Ghandi: la storia
Interviste immaginarie a giuristi e legislatori:
Gandhi
Mario Scaffidi Abbate
Docente di Letteratura italiana
‘A
chi tocca questa volta?’. Mi sono detto oggi
mentre, seduto in poltrona, come al solito,
per la mia pennichella pomeridiana, andavo
ripassando mentalmente l’elenco dei giuristi che ho
buttato giù per le mie interviste immaginarie. Ho chiuso gli occhi per concentrarmi meglio e ho lasciato che
le immagini scorressero libere nella mia mente, finché
mi è apparso un uomo dall’aspetto stravagante: piccolo
di statura, calvo, sdentato e con un paio di occhialini
sul naso, il busto completamente scoperto con una semplice fascia di lana intorno ai fianchi, nude le gambe e
scalzo.
“Gandhi!”, ho esclamato: il “mahatma”, la grande
anima dell’India. “Lei è stato davvero un novello
Cristo”, mi è scappato di dirgli: “provava per i poveri e
per gli infelici un amore così smisurato da spogliarsi di
tutto”.
“Pure san Francesco si spogliò dei suoi abiti”, ha
ribattuto lui.
“Ma indossò un saio! Lei, invece, neppure quello.
La miseria del popolo indiano l’ha talmente colpita da
spingerla addirittura a spogliarsi delle vesti e ad indossare niente altro che una fascia intorno ai fianchi. O ad
avvolgersi addosso un semplice panno di cotone. Nudo
di fronte alla miseria degli altri: un bell’esempio, un
bell’insegnamento, unico davvero. Ma mi tolga una
curiosità. Perché non si faceva rimettere i denti che le
cadevano?”.
“Non li sostituivo perché volevo essere come gl’indiani poveri che non potevano permettersi di andare dal
dentista”.
“La natura l’ha fatta a immagine e somiglianza della
povertà, l’ha resa quanto più possibile vicina a coloro
che soffrono. In questo lei ha superato anche Gesù. E
nonostante ciò la sua personalità ha esercitato ed esercita tuttora un fascino straordinario”.
“È Dio che ha voluto così. Io non sono stato altro
che un suo strumento. Come tutti, del resto”.
“La religione è stata la sua forza. Lei l’ha infilata
dovunque, anche nella politica”.
“Per gli indiani la religione è la colonna portante del
grande tempio della vita. Chi afferma che la religione
non ha nulla a che fare con la politica non conosce il
suo vero significato”.
“In particolare lei è un fedele di Visnù. Perché?”.
“Perché Visnù è il dio tutto dolcezza e bontà, benevolo e misericordioso”.
“Ma cos’è propriamente che l’ha trascinata alla politica?”.
“L’amore per la verità. Per penetrare l’universale e
l’immanente Spirito di Verità uno dev’essere capace di
amare la più piccola cosa della creazione come se stesso. E un uomo che aspiri a oltrepassare questo limite
non può trascurare nessun campo d’azione”.
“L’amore è stato la sua arma pacifica. Ma mi dica
qualcosa della sua infanzia, dell’ambiente familiare in
cui ha ricevuto i primi insegnamenti”.
“Era un ambiente ordinato e raccolto che ha lasciato in me un’impronta indelebile. Mio padre era funzionario statale e mia madre era molto devota. Dopo aver
compiuto a Porbandar, la mia città natale, un regolare
corso di studi, per avere un contatto diretto con la civiltà occidentale, mi recai a Londra dove frequentai la
facoltà di Legge. Dopo la laurea tornai in India, a
Mumbai. Fu lì che iniziai a svolgere la mia professione
di avvocato”.
“Ha qualche ricordo particolare di quel periodo?”.
“Sì. Un giorno, mentre in tribunale difendevo mio fratello, ch’era stato accusato ingiustamente, un funzionario
britannico m’ingiuriò, al che io protestai e lui mi rispose
che chi è socialmente inferiore non ha diritti. Ebbene, in
quel gesto io vidi un’offesa fatta non a me, ma all’uomo,
alla sua dignità, e decisi che da quel giorno non avrei più
fatto ricorso ai tribunali per motivi personali”.
“Fu per questo che lasciò l’India e si trasferì in
Sudafrica”.
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“Dove pure dovetti subire soprusi da parte dei bianchi: stavo salendo sulla nave per tornare in India. Quelle
offese mi fecero cambiare idea e ritenni mio dovere
restare laggiù per combattere la segregazione razziale”.
