Galileo Galilei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai movimenti locali Il termine meccanica del titolo possiede, all’epoca di Galileo, ancora il vecchio significato di “teoria delle macchine”. Solo con Newton e Leibniz la parola verrà ad indicare quella branca della fisica comprendente statica (scienza dell’equilibrio), cinematica (scienza della velocità) e dinamica (scienza della forza e dell’energia). Ai tempi di Galileo questa distinzione non è ancora maturata, ma già è stato compiuto un passo decisivo, che eleva la meccanica al rango di disciplina di studio, riscattandola dalla connotazione negativa che possedeva nel Medioevo: non è più la pratica manuale dei vili artigiani, contrapposta alla più nobile attività intellettuale, e, per di più, è la forza motrice del progresso umano. Questa convinzione è alla base della fondazione di molte Accademie, che, a partire dal Seicento, si pongono in alternativa all’università come veri e propri laboratori di scambio e sperimentazione. Galileo ha dimostrato forse più di ogni altro - pur non essendo il primo in tal senso - come la scienza possa coniugarsi al campo delle applicazioni tecniche, attingendovi validi strumenti (il cannocchiale) ed utili esperienze (le dimostrazioni meccaniche di Archimede, ispirate a principi di statica, l’esperienza degli addetti alle pompe che suggerisce l’esistenza della pressione atmosferica). La scienza può alimentare, a sua volta, la tecnica con nuove conoscenze: basti ricordare le invenzioni giovanili di Galileo, ad esempio la bilancetta dei pesi specifici, il primo rudimentale termobarometro, e gli scritti padovani, come la Breve instruzione all’architettura militare, il Trattato delle fortificazioni, il Trattato delle meccaniche (in cui si parla di leva, stadera, vite ed argano) e Le operazioni del compasso geometrico e militare, oppure i suoi studi sulle tecniche di navigazione, e sulle pompe per irrigare i campi. Tutte queste opere maturano in un periodo in cui Galileo affianca allo studio ed all’insegnamento il lavoro d’officina affidato al meccanico Marcantonio Mazzoleni - e la frequentazione dell’Arsenale di Venezia, come lui stesso ricorda nell’Introduzione ai Discorsi. L’accostamento alla meccanica coincide con l’affrancamento dalla speculazione metafisica e dalla filosofia, del quale Galileo era sempre stato convinto sostenitore, in opposizione all’aristotelismo. C’è da dire che Galileo non fece altro che raccogliere e fare propri i frutti di un processo di profonda trasformazione della società, iniziato nel Quattrocento con l’espansione urbanistica e il rifiorire delle arti, che stava creando esigenze sempre nuove. Con lo sviluppo dei commerci e della navigazione, ad esempio, era divenuta pressante la necessità di risolvere il problema della longitudine. Galileo prosegue il filone che, con un neologismo, potremmo chiamare scientifico-tecnologico, iniziato con la Nova Scientia ed i Quesiti et Inventioni Diverse del Tartaglia e i Ludi Matematici di Leon Battista Alberti. D’altra parte il pensiero galileiano e la sua volontà di rottura con la tradizione a favore di una nuova, diretta e illuminata visione della realtà, sono già interamente contenuti nel sonetto che il Tartaglia dedica ai suoi lettori. Il personale contributo del Galilei sta nell’aver insistito in modo particolare sull’importanza del metodo matematico, che egli, naturalmente, non manca di menzionare nel titolo dei Discorsi. In realtà, il primo ad applicare la matematica allo studio del moto era stato il filosofo francese Nicola Oresme, nel Trecento. La modernità di Galileo emerge anche dalla sua scelta - condivisa dal Tartaglia - di parlare di scienza in italiano, anziché in latino, la tradizionale lingua dei dotti. I Discorsi sono redatti sotto forma di disputa scientifica, come il Saggiatore, e presentano la stessa struttura del Dialogo, da cui Galileo riprende anche i personaggi, i suoi amici Salviati e Sagredo, e l’aristotelico Simplicio. Sono scomparsi, però i toni polemici e mordaci dell’opera precedente. Gli argomenti trattati sono simili a quelli del Dialogo, di cui i Discorsi sono un approfondimento. Galileo aveva iniziato la stesura dei Discorsi