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MODELLI ATOMICI
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Il cammino per arrivare alla moderna teoria atomica è stato lungo e complesso: ogni nuova scoperta faceva
venire alla luce anche nuovi problemi, che dovevano essere affrontati e risolti; è stato necessario modificare
profondamente l’impostazione tradizionale della fisica, creare di fatto una nuova fisica, per poter costruire
dei modelli del mondo microscopico che potessero interpretare in modo soddisfacente i fenomeni osservati.
Il risultato finale di questo enorme lavoro teorico è quella conoscenza dell’atomo che ha fornito le basi a
una varietà di applicazioni tecnologiche, compreso lo sfruttamento delle sue enormi riserve di energia, e
che ha cambiato la storia stessa: da quando esiste la bomba atomica, l’uomo sa che mai più potrà
permettersi una guerra mondiale.
Lo studio del mondo degli atomi non è ancora esaurito: da una parte continua la ricerca teorica sulle
numerose particelle più piccole dell’atomo; dall’altra continua la ricerca teorica e tecnologica per mettere a
punto soluzioni che permettano di sfruttare l’energia dell’atomo senza i problemi associati alle centrali
nucleari attuali.
Per comprendere meglio la moderna teoria dell’atomo è importante riconsiderare i vari stadi che hanno
portato alla sua formulazione, e capire attraverso quali scoperte, esperienze, ipotesi e proposte di modelli si
è arrivati alle attuali conoscenze. Alcuni fenomeni, scoperti e studiati alla fine del XIX secolo, hanno reso
evidente che esistono particelle più piccole dell’atomo e che, quindi, l’atomo non è indivisibile e non è la
particella più piccola della materia, ma è a sua volta costituito da altre particelle: ha, cioè, una struttura
complessa. I fenomeni più importanti furono quelli riguardanti le scariche elettriche attraverso i gas e la
radioattività.
Le PARTICELLE SUBATOMICHE
Alla fine dell’Ottocento gli scienziati effettuarono molti esperimenti per studiare la conducibilità elettrica
nei gas; in questi esperimenti essi impiegavano un tubo di vetro nel quale si faceva il vuoto, togliendo il più
possibile l’aria dal suo interno, e che poi veniva riempito con il gas in esame:
1
Alle estremità del tubo venivano inoltre posti due elettrodi, fra i quali si applicava una differenza di
potenziale di circa 10000 V: azionando la pompa aspirante, si abbassava gradualmente la pressione del gas
all’interno del tubo e, quando la pressione raggiungeva un valore sufficientemente basso, si notava che il
gas cominciava a condurre corrente, rendendo luminoso il tubo.
Se tuttavia la pressione del gas veniva abbassata ulteriormente, compariva una zona scura intorno al catodo:
questa zona scura diveniva sempre più estesa man mano che la pressione del gas nel tubo diminuiva; ad una
pressione di circa 10-6 atm, il gas rimasto nel tubo non emetteva più luce: il vetro aveva tuttavia una
luminosità diffusa, a causa della fluorescenza provocata da raggi emessi dal catodo.
Tali raggi vennero chiamati raggi catodici, e gli scienziati effettuarono una serie di esperimenti per
identificarne la natura e studiarne le proprietà; si scoprì così che:
-
i raggi catodici si propagano in linea retta (mettendo una croce di Malta sulla traiettoria dei raggi, si
forma l’ombra netta della croce sul vetro);
-
i raggi catodici sono costituiti da particelle dotate di massa (mettendo sulla traiettoria dei raggi catodici
un mulinello a pale, si osserva che questo mulinello si mette a girare quando viene colpito);
-
i raggi catodici sono costituiti da particelle dotate di carica elettrica negativa (se si pongono, sopra e
sotto il fascio, due piastre elettricamente cariche e di segno opposto, il fascio di raggi catodici devia
dal suo percorso, perché viene attratto dalla piastra positiva e respinto da quella negativa).
