Perché la filosofia del diritto oggi

LUISA AVITABILE
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
1. Perché la filosofia del diritto oggi?
L’attualità pervasa dagli effetti della globalizzazione, ormai
declinata a favore di una dimensione post-, fa porre in discussione i
lasciti di una rivoluzione, come quella informatica, internettiana,
totalmente diversa dai tradizionali movimenti di rivolta, che ha
ulteriormente incrinato la percezione della questione del senso della
ragione giuridica.
Il filosofo del diritto ed il giurista, posti di fronte ad un nichilismo
che nella sostanza richiama, tra gli altri, quello della scuola di Kyoto1,
sono portati criticamente ad affermare come nell’epoca
contemporanea il rischio è che porre la «questione del senso diviene
senza senso»2.
Non esiste un’epoca aurea del diritto; l’età dell’oro è una
dimensione della mente umana e coincide con una parte della vita
dell’uomo permeata da sogni ed ambizioni; non è possibile dunque
rinvenire, nella storia delle istituzioni umane, un diritto perfetto
costrutto di una sorta di ‘Stato universale ed omogeneo’ – teorizzato
da Alexandre Kojève –; così come non esiste la personificazione di
Dike o l’uomo giusto; cerca, invece, di affermarsi con una certa
difficoltà l’homo juridicus, vale a dire quella possibilità della
giuridicità che si concretizza nell’humanitas come communitas.
Questo non significa che la ricerca del senso della ragione giuridica
abbia imboccato l’era del declino, al contrario, proprio laddove appare
sempre più manifesta l’inutilità della ricerca del giusto e dunque della
misura della legalità e del diritto positivo, si concretizza la conquista
della ragione giuridica su eventuali istanze di follia che hanno come
segno la prevaricazione.
1
K. NISHITANI, Dialettica del nichilismo, Palermo, 2008, p. 377 e ss.
B. ROMANO, Dono del senso e commercio dell’utile. Diritti dell’io e leggi dei
mercanti, Torino, 2011, p. 205. Vd. per una disamina dell’etica alla base delle
ricerche fenomenologico-giuridiche, F. C. BRENTANO F. MAYER-HILLEBRAND,
Grundlegung und Aufbau der Ethik, Bern-München,1952 e Die Lehre vom richtigen
Urteil, Bern-München, 1956.
2
LUISA AVITABILE
Non è esistita, peraltro, un’epoca storica in cui la ricerca del senso
del diritto sia scomparsa del tutto; domata, soggiogata, dominata,
strumentalizzata ricompare dirompente attraverso il perché,
costringendo ad una motivazione delle scelte antigiuridiche, ad una
spiegazione della ‘banalità del male’: Hitler, Stalin, Srebrenica, il
genocidio del Ruanda, il Congo, la Nigeria, i kamikaze, le
multinazionali che violano i diritti di chi lavora, le stragi legalizzate,
le colonizzazioni in nome della civiltà …
Proprio la ricerca sul senso della ragione giuridica porta a
domandarsi quali siano i legami tra diritto, senso e linguaggio, nucleo
delle riflessioni del pensiero contemporaneo, attraverso le questioni
discusse nelle sue opere da Bruno Romano in modo equilibrato e
simmetrico rispetto ad uno spostamento graduale verso l’una o l’altro
impegno – quello del filosofo del diritto e quello del giurista positivo.
Il lavoro speculativo si ricompone intorno all’et et e non all’aut aut,
infatti quando si riflette sui cardini della teoria generale del diritto si
avverte che non è data alla filosofia del diritto una colonizzazione, né
alla teoria generale un’invasione, ma lo scrupolo è confrontarsi con un
limite per evitare che si cada in una sorta di eutanasia dettata dal
servilismo a tecniche che non competono al sapere filosofico, portato
invece ad una dimensione, proficuamente critica, di ricerca continua,
mai uguale a se stessa, nell’impronta di Socrate (una vita senza ricerca
non è degna di essere vissuta), piuttosto che di Nietzsche (l’eterno
ritorno dell’uguale).
Esiste un vinculum tra parole e diritto, tra logos e nomos? Se un
legame emerge è nella strutturazione comunicativa. Allora è possibile
attribuire priorità alla parola, dal logos il nomos, e la continua
incessante ricerca in direzione della peculiarità della parola porta a
riflettere su questioni esclusive dell’essere umano anche il giurista che
usa con consapevolezza incondizionata le norme, esito ultimo di una
procedura incardinata sulla genesi del diritto la cui ricerca critica
appartiene alla filosofia del diritto.
La paziente ricerca sulla parola la fa emergere come luogo
privilegiato dell’espressione della libertà dell’uomo, topos di regole,
ma anche dimensione fenomenologicamente differenziata dall’assetto
e dal vasto ordinamento delle serie numeriche in grado di convergere,
al pari di altre discipline, in una Grundnorm3. La parola non è netta e
3
H. HUSSERL, Ricerche logiche, Milano, p. 44 e ss. U. PAGALLO, Introduzione alla
filosofia digitale. Da Leibniz a Chaitin, Torino, 2005, p. 71 e ss.
