto dal fallito deve sempre avere quali destinatari tutti i creditori concorsuali, ossia «tutti i creditori anteriori alla apertura del fallimento, compresi quelli che non hanno presentato domanda di ammissione al passivo», perché il concordato è destinato a produrre effetti nei confronti di tutti costoro (art. 135, primo comma, l. fall.) e al fallito non è consentito di non impegnarsi verso taluni creditori. E’ permesso, infatti, solo al terzo o al creditore proponente, non anche al fallito, di «limitare gli impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta» (art. 124, quarto comma, l. fall.). Tanto è vero che, in caso di concordato proposto da altri e limitato ai predetti creditori, verso i creditori esclusi «continua a rispondere il fallito»; sicché è chiaro che il fallito, grazie al concordato, non può mai liberarsi nei confronti dei creditori non insinuati. 4.1. Il fallito proponente deve, innanzitutto, impegnarsi nei confronti di tutti i creditori ammessi al passivo con provvedimento definitivo anteriore all’omologazione. Per quanto sopra detto riguardo alla proposta di concordato di altro soggetto legittimato, anche la proposta del fallito deve contenere l’impegno a soddisfare (nella misura e nei modi ivi indicati) tutti i predetti creditori incondizionatamente, ossia con preclusione di qualsiasi contestazione in ordine alla esistenza e all’ammontare del credito ed alle prelazioni che eventualmente lo assistono28. 4.2. Nei confronti degli altri creditori concorsuali l’impegno del fallito può essere, invece, subordinato all’accertamento giudiziale dei loro crediti, da farsi dopo l’omologazione attraverso i comuni procedimenti di cognizione disciplinati dal codice di rito. 4.2.1. In particolare, quanto ai creditori che, al momento della chiusura del fallimento conseguente alla omologazione, si trovano ad essere ammessi al passivo con un provvedimento non ancora divenuto definitivo (vale a dire: i creditori esclusi dal giudice delegato che, avendo proposto opposizione allo stato passivo, hanno ottenuto nel corso del giudizio ex art. 99 l. fall. un provvedimento di ammissione provvisoria; i creditori tardivi che hanno proposto opposizione avverso il decreto di esclusione ex art. 101 l. fall., ottenendo anch’essi nel corso del giudizio ex art. 99 l. fall. un provvedimento di ammissione provvisoria; i creditori opponenti che, all’esito del giudizio dinanzi al tribunale, siano stati ammessi con decreto, contro il quale sia stato proposto o sia 28 In senso conf., nel vecchio regime, BONSIGNORI, Del concordato, cit., 427 s., il quale osservava che il vincolo del fallito verso i creditori ammessi sussiste (e deve «considerarsi precluso rispetto ai crediti verificati» un accertamento giurisdizionale successivo all’omologazione del concordato) «tanto se sia stata emanata sentenza irreformabile nell’opposizione o nell’impugnazione dello stato passivo, dato che v’è giudicato, quanto se risultino semplicemente ammessi con il menzionato decreto dell’art. 97 legge fall., perché la sentenza di omologazione, pur non accertando i crediti concordatari, tuttavia presuppone lo stato passivo qual è stato in concreto verificato dal giudice delegato, in quanto solo ai risultati di quella verifica ha fatto riferimento la proposta del fallito». 22 ancora proponibile ricorso per cassazione ex art. 99, dodicesimo comma, l. fall.; i creditori ammessi nello stato passivo ovvero tardivamente ex art. 101 l. fall., i cui crediti siano stati impugnati ex art. 98, terzo comma, l. fall., e l’impugnazione non sia stata ancora definitivamente rigettata), il fallito proponente può, ma non deve, impegnarsi, nella proposta, a pagarli (nella misura e nei modi indicati nella medesima proposta), a prescindere da un successivo accertamento giudiziale del loro credito. Se la proposta non contiene simile impegno, il fallito proponente sarà tenuto nei loro confronti subordinatamente all’accertamento giudiziale, ma, una volta perfezionatosi il concordato, egli dovrà effettuare il deposito delle «somme spettanti» loro «nei modi stabiliti dal giudice delegato», essendo essi «creditori contestati» (art. 136, secondo comma, l. fall.), in attesa che i crediti in contestazione siano accertati per via ordinaria. 4.2.2. Quanto ai creditori ammessi con riserva, per essere i loro crediti «condizionati» o a questi equiparati («quelli che non possono farsi valere contro il fallito, se non previa escussione di un obbligato principale»: art. 55, terzo comma, l. fall.), ovvero «crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento» (art. 96, terzo comma, n. 1 e 3, l. fall.), per le ragioni sopra esposte riguardo alla proposta del terzo o del creditore, non di meno la proposta di concordato del fallito deve contenere l’impegno a soddisfare anche tali creditori (nella misura e nei modi ivi indicati), subordinatamente al verificarsi degli eventi di cui si è in attesa. Nelle more, una volta intervenuta l’omologazione, il fallito proponente dovrà, pure in tal caso, effettuare il deposito delle «somme spettanti» ai predetti creditori, «nei modi stabiliti dal giudice delegato» (art. 136, secondo comma, l. fall.)29. 4.2.3. Quanto, poi, ai creditori esclusi dallo stato passivo con provvedimento non più impugnabile, è da ritenere che nemmeno verso costoro il fallito proponente possa evitare di impegnarsi, ma subordinatamente – s’intende – all’accertamento giudiziale in sede ordinaria del loro credito: infatti, anche i predetti creditori, se sono «creditori anteriori alla apertura del fallimento», sono destinatari degli effetti del concordato (art. 135, primo comma, l. fall.) e non vi è alcuna norma che consenta al fallito (a differenza che al terzo proponente) di tenerli fuori della sfera di efficacia soggettiva del concordato30. D’altro canto, i provvedimenti di esclusione dallo stato passivo, come tutti gli altri provvedimenti di accertamento endofallimentare del passivo, ancorché definitivi, «producono effetti soltanto ai fini 29 Per i creditori ammessi con riserva per «mancata produzione del titolo» (dipendente «da fatto non riferibile al creditore»), i quali pure hanno diritto agli accantonamenti nelle ripartizioni parziali (art. 113, primo comma, n. 1, l. fall.), dovendo «la produzione» avvenire «nel termine assegnato dal giudice», è da ritenere che la riserva debba essere sciolta (ex art. 113-bis, l. fall.) prima della chiusura del fallimento, non essendo per loro previsti accantonamenti nel riparto finale (accantonamenti in tal sede – i quali «non impediscono la chiusura della procedura» – possono, e debbono, essere fatti soltanto per i crediti ammessi con riserva perché condizionali o perché accertati con provvedimento non ancora passato in giudicato: art. 117, secondo comma, l. fall.). Pertanto, anche in caso concordato deve provvedersi allo scioglimento della riserva prima dell’omologazione, e, quindi, della chiusura, di modo che, se il credito risulterà ammesso «definitivamente», il proponente sarà tenuto al soddisfacimento incondizionato del creditore al pari di ogni altro «creditore ammesso»; se il credito risulterà escluso e il creditore proporrà opposizione, il proponente sarà tenuto nei suoi confronti subordinatamente all’accertamento giudiziale (post-fallimentare) del credito, ma dovrà, comunque, medio tempore, fare il deposito della «somma spettante», trattandosi di un «credito contestato» (art. 136, secondo comma, l. fall.); se, infine, il credito risulterà definitivamente escluso, per mancata proposizione dell’opposizione avverso il provvedimento di esclusione, il proponente non sarà per nulla obbligato verso il creditore. 30 Cfr., ancora, BONSIGNORI, Del concordato, cit., 427, il quale osservava che «l’obbligatorietà del concordato non sussiste (nel senso che non si ha il dovere di pagarli) riguardo ai soli creditori non ammessi al passivo a seguito di sentenza passata in giudicato su opposizione, impugnazione o risoluzione [sic: forse intendeva dire revocazione?], mentre, sia verso i creditori esclusi in base al semplice decreto dell’art. 97 legge fall., sia verso i creditori che non si sono insinuati, il fallito è tenuto a pagare la percentuale e a reputarsi liberato per il resto». Nel vigente regime tutti i provvedimenti di accertamento del passivo hanno efficacia meramente endofallimentare, sicché quanto sostenuto per i crediti esclusi in base al solo decreto di esecutività dello stato passivo (oggi previsto dall’art. 96, quinto comma, l. fall.) può riferirsi anche ai crediti esclusi con provvedimento emanato a seguito di opposizione allo stato passivo o di impugnazione di crediti ammessi (art. 98 l. fall.). 23 del concorso» (art. 96, sesto comma, l. fall.), sicché, chiuso il fallimento, il creditore escluso può sempre agire in giudizio per far accertare il suo credito (art. 120, terzo comma, l. fall.) mediante i comuni procedimenti previsti dal codice di rito. Ed allora, una volta accertato il credito, il fallito non potrà non essere obbligato (e, quindi, condannato) a pagargli la percentuale di concordato. 4.3. In conclusione, la proposta di concordato proveniente dal fallito deve sempre riguardare tutti i creditori concorsuali nei cui confronti il concordato è destinato ad avere effetti; diversamente, essa è illegittima31. E può, anche riguardo al concordato proposto dal fallito, osservarsi che, limitatamente ai crediti ammessi al passivo, i provvedimenti di accertamento del passivo, ancorché produttivi di «effetti soltanto ai fini del concorso» (art. 96, sesto comma, l. fall.), finiscono per vincolare (nei limiti indicati) il fallito proponente, ai fini del concordato, dovendo la proposta conformarsi nel suo contenuto a quanto con detti provvedimenti stabilito32. Viceversa, quanto ai crediti esclusi, il fallito proponente (diversamente dal terzo o creditore proponente, che non è originariamente obbligato verso i creditori concordatari, ma lo diviene per effetto del concordato) non può giovarsi dell’esclusione, non potendo egli esentarsi da responsabilità per alcuno dei suoi debiti (sempre ché effettivamente esistenti), invocando i provvedimenti degli organi fallimentari, data l’efficacia meramente endofallimentare dei medesimi provvedimenti. 12. Tipologie di concordato: a) il concordato remissorio con (eventuale) garanzia. 1. E’ il tipo di concordato rispondente allo schema-base della vecchia disciplina: è lo stesso fallito che presenta una proposta, nella quale si prevede il pagamento dei crediti chirografari in una determinata misura percentuale ad una o più determinate scadenze. 2. Si prevede, altresì, il pagamento integrale dei crediti privilegiati, a meno che se ne preveda la soddisfazione non integrale a norma dell’art. 124, terzo comma, l. fall., nel qual caso dovrà comunque prevedersi il pagamento di una determinata percentuale per la parte del credito “degradata” a chirografo. Il pagamento dei crediti privilegiati dovrà essere immediato (vale a dire subito dopo che «la proposta di concordato» sia divenuta «efficace», ossia «dal momento in cui scadono i termini per opporsi all’omologazione, o dal momento in cui si esauriscono le impugnazioni previste dall’articolo 129», come dice – con qualche improprietà (su cui v. oltre) – l’art. 130, primo comma, l. fall.), salvo che per la parte eventualmente “degradata” a chirografo, che dovrà essere trattata appunto come credito chirografario e per la quale, allora, dovrà prevedersi una o più determinate scadenze. 3. In ogni caso, poi, deve prevedersi il pagamento integrale e immediato dei crediti prededucibili, per i quali non è ammissibile alcuna falcidia. 31 Una proposta del fallito che pretendesse di escludere taluni creditori concorsuali sarebbe certamente “irrituale”, perché non conforme allo schema legale ex art. 124 l. fall.: simile vizio di legittimità (“formale”, prima ancora che “sostanziale”) dovrebbe perciò essere rilevato d’ufficio dal giudice delegato in sede di esame preventivo della proposta ex art. 125 l. fall., ovvero dal tribunale in sede di omologazione ex art. 129 l. fall. (anche, dunque, in assenza di opposizioni). 32 Cfr. M. FABIANI, “Accertamento del passivo: la partecipazione del fallito al nuovo procedimento”, FI, 2007, 1859, il quale osserva che «le decisioni sullo stato passivo sono vincolanti anche per quelle situazioni in cui il titolare dell’interesse è direttamente il fallito e non la massa dei creditori» e fa riferimento al concordato fallimentare e all’esdebitazione, puntualizzando che «il fallito nel proporre domanda di concordato fallimentare è vincolato alle risultanze dello stato passivo e non può più contestarle». 24 4. Ricevuto il pagamento della percentuale offerta, il creditore non può più pretendere alcunché dal fallito proponente o dall’eventuale garante del concordato (ex art. 135, primo comma, l. fall.), e si estingue, dunque, il rapporto obbligatorio anche per la parte residua del debito, donde la classica definizione di tale concordato come “remissorio” (ancorché non sembra che nella fattispecie siano ravvisabili gli estremi della «remissione del debito» di cui all’art. 1236 c.c.). 5. Come si è detto, la percentuale offerta ai chirografari (ed eventualmente alla parte degradata a chirografo dei crediti privilegiati) deve essere determinata e deve essere uguale per tutti, salvo che siano previsti «trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse», a norma dell’art. 124, comma secondo, lettere a) e b), l. fall., nel qual caso dovrà prevedersi il pagamento nella medesima percentuale a tutti i creditori appartenenti alla singola classe. 6. Le garanzie, come pure si è detto, non sono indispensabili ai fini della legittimità della proposta, ma certamente ne condizionano la convenienza. Ove offerte, non è necessario che coprano l’intero onere concordatario (come, invece, nella previgente disciplina). 7. La violazione della regola della par condicio, quanto alla soddisfazione promessa ai creditori concordatari, certamente rende illegittima la proposta, ma incide sulla «ritualità» della stessa, che può e deve essere verificata d’ufficio dal giudice delegato, ai sensi dell’art. 125, secondo comma, ovvero dal tribunale in sede di omologazione, solo in quanto la proposta preveda trattamenti differenziati, che non siano collegati alla suddivisione dei creditori in classi, come consentito dall’art. 124, secondo comma, lettere a) e b), l. fall. Sembra, infatti, che per «ritualità della proposta» debba intendersi la rispondenza ai requisiti formali prescritti dall’art. 124, ossia la “legittimità formale”, non anche la conformità a legge del contenuto intrinseco della proposta, il che può definirsi “legittimità sostanziale”. In altri termini, la valutazione di ritualità implica solo di verificare se la proposta sia o meno inquadrabile nello schema legale, non anche un controllo contenutistico di essa. Orbene, l’eventuale non corretto utilizzo dei criteri di suddivisione dei creditori in classi e la previsione di non ragionevoli trattamenti differenziati incidono sul rispetto della par condicio e determinano l’illegittimità della proposta sotto il profilo contenutistico. Viene, in tal modo, ad essere incisa la posizione individuale dei creditori, i quali «hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore» (art. 2741, primo comma, c.c.), ma ben possono, ciascuno per proprio conto, disporre di tale «diritto», quale componente intrinseca del loro diritto di credito, per sua natura disponibile. Nella nuova disciplina del concordato la tutela di tale posizione individuale, in relazione al contenuto sostanziale della proposta, non è più affidata ai poteri officiosi degli organi fallimentari, ma è rimessa alla iniziativa dei singoli creditori, i quali, valutando liberamente i propri interessi, possono decidere se dare o meno il loro consenso e, poi, se opporsi o meno alla omologazione. 8. Il tipo di concordato ora in esame si caratterizza soggettivamente – come già evidenziato – per essere proposto dallo stesso fallito, sicché non si ha alcuna modificazione soggettiva dei rapporti obbligatori ex latere debitoris. Ove una proposta di contenuto analogo (ossia prevedente il pagamento di una percentuale) sia fatta «da uno o più creditori o da un terzo», si avrà un concordato con assunzione, con o senza cessione dei beni, come si dirà più avanti. 13. Segue: b) il concordato con “cessio bonorum”. 1. L’art. 124, secondo comma, lettera c), l. fall. prevede espressamente la «cessione dei beni» come «forma» per attuare «la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti». 25 La norma, non specificando chi debba essere il destinatario della cessione, sembra riferirsi non solo alla cessione dei beni a un terzo, che si impegna a pagare una percentuale, ossia alla cessione che è un elemento (peraltro, a quanto sembra, non necessario) del concordato “con assunzione”, a cui si riferisce pure il quarto comma dell’art. 124 l. fall. (oltre ché l’art. 137, comma settimo, l. fall., “corretto”), ma anche alla cessione dei beni ai creditori già prevista dall’art. 160, secondo comma, n. 2, l. fall., vecchio testo, come modalità del concordato preventivo. L’espressa previsione, ampia e non limitativa, della norma risolve in senso positivo la questione, che si agitava in passato, circa l’ammissibilità di un concordato fallimentare con cessio bonorum33. Con tale strumento si opera una «ristrutturazione dei debiti», che tocca – come si è anticipato – sia l’oggetto delle obbligazioni, sia il tempo di adempimento. Essa implica, infatti, che i beni vengono ceduti ai creditori, non già nel senso che i creditori ne acquistano la proprietà (o la titolarità), ma nel senso che i beni rimangono (per il periodo successivo all’omologazione) sottratti all’amministrazione e alla disponibilità del debitore e affidati a uno o più liquidatori, con il compito di amministrarli e liquidarli, per ripartire, poi, il ricavato fra i creditori, nel rispetto delle prelazioni e secondo la regola della par condicio, salvo che siano previsti «trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse». 2. E’ da escludere che possa essere prevista una cessione traslativa (che comporti, cioè, un trasferimento di proprietà o titolarità di diritti) in favore dei creditori per un principio di ordine generale e di rilevanza costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.): nessuno può essere costretto a diventare proprietario (o ad acquistare un diritto reale) contro la sua volontà34; mentre il concordato non solo può essere approvato a maggioranza, ma vincola tutti i creditori, anche quelli non aventi diritto di voto o non insinuati (art. 135 l. fall.). Per di più, una cessione traslativa creerebbe una situazione di comunione di diritti pro indiviso, senza il concorso della volontà di tutti i contitolari, ma riconducibile, in ultima analisi, alla volontà di taluni e non alla volontà della legge (volontà della legge che è, invece, la fonte delle ipotesi di comunione incidentale, che, in quanto eccezionali, debbono essere espressamente previste dalla legge: e qui, oltre tutto, manca un’espressa previsione)35. Peraltro, l’ipotetica cessione traslativa dovrebbe avere l’effetto di estinguere indistintamente tutte le obbligazioni, ossia si caratterizzerebbe come cessione solutoria, ma ciò urterebbe contro la tutela assicurata ai creditori privilegiati, i quali vedrebbero, altresì, estinte (in conseguenza della estinzione dei loro crediti) le loro garanzie, per ritrovarsi pro quota in comunione coi chirografari. D’altro canto, proprio perché efficace anche nei confronti di creditori non conosciuti (purché anteriori alla dichiarazione di fallimento), un concordato traslativo implicherebbe un trasferimento ad incertas personas non compatibile con il regime di pubblicità immobiliare. 3. Non si pongono problemi, invece, per un concordato con cessio bonorum, non traslativa pro soluto, ma meramente liquidatoria pro solvendo, secondo lo schema della cessione dei beni contrattuale ex artt. 1977 ss. c.c. Il liquidatore, alla stregua di un mandatario (pur non essendo il rapporto qualificabile come mandato, per non essere tale contratto la fonte del rapporto), assume l’obbligo di provvedere ad una diligente gestione liquidatoria dei beni ceduti, nell’interesse dei creditori e dello stesso debitore, e correlativamente è a lui attribuito il potere di amministrare i beni medesimi e di disporne. Egli può essere un estraneo o anche un creditore, e potrebbe essere designato nella proposta oppure successivamente nominato dal tribunale o dai creditori, secondo quanto previsto dal concordato. In caso di designazione contenuta nella proposta, occorrerà prevedere nella proposta stessa un meccanismo di sostituzione, per l’ipotesi in cui il rapporto gestorio venga meno (per morte, 33 Nel senso dell’inammissibilità, sotto il vecchio regime, cfr. T. Cassino (decr.), 10-5-1989, DF, 1990, II, 262. Cfr., in tal senso, T. Cassino (decr.), 10-5-1989, DF, 1990, II, 262. 35 Corte cost. (sent.), 26-1-1957, n. 5 (in motivazione), ricorda «il principio generale dell’art. 1111 cod. civ., secondo cui “nemo invitus ad communionem compellitur”». 34 26 sopravvenuta incapacità, rinuncia del liquidatore, o eventuali altre cause: cfr. artt. 1722 ss. c.c.), dovendosi comunque assicurare l’esecuzione del concordato e non potendosi certo riformulare il contenuto della proposta, posto che il concordato, una volta pronunciata l’omologazione, diviene vincolante e immodificabile. E’ da escludere che liquidatore possa essere lo stesso fallito, poiché altrimenti non si avrebbe quella sottrazione al debitore del potere di amministrazione e disposizione che sembra essere la caratteristica essenziale della cessione (arg. ex artt. 1977, 1979, 1980 c.c.). Del resto, una volta aperta la procedura concorsuale liquidatoria per l’accertato stato di insolvenza del debitore, non avrebbe senso chiuderla per affidare allo stesso debitore quella liquidazione che ben potrebbe essere fatta con ogni garanzia dagli organi pubblici preposti al fallimento. I creditori chirografari saranno soddisfatti col ricavato delle vendite, quale che sia la percentuale che tale ricavato consentirà di distribuire (purché non insignificante). I creditori privilegiati dovranno essere, comunque, pagati per intero, salvo che sia stata prevista la loro soddisfazione non integrale, ai sensi dell’art. 124, terzo comma, nel qual caso dovrà essere loro pagata la somma determinata nella relazione giurata ed inoltre, per la parte “degradata” a chirografo, una qualche sia pur minima (ma non insignificante) percentuale, alla pari dei creditori chirografari. 4. La norma non esige che per l’ammissibilità di simile concordato si debba «fondatamente ritenere che i creditori possano essere soddisfatti almeno» in una determinata misura (come prevedeva l’art. 160, secondo comma, n. 2, vecchio testo); né che si prometta ai creditori una determinata percentuale minima, di tal ché, se poi questa non si raggiunga, si avrà inadempimento e conseguente possibilità di risoluzione del concordato. Simile impegno è possibile, ma non necessario. Anche in tale tipo di concordato la proposta deve sostanziarsi nell’assunzione di un impegno da parte del proponente. E l’unico impegno che pare indispensabile assumere è quello alla messa a disposizione dei creditori di tutti i beni esistenti nel patrimonio fallimentare alla data della proposta, tranne quelli indicati nell’art. 46 l. fall. (beni non compresi nel fallimento), e al soddisfacimento dei creditori chirografari in quella percentuale che sarà resa possibile dalla liquidazione dei beni ceduti. 5. Per questo motivo, simile concordato sembra possa essere proposto solo dal fallito e non anche «da uno o più creditori o da un terzo». Infatti, solo il fallito, in quanto titolare del patrimonio, può “cedere”, ossia può consentire che i suoi beni siano messi a disposizione dei creditori, e così impegnarsi a soddisfarli nella misura che sarà resa possibile dalla liquidazione36. Lo stesso fallito, inoltre, può impegnarsi a corrispondere ai creditori una determinata percentuale minima, quale che sarà l’esito della liquidazione dei beni ceduti; nel qual caso si avrà un concordato “misto”, in cui in aggiunta alla cessio bonorum ci sarà l’obbligo del pagamento in misura percentuale, che è l’elemento caratterizzante del concordato “remissorio”. Naturalmente, sulla serietà e convenienza di una simile proposta influirà l’offerta o meno di idonee garanzie (ancorché – come detto – non indispensabili ai fini della legittimità della proposta). 6. In caso di semplice cessione, ossia se non si è promessa una determinata percentuale minima ai chirografari, si ha inadempimento, e conseguente possibilità di risoluzione ex art. 137 l. fall., solo quando il ricavato della liquidazione dei beni ceduti non consente il pagamento integrale di tutti i 36 Modifico qui l’opinione espressa nel mio precedente scritto “La sistemazione dell’insolvenza”, cit., 287. Melius re perpensa, non mi sembra che un terzo o un creditore possa assumere la veste di co-proponente, unitamente al fallito, impegnandosi unicamente a svolgere l’incarico di liquidatore dei beni ceduti, dal momento che potrebbero accadere eventi che esigono la sostituzione del liquidatore, il che non sarebbe possibile fare, se l’incarico fosse dedotto come “patto” di concordato (immodificabile dopo l’omologazione), e d’altro canto occorrerebbe pur sempre assicurare la regolare esecuzione del concordato. 27 privilegiati ovvero il pagamento dei privilegiati nella misura prevista nella proposta in conformità alla stima e la distribuzione ai chirografari (ivi compresi i privilegiati, nell’ipotesi di cui al terzo comma dell’art. 124, per la parte “degradata” a chirografo del loro credito) di una qualunque percentuale, che non sia del tutto insignificante, ma che possa considerarsi minimamente satisfattoria. Il debitore, quindi, non può mai essere liberato, prima che si concluda l’esecuzione del concordato37; una volta eseguito il concordato, egli è completamente liberato, solo se, all’esito della liquidazione e ripartizione delle attività cedute, i creditori privilegiati risultano soddisfatti integralmente o nella misura stabilita nel piano, quale che sia la percentuale distribuita ai chirografari, purché appunto ci sia una minima soddisfazione anche di tutti tali creditori. Peraltro, una volta esaurite la liquidazione e la ripartizione, mentre i creditori privilegiati hanno sempre azione verso il fallito per il pagamento dell’intero loro credito (o della parte determinata in base alla stima ex art. 124, terzo comma, l. fall.), i creditori chirografari non hanno altro rimedio che la risoluzione ex art. 137 l. fall., soggetta al termine di decadenza di un anno (art. 137, sesto comma, l. fall., “corretto”), sicché, maturatasi tale decadenza, il fallito rimane comunque liberato nei loro confronti. 7. In conclusione, la cessio bonorum realizza la «ristrutturazione dei debiti», riguardo sia all’oggetto delle obbligazioni sia al tempo di adempimento, in quanto alle somme originariamente dovute si sostituisce (per i crediti chirografari) la percentuale che si ricaverà dalla liquidazione dei beni ceduti; e alle originarie scadenze subentra la data della ripartizione del ricavato; realizza, altresì, la «soddisfazione dei crediti», quanto ai crediti privilegiati, in misura integrale, quanto ai crediti chirografari, invece, nella misura che sarà resa possibile dalla liquidazione, quindi, in misura non predeterminata, ma, comunque, di una qualche entità, seppur minima. 