2
Le particelle che costituiscono i raggi catodici vennero chiamate elettroni: esse risultarono identiche,
qualunque fosse la natura del gas presente nel tubo e qualunque fosse il metallo usato per costruire il
catodo.
L’obiettivo successivo, per gli scienziati, fu quello di mettere a punto esperimenti per determinare il valore
della massa e della carica degli elettroni: alla fine del secolo scorso il fisico inglese Thomson riuscì a
determinare il rapporto fra la carica e la massa dell’elettrone. Nel 1909 Millikan stabilì che la carica
dell’elettrone è di 1,60  10-19 Coulomb. La conoscenza di questi due valori permise di ricavare quindi
quello della massa dell’elettrone:
me = 9,04  10-28 g
La carica dell’elettrone è la carica elementare, cioè è la minima quantità di carica elettrica esistente: per
questo motivo la si sceglie spesso come unità di misura per la carica elettrica delle particelle che
costituiscono la materia; ad esempio, dire che una particella ha carica +2e significa dire che quella
particella ha una carica elettrica di segno positivo, il cui valore assoluto è doppio del valore assoluto della
carica dell’elettrone. In molti casi la lettera e viene omessa, e si indica soltanto il numero che esprime la
misura della carica in termini di e: quando si usa questa convenzione, la carica elettrica delle particelle
viene espressa soltanto da un numero preceduto da un segno (ad esempio, la carica dell’elettrone viene
espressa come –1).
La SCOPERTA della RADIOATTIVITA’
Verso la fine del XIX secolo si scoprì che esistono in natura alcuni elementi che emettono spontaneamente
radiazioni e si trasformano in altri elementi; nel 1897 il fisico Becquerel scoprì che i minerali di uranio
erano capaci di impressionare una lastra fotografica: questo indicava che l’uranio emette radiazioni alle
quali una lastra è sensibile.
Qualche anno dopo i coniugi Curie isolarono da un minerale di uranio un nuovo elemento, che chiamarono
radio, e che emetteva radiazioni molto più intense di quelle dell’uranio; gli esperimenti mostrarono che le
radiazioni emesse dalle sostanze radioattive sono di tre tipi. Nel 1899 Rutherford identificò due di esse, e
poco dopo venne identificata anche la terza: per distinguerle è sufficiente far passare un fascio di radiazioni
attraverso un forte campo magnetico.
Il campo agisce in modo diverso sui diversi tipi di raggi: due di essi vengono deviati dal campo, ma in
direzioni opposte, il che indica che sono costituiti da particelle dotate di carica elettrica opposta; il terzo
tipo non subisce alcuna deviazione, e ciò indica che non è associato alla presenza di cariche elettriche. Una
cosa analoga avviene se si fa passare la radiazione attraverso due piastre cariche elettricamente con segno
opposto; i tre tipi di radiazione vennero indicati con le prime tre lettere dell’alfabeto greco, e sono:
-
i raggi , costituiti da nuclei di elio;
3
-
i raggi  , costituiti da elettroni (cioè sono le stesse particelle che costituiscono i raggi catodici;
-
i raggi , costituiti da onde elettromagnetiche con lunghezza d’onda molto piccola e, quindi,
frequenza ed energia molto alte.
La scoperta della radioattività e i risultati ottenuti negli studi sui raggi catodici cambiarono radicalmente
l’immagine dell’atomo, perché:
-
il fatto che gli atomi potessero emettere particelle indicava molto chiaramente che l’atomo non era
indivisibile;
-
il fatto che le particelle emesse fossero dotate di carica elettrica indicava chiaramente che la carica
è una caratteristica della materia, presente nei suoi costituenti più piccoli.
Inoltre, siccome la materia è normalmente neutra, diventava evidente che, all’interno dell’atomo, le cariche
positive e quelle negative dovessero bilanciarsi.