2
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
radicale, comunica ‘più di quel che dice’, rinvia nel senso
dell’interpretazione, nel tra-dire che rappresenta il luogo dello spazio
sospeso (tra) e il dire inteso nella duplice veste della possibilità di
travisare quanto detto dal cosiddetto loquente-parlante-soggetto4, e
nell’intervallo di senso, a ciò che non è immediatamente enunciato.
Peraltro, la parola non è solo il luogo della formazione delle regole,
ma ha in sé la regola: parlare, ascoltare, in sintesi dialogare. Dunque,
si può dire che già nella struttura del testo giuridico è presente
l’interpretazione, la riflessione, che non è immediatamente
ermeneutica funzionale5, ma complessità, non scevra da ambiguità,
immagine del verbum. Se si pensa alla capacità dell’uomo di dirsi
attraverso la parola, risuonano le riflessioni di von Humboldt: «Anche
l’articolazione dei suoni, l’immane differenza tra il mutismo
dell’animale e il discorso umano non si lascia spiegare fisicamente.
Solo il vigore dell’autocoscienza impone alla natura corporea l’esatta
divisione e la rigida delimitazione dei suoni che noi chiamiamo
articolazione»6. Ne consegue che l’articolazione non è una banale
esecuzione, ma necessita dell’autocoscienza, della possibilità di creare
ogni volta un senso.
La filosofia del diritto pone costantemente attenzione al linguaggio
non esecutivo e alle intenzioni del giurista; le domande che guidano il
cammino filosofico-giuridico sono: qual è l’attenzione che rivolge il
giurista alla complessa dimensione dell’interpretazione7 che non può
esaurirsi nelle tipologie interpretative? Qual è il dovere del giurista
oggi?8 Qual è la responsabilità del giurista nel vedersi sottratte le
questioni essenziali della giuridicità, tendenzialmente degradate al
livello della possibilità ‘cimiteriale’9 del nichilismo giuridico? Riesce
a mantenere la sua imparzialità di fronte alle declinazioni del
formalismo che, da ultimo, si è rafforzato in formalismo finanziario?
4
G. CARCATERRA, Corso di filosofia del diritto, Roma, 1996, p. 218. Cfr. A.
FILIPPONIO, Le enunciazioni performative e il linguaggio del legislatore, Torino,
1990.
5
N. LUHMANN, Das Recht der Gesellschaft, F. a. M. 1995, capitolo 8
L’argomentazione giuridica.
6
W. VON HUMBOLDT, Scritti filosofici, Torino, 2007, pp. 726-727.
7
Cfr. F. VIOLA ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria
ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 1999.
8
CICERONE, De officiis, I, 34, 85; SENECA, Lettere a Lucilio, LXXI, 32.
9
B. ROMANO, Nietzsche e Pirandello. Il nichilismo mistifica gli atti nei fatti, Torino,
2008, p. 61; Due studi su forma e purezza del diritto, Torino, 2008, p. 36.
3
LUISA AVITABILE
La struttura dell’opera interpretativa10, compiuta non certo in modo
secondario o marginale dal giurista, è peculiare dell’uomo in quanto
soggetto del dire, titolare del diritto primo alla parola che ri-torna
oggi con la presa di posizione di Paesi considerati storicamente dal
mondo occidentale solo per questioni di profitto.
Il primo momento di manifestazione fenomenologica del senso
della ragione giuridica si ha certo con Socrate, con il nucleo giuridico
della storia di una rappresentazione processuale riportata
nell’Apologia, descrivibile oggi come il luogo attuale in cui
compaiono imputati, testimoni, avvocati, pubblici ministeri, psicologi,
ma anche malfattori, falsi testimoni, bugiardi, mitomani, cinici …,
dove ogni uomo racconta la sua storia, consegnando al giudice un
complesso mondo da valutare, non solo secondo una modalità formale
o tecno-logica11. L’intera celebrazione del processo permette al
giudice di assumere la decisione: il giudizio giuridico, dimensione di
certezza dell’esistenza del diritto con le sue caratteristiche di
imparzialità e disinteresse che, nella fenomenologia giuridica, si
possono discutere a partire da una critica circostanziata ai Lineamenti
di fenomenologia del diritto di Alexandre Kojève12.
Facendo attenzione alle motivazioni date dalle scienze sulla
riducibilità dell’uomo al resto dei ‘viventi non umani’, si possono
leggere i testi classici attribuendo all’ente umano prioritariamente la
sua qualità di ‘soggetto parlante’13, autore della parola che si va
costruendo nel tessuto linguistico del discorso e che rappresenta
l’humanitas sulla scena della testualità sociale14.
10
F. MODUGNO, Interpretazione giuridica, Padova, 2009, p. 105 e ss.
CICERONE, De officiis, I, 124, 155; M. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, Roma,
2005, p. 37 e ss.; cfr. ID., Diventare persone: donne e universalità dei diritti,
Bologna, 2001.
12
A. KOJÈVE, Lineamenti di fenomenologia del diritto, Milano, 1986, p. 210 e ss.;
vd. anche F. OST, Mosé, Eschilo, Sofocle, Bologna, 2007, p. 114 e ss.