durante l’esilio senese. La prima versione fu stampata a Leida nel 1638. Essa è suddivisa in quattro giornate: le prime due trattano principalmente della resistenza dei materiali, la prima delle nuove scienze citate nel titolo. Secondo lo spirito annunciato nell’introduzione all’opera, Galileo trae spunto dalla pratica delle costruzioni meccaniche: due macchine simili, aventi la stessa forma e le stesse proporzioni, ma di diversa grandezza, non sono ugualmente robuste. D’altronde, pare che la stessa legge valga anche per gli esseri viventi, come osserva il Salviati: “Chi non vede come un cavallo cadendo da un’altezza di tre braccia o quattro si romperà l’ossa, ma un cane da una tale, e un gatto da una di otto o dieci, non si farà mal nissuno, come né un grillo da una torre, né una formica precipitando dall’orbe lunare? I piccoli fanciulli restare illesi in caduta dove i provetti si rompono gli stinchi o la testa? E come gli animali più piccoli sono, a proporzione, più robusti, e forti de i maggiori, così le piante minori meglio si sostentano: e già credo che amendue voi apprendiate che una quercia dugento braccia alta non potrebbe sostenere i suoi rami sparsi alla similitudine di una mediocre grandezza, e che la natura non potrebbe fare un cavallo grande per venti cavalli, né un gigante dieci volte più alto di un uomo, se non o miracolosamente o con l’alterar assai le proporzioni delle membra ed in particolare dell’ossa, ingrossandole molto sopra la simmetria dell’ossa comuni.” Gli oggetti reali possiedono dunque proprietà intrinseche che prescindono dalla forma geometrica. Esse dipendono dalla struttura della materia, che è composta di atomi: in particolare, la resistenza dei corpi ai tentativi di deformarli o romperli sarebbe in parte - come nella visione aristotelica - la reazione naturale dei corpi, che si opporrebbero alla creazione del vuoto al loro interno, in parte sarebbe l’effetto di un sistema interno di leve, e potrebbe quindi essere studiata in termini di momento. Questo termine, risalente ad Erone, viene così definito da Galileo nel Trattato delle meccaniche: “Momento è la propensione di andare al basso, cagionata non tanto dalla gravità del mobile, quanto dalla disposizione che abbino tra di loro diversi corpi gravi; mediante il qual momento si vedrà molte volte un corpo men grave contrapesare un altro di maggior gravità: come nella stadera si vede un picciolo contrapeso alzare un altro peso grandissimo, non per eccesso di gravità, ma sì bene per la lontananza del punto donde viene sostenuta la stadera; la quale, congiunta con la gravità del minor peso, gli accresce momento ed impeto ad andare al basso, col quale può eccedere il momento dell’altro maggior grave. È dunque il momento quell’impeto di andare al basso, composto di gravità, posizione e di altro, dal che possa esser tale propensione cagionata.” Nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, o che in quella si muovono, Galileo generalizza questa definizione, applicandola ad un più ampio spettro di situazioni fisiche: “Momento, appresso i meccanici, significa quella virtù, quella forza, quella efficacia, con la quale il motor muove e’l mobile resiste; la qual virtù depende non solo dalla semplice gravità, ma dalla velocità del moto, dalle diverse inclinazioni degli spazii sopra i quali si fa il moto, perché più fa impeto un grave discendente in uno spazio molto declive che in un meno. Ed in somma, qualunque si sia la cagione di tal virtù, ella tuttavia ritien nome di momento. Né mi pareva che questo senso dovesse giugner nuovo nella nostra favella; perché, s’io, non erro, mi par che noi assai frequentemente diciamo: “Questo è ben negozio grave, ma l’altro è di poco momento” e “Noi consideriamo le cose leggiere, e trapassiamo quelle che son di momento”: metafore, stimer’io, tolte dalla meccanica.” Lo spazio declive Dialogo. è il piano inclinato, che Galileo tratta anche nel La parola momento è tuttora in uso nella terminologia fisica, dove possiede ancora la valenza di potenzialità: - il momento di una leva è il prodotto della distanza dal fulcro su cui viene esercitata la forza (braccio della leva) per la forza stessa; esso misura l’efficacia