Una volta stabilito che l’atomo è costituito da particelle più piccole, si presentava subito un altro problema:
quello di comprendere come queste particelle sono «organizzate» all’interno dell’atomo; all’inizio del XX
secolo furono proposti due modelli diversi, uno da Thomson e l’altro da Rutherford.
Thomson ipotizzò che l’atomo avesse una struttura omogenea, con la massa e
la carica positiva distribuite omogeneamente in tutto lo spazio dell’atomo, e gli
elettroni inseriti all’interno come particelle individuali distribuite in modo
uniforme. Il modello era compatibile con i calcoli teorici; per ritenerlo valido
sarebbe stata però necessaria una conferma sperimentale.
Secondo il modello di Rutherford, la massa e la carica positiva sono concentrate in una parte molto piccola
dell’atomo, chiamata nucleo, e gli elettroni si trovano nella zona periferica, a grande distanza del nucleo.
Questa ipotesi nasceva da un’importante esperienza, effettuata da due allievi di Rutherford: essi avevano
bombardato una lamina sottilissima di metallo con particelle  veloci; uno schermo rivelatore indicava i
punti di arrivo delle particelle , permettendo quindi di stabilirne la traiettoria dopo il passaggio attraverso
la lamina.
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Se fosse stato valido il modello di Thomson, cioè se l’atomo avesse avuto una struttura omogenea, le
particelle  avrebbero dovuto comportarsi tutte nello stesso modo, perché in qualunque punto avessero
colpito la lamina metallica avrebbero trovato situazioni equivalenti.
In realtà, le particelle  si comportarono in modo diverso: per la maggior parte passarono senza subire
deviazioni, ma alcune vennero deviate secondo vari angoli, e alcune addirittura respinte (veniva deviata
circa una particella su 8000); questo comportamento spinse Rutherford a proporre il suo modello, l’unico in
grado di spiegarlo.
Le particelle che non venivano deviate erano quelle che passavano abbastanza distanti dai nuclei: quelle
che si avvicinavano ai nuclei venivano deviate per effetto della repulsione elettrica, visto che sia le
particelle che i nuclei sono positivi; tanto più si avvicinavano ai nuclei, tanto più fortemente venivano
deviate. Quelle che viaggiavano direttamente verso i nuclei venivano respinte: queste ultime erano poche, e
ciò mostrava che la probabilità che una particella si dirigesse proprio contro un nucleo era bassa. Ciò porta
a concludere che il nucleo occupa una parte molto piccola rispetto allo spazio complessivamente occupato
da un atomo.
Il modello di Rutherford, nato dall’esperienza, si proponeva come quello valido: massa e carica positiva
sono concentrate in una parte molto piccola dell’atomo con gli elettroni che sono invece distribuiti
tutt’intorno e occupano tutto il resto dell’atomo.
Una volta appurato che la carica positiva è concentrata nel nucleo, restava da vedere se esistevano
particelle dotate di una carica positiva minima (cosi come l’elettrone è dotato di una carica negativa
minima).
L’atomo è neutro, perché contiene cariche positive e cariche negative in numero uguale: però gli elettroni,
responsabili delle cariche negative, si trovano alla periferia dell’atomo, e possono esserne strappati; quando
questo avviene, le cariche positive non sono più bilanciate esattamente da quelle negative: l’atomo allora
non è più elettricamente neutro, ma ha una carica positiva: si dice che è uno ione positivo.
Gli scienziati determinarono sperimentalmente la massa e la carica di vari ioni positivi: trovarono che la
carica positiva più piccola è quella che ha lo stesso valore assoluto della carica dell’elettrone, ma segno
5
opposto; fra gli ioni con carica +1, quello avente massa più piccola era quello ottenuto dall’atomo di
idrogeno: questo ione è quindi la più piccola particella dotata di carica positiva e venne chiamato protone.