14. Segue: c) il concordato con assunzione dei debiti e cessione dei beni. 1. Altra fattispecie di concordato, in cui «la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti» si può attuare mediante la «cessione dei beni», secondo la previsione dell’art. 124, secondo comma, lettera c), l. fall., è, come si è già accennato, quella tradizionale del concordato “con assunzione”, già prevista dall’art. 124, secondo comma, vecchio testo («La cessione delle azioni revocatorie come patto di concordato è ammessa a favore del terzo che si accolla l’obbligo di adempiere il concordato limitatamente alle azioni già proposte dal curatore»), oltre ché dall’art. 137, comma quarto, vecchio testo (ora riprodotto nel comma settimo), ove espressamente si parla di «obblighi […] assunti dal proponente o da uno o più creditori» («Le disposizioni di questo articolo non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti dal proponente o da uno o più creditori con liberazione immediata del debitore»). 2. Con tale concordato – che realizza una «ristrutturazione dei debiti» sia soggettiva che oggettiva – la «cessione dei beni» si combina con l’«accollo» dei debiti, pure espressamente previsto dall’art. 124, secondo comma, lettera c), l. fall. come «forma» attraverso la quale è realizzabile «la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti»: l’assuntore «si accolla l’obbligo di adempiere il concordato» (come diceva l’art. 124, secondo comma, vecchio testo), ossia si impegna (oltre ché a soddisfare integralmente i privilegiati, salvo quanto previsto dall’art. 124, terzo comma, 37 Infatti, l’art. 137, settimo comma, l. fall. (prevedendo che le disposizioni dal medesimo articolo dettate «non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti dal proponente o da uno o più creditori con liberazione immediata del debitore») consente l’immediata liberazione del fallito soltanto quando vi sia l’assunzione da parte di un altro soggetto proponente (che può essere un terzo ovvero uno o più creditori). 28 l. fall.) a pagare una certa percentuale ai chirografari, ad una o più scadenze determinate, dietro cessione di tutte le attività fallimentari38. A tale ipotesi fa riferimento anche l’art. 124, quarto comma, l. fall., il quale dice che «la proposta presentata da uno o più creditori o da un terzo può prevedere la cessione, oltre che dei beni compresi nell’attivo fallimentare, anche delle azioni di pertinenza della massa» (così, nel testo attuale, mentre il testo del 2006 parlava di «proposta presentata da un terzo»). 3. Tale concordato può, dunque, essere proposto sia da «uno o più creditori» sia da «un terzo», senza che vi sia alcuna differenza di regime. Non può essere, invece, proposto dallo stesso fallito (da solo), in quanto egli non può rendersi assuntore della sua stessa debitoria, né cessionario del suo stesso patrimonio: assunzione e cessione presuppongono l’alterità dei soggetti tra cui avvengono. Il tenore letterale della norma sembrerebbe escludere anche che esso possa essere co-proposto dal fallito unitamente a «uno o più creditori» o ad «un terzo», ma una più attenta analisi porta a rendere ipotizzabile una co-proposta in almeno un caso particolare, di cui innanzi si dirà. 4. La «cessione dei beni» e l’«accollo» dei debiti rappresentano l’uno la contropartita (o il corrispettivo) dell’altro, sicché tale concordato realizza una sorta di “liquidazione forfetaria” dei beni fallimentari, ceduti all’assuntore. La «cessione dei beni» qui prevista sembra, appunto, consistere nel trasferimento in blocco all’assuntore di tutto l’attivo fallimentare; è, quindi, una cessione traslativa, che implica necessariamente il trasferimento della proprietà dei beni e/o della titolarità dei diritti del fallito al cessionario, in conformità all’insegnamento tradizionale. L’effetto traslativo si verifica automaticamente, in virtù dello stesso provvedimento di omologazione, nel momento in cui questo diviene definitivo, ossia non più impugnabile ex art. 130 l. fall. (efficacia traslativa immediata), oppure in un momento successivo, al verificarsi di un evento ulteriore, se così è stabilito nel concordato (efficacia traslativa differita). 5. Quanto all’«accollo» dei debiti, si è discusso in passato e si può ancora discutere, se in simile fattispecie sia ravvisabile propriamente un «accollo» riconducibile alla previsione dell’art. 1273 c.c., ovvero altra figura di “intercessione” nel debito altrui, ossia di modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio (delegazione o espromissione: artt. 1268 ss. c.c.). E’ vero che l’assunzione di concordato, qualora la proposta provenga solo da un terzo o da un creditore, non anche dal fallito (come è possibile nella nuova disciplina, a differenza che nella vecchia del 1942, per la quale la proposta doveva essere presentata sempre dal fallito), si avvicinerebbe all’espromissione (art. 1272 c.c.), ma (a parte che sono da ammettere ipotesi nelle quali la proposta proviene non solo da un terzo o da un creditore, ma congiuntamente anche dal fallito, nel qual caso sarebbe più pertinente un accostamento all’accollo ex art. 1273 c.c.) essa è componente di una fattispecie complessa, il concordato, appunto, il quale non si risolve in una comune fattispecie contrattuale, pur essendo in esso riscontrabili manifestazioni di volontà negoziale. L’assunzione in discorso è, dunque, una figura a sé, non riconducibile ad alcuna delle figure civilistiche, ma propria della normativa fallimentare, dalla quale deve desumersi la disciplina dei rapporti fra assuntore e creditori in via tendenzialmente esaustiva, salvo un’eventuale integrazione, nei ristretti limiti della compatibilità, con la disciplina civilistica della figura che di volta in volta (per come è concretamente strutturata la proposta) appare più affine. 38 Sembra ammissibile anche una cessione solo parziale dei beni, ma in tal caso l’assuntore dovrebbe impegnarsi al pagamento integrale (anche) dei chirografari; diversamente, dovendosi presumere che i beni ceduti all’assuntore quanto meno “coprono” l’onere concordatario da lui accollatosi, il concordato si risolverebbe in uno strumento per sottrarre parte dei beni all’esecuzione collettiva (già in corso con l’apertura del fallimento), in violazione dei principi ex artt. 2740 e 2910 c.c. e in evidente contraddizione con la sua funzione di strumento alternativo alla liquidazione volto a procurare ai creditori un soddisfacimento maggiore di quello ricavabile dalla liquidazione fallimentare dei beni. 29 6. In ogni caso, è chiaro come con tale concordato si realizza una modificazione soggettiva ex latere debitoris dei rapporti obbligatori: al fallito si aggiunge o si sostituisce un altro soggetto, l’assuntore, appunto. Nel primo caso, il fallito rimane obbligato in solido con il terzo (assunzione “cumulativa”), nel secondo caso egli viene immediatamente liberato (assunzione “liberatoria”), una volta, s’intende, omologata la proposta di concordato con decreto divenuto definitivo (art. 130 l. fall.). Deve ritenersi che, ove l’assunzione sia cumulativa, la responsabilità del fallito sia di carattere sussidiario, nel senso che i creditori debbono rivolgersi al nuovo obbligato prima di poter chiedere l’adempimento all’originario debitore, secondo la regola posta nell’art. 1268, secondo comma, c.c.39 7. Ci si deve, però, chiedere quando e come si determini l’una ovvero l’altra situazione. Se la proposta, come espressamente previsto dall’art. 124, quarto comma, l. fall. è fatta soltanto «da uno o più creditori o da un terzo» (senza cioè che ad essa partecipi il fallito) ed essa prevede l’assunzione a carico del proponente dell’obbligo di pagare i creditori a fronte della cessione a suo favore di tutte le attività fallimentari, sembra che, in tal caso, il fallito è sempre immediatamente liberato, anche se ciò non sia espressamente detto nella proposta, vale a dire che in simile fattispecie l’assunzione è sempre “liberatoria” o, in altre parole, che la immeditata liberazione del fallito è un effetto necessario di tale tipo di concordato, ragion per cui, ove fosse previsto il contrario, la proposta sarebbe illegittima. Questo perché, se il fallito non interviene a proporre il concordato e rimane estraneo alla proposta presentata da altri, sicché il concordato si perfeziona a prescindere da o eventualmente anche contro la sua volontà, egli non può, da un lato, essere privato di tutto il suo patrimonio e, dall’altro, rimanere obbligato nei confronti dei creditori concordatari e, quindi, tenuto a dare esecuzione (sia pure – come si è detto – in via sussidiaria) ad un concordato, che per lui è res inter alios acta. Ma l’art. 124, quarto comma, l. fall., coordinato con le disposizioni dei commi primo e secondo, non esclude che la proposta di concordato con assunzione possa essere presentata «da uno o più creditori o da un terzo» unitamente al fallito, ossia che il fallito possa essere co-proponente un simile concordato, nel qual caso egli può acconsentire a rimanere obbligato insieme con l’assuntore co-proponente, sicché solo in tal caso la proposta può prevedere l’assunzione “cumulativa” della debitoria40. 8. Dalle disposizioni citate si desume, altresì, che non è, invece, legittima una proposta di concordato con assunzione proveniente dal solo fallito: e ciò non solo nel senso che il fallito non 39 Tale regola è dettata solo per la delegazione, ma può ritenersi espressione di un principio generale riferibile ad ogni ipotesi di assunzione convenzionale o legale di debiti altrui (cfr. anche artt. 1408, secondo comma, 2356, secondo comma, 2472, secondo comma, c.c.): così, P. RESCIGNO, Manuale del diritto privato italiano, 3^ ed., ristampa, Napoli, 1978, 595. 40 Propenderei a ritenere che pure in caso di co-proposta di concordato con assunzione proveniente dall’assuntore e dal fallito, la liberazione immediata del fallito sia un effetto “naturale” del concordato e che, pertanto, ove nulla si dica nella proposta, l’assunzione debba ritenersi “liberatoria”, dovendosi ritenere, invece, “cumulativa” solo quando, nella proposta, sia così espressamente qualificata (ovvero, il che è lo stesso, sia espressamente esclusa la liberazione immediata del fallito). Ciò, a differenza di quanto si prevede nei casi di assunzione di debito altrui disciplinati dal codice civile (per i quali occorre l’espressa dichiarazione del creditore di voler liberare il debitore originario: così dispongono, per la delegazione, l’art. 1268, primo comma, per l’espromissione, l’art. 1272, primo comma, per l’accollo, l’art. 1273, secondo comma, c.c.), perché qui l’assunzione non riguarda un singolo rapporto obbligatorio, ma l’intera debitoria del fallito ed essa avviene a fronte della cessione dell’intero attivo fallimentare, nel quadro di una nuova regolamentazione di tutti i rapporti obbligatori che porta alla cessazione della procedura fallimentare. Mi sembra che non a caso, mentre le citate disposizioni del codice civile richiedono l’espressa dichiarazione liberatoria del creditore, la normativa fallimentare, pur prevedendo che l’assunzione di concordato possa essere “cumulativa” o “liberatoria” (nell’art. 137, settimo comma, l. fall.: «Le disposizioni di questo articolo non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti dal proponente o da uno o più creditori con liberazione immediata del debitore»), non esige, tuttavia, che la liberazione immediata del fallito debba essere espressamente prevista nella proposta. 30 può rendersi assuntore della sua stessa debitoria, né cessionario del suo stesso patrimonio (come detto supra), ma anche nel senso che il fallito non può da solo presentare una proposta di concordato che preveda l’assunzione a carico di un terzo (ancorché sia assunzione “cumulativa”), senza che l’assuntore presti il suo consenso alla proposta (o sottoscrivendola con il fallito o aderendovi con atto separato), in quanto la proposta di concordato deve contenere un “impegno” nei confronti dei creditori e il fallito non può certo impegnare la sfera giuridica di un terzo soggetto. Non può, dunque, bastare la promessa dell’assunzione del terzo (come promessa del fatto del terzo: art. 1381 c.c.) ed è da ritenere che, finché manchi la espressa adesione del soggetto designato quale assuntore, la proposta presentata dal solo fallito non possa essere sottoposta all’approvazione dei creditori. 9. In conclusione: è perfettamente legittima una proposta di concordato con assunzione proveniente soltanto «da uno o più creditori o da un terzo», che perciò prescinda del tutto dall’adesione del fallito, purché non preveda un’assunzione “cumulativa” (ossia che il fallito rimanga obbligato solidalmente con l’assuntore); è legittima una proposta congiunta del fallito e dell’assuntore, che preveda un’assunzione “cumulativa”; non è legittima una proposta di concordato con assunzione proveniente dal solo fallito: l’assuntore deve essere, quanto meno, co-proponente. 10. L’assuntore, tuttavia, può limitare il suo impegno «ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta» (art. 124, quarto comma, secondo periodo, l. fall.)41. E ciò può avvenire sia in caso di assunzione “cumultativa”, sia in caso di assunzione “liberatoria”. 41 Un problema particolare si pone nel caso in cui sia proposto concordato con assunzione che preveda sia la limitazione dell’impegno dell’assuntore ai creditori che abbiano già proposto domanda tardiva al tempo della proposta sia la cessione delle revocatorie, con riguardo alla posizione del convenuto in revocatoria, il quale, a norma dell’art. 70, secondo comma, l. fall., se, per effetto della revoca, abbia «restituito quanto aveva ricevuto», «è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito». Ci si chiede se sia ammissibile che l’assuntore possa escludere il suo impegno nei confronti del terzo revocato, il quale potrà insinuare al passivo il suo credito conseguente alla restituzione solo dopo che questa sia stata da lui effettuata (e quindi posteriormente alla proposta di concordato), ovvero se, per evitare ciò, il terzo convenuto in revocatoria possa, prima ancora di subire la revoca e di restituire quanto ricevuto illo tempore dal fallito, presentare domanda di ammissione al passivo ed essere ammesso con riserva per essere titolare di un «credito condizionato» (artt. 55, terzo comma, 96, terzo comma, l. fall.). Questa seconda soluzione non sembra accoglibile, posto che il credito del terzo revocato risorge solo a seguito e per effetto della effettiva restituzione di quanto da lui ricevuto e, prima di allora, non esiste, nemmeno come credito sub condicione: infatti, se fosse ammesso con riserva come credito condizionato, dovrebbe in caso di riparto per esso farsi un accantonamento (art. 113, primo comma, l. fall.), il che è assurdo, proprio perché il creditore non ha ancora restituito nulla e l’accantonamento dovrebbe farsi con somme provenienti da altre entrate a danno dei creditori concorrenti. Tuttavia, nemmeno pare accettabile che l’assuntore, che riesca vittorioso in revocatoria, possa ottenere la restituzione dal terzo revocato e pretendere di nulla dovere a costui per il suo conseguente credito, per non essere stato tale credito insinuato al passivo prima della presentazione della proposta di concordato, proprio perché il medesimo credito, non essendo ancora esistente, non poteva essere insinuato e il risorgere di esso, dopo la proposta di concordato, è conseguenza di un fatto proprio dell’assuntore medesimo, ossia dell’esercizio da parte sua della revocatoria cedutagli (per cui egli venire contra factum proprium non potest). In realtà, sembra che la limitazione dell’impegno dell’assuntore non sia da lui opponibile al terzo revocato, proprio perché costui, non essendo ancora creditore, non poteva essere ammesso e partecipare al voto (art. 127, primo comma, l. fall.) e il risorgere del credito (che ne fa un creditore «anteriore alla apertura del fallimento», per cui egli deve essere pagato come gli altri creditori anteriori di pari rango: art. 135 l. fall.) è dovuto alla volontà dello stesso assuntore (che è subentrato nella revocatoria e l’ha vittoriosamente esperita). Se così non fosse, sorgerebbe un problema di legittimità costituzionale della norma. Non sembrano sussistere problemi, invece, in caso di subingresso di altro soggetto nel credito già ammesso al passivo, o per il quale sia già stata proposta opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta di concordato. Infatti, l’art. 115, secondo comma, l. fall. stabilisce che «se prima della ripartizione i crediti ammessi sono stati ceduti, il curatore attribuisce le quote di riparto ai cessionari, qualora la cessione sia stata tempestivamente comunicata, unitamente alla documentazione che attesti, con atto recante le sottoscrizioni autenticate di cedente e cessionario, l’intervenuta cessione», il che vuol dire che il creditore cessionario non ha l’onere di insinuarsi al passivo, ma si avvale della domanda di ammissione già presentata dal cedente e del relativo provvedimento di ammissione da quello già ottenuto, ragion per cui «il curatore provvede alla rettifica formale dello stato passivo». 31 Con la testé citata disposizione viene ora data soluzione legislativa ad una questione che si agitava precedentemente, in dottrina e giurisprudenza, circa i limiti della responsabilità dell’assuntore nei confronti dei creditori concorsuali, con riferimento al disposto dell’art. 135, primo comma, l. fall. La norma precisa, però, che «in tale caso, verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito, fermo quanto disposto dagli articoli 142 e seguenti in caso di esdebitazione». In altri termini, il fallito, anche quando, per effetto dell’assunzione, viene liberato nei confronti dei creditori (assunzione “liberatoria”), continua, in ogni caso, a rimanere obbligato verso i creditori non insinuati, se l’assuntore non si è impegnato anche nei confronti di costoro. Tuttavia, se si fa luogo all’esdebitazione ex artt. 142 ss. l. fall., l’obbligo del fallito è ridotto alla percentuale promessa dall’assuntore, che i creditori non concorrenti sarebbero stati legittimati ad esigere da quest’ultimo, se si fossero insinuati. 11. Dalla previsione dell’art. 124, secondo comma, lettera c), l. fall. sembra potersi desumere che l’assuntore, ove sia una s.p.a. o una s.r.l., possa impegnarsi, anziché a pagare una percentuale in contanti, ad attribuire ai creditori obbligazioni «o altri strumenti finanziari e titoli di debito», con il che la debitoria, che l’assuntore si è accollato, potrebbe essere più facilmente “ristrutturata” a più lungo termine. 12. Rispetto alla disciplina previgente, sembra che ora non sia più necessario – come si è già rilevato – che la proposta di concordato con assunzione preveda la costituzione di garanzie a copertura dell’intero onere concordatario (come, invece, si doveva ritenere – a mio avviso – necessario per disposizione dell’art. 124, primo comma, vecchio testo). Infatti, il nuovo art. 124 l. fall. non richiede più che la proposta contenga «la descrizione delle garanzie offerte per il pagamento». 13. Venendo il fallito immediatamente liberato (una volta divenuto definitivo il decreto di omologazione: art. 130 l. fall.), l’art. 137, settimo comma, l. fall. (come già l’art. 137, quarto comma, vecchio testo), prevede che, in caso di inadempimento da parte dell’assuntore, non può farsi luogo alla risoluzione del concordato («Le disposizioni di questo articolo non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti dal proponente o da uno o più creditori con liberazione immediata del debitore»). Come pure non può farsi luogo a risoluzione, quando il fallito non adempia nei confronti dei creditori, verso i quali l’assuntore non è impegnato ex art. 124, quarto comma, l. fall., poiché in tal caso non c’è inadempimento del concordato, ma solo delle obbligazioni che sono rimaste fuori di esso: l’art. 137, ottavo comma, l. fall., infatti, espressamente prevede che «non possono proporre istanza di risoluzione i creditori del fallito verso cui il terzo, ai sensi dell’articolo 124, non abbia assunto responsabilità per effetto del concordato». 15. Segue: d) il concordato con assunzione senza cessione dei beni. Subentrando, dunque, il cessionario nella medesima posizione del cedente, il proponente il concordato rimane impegnato nei confronti del nuovo creditore così come lo era nei confronti del precedente, e non può esimersi dall’impegno, adducendo la mancata ammissione al passivo del nuovo creditore, o la mancata presentazione della domanda di ammissione da parte di costui, anteriormente alla presentazione della proposta di concordato. Il “decreto correttivo” ha aggiunto all’art. 115, secondo comma, l. fall. l’ulteriore prescrizione per la quale «le stesse disposizioni si applicano in caso di surrogazione del creditore», sicché, non essendo nemmeno il creditore surrogante tenuto a insinuarsi al passivo, il proponente risponde nei suoi confronti, anche quando abbia limitato gli impegni assunti con il concordato ai creditori di cui al quarto comma dell’art. 124 l. fall. Potendo scorgersi nell’art. 115, secondo comma, l. fall., come innanzi modificato, una regola generale, concernente tutti i casi di sostituzione di un creditore ad un altro nel medesimo rapporto obbligatorio, in tutti detti casi non può operare la eventuale clausola limitativa degli impegni dell’assuntore, quando il credito sia già stato ammesso al passivo, o per esso sia già stata proposta opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta di concordato. 32 1. Sotto il vigore della precedente disciplina, ci si chiedeva se un concordato con assunzione possa realizzarsi anche senza la cessione dei beni fallimentari all’assuntore: la questione era risolta in senso negativo dalla prevalente dottrina. Ora, l’ampia previsione dell’art. 124, secondo comma, lettera c), sembra consentire anche simile fattispecie, che si inquadrerebbe agevolmente nello schema della «ristrutturazione dei debiti mediante accollo»: per questa basta che un terzo (o un creditore o un gruppo di creditori) assuma a suo carico «gli obblighi derivanti dal concordato» (cfr. art. 137, settimo comma). Simile assunzione senza contropartita consentirebbe al fallito di conservare i suoi beni e caratterizzerebbe, perciò, il concordato come non “liquidatorio”, ma “conservativo”. Proprio per ciò, sembra che, in tal caso, non sia ammissibile (in linea di principio) una assunzione “liberatoria”, vale a dire un’assunzione che preveda la liberazione immediata del fallito, come può desumersi dall’art. 124, quarto comma, l. fall., nella cui previsione si può scorgere un nesso fra cessione dei beni all’assuntore e liberazione immediata del fallito, nel senso che quest’ultima (di regola) è possibile (ancorché non necessaria) solo quando vi sia la prima. Il che ha una logica, poiché ove si faccia luogo alla cessione dei beni, l’assuntore con essa si procura la provvista per adempiere e, in caso di inadempimento, i creditori possono aggredire il suo patrimonio incrementato dai beni fallimentari cedutigli; ove, invece, non si faccia luogo alla cessione dei beni, e ciò nonostante si preveda la liberazione immediata del fallito, il concordato si risolverebbe in uno strumento per consentire al fallito di sottrarre i suoi beni (già assoggettati all’esecuzione concorsuale) alla garanzia generica dei creditori (art. 2740 c.c.): costoro avrebbero come unico obbligato, al posto del fallito, l’assuntore, ma costui “non avrebbe nulla da perdere”, i creditori, in caso di inadempimento, non troverebbero nel suo patrimonio i beni fallimentari, né potrebbero rivolgersi al fallito, ormai liberato, e quindi, nemmeno ottenere la risoluzione del concordato, preclusa dall’art. 137, settimo comma, l. fall. Dunque, sembra possibile, in simile ipotesi, solo un’assunzione cumulativa, con la quale al fallito si aggiunge, ma non si sostituisce, l’assuntore. In considerazione di ciò, sembra che, comunque, per far luogo a un simile concordato, occorra – secondo quanto osservato sopra – il concorso della volontà del fallito, sicché questi deve essere coproponente il concordato medesimo. 2. Non è da escludere, tuttavia, in qualche ipotesi l’ammissibilità di una assunzione “liberatoria”. Ove fallita sia una società di capitali, si può ipotizzare che l’assunzione senza cessione dei beni sia proposta dai soci stessi, i quali possono avere interesse a lasciare nel patrimonio sociale le attività acquisite al fallimento e, al tempo stesso, ad “accollarsi” l’intero onere concordatario, onde liberare immediatamente la società dalle obbligazioni verso i creditori. Le loro azioni o quote potrebbero, così, essere vincolate in pegno a garanzia dell’adempimento del concordato in favore della massa dei creditori concordatari e siffatta garanzia avrebbe una “reale” consistenza, dal momento che dette azioni o quote, venendo azzerata la debitoria, rappresenterebbero l’attivo netto patrimoniale depurato dei debiti originari, mentre il credito di regresso dei soci verso la società sarebbe di importo pari all’onere concordatario assunto; omologato il concordato, una volta pagati i creditori nella misura promessa, le azioni o quote verrebbero svincolate e il credito di regresso potrebbe essere utilizzato per operazioni sul capitale sociale ovvero rimanere appostato come credito per finanziamenti dei soci. In simile ipotesi, sembra che la liberazione immediata della società fallita sia indispensabile per la tenuta della complessiva operazione di «ristrutturazione dei debiti» e che, perciò, l’assunzione non possa non essere “liberatoria”, senza per questo risultare illegittima, poiché, in effetti, i beni sociali, già acquisiti all’attivo fallimentare, verrebbero, alla fine, indirettamente utilizzati proprio per conseguire l’obiettivo della «soddisfazione dei crediti», sicché le prescrizioni dell’art. 124, secondo comma, l. fall. dovrebbero ritenersi rispettate. 16. Tempo di presentazione della proposta. 33 1. Una ulteriore incisiva innovazione apportata dal d. lgs. n. 5 del 2006 alla disciplina del concordato riguarda il tempo di presentazione della proposta. La precedente disciplina stabiliva che la proposta poteva essere presentata solo «dopo il decreto previsto nell’articolo 97», ossia il decreto di esecutività dello stato passivo (ora, previsto nell’art. 96, quinto comma, l. fall.), e non prevedeva un termine finale. La nuova disciplina adotta un duplice regime: di “liberalizzazione” per la proposta proveniente «da uno o più creditori o da un terzo», di parziale “restrizione”, invece, per la proposta proveniente «dal fallito, da società cui egli partecipi o da società sottoposte a comune controllo». Infatti, nel primo caso la proposta può essere presentata «anche prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo» e non è stabilito alcun termine finale; nel secondo caso, invece, la proposta non può essere presentata «se non dopo il decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo» (art. 124, primo comma, l. fall., come “corretto” dal d. lgs. n. 169 del 2007; il testo del 2006 prevedeva, invece, per il fallito un termine iniziale di sei mesi). 