della forza applicata; - il momento d’inerzia di un corpo esteso rispetto ad un asse è un numero che descrive la distribuzione “media” della massa intorno all’asse stesso, ed esprime la “capacità” del corpo di ruotare intorno a quest’ultimo. Lo si calcola con un integrale. A proposito dell’uso del termine nel linguaggio letterario, Devoto ed Oli, nel loro vocabolario della lingua italiana, registrano il significato di “efficacia intrinseca” o “potere determinante”, che corrisponde perfettamente alla definizione galileiana. Il concetto di impeto, che non viene mai definito con precisione, è spesso accostato ad altri, che dovrebbero chiarirne l’idea: a proposito del moto di un corpo lungo un piano inclinato, Galileo parla dell’“impeto, il talento, l’energia, o vogliamo dire il momento, del descendere”, altrove si legge di “impeto, energia, momento, propensione al moto”, che, nel caso del proiettile, è anche descritto come la “forza” impressa dal cannone nel momento dello sparo. Solo con la meccanica di Newton e Leibniz questi termini verranno a indicare grandezze fisiche precise e distinte. In più punti dei Discorsi ricorre la parola velocità: ma Galileo non la definisce mai come la nozione matematica che intendiamo noi, anche se, certamente, è questa l’idea che egli ha in mente. Egli non utilizza la velocità come grandezza numerica a sé stante, ragiona invece sempre in termini relativi, confrontando due velocità, calcolandone il rapporto. Come vedremo, le sue dimostrazioni sono essenzialmente effettuate in termini di proporzioni. Galilei considera come grandezze assolute solo le quantità che può misurare direttamente: lo spazio ed il tempo. Su queste egli basa la sua matematizzazione dei fenomeni naturali, segnando un fondamentale progresso rispetto a Cartesio, le cui opere fisiche mancano completamente di formule. La strada è aperta al calcolo infinitesimale, che sarà introdotto da Newton e Leibniz. Nelle prime due giornate dei Discorsi vengono affrontati anche argomenti di natura pratica, come la compressione dei fluidi, il moto dei corpi nei vari mezzi, l’acustica applicata alla risonanza ed alla teoria degli intervalli musicali e la meccanica applicata al moto degli esseri viventi. Una delle principali osservazioni della prima giornata è quella secondo cui tutti i gravi aventi la stessa forma e lo stesso peso specifico cadono, in uno stesso mezzo, con uguale velocità: è quanto risulta dal principio d’Archimede. Contraddicendo Simplicio, che sostiene, con Aristotele, che la velocità di caduta è proporzionale al peso (“una palla di ferro di cento libbre, cadendo dall’altezza di cento braccia, arriva in terra prima che una di una libbra sia scesa un sol braccio”) Sagredo afferma: “Ma io, Sig. Simplicio, che n’ho fatto la prova, vi assicuro che una palla d’artiglieria, che pesi cento, dugento e anco più libbre, non anticiperà di un palmo solamente l’arrivo in terra della palla d’un moschetto, che ne pesi una mezza, venendo anco dall’altezza di dugento braccia.” Questo principio è suffragato dalle esperienze del piano inclinato e del pendolo, presentate dal Salviati: “In oltre, per potermi prevaler di moti quanto si possa tardi, ne i quali manco lavora la resistenza del mezzo in alterar l’effetto che depende dalla semplice gravità, sono andato pensando di fare scendere i mobili sopra un piano declive, non molto elevato sopra l’orizontale; ché sopra questo, non meno che nel perpendicolo, potrà scorgersi quello che facciano i gravi differenti di peso; e passando più avanti, ho anco voluto liberarmi da qualche impedimento che potesse nascer dal contatto di essi mobili su ’l detto piano declive: e finalmente ho preso due palle, una di piombo ed una di sughero, quella ben più di cento volte più grave di questa, e ciascheduna di loro ho attaccata a due sottili spaghetti eguali, lunghi quattro o cinque braccia, legati ad alto; allontanata poi l’una e l’altra palla dallo stato perpendicolare, gli ho dato l’andare nell’istesso momento, ed esse, scendendo per le circonferenze de’ cerchi descritti da gli spaghi eguali, lor semidiametri, passate oltre al perpendicolo, son poi per le medesime strade ritornate indietro; e reiterando ben