A questo punto siamo già in grado di fornire un primo schema della struttura fondamentale dell’atomo, e di
definire alcune grandezze che lo caratterizzano: l’atomo è costituito da un nucleo, nel quale sono
concentrate la massa e la carica positiva, e dagli elettroni, che si trovano intorno al nucleo e occupano la
quasi totalità del volume dell’atomo.
Il nucleo è a sua volta costituito da particelle più piccole: i protoni, con carica, ed i neutroni, elettricamente
neutri (cioè non dotati di carica); protoni, neutroni ed elettroni sono stati a lungo considerati particelle
elementari, cioè particelle indivisibili e semplici (non costituite a loro volta da altre particelle). Più
recentemente i fisici hanno scoperto che neutroni e protoni sono a loro volta costituiti da quarks, particelle
elementari che non possono mai essere isolate singolarmente: per quanto riguarda le caratteristiche
dell’atomo che interessano il chimico, non è comunque necessario prendere in considerazione questa loro
struttura complessa.
Il NUMERO ATOMICO e il NUMERO di MASSA
Il numero atomico è il numero di protoni presenti nel nucleo di un atomo: viene generalmente indicato con
la lettera Z; in un atomo neutro, il numero di cariche negative presenti è uguale al numero di cariche
positive: quindi il numero di elettroni è uguale al numero di protoni.
La carica nucleare è la carica elettrica complessiva del nucleo dell’atomo: è dovuta ai protoni e poiché
ogni protone ha carica +1, la carica del nucleo è +Z; questi valori di carica sono ovviamente riferiti alla
carica elementare e: quindi la carica di un nucleo è pari in valore assoluto a +Ze.
Il numero di protoni presenti nel nucleo è ciò che rende gli elementi diversi l’uno dall’altro: il numero
atomico, quindi, è caratteristico per ogni elemento.
Quando si vuole indicare il numero atomico di un elemento, è convenzione scriverlo in basso a sinistra del
simbolo dell’elemento:
H
1
C
6
O
8
Na
11
Il numero di massa è la somma del numero di protoni e del numero di neutroni: come si deduce facilmente
dai valori della massa delle particelle, protoni e neutroni sono i principali responsabili della massa di un
atomo (al loro confronto, la massa degli elettroni è praticamente trascurabile); per questo motivo, il numero
che esprime la loro somma è associato al concetto di massa.
Quando si conoscono il numero atomico e il numero di massa di un elemento, è facile calcolare il numero
di protoni, neutroni ed elettroni presenti nell’atomo di quell’elemento; infatti:
Nprotoni = Z
Nneutroni = A – Z
Nelettroni = Z (se l’atomo è neutro)
6
Quando si vuole indicare il numero di massa di un elemento è convenzione scriverlo in alto a sinistra
rispetto al simbolo dell’elemento: così, ad esempio, la scrittura 23Na ci informa che il numero di massa del
sodio è 23.
Esistono atomi che hanno lo stesso numero di protoni e diverso numero di neutroni: avendo lo stesso
numero di protoni, sono atomi di uno stesso elemento e hanno quindi lo stesso numero atomico; il diverso
numero di neutroni determina invece un diverso numero di massa. Atomi di questo tipo vengono chiamati
isotopi dell’elemento preso in considerazione: gli isotopi di uno stesso elemento hanno le stesse proprietà
chimiche.
L’idrogeno, ad esempio, ha tre isotopi: l’idrogeno 1H, con un protone nel nucleo e nessun neutrone, il
deuterio 2H, con un protone e un neutrone nel nucleo ed il trizio 3H, con un protone e due neutroni nel
nucleo. Quando esistono due o più isotopi naturali di un dato elemento, quell’elemento è sempre presente
come miscela dei suoi isotopi: la composizione della miscela è costante in natura, cioè le percentuali dei
vari isotopi che la costituiscono sono sempre le stesse.