2. Atteso il tenore della norma, ove «fallito» sia una società (con soci non illimitatamente responsabili), i soci di questa (non falliti), non identificandosi con la stessa, sono «terzi», e possono, perciò, presentare una proposta di concordato senza limiti di tempo. 3. Nel caso di iniziativa presa «da uno o più creditori o da un terzo», dunque, la proposta di concordato è sganciata dal provvedimento conclusivo del procedimento di accertamento del passivo davanti al giudice delegato: questo provvedimento non segna più il limite temporale a partire dal quale è ammissibile la presentazione della proposta in discorso. Tuttavia, è esigenza ineliminabile che una proposta di concordato sia preceduta o quanto meno subito dopo seguita da una ricognizione sia pure sommaria e provvisoria dei crediti da soddisfare, e ciò al fine sia di formulare la proposta, sia di individuare i creditori aventi diritto al voto, sia di valutare la convenienza della proposta. Va ricordato che, a norma dell’art. 89, primo comma, l. fall., «il curatore, in base alle scritture contabili del fallito ed alle altre notizie che può raccogliere, deve compilare l’elenco dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e diritti di prelazione, nonché l’elenco di tutti coloro che vantano diritti reali e personali, mobiliari e immobiliari, su cose in possesso o nella disponibilità del fallito, con l’indicazione dei titoli relativi». E siffatti elenchi, che devono essere formati e depositati in cancelleria dal curatore appena possibile subito dopo l’apertura della procedura fallimentare, potrebbero appunto servire anche come base, su cui articolare una proposta, ma non sono dalla legge ritenuti sufficienti per l’iter formativo del concordato. 4. Per l’ipotesi in esame (proposta proveniente «da uno o più creditori o da un terzo»), si stabilisce che la presentazione prima del decreto di esecutività dello stato passivo è possibile, «purché sia stata tenuta la contabilità ed i dati risultanti da essa e le altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre all’approvazione del giudice delegato» (art. 124, primo comma, prima parte, l. fall., come modificato dal “decreto correttivo”; il testo del 2006 recitava: «purché i dati contabili e le altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre all’approvazione del giudice delegato»). La tenuta della contabilità, s’intende da parte del fallito, condiziona, pertanto, di per sé la possibilità di presentare una proposta di concordato prima che sia concluso l’accertamento del passivo. Non si richiede che la contabilità sia “regolare”, né si stabilisce a quale periodo (anteriore alla dichiarazione di fallimento) essa deve riferirsi; deve, comunque, essere idonea, unitamente ad altre notizie disponibili, a consentire la predisposizione di un «elenco provvisorio dei creditori». 34 Benché due siano, ora, formalmente, le condizioni della proposta “anticipata” (tenuta della contabilità e idoneità dei dati risultanti da essa e delle altre notizie), nella sostanza non sembra che la modifica del “correttivo” abbia inciso granché sul contenuto precettivo della norma, posto che da un lato, nella nuova formulazione, non si richiede una contabilità “regolare” e, dall’altro, nel testo del 2006, già si richiedeva che «i dati contabili e le altre notizie disponibili» consentano la predisposizione dell’elenco provvisorio. 5. La formulazione della disposizione, pur nella nuova versione di cui al “correttivo”, non è felice, perché: a) l’essere stata tenuta la contabilità è un fatto di cui è a conoscenza il curatore, non l’aspirante proponente (che ne può avere conoscenza solo occasionale); b) l’idoneità dei dati da essa risultanti e delle altre notizie disponibili alla predisposizione dell’elenco provvisorio è una valutazione che spetta al curatore e che egli non è tenuto a fare prima e indipendentemente dalla della presentazione di una qualunque proposta di concordato, mentre la norma sembra condizionare a tale valutazione la presentazione di una proposta; c) non è prescritto che il curatore, su richiesta di un qualunque aspirante, debba valutare la predisponibilità dell’elenco provvisorio e darne comunicazione all’interessato, per consentirgli di presentare la proposta; d) d’altro canto, non è da escludere che il curatore, pur quando abbia previamente comunicato all’interessato di poter predisporre l’elenco, si accorga, dopo la presentazione della proposta, che ciò non è possibile. In ogni caso, l’elenco provvisorio, come si desume dallo stesso art. 124 e dall’art. 127 l. fall., deve essere predisposto, se possibile, solo dopo che sia stata presentata una proposta di concordato, e non è prescritto che il curatore sia tenuto a farlo prima, su richiesta di un qualunque aspirante (per cui non è nemmeno ipotizzabile che l’interessato proponga reclamo ex art. 36 l. fall. per ottenere che il curatore lo predisponga, tale reclamo essendo dato solo «per violazione di legge», quando, cioè, una norma impone di tenere un preciso comportamento). Peraltro, sembra ben difficile che si possa formulare una proposta di concordato senza che si conosca (almeno approssimativamente) l’entità e la composizione della debitoria da soddisfare. A tal fine, dovrebbero soccorrere «l’elenco dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e diritti di prelazione», e «l’elenco di tutti coloro che vantano diritti reali e personali, mobiliari e immobiliari, su cose in possesso o nella disponibilità del fallito, con l’indicazione dei titoli relativi», che il curatore, a norma dell’art. 89, primo comma, l. fall., è tenuto a compilare e a depositare in cancelleria e che, proprio grazie a tale deposito, debbono ritenersi accessibili agli interessati (tra cui coloro che eventualmente aspirano a proporre un concordato). Il problema è che sovente, nella prassi, tali elenchi sono omessi, il che può dipendere anche dalla insufficienza dei dati e delle informazioni allo stato acquisiti dal curatore. 6. Ad ogni modo, sembra ipotizzabile, in via normale, questa sequenza: presentazione della proposta, valutazione della possibilità di predisporre un elenco provvisorio, predisposizione di tale elenco, approvazione di esso. La norma nulla dice per l’ipotesi che il curatore ritenga di non poter predisporre l’elenco. Ma, allora, non sembra che ci sia da adottare alcun provvedimento da parte del giudice delegato: la proposta rimane quiescente in attesa della conclusione del procedimento di accertamento del passivo. Tutt’al più, è ipotizzabile un provvedimento del giudice delegato che si limiti a dichiarare improcedibile, allo stato degli atti, la domanda. Sembra, peraltro, possibile reclamare ex art. 36 l. fall., onde ottenere che il curatore predisponga l’elenco. 7. La predisposizione dell’elenco è fatta dal curatore di ufficio, indipendentemente dalle domande di ammissione al passivo, sulla base dei «dati risultanti» dalla contabilità e delle «altre notizie disponibili», e, quindi, eventualmente anche sulla base delle notizie emergenti dalle domande già presentate e della documentazione ad esse allegata. 35 Tale elenco altro non sarà che una riedizione aggiornata e integrata dell’elenco ex art. 89, primo comma, l. fall., se questo è stato compilato. Predispostolo, il curatore lo dovrà «sottoporre all’approvazione del giudice delegato», il quale procederà, quindi, ad un controllo sommario, sulla scorta delle sole informazioni fornite e della documentazione esibita dal curatore, in assenza di contraddittorio con gli interessati, controllo che si concluderà con un provvedimento di «approvazione» o di diniego di approvazione. Si tratta chiaramente di un provvedimento interinale e “allo stato degli atti”, che serve unicamente a consentire la deliberazione da parte dei creditori. Esso appare del tutto analogo ai provvedimenti di ammissione provvisoria dei crediti contestati, previsti nella fase di deliberazione del concordato preventivo dall’art. 176, primo comma, l. fall. («Il giudice delegato può ammettere provvisoriamente in tutto o in parte i crediti contestati ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze, senza che ciò pregiudichi le pronunzie definitive sulla sussistenza dei crediti stessi»): come questi, è da ritenere che esso valga «ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze», senza che possa mai pregiudicare «le pronunzie definitive sulla sussistenza dei crediti». 8. Attesa la sua natura interinale e strumentale, sembra che il provvedimento di approvazione dell’elenco non sia suscettibile di reclamo ex art. 26 l. fall., poiché eventuali impugnative intralcerebbero lo sviluppo del procedimento, che, invece, la legge vuole sollecito: proprio perciò non esige che si attenda lo stato passivo esecutivo e prevede un simile provvedimento provvisorio. D’altro canto, eventuali contestazioni possono essere fatte valere con l’opposizione ex art. 129 l. fall. Nemmeno sembra reclamabile il provvedimento di diniego: infatti, l’art. 127, primo comma, l. fall. stabilisce che «altrimenti», ossia quando il giudice delegato non approva l’elenco provvisorio, «gli aventi diritto al voto sono quelli indicati nello stato passivo reso esecutivo ai sensi dell’articolo 97»42, e con ciò sembra appunto voler escludere la reclamabilità del decreto, disponendo diversamente dalla regola generale, di cui all’art. 26, primo comma, l. fall. («Salvo che non sia diversamente disposto, contro i decreti del giudice delegato e del tribunale, può essere proposto reclamo al tribunale o alla corte di appello, che provvedono in camera di consiglio»). In caso di diniego, dunque, la proposta rimane quiescente e potrà riprendere il cammino solo una volta che sarà stato reso esecutivo lo stato passivo. 9. In conclusione, sul punto, si può dire che la predisposizione dell’elenco provvisorio e l’approvazione di esso costituiscono condizioni di procedibilità della proposta presentata prima del decreto di esecutività dello stato passivo, ai sensi dell’art. 124, primo comma, prima parte, l. fall. Non sembra dubbio che il proponente, ove la proposta non possa essere esaminata, mancando l’elenco provvisorio approvato, potrà sempre revocarla (come del resto può fare anche in prosieguo, finché non sia emesso il provvedimento di omologazione). 17. Rapporto fra «elenco provvisorio» e stato passivo. 1. Un aspetto della nuova disciplina da mettere a fuoco è quello che concerne il rapporto fra elenco provvisorio, da un lato, e stato passivo reso esecutivo e altri provvedimenti di accertamento del passivo dall’altro. E’ possibile che, presentata la proposta prima del decreto di esecutività dello stato passivo e predisposto, quindi, l’elenco provvisorio ex art. 124, primo comma, l. fall., nelle more dell’iter formativo del concordato, si pervenga alla conclusione del procedimento di accertamento del passivo davanti al giudice delegato. Questo procedimento, infatti, deve, comunque, proseguire, pur dopo la presentazione della proposta, e arrivare a conclusione prima dell’omologazione: divenuto definitivo il decreto di 42 E’ da notare che per un evidente refuso è richiamato erroneamente l’art. 97, mentre il decreto di esecutività dello stato passivo è ora previsto dall’art. 96, quinto comma, l. fall. Il refuso non è stato “corretto” dal d.lgs. n. 169 del 2007. 36 omologazione, il tribunale deve dichiarare la chiusura del fallimento (art. 130, secondo comma, l. fall.), sicché non sarebbe più possibile il completamento dell’accertamento del passivo, in conseguenza della cessazione delle operazioni fallimentari e della sopravvenuta decadenza degli organi della procedura (art. 120, primo comma, l. fall.). Ma nessuna norma stabilisce che il procedimento di accertamento del passivo si deve bloccare, una volta presentata una proposta di concordato prima del decreto ex art. 96, quinto comma, l. fall. D’altro canto, essendo l’elenco ex art. 124, primo comma, l. fall., appunto «provvisorio» e meramente strumentale all’approvazione del concordato, esso non può avere alcun valore ai fini dell’esecuzione del concordato, ossia al fine di stabilire chi siano i creditori che debbono essere pagati e in qual misura: a tal fine è necessario lo stato passivo esecutivo, suscettibile di essere modificato o integrato con le pronunce rese all’esito dei procedimenti impugnatori ex art. 98 l. fall. (opposizione, impugnazione dei crediti ammessi, revocazione) e per insinuazioni tardive ex art. 101 l. fall. La necessità che si pervenga allo stato passivo esecutivo, peraltro, è desumibile dalla disposizione dell’art. 124, quarto comma, l. fall., la quale prevede che l’assuntore del concordato «può limitare gli impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta»: quindi, potendo l’assuntore presentare la sua proposta anche prima del decreto di esecutività dello stato passivo e potendo egli limitare il suo impegno ai «soli creditori ammessi al passivo», è chiaro che si deve, comunque, pervenire all’accertamento del passivo prima che il fallimento si chiuda. 2. Dalla stessa disposizione non sembra, invece, desumibile, altresì, che i procedimenti di opposizione allo stato passivo e per domande tardive proseguono pur dopo l’omologazione del concordato e la conseguente chiusura del fallimento ex art. 130, secondo comma, l. fall.43 In questo come in ogni altro caso di chiusura del fallimento, tutti i procedimenti pendenti per l’accertamento del passivo fallimentare (ivi compresi eventuali procedimenti di impugnazione di crediti ammessi o di revocazione ex art. 98 l. fall.) non possono più essere proseguiti, atteso che essi sono, nella nuova disciplina, strutturati (non più come giudizi ordinari di cognizione, bensì) come procedimenti camerali interni alla procedura fallimentare (artt. 99 e 101 l. fall.)44, sicché non possono ad essa sopravvivere, verificandosi la decadenza degli organi fallimentari (art. 120, primo comma, l. fall.), e venendo meno la loro stessa ragion d’essere, in quanto procedimenti indirizzati all’emanazione di provvedimenti che «producono effetti soltanto ai fini del concorso» (art. 96, sesto comma, l. fall.)45. 43 Modifico in tal senso l’opinione espressa nel mio precedente scritto “La sistemazione dell’insolvenza”, cit., 299. L’opposizione allo stato passivo, l’impugnazione di crediti ammessi e l’istanza di revocazione sono espressamente qualificate «impugnazioni» del decreto di esecutività dello stato passivo (art. 98, primo comma, l. fall.), sicché i relativi procedimenti, che si svolgono in camera di consiglio dinanzi al tribunale fallimentare, sono configurati come procedimenti di secondo grado rispetto al procedimento di formazione dello stato passivo dinanzi al giudice delegato (art. 99 l. fall.). Le domande tardive di ammissione al passivo danno luogo in primo grado a un procedimento camerale dinanzi al giudice delegato analogo al procedimento di formazione dello stato passivo, cui possono far seguito le medesime impugnazioni di cui all’art. 98 l. fall., e, quindi, gli stessi procedimenti camerali di secondo grado dinanzi al tribunale fallimentare (art. 101 l. fall.). Nel vigore della vecchia disciplina, invece, l’opposizione allo stato passivo, l’impugnazione di crediti ammessi e l’istanza di revocazione davano luogo a ordinari giudizi di cognizione di primo grado dinanzi al tribunale (artt. 98, 99, 100, 102 l. fall., vecchio testo); e così pure le domande tardive, dopo una prima fase dinanzi al giudice delegato, ove questa non si concludesse con un provvedimento di accoglimento de plano (art. 101 l. fall., vecchio testo). 45 Ne offre conferma la disposizione dell’art. 120, quarto comma, l. fall.: se il creditore ammesso con provvedimento definitivo, una volta chiuso il fallimento, può utilizzare il provvedimento di ammissione soltanto come «prova scritta per gli effetti di cui all’articolo 634 del codice di procedura civile», ed è, quindi, tenuto ad iniziare ex novo un procedimento per l’accertamento del suo credito nei modi ordinari, è del tutto coerente con tale disciplina (e sarebbe incoerente il contrario) che sia parimenti tenuto a instaurare un nuovo giudizio il creditore che, avendo presentato domanda di ammissione al passivo, non abbia ancora ottenuto il provvedimento, e, dunque, che i procedimenti endofallimentari di accertamento del passivo pendenti al momento della chiusura non possano proseguire. 44 37 Del resto, non è previsto come, per iniziativa di chi e nei confronti di chi un’ipotetica prosecuzione dovrebbe avvenire. La citata disposizione dell’art. 124, quarto comma, laddove fa riferimento ai creditori che hanno proposto opposizione o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta di concordato, va, allora, intesa nel senso che l’impegno del terzo proponente si estende nei confronti di tali creditori, ed egli è tenuto a pagarli, se costoro abbiano ottenuto l’ammissione al passivo con provvedimento definitivo prima della chiusura del fallimento, ovvero, se i relativi procedimenti di accertamento endofallimentare non sono ancora esauriti, sempre ché egli, in sede di esecuzione del concordato, non contesti i loro crediti, o, in caso di contestazione, sempre ché i medesimi crediti siano accertati (dopo l’omologazione) in comuni giudizi di cognizione da instaurare ex novo in confronto del proponente. 3. Ciò posto, sembra di poter dire che, avendo l’elenco provvisorio valore solo ai fini del voto e del calcolo delle maggioranze, se nelle more dell’iter formativo del concordato, prima della scadenza del termine fissato dal giudice delegato per la votazione ex art. 125, terzo comma, l. fall. sopravviene lo stato passivo esecutivo, esso è destinato a prendere il posto dell’elenco provvisorio, esaurendosi la funzione interinale e strumentale di questo. In altri termini, gli aventi diritto al voto e le maggioranze debbono determinarsi in base alle risultanze dell’elenco provvisorio, come previsto dall’art. 127, primo comma, l. fall., se prima della scadenza del termine non sia stato ancora reso esecutivo lo stato passivo; invece, sulla base delle risultanze dello stato passivo esecutivo, se questo sopravviene prima della scadenza di detto termine. Ciò trova riscontro nella disposizione dell’art. 128, comma terzo, l. fall. (già comma quarto nel testo del 2006), la quale espressamente contempla l’ipotesi che sopravvenga un «provvedimento»46, per effetto del quale si determini una «variazione del numero dei creditori ammessi o dell’ammontare dei singoli crediti». Pare evidente che la norma si riferisce a una pronuncia emessa (comunque prima dell’omologazione del concordato) all’esito di un procedimento di impugnazione dello stato passivo o di insinuazione tardiva (artt. 99 e 101 l. fall.). Con riguardo a simile provvedimento la norma medesima stabilisce che esso, se è «emesso successivamente alla scadenza del termine fissato dal giudice delegato per le votazioni, non influisce sul calcolo della maggioranza». A contrario, se ne deve, invece, tener conto, se è emesso prima della scadenza di detto termine. Ma se si deve tener conto di simile pronuncia, che viene a modificare o integrare lo stato passivo esecutivo, non si può non tener conto di questo medesimo stato passivo, ove esso sopravvenga prima della scadenza dello stesso termine. 18. Limiti temporali della proposta presentata dal fallito. 1. L’art. 124, primo comma, l. fall. pone limiti temporali ben precisi alla proposta proveniente «dal fallito, da società cui egli partecipi o da società sottoposte a comune controllo». Il momento iniziale, a partire dal quale è ammessa la presentazione della proposta, che nel testo di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 era di «sei mesi dalla dichiarazione di fallimento», ora, a seguito del “correttivo”, è fissato a «un anno dalla dichiarazione di fallimento»; il momento finale, oltre il quale la proposta non è più ammessa, è segnato dal decorso di «due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo». 46 Nel testo del 2006, per un evidente difetto di coordinamento, si parlava di «sentenza», il che non è esatto, giacché il provvedimento adottato all’esito dei menzionati procedimenti riveste sempre la forma del decreto, come ora chiarito dal nuovo testo dell’art. 99, di cui al d.lgs. n. 169 del 2007, il quale ha, altresì, sostituito, nell’art. 128, comma terzo, l. fall. (già comma quarto del testo precedente), alle parole «una sentenza emessa» le parole «un decreto emesso». A tal proposito, si legge, infatti, nella Relazione ministeriale al testé citato d.lgs. che la modifica «viene anch’essa a correggere un difetto di coordinamento, posto che all’esito dei procedimenti ex artt. 98 e 101 del r.d. è emesso decreto e non sentenza». 38 La disposizione, dunque, a differenza del vecchio testo del 1942, il quale prevedeva solo un termine iniziale, individuato nel «decreto previsto nell’articolo 97», fa riferimento al decreto di esecutività dello stato passivo non più per fissare il dies a quo, ma per stabilire il dies ad quem. Pare evidente la disarmonia esistente fra i due termini: ove il decreto ex art. 96, quinto comma, l. fall. venga emesso prima del decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento (come dovrebbe essere normale, poiché l’adunanza per l’esame dello stato passivo dovrebbe tenersi «entro il termine perentorio di non oltre centoventi giorni dal deposito della sentenza, ovvero centottanta giorni in caso di particolare complessità della procedura»: art. 16, primo comma, n. 4), l. fall.), il termine dilatorio iniziale non sarebbe ancora scaduto, mentre il temine finale sarebbe già iniziato a decorrere47. Il che ridurrebbe ancor di più lo spazio di tempo a disposizione del fallito. 2. Il termine finale dei «due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo», decorso il quale è precluso al fallito (ovvero a «società cui egli partecipi» o «sottoposte a comune controllo») di presentare la proposta di concordato, sembra essere un termine di decadenza, come tale non suscettibile di alcuna interruzione o sospensione (art. 2964 c.c.). 3. Deve ritenersi che sia l’incompiutezza del termine dilatorio sia il decorso del termine finale debbono essere rilevati di ufficio dal giudice delegato in sede di esame della proposta ex art. 125 l. fall.: attengono, infatti, alla «ritualità» della proposta che spetta al giudice delegato valutare, come ora espressamente prevede il secondo comma del citato art. 125; identica valutazione officiosa spetta, poi, anche al tribunale in sede di omologazione ex art. 129 l. fall. Si tratta di requisiti attinenti alla disciplina della formazione del concordato, che è certamente sottratta alla disponibilità delle parti, in quanto incidente sul corso della procedura fallimentare, sicché la carenza di detti requisiti non integra eccezioni riservate alle parti medesime, ma è sempre rilevabile d’ufficio dal giudice. 4. La rigida delimitazione temporale della facoltà del fallito (e di soggetti a lui riferibili: «società cui egli partecipi» o «società sottoposte a comune controllo») di proporre il concordato, in 47 Nel mio precedente scritto, “La sistemazione dell’insolvenza”, cit., 305 s., avevo sostenuto che nell’ipotesi in cui lo stato passivo sia reso esecutivo prima dei sei mesi dalla dichiarazione di fallimento, il fallito non deve necessariamente attendere la scadenza di tale termine per presentare la sua proposta, in quanto – osservavo –, se ha un senso stabilire (come appunto stabiliva la disciplina previgente) il momento iniziale alla data del decreto di esecutività dello stato passivo, perché in tal modo la proposta di concordato viene a poggiare su di una base debitoria già accertata (sia pure non immutabilmente), non si comprende la ragione di un termine dilatorio quando sia già stato emesso quel decreto. Tenendo anche presente il criterio direttivo impartito nella legge di delega 14 maggio 2005, n. 80, il cui art. 1, comma 6, punto 12, demandava di «modificare la disciplina del concordato fallimentare, accelerando i tempi della procedura», mi sembrava che la nuova norma andasse interpretata come una modifica acceleratoria rispetto alla disposizione previgente, nel senso, cioè, che essa prevede lo “sganciamento” del momento iniziale della presentazione della proposta del fallito dal decreto di esecutività dello stato passivo, quando quest’ultimo “tarda troppo”. In altre parole, sostenevo che il fallito (ovvero una «società cui egli partecipi» o sottoposta «a comune controllo») può presentare la sua proposta dopo il decreto anzidetto, anche se non sono ancora passati sei mesi dalla dichiarazione di fallimento, e, comunque, dopo il decorso dei sei mesi, se esso non è stato emesso prima. In tal modo – osservavo – si evita anche la disarmonia che si verrebbe diversamente a creare fra il termine dilatorio iniziale e il termine finale: essendo quest’ultimo espressamente fissato con riferimento al decreto ex art. 96, quinto comma, l. fall., ove questo decreto dovesse essere emesso prima dei sei mesi, se non fosse possibile presentare la proposta subito dopo di esso e si dovesse attendere il decorso dei sei mesi, succederebbe che il termine dilatorio non sarebbe ancora scaduto, mentre il temine finale sarebbe già iniziato a decorrere. Il decreto “correttivo” ha, però, allungato a un anno il termine prima del quale il fallito non può presentare la proposta di concordato, e ciò induce a ritenere non più sostenibile un’interpretazione della norma in senso “acceleratorio”. Dato l’orientamento restrittivo della norma, mi sembra, dunque, che, ove mai il decreto di esecutività dello stato passivo tardi oltre l’anno dalla dichiarazione di fallimento, non sia comunque permessa la presentazione della proposta da parte del fallito (ovvero di una «società cui egli partecipi» o sottoposta «a comune controllo») prima che detto decreto sia pronunciato, dal momento che solo a uno o più creditori o a un terzo è consentito di presentare la proposta prima di quel decreto (modifico così l’opinione precedentemente espressa sul punto). 39 contrapposizione alla mancanza di qualunque sbarramento alla proponibilità del concordato da parte di «uno o più creditori» o di «un terzo», suscita perplessità. 