13
Cfr. B. ROMANO, Il diritto strutturato come il discorso, Roma, 1994; P.
LEGENDRE, Ce que l’Occident ne voit pas de l’Occident, Paris 2004, pp. 67-94 ; F.
SCHLEIERMACHER, Ermeneutica, Milano, 2000, p. 79: «Bisogna conoscere già
l’uomo per comprendere il discorso, e tuttavia è solo dal discorso che si impara a
conoscere l’uomo».
14
Quindi anche sulla scena del non-detto e dell’in-conscio, a tal proposito cfr. V.
DESCOMBES, L’incoscient malgré lui, Paris, 1997.
11
4
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
Sin dall’opera di costruzione delle norme, il giurista segue la linea
della soggettività15, in cui la questione sul diritto investe la genesi
fenomenologica e la validità del discorso giuridico, riguarda dunque
chi stabilisce e definisce il diritto nelle sue forme, in una parola
l’autore del significato del dire, della parola, del discorso, del
linguaggio16, specificamente giuridico. È un elemento critico nei
confronti del formalismo e assurge a momento di disapprovazione non
della forma del diritto, ma di quelle derive che trasformano il diritto in
terreno di privatizzazione non solo da parte del formalismo
finanziario.
La critica al tecnicismo normativo – compito di ogni filosofia del
diritto17 – depurato da ogni forma di interpretazione è, peraltro, una
critica alle ragioni che conducono al depauperamento e alla
banalizzazione del linguaggio secondo paradigmi biologici.
L’enunciato normativo presenta un senso che emerge perché viene
messo in parole, nell’impossibilità di dominare integralmente l’opera
dell’interprete18.
Nell’esperienza giuridica il significato delle parole non può essere
a priori epurato dalla dialettica parole e silenzio, dunque norme e
diritto, ma anche ambiguità, equivoci e fraintendimenti tipici della
parola. Attraverso questo itinerario, il linguaggio diviene discorso 19,
nel senso che è non solo effimera e rappresentativa esecuzione del già
15
Uno dei riferimenti è a Edith Stein e al suo concetto di persona e di
interpretazione che – diversamente da Gadamer – non è configurabile come
interpretazionismo, ma come interpretazione possibile solo a partire dalla struttura
della persona umana. Cfr. E. STEIN, La struttura della persona umana, Roma, 1999;
Una ricerca sullo Stato, Roma, 1999; Il problema dell’empatia, Roma, 1986;
Psicologia e scienze dello spirito, Roma, 1999; cfr. H.G. GADAMER, Il movimento
fenomenologico, Roma-Bari, 2005 che pur essendo testimone degli sviluppi del
movimento fenomenologico dimentica la figura dell’allieva più presente e più
attenta di E. Husserl, appunto Edith Stein.
16
A proposito della molteplicità dei linguaggi e in particolare del linguaggio
normativo cfr. A. G. CONTE, Filosofia del linguaggio normativo, Studi 1995-2001,
Torino, 2001; vd. H. G. GADAMER, Linguaggio, Roma-Bari, 2005, p. 25 e ss.
17
La filosofia del diritto in Italia presenta una molteplicità di ‘anime’: E. OPOCHER,
Enciclopedia del diritto, voce Filosofia del diritto, p. 517 e ss.; A. PUNZI,
Enciclopedia del diritto, VI Aggiornamento, voce Filosofia del diritto, p. 1163 e ss.
18
Per una trattazione in direzione della filosofia analitica, E. TUGENDHAT,
Introduzione alla filosofia analitica, Genova, 1989, p. 51 e ss.
19
B. ROMANO, Filosofia del diritto, Roma-Bari, 2001, p. 118.
5
LUISA AVITABILE
dato, ma si trasforma in una strutturazione di parole che acquisiscono
la peculiarità dell’argomentazione, dell’interpretazione20.
Il discorso giuridico ha come trama essenziale le leggi del
linguaggio mediate dalla coesistenza sociale, che è innanzitutto
relazione interpersonale, dimensionata secondo l’originalità del
singolo uomo che ritrova se stesso nella responsabilità della scelta
compiuta e nella preparazione attuale avviata alla scelta che si
concretizzerà nel futuro. Dunque, acquista un rilievo non certo
secondario la questione dei legami tra temporalità e diritto non certo
solo nel senso di Gerhart Husserl, ma nella direzione originaria
discussa da Agostino, da Kierkegaard e da Heidegger.
Ma la questione del diritto non avrebbe senso se non fosse
rapportata alla questione del binomio temporalità-libertà. Infatti, la
discussione critica della libertà si proietta oltre un concetto di
‘innocenza’, proveniente dal nulla e ad esso destinata, come si può
leggere nelle tesi del nichilismo giuridico21 dettame del
fondamentalismo funzionale. L’intero apparato contro-giuridico trova
conforto in un ‘sistema del fondamentalismo funzionale’ ricco di
apporti e contributi che nell’attualità rinviano alle ‘monarchie
mediatiche’, considerabili indubbiamente alla stregua di dittature della
parola, anche se la mistificazione del logos trova animazione ed
animosità nelle situazioni di pubblicità e di merchandesing.