“Fu dunque lì che cominciò la missione della sua
vita, quella, cioè, di assistere e proteggere chi è privo di
difesa, vittima di leggi ingiuste fatte a vantaggio dei
potenti”.
“Rimasi in Sudafrica ventuno anni, facendo il consulente legale per una ditta indiana, fino a quando, nel
1904, abbandonai la professione per dedicarmi interamente alla causa umanitaria, per difendere i diritti civili e dare all’India l’indipendenza”.
“Lei ha dato l’avvio a un nuovo umanesimo per
l’avvocatura, riscattando una categoria professionale
che oggi attraversa una profonda crisi d’identità e
dimostrando che un avvocato dev’essere disposto a lottare, perché ogni legge contiene una certa dose d’ingiustizia”.
“Ma la legge non è un dogma. Bisogna avere il
coraggio di opporvisi, quando sia necessario, ma senza
arroganza, senza violenza, senza presunzione, con
assoluta fermezza ogni qualvolta ci sembri che sia in
giuoco quell’ordine morale in cui risiede la verità più
profonda degli istituti sociali e politici che gli uomini si
danno”.
“Lei è un tipo ideale per chi esercita la professione di
avvocato tanto più in un sistema giudiziario incapace di
soddisfare le aspettative di giustizia dei cittadini, un difensore degli indifesi, l’avvocato premuroso e generoso”.
“Io ho sempre detto: ‘Non ho nulla di nuovo da
insegnare al mondo. La verità e la nonviolenza sono
antiche come le montagne’”.
“Nel 1906 lei lanciò la prima campagna di lotta fondata sul satyagraha (‘stretta adesione alla verità’) e
sulla pratica della disobbedienza civile non violenta.
Una iniziativa che ebbe successo tanto che di lì a qualche anno venne decretata l’abolizione di alcune leggi di
discriminazione razziale. Ma in che consiste esattamente la disobbedienza civile?”.
“Consiste nel violare pubblicamente e consapevolmente le leggi o i comandi amministrativi ritenuti
ingiusti, ma accettando le punizioni previste per le violazioni commesse. Alcuni esempi: non pagare le tasse,
l’obiezione di coscienza al servizio militare, la violazione delle norme legislative o degli atti amministrati-
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vi che limitano illegittimamente le libertà fondamentali: stampa, manifestazioni, scioperi, riunioni”.
“Tutti dovrebbero avere il coraggio della disobbedienza civile, quando, per esempio, un sindaco non si
sente in coscienza, anche di fronte a Dio, di celebrare
le ‘nozze’ fra due individui dello stesso sesso, quando
un medico si rifiuta di praticare un aborto, o quando un
cittadino non paga il canone della televisione inserito
nella bolletta della luce, con la conseguenza che se non
lo paga gli viene tolta la corrente”.
“Dura lex sed lex, ma non iniusta lex sed lex. Una
legge ingiusta, che contrasta con la coscienza e con la
libertà dell’individuo può non essere rispettata. A volte
gli atti di disobbedienza civile possono essere puramente simbolici, come fu per l’estrazione del sale”.
“Cioè?”.
“Nel marzo del 1930 intrapresi una campagna contro la tassa del sale e il regime che l’aveva alzata. La
marcia partì con settantotto satyagrahi. Arrivati sulle
coste dell’Oceano indiano estraemmo il sale in aperta
violazione del monopolio reale, imitati dalle migliaia di
indiani che si erano uniti a noi. Questa campagna, una
delle più riuscite nella storia dell’indipendenza non
violenta dell’India, venne brutalmente repressa dalle
autorità britanniche, che reagirono picchiando parecchi
satyagrahi e imprigionando più di 60.000 persone.
Anch’io fui arrestato, insieme a molti membri del
Congresso”.
“Per lei la disobbedienza civile ha rappresentato la
forma culminante di resistenza non violenta, un diritto
inviolabile di ogni cittadino”.
“Rinunciare a tale diritto significa cessare di essere
uomini. Io ho trascorso 2.338 giorni di detenzione in
Sudafrica e in India a causa degli arresti dovuti alle mie
lotte politiche”.
“Da dove le venne l’idea della non violenza?”.