4.1. Soprattutto a seguito del “correttivo”, che, come detto, ha elevato da sei mesi a un anno il termine iniziale, pare evidente il disfavore del legislatore per il concordato proposto dal fallito (o a soggetti a lui riconducibili). Una così restrittiva normativa rivela un intento “punitivo” del legislatore delegato, che traspare dalla stessa Relazione ministeriale al d.lgs. n. 169 del 2007, laddove si legge che con la modifica apportata all’art. 124 l. fall., «l’impedimento temporale di sei mesi dalla dichiarazione di fallimento, per la presentazione della domanda di concordato da parte del debitore fallito, viene elevata al termine più congruo di un anno», perché «si rafforza in questo modo l’incentivo all’utilizzazione della procedura alternativa di concordato preventivo». In effetti, la rigida delimitazione temporale della proponibilità del concordato da parte del fallito non sembra avere altra ratio che quella di “sanzionare” il mancato ricorso al concordato preventivo: il debitore aveva la facoltà (a lui solo riservata) di proporre il concordato preventivo e così di avviare tempestivamente a soluzione concordataria “anticipata” la crisi della sua impresa, ma non se ne è avvalso; aperta la procedura fallimentare, deve “passare la mano”, lasciando solo ad altri, per un congruo periodo di tempo (un anno) la possibilità di proporre una soluzione concordataria “successiva”; se altri non si fa avanti, il fallito recupera la facoltà di proporre un concordato, ma, se vuole avvalersene, ha l’onere di farlo subito, essendogli dato un ristretto spazio di tempo (compreso fra l’anno dalla dichiarazione di fallimento e i due anni dal decreto di esecutività dello stato passivo), dopodiché gli è definitivamente preclusa tale facoltà48. Il concordato fallimentare proposto dal fallito risulta, perciò, essere, nella nuova normativa, una soluzione residuale, fortemente disincentivata dal legislatore, il quale intende favorire al massimo la soluzione anticipatoria del concordato preventivo. Se questa è la logica cui risponde la nuova disciplina, sembra che le scelte del legislatore si basino su di un postulato ideologico49, quello della necessarietà della tempestiva emersione della crisi, senza fare i conti con i principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 41 Cost. (eguaglianza, ragionevolezza e libertà di iniziativa economica privata), oltre ché coi limiti della delega legislativa. Alla stregua di tali parametri, infatti, la normativa in esame presenta diversi aspetti critici. 4.2. Innanzitutto, la legge di delega non prevedeva affatto, in punto di concordato fallimentare, un trattamento differenziato (e penalizzante) del fallito rispetto ad altri soggetti proponenti, ma dettava 48 Osserva, infatti, M. FABIANI, “Il decreto correttivo della riforma fallimentare”, FI, 2007, V, 230 s.: «Una contestazione da tutti condivisa (pur se non da tutti valutata negativamente) era quella della assenza nel nostro ordinamento concorsuale di misure dirette ad incentivare la tempestiva emersione della crisi dell’impresa. In verità, sebbene inconsapevolmente, esisteva una norma che poteva assecondare questa esigenza e tale norma era situata nell’art. 124 l. fall.; l’inibizione al debitore della facoltà di presentare la domanda di concordato fallimentare per uno spazio di sei mesi, poteva stimolare il debitore a presentare domanda di concordato preventivo, sul presupposto che, una volta aperta la procedura liquidatoria, le redini della regolazione pattizia dell’insolvenza sarebbero state affidate in via esclusiva a terzi. Quella disposizione che a ben vedere poteva essere sapientemente sfruttata anche ad altri fini (forse meno nobili ma non disdicevoli volta che per effetto dell’insolvenza, i veri partners dell’impresa divengono i creditori; il pensiero corre alla acquisizione dell’impresa per motivi concorrenziali), dopo essere inopinatamente cancellata, è, per fortuna resuscitata dopo il quanto mai opportuno, sul punto, parere della Commissione Giustizia della Camera, cui è seguito anche l’incremento del periodo di inibizione ad un anno». A tale opinione si può, tra l’altro, obiettare, che, aperta la procedura liquidatoria, il ruolo decisivo dei creditori (a parte l’evidente forzatura nel qualificarli «veri partners dell’impresa») sta nel decidere se approvare o meno la proposta di concordato, non già se presentare o meno detta proposta, la quale, infatti, può provenire da un creditore come da un terzo estraneo come dal debitore: per i creditori è indifferente chi sia il proponente, quel che conta è che la proposta sia più vantaggiosa della liquidazione concorsuale dei beni e di tale convenienza essi soli sono arbitri. 49 Di evidente marca “dirigista”, e, quindi, inspiegabilmente, in controtendenza rispetto all’impostazione “liberistica” della nuova disciplina fallimentare. 40 il seguente principio: «modificare la disciplina del concordato fallimentare, accelerando i tempi della procedura» (art. 1, comma 6, lettera a), n. 12, della legge 14 maggio 2005, n. 80). Ora, se l’(unico) obiettivo assegnato al legislatore delegato è l’accelerazione della procedura, non si vede come una norma che, pur riconoscendo al fallito la facoltà di proporre il concordato, gli inibisce l’esercizio di tale facoltà prima di un certo tempo e glielo preclude dopo il decorso di altro tempo, possa risultare congruente rispetto all’obiettivo, sembrando ovvio che, differendo e restringendo lo spazio di tempo, nel quale un soggetto legittimato può fare la proposta, si riducono le possibilità di utilizzo del concordato come strumento per accelerare la conclusione della procedura fallimentare. Si può, dunque, dubitare del rispetto della delega legislativa e ipotizzare una violazione degli artt. 76 e 77 Cost. 4.3. Si può, poi, dubitare della ragionevolezza del trattamento riservato al fallito, differenziato da quello fatto agli altri soggetti legittimati alla proposta, in relazione alla stessa ratio della norma, come sopra individuata, prendendo in considerazione alcuni possibili accadimenti: a) è possibile che il fallito, prima della dichiarazione di fallimento, abbia proposto un concordato preventivo, ma che questo non abbia avuto successo per cause indipendenti dalla volontà di lui: in simile ipotesi il ricorso allo strumento pattizio, che si vorrebbe incentivare, vi è stato effettivamente, e, quindi, anche la “tempestiva emersione della crisi”, ma ciò nondimeno la proposta di concordato fallimentare da parte del fallito soggiace alle restrizioni temporali di cui all’art. 124 l. fall.; b) è possibile che il fallimento sia stato dichiarato su iniziativa dello stesso fallito, che abbia “portato i libri in tribunale” non appena resosi conto di essere in stato di insolvenza: anche in tal caso vi è stata la “tempestiva emersione della crisi”, ma il fallito non è trattato meglio che se non fosse stato così diligente; c) è possibile che il fallito, prima della dichiarazione di fallimento, si sia dato effettivamente da fare per giungere a presentare una proposta di concordato preventivo, ma non ci sia riuscito: in tal caso il mancato ricorso alla soluzione concordataria anticipata non è imputabile al fallito, ma per la norma ciò è irrilevante ed egli va incontro al medesimo trattamento “penalizzante”. 4.4. Ma ancora della ragionevolezza della norma può dubitarsi in relazione all’obiettivo del legislatore delegante di accelerare la procedura ed alla finalità dell’istituto del concordato fallimentare nel suo insieme, che è indubbiamente quella di fornire ai creditori un soddisfacimento più elevato e/o ravvicinato e/o sicuro di quello che possono ottenere attraverso la liquidazione fallimentare dei beni. Infatti: non è detto che nell’anno dalla dichiarazione di fallimento, per il solo fatto che in tale periodo è inibito al fallito di proporre un concordato, vi saranno proposte di altri legittimati e che tali proposte saranno migliori di quella che avrebbe potuto presentare il fallito in quello stesso periodo; così, non è detto che, per il solo fatto che decorsi due anni dal decreto di esecutività dello stato passivo al fallito è preclusa la possibilità di proporre un concordato, vi saranno proposte di altri legittimati e che tali proposte saranno migliori di quella che avrebbe potuto presentare il fallito nello stesso periodo, né che il fallito si affretti a presentare una proposta, sapendo di non poterlo più fare decorso il biennio. Semplicemente, l’inibizione prima e la preclusione dopo, comprimendo lo spazio di iniziativa di uno dei soggetti legittimati, riducono le possibilità che la procedura fallimentare si concluda più rapidamente e che i creditori siano meglio soddisfatti con un concordato, posto che è ragionevole pensare che più sono i soggetti legittimati e maggiore libertà essi hanno, più aumenta la concorrenza tra di loro e, quindi, si accrescono le opportunità di migliori risultati per i creditori. 4.5. Peraltro, la preclusione alla proponibilità del concordato, decorso il biennio, potrebbe essere ritenuta ingiustificata, poiché non rispondente a quell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici che è propria dei termini di decadenza. Infatti, decorso il biennio, il concordato è ancora proponibile 41 dagli altri soggetti legittimati, eccettuato il fallito. Se, dunque, per taluno dei legittimati non è prevista decadenza per l’esercizio della medesima facoltà, è evidente che non può invocarsi alcuna esigenza di certezza per giustificare la decadenza imposta a carico di altro legittimato. 4.6. Si deve, poi, valutare se la disparità di trattamento fra il fallito e gli altri soggetti legittimati a proporre il concordato possa essere giustificata in considerazione della specifica condizione dell’uno e degli altri. Posto che la normativa in esame dà facoltà al fallito come ad altri di presentare la proposta di concordato e, salvo che per i limiti temporali di cui si discute, regola allo stesso modo il concordato proposto dal fallito come quello proposto da altri (con le sole differenziazioni di contenuto della proposta che sono connaturate all’istituto50), si dovrebbe ipotizzare che il fallito si trova in una posizione differenziata rispetto agli altri legittimati, tale da giustificare il diverso trattamento, non certo, però, per il solo fatto che egli è il debitore fallito e gli altri sono appunto soggetti diversi (perché ciò è, comunque, già stato ritenuto irrilevante dalla stessa norma che attribuisce tanto all’uno quanto agli altri la legittimazione alla proposta), bensì in correlazione con la finalità dell’istituto, che è pur sempre quella di chiudere il fallimento prima e meglio che attraverso il suo svolgimento fisiologico. Ora, si può anche sostenere che il fallito rispetto agli altri legittimati parta da una posizione di vantaggio, data dalla conoscenza dei dati contabili, della debitoria e dell’attivo, ma non si vede come ciò possa essere giuridicamente rilevante, e non rappresentare, invece, una mera circostanza di fatto, dal momento che la disciplina del concordato non è posta a tutela della concorrenza fra gli aspiranti a proporre il concordato (e quindi al fine di evitare o compensare condizioni di partenza disparitarie fra di loro), ma a tutela dell’interesse dei creditori ad essere soddisfatti il più rapidamente possibile ed alle migliori condizioni possibili, e in vista di ciò pare del tutto indifferente che il fallito sappia della sua situazione contabile e patrimoniale di più di quello che sanno gli altri aspiranti. Ed invero, la controprova di ciò è che, se la norma prevedesse i medesimi requisiti temporali sia per la proposta del fallito sia per quella proveniente da altri, ben difficilmente potrebbe essere sospettata di violare il principio di eguaglianza per il fatto di trattare in maniera eguale situazioni diverse, ove si adducesse a elemento differenziatore la conoscenza dei dati patrimoniali e contabili, poiché il vantaggio che da tale conoscenza trae il fallito, al più, altro non sarebbe che un mero “inconveniente di fatto”, come tale irrilevante ai fini del sindacato di costituzionalità. 4.7. La norma in esame potrebbe risultare in contrasto anche con l’art. 41 Cost., sotto più di un profilo. In primis, la libertà di iniziativa economica privata e, con essa, la libertà negoziale, garantite dalla norma costituzionale, implicano la libertà dell’imprenditore-debitore ancora in bonis (non ancora cioè sottoposto a procedura concorsuale) di cessare o meno l’esercizio dell’impresa e di proseguirlo anche in caso di perdite, come pure la libertà di ricercare o meno accordi con i creditori o soluzioni concordatarie (anche queste espressioni di autonomia negoziale) per sanare situazioni di crisi, con il solo limite dell’obbligo di non aggravare colposamente il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento (art. 217, primo comma, n. 4. l. fall.). Non sembra, perciò, che possa ritenersi rispettosa di tale libertà la norma che, volendo incentivare il ricorso al concordato da parte del debitore anteriormente all’apertura del fallimento, impone restrizioni alla facoltà per lo stesso debitore di utilizzare lo strumento concordatario successivamente alla dichiarazione di fallimento, e finisce con ciò per “sanzionare” il mancato utilizzo da parte sua della procedura di concordato preventivo (mancato utilizzo che, peraltro, potrebbe anche non sussistere o essere incolpevole, come innanzi rilevato). 50 Per cui, come si è visto, il fallito non può rendersi assuntore della propria debitoria e cessionario dei suoi beni: art. 124, quarto comma, l. fall. 42 Sotto altro profilo, posto che la proposta di concordato è espressione di autonomia negoziale, le restrizioni temporali all’esercizio della facoltà di proporre il concordato (pur riconosciuta al debitore) costituiscono di per sé limitazioni della libertà negoziale, che non appaiono giustificate, dal momento che, potendo la libertà negoziale del privato essere limitata solo ove si ponga «in contrasto con l’utilità sociale» (art. 41, secondo comma, Cost.), tale requisito non pare riscontrabile, in quanto, come già rilevato, dette restrizioni non accrescono, ma anzi diminuiscono le possibilità di un più rapido e satisfattorio esito della procedura fallimentare. Inoltre, il vulnus inferto alla libertà negoziale del fallito risulta aggravato dal fatto che, mentre da un lato egli vede ristretto il suo spazio di iniziativa, dall’altro nessun limite è imposto agli altri legittimati (ossia a qualunque altro soggetto diverso dal fallito o da società a lui riconducibili), i quali hanno facoltà di proporre un concordato con il quale si può disporre di tutto il patrimonio del fallito, a prescindere dalla sua volontà, il che è ammissibile (come pure si è già osservato), perchè l’intero patrimonio del fallito è già assoggettato dell’esecuzione concorsuale, ma non sembra, tuttavia, che possa prescindere da ciò, che il fallito abbia eguale possibilità di esercitare la facoltà di proporre il concordato, che anche a lui è riconosciuta; diversamente, appaiono violati gli artt. 3 e 41 Cost., in combinato disposto. 19. Il procedimento di formazione del concordato: a) l’esame preventivo della proposta di concordato. 1. L’art. 125 disciplina la prima fase del complesso procedimento di formazione del concordato, il quale si articola in tre sub-procedimenti: a) l’esame preventivo della proposta; b) l’approvazione della proposta; c) l’omologazione della proposta51. 51 Cfr. Cass.-s.u., 26-7-1990, n. 7562 (DF, 1990, II, 1305; GC, 1990, I, 1942; GI, 1991, I, 1, 168; Fa, 1991, 144), la quale ricorda che «il concordato è stato studiato come un procedimento che si snoda nell’ambito del più ampio processo di fallimento ed ha inizio con la proposta di concordato mentre termina con la sentenza di omologazione». Anche a tal proposito è sempre attuale l’insegnamento di V. ANDRIOLI, “Fallimento (diritto privato e processuale)”, Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 264 ss., il quale osserva che «il fallimento propriamente detto consta di una serie di procedimenti non sempre tra loro collegati, né sempre sperimentati nella concreta applicazione […]. Esso si svolge tra due atti ineliminabili, costituito l’uno dalla sentenza dichiarativa di fallimento e l’altro dal decreto di chiusura, rappresentanti l’uno e l’altro la conclusione di due procedimenti […]. Tra questi due atti s’inseriscono alcuni procedimenti normali, ma non necessari: apposizione e rimozione dei sigilli, inventario, accertamento del passivo e dei diritti reali mobiliari dei terzi; liquidazione dell’attivo; ripartizione del medesimo» (p. 267). E, più avanti, ribadito che «il fallimento, preso nel suo complesso, è frazionato in più procedimenti» (p. 283), osserva ancora: «Pluralità di procedimenti, nei quali si articola la procedura fallimentare presa nel suo complesso, e pluralità di funzioni della procedura fallimentare globalmente considerata influiscono sulla valutazione sintetica della struttura e della funzione, che prelude alla identificazione della sua natura giuridica, e impongono di considerare infruttuosi i tentativi di inquadrare il fallimento in categorie più generali, come l’esecuzione forzata, la giurisdizione volontaria, il processo di stato, la giurisdizione di diritto oggettivo. Ognuna di queste categorie coglie alcuno degli aspetti del fallimento, ma poiché non li coglie tutti, rischia di costringere l’istituto in una sorta di letto di Procuste, che ne lascia in ombra le inconfondibili caratteristiche essenziali, e, soprattutto, espone al pregiudizio di estendere ad alcuno dei procedimenti, in cui il fallimento si scinde, principi validi per altro» (pp. 283-284). Torna, altresì, utile l’insegnamento della dottrina in sede di teoria generale del processo. E. FAZZALARI, “Procedimento e processo (teoria generale)”, Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, 819 ss., scrive: «Nella realtà, il “procedimento” si presenta come una determinata sequenza di ‘norme’, nonché degli ‘atti’ da esse disciplinati e delle ‘posizioni soggettive’ da esse estraibili, in vista del – e compreso il – compimento di un atto finale» (p. 819). «[…] in non pochi casi, il provvedimento non è l’ultimo atto del procedimento dal punto di vista temporale: talvolta il procedimento si divide in più fasi che sfociano, ciascuna, in un provvedimento; altre volte l’iter continua per il tratto necessario alla formazione di elementi integrativi (necessari per lo svolgersi) dell’efficacia – si pensi, ad esempio, alla promulgazione della legge –: ma, anche in quest’ipotesi, il provvedimento resta l’atto cui il procedimento cospira, e che determina il contenuto degli effetti; perciò può continuarsi a designare come “atto finale”» (p. 825). «[…] Ogni procedimento viene individuato e, per così dire “nominato”, in relazione all’atto finale (in diritto pubblico: al provvedimento) cui esso mette capo. Del resto, questa angolazione – per cui il procedimento si coglie in funzione dell’atto finale con cui è destinato a concludersi – è confermata dal principio secondo il quale uno dei requisiti (di validità e di efficacia) di quell’atto consiste, appunto, in ciò che esso sia l’epilogo di un regolare procedimento […]» (p. 825). «Procedimento “di primo grado” suole dirsi quello che mette capo, in presenza di dati presupposti, ad un primo 43 2. La proposta di concordato, da chiunque provenga, come si è già anticipato, deve essere incanalata in un procedimento giudiziale: la proposta, infatti, «è presentata con ricorso al giudice delegato» (art. 125, primo comma, l. fall.); essa, dunque, integra il contenuto di un atto processuale introduttivo del primo sub-procedimento, ossia una domanda giudiziale rivolta al giudice delegato. Tale primo sub-procedimento è destinato all’«esame della proposta» (come recita la rubrica dell’art. 125 cit.). Prima che la proposta sia sottoposta all’approvazione dei creditori, essa deve essere vagliata dagli organi della procedura fallimentare, perché ne valutino la legittimità e la convenienza. 3. Una prima valutazione deve essere fatta dal curatore: il giudice delegato, infatti, ricevuto il ricorso contenente la proposta, deve chiedere «il parere del curatore, con specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione ed alle garanzie offerte» (art. 125, primo comma, l. fall.). La preliminare valutazione del curatore deve, dunque, riguardare soprattutto la convenienza della proposta, sotto un duplice profilo: quello della comparazione rispetto alla soluzione alternativa della liquidazione dei beni e quello della idoneità delle garanzie (se queste vi sono). Questo secondo profilo, che è stato espressamente inserito dal decreto correttivo (anche se poteva ritenersi già implicitamente compreso nella precedente formulazione della norma), attiene sia alla sufficienza sia alla affidabilità (o alla «serietà», come diceva il vecchio art. 130, primo comma, della legge fallimentare del 1942) delle garanzie, nel senso che deve valutarsi se esse siano tali da assicurare che gli impegni concordatari siano puntualmente assolti (ossia che siano regolarmente adempiti «gli obblighi derivanti dal concordato», come dice il nuovo art. 137, primo comma, l. fall.), ovvero che, in caso di inadempimento, le aspettative di soddisfacimento dei creditori non rimangano frustrate. Il parere del curatore, però, non può non toccare anche i profili di legittimità della proposta. Detto parere è certamente obbligatorio, ma non vincolante. Diversamente prevede l’art. 125, terzo comma, l. fall., nel testo del 2006, il quale condiziona all’acquisizione del «parere favorevole» del curatore la comunicazione della proposta ai creditori, sicché mancando detto parere favorevole – nel vigore di quel testo – la proposta non può essere portata all’approvazione del ceto creditorio. 4. Il nuovo testo risultante dal “correttivo” ha demandato, invece, al comitato dei creditori una valutazione di merito della proposta di carattere “vincolante”. Infatti, l’art. 125, secondo comma, l. fall. stabilisce ora che, una volta avuto il parere del curatore, «il giudice delegato, acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori, valutata la ritualità della proposta, ordina che la stessa, unitamente al parere del curatore e del comitato dei creditori venga comunicata ai creditori». Ciò vuol dire che al comitato dei creditori spetta di valutare il merito, ossia la convenienza, della proposta, essendo riservata al giudice delegato una verifica di pura «ritualità», ossia di “legittimità formale”. Solo ove il comitato si sia espresso favorevolmente (sul piano delle convenienza, non anche su quello della legittimità), il giudice delegato può disporre la comunicazione della proposta. In altri termini, il parere favorevole del comitato si presenta come una condicio sine qua non del provvedimento del giudice delegato, e in questo senso si può anche parlare di parere vincolante, ma deve precisarsi che l’espressione è impropria, perché il giudice delegato non è tenuto a conformarsi al parere del comitato. In effetti, l’ambito decisorio del giudice delegato non tocca i profili di valutazione della proposta su cui deve esprimersi il comitato: il giudice delegato è chiamato a decidere se ordinare o meno la comunicazione della proposta e deve prendere questa decisione applicando la legge, quindi sulla base di un giudizio di mera legittimità, com’è proprio di ogni decisione giudiziale (art. 113 c.p.c.). Egli deve verificare se ricorrono le condizioni di legge perché la proposta possa essere sottoposta ai creditori e queste condizioni sono: i requisiti di «ritualità» provvedimento, primo perché disciplina di primo acchito una certa situazione; procedimento “di secondo grado” è quello che tende ad un provvedimento che incida sul primo (revocandolo, modificandolo, confermandolo)» (p. 826). 44 della proposta, il parere del curatore (quale che sia il contenuto di esso) e il «parere favorevole» del comitato, il quale parere, dunque, è assunto dalla norma come un elemento della fattispecie, sussistendo la quale nella sua interezza il giudice delegato deve emettere il provvedimento cui l’istante-proponente aspira, e cioè ordinare la comunicazione della proposta, non sussistendo la quale, in tutti gli elementi che la compongono, il giudice delegato deve respingere la domanda. 5. Per vero, la norma non precisa quale sia il contenuto del provvedimento in caso di parere sfavorevole del comitato o di mancanza degli altri requisiti di legge, ma poiché la proposta è presentata «con ricorso al giudice delegato» e, quindi, sostanzia una domanda tendente ad ottenere un provvedimento giudiziale, ove non sia possibile mandarla avanti, disponendone la comunicazione, il provvedimento da adottare non può che essere di rigetto della domanda. 6. Dalla nuova disciplina emerge con chiarezza che è del tutto sottratto al giudice delegato ogni potere di valutazione del contenuto della proposta di concordato, quanto al “merito” di essa, diversamente da quanto prevedeva la legge fallimentare del 1942, la quale nel vecchio art. 125 stabiliva che il giudice delegato, solo «se ritiene la proposta conveniente», ne ordina la comunicazione ai creditori. Nel nuovo testo dell’art. 125, secondo comma, l. fall., invece, si precisa che il giudice delegato deve valutare la «ritualità» della proposta: essa non può che risolversi nella conformità della proposta ai requisiti prescritti dagli artt. 124 e 125, vale a dire nella corrispondenza di essa allo schema legale, ossia la mera “legittimità formale”. Detti requisiti di «ritualità» o “legittimità formale” sembrano, dunque, essere i seguenti: a) rispetto dei termini di presentazione, se la proposta proviene dal fallito (o «da società cui egli partecipi o da società sottoposte a comune controllo»)52; b) previsione dell’assunzione di «impegni» verso i creditori a carico del proponente, quale che sia il loro contenuto53, purché non sottoposti a termini né condizioni (sospensive o risolutive); c) previsione della «soddisfazione» (non necessariamente integrale) di tutti i crediti concorsuali (nei cui confronti il concordato è «obbligatorio» ex art. 135 l. fall.), se proviene dal fallito; d) previsione della «soddisfazione» di tutti i crediti concorsuali (nei cui confronti il concordato è «obbligatorio» ex art. 135 l. fall.) ovvero della limitazione degli «impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta» (art. 124, quarto comma, l. fall.), se questa proviene da un terzo o da uno o più creditori; e) previsione della «soddisfazione» integrale e immediata di tutti i crediti privilegiati, ovvero previsione della soddisfazione non integrale di tali crediti, ma «in misura non inferiore» a quella di cui al terzo comma dell’art. 124 l. fall.; f) previsione di un trattamento paritario dei creditori chirografari, ovvero di trattamenti differenziati solo se collegati alla suddivisione dei creditori in classi (art. 124, secondo comma, lettere a e b, l. fall.)54; g) in tale ultima ipotesi, sussistenza nella proposta di indicazioni sulle ragioni dei trattamenti differenziati55; h) sussistenza dei requisiti di contenuto-forma del ricorso (ex art. 125 c.p.c.), con cui è presentata la proposta. 52 Se la proposta è stata presentata prima del decreto di esecutività dello stato passivo da un terzo o da uno o più creditori, l’esistenza dell’elenco provvisorio dei creditori approvato dal giudice delegato è condizione di procedibilità della proposta medesima, la quale, ove quell’elenco manchi, rimane quiescente in attesa che sopravvenga lo stato passivo esecutivo. 53 Il contenuto di essi può rilevare sul piano della “legittimità sostanziale”, non sindacabile dal giudice delegato, ma solo dal tribunale su opposizione dell’interessato in sede di omologazione. 54 Il corretto utilizzo dei criteri di formazione delle classi attiene alla “legittimità sostanziale”: esso è sindacabile d’ufficio dal tribunale solo in sede di esame preventivo della proposta in forza del disposto dell’art. 125, terzo comma, l. fall., non anche in sede di omologazione, ove è, invece, deducibile come motivo di opposizione (quindi, rilevabile solo su iniziativa dell’interessato). 