cento volte per lor medesime le andate e le tornate, hanno sensatamente mostrato, come la grave va talmente sotto il tempo della leggiera, che né in ben cento vibrazioni, né in mille, anticipa il tempo d’un minimo momento, ma camminano con passo egualissimo. Scorgesi anco l’operazione del mezzo, il quale, arrecando qualche impedimento al moto, assai più diminuisce le vibrazioni del sughero che quelle del piombo, ma non però che le renda più o men frequenti; anzi quando gli archi passati dal sughero non fusser più che di cinque o sei gradi, e quei del piombo di cinquanta o sessanta, son eglin passati sotto i medesimi tempi.” Smentendo altre tesi aristoteliche con ulteriori evidenze sperimentali, Salviati convince i suoi interlocutori che il moto nel vuoto è possibile, e che anche l’aria possiede un peso. Inoltre viene messa in dubbio la credenza secondo cui la propagazione della luce è istantanea: non potrebbe essa avvenire con velocità elevatissima, ma comunque finita? Nella prima giornata viene anche affrontato il problema dell’infinito in matematica, legato alla questione dell’infinitamente piccolo e della struttura atomica della materia. Vi compare anche un teorema sui poligoni, il cui enunciato è il seguente: la media proporzionale tra l’area di un poligono circoscritto ad un cerchio e l’area di un secondo poligono, simile al primo, avente lo stesso perimetro del cerchio è pari all’area del cerchio. In formule: dette A, B, C le aree del poligono circoscritto, del secondo poligono e del cerchio rispettivamente, vale la proporzione: A : C = C : B. Essendo, naturalmente, A maggiore di C, si deduce che C è maggiore di B. Se ne conclude che l’area di un cerchio è maggiore dell’area di un qualunque poligono avente il suo stesso perimetro (poligono isoperimetrico). Più in generale, Salviati dimostra che tra due poligoni regolari isoperimetrici, quello avente l’area maggiore è quello con il maggior numero di lati: ad esempio, un ettagono ha un’area maggiore di un pentagono avente lo stesso perimetro. La seconda giornata si apre con l’enunciazione del principio della leva, che è poi quello sul quale si basa l’equilibrio di una stadera alla quale siano agganciati diversi pesi. La terza e la quarta giornata sono dedicate al moto dei corpi, e gettano le basi della dinamica (la seconda delle nuove scienze). Salviati legge e commenta un trattato giovanile di Galilei, intitolato De motu. Galileo studia innanzitutto il moto inerziale, cioè il moto dei corpi in assenza di azioni esterne, che è quello uniforme (“equabile”) ed avviene sul piano orizzontale (ossia sulla superficie terrestre, le cui porzioni piccole - locali - appaiono effettivamente come regioni di piano): “Moto eguale o uniforme intendo quello in cui gli spazi percorsi da un mobile in tempi eguali, comunque presi, risultano tra di loro eguali.” Questa definizione è seguita da assiomi: ASSIOMA 1 In uno stesso moto equabile, lo spazio percorso in un tempo più lungo è maggiore dello spazio percorso in un tempo più breve. ASSIOMA 2 In uno stesso moto equabile, il tempo in cui è percorso uno spazio maggiore è più lungo del tempo impiegato a percorrere uno spazio minore. ASSIOMA 3 Lo spazio, percorso in un dato tempo a velocità maggiore, è maggiore di quello percorso, nello stesso tempo, a velocità minore. ASSIOMA 4 La velocità, con cui in un dato tempo viene percorso uno spazio maggiore, è maggiore di quella con cui, nello stesso tempo, viene percorso uno spazio minore. Quindi vengono enunciati teoremi e proposizioni, come, ad esempio, il seguente: “Se un mobile, dotato di moto equabile, percorre due spazi con una stessa velocità, i tempi dei moti staranno tra di loro come gli spazi percorsi.” Con questa suddivisione Galileo riproduce la struttura logica degli Elementi di Euclide. Il secondo tipo di moto trattato è quello uniformemente (“naturalmente”) accelerato (“moto equabilmente, ossia uniformemente accelerato, dico quello che, a partire dalla quiete, in tempi eguali acquista eguali momenti di velocità.”), cioè quello in cui la velocità cresce proporzionalmente al tempo trascorso, e che Galileo riconosce come quello della caduta dei gravi. TEOREMA1. Il tempo in cui uno