Per alcuni elementi, la percentuale di uno degli isotopi è molto alta, e le percentuali degli altri sono molto
basse: nel caso dell’idrogeno, ad esempio, il primo isotopo è di gran lunga il più diffuso, costituendo il
99,9844% di tutto l’idrogeno esistente; il deuterio è presente soltanto per lo 0,0156% ed il trizio non è
praticamente presente in natura, ma è stato creato artificialmente in laboratorio, ed è radioattivo (sembra
che sulla Terra esista un solo atomo di trizio su ogni 1017 atomi di idrogeno, mentre la percentuale è più
alta nelle stelle).
Per altri elementi due o più isotopi sono presenti in percentuali considerevoli, come nel caso del cloro, dove
l’isotopo con numero di massa 35 è presente per il 75,4% e l’isotopo con numero di massa 37 per il 24,6%.
Quando si determina sperimentalmente la massa atomica di un elemento, non si separano i vari isotopi: il
valore che si ottiene nasce quindi dal contributo di tutti gli isotopi di quell’elemento presenti in natura; è
cioè un valore medio a cui ogni isotopo contribuisce a seconda della percentuale con cui è presente
(maggiore è la percentuale, maggiore è il contributo dell’isotopo corrispondente).
Se si conoscono le masse e le percentuali degli isotopi naturali di un dato elemento, è possibile calcolare la
massa atomica media di quell’elemento mediante l’equazione della media pesata; questo è un tipo di media
che tiene conto del fatto che i singoli contributi non hanno tutti la stessa importanza. Per calcolarla, si
moltiplica il numero di massa di ciascun isotopo per il corrispondente valore di percentuale, si sommano
tutti i termini così ottenuti e si divide la somma per 100: in tal modo, il contributo di un isotopo presente in
percentuale maggiore ha più “peso” del contributo di un isotopo presente in percentuale minore.
Per determinare le masse atomiche dei singoli isotopi di un elemento si usa uno strumento chiamato
spettrometro di massa.
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L’ATOMO di BOHR
Fino al momento in cui Rutherford propose il suo modello di atomo, la fisica si era sviluppata senza
incontrare grosse crisi: Galileo e Newton avevano posto le basi della meccanica, descrivendo il moto dei
corpi e le leggi che lo governano; altri fisici avevano studiato i fenomeni elettrici e magnetici e formulato le
leggi dell’elettromagnetismo. Nel suo complesso, la fisica si presentava come un insieme di conoscenze
che gli esperimenti continuavano a confermare; tali leggi sono tuttora considerate valide per la descrizione
dei fenomeni e degli oggetti del “mondo macroscopico”: a questa parte della fisica si dà oggi il nome di
fisica classica.
Il comportamento delle particelle del mondo microscopico (l’atomo e i suoi costituenti) non risultava però
in accordo con le leggi della fisica classica: secondo queste leggi l’atomo, così come lo aveva ipotizzato
Rutherford, non sarebbe potuto esistere. Infatti, il nucleo e gli elettroni hanno carica di segno opposto, e
particelle con carica di segno opposto si attirano: l’attrazione dovrebbe portare le particelle a muoversi
l’una verso l’altra fino a incontrarsi.
Se una delle due particelle ruota intorno all’altra, come fa l’elettrone intorno al nucleo, l’effetto combinato
del moto e dell’attrazione elettrica le farebbe descrivere una traiettoria a spirale con cui si avvicinerebbe
sempre più all’altra particella, fino a cadervi sopra: man mano che la particella si avvicina a quella intorno
a cui ruota, la sua energia diminuisce e, quindi, la particella dovrebbe emettere energia in modo continuo
per tutta la durata del suo moto verso l’altra.
In altre parole, secondo le leggi della fisica classica, gli elettroni dovrebbero andare tutti a cadere sul
nucleo; questo però non avviene: gli atomi esistono, con i loro elettroni ben distinti e distanti dal nucleo.