55 La presenza di tali indicazioni nella proposta attiene alla ritualità di essa, la plausibilità delle ragioni indicate attiene invece alla “legittimità sostanziale”. 45 7. Il giudice delegato deve, altresì, verificare che siano state poste in essere nel procedimento le altre condizioni prescritte dalla legge, perché la proposta possa essere sottoposta alla votazione dei creditori, vale a dire: a’) l’espressione del «parere» del curatore (art. 125, primo comma, l. fall.); b’) l’espressione del «parere favorevole» del comitato dei creditori (art. 125, secondo comma, l. fall.); c’) nell’ipotesi di soddisfazione non integrale dei creditori privilegiati, il deposito della «relazione giurata»56 del professionista designato dal tribunale (art. 124, terzo comma, l. fall.); d’) nell’ipotesi di trattamenti differenziati per classi di creditori, la favorevole pronuncia del tribunale di verifica del corretto utilizzo dei criteri di cui all’art. 124, secondo comma, l. fall. (art. 125, terzo comma, l. fall.). Tali condizioni integrano anch’esse, com’è evidente, requisiti di “legittimità formale”, ma attengono al profilo procedimentale della proposta e possono, perciò, definirsi condizioni di «procedibilità» di essa. 8. Sembra che la verifica di mera «ritualità» della proposta demandata al giudice delegato non diverge da quella che, limitatamente alla proposta medesima, deve fare, poi, anche il tribunale, ex officio, in sede di omologazione (art. 129, quarto comma, l. fall.)57. 9. Il provvedimento del giudice delegato, nel silenzio della legge, deve avere la forma del «decreto motivato», essendo questa la forma con cui sono pronunciati i suoi provvedimenti, ove non diversamente disposto (art. 25, terzo comma, l. fall.). 10. Contro il parere del comitato dei creditori, favorevole o sfavorevole che sia, non è dato alcun rimedio: il reclamo ex art. 36 l. fall., infatti, per quanto concerne gli atti del comitato dei creditori, è esperibile solo «contro le autorizzazioni o i dinieghi». Del resto, il parere è atto che fa parte di un procedimento e non integra un’autonoma fattispecie. 11. Avverso il decreto del giudice delegato, che ordina la comunicazione della proposta, non sembra proponibile il reclamo ex art. 26 l. fall., poiché tale impugnativa si risolverebbe in un’anticipazione del giudizio di omologazione, che romperebbe la cadenza dell’iter procedimentale. Inoltre, è da considerare che il tribunale proprio in sede di omologazione deve verificare d’ufficio la regolarità della procedura, ossia deve compiere un controllo il cui ambito ingloba quello della valutazione già fatta dal giudice delegato, sicché non può ipotizzarsi un’impugnativa contro il provvedimento del medesimo giudice delegato emesso sulla base di quella valutazione, poiché il mancato esperimento di essa, rendendo incontestabile il provvedimento, precluderebbe al tribunale di compiere quel controllo cui, invece, per legge deve procedere d’ufficio (nella sede, appunto, del giudizio di omologazione)58. 56 Eventuali manchevolezze o vizi della relazione, riverberandosi sui diritti dei singoli creditori, rilevano sul piano della “legittimità sostanziale” della proposta e possono essere fatti valere dagli interessati come motivi di doglianza in sede di omologazione con lo strumento dell’opposizione. 57 Nel mio precedente scritto, “La sistemazione dell’insolvenza”, cit., 308, ipotizzavo che la valutazione del giudice delegato dovesse rimanere nei limiti di una mera “delibazione”, spettando al tribunale, in sede di omologazione, un giudizio più approfondito; ma ora il tenore delle disposizioni risultanti dal “correttivo” induce a ravvisare completa coincidenza, quanto ai requisiti della proposta, delle valutazioni che debbono farsi d’ufficio dai due organi giudiziari. 58 Nel vigore della disciplina di cui al d. lgs. n. 5 del 2006, T. La Spezia (decr.), 5-7-2007 (Fa, 2008, 208), ha (obiter) detto, invece, esperibile il reclamo ex art. 26 l. fall., avverso il decreto del giudice delegato, che ordina la comunicazione della proposta sulla base di un parere favorevole del curatore, ritenuto illegittimo perché «affetto da vizi logici o da carenza o contraddittorietà di motivazione». La pronuncia non si è, però, fatta carico delle obiezioni sopra esposte. Peraltro, la tesi contraria, qui sostenuta, non esclude che il giudice delegato, ove ritenga carente il parere del curatore, non possa (anzi, debba) sollecitare il medesimo curatore a rivederlo o integrarlo e, in caso di inerzia o di rifiuto o di persistente inadempimento, proporre la revoca del curatore ex art. 37, primo comma, l. fall. Lo stesso può dirsi oggi riguardo al parere favorevole del comitato dei creditori, i cui membri possono essere sostituiti dal giudice delegato per «giustificato motivo» (art. 40, primo comma, l. fall.). Il giudice delegato, quindi, non è affatto tenuto a mandare avanti la proposta di concordato, ove rilevi un vizio di legittimità del parere favorevole del curatore (oggi, del 46 12. Avverso il decreto di reiezione della domanda, invece, sembra esperibile il reclamo ex art. 26 l. fall. da parte di colui che ha presentato la proposta59, ma solo per dedurre l’esistenza delle condizioni di legge per l’adozione del provvedimento favorevole (cioè dell’ordine di comunicazione della proposta ai creditori), condizioni che il giudice delegato ha ritenuto insussistenti (ossia i requisiti di «ritualità» della proposta e le condizioni di «procedibilità» di essa: esistenza dei prescritti pareri del curatore e del comitato dei creditori, quest’ultimo di contenuto favorevole; eventualmente, inoltre, deposito della relazione del professionista incaricato e pronuncia del tribunale sul corretto utilizzo dei criteri ex art. 124, terzo comma, l. fall.). Non sembra, invece, che si possa con il reclamo sindacare il parere sfavorevole del comitato dei creditori e, quindi, dedurre censure di merito attinenti alle valutazioni di convenienza fatte dal comitato, giacché la legge – nel sub-procedimento di esame preventivo della proposta – ha voluto riservare tali valutazioni all’organo rappresentativo del ceto creditorio. Ad esso, perciò, non possono sostituirsi né il giudice delegato né il tribunale, come avverrebbe se il parere fosse sindacabile dall’uno o dall’altro. Sembra, però, che siano deducibili anche possibili vizi di legittimità del parere contrario del comitato dei creditori (come, per es., nel caso in cui il parere non sia stato deliberato in conformità all’art. 41 l. fall., o sia del tutto immotivato, in violazione della regola per cui il comitato deve esprimere i suoi pareri «succintamente motivando le sue deliberazioni»: art. 41, primo comma, cit.)60. comitato dei creditori), proprio perché egli «esercita funzioni di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura» (art. 25, primo comma, l. fall.) e ha, in particolare, il potere di convocare il curatore (e il comitato dei creditori) «ogni qualvolta lo ravvisi opportuno per il corretto e sollecito svolgimento della procedura» (art. 25, primo comma, n. 3, l. fall.). 59 Non sembra sostenibile che la legittimazione a impugnare il provvedimento negativo spetti anche ad altri soggetti, oltre al proponente, a termini dell’art. 26, secondo comma, l. fall. («Il reclamo è proposto dal curatore, dal fallito, dal comitato dei creditori e da chiunque vi abbia interesse»): tale disposizione va coordinata col principio della domanda, per cui, se è riservata ad un soggetto la legittimazione a chiedere (in primo grado) un provvedimento di un certo contenuto, avverso il provvedimento di diniego non può essere legittimato a reclamare altro soggetto, poiché ciò significherebbe riconoscergli in secondo grado la legittimazione a instare per il provvedimento positivo negatagli in primo grado. La legittimazione a impugnare il provvedimento negativo non può che spettare, secondo la disciplina generale delle impugnazioni, al soggetto che si è visto respingere la sua domanda. Al reclamo contro il provvedimento di accoglimento della domanda ben può, invece, essere legittimato, oltre al soggetto «nei cui confronti è stato chiesto il provvedimento» (art. 26, terzo comma, l. fall.), ogni altro interessato. Con riguardo all’ordine di comunicazione della proposta di concordato (art. 125, secondo comma, l. fall.), non sembra dubbio che legittimato a chiedere tale provvedimento sia il solo proponente: la proposta, infatti, «è presentata con ricorso al giudice delegato» e viene, dunque, necessariamente, ad integrare il contenuto di una domanda giudiziale, la quale, allora, non può provenire che dallo stesso autore della proposta. G. MINUTOLI, “Vincolatività del parere negativo nel concordato fallimentare e controllo giurisdizionale”, Fa, 2008, 214 (nota a T. La Spezia, 5-7-2007, cit.), sostiene, invece, che il decreto del giudice delegato «di arresto della procedura» (rectius: del procedimento) di concordato è «reclamabile ai sensi dell’art. 26 l. fall.», sicché «si attuerebbe, ad opera dei soggetti legittimati (compreso “chiunque vi abbia interesse”) una forma di controllo». Del problema della legittimazione al reclamo non si è fatto carico T. La Spezia (decr.), 5-7-2007 (Fa, 2008, 208), cit., il quale ha accolto un reclamo proposto dalla società fallita avverso il decreto del giudice delegato che aveva disposto non darsi corso alla comunicazione ai creditori di una proposta di concordato presentata da un terzo. 60 In senso conforme, nel vigore della disciplina di cui al d. lgs. n. 5 del 2006, T. La Spezia (decr.), 5-7-2007 (Fa, 2008, 208), cit., ha ritenuto che: a) è proponibile il reclamo ex art. 26 l. fall. avverso il decreto del giudice delegato, che ha disposto non darsi corso alla comunicazione ai creditori di una proposta di concordato sulla base del parere sfavorevole del curatore (all’epoca vincolante); b) è deducibile quale motivo di impugnazione l’illegittimità del parere, sul rilievo che, essendo compito del giudice delegato controllare la regolarità della procedura fallimentare (art. 25 l. fall.), egli è tenuto – senza entrare nel merito della proposta – a verificare la legittimità del parere del curatore. La sindacabilità, sul piano della mera legittimità, del parere negativo, che blocca il procedimento, non può negarsi, atteso che esso ha per «effetto la sottrazione del potere di scelta» ai creditori, cui, nel nuovo regime, spetta «la valutazione definitiva di convenienza della proposta». 47 Simili vizi avrebbero dovuto essere già rilevati dal giudice delegato, il quale avrebbe dovuto richiedere al comitato una nuova deliberazione e, in caso di inottemperanza, avrebbe dovuto procedere alla sostituzione dei membri ex art. 40, primo comma, l. fall. Ove il giudice delegato non abbia provveduto in tal senso, il vizio di legittimità del parere del comitato si riverbera sul provvedimento del giudice delegato di reiezione della domanda; il tribunale, allora, rilevato il vizio, in accoglimento del reclamo, non può che annullare il provvedimento del giudice delegato e rimettergli gli atti perché provochi una nuova deliberazione del comitato e provveda poi di conseguenza. 13. Ci si può chiedere che cosa succeda «in caso di inerzia o di impossibilità di costituzione per insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori, o di funzionamento del comitato» (art. 41, quarto comma, l. fall., come modificato dal “correttivo”). Sembra che, in simili casi, il giudice delegato non possa sostituirsi al comitato (in applicazione della disposizione dello stesso art. 41, quarto comma, l. fall., per cui in quei casi «provvede il giudice delegato»), perché ogni valutazione di merito sul contenuto della proposta (ossia sulla convenienza di essa) è riservata al comitato e al giudice delegato spetta solo una valutazione di «ritualità» ossia di legittimità formale (per l’espressa disposizione dell’art. 125, secondo comma, l. fall., la quale può anche considerarsi come norma speciale derogatoria rispetto alla regola di cui all’art. 41, quarto comma, l. fall.). Ove possibile, perciò, il giudice delegato deve provvedere a sostituire i membri del comitato, per far sì che detto organo si pronunci. Ove non sia possibile la sostituzione, non è pensabile che la proposta di concordato non possa andare avanti: pur in assenza del parere favorevole del comitato, il giudice delegato, verificata l’esistenza delle altre condizioni di legge, deve, a mio avviso, ordinare la comunicazione della proposta ai creditori, poiché spetta a costoro, in ultima analisi, la valutazione di “merito” della proposta concordataria. 14. Eventuali vizi di legittimità del parere favorevole del comitato, non potendo il decreto del giudice delegato (che ordina la comunicazione della proposta) essere impugnato col reclamo, potranno essere rilevati d’ufficio dal tribunale (oltre ché dedotti come motivi di opposizione) in sede di omologazione. 15. Nell’ipotesi in cui «la proposta contenga condizioni differenziate per singole classi di creditori», il sub-procedimento di esame preventivo della proposta si arricchisce di un ulteriore momento valutativo, affidato al tribunale. Afferma, però, il tribunale che è illegittimo il parere che sia «affetto da vizi logici o da carenza o contraddittorietà di motivazione», e che simili vizi possono essere rivelati da «un eventuale errore o travisamento di fatti da parte del curatore». Sul punto MINUTOLI, “Vincolatività del parere negativo”, cit., 216, esprime «perplessità», osservando (giustamente) che «è da verificare se l’affermata facoltà del giudice delegato di operare un controllo sull’errore o travisamento di fatti da parte del curatore nel suo parere negativo non importi, piuttosto, una valutazione (inammissibile) sulla convenienza della proposta». Nel caso di specie, il tribunale, constatata la carente e contraddittoria motivazione del parere del curatore e, quindi, ritenuta l’erroneità del decreto del giudice delegato basato sul mancato rilievo dell’illegittimità del parere medesimo, ha accolto il reclamo e, in riforma del provvedimento impugnato, ha disposto procedersi alla comunicazione della proposta di concordato ai creditori. Questa decisione non è condivisibile, poiché, così provvedendo, il tribunale ha finito per sostituirsi al curatore, il cui parere favorevole (nella specie mancante) era (nel vigore della disciplina di cui al d. lgs. n. 5 del 2006) una delle condizioni richieste dalla legge (art. 125, secondo comma, l. fall., nel testo all’epoca vigente), perché potesse essere dato l’ordine di comunicazione della proposta. In conclusione, sembra che il tribunale non abbia errato nel ritenere (in linea di principio) sindacabile il provvedimento negativo del giudice delegato, in quanto affetto da illegittimità “derivata” dal vizio del parere del curatore, ma abbia a sua volta emesso una decisione non corretta, avendo dato l’ordine di comunicazione della proposta in mancanza di un requisito di legge. 48 Infatti, a norma dell’art. 125, terzo comma, l. fall., la proposta, prima di essere comunicata ai creditori, deve essere sottoposta al tribunale, perché questo verifichi «il corretto utilizzo dei criteri di cui all’articolo 124, secondo comma, lettere a) e b)», l. fall., ossia che la suddivisione sia stata fatta «secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei» e che siano state indicate «le ragioni» dei «trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse». Il giudizio del tribunale sembra essere, comunque, un giudizio di mera legittimità, il quale, tuttavia, può spingersi fino alla verifica della ragionevolezza e della coerenza logica delle scelte fatte e delle ragioni indicate, giacché anche tali requisiti attengono alla legittimità e non al merito. Nel formulare il suo giudizio il tribunale, come espressamente prevede lo stesso art. 125, terzo comma, l. fall., deve tener conto dei pareri del curatore e del comitato dei creditori, i quali, infatti, debbono essere ad esso trasmessi, e deve tener conto, altresì, della relazione resa ai sensi dell’art. 124, terzo comma, l. fall., ossia della relazione relativa al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, in caso si preveda la soddisfazione non integrale dei creditori prelatizi. E ciò perché, in tal caso, «il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione». 15.1. La norma non dice esattamente come e quando il tribunale deve pronunciarsi. Tuttavia, poiché il suo giudizio deve essere dato prima che la proposta sia comunicata e dopo che il curatore e il comitato abbiano reso i loro pareri, sembra che, una volta acquisiti tali pareri, il giudice delegato debba d’ufficio rimettere gli atti al collegio, perché si pronunci, e solo dopo che il tribunale abbia espresso un giudizio favorevole, il giudice delegato possa a sua volta provvedere a ordinare la comunicazione della proposta. In altri termini, nel caso in discorso, il giudizio positivo del tribunale sulla suddivisione in classi e i trattamenti differenziati costituisce un’ulteriore condizione di legittimità, cui è subordinato il provvedimento del giudice delegato. Pertanto, ove il tribunale si pronunci negativamente, il giudice delegato, di conseguenza, deve respingere la domanda di concordato. 15.2. Ci si può chiedere se il provvedimento del tribunale, con cui esso dichiara che “è stato fatto” ovvero “non è stato fatto corretto utilizzo dei criteri di cui all’art. 124, secondo comma, lettere a) e b)”, l. fall. (questa sembra essere la formula del dispositivo in stretta aderenza alla lettera della norma), sia o meno impugnabile. 15.2.1. Nel caso di pronuncia positiva, ad essa dovrebbe seguire (concorrendo le condizioni di «ritualità» della proposta, nonché le altre condizioni di «procedibilità» della stessa) il decreto del giudice delegato che ordina la comunicazione della proposta ai creditori. In tal caso, escluso che possa impugnare il proponente (perché il provvedimento è a lui favorevole), non vi è alcun altro soggetto che possa avere interesse attuale all’impugnazione, perché i creditori non hanno ancora votato e l’interesse può nascere (in capo al dissenziente) solo dall’approvazione da parte della maggioranza. D’altro canto, vi è la possibilità di far valere le proprie doglianze nell’ulteriore corso del procedimento: in sede di votazione (con la manifestazione di dissenso) e, poi, in sede di omologazione (con l’opposizione). Infatti, se i voti contrari risultano minoritari, il creditore dissenziente (o non votante) ben può dedurre il non «corretto utilizzo dei criteri di cui all’art. 124, secondo comma, lettere a) e b)», l. fall., in sede di omologazione, quale motivo di opposizione. Da un lato, non può ritenersi precluso al tribunale di riesaminare l’esistenza di tale requisito, pur avendolo già valutato in sede di esame preventivo della proposta ex art. 125, terzo comma, l. fall., perché tale preventivo esame da parte del tribunale si è fatto senza che sul punto, prima della pronuncia, abbiano potuto interloquire i dissenzienti (tali rivelatisi solo dopo). Dall’altro, non può ritenersi che in sede di omologazione il tribunale possa riesaminare d’ufficio il «corretto utilizzo dei criteri» in questione, giacché tale requisito non attiene alla mera «regolarità della procedura», vale a dire, per quanto riguarda la proposta, alla «ritualità», ossia alla “legittimità formale”, di essa; ma investe la proposta nel suo 49 contenuto, dunque attiene alla “legittimità sostanziale” di essa, risolvendosi in una possibile incisione della posizione individuale del singolo creditore. Spetta, quindi, al singolo creditore dissenziente (o non votante), che si ritenga leso nel suo diritto di credito dalla suddivisione in classi e dalla previsione di condizioni differenziate, contenute nella proposta, decidere se tutelarsi o meno col rimedio dell’opposizione, facendo valere il non «corretto» (secondo la sua prospettazione) «utilizzo dei criteri di cui all’art. 124, secondo comma, lettere a) e b)», l. fall. 15.2.2. Nel caso di pronuncia negativa da parte del tribunale sul requisito in discorso, il giudice delegato non può ordinare la comunicazione della proposta ai creditori, ma (come si è detto) deve respingere la domanda. Ed allora non può negarsi al proponente (e solo a lui) il diritto ad una impugnativa. Sembra sia da escludere che si possa reclamare contro il decreto del giudice delegato, posto che ciò che ha determinato la reiezione della domanda è proprio il giudizio negativo dello stesso tribunale, davanti al quale il reclamo dovrebbe essere proposto. Sembra, invece, che si possa reclamare contro il provvedimento del tribunale, ricorrendo alla corte d’appello ex art. 26 l. fall.: ove il reclamo sia accolto, verrà meno anche il provvedimento di rigetto del giudice delegato e questi dovrà emettere un nuovo provvedimento, con il quale ordinerà la comunicazione della proposta ai creditori; ove il reclamo sia respinto, rimarrà fermo quel decreto del giudice delegato, che chiude il procedimento. 16. Concorrendo le condizioni di legge, il giudice delegato, a norma dell’art. 125, secondo comma, l. fall., deve provvedere a ordinare che la proposta venga comunicata ai creditori, unitamente al parere del curatore e del comitato dei creditori. Nel medesimo provvedimento il giudice delegato deve fissare «un termine non inferiore a venti giorni né superiore a trenta, entro il quale i creditori devono far pervenire nella cancelleria del tribunale eventuali dichiarazioni di dissenso». Non è precisato il dies a quo di decorrenza del termine, ma, secondo il principio generale per il quale un termine per l’esercizio di una facoltà o di un diritto non può iniziare se non dal giorno in cui l’interessato ne ha conoscenza, deve ritenersi che il termine in questione cominci a decorrere per ciascun creditore dal giorno in cui egli riceva la comunicazione61. La norma ha cura di prescrivere che nel provvedimento deve specificarsi «dove possono essere reperiti i dati per la sua valutazione» e deve darsi ai creditori l’informazione «che la mancata risposta sarà considerata come voto favorevole». Quest’ultima avvertenza è stata aggiunta dal decreto “correttivo”, onde richiamare l’attenzione dei creditori e sollecitarli a un loro consapevole atteggiamento. 17. La norma non prescrive più (come invece nel testo del 1942) che la comunicazione debba essere fatta «mediante lettera raccomandata», e questo perché, a norma dell’art. 93, terzo comma, n. 5, l. fall., il creditore ha facoltà di indicare nella domanda di ammissione al passivo, quale modalità per le successive notificazioni e comunicazioni, «la trasmissione per posta elettronica o per telefax», nel qual caso dovrà indicare nel ricorso con cui è presentata la domanda l’indirizzo di posta elettronica o il numero di telefax. In mancanza, le notificazioni e comunicazioni debbono essergli fatte nel domicilio eletto, sempre ché nel ricorso sia contenuta l’elezione di domicilio in un comune nel circondario ove ha sede il tribunale e, ove manchi pure tale elezione di domicilio, «tutte le comunicazioni successive a quella con la quale il curatore dà notizia della esecutività dello stato passivo, si effettuano presso la cancelleria» (art. 93, quinto comma, l. fall.). Pertanto, se il creditore ha chiesto che le notificazioni e comunicazioni gli si facciano «per posta elettronica o per telefax» e ha indicato i relativi recapiti, la comunicazione ex art. 125 l. fall. dovrà 61 Nel vecchio art. 125, primo comma, l. fall. si stabiliva, invece, che il temine decorreva «dalla data del provvedimento»; ciò non si dice più nella norma novellata, il che conferma che il termine ora decorre dal giorno della ricezione della comunicazione. 50 essergli fatta con tali mezzi; diversamente, dovrà essergli fatta al domicilio eletto, o in mancanza, in cancelleria, ma in tali ultimi casi non è prescritto con quale mezzo. Sembra, allora, che l’unico mezzo utilizzabile sia quello già previsto dal vecchio testo dell’art. 12 l. fall.5, ossia la lettera raccomandata e che anzi questa debba farsi con avviso di ricevimento, posto che oggi il termine decorre dalla ricezione della comunicazione, e della ricezione, perciò, appare necessaria la documentazione. 18. L’art. 125, terzo comma, l. fall., nel testo di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, stabiliva che «se le proposte sono più di una, devono essere portate in votazione contemporaneamente»62. Questa disposizione non compare più nel nuovo testo di cui al decreto “correttivo” e, quindi, deve ritenersi cancellata. Con essa il legislatore della riforma intendeva dare una certa soluzione al problema che si pone in caso di pluralità di proposte, in conseguenza della pluralità di soggetti legittimati a proporre un concordato. Ma la soluzione prescelta è subito risultata di non facile applicazione e ha suscitato dubbi e divergenze di opinione. Di qui l’abbandono di essa da parte del legislatore del “correttivo”. Nel silenzio della norma modificata, rimane all’interprete il compito di trovare una soluzione al problema che si pone qualora siano presentate contemporaneamente o successivamente più proposte di concordato da parte di soggetti diversi. 18.1. Sembra che si debba, innanzitutto, escludere che la soluzione possa essere ancora quella enunciata nella disposizione espunta dal nuovo testo, ossia che le proposte debbano essere portate in votazione contemporaneamente, perché se questa fosse la volontà della legge quella disposizione non sarebbe stata cancellata. La soluzione, allora, deve trovarsi nello stesso procedimento di formazione del concordato, per come esso è disciplinato. Questo procedimento è chiaramente strutturato come un procedimento che, nelle fasi di approvazione ed omologazione, può avere ad oggetto una sola proposta per volta. Ciò è reso particolarmente evidente dal meccanismo di votazione, che è rimasto quello della legge fallimentare del 1942, basato sul silenzio-assenso. In caso di pluralità di proposte, sulle quali si formi il “nondissenso” della maggioranza dei creditori, quale di esse dovrà essere preferita e, quindi, omologata? In effetti, le difficoltà applicative della soluzione del testo legislativo del 2006 sono nate proprio dalla inidoneità strutturale del procedimento a recepire e “gestire”, in dette fasi, contemporaneamente più proposte di concordato: tale procedimento è, nelle sue linee portanti, rimasto, grosso modo, quello configurato dalla legge del 1942, la quale ammetteva una sola proposta alla volta da parte di un unico soggetto legittimato, il fallito. Ciò posto, è chiaro come è solo nella fase di esame preventivo ex art. 125 l. fall. e prima che questa si concluda con il provvedimento del giudice delegato che può aversi e gestirsi una pluralità di proposte: detta fase, come serve a valutare, in caso sia presentata un’unica proposta, se questa proposta ha i requisiti per essere sottoposta all’approvazione del ceto creditorio, così serve anche, in caso di pluralità di proposte, a selezionare fra esse quella (una sola) che merita di essere votata dai creditori. L’avvenuta presentazione di una prima proposta non preclude, quindi, la successiva presentazione di una seconda proposta o di più altre proposte, purché della prima non sia ancora stata ordinata la comunicazione ai creditori. 