Alla forma del diritto rimane il duplice e significativo aspetto della
normatività e della giuridicità, in cui il diritto è nominato con
riferimento al giusto, nel suo rapporto costante con la responsabilità
dell’uomo che da soggetto diventa persona di diritto nelle relazioni
interpersonali a statuto empatico (=riconoscimento costitutivo).
Dunque, la manifestazione formale della norma, il diritto inteso
come jus positum, non può escludere la struttura del linguaggio e di
conseguenza quella dell’interpretazione22 che, a sua volta, implica la
dinamica relazionale e razionale. La struttura discorsiva e testuale
diventa così una ‘controversia di senso’ perché ogni lettura è
20
V. FROSINI, La lettera e lo spirito della legge, Milano, 1998, p. 46 e ss.
K. NISHITANI, Dialettica del nichilismo, p. 83 e ss.
In una prospettiva critica B. ROMANO, Scienza giuridica senza giurista: il nichilismo
‘perfetto’, Torino, 2006, passim.
22
Trovano qui spazio le espressioni di Schleiermacher: «L’interpretazione deve
quindi obbedire alle leggi dei diversi tipi di produzione sussumibili sotto il concetto
di opera d’arte: altrimenti essa non coglie i diversi caratteri e interessi». F.
SCHLEIERMACHER, Ermeneutica, Milano, 2000, p. 497.
21
6
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
intrinsecamente interpretazione diretta alla costruzione di un’identità;
ogni chiarimento presenta la sua plurivocità direzionale che impegna
l’argomentazione giuridica nel muovere dall’uomo in quanto soggetto
e dunque dall’istituzione della parola, della ‘parola giusta’23.
L’intera questione del diritto è improntata allora sulla
considerazione che l’architettura giuridica è costruita come metodo
speculativo posto in parole; il linguaggio, attraverso l’espressione
della parola, serve all’uomo per costruire la sua identità – la
soggettività giuridica –, liberata da procedure di sottomissione
dell’uomo all’altro uomo (il campo di concentramento costituisce uno
degli esempi da custodire nella memoria dell’umanità).
La critica del filosofo del diritto è rivolta oggi ad ogni totalitarismo
capace di strumentalizzare il concetto di norma fondamentale per
dominare l’uomo: dalle zone dell’Africa scelte come discariche del
mondo ‘ricco’ sino all’affaire legislativo condizionato ed orientato
dalle banche che sostituiscono, attraverso la finanza virtuale, al
governo reale il governo finanziario (monetario). La questione può
essere dibattuta secondo le coordinate del ‘sapere totale’ e del ‘sapere
parziale’, per questo vivono in ognuno di noi le espressioni di Socrate
‘gridate’ davanti ad uno stuolo di magistrati24.
Il male e la sofferenza sono quelli imposti, nelle forme ingiuste
della negazione della parola sino alla condanna a morte, quella che da
Socrate conduce a noi in una sorta di continuum temporale che vede al
centro del pensiero filosofico un avvio dato dal processare
pubblicamente stragi che nessuno ormai potrebbe pensare di confinare
impunemente nei limiti di una Grundnorm.
Pericolosamente nuove forme di razzismo potrebbe configurarsi in
quella pulizia/polizia delle parole, criticata da Romano come
inasprimento pragmatico della purezza che porta l’ideologia a non
discernere tra diritto alla politica e politica del diritto25 e dove la
giuridicità si confonde con gli interessi di una parte.
Ne consegue un assunto fondamentale: il diritto ha una sua
consistenza attraverso l’uso del linguaggio26 che, innestato nella legge
23
F. EBNER, Proviamo a guardare al futuro, Brescia, 2009, p. 299.
W. F. OTTO, Socrate e l’uomo greco, Milano, 2005, pp. 62-66.
25
B. ROMANO, Dono del senso e commercio dell’utile, p. 245 e ss.
26
Il linguaggio costituisce il centro prospettico dal quale procede la stessa arte della
riflessione vd. E. CASSIRER, La filosofia delle forme simboliche, vol. I Il linguaggio,
Firenze, 1961, p. 151: «La facoltà fondamentale della ‘riflessione’ opera in ognuno
24
7
LUISA AVITABILE
della parola27, produce effetti giuridici. Il diritto è istituzione
interpersonale che separa il soggetto dall’oggettività naturalistica delle
cose e allo stesso tempo lo scinde e lo divide da se stesso in una
dialettica che va dal principio di identità a quello di alterità,
impegnandolo, come afferma Legendre, a «communiquer à la manière
humaine»28. In sintesi, l’opera linguistica del giurista rappresenta, in
questo senso, l'impegno e la responsabilità a garantire la libera
«costruzione dell’identità»29 giuridica. La parola, in quanto
espressione ermetica – messaggio – è alla base della costruzione del
‘giuridico’ inteso nella sua realizzazione di un discorso; non si tratta
di un potere fattuale, poiché il suo esercizio consiste nel produrre
effetti attraverso la mediazione fondamentale del potere di dire –
esclusivo dell’uomo –, di parlare, di porgere la parola all’altro, di
istituire il diritto sulla base del logos costitutivo.