“Dal Vangelo, soprattutto dal discorso della
Montagna: ‘Beati quelli che hanno fame e sete della
giustizia, perché verranno saziati’. Quanto alla frase
‘Occhio per occhio, dente per dente’ io ho sempre consigliato di porgere l’altra guancia, di amare i nemici e
pregare per chi ci vuole male. Per me la giustizia risiede nella riduzione del tasso di violenza presente nella
società. Se si utilizza la violenza, anche se per un breve
periodo, per ottenere giustizia ciò porta inevitabilmente
a un aumento del tasso di violenza. Il mezzo deve esse3
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re coerente col fine. Se il fine della lotta per la giustizia
è la negazione della violenza non lo si può realizzare
facendo ricorso alla violenza. Io non credo nelle vittorie
ottenute in fretta, con la violenza. Io sono inflessibilmente contrario ai metodi violenti, anche quando vengono posti al servizio della causa più nobile.
L’esperienza infatti mi ha insegnato che dalla falsità e
dalla violenza non possono scaturire risultati positivi”.
“Quand’è che ha sperimentato per la prima volta la
resistenza non violenta?”.
“Nel Sudafrica, dove mi ero recato per motivi legati alla mia professione di avvocato, e decisi di rimanervi per difendere i diritti degli indiani immigrati e lottare contro l’apartheid, la segregazione razziale imposta
dai colonizzatori bianchi. Il più grande risultato conseguito fu la liberazione quasi incruenta del mio Paese
dalla dominazione inglese. La lotta per l’autonomia e
poi per l’indipendenza dell’India, durata circa un trentennio, dal 1919 al 1947, si attuò dapprima mediante la
non cooperazione con le autorità coloniali, consistente
nella non partecipazione agli uffici pubblici e nella
rinuncia di acquistare prodotti dalla Gran Bretagna”.
“Anche il digiuno è stato uno degli strumenti usati
da lei”.
“Gl’Inglesi ne avevano paura. Temevano che se io
fossi morto per il digiuno gl’Indiani avrebbero scatenato
una rivoluzione, perciò erano costretti a fare delle concessioni. Particolarmente memorabile fu il digiuno di 145
ore da me attuato in carcere nel 1932, che stava per portarmi alla morte e che valse a strappare agli inglesi il riconoscimento della parità dei diritti per gli ‘intoccabili’”.
“Lei è stato un ricercatore che credeva in una religione universale”.
“Le religioni, in fondo, non sono che incarnazioni
dell’unica Verità. Non c’è che un albero, ma con molti
rami. Tuttavia mi sono mantenuto fedele alla mia religione di origine, l’induismo, perché l’induismo dà
importanza a tutti gli esseri animati, ed è per questo che
sono sempre stato vegetariano. Mi sono battuto per il
superamento dei pregiudizi di classe sociale, di razza e
di religione, che nel popolo indiano sono molto radicati. Ho avversato i matrimoni tra bambini, anche per un
fatto personale perché i miei genitori decisero che mi
sposassi a 13 anni”.
A quel punto ho udito degli spari: tre colpi di un
fanatico indù esplosi contro il Mahatma che tanto
aveva fatto per i suoi fratelli. Ho udito la voce di
Gandhi che alzando le mani al cielo esclamava: “Hé
Rama!” (Mio Dio). Poi ho riaperto gli occhi e ho pensato a Cristo morente sulla croce.
“Nonviolenza è la forza dell’anima o l’energia della
divinità dentro di noi. Diventiamo simili a Dio
nella misura in cui realizziamo la Nonviolenza”
Gandhi Mohandas Karamchand, detto il Mahatma, la “grande anima”, nacque a Porbandar nel 1869.
Conseguita a Londra la laurea in legge, all’età di 25 anni si recò in Sudafrica dove si adoperò in difesa degli
Indiani emigrati. Tornato in India, guidò campagne di disubbidienza civile alle leggi britanniche e fu più volte
incarcerato. Ammiratore di Tolstoj, ne assimilò le tesi umanitarie temperandole con le norme ascetiche del giainismo, un’antica religione indiana che indicava la via della perfezione sulla base della non violenza. Divenuto in
breve il capo morale e politico dell’India, lottò per l’indipendenza del suo Paese, ricorrendo alle dimostrazioni di
non violenza e di disubbidienza civile, alla denuncia delle leggi ingiuste e al digiuno. Morì nel gennaio del 1948
ucciso da un fanatico indù, N.V. Godse, durante gli scontri fra induisti e musulmani mentre tentava di pacificarli. Candidato al Nobel diverse volte (nel 1937, 1938, 1939, 1947 e pochi giorni prima di essere assassinato), non
lo vinse mai. Quando il Dalai Lama ricevette il premio per la pace, nel 1989, il presidente della commissione
disse che era “in parte un tributo alla memoria del Mahatma Gandhi”.
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