62 Nel vigore della disciplina di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 era possibile che, in caso di presentazione di due o più proposte di concordato, il curatore desse il suo «parere favorevole» (art. 125, terzo comma, l. fall., nel testo ante “correttivo”) a più di una proposta e che ci si ritrovasse, quindi, con una pluralità di proposte da sottoporre alla votazione dei creditori. Per quanto si dirà più avanti, ciò non dovrebbe essere più possibile nel vigore della disciplina di cui al d. lgs. n. 169 del 2007, dovendo essere una sola la proposta, che, per aver ricevuto il «parere favorevole» del comitato dei creditori, dovrà essere messa in votazione. 51 Ordinata che sia la comunicazione di una proposta ai creditori, ogni altra proposta non può essere mandata avanti, perché la legge non prevede alcun meccanismo che consenta ai creditori di scegliere fra la prima e l’altra o le altre, e, comunque, ove mai si arrivasse all’approvazione di tutte, non sarebbe possibile stabilire quale delle proposte approvate debba essere omologata dal tribunale. E’ solo nel sub-procedimento di esame preventivo che è individuabile uno strumento di selezione fra la pluralità di proposte eventualmente presentate e questo strumento è il parere favorevole del comitato dei creditori. In effetti, avendo il legislatore subordinato al parere favorevole del comitato dei creditori la sottoponibilità della proposta all’approvazione dei creditori, ha con ciò anche demandato allo stesso comitato la scelta di quale delle due (o più) proposte di concordato deve essere votata dai creditori. L’abbandono della soluzione della contemporanea votazione su tutte le proposte si rivela, dunque, del tutto coerente con l’attribuzione al comitato del potere di esprimere una valutazione vincolante sul merito della proposta. 18.2. Dal sub-procedimento di esame preventivo ex art. 125 l. fall., dunque, deve uscir fuori un’unica proposta, che avendo ricevuto il parere favorevole del comitato, può essere portata in votazione; sicché è da escludere che il comitato possa dare il via libera a due o più proposte contemporaneamente ed esimersi dallo scegliere quella che reputa più conveniente per i creditori. Vediamo, allora, che cosa può accadere. 18.2.1. Può accadere che due (o più) proposte siano presentate (lo stesso giorno o in giorni diversi, ma comunque) prima che il curatore abbia dato il suo parere su alcuna di esse. In tal caso, il curatore si esprimerà sul merito e la legittimità e dell’una e dell’altra (e dell’eventuale altra ancora), indicando quale di esse gli appare più conveniente e per quali motivi; toccherà, poi, al comitato dei creditori valutare le proposte comparativamente ed esprimere il suo parere favorevole o per l’una o per l’altra (o, eventualmente, per l’altra ancora), ma non per tutte insieme. E il comitato farà ciò a prescindere dalla priorità temporale dell’una o dell’altra. Una volta espressosi il comitato favorevolmente per una delle due (o più) proposte, di questa soltanto il giudice delegato (verificatane la «ritualità») dovrà ordinare la comunicazione, mentre per l’altra (o le altre) dovrà respingere la relativa domanda, sicché il procedimento andrà avanti (passando alla fase della votazione) soltanto riguardo alla proposta prescelta. 18.2.2. Può accadere che il curatore abbia già dato il suo parere su di una proposta e il comitato non si sia ancora pronunciato, quando sopravviene una seconda proposta. In tal caso, il giudice delegato, nel chiedere al curatore il parere sulla seconda, dovrà chiedergli anche di rivedere e integrare il parere sulla prima, mettendo a confronto le due proposte. Una volta acquisito il parere del curatore su entrambe le proposte, il comitato si esprimerà sulle stesse e darà il suo parere favorevole a una delle due, che sarà messa in votazione. 18.2.3. Può accadere che non solo il curatore, ma anche il comitato abbiano già dato il loro parere su di una proposta, in particolare che il comitato si sia pronunciato favorevolmente su di essa, quando sopravviene una seconda proposta, prima che il giudice delegato abbia ordinato la comunicazione della prima. In tal caso, non si può ignorare la seconda proposta: non è desumibile dalla norma alcuno sbarramento procedimentale, perché la fase di esame preventivo non si è ancora conclusa. Il giudice delegato, quindi, deve chiedere al curatore e al comitato di dare il loro parere sulla seconda proposta e di valutare di nuovo comparativamente la prima, sicché il comitato potrà modificare il parere favorevole già dato sulla prima proposta e accordare la sua preferenza alla seconda, della quale allora il giudice delegato ordinerà al comunicazione ai creditori. 52 Non possono ravvisarsi ostacoli alla modifica di un parere, quando ancora non sia stato emesso il provvedimento di cui costituisce un presupposto, ossia prima che sia conclusa la fase procedimentale nell’ambito della quale è prescritto dalla legge. 18.2.4. Può accadere che sia già stata ordinata la comunicazione della proposta, quando sopravviene un’altra proposta: se il curatore ha già iniziato a dare esecuzione al provvedimento del giudice delegato, si è ormai aperta la fase procedimentale successiva, ossia il sub-procedimento di approvazione della proposta di concordato e, allora, la proposta sopravvenuta deve ritenersi inammissibile e dovrà essere dichiarata tale dal giudice delegato, salva la possibilità che sia ripresentata in caso di insuccesso della prima. Se, invece, il curatore non ha ancora spedito alcuna comunicazione, allora la fase procedimentale di esame preventivo della proposta non si è ancora esaurita. I decreti del giudice delegato di contenuto non decisorio, ma ordinatorio (ossia, in generale, quelli che servono a mandare avanti la procedura fallimentare) devono ritenersi modificabili e revocabili dallo stesso giudice delegato (art. 742 c.p.c), almeno fino a che non si frapponga un ostacolo procedurale che impedisca allo stesso giudice delegato di tornare sui suoi passi. Pertanto, quanto meno fino a che non sia dato inizio all’esecuzione del provvedimento in questione, dandosi avvio alla fase procedimentale successiva, è possibile la revoca del decreto che ordina la comunicazione della proposta. La revoca, anzi, sembra doverosa (e deve, dunque, essere disposta d’ufficio dal giudice delegato) per il solo fatto della sopravvenienza di una nuova proposta di concordato, sorgendo la necessità di consentire che l’organo gestorio e l’organo rappresentativo del ceto creditorio facciano una valutazione di merito comparativa delle due proposte (valutazione di merito preclusa al giudice delegato), onde verificare quale possa essere più conveniente. E’ proprio l’interesse dei creditori, per i quali si fa il concordato, ad esigere ciò. L’unica condizione che sembra ineludibile è che la nuova proposta sia «rituale», sia cioè conforme a legge, spettando al giudice delegato proprio e solo la verifica di «ritualità»: non avrebbe senso sollecitare una nuova valutazione di merito del curatore e del comitato, se poi la proposta dovesse essere ritenuta irrituale dal giudice delegato. Pertanto, revocato il provvedimento, si dovrà procedere all’acquisizione di un nuovo parere del curatore e del comitato e, quindi, il giudice delegato dovrà nuovamente ordinare la comunicazione di quella fra le due proposte che avrà ricevuto il parere favorevole del comitato. 18.2.5. Può accadere che in presenza di due o più proposte, acquisito il parere favorevole del comitato su una di esse, il giudice delegato ritenga tale proposta «irrituale», cioè non conforme a legge. In tal caso egli dovrà respingere la domanda che la contiene e richiedere al comitato dei creditori di riesaminare l’altra o le altre proposte, onde valutare se l’altra o una delle altre può ricevere il suo parere favorevole: se il comitato si esprimerà favorevolmente, il giudice delegato ordinerà la comunicazione della proposta munita del giudizio positivo del comitato e respingerà le altre domande; diversamente se nessuna delle proposte riscuoterà l’apprezzamento del comitato, il giudice delegato dovrà respingere tutte le domande. 18.2.6. Può accadere che il comitato, richiesto di pronunciarsi su una o su più proposte tardi a esprimersi, in attesa magari di un’ulteriore proposta più conveniente. In tal caso, sembra che, ove il giudice delegato non provveda allo sostituzione dei membri del comitato (la sostituzione potrebbe anche risultare impossibile per mancanza di altri creditori o di altri creditori disponibili), si possa proporre reclamo al giudice delegato ex art. 36 l. fall. avverso il comportamento omissivo del comitato. Detto reclamo è proponibile dal fallito o da «ogni altro interessato» (art. 36, primo comma, cit.), quindi anche dal proponente. Non sembra, però, che in accoglimento del reclamo, il giudice delegato possa provvedere in sostituzione del comitato (come prevede l’art. 36, terzo comma, cit.), perché la legge riserva la valutazione di merito della proposta 53 esclusivamente al comitato; si può pensare, perciò, solo all’assegnazione di un termine al comitato perché si pronunci, termine decorso il quale si cristallizzerà la situazione di mancanza del parere del comitato. Come si è detto, in tale situazione, di «inerzia», come in ogni altro caso in cui non si acquisisca il parere del comitato (né favorevole né contrario), per «impossibilità di costituzione per insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori », o per impossibilità «di funzionamento del comitato» (art. 41, quarto comma, l. fall., come modificato dal “correttivo”), non è ragionevole che ne risulti paralizzata ogni proposta di concordato. Se vi è un’unica proposta, essa potrà senz’altro essere portata alla votazione dei creditori. Se le proposte sono due o più, non potendo il giudice delegato, né il curatore, sostituirsi al comitato, la decisione non può spettare che ai creditori, essendo essi i diretti interessati. Ma non potendosi mettere in votazione tutte le proposte contemporaneamente, sarà giocoforza procedere secondo il criterio della priorità temporale: il giudice delegato ordinerà la comunicazione della proposta presentata per prima, unitamente al parere del curatore, il quale dovrà in particolare mettere in evidenza l’avvenuta presentazione di altre proposte e fornire ai creditori elementi di valutazione circa la maggiore o minore convenienza dell’una e dell’altra (o delle altre). Se la proposta messa ai voti sarà approvata, solo essa potrà passare per il giudizio di omologazione, e le domande relative alle altre proposte dovranno essere respinte dal giudice delegato; se, invece, la prima proposta non sarà approvata, il giudice delegato ordinerà la comunicazione della seconda (in ordine temporale) e si seguirà il medesimo iter. 20. Segue: b) l’approvazione della proposta di concordato. 1. La seconda fase del procedimento di formazione del concordato, ossia il secondo subprocedimento in cui esso si articola, è deputata alla raccolta del consenso dei creditori. Perché il concordato possa realizzarsi la legge esige che la proposta sia approvata da una maggioranza qualificata di creditori. L’approvazione da parte della prescritta maggioranza costituisce, pertanto, anch’essa uno degli elementi indefettibili della fattispecie, completandosi la quale il tribunale deve pronunciare il provvedimento finale, da cui sortisce il concordato. 2. La fase ora in esame prende avvio dalle comunicazioni che il curatore, ai sensi dell’art. 125, secondo comma, l. fall., deve fare ai creditori, su ordine del giudice delegato, per informarli della proposta e dei pareri del curatore medesimo e del comitato dei creditori, «specificando dove possono essere reperiti i dati per la sua valutazione», e per invitarli a far pervenire nella cancelleria del tribunale, nel termine fissato dal giudice delegato, le loro eventuali «dichiarazioni di dissenso», avvertendoli che «la mancata risposta sarà considerata come voto favorevole». 3. Ci si può chiedere a quali creditori vadano fatte le comunicazioni. Poiché la norma esige che nelle comunicazioni si dia l’informazione circa il significato legale della «mancata risposta», si potrebbe pensare che vadano fatte solo ai creditori chirografari ammessi al voto. Ma poiché non spetta al curatore stabilire chi abbia o non diritto di voto, poiché i creditori privilegiati possono rinunciare alle loro prelazioni e così essere ammessi al voto (art. 127, commi secondo e terzo, l. fall.), e poiché tutti i creditori, ancorché non aventi diritto di voto, hanno interesse ad essere informati sulla proposta di concordato anche in funzione di un’eventuale opposizione (cui sono legittimati non solo i creditori dissenzienti, ma anche altri «interessati», e tra questi i creditori non aventi diritto di voto o esclusi dal voto), sembra che le comunicazioni vadano fatte a tutti i creditori risultanti dallo stato passivo esecutivo (chirografari o privilegiati, che essi siano), ovvero dall’elenco provvisorio approvato, se la proposta è stata presentata prima del decreto di esecutività dello stato passivo. 54 Spetterà, poi, al giudice delegato, in sede di verifica del risultato della votazione ex art. 128 l. fall., decidere sull’ammissione al voto. Le relative questioni, in caso di constatazione del raggiungimento della prescritta maggioranza, saranno poi riesaminate dal tribunale, in sede di omologazione, anche di ufficio, dovendo il tribunale verificare d’ufficio «l’esito della votazione» (art. 129, quarto comma, l. fall.); in caso di constatazione del mancato raggiungimento della prescritta maggioranza, invece, potranno essere sollevate con il reclamo ex art. 26 l. fall. avverso il decreto del giudice delegato, che dichiara respinta la proposta (v. oltre). 4. L’art. 128, secondo comma, l. fall. (testo del 2007), ribadisce che «i creditori che non fanno pervenire il loro dissenso nel termine fissato dal giudice delegato si ritengono consenzienti». La riforma ha, dunque, mantenuto per l’espressione del voto il sistema del silenzio-assenso, già adottato dalla legge del 1942. E’ stata, però, modificata la maggioranza necessaria per l’approvazione della proposta. Infatti, mentre nella legge del 1942 si richiedeva una doppia maggioranza (di numero e somma: «la maggioranza numerica dei creditori aventi diritto al voto, la quale rappresenti almeno i due terzi della somma dei loro crediti», così l’art. 128, primo comma, l. fall., vecchio testo), nella legge “riformata” si richiede soltanto «la maggioranza dei crediti ammessi al voto» (art. 128, primo comma, l. fall., testo vigente); basta, dunque, la maggioranza di somma, ossia il 50% più 1 dell’ammontare dei crediti ammessi al voto (e non dei crediti dei creditori votanti). 5. Qualora vi siano più classi di creditori, a seguito del “correttivo”, occorre la maggioranza complessiva di tutti i crediti ammessi al voto ed inoltre la maggioranza numerica delle classi, all’interno delle quali sia raggiunta la maggioranza di somma dei crediti (ammessi al voto) appartenenti a ciascuna di esse (art. 128, primo comma, secondo periodo, “corretto”: «il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi»). Nel testo del 2006, invece, si richiedeva il voto favorevole di tutte le classi, all’interno di ciascuna delle quali deve essere raggiunta la maggioranza di somma dei crediti (ammessi al voto) appartenenti alla singola classe (art. 128, secondo comma, ante “correttivo”: «il concordato è approvato se riporta il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto nelle classi medesime»). 6. Hanno diritto di voto i soli creditori chirografari, risultanti dallo stato passivo, reso esecutivo ai sensi dell’art. 96, quinto comma, l. fall.63 (art. 127, primo comma, l. fall.). Il diritto di voto spetta anche ai creditori ammessi provvisoriamente o con riserva (art. 127, primo comma, secondo periodo, l. fall.). I creditori ammessi provvisoriamente dovrebbero essere i creditori che, essendo stati esclusi dal giudice delegato, hanno proposto opposizione allo stato passivo (art. 98, secondo comma, l. fall.) e hanno ottenuto dal tribunale, prima della pronuncia definitiva (art. 99, undicesimo comma, l. fall.), un provvedimento di “ammissione provvisoria”. I creditori ammessi con riserva sono quelli così ammessi dal giudice delegato, in quanto titolari di crediti condizionati (art. 55, terzo comma, l. fall.), o di crediti per i quali non è stato ancora prodotto il titolo giustificativo, o di crediti accertati con sentenza non ancora passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento (art. 96, secondo comma, l. fall.). 7. Qualora la proposta di concordato sia stata presentata prima del decreto di esecutività dello stato passivo (art. 124, primo comma, l. fall.), hanno diritto di voto i creditori che risultano dall’elenco 63 Nel nuovo art. 127, primo comma, l. fall., per un evidente refuso è richiamato erroneamente l’art. 97 l. fall., mentre il decreto di esecutività dello stato passivo è ora previsto dall’art. 96, quinto comma, l. fall. L’errore non è stato corretto dal “correttivo”. 55 provvisorio predisposto dal curatore e approvato dal giudice delegato (art. 127, primo comma, l. fall.). 8. Non hanno diritto di voto i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, a meno che essi rinuncino, in tutto o in parte, alla prelazione (art. 127, secondo comma, l. fall.), nel qual caso «per la parte del credito non coperta dalla garanzia sono assimilati ai creditori chirografari» (art. 127, terzo comma, l. fall.) e, quindi, votano. La rinuncia può essere anche parziale, purché non inferiore alla terza parte dell’intero credito fra capitale ed accessori (art. 127, secondo comma, l. fall.). Essa ha effetto ai soli fini del concordato (art. 127, terzo comma, l. fall.). I creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale, ai sensi dell’art. 124, terzo comma, l. fall., «sono considerati chirografari per la parte residua del credito» (art. 127, quarto comma, l. fall.) e, quindi, per questa parte hanno diritto al voto ed alla percentuale, alla pari dei chirografari. 9. Taluni creditori, pur essendo i loro crediti tali da attribuire il diritto di voto, tuttavia, «sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze», per ragioni di carattere soggettivo, ossia in considerazione dei loro rapporti con il fallito. Essi sono: a) il coniuge del debitore, i suoi parenti ed affini fino al quarto grado e coloro che sono diventati cessionari o aggiudicatari dei crediti di dette persone da meno di un anno prima della dichiarazione di fallimento (art. 127, quinto comma, l. fall.); b) le società controllanti o controllate o sottoposte a comune controllo (art. 127, sesto comma, l. fall.). Tali cause di esclusione dal voto sembrano tassative. Il legislatore della riforma non si è posto, però, il problema dei creditori che abbiano proposto il concordato: sembra irragionevole che essi possano votare sulla proposta da loro stessi presentata, dato l’ovvio conflitto di interessi. Sono, infine, esclusi dal voto coloro che hanno acquistato crediti verso il fallito dopo la dichiarazione di fallimento, salvo che tali creditori cessionari siano banche o altri intermediari finanziari (art. 127, settimo comma, l. fall.). 10. Decorso il termine assegnato ai creditori aventi diritto al voto per far pervenire in cancelleria le eventuali dichiarazioni di dissenso, il curatore deve presentare al giudice delegato una relazione sull’esito della votazione. Se la prescritta maggioranza è stata raggiunta, e, quindi, la proposta è stata approvata, il giudice delegato, ai sensi dell’art. 129, primo comma, l. fall., deve disporre che il curatore dia immediata comunicazione dell’avvenuta approvazione al proponente, al fallito e ai creditori dissenzienti e deve dare ulteriori disposizioni che consentano il passaggio alla successiva fase dell’omologazione (come tra breve si dirà). Pare evidente che tali pronunce sono emesse dal giudice delegato d’ufficio. 11. La norma nulla dice per l’ipotesi che la prescritta maggioranza non sia raggiunta. Per tale ipotesi l’art. 129, primo comma, della legge fallimentare del 1942 prevedeva che il giudice delegato, con decreto, dichiarava «respinta la proposta di concordato». Pur nel silenzio della nuova norma sembra che spetti al giudice delegato, anche nel nuovo regime, emettere un provvedimento di simile tenore, con il quale si conclude il procedimento. Avverso detto provvedimento (sicuramente in forma di «decreto motivato» ex art. 25, terzo comma, l. fall.) sembra esperibile il reclamo al collegio ex art. 26 l. fall., non potendosi escludere la possibilità di un controllo circa l’esito della votazione. 56 Proposto il reclamo, ove esso sia accolto, il tribunale dovrà limitarsi a dichiarare raggiunta la maggioranza e, quindi, il giudice delegato sarà tenuto a provvedere ai sensi dell’art. 129, primo comma, l. fall., come “corretto”. Contro il decreto del tribunale, in tal caso, è da escludere che possa proporsi alcuna impugnazione: eventuali doglianze in ordine all’approvazione da parte dei creditori saranno fatte valere nel giudizio di omologazione col rimedio dell’opposizione e, poi, eventualmente con il reclamo ex art. 131 l. fall. Qualora, invece, il reclamo avverso il decreto del giudice delegato sia respinto, si pone il problema se il decreto del tribunale sia impugnabile e con quale mezzo. Poiché il provvedimento del tribunale viene a risolvere, in secondo grado, una questione (l’esito della votazione) sulla quale avrebbe dovuto pronunciarsi lo stesso tribunale nel giudizio di omologazione con decreto soggetto a reclamo davanti alla corte d’appello, e poiché il decreto della corte d’appello su tale reclamo (in caso sia di omologazione che di diniego dell’omologazione) sarebbe impugnabile con ricorso per cassazione, per espressa disposizione dell’art. 131, dodicesimo comma, l. fall. (testo “corretto”), sembra, allora, che anche contro quel provvedimento del tribunale su reclamo ex art. 26 l. fall. sia proponibile il ricorso per cassazione. 12. Una volta divenuto definitivo il provvedimento (del giudice delegato o, a seguito di reclamo, del tribunale), che dichiara respinta la proposta di concordato per mancato raggiungimento della maggioranza, il procedimento di formazione del concordato si chiude definitivamente, salva la possibilità di presentare una nuova proposta. 21. Segue: c) l’omologazione della proposta di concordato. 1. La terza fase, ossia il terzo sub-procedimento in cui si articola il procedimento di formazione del concordato, è quello che è ancora chiamato «giudizio di omologazione». Esso mette capo ad un provvedimento giudiziale, che, se positivo, completa la fattispecie «concordato» e determina la produzione degli effetti che la legge riconnette alla fattispecie medesima. La disciplina di tale fase procedimentale, già dettata ex novo dal d.lgs. n. 5 del 2006 (che ha, in particolare, novellato l’art. 129), è stata ulteriormente modificata dal d.lgs. n. 169 del 2007, che ha nuovamente sostituito l’art. 129 l. fall. 2. Nella vecchia legge fallimentare del 1942 il giudizio di omologazione prendeva avvio d’ufficio con un provvedimento dello stesso giudice delegato, il quale, se constatava il raggiungimento delle maggioranze prescritte per l’approvazione del concordato, pronunciava «ordinanza» – da pubblicarsi per affissione –, con la quale dichiarava «aperto il giudizio di omologazione» e fissava «l’udienza di comparizione davanti a sé non prima di quindici o non oltre trenta giorni». 3. Nella nuova legge il giudizio di omologazione inizia con una domanda del proponente, diretta appunto ad ottenere il provvedimento omologatorio. Infatti, il nuovo art. 129 l. fall. (nel testo risultante dal “correttivo”) stabilisce, al secondo comma, che «se la proposta è stata approvata, il giudice delegato dispone che il curatore ne dia immediata comunicazione al proponente, affinché richieda l’omologazione del concordato». Quindi, non si può più procedere di ufficio, ma occorre un atto di impulso del proponente, il quale risulta essere l’unico soggetto legittimato ad avviare il giudizio omologatorio64. Una domanda proveniente da altro soggetto (un creditore, il fallito, il curatore) sarebbe inammissibile e non varrebbe ad evitare il blocco del procedimento e la caducazione della proposta. 64 Nel testo del 2006 la richiesta di omologazione da parte del proponente era prevista per il solo caso di dissenso di una o più classi di creditori, quando tuttavia sussiste la maggioranza per somma e per classi. Nel testo “corretto” del 2007, invece, la richiesta è necessaria in ogni caso. 57 4. Il nuovo art. 129 l. fall., però, non prevede un apposito termine per la presentazione della domanda di omologazione né prevede espressamente che un temine sia stabilito dal giudice delegato; nulla dice, poi, per il caso che la domanda di omologazione non venga affatto presentata. Che un termine ci debba essere, però, è insito nella struttura stessa del procedimento: la proposta di concordato, approvata dai creditori, non può rimanere sospesa sine die. Ora, poiché l’art. 129, secondo comma, l. fall. prevede che il giudice delegato, «con decreto da pubblicarsi a norma dell’articolo 17, fissa un termine non inferiore a quindici giorni e non superiore a trenta giorni per la proposizione di eventuali opposizioni», e il quarto comma dello stesso art. 129 prevede che, «se nel termine fissato non vengono proposte opposizioni», il tribunale pronuncia l’omologazione, sembra che entro il medesimo termine, fissato dal giudice delegato per le eventuali opposizioni, debba essere presentata anche la richiesta di omologazione. 4.1. Detto termine, sia per la domanda di omologazione sia per le opposizioni, sembra debba decorrere, nei riguardi del proponente, del fallito e dei creditori dissenzienti, dalla comunicazione dell’avvenuta approvazione della proposta, che il curatore deve immediatamente dare ai predetti soggetti, su disposizione del giudice delegato, ai sensi del secondo comma dell’art. 129 cit.; mentre nei riguardi degli altri interessati il medesimo termine per le opposizioni sembra debba decorrere dalla pubblicazione del decreto di fissazione del termine, che deve farsi a norma dell’art. 17, secondo comma, l. fall., ossia dalla “annotazione” presso l’ufficio del registro delle imprese («ove l’imprenditore ha la sede legale e, se questa differisce dalla sede effettiva, anche presso quello corrispondente al luogo ove la procedura è stata aperta»). 