La tesi «il diritto è strutturato come il linguaggio»30 chiarifica il
diritto come testo della società attraverso la struttura dialogica (dialogos), dunque conduce alle considerazioni del filosofo del diritto che:
quando l’uomo esercita il diritto alla parola non significa che disponga
della futura interpretazione e comprensione che istituiscono il senso
del discorso31. Questo sottolinea che l’uomo pur potendo produrre
parole non può rimuovere quella consapevolezza che vanno via via ad
dei suoi atti all’‘interno’ e all’‘esterno’: si manifesta da un lato nell’articolazione del
suono, nell’articolazione e ritmizzazione del movimento del linguaggio, dall’altro
lato nella sempre più netta differenziazione e distinzione del mondo
rappresentativo»; sulle possibilità del linguaggio K. JASPERS, Del tragico. Sul
linguaggio, Napoli, 2000, p.87: «‘Linguaggio’ è in primo luogo il parlare che si
attua di volta in volta; in secondo luogo è la forma obiettivata della lingua (…), in
terzo luogo è la facoltà linguistica in generale, il tratto distintivo dell’uomo»; anche
F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Bari, 1967, p.19: «…il linguaggio è
multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico,
fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio sociale; non si lascia
classificare in alcuna categoria di fatti umani, poiché non si sa come enucleare la sua
unità./ La lingua, al contrario, è in sé una totalità e un principio di classificazione».
27
La constatazione teoretica radicale – rilevante nella sua semplicità – è
rappresentata dalla possibilità di un declino storico del mondo costruito dall’uomo
tramite un uso esclusivamente formale del linguaggio, trasmesso per esempio anche
e non solo attraverso il mito; vd. W. VON HUMBOLDT, La diversità delle lingue,
Roma-Bari, 2005, p. 58.
28
P. LEGENDRE, De la Société, p.16.
29
ID., p.17.
30
B. ROMANO, Il diritto strutturato come il discorso, p. 27 e ss.
31
W. VON HUMBOLDT, La diversità delle lingue, in part. p. 15.
8
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
avere in un continuo, progressivo, inesauribile ‘rinvio di senso’ e nella
differenza di significato che ogni uomo attribuisce loro.
La storia mostra l’esistenza, la strutturazione delle regole
sintattiche e grammaticali, ma dimostra anche che è oggettivamente
impossibile creare la struttura della parola sino a renderla omogenea
all’esattezza numerica; da ultimo, la struttura della parola è formata da
verba e silentia, intervalli di senso che richiamano l’uomo al suo
discorso originale, liberamente scelto, non consegnato alla
contingenza o alla necessità.
Proprio per il profondo legame tra logos e nomos, le considerazioni
della filosofia del diritto investono l’homo juridicus che, pur essendo
impegnato con le parole della legge, non può disporre della struttura
della giustizia, perché non può renderla dogmatica; pur conoscendo la
differenza tra la dimensione della giustizia (le condotte giuste) e
quella dell’ingiustizia (escludere l’altro, in primis attraverso
l’esclusione dal diritto alla parola), non può negoziare sulla
distinzione tra il rispetto (giuridicità) e la violenza (controgiuridicità)
e non può arbitrariamente confondere l’ascolto dell’altro con la
negazione della parola. Allo stesso modo, non può disporre della
condizione di essere libero o meno; si può dire che si trova esposto
alla libertà, anche quando la svuota sino a vivere nell’insensatezza
disperante di una quotidianità non più impegnata nell’esercizio della
libera scelta, della decisione, insomma sino al nichilismo che
coinvolge le strutture del ‘giuridico’. Il legislatore istituisce le norme,
ma non crea il diritto, ovvero non crea l’affermazione o la negazione
della differenza tra il giusto (rispetto) e l’ingiusto (esclusione come
violenza) e, pertanto, non è il creatore assoluto dei contenuti
normativi che differenziano il giusto dall’ingiusto.
Questo argomento, proposto nei termini enunciati, non sembra
presentare una questione così netta se – cancellata la distinzione tra
giusto e ingiusto – l’uomo rimane confinato nell’unica dimensione
formalizzata della giuridicità – ossia della legalità, fattualmente
vigente, perché espressione della forza più forte.
Si può riproporre un’interpretazione meno ingenua dell’opera di
Kelsen32, laddove non la si consideri completamente obsoleta. È
questa la Kehre: evitare che il diritto si trasformi nella vecchia legge
del più forte sotto nuove spoglie edulcorate dalla globalizzazione;
32
Cfr. F. VON HAYEK, Legge legislazione e libertà, Milano, 2000, in cui esplicita il
pericolo di una ratifica della legalità/giuridicità da parte del più forte.
9
LUISA AVITABILE
mostrare fenomenologicamente che la scelta dell’uomo è determinante
per liberarsi dal nodo della necessità e della contingenza, evitando
così lo stare a vedere della ‘noia’ in cerca di una ragione procedurale
che si limiti a ratificate l’indifferenza tra giusto e legale, con una
arbitrarietà tendente a giustificare in modo legale (=la forza della
maggioranza, la dittatura della democrazia, i numeri del consenso)
anche le forme estreme, oltre a quelle sottili e raffinate, di violenza
identificabili con il terrore legalizzato.