spazio dato è percorso da un mobile con moto uniformemente accelerato a partire dalla quiete, è eguale al tempo in cui quel medesimo spazio sarebbe percorso dal medesimo mobile mosso di moto equabile, il cui grado di velocità sia sudduplo [la metà] del grado di velocità ultimo e massimo [raggiunto dal mobile] nel precedente moto uniformemente accelerato. Noi sappiamo che, in generale, lo spazio percorso in un certo intervallo di tempo è pari al prodotto di quest’ultimo per la velocità media. Se il moto è uniformemente accelerato, cioè l’accelerazione è costante, allora la velocità media è la media aritmetica delle velocità iniziale e finale (ossia la loro somma divisa per due): questo è, espresso in termini moderni, l’enunciato del teorema precedente. Galileo rappresenta l’intervallo di tempo mediante il segmento AB: ogni suo punto corrisponde ad un istante, la sua lunghezza è pari all’ampiezza dell’intervallo, una volta fissata per entrambe un’unità di misura. I segmentini verticali rappresentano i valori della velocità nei singoli istanti. La velocità iniziale è nulla, quella finale è pari alla lunghezza del segmento EB. La velocità media è raggiunta all’istante H: essa corrisponde al segmento IH, che è pari alla metà di EB. Secondo il teorema di Galileo, lo spazio percorso è pari al prodotto IH · AB, che è poi l’area del rettangolo ABFG. Osserviamo che questa è uguale all’area del triangolo rosso. Interpretando, in termini moderni, il segmento AB come l’ascissa temporale e il segmento AG come l’ordinata della velocità, il segmento AE è il grafico della funzione v = v(t) della velocità nel generico istante t. L’area in questione si ottiene come integrale di tale funzione nell’intervallo tra l’istante iniziale ti e l’istante finale tf del moto. v t ti tf Vediamo così che Galilei giunge per mezzo della geometria classica allo stesso risultato che noi potremmo facilmente dedurre con gli strumenti del calcolo infinitesimale. Nel caso del moto uniformemente accelerato sappiamo che la funzione è v(t) = at, dove a è il valore costante dell’accelerazione. Lo spazio percorso al tempo t è dunque s(t) = ½ at2. Così, per noi è immediato concludere che, per due generici istanti t1 e t2, valgono le proporzioni: s(t1) : s(t2) = t12 : t22 = v(t1)2 : v(t2)2. Le stesse possono essere ricavate, senza ricorrere a formule analitiche, semplicemente ragionando sulle aree di triangoli simili: v(t2) v(t1) t1 s(t1) t2 s(t2) Componendo il moto equabile e quello naturalmente accelerato, Galileo determina il moto dei proiettili, lanciati con una certa velocità verso l’alto e soggetti alla sola accelerazione di gravità, il cosiddetto moto violento a cui è dedicata la quarta giornata. Galileo lo descrive con queste parole: “Immagino di avere un mobile lanciato su un piano orizzontale, rimosso ogni impedimento; già sappiamo, per quello che abbiamo detto più diffusamente altrove, che il suo moto si svolgerà equabile e perpetuo sul medesimo piano, qualora questo si estenda all’infinito; se invece intendiamo [il piano] limitato e posto in alto, il mobile, che immagino dotato di gravità, giunto all’estremo del piano e continuando la sua corsa, aggiungerà al precedente movimento equabile e indelebile quella propensione all’in giù dovuta alla propria gravità: di qui vien fuori un movimento composto di quello equabile orizzontale e di quello in giù naturalmente accelerato, il quale chiamo proiezione.” La composizione dei moti avviene secondo la seguente proposizione: “Se un mobile si muove con moto composto di due equabili, l’uno orizzontale e l’altro perpendicolare, l’impeto o momento del movimento composto da ambedue sarà in potenza eguale ai due momenti dei primi moti” Se i cateti del triangolo rettangolo rappresentano la velocità orizzontale e verticale, la velocità risultante (l’impeto del moto composto) è rappresentata dall’ipotenusa: secondo il teorema di Pitagora, il quadrato del suo valore è pari alla somma dei quadrati dei valori delle altre due velocità. Galileo usa il termine potenza per indicare il quadrato. A questo punto non è difficile riconoscere nella proposizione di Galileo quella che noi chiamiamo la “regola del parallelogramma”, e che