In particolari condizioni, gli atomi possono emettere energia sotto forma di radiazioni elettromagnetiche:
atomi di elementi diversi emettono radiazioni diverse, cioè radiazioni aventi diversi valori di lunghezza
d’onda, frequenza e quindi energia.
L’insieme delle radiazioni emesse dagli atomi di un elemento viene chiamato spettro di emissione di
quell’elemento: per ottenere lo spettro di emissione di un elemento quest’ultimo viene portato allo stato
gassoso, e poi si fa passare attraverso di esso una scarica elettrica.
Per effetto della scarica, alcuni atomi passano a una situazione in cui hanno un’energia più alta del solito:
subito dopo, questi atomi ritornano alla loro situazione normale, ed emettono l’energia in eccesso sotto
forma di radiazione elettromagnetica. La radiazione emessa è in genere costituita da due o più radiazioni di
frequenza diversa: per separarle, si fa passare la radiazione attraverso una fessura, in modo da isolarne un
fascio sottile; il fascio, a sua volta, viene fatto passare attraverso un prisma, che devia radiazioni di diversa
frequenza con angoli diversi.
Dal prisma, quindi, escono diversi raggi, distinti l’uno dall’altro e con direzioni di propagazione diverse:
sul loro cammino viene messa una lastra sensibile; i diversi raggi colpiscono la lastra in posizioni diverse,
dando così origine alle varie righe dello spettro.
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Gli spettri atomici hanno una caratteristica particolare: essi non sono continui, ma discreti, cioè non
presentano un passaggio graduale attraverso i vari valori di energia (o di frequenza), ma delle righe nette,
corrispondenti a ben definiti valori di energia. Ciò significa che un atomo può emettere soltanto radiazioni
con valori di energia specifici e suoi caratteristici.
Anche questo era un fenomeno che non poteva essere spiegato in base alle leggi della fisica classica, che
prevedono soltanto spettri continui (perché prevedono che l’energia venga emessa o assorbita senza
“preferenze” per certi valori piuttosto che altri e senza “salti” nell’ambito dei valori possibili); la natura
degli spettri atomici veniva quindi ad essere un altro problema che richiedeva l’elaborazione di modelli
nuovi. Era evidente che gli spettri contenessero indicazioni sulla situazione energetica degli atomi da cui si
originavano, ma risultava difficile interpretare tali indicazioni.
Fisici e chimici lavorarono intensamente per determinare tutte le righe dello spettro dei vari elementi; lo
spettro dell’atomo di idrogeno (che fu lo spettro studiato più a fondo) mostrava tre serie di righe, che
vennero indicate con i nomi degli scienziati che le scoprirono: la serie di Lyman nella regione
dell’ultravioletto, la serie di Balmer nella regione del visibile e la serie di Paschen nella regione
dell’infrarosso.
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Oltre a individuare la serie di righe degli spettri dei vari elementi, i fisici cercarono di individuare possibili
regolarità e trovare relazioni matematiche che le esprimessero: Rydberg trovò una relazione che permetteva
di calcolare il numero d’onda delle righe dello spettro dell’atomo di idrogeno.
Il numero d’onda è il reciproco della lunghezza d’onda ; l’equazione di Rydberg può essere espressa per
mezzo della seguente relazione:
 1
1 
 RH   2  2 

 n2 n1 
1
dove n2 e nl sono dei numeri interi e positivi e RH è una costante, chiamata costante di Rydberg e avente il
valore di 109678 cm-l. Ogni serie corrisponde a un unico valore di n2, mentre n1 può assumere valori a
partire da quello immediatamente successivo al valore di n2 (cioè n1 = n2 + 1, n2 + 2, n2 + 3, ...).
L’equazione di Rydberg era un’equazione empirica, cioè collegava dati sperimentali, senza che per il
momento ne esistesse una spiegazione teorica; la spiegazione teorica sarebbe potuta venire solo da un
nuovo modello di atomo.