2. Le parole giuridiche sono la pretesa?
Seguendo le dinamiche di una discussione sul diritto che mette al
centro la parola, si può affermare che il concetto di ‘linguaggiodiscorso’ prevede una sorta di passaggio della parola che diventa
interpretata, quindi ‘discorso’, libertà. Infatti, la dia-logicità pone in
rilievo la totale interpersonalità della parola che non può, però, essere
purificata e chiudersi in una formula paradigmatica (la forma della
parola), da usare come una sorta di programma. La parola è passaggio
che significa contaminazione con la realtà dell’uomo, con l’ipotesi di
senso che diviene progetto di ogni uomo33, in qualunque luogo
geografico.
Da queste brevi considerazioni comincia un itinerario secondo il
quale il pensiero giuridico non può assumere una connotazione solo
‘scientista’, subendo il vincolo di una sorta di destino tirannico della
rappresentazione esatta; la parola è innanzitutto ‘libertà di parola’ che
diventa ‘diritto primo alla parola’, codificato dal diritto positivo che,
per il giurista, deve essere rinvio alla giuridicità in cui risiede un a
priori non negoziabile (=riconoscimento dell’altro in quanto uomo,
nella differenza), da qui l’uguaglianza si libera dal codice binario che
la collega alla non uguaglianza o ad un’equivalenza funzionale.
L’autentica uguaglianza è, infatti, quella del riconoscimento
interpersonale nella consapevolezza che l’altro è alterità differente da
ogni altra egoità, capace di emanciparsi dalle premesse neurobiologiche, attraverso il ‘no’.
L’uomo è volontariamente capace di dire ‘no’, il no al
perseguimento dell’ingiustizia come forma di declinazione di quella
che, parafrasando Kant, si potrebbe definire ingiustizia radicale.
33
M. BLONDEL, L’azione, Firenze, 1921, p. 281 e ss.
10
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
Ora, la libertà dell’uomo non può essere considerata
semplicisticamente una libertà formale, ma diventa potere di
esercitarla e il diritto diventa la condizione di garanzia che questa
libertà venga esercitata senza abusi, si presenta una duplice direzione:
garantire a ciascun uomo di esercitare la libertà di parola o
distruggerla; la prima direzione, si manifesta nella prospettiva della
‘giustizia’ – il ‘giusto’; la seconda è orientata all’ingiusto. Le due
direzioni hanno una loro struttura profonda solo se si possono
manifestare in relazione all’opera interpretativa radicata nella parola.
A proposito dell’architettura della parola giuridica, il diritto forma
una serie di tecnici competenti della parola stessa. Questi agiscono in
un profluvio di perfezionismi normativi e legalismi ipertrofici,
destinati a scavare nelle pieghe di ogni equilibrio che si mostri in
qualche modo disfunzionale all’intero sistema giuridico pervaso da
un’unica ambigua espressione del più forte, a dispetto dei racconti
mitologici e della manicheista distinzione tra buoni e cattivi che
rappresenta in modo netto la differenza tra giusto e ingiusto. Oggi il
diritto tende a diventare camaleontico, sventagliato come continua
minaccia sanzionatoria per chi protesta34, dissente e non vuole
adeguarsi. Senza una costante critica e vigilanza sull’imparzialità, il
legislatore rischia di consegnare se stesso a nuove funzioni legislative
– le leggi dei mercanti – che una volta svelate fanno sorridere il
‘tormentato’ tecnico delle norme che deve continuamente essere un
passo avanti nel giustificare il più forte, nell’edulcorare
normativamente il nuovo ‘agire comunicativo’ – quello dei più forti
attraverso il latifondismo mediatico, dei socialmente rilevanti
mediante la produzione del divertimento in ogni luogo, ad ogni costo
come lotta contro la noia, dove il concetto di fiducia si declina su un
versante totalmente funzionale al mercato35.
Il mercato non può però essere considerato il mare magnum del
male, il centro di imputazione di tutte le ingiustizie. Nella realtà,
prevede attori, soggetti agenti che decidono sulla base di profitti
radicati in un paradigma non certo universale ed incondizionato –
come quello del diritto positivo basato sulla giuridicità – ma, al
contrario, su un modello declinato in base ad oligarchie di potentati
che assumono la finzione di democrazia attraverso l’espressione
passe-partout di ‘libero mercato’. Il rischio è che il pianeta diventi un
34
35
Cfr. A. SUPIOT, Homo juridicus, Milano, 2006.
Cfr. N. LUHMANN, La fiducia, Bologna, 2002.
11
LUISA AVITABILE
condominio normativo dove ciascuno vale in base ai millesimi che
possiede, allora il giurista è richiamato alle sue responsabilità: usare il
linguaggio seguendo una doppia modalità; come legislatore istituire il
testo della legge e come giudice interpretarlo, custodendo il legame tra
fedeltà al contenuto enunciato nel testo (ciò che è detto nel dettato
normativo) e lettura creativa del testo (ciò che non è detto, ma
permane come nucleo della giuridicità). Inoltre, la sua vocazione – nel
senso di chiamata più profonda ad un dovere universale di giustizia36
– lo investe nell’essere non semplicemente un ‘tecnico’ delle norme
che, con la liquidità di Bauman si trasforma in un ‘idraulico’, ma un
‘artista della ragione’, non estraneo alla terzietà imparziale, come se
fosse un’effimera figura per idioti che ancora credono in un diritto
imparziale e disinteressato che sia garanzia per uomini e donne, per
diversamente abili, per diversamente agée.