4.2. In verità, il secondo comma dell’art. 129 l. fall., nella sua formulazione letterale, sembra prevedere due distinti provvedimenti del giudice delegato: uno con il quale egli dispone che il curatore «dia immediata comunicazione» al proponente, al fallito e ai creditori dissenzienti dell’avvenuta approvazione della proposta, e l’altro (il «decreto da pubblicarsi a norma dell’articolo 17»), con il quale lo stesso giudice fissa il termine per la proposizione di eventuali opposizioni. Ma, intesa in stretta aderenza alla sua lettera, la disposizione appare del tutto incongrua: sia perché non si vede la necessità di un doppio provvedimento, ben potendone bastare uno solo; sia perché la duplicità di provvedimenti provocherebbe che, da un lato, proponente, fallito e creditori dissenzienti verrebbero sollecitati a prendere le loro iniziative (domanda di omologazione, opposizioni) mediante un atto partecipativo diretto a ciascuno singolarmente (la comunicazione immediata del curatore) e, dall’altro, non essendo prevista analoga comunicazione ai medesimi soggetti del decreto di fissazione del termine per quelle stesse iniziative, tale termine anche per loro dovrebbe iniziare a decorrere dalla pubblicazione del decreto ex art. 17 l. fall., ossia da un adempimento pubblicitario rivolto a soggetti indeterminati. In realtà, sembra ragionevole interpretare la disposizione in esame nel senso che il giudice delegato, constatata l’approvazione della proposta, pronuncia un unico decreto, con il quale a) «fissa un termine non inferiore a quindici giorni e non superiore a trenta giorni per la proposizione di eventuali opposizioni», nonché per la presentazione della richiesta di omologazione da parte del proponente, e b) «dispone che il curatore ne dia immediata comunicazione» al proponente, al fallito e ai creditori dissenzienti. La pubblicazione del decreto a norma dell’art. 17 cit. deve esser fatta a cura della cancelleria, come appunto prevede la disposizione richiamata. 4.3. Non sembra dubbio che il termine per la (necessaria) richiesta di omologazione come per le (eventuali) opposizioni sia, per sua natura, perentorio. Qualora il proponente non presenti la richiesta nel termine, il procedimento non può più proseguire, con conseguente automatica caducazione della proposta. 58 Pertanto, il tribunale, qualora la richiesta sia tardivamente presentata, dovrà dichiararla inammissibile, e dovrà, altresì, dichiarare improcedibili le opposizioni eventualmente proposte, la trattazione delle quali presuppone necessariamente che il tribunale debba pronunciarsi in ordine alla proposta di concordato e ciò non si può fare se non c’è una tempestiva domanda di omologazione. Il provvedimento del tribunale sarà reso con decreto reclamabile ai sensi dell’art. 131 l. fall. 5. La domanda di omologazione è rivolta al giudice competente, che è il tribunale che ha dichiarato il fallimento, e deve essere proposta «con ricorso a norma dell’articolo 26» l. fall. Il ricorso, pertanto, deve contenere (ex art. 26, sesto comma, cit., nel testo sostituito dal “correttivo”): a) l’indicazione del tribunale competente (ossia il tribunale che ha dichiarato il fallimento), del giudice delegato e della procedura fallimentare; b) le generalità del ricorrente e l’elezione del domicilio nel comune in cui ha sede il tribunale; c) «l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto» su cui si basa la domanda di omologazione, «con le relative conclusioni»; d) «l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti». Sembra necessaria la difesa tecnica, secondo le disposizioni generali del codice di rito (artt. 82 ss. c.p.c.). Il ricorso, perciò, deve essere sottoscritto da un avvocato munito di procura (art. 125, primo comma, c.p.c.). Il ricorso deve essere depositato in cancelleria nel termine di cui innanzi, ma non deve essere notificato ad alcuno, in particolare non è previsto che sia notificato ai creditori dissenzienti. 6. Nella stessa forma possono essere proposte – nel termine (come si è detto) fissato dal giudice delegato – eventuali opposizioni all’omologazione. Il ricorso in opposizione, pertanto, deve anch’esso contenere (ex art. 26, sesto comma, cit.): a) l’indicazione del tribunale competente (ossia il tribunale che ha dichiarato il fallimento), del giudice delegato e della procedura fallimentare; b) le generalità dell’opponente e l’elezione del domicilio nel comune in cui ha sede il tribunale; c) «l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto» su cui si basa l’opposizione, «con le relative conclusioni»; d) «l’indicazione dei mezzi di prova» di cui l’opponente «intende avvalersi e dei documenti prodotti». Anche in tal caso sembra necessaria la difesa tecnica, secondo le disposizioni generali del codice di rito (artt. 82 ss. c.p.c.). Il ricorso, perciò, deve essere sottoscritto da un avvocato munito di procura (art. 125, primo comma, c.p.c.). Parimenti, il ricorso in opposizione deve essere depositato in cancelleria nel termine di cui innanzi, ma non deve essere notificato ad alcuno, in particolare non è previsto che sia notificato al proponente. Il contraddittorio, dunque, si instaura mediante il solo deposito degli atti in cancelleria, rimanendo a carico di ciascuna parte l’onere di prendere ivi cognizione dell’atto di controparte. L’opposizione proposta oltre il termine, da reputarsi perentorio, è inammissibile. 7. Legittimati a opporsi all’omologazione sono: il fallito (salvo – s’intende – che sia il proponente), i creditori dissenzienti e «qualsiasi altro interessato» (art. 129, secondo comma, l. fall.). Tra gli interessati ben possono essere compresi i creditori che non hanno ricevuto la comunicazione della proposta ex art. 125 l. fall., e che perciò non possono ritenersi né dissenzienti né consenzienti, e i creditori non aventi diritto al voto o esclusi dal voto ex art. 128 l. fall. E’ da escludere che possa proporre opposizione un creditore che abbia votato favorevolmente (sia pure nella forma del “silenzio-assenso”). Sembra, invece, ragionevole ritenere che sia legittimato ogni altro soggetto che possa risentire nella propria sfera giuridica di effetti pregiudizievoli (ancorché indiretti) del concordato e che sia, perciò, 59 «interessato» ad impedire l’omologazione della proposta (come, per es., terzi nei cui confronti siano state promosse o siano esperibili azioni revocatorie cedute all’assuntore, o creditori esclusi o non insinuatisi). 8. Con le opposizioni possono certamente essere fatti valere i vizi di mera «ritualità» o legittimità “formale” attinenti alla proposta o al procedimento, vizi che possono essere dedotti da qualunque legittimato. I medesimi vizi di mera «ritualità» o legittimità “formale” debbono, peraltro, già essere rilevati di ufficio dal tribunale: infatti, anche in assenza di opposizioni, il tribunale per omologare il concordato deve verificare «la regolarità della procedura e l’esito della votazione» (come prevede il quarto comma dell’art. 129 l. fall.). Ci si può chiedere, allora, se con le opposizioni si possa dedurre qualcosa di più, che non sia rilevabile d’ufficio. Sembra potersi dare risposta affermativa, tenendo conto di ciò, che la normativa in esame non pone limitazioni al contenuto delle opposizioni, nel mentre ha ristretto notevolmente l’ambito del controllo officioso demandato al tribunale. D’altro canto, va pure considerato che la riforma ha inteso eliminare, e ha in effetti eliminato, del tutto il sindacato di merito che il vecchio art. 130 l. fall. attribuiva al tribunale (con lo stabilire che esso «esamina il merito delle proposte e la serietà delle garanzie offerte»), per affidare al ceto creditorio la valutazione della convenienza del concordato. Tale intento è reso ancor più palese dalla modifica apportata dal “correttivo” col subordinare la sottoposizione della proposta al voto dei creditori al «parere favorevole» non più del curatore, bensì del loro organo rappresentativo. Deve, dunque, escludersi che possano con le opposizioni farsi valere vizi riguardanti la convenienza del concordato, poiché diversamente si finirebbe per ripristinare quel controllo di merito che il legislatore ha voluto abolire. Orbene, quel quid pluris deducibile con l’opposizione, se non può attingere il merito della proposta in sé, già favorevolmente valutato dal comitato e poi dalla maggioranza dei creditori, deve desumersi dal mezzo stesso concesso all’interessato: con l’opposizione si vuole evidentemente tutelare la posizione individuale dell’opponente rispetto alla soluzione concordataria che si profila all’orizzonte. In altri termini, l’opponente non può mai dolersi della mancanza di convenienza per il ceto creditorio in generale65, ma ben può lamentare (oltre ché il mancato rispetto dei requisiti di legittimità “formale” attinenti alla proposta o al procedimento, ivi compresa la regolarità della votazione, altresì) la lesione di un suo diritto, lesione che deriva dal concordato (o meglio, che deriverebbe dal concordato, se la proposta fosse omologata). A tal fine, però, la legittimazione all’opposizione non può spettare che a soggetti la cui posizione giuridica sia toccata direttamente dal concordato, e tali sono in primis i creditori dissenzienti e il fallito: il singolo creditore dissenziente può dedurre che con il concordato egli riceverà meno di quanto otterrebbe con la liquidazione concorsuale dei beni e che, perciò, è leso il suo diritto di credito; il fallito può dedurre che con il concordato egli sarà privato dei suoi beni più di quanto sia necessario per soddisfare tutti i creditori e che, perciò, è leso il suo “diritto al patrimonio”, il suo diritto a non subire un’esecuzione ridondante rispetto alla soddisfazione dei crediti (arg. ex artt. 2740-2910 c.c., arg. anche ex artt. 483-496 c.p.c.). Ma legittimato deve ritenersi anche ogni altro creditore non consenziente nei cui confronti il concordato è destinato a produrre effetti (art. 135 l. fall.), ossia un creditore non avente diritto di voto o escluso dal voto o pretermesso (per non aver ricevuto comunicazione della proposta ex art. 125 l. fall.) o il cui voto favorevole sia viziato (per es., perché egli è incapace legale o perché per lui ha votato un falsus procurator): anche tali creditori, non avendo disposto del proprio diritto di credito col voto favorevole o avendo invalidamente (o solo apparentemente) disposto del proprio 65 Per es., mancanza, insufficienza o inidoneità delle garanzie, posto che esse non sono più richieste dalla legge ai fini dell’ammissibilità della proposta di concordato e sono, quindi, pertinenti al “merito”, ossia alla convenienza della proposta medesima. Lo stesso può dirsi riguardo al tempo dei pagamenti (termini eccessivamente lunghi possono incidere solo sulla valutazione di convenienza). 60 diritto, possono lamentare di essere lesi nel medesimo diritto di credito di loro spettanza, per il fatto di ricevere col concordato meno di quanto otterrebbero con l’alternativa liquidatoria. In questa prospettiva, l’opposizione non apre la via a un sindacato di merito, ad una valutazione della convenienza della proposta in sé per il ceto creditorio, ma richiede al tribunale un controllo pur sempre di legittimità, che può definirsi di “legittimità sostanziale”: quello attinente alla lesione di un diritto individuale di un soggetto legittimato ad opporsi66. Ciò posto, ne discende che, verificata la dedotta lesione, il tribunale deve negare l’omologazione, perché il concordato (pur rispettoso dei requisiti “formali” di legge: attinenti alla «regolarità della procedura» ed alla «votazione») non è legittimo (nel suo contenuto “sostanziale”), se sacrifica oltre il dovuto la posizione del singolo che ad esso non abbia prestato il suo consenso (o il cui consenso sia viziato). Né, in alternativa, è ipotizzabile che si possa scindere la posizione del creditore opponente da quella degli altri, perché il concordato non può non imporsi a tutti i creditori coinvolti nel fallimento (art. 135 l. fall.) e non può ammettersi una deroga alla par condicio creditorum. 9. La soluzione testé prospettata trova riscontro nella stessa normativa, perché l’art. 129, quinto comma, l. fall. (come modificato dal “correttivo”) stabilisce che «nell’ipotesi di cui al secondo periodo del primo comma dell’articolo 128» – ossia nell’ipotesi che, essendo previste diverse classi di creditori, la proposta di concordato sia approvata dalla maggioranza delle classi –, «se un creditore appartenente ad una classe dissenziente contesta la convenienza della proposta, il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili»: in altri termini, in questa specifica ipotesi, la norma espressamente prevede che la proposta di concordato, pur approvata dalla maggioranza dei creditori, non può essere omologata, se il singolo credito dell’opponente con il concordato viene ad essere soddisfatto in misura inferiore a quanto riceverebbe attraverso le «alternative concretamente praticabili», ossia, in pratica, attraverso la liquidazione fallimentare dei beni. Si tratta, all’evidenza, di una fattispecie che sta in rapporto di species ad genus rispetto alla più generale previsione dell’opposizione proposta dal creditore dissenziente, ma sembra ragionevole ritenere che il motivo dell’opposizione, nella fattispecie specifica come in quella generica, non possa che essere lo stesso: la lesione del diritto di credito dell’opponente67. 10. Sembra, poi, ragionevole sostenere che con l’opposizione siano deducibili, altresì, quelle circostanze che, se fossero scoperte dopo l’omologazione, consentirebbero di chiedere l’annullamento del concordato, ai sensi dell’art. 138 l. fall., e cioè che «è stato dolosamente esagerato il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell’attivo». Non può essere dubbio che, se circostanze simili vengono scoperte prima che il tribunale pronunci, la proposta di concordato non può essere omologata. Ma il tribunale non può rilevarle d’ufficio: infatti, come dopo l’omologazione occorre che ci sia una «istanza del curatore o di qualunque creditore», perché si possa pronunciare l’annullamento del concordato, così prima dell’omologazione, sembra necessaria l’opposizione di un soggetto 66 Modifico in tal senso l’opinione espressa nel mio precedente scritto, “La sistemazione dell’insolvenza”, cit., 309 s., con riferimento alla disciplina anteriore al “correttivo”. 67 Si tratta, mutatis mutandis, di una situazione analoga a quel che si verifica in caso di opposizione dei creditori alla riduzione del capitale sociale esuberante (art. 2445 c.c.), alla costituzione del patrimonio destinato (art. 2447-quater c.c.), alla revoca dello stato di liquidazione (art. 2487-ter c.c.), alla trasformazione eterogenea (art. 2500-novies c.c.), o alla fusione di società (art. 2503 c.c.): anche in quei casi (pur essendo lo strumento oppositorio diversamente strutturato: cfr. E. NORELLI, in Formulario delle società di capitali, a cura di G. Lo Cascio e L. Panzani, Milano, 2006, pp. 1135 ss., 1200 ss.) il controllo richiesto al tribunale attiene al «pregiudizio» che l’operazione può arrecare al singolo creditore opponente, ma rimane nell’ambito della legittimità, “legittimità sostanziale”, perché investe il “contenuto” dell’operazione. 61 legittimato, perché, accertate taluna di quelle medesime circostanze, il tribunale possa, e debba, rifiutare l’omologazione. 11. Ciò consente anche di precisare meglio l’ambito della legittimazione all’opposizione. Infatti, fra gli «interessati» legittimati ad opporsi debbono ricomprendersi anche i creditori consenzienti (ossia che non hanno espresso il loro dissenso ex art. 128, secondo comma, l. fall.), quando essi vogliano far valere un vizio che costituirebbe causa di annullabilità del concordato ex art. 138 l. fall.: infatti, le predette circostanze sono tali da viziare il consenso (presuntivamente ex art. 128 l. fall.) prestato dal creditore. E fra gli «interessati» legittimati ad opporsi deve ricomprendersi, altresì, il curatore, ove intenda far valere taluna di quelle medesime circostanze, giacché anch’egli sarebbe legittimato a farle valere dopo l’omologazione, proponendo la domanda di annullamento ex art. 138 l. fall. Sembra, dunque, che questa sia l’unica ipotesi in cui può riconoscersi al curatore la legittimazione all’opposizione, la quale, anzi, deve ritenersi per lui sia un atto dovuto, ove mai scopra, prima che il tribunale pronunci, che «è stato dolosamente esagerato il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell’attivo». 12. Il richiamo all’art. 26, quanto alla forma della domanda e delle opposizioni, vale già a configurare il giudizio di omologazione come un procedimento in camera di consiglio, tale essendo quello disciplinato dalla norma richiamata. Nella vecchia legge fallimentare del 1942, invece, il giudizio di omologazione si svolgeva secondo il rito della cognizione ordinaria, salvo la specifica disciplina della fase introduttiva (infatti, l’art. 129, terzo comma, l. fall., vecchio testo, stabiliva che all’udienza di comparizione davanti al giudice delegato, fissata dallo stesso giudice con l’ordinanza che dichiarava aperto il giudizio, «previa relazione orale del curatore, il giudice sente le parti costituite, il presidente del comitato dei creditori ed il fallito; quindi procede a norma degli articoli 183 e seguenti del codice di procedura civile, fissando l’udienza innanzi al collegio nel termine di dieci giorni»). 13. Nello stesso termine fissato da giudice delegato per le eventuali opposizioni (e per la richiesta di omologazione), il secondo comma dell’art. 129 l. fall. esige, altresì, che si faccia «il deposito da parte del comitato dei creditori di una relazione motivata col suo parere definitivo». La norma soggiunge che «se il comitato non provvede nel termine, la relazione è redatta e depositata dal curatore nei sette giorni successivi». Nel testo del 2006 si prevedeva, al contrario, che spetta al curatore depositare la «relazione conclusiva», salvo che la proposta di concordato sia stata presentata dallo stesso curatore, nel qual caso «la relazione è redatta e depositata dal comitato dei creditori». La modifica del “correttivo” è da mettere in relazione alla modifica dell’art. 125, terzo comma, l. fall., nella parte in cui si prevede che spetta al comitato dei creditori, e non più al curatore, dare il «parere favorevole» sulla proposta di concordato (così la Relazione ministeriale68). In verità, non è chiara la funzione di tale «relazione motivata», che dovrebbe essere presentata in ogni caso in cui si sia raggiunta la maggioranza per l’approvazione del concordato, quindi anche nel caso in cui non venga proposta alcuna opposizione. In tal caso, il tribunale deve omologare il concordato sulla base della sola verifica della «regolarità della procedura» e dell’«esito della votazione», sulla base, cioè, di un controllo di mera legittimità “formale”, ai fini del quale non si vede come detta relazione del comitato possa servire. Assolutamente a nulla, poi, la medesima relazione serve, qualora non sia presentata la domanda di omologazione, nel qual caso il procedimento si arresta e la proposta rimane caducata. 68 Per un evidente, mero refuso, nella medesima Relazione si legge che «per l’ipotesi che il comitato non adempia, si prevede che la relazione sia redatta dal curatore, salvo che la proposta sia stata da lui presentata»: in realtà nel nuovo testo della norma non si prevede più che la proposta possa essere stata presentata dal curatore. 62 La relazione in discorso può avere una qualche utilità solo nel caso in cui, presentata la domanda di omologazione, siano anche proposte opposizioni, nel qual caso essa può fornire al tribunale elementi per la valutazione di legittimità “sostanziale” che l’organo giudicante è sollecitato a fare dagli opponenti. Solo in tal caso, dunque, la relazione può assolvere una funzione “consultiva” ai fini della decisione, peraltro limitata, trattandosi, comunque, di un controllo di legittimità. Ben diverso peso poteva, invece, avere la «relazione motivata col suo parere definitivo», che il curatore doveva depositare («cinque giorni prima dell’udienza innanzi al collegio») a norma dell’art. 129, quarto comma, della legge fallimentare del 1942, atteso che il tribunale, nel giudizio di omologazione “vecchia maniera”, doveva compiere un sindacato di merito e non solo di legittimità. 14. Non sembra che il «parere definitivo» del comitato dei creditori, contenuto nella sua relazione, possa considerarsi vincolante, perché ciò non è affatto previsto dalla norma. Né di una parziale vincolatività potrebbe parlarsi in caso di parere negativo, che venga a soppiantare il parere favorevole già dato in sede di esame preventivo della proposta ex art. 125, giacché il parere dato in quella sede condiziona soltanto la sottoponibilità della proposta al voto dei creditori, ma, una volta che si sia proceduto alla votazione e il concordato sia stato approvato dalla maggioranza di legge, l’ulteriore parere richiesto al comitato, se negativo, non può vincolare il tribunale a rifiutare l’omologazione, in assenza di una norma che ciò preveda. Infatti, l’esternazione, a seguito dell’approvazione, di questo ulteriore parere (quale che sia il suo contenuto), e non già di un parere favorevole, costituisce uno degli elementi della fattispecie legale, accertato il completamento della quale il tribunale deve pronunciare l’omologazione. 15. Il quarto comma dell’art. 129 l. fall. stabilisce che «se nel termine fissato non vengono proposte opposizioni, il tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione, omologa il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame». In tal caso, dunque, a seguito della domanda di omologazione non si istaura contraddittorio fra il richiedente e altre parti, e il tribunale deve compiere d’ufficio un controllo di mera legittimità “formale”, senza poter in alcun modo sindacare il merito della proposta di concordato. Ciò a differenza del regime previgente, nel quale al tribunale era demandato un controllo officioso esteso alla convenienza del concordato, prevedendosi che, pur in assenza di opposizioni, il tribunale non solo «accerta l’osservanza delle prescrizioni di legge per l’ammissione e per la validità del concordato», ma «esamina il merito delle proposte e la serietà delle garanzie offerte» (art. 130, primo comma, l. fall., vecchio testo). Il tribunale, dunque, accertato il concorso delle condizioni di legge, emette il provvedimento omologatorio in forma di decreto motivato. 15.1. Non sembra che prima della pronuncia debba essere fissata alcuna udienza, non essendoci parti contrapposte da sentire in contraddittorio fra loro. Tuttavia, qualora il tribunale non fosse convinto della sussistenza delle condizioni di legge per omologare il concordato, non potrebbe, a mio avviso, esimersi dal convocare il proponente in camera di consiglio, per sentirlo sulle circostanze che potrebbero risultare ostative alla pronuncia cui egli aspira, perché la parte istante ha diritto alla difesa anche nei procedimenti unilaterali (art. 24 Cost.). 15.2. Con il provvedimento il tribunale non può che recepire o respingere la proposta, così come è stata formulata ed approvata, non può modificarla, né integrarla, né emendarla. 15.3. Il decreto (di omologazione o di diniego di essa) deve essere «pubblicato a norma dell’articolo 17» (ossia mediante annotazione nel registro delle imprese), come espressamente stabilisce il comma sesto per il decreto emesso in caso di opposizione, dettando una disposizione che è da estendere interpretativamente anche al caso di assenza di opposizioni. 63 Se di rigetto, il provvedimento deve essere notificato al proponente d’ufficio, a cura della cancelleria, e ciò al fine della decorrenza del termine per il reclamo (art. 131, secondo comma, l. fall.). 15.4. Il provvedimento di omologazione non è reclamabile, e ciò si spiega, perché, non essendoci opponenti e avendo il ricorrente visto accolta la sua domanda, non vi sono parti che potrebbero impugnare. L’espressa disposizione di legge escludente il gravame vale, comunque, a eliminare ogni dubbio in proposito: i creditori dissenzienti, il fallito ed eventuali altri interessati, che avrebbero potuto far valere le loro ragioni contrarie all’omologazione mediante l’opposizione, se non si sono avvalsi di tale mezzo, non sono legittimati a impugnare il provvedimento omologatorio. 15.5. Avverso, invece, il provvedimento di rigetto della domanda di omologazione è proponibile il reclamo ex art. 131 l. fall. Legittimato sarà il solo ricorrente-proponente, che si è visto respingere la domanda. 16. Nel caso in cui siano state proposte opposizioni, l’art. 129, quinto comma, l. fall. si limita a stabilire che «il tribunale assume i mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti di ufficio, anche delegando uno dei componenti del collegio». Il testo ante “correttivo” stabiliva, invece, che «si procede ai sensi dell’articolo 26, quinto, sesto, settimo e ottavo comma, in quanto compatibili». 16.1. In effetti, nel nuovo testo il mancato richiamo ai predetti commi non è senza spiegazione: a) il comma quinto dell’art. 26 l. fall., ante “correttivo” («Il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento»), riprodotto nel medesimo comma quinto dell’art. 26 “corretto”, non sarebbe applicabile nel giudizio di omologazione, che non è un giudizio di impugnazione, non essendovi ancora un provvedimento da impugnare; b) il sesto comma dell’art. 26, ante “correttivo” («Il reclamo si propone con ricorso che deve contenere l’indicazione del tribunale o della corte di appello competente, del giudice delegato e della procedura fallimentare; le generalità del ricorrente e l’elezione del domicilio in un comune sito nel circondario del tribunale competente; la determinazione dell’oggetto della domanda; l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa il reclamo e le relative conclusioni; l’indicazione specifica, a pena di decadenza, dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti»), corrisponde al nuovo comma sesto dello stesso art. 26 “corretto”, il quale comma (come si è visto) è già richiamato dal comma terzo dell’art. 129 in esame («L’opposizione e la richiesta di omologazione si propongono con ricorso a norma dell’articolo 26»); c) il settimo comma dell’art. 26, ante “correttivo” («Il presidente del collegio nomina il giudice relatore e fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti in camera di consiglio, assegnando al reclamante un termine per la notifica al curatore ed ai controinteressati del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza. Tra la notifica e l’udienza devono intercorrere non meno di dieci giorni liberi e non più di venti; il resistente, almeno cinque giorni prima dell’udienza fissata, deposita memoria difensiva contenente l'indicazione dei documenti prodotti»), corrisponde ai nuovi commi dal settimo al decimo del medesimo art. 26 “corretto”, dei quali potrebbe risultare applicabile nel (nuovo) giudizio di omologazione soltanto l’attuale comma settimo, quanto alla fissazione dell’udienza («Il presidente, nei cinque giorni successivi al deposito del ricorso, designa il relatore, e fissa con decreto l’udienza di comparizione entro quaranta giorni dal deposito del ricorso»), giacché, per quanto riguarda il relatore, tale è lo stesso giudice delegato, ai sensi dell’art. 25, primo comma, n. 1, l. fall. («Il giudice delegato […] riferisce al tribunale su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento del collegio»), non sussistendo qui l’incompatibilità di cui al secondo comma dello stesso art. 25 («Il giudice delegato non può trattare i giudizi che abbia autorizzato, né 64 può far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti»); per quanto riguarda la notificazione ai controinteressati e la costituzione del resistente, il nuovo art. 129 in esame dispone diversamente (escludendo che debba farsi alcuna notificazione e prevedendo il deposito delle opposizioni nel termine fissato dal giudice delegato); d) l’ottavo comma dell’art. 26, ante “correttivo” («Nel medesimo termine e con le medesime forme devono costituirsi gli interessati che intendono intervenire nel giudizio»), corrisponde al comma undicesimo dell’art. 26 “corretto” («L’intervento di qualunque interessato non può avere luogo oltre il termine stabilito per la costituzione della parte resistente, con le modalità per questa previste») ed il mancato richiamo sembra essere dovuto al fatto che nel giudizio di omologazione non vi è una «parte resistente», ma vi possono essere degli «opponenti». 