Questo nuovo modello di atomo, che per certi aspetti andava oltre i confini della fisica classica, fu proposto
da Niels Bohr nel 1913: alcuni anni prima Max Planck aveva introdotto un concetto che non faceva parte
della fisica classica, quello di quantizzazione.
La quantizzazione implica restrizioni nei valori possibili per una grandezza: se una grandezza è
quantizzata, può assumere soltanto certi valori (valori permessi), ma non può assumere valori intermedi fra
quelli permessi.
Planck era ricorso alla quantizzazione per spiegare un altro fenomeno che aveva costituito un rompicapo
per i fisici: la radiazione del corpo nero; Bohr pensò che una ipotesi analoga potesse permettere di spiegare
i fenomeni che riguardano gli atomi.
Ipotesi del modello di Bohr
Il modello di Bohr comprende alcune ipotesi fondamentali:
-
nell’atomo gli elettroni ruotano intorno al nucleo in orbite circolari;
-
il momento angolare degli elettroni è quantizzato: esso può assumere soltanto i valori dati dalla
relazione:
me  v  r  n 
h
2
dove me è la massa dell’elettrone, v è la velocità dell’elettrone, r è il raggio dell’orbita su cui si muove
l’elettrone, (m v r) è il momento angolare dell’elettrone, h è una costante universale, chiamata costante
di Planck, ed n è un numero naturale, cioè un numero intero positivo, chiamato numero quantico.
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L’equazione ci mostra la natura matematica della quantizzazione: la quantizzazione nasce dal fatto che a
destra compare un numero naturale, che è discreto per sua natura; il fatto che i valori del momento angolare
dipendano dal numero naturale n fa sì che soltanto certi valori risultino possibili e, quindi, dà origine alla
quantizzazione.
-
finché un elettrone rimane nella sua orbita, non emette e non assorbe energia.
Quantizzazione dei raggi delle orbite
Dopo avere introdotto queste ipotesi, Bohr studia la situazione dell’elettrone utilizzando le leggi della fisica
classica: l’elettrone è soggetto alla forza di attrazione elettrostatica del nucleo; questa forza che fa sì che
l’elettrone resti intorno al nucleo e, pertanto, svolge il ruolo di forza centripeta. È quindi possibile scrivere
un’uguaglianza fra l’espressione della forza di attrazione elettrostatica e quella della forza centripeta.
Semplici passaggi matematici, permettono di trovare un’espressione per il raggio delle orbite su cui ruotano
gli elettroni:
r
a0  n2
Z
dove r è il raggio dell’orbita, n è il numero quantico, che caratterizza l’orbita stessa, Z è il numero atomico
dell’elemento considerato ed a0 è una costante indicata con il termine di chiamata raggio di Bohr.
Il fatto che in questa espressione compaia il numero quantico n significa che anche i raggi delle orbite
possono assumere soltanto certi valori, e non valori intermedi fra quelli permessi; il valore del raggio
aumenta inoltre al crescere di n. L’orbita più vicina al nucleo è quella corrispondente al minimo valore di n,
cioè a n = 1; più alto è il valore di n, più l’orbita corrispondente è distante dal nucleo.
L’elettrone non può avvicinarsi al nucleo oltre la distanza corrispondente a n = l e, quindi, non può andare a
cadere sul nucleo; inoltre, la distanza fra un’orbita e quella che la precede non è costante, ma aumenta man
mano che ci si allontana dal nucleo.
Quantizzazione dei livelli energetici
Gli elettroni nell’atomo possiedono una certa quantità di energia: essi infatti sono in moto e, quindi, hanno
energia cinetica; inoltre hanno energia potenziale dovuta all’attrazione elettrostatica fra elettrone e nucleo.
Quando è presente più di un elettrone, si aggiunge l’energia della repulsione elettrostatica fra un elettrone e
l’altro: l’energia totale di un elettrone è data dalla somma di tutti questi contributi.