Il giurista ha il dovere incondizionato di custodire le relazioni
giuridiche – l’altro è uguale all’io nella differenza – tra gli uomini
nelle condizioni di una uguaglianza non monetizzabile e deve rifiutare
con vigore l’assoggettamento ad una funzione vincente, generatrice di
rapporti di sproporzione e di diseguaglianza.
Chi e perché dovrebbe imporre una condizione di diseguaglianza?
Chi e perché dovrebbe imporre una questione di uguaglianza non solo
formale?
Riproporre la questione della rilevanza dell’uomo e della sua parola
nell’ambito del linguaggio costituisce il momento più iniziale nella
concretizzazione del principio di uguaglianza. Può riavviare un’opera
che non si fermi ad una pedissequa analisi delle intenzioni del
legislatore, ma vada al di là della lettera e affronti lo spirito– anche lo
spirito del tempo, come ricordava Jaspers37. Dove il tempo non è la
questione dell’epoca38, ma la ricerca del senso della ragione giuridica
oggi e il giurista ha il dovere di rispondere a questa pretesa39. La
massa di persone che, ai bordi di un diritto costruito in modo
oligarchico ed élitario, rivendica la sua partecipazione al benessere lo
fa indubbiamente nella inconsapevole forma della pretesa dell’io ad
essere considerato non in modo cosale40; questo impulso alla
36
CICERONE, De officiis, I, 28.
K. JASPERS, La situazione spirituale del tempo,
38
M. HEIDEGGER, Il principio di ragione, Milano, 2004, pp.58-59.
39
CICERONE, De officiis, I, 85; SENECA, De beneficiis, III, XXI.
40
CICERONE, De officiis, II, 42; SENECA, De beneficiis, III, XXVIII.
37
12
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
rivendicazione di ‘ciò che è giusto’ viene dai sobborghi del benessere,
di quel diritto al lusso che le novelle pubblicità stuzzicano nella
decadenza di un’umanità generatrice di conflitti tra i ‘periferici’ che
ambiscono al lusso; l’affermazione di una ricerca del giusto proviene
dallo sguardo attento di chi guarda ai diritti – non tramite la
spocchiosa solidarietà, carità, aiuto … – delle caste degli indiani
(intoccabili), delle donne anche del mondo musulmano, dei poveri
delle baracche, degli emigrati, degli apolidi non di lusso, dei rifugiati
non illustri, delle vittime di genocidio, dei minatori della Sierra Leone,
dei bambini che lavorano i tappeti che arredano le nostre case, dei
lavatori-coloratori di jeans che fasciano le nostre gambe, dei dannati
alla ricerca dei diamanti delle multinazionali che nelle vetrine fanno
bella mostra di sé, delle operaie africane, prive dell’elementare diritto
primo alla parola per proteggere la loro salute, che coltivano fiori
ricchi di anticrittogamici destinati ai mercati europei. Desidero che mi
si consideri un soggetto di diritto, è la pretesa che viene da mondi
sconosciuti che, a volte, non condividono con il mondo dei più forti né
la lingua, né la razza, né il credo religioso, né l’ideologia politica e che
ripropongono la questione della lotta antropogena di fronte alle
domande: chi sono io per essere trattato in questo modo? Chi è costui
che mi può costringere ad eseguire, sino ad identificare il mio diritto
ad essere io con la concretizzazione di un profitto?
La massa di persone che spinge per entrare in un mondo di
riconoscimento giuridico – prima che di riconoscimento economico –
è la domanda che viene posta oggi al giurista che in questo momento
non può più considerarsi al sicuro nei confini di uno Stato nazionale.
È la domanda che poneva la rivolta degli schiavi, ma con un
potenziale completamente diverso: l’uomo, la donna, i bambini,
l’intoccabile … sono parte di un fenomeno – quello della
globalizzazione e della piena rivoluzione informatica – destinato a
confrontarsi con l’evidenza che ogni uomo, in qualunque luogo del
mondo, è titolare di diritti incondizionati che prescindono dalla
collocazione geo-politico-religiosa, ponendo l’io di fronte ad
un’alternativa: costruzione di quell’impero universale ed omogeneo di
Kojève; consapevolezza critica che il diritto è l’unica dimensione
istituita imparziale e disinteressata che permette di contrastare la
sproporzione e la diseguaglianza, imposte dalla sempiterna legge del
più forte, e di garantire l’universalità e l’incondizionatezza della
giuridicità.
13
LUISA AVITABILE
E il concetto di diritti dell’io non è più prerogativa di intellettuali
occidentali che ancora affermano che la definizione di diritti umani
non è contemplata negli ideogrammi, quasi a voler ridurre la
giuridicità e la sofferenza causata dalla negazione dei diritti ad una
forma e non all’esercizio della libertà da parte di uomini e donne del
pianeta.