utilizziamo per sommare le grandezze vettoriali, come le velocità o le forze. La traiettoria descritta da un proiettile è un arco di parabola. Galileo lo dimostra per via geometrica, utilizzando i teoremi contenuti nelle Sezioni coniche di Apollonio. a Galileo immagina che un oggetto, a cui è stata impressa una certa velocità orizzontale (da destra a sinistra nella figura) che, per comodità chiameremo v0, venga lasciato cadere dal punto b. Da quel momento in poi il moto dell’oggetto sarà composto da un moto orizzontale uniforme con velocità v0 e da un moto verso il basso determinato dall’accelerazione di gravità. L’oggetto percorrerà la traiettoria bec, un arco di parabola avente vertice in b, e toccherà il suolo nel punto c. Allora avrà percorso, orizzontalmente, un tratto di lunghezza cd (detta ampiezza della parabola) e, verticalmente, un tratto pari a bd, l’altezza della parabola. Galileo considera il punto a, che è quello da cui - in teoria - dovrebbe essere lasciato cadere l’oggetto affinché la velocità di caduta raggiunta nel punto b sia pari a v0. Adotteremo la lunghezza ab come misura della velocità v0. Supponiamo, per fissare le idee, che la lunghezza di bd sia pari ad ab. Illustriamo il modo in cui Galileo determina la velocità in un qualunque punto e della traiettoria. Egli conduce la perpendicolare a bd dal punto e, sia f il piede di questa perpendicolare. La velocità verticale v acquisita dal corpo nel punto e è quella con cui un corpo, cadendo da b, attraversa il punto f. Ora, essendo il moto uniformemente accelerato, vale la proporzione: v02 : v2 = bd : bf . Ma, d’altra parte, v0 = bd. Dunque bd : v = v : bf (1) ossia v è la media proporzionale (geometrica) di bd e bf, e, come dimostrato da Euclide, può essere costruita con riga e compasso. Nella figura il segmento bo rappresenta questa media proporzionale. La velocità dell’oggetto nel punto e è quindi l’ipotenusa del triangolo rettangolo abo: a o b Tale ipotenusa individua la direzione tangente alla parabola nel punto e. In un piano cartesiano come quello raffigurato, la parabola è il grafico di una funzione y = f(x). Il calcolo differenziale ci insegna che il rapporto tra il cateto verticale e quello orizzontale del triangolo rettangolo è pari al valore della derivata f’(x) ed è il coefficiente angolare della retta tangente al grafico nel punto e. Noi, che abbiamo a disposizione gli strumenti analitici sviluppati da Newton e Leibniz, avremmo risolto il problema con la derivazione. avvalersi solo della geometria classica. Ma Galileo può L’oggetto cade da b con velocità verticale inizialmente nulla, mentre a la velocità verticale raggiunta al suolo è proprio v0. Dunque l’oggetto cade lungo bd con velocità media v0/2. Inoltre, mentre cade lungo bd, la sua velocità orizzontale è doppia rispetto a quella media di caduta, e dunque, al momento di toccare il suolo, l’oggetto avrà percorso un tratto di lunghezza cd = 2bd = ab. Segue che ab = bi. Secondo la regola del parallelogramma, la velocità risultante con cui l’oggetto colpisce il suolo è l’ipotenusa di un triangolo rettangolo isoscele i cui cateti valgono v0. Essa è dunque rappresentata da ai. In particolare l’oggetto giunge a terra con un’inclinazione di 45° gradi. Finora abbiamo parlato di corpi lasciati cadere dall’alto con una certa velocità orizzontale: cosa ha a che fare questa situazione con quella da cui siamo partiti, ossia quella di un cannone che spara? La risposta è semplice: quella che abbiamo studiato è la semiparabola discendente. Essa è simmetrica rispetto alla semiparabola ascendente: Il punto b è il punto di altezza massima raggiunto dal proiettile. Nel generico punto ē della semiparabola ascendente la velocità (tracciata in verde) è uguale in valore, ed ha direzione simmetrica, rispetto alla velocità nel punto simmetrico e. In particolare il proiettile colpisce il suolo in c con la stessa velocità e la stessa inclinazione con cui viene sparato dal punto ĉ. Si suppone di poter trascurare la resistenza dell’aria. Consideriamo ora la parabola di un qualunque tiro di cannone, in cui l’ampiezza e l’altezza sono in una qualunque proporzione. Sia v0 la velocità orizzontale impressa al proiettile, e sia