16.2. Sembra, dunque, che possa ritenersi applicabile al giudizio di omologazione, malgrado il mancato espresso richiamo, la disposizione del comma settimo dell’art. 26 l. fall. (nel testo “corretto”), secondo cui «il presidente, nei cinque giorni successivi al deposito del ricorso, […] fissa con decreto l’udienza di comparizione entro quaranta giorni dal deposito del ricorso». In effetti, ove vi sia un’opposizione, si instaura il contraddittorio fra il proponente e l’opponente e si deve, perciò, sempre fissare un’udienza davanti al collegio per l’audizione delle parti. Nel caso di specie, però, potendo essere presentati più ricorsi (in opposizione, oltre a quello per la richiesta di omologazione), il predetto termine non può che decorrere dalla data del deposito dell’ultimo ricorso. 16.3. Quanto agli interventi, non sembra che se ne debba escludere la possibilità, perché essa è prevista espressamente in sede di reclamo dall’art. 131, nono comma, l. fall., che detta una disposizione del tutto analoga a quella dell’art. 26, undicesimo comma, l. fall. («L’intervento di qualunque interessato non può aver luogo oltre il termine stabilito per la costituzione delle parti resistenti, con le modalità per queste previste»). Sembra, dunque, che anche per gli eventuali interventi debba valere analoga disciplina: l’intervento è ammissibile solo nel termine fissato per la proposizione delle opposizioni e deve farsi depositando in cancelleria una memoria difensiva come stabilito per il procedimento ex art. 26 l. fall. Vi è, tuttavia, da stabilire chi sia legittimato a intervenire. Posto che sono legittimati a opporsi, oltre ai creditori dissenzienti, il fallito (se non è il proponente) e «qualsiasi altro interessato» (art. 129, secondo comma, l. fall.), è chiaro che, se costoro non vogliono che il concordato sia omologato, hanno già a loro disposizione lo strumento dell’opposizione e un eventuale loro intervento, dovendo essere fatto nello stesso termine fissato per le opposizioni, o non sarebbe ammissibile, perché tardivo, o (se tempestivo) non si distinguerebbe da un’opposizione. Sembra, dunque, che non siano individuabili soggetti «interessati» legittimati a intervenire, ma non a opporsi, per contrastare la domanda di omologazione. Sembra, invece, possibile l’intervento di soggetti «interessati» che intendano sostenere la proposta di concordato: i creditori consenzienti, i creditori non votanti, lo stesso fallito non proponente. 16.4. Essendo stato abrogato l’art. 132 l. fall., il quale disponeva che «il pubblico ministero interviene sia nel giudizio di primo grado sia nel giudizio di appello», non è più obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, né egli deve essere in qualche modo “sentito”. 16.5. Lo stesso art. 129, quinto comma, l. fall. («Se sono state proposte opposizioni il tribunale assume i mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti di ufficio, anche delegando uno dei componenti del collegio»), detta, poi, una disposizione pressoché equivalente all’art. 26, dodicesimo comma, l. fall., nel testo “corretto” («All’udienza il collegio, sentite le parti, assume anche d’ufficio i mezzi di prova, eventualmente delegando un suo componente»). 65 Da tale disposizione si desume che il tribunale può disporre d’ufficio tutte le prove che ritenga necessarie ai fini della decisione senza essere affatto vincolato alle richieste delle parti (in deroga, perciò, al principio dispositivo, di cui all’art. 115 c.p.c.: «Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero»). In particolare, deve ritenersi che il tribunale può acquisire il fascicolo del fallimento per trarne elementi di conoscenza, o richiedere «informazioni» aliunde (ex art. 738, terzo comma, c.p.c.). Lo stesso tribunale procede d’ufficio – senza bisogno di alcuna sollecitazione di parte – all’assunzione dei mezzi istruttori, siano essi stati richiesti dalle parti siano stati disposti dallo stesso tribunale. Dalla disposizione in esame si desume, altresì, che l’assunzione – non anche l’ammissione – dei mezzi di prova può essere delegata dal collegio a un suo componente (che può essere anche il giudice delegato). Nello svolgimento dell’attività istruttoria dovrà sempre essere rispettato il principio del contraddittorio, sicché alle parti dovrà essere consentito di dedurre prove contrarie e di interloquire sui risultati degli atti d’istruzione, anche di quelli disposti d’ufficio (e ciò vale in particolare per l’acquisizione del fascicolo del fallimento: le parti devono sapere prima della decisione quali documenti o notizie tratti dal fascicolo il collegio intenda utilizzare per decidere). 16.6. Sentite le parti e completata l’eventuale istruttoria, «il tribunale provvede con decreto motivato». Come si è già detto riguardo al decreto pronunciato in assenza di opposizioni, il tribunale può soltanto respingere od omologare la proposta di concordato, così come formulata dal proponente ed approvata dai creditori. 16.7. Nell’ipotesi in cui siano previste diverse classi di creditori, e il concordato sia stato approvato (oltre ché dalla maggioranza di tutti i crediti ammessi al voto) dalla maggioranza delle classi (ipotesi di cui al secondo periodo del primo comma dell’art. 128 l. fall.), «se un creditore appartenente ad una classe dissenziente contesta la convenienza della proposta, il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili» (art. 129, quinto comma, secondo periodo, l. fall.). In tale ipotesi, il dissenso di una classe non impedisce l’approvazione del concordato (per la quale basta il consenso della maggioranza delle classi, a differenza di quanto previsto dallo stesso art. 129 nel testo del 2006), per cui è rimesso ad un singolo creditore della classe dissenziente (creditore che, ovviamente, sia a sua volta dissenziente) contestare «la convenienza della proposta», onde ottenere il diniego dell’omologazione. Ma con tale contestazione – che non può che farsi mediante un’opposizione – il creditore non può dedurre altro che, con il concordato, egli (e gli altri creditori appartenenti alla sua classe) verrebbe ad avere meno di quanto otterrebbe ove si facesse luogo «alle alternative concretamente praticabili», ossia, in pratica, alla liquidazione fallimentare; tant’è che il tribunale è chiamato a valutare solo la misura della soddisfazione di quel credito rispetto alle predette «alternative». In altri termini, ciò che il creditore può far valere è la lesione del suo credito, perché con il concordato gli verrebbe attribuito meno di quanto gli procurerebbe la liquidazione fallimentare, ossia l’esecuzione concorsuale, ed è appunto in ciò che si risolve la contestazione della «convenienza della proposta», la quale, allora, in realtà, non può implicare altro che un controllo di legittimità “sostanziale”. Simile contestazione non si distingue, dunque, da quella che può muovere ogni altro creditore opponente, pur nell’ipotesi in cui non vi siano diverse classi di creditori. 16.7. Poiché l’opposizione è data ai soggetti legittimati a tutela delle loro posizioni individuali, non sembra dubbio che essa, una volta proposta, possa essere fatta oggetto di rinuncia da parte di chi se 66 ne è avvalso. Non sembra necessaria l’accettazione della controparte, ossia del proponente, atteso che costui non avrebbe interesse alla decisione sull’opposizione (arg. ex art. 306 c.p.c.). Sopravvenute le rinunce di tutti gli opponenti, il tribunale deve provvedere come nel caso in cui nel termine fissato non venga proposta alcuna opposizione (art. 129, quarto comma, l. fall.), ossia, «verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione», pronuncia l’omologazione con decreto motivato. In altri termini, venute meno tutte le opposizioni, il tribunale deve pur sempre procedere d’ufficio al controllo di “legittimità formale”, non più a quello di “legittimità sostanziale”, per il quale occorre sempre l’impulso della parte interessata. 16.8. Il decreto (sia esso di accoglimento o di rigetto della domanda di omologazione) deve essere «pubblicato a norma dell’articolo 17» l. fall. (ossia annotato nel registro delle imprese) e notificato d’ufficio dalla cancelleria al proponente ed agli opponenti al fine della decorrenza del termine per il reclamo. Non è prescritta la notificazione al curatore, né al fallito (che non sia proponente, né opponente), non essendo costoro legittimati all’impugnazione (il fallito può esserlo solo in quanto proponente ovvero opponente). 17. Avverso il provvedimento, sia esso di omologazione o di diniego dell’omologazione, è esperibile il reclamo alla corte d’appello, a norma dell’art. 131 l. fall., nel termine perentorio (tale espressamente qualificato dalla norma) di trenta giorni dalla notificazione fatta dalla cancelleria. Tale notificazione a cura dell’ufficio serve evidentemente ad accelerare il decorso del termine, onde pervenire quanto prima alla conclusione del procedimento. 17.1. Il reclamo si propone con ricorso da depositarsi nella cancelleria della corte d’appello (non in quella del tribunale, come espressamente prevede il secondo comma dell’art. 131 l. fall.). A norma del terzo comma dell’art. 131 l. fall., il ricorso «deve contenere i requisiti prescritti dall’articolo 18, secondo comma, numeri 1), 2), 3) e 4)», l. fall., ossia i requisiti prescritti per il reclamo avverso la sentenza di fallimento. 17.2. Legittimati a reclamare, in caso di omologazione, sono gli opponenti, in caso di diniego dell’omologazione, è il proponente. Il reclamo si propone, nel primo caso, in confronto del proponente, nel secondo caso in confronto degli opponenti; in ogni caso, va proposto anche in confronto del fallito, a meno che non sia egli a reclamare, nonché in confronto del curatore. Il comma quinto dell’art. 131 l. fall. ha, infatti, cura di precisare chi sono le parti del procedimento di reclamo, alle quali il reclamo deve essere notificato, ossia i legittimi contraddittori del reclamante: oltre al curatore, appunto, il fallito, il proponente e gli opponenti (se non sono reclamanti). 17.3. Gli altri commi dello stesso art. 131 cit. completano con molta precisione la disciplina della fase introduttiva del procedimento di reclamo: a) il presidente, nei cinque giorni successivi al deposito del ricorso, designa il relatore, e fissa con decreto l’udienza di comparizione entro sessanta giorni dal deposito del ricorso (comma quarto); b) il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato, a cura del reclamante, entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto, al curatore e alle altre parti (comma quinto); c) tra la data della notificazione e quella dell’udienza deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni (comma sesto); d) le parti resistenti devono costituirsi almeno dieci giorni prima della udienza (comma settimo), depositando in cancelleria «una memoria contenente l’esposizione delle difese in fatto e in diritto, nonché l’indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti» (comma ottavo); 67 e) «l’intervento di qualunque interessato non può aver luogo oltre il termine stabilito per la costituzione delle parti resistenti, con le modalità per queste previste» (comma nono). 17.4. Legittimati ad intervenire, data l’ampia previsione della norma («qualunque interessato»), sono tutti i soggetti diversi dalle parti principali (proponente, opponenti, fallito, curatore), nei cui confronti il concordato è destinato ad avere effetti, vale a dire: i creditori dissenzienti (che non hanno proposto opposizione), per sostenere le ragioni degli opponenti (quindi in caso di omologazione, del reclamante, in caso di diniego dell’omologazione del resistente); i creditori consenzienti, per sostenere le ragioni del proponente (quindi in caso di omologazione, del resistente, in caso di diniego dell’omologazione, del reclamante); i creditori non aventi diritto di voto o esclusi dal voto, per l’una o l’altra parte, secondo il loro interesse. In ogni caso, l’intervento non può che essere di tipo “adesivo dipendente” (art. 105, secondo comma, c.p.c., per il quale «ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone», «per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse»). 17.5. Non è più previsto (nemmeno in secondo grado) l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, essendo stato abrogato l’art. 132 l. fall. (il quale disponeva che «il pubblico ministero interviene sia nel giudizio di primo grado sia nel giudizio di appello»). 17.6. Il comma decimo dell’art. 131 disciplina l’ulteriore corso del procedimento, per il quale prevede che il collegio debba sentire le parti e, quindi, compiere l’eventuale istruttoria. La norma detta che il collegio «assume, anche d’ufficio, i mezzi di prova» e ciò dovrebbe significare che, come in primo grado il tribunale, così in secondo grado la corte d’appello può disporre d’ufficio tutte le prove che ritenga necessarie ai fini della decisione, senza essere affatto vincolata alle richieste delle parti, e, quindi, procede, sempre d’ufficio, all’assunzione dei mezzi istruttori, richiesti dalle parti o disposti dalla stessa corte. Anche in sede di reclamo l’assunzione – non anche l’ammissione – dei mezzi di prova può essere delegata dal collegio a un suo componente. 17.7. La decisione è data «con decreto motivato», il quale deve essere «pubblicato a norma dell’articolo 17 e notificato alle parti, a cura della cancelleria» (art. 131, comma dodicesimo, l. fall.). 17.8. Tale provvedimento è «impugnabile con ricorso per cassazione entro trenta giorni dalla notificazione» (così, espressamente, lo stesso art. 131, comma dodicesimo, l. fall.). 18. L’art. 130 disciplina la «efficacia del decreto», come recita la rubrica, che evidentemente si riferisce al decreto di omologazione. Il primo comma detta che «la proposta di concordato diventa efficace dal momento in cui scadono i termini per opporsi all’omologazione, o dal momento in cui si esauriscono le impugnazioni previste dall’articolo 129». La norma non è ben formulata: essa, contraddicendo la sua stessa rubrica, parla di efficacia della «proposta di concordato», ma questa di per sé non può avere alcun effetto, occorrendo sempre il decreto di omologazione perché si producano gli effetti del concordato69. Scaduto il termine per proporre le opposizioni (termine che è unico – non sono più di uno, come, invece, sembra supporre la norma in esame, – ed è quello fissato dal giudice delegato ai sensi dell’art. 129, secondo comma, l. fall.), senza che esse siano state proposte, non si verifica, per 69 Va, altresì, notato che la disposizione erroneamente parla di «impugnazioni previste dall’articolo 129», mentre, in realtà, questo articolo non prevede alcuna impugnazione: avverso il decreto del tribunale è esperibile solo il reclamo alla corte d’appello, previsto dall’art. 131, e avverso il decreto della corte il ricorso per cassazione, previsto anch’esso dall’art. 131, dodicesimo comma. 68 questo solo fatto, alcun mutamento della situazione giuridica. Infatti: il fallimento è ancora aperto e verrà dichiarato chiuso solo «quando il decreto di omologazione diventa definitivo» (art. 130, secondo comma, l. fall.); l’art. 135, primo comma, l. fall., nel prevedere gli «effetti del concordato» (così la rubrica), detta che «il concordato» – ossia il concordato omologato, non certo la sola «proposta di concordato» – «è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla apertura del fallimento»; la «esecuzione del concordato» (così la rubrica dell’art. 136 l. fall.) non può avere inizio se non dopo il provvedimento omologatorio, tant’è che «dopo la omologazione del concordato il giudice delegato, il curatore e il comitato dei creditori ne sorvegliano l’adempimento, secondo le modalità stabilite nel decreto di omologazione» (art. 136, primo comma, l. fall.). Del resto, non si vede come la sola proposta, pure se approvata dalla maggioranza dei creditori, possa – indipendentemente dal provvedimento omologatorio – vincolare i creditori non consenzienti o non votanti e lo stesso debitore fallito non proponente. Gli effetti del concordato non possono derivare che dal decreto di omologazione, come sopra si è cercato di dimostrare. Con la scadenza del termine per le opposizioni si determina solo una delle condizioni di legge perché il tribunale possa e debba emettere il provvedimento omologatorio, che, peraltro, deve essere richiesto dal proponente, sicché in mancanza di richiesta, non potendosi pronunciare l’omologazione, non si potranno mai produrre gli effetti del concordato. 22. Il regime transitorio. A norma dell’art. 22, comma 1, del d.lgs. n. 169 del 2007 le disposizioni del medesimo decreto entrano in vigore il 1° gennaio 2008. Esse, però, si applicano soltanto alle «procedure di concordato fallimentare aperte successivamente alla sua entrata in vigore» (art. 22, comma 2, del d.lgs. cit.). La norma sembra non felicemente formulata, posto che nella legge fallimentare non si trova una procedura di concordato fallimentare, mentre vi è un procedimento di formazione del concordato nell’ambito della procedura fallimentare, procedimento che si apre con il «ricorso al giudice delegato», con il quale «è presentata» la proposta (art. 125, primo comma, l. fall.), e sfocia nel decreto di omologazione o di diniego dell’omologazione70: il primo determina, oltre ché la conclusione del procedimento, la chiusura, altresì, della procedura fallimentare (che deve essere dichiarata dal tribunale con ulteriore decreto: art. 130, secondo comma, l. fall.), ed inoltre l’avvio della esecuzione del concordato (art. 136 l. fall.); il secondo semplicemente l’esaurimento di quel procedimento, dovendo la procedura fallimentare proseguire. Sembra del tutto ragionevole pensare che il legislatore, con quella disposizione transitoria, abbia inteso rendere applicabile la nuova disciplina del decreto “correttivo” soltanto alle proposte di concordato fallimentare presentate a partire dal 2 gennaio 2008 ed ai procedimenti con esse instaurati71. 70 Si è già richiamata Cass.-s.u., 26-7-1990, n. 7562 (DF, 1990, II, 1305; GC, 1990, I, 1942; GI, 1991, I, 1, 168; Fa, 1991, 144), la quale ricorda che «il concordato è stato studiato come un procedimento che si snoda nell’ambito del più ampio processo di fallimento ed ha inizio con la proposta di concordato mentre termina con la sentenza di omologazione». 71 L’apertura della «procedura di concordato fallimentare» (rectius: del procedimento di formazione del concordato) deve, dunque, identificarsi nel deposito del ricorso. A partire da tale atto e fino alla pronuncia del tribunale è evidente che vi è un unico procedimento (seppure articolato in tre fasi o sub-procedimenti): tutti gli atti posti in essere prima della decisione sono tra di loro connessi al fine di rendere possibile l’emanazione del provvedimento finale e i loro effetti sono puramente strumentali a tal fine, esaurendosi all’interno del procedimento stesso. Il ricorso, con cui è presentata la proposta, apre il procedimento, perché è solo con esso che si dà avvio alla formazione del concordato e sorge l’obbligo degli organi del fallimento di procedere, ciascuno per quanto gli compete, a porre in essere gli atti previsti dagli artt. 125 e ss. l. fall. Tra questi atti, poi, va rilevato che i decreti, con cui il giudice delegato richiede il parere del curatore (art. 125, primo comma, l. fall.) e il parere del comitato dei creditori (art. 125, secondo comma, l. fall.), sono provvedimenti di natura ordinatoria, a contenuto meramente preparatorio; come pure di natura ordinatoria è il decreto del giudice delegato che ordina la comunicazione della proposta (art. 125, secondo comma, l. fall.), decreto 69 Non rileva, perciò, se la procedura fallimentare nell’ambito della quale la proposta di concordato si inserisce sia una procedura ancora disciplinata dalla legge fallimentare del 1942 (art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006), ovvero una procedura retta dalla legge fallimentare come “riformata” dal d.lgs. n. 5 dal quale non deriva altro effetto che quello, puramente strumentale e interno, di attivazione del meccanismo di votazione. E’ solo il provvedimento finale di omologazione che produce effetti, sostanziali e processuali, che si proiettano all’esterno. Ma tale provvedimento, a sua volta, non apre una «procedura»; esso, invece, determina la chiusura della «procedura fallimentare» (art. 130, secondo comma, l. fall.) e dà inizio all’esecuzione del concordato, che non è una procedura e neppure un procedimento. Non vi è, dunque, nell’iter che porta alla formazione del concordato fallimentare, nulla che possa paragonarsi all’apertura della procedura fallimentare o all’apertura della procedura di concordato preventivo, le quali sono «procedure» appunto per la pluralità e complessità degli effetti sostanziali, processuali e organizzativi, che si producono con la loro apertura. In particolare, non è minimamente raffrontabile con il decreto di ammissione al concordato preventivo (art. 163 l. fall.), per la enorme diversità degli effetti, il decreto del giudice delegato che ordina la comunicazione della proposta (art. 125, secondo comma, l. fall.), il quale non apre null’altro che la votazione. Ora, se è del tutto ragionevole che sia emanata una disposizione transitoria per sottoporre l’intero procedimento di formazione del concordato (dalla proposta alla pronuncia di omologa) ad una stessa disciplina; non sembra, invece, altrettanto ragionevole che in virtù di una disposizione transitoria la proposta e una parte del procedimento siano disciplinati dalla normativa previgente ed un’altra parte del medesimo procedimento sia disciplinata dalla normativa sopravvenuta, senza, peraltro, che il momento determinante l’applicabilità dell’una e dell’altra normativa sia chiaramente individuato dal legislatore. Va, poi, precisato che ciascun ricorso, contenente una proposta di concordato, apre un distinto procedimento, sicché è ben possibile che, nell’ambito della medesima procedura fallimentare, si svolgano più procedimenti di concordato retti da discipline diverse, perché apertisi in tempi diversi. Ciò non sembra comportare alcun serio problema. Infatti, nel caso in cui ad una prima proposta (ed al relativo procedimento) si debba applicare, ratione temporis, la normativa del d. lgs. n. 5 del 2006, e ad una seconda proposta (ed al relativo procedimento) si debba applicare la normativa del d. lgs. n. 169 del 2007, la regola per la quale «se le proposte sono più di una, devono essere portate in votazione contemporaneamente» (art. 125, terzo comma, l. fall., ante “correttivo) può valere solo per la prima, ma non anche per la seconda, sicché quest’ultima non può essere messa in votazione contemporaneamente alla prima. Di conseguenza, la prima proposta, ove ottenga il parere favorevole del curatore (“vincolante” per la disciplina ad essa applicabile), dovrà senz’altro essere messa in votazione, e, se approvata, sottoposta al giudizio di omologazione; mentre la seconda, ancorché ottenga il parere favorevole del comitato dei creditori (“vincolante” per la disciplina ad essa applicabile), dovrà essere sospesa, in attesa che si esaurisca il procedimento della prima, e ciò in forza della stessa disciplina del “correttivo”, la quale non ammette che più proposte siano votate e sottoposte ad omologa contemporaneamente. Sembra, peraltro, plausibile sostenere che i creditori, chiamati a votare sulla prima proposta quando è già sopravvenuta la seconda, debbano essere adeguatamente informati riguardo a quest’ultima, mediante la comunicazione dei pareri del curatore e del comitato dei creditori (comunicazione da farsi unitamente alla proposta, come ora espressamente prescritto dall’art. 125, secondo comma, l. fall., nel testo del 2007), nei quali non si può non dar conto della successiva proposta. E’ anzi da ritenere che, ove la seconda proposta sia presentata dopo l’espressione dei pareri, ma prima dell’esecuzione dell’ordine di comunicazione della prima proposta, il giudice delegato debba richiedere al curatore ed al comitato dei creditori di rivedere il rispettivo parere, onde valutare la nuova proposta e metterla a raffronto con la prima. In tal modo, i creditori possono decidere consapevolmente se dare o meno la loro adesione alla prima proposta, comparandola con la seconda, il che equivale a scegliere fra le due proposte. Ciò è sicuramente nello spirito della nuova disciplina, nella versione finale del 2007, non meno che in quella precedente del 2006. In questa direzione sembra ragionevolmente prospettabile una interpretazione “funzionale” della disposizione per cui «se le proposte sono più di una, devono essere portate in votazione contemporaneamente» (art. 125, terzo comma, l. fall., ante “correttivo), per il caso in cui vi siano due o più proposte, alle quali tutte vada applicata la disciplina del d.lgs. n. 5 del 2006, alla cui stregua è possibile che il curatore dia il suo «parere favorevole» a più di una proposta (art. 125, terzo comma, l. fall., nel testo del 2006): posto che, in realtà, non è concretamente fattibile una votazione «contemporanea», nel senso letterale della parola, non consentita dalla struttura del procedimento e, in particolare, dal meccanismo stesso della votazione, basato sul silenzio-assenso (e di ciò il legislatore ha preso atto, sopprimendo quella disposizione nel testo di cui al “correttivo”), le proposte (che abbiano ottenuto il «parere favorevole» del curatore) dovranno essere messe in votazione successivamente, una sola alla volta, seguendo l’ordine di priorità temporale, previa valutazione comparativa di tutte ad opera del curatore e del comitato dei creditori e adeguata informazione dei creditori (da darsi attraverso la comunicazione dei pareri unitamente alla proposta), di modo che costoro possano “scegliere” a quale tra le proposte accordare il loro consenso. Ove la prima riporti la maggioranza, sarà questa la proposta scelta dai creditori e che, perciò, dovrà essere sottoposta al giudizio di omologazione del tribunale; mentre le domande relative alle altre dovranno essere respinte dal giudice delegato. Ove, invece, sulla prima non si raggiunga la maggioranza, si passerà alla seconda, e così via. Si avrà così una votazione che potrà dirsi fatta «contemporaneamente», perché basata su valutazioni e scelte fatte «contemporaneamente», in conformità alla ratio della norma. 70 del 2006, ovvero ancora una procedura cui deve applicarsi la nuova normativa dettata dal “correttivo” del 2007. 71