Anche l’energia è quantizzata, cioè può assumere solo certi valori; questi valori permessi dell’energia
vengono chiamati livelli energetici e dipendono dal numero quantico n:
E
2,18 1018 J
n2
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Ad ogni orbita corrisponde un dato valore di energia: il valore più basso è quello dell’orbita più vicina al
nucleo (n = 1); man mano che il valore di n aumenta, e quindi aumenta il raggio dell’orbita (cioè man mano
che ci si allontana dal nucleo), aumenta anche il corrispondente valore di energia.
Il modello di Bohr forniva una spiegazione soddisfacente del motivo per il quale gli spettri degli atomi
sono discreti; per comprenderla, teniamo presente la terza ipotesi del modello: finché l’elettrone rimane
nella stessa orbita, la sua energia non cambia.
Per passare da un’orbita con energia minore a un’orbita con energia maggiore (cioè da un’orbita più interna
a un’orbita più esterna), l’elettrone deve ricevere dall’esterno una quantità di energia corrispondente alla
differenza di energia fra le due orbite; se invece passa da un’orbita con energia maggiore a un’orbita con
energia minore (cioè da un’orbita più esterna a un’orbita più interna), l’elettrone emette una quantità di
energia pari alla differenza di energia fra le due orbite.
Indichiamo la differenza di energia come E2 - E1, dove E2 è l'energia dell’orbita più esterna ed E1 è
l’energia dell’orbita più interna. L’energia viene emessa o assorbita sotto forma di radiazione
elettromagnetica.
L’energia di una radiazione elettromagnetica è uguale al prodotto della costante di Planck per la frequenza
 della radiazione; l’energia della radiazione emessa o assorbita dell’elettrone è pertanto uguale alla
differenza di energia delle due orbite interessate, cioè:
h = E2 - El
Questa equazione ci permette di risalire alla differenza di energia fra le due orbite in base alla frequenza
della radiazione emessa o assorbita dall’atomo; l’ipotesi di Bohr sulla struttura dell’atomo spiega quindi
perché gli spettri di emissione degli atomi sono discreti: ogni riga corrisponde a un valore specifico di
energia, che a sua volta corrisponde alla differenza di energia fra due orbite.
Se dall’esterno arriva all’atomo energia sufficiente perché un elettrone possa passare da un’orbita più
interna a un’orbita più esterna, l’elettrone assorbe questa energia ed effettua il “salto”; poi ritorna all’orbita
di partenza ed emette l’energia che aveva assorbito: tale emissione è responsabile di una riga nello spettro.
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L’insieme dei possibili passaggi da un’orbita a un’altra genera l’insieme delle righe dello spettro: lo spettro
dell’atomo di idrogeno trovava una spiegazione completa.
Ciascuna delle serie spettrali corrisponde al passaggio dell’elettrone da orbite più esterne alla stessa orbita
“di arrivo”: quest’ultima è l’orbita con n = 1 per la serie di Lyman, l’orbita con n = 2 per la serie di Balmer,
l’orbita con n = 3 per la serie di Paschen e così via; anche l’equazione di Rydberg trovava la sua
spiegazione teorica: il numero n1 corrisponde al numero quantico dell’orbita da cui “parte” l’elettrone, il
numero n2 a quello dell’orbita a cui l’elettrone arriva.
Con l’introduzione del concetto di quantizzazione nella descrizione dell’atomo, il modello di Bohr era stato
un enorme passo avanti: dava una risposta ai problemi che la fisica classica non era riuscita a spiegare, e le
sue previsioni erano in accordo con i dati sperimentali, soprattutto per quanto riguarda l’atomo di idrogeno;
ma il futuro riservava ai fisici nuove sorprese, perché la natura e il comportamento dell’elettrone si
sarebbero rivelati molto più complessi di quelli delineati dal modello di Bohr.
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