vd la velocità verticale raggiunta dal proiettile nel momento in cui tocca il suolo. Si ha la proporzione v02 : vd2 = ab : bd. Il proiettile percorre l’altezza bd con velocità media vd/2. Nello stesso intervallo di tempo esso percorre in orizzontale la distanza cd, dunque: cd : v0 = 2bd : vd. Se ne deduce che cd2 = 4 bd · ab. In altri termini, l’ampiezza è il doppio della media proporzionale di bd e ab. Con altri ragionamenti geometrici Galileo dimostra che la gittata massima di un cannone si ottiene inclinandolo di 45°, ciò che gli artiglieri sapevano per esperienza. Già il Tartaglia, pur non conoscendo la forma esatta della traiettoria di un proiettile, aveva tentato una giustificazione matematica di questo fatto. La tesi sostenuta da Galileo sulla forma parabolica delle traiettorie suscitò molta perplessità nella comunità scientifica. Keplero, in particolare, osservò che essa poteva essere vera solo con approssimazione: la vera forma della traiettoria, in conformità alle sue leggi sui moti gravitazionali, doveva essere un arco di ellisse, avente uno dei due fuochi nel centro della Terra. Galileo nota la somiglianza tra la traiettoria di un proiettile e la forma assunta da una corda appesa per gli estremi, e ne cerca una giustificazione fisica. Oggi noi sappiamo che la corda assume la forma di una curva detta catenaria, la cui equazione coinvolge funzioni trascendenti. In appendice ai Discorsi venne pubblicato uno scritto giovanile in cui Galileo studiava i baricentri di alcuni solidi, tra cui il conoide parabolico, (oggi chiamato paraboloide rotondo) il solido ottenuto facendo ruotare una parabola intorno al suo asse. Il baricentro di questo si trova sull’asse, e “divide l’asse in modo che la parte verso il vertice è doppia della rimanente parte verso la base”. Nel disegno il conoide è visto in sezione. Il punto n divide l’asse nel rapporto 1 a 2. Galileo dimostra che questo è il baricentro col metodo di esaustione. Egli considera una figura “a gradini” inscritta nel conoide (quella evidenziata in celeste) ed un’altra analoga figura circoscritta. I loro baricentri si trovano sull’asse del conoide, nei punti e rispettivamente. È facile vedere che il baricentro del conoide è situato sull’asse, al di sopra di e al di sotto di . Inoltre, come è possibile dimostrare, lo stesso vale per il punto n. Ora è possibile scegliere le figure inscritta e circoscritta in modo che e siano quanto si voglia vicini. Ciò dimostra che il baricentro del conoide deve coincidere col punto n. Galilei avrebbe voluto pubblicare una nuova edizione dei Discorsi, aggiungendo altre due giornate, riguardanti rispettivamente le proporzioni, con particolare riferimento alla quinta ed alla settima delle Definizioni del Libro V degli Elementi di Euclide, e la percossa (in termini moderni: la variazione di quantità di moto causata da un urto). La vecchiaia e la progressiva cecità gli furono, però, di grande ostacolo: dovette avvalersi dell’aiuto di Viviani e di un suo nuovo allievo, il giovane Evangelista Torricelli, che lo assistette negli ultimi tre mesi. La morte impedì a Galileo di portare a termine il suo progetto. I frammenti delle due giornate conclusive furono pubblicati dopo molti anni, nel 1674 e nel 1718. Nella sesta giornata non compare più la figura di Simplicio, sostituita da quella di un discepolo di Galilei, Paolo Aproino di Treviso. Dai Discorsi emerge la concezione galileiana della matematica come mezzo per meglio capire e sfruttare la natura, anziché come fine, come oggetto di studio interessante di per sé. Galileo non prestò mai troppa attenzione alla matematica pura (aritmetica e geometria) che pure aveva interessato anche il Tartaglia. Egli si dedicò interamente a quella che allora veniva detta “matematica mista”, e che oggi chiameremmo “matematica applicata”. Ciò spiega la diffidenza dimostrata nei confronti della teoria degli indivisibili del suo allievo Cavalieri, che invano aveva ripetutamente cercato di sollecitare una collaborazione sull’argomento. Le difficoltà che per Galileo sono insite nel concetto di infinito ed infinitesimo emergono chiaramente da alcuni brani dei Discorsi. L’infinito per Galilei Il frontespizio dell’opera