La rivoluzione del web ha portato alla conoscenza – in tempo reale
– che in altri parti del mondo reale uomini e donne non hanno la
possibilità di esercitare concretamente la loro pretesa giuridica e che il
diritto non si può ridurre ad un’impresa di solidarietà al pari del
‘commercio equo e solidale’.
Il blog, il web, le chat rooms, skype, i social networks … – con le
loro strumentalizzazioni e i loro limiti – hanno dato ‘parola’: nella
comunicazione interpersonale, nessuno vuole rinunciare a parlare,
nessun uomo accetta che si dicano parole in sua vece, nessuno intende
essere sostituibile, nessuno si vuole sentire disconnesso. Proprio in
questo la parola rivela la sua ‘energia’, non è dominabile, l’uomo pur
esprimendola non può vietare che venga interpretata nella libertà
dialogica, in una dimensione di pluralità che ormai è planetaria e cerca
di sfuggire, non senza difficoltà, all’assolutizzazione del ‘commercio
dell’utile’.
L’uomo, nella espressione costante e difficoltosa della parola,
continua a cercare un senso, che slitta sempre verso l’alterità in modo
a volte condizionale, funzionale, ma anche gratuito; è sempre l’uomo
che si rende responsabile della sua scelta in modo consapevole e mai
banale, secondo quella responsabilità che riafferma ‘mea res agitur’41.
Infatti, ogni volta che ‘conversa’ l’essere umano chiarifica la sua
condizione, la riprende e dà voce al ‘suo’ linguaggio, ogni volta
preordina mentalmente un discorso che rischia di essere interpretato in
modo del tutto diverso da come si era rappresentato, ogni volta
doverosamente e difficilmente si rivolge all’altro e a se stesso. La
comunità nella quale oggi l’uomo vive è virtualmente planetaria, fa da
sfondo alle relazioni interpersonali e non può essere considerata una
comunità di puri spiriti, una comunità empatica dove l’empatia
acquista la fisionomia dell’entropatia come forma della differenza
formale, di una distinzione a carattere paradigmaticamente puro che
non si fa contaminare dalla realtà. La comunità di cui qui si discute è
una comunità reale e la filosofia del diritto rimane attuale proprio
41
V. JANKÉLÉVITCH, Il non-so-che e il quasi-niente, Torino 2011, p. 390 e ss.
14
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
prendendendo le mosse da un primo uomo – Socrate – che davanti ad
una pletora di giudici decide di difendersi e dare le sue motivazioni
non confuse con l’opera della sofistica, né tantomeno con un mondo
della vita presocratico dove la fenomenologia è di ordine vitalistico.
Socrate, l’uomo che discorre di un sapere che non si sa, che non fugge
di fronte ad una legalità ingiusta, fa ancora riflettere oggi il filosofo
del diritto ed il giurista sulla possibilità di istituire una legalità
imperfetta del sapere parziale, per cui si possa affermare che l’homo
juridicus non può dominare la libertà della parola, ma ha il dovere di
non porre in essere – in nome di una legalità convenzionale – il
dominio dell’altro, di non imporre un principio annichilente. Nel
linguaggio giuridico questo può avvenire attraverso un discorso
preconfezionato che non lascia nulla alla libertà ermeneutica, ma la
riduce ad ermeneutica funzionale: atti di violenza rivolti ad ottenere il
completo dominio dell’uomo, del soggetto parlante. Il diritto – al pari
del linguaggio – sfugge a questo ricatto nel tentativo di non lasciarsi
dominare; appena una rappresaglia giuridica si manifesta in un
determinato punto del globo terrestre, si sollevano innumerevoli lenti
interrogativi sulla possibilità che essa collimi con l’ingiustizia; è una
sorta di tornaconto che fa affermare al mondo di attori normativi che
la presa di coscienza è nei confronti di una dimensione giuridica che
non può essere esclusivo appannaggio dei tecnici del diritto o di un
élite economicamente rilevante chiusa in un’enclave reticolare. Il
diritto, come il linguaggio, è indisponibile, rappresenta il primo reale
motivo di differenziazione dell’essere; il diritto positivo, da parte sua,
non può considerarsi il riso beffardo del legislatore più furbo nella
contingenza, avido di una realtà che per alcuni è dorata e per altri
rappresenta una meta irraggiungibile. Il diritto – con le sue forme, la
complessità, i simboli, le liturgie, le procedure – mette in scena
l’uomo attraverso l’uomo, proporziona le parti della relazione
giuridica e allo stesso tempo ha il dovere di garantire le generazioni
future da qualsiasi presa di posizione egemone.
Così come le parole degli uomini non sono solo ciò che sono, il
diritto non è solo ciò che viene detto nelle norme, non può essere il
risultato di un oltraggio alla persona, al principio di uguaglianza e le
parole degli uomini – a differenza dei suoni – sollecitano l'opera
dell'interpretazione che possiede le proprietà dell'opera d'arte, così
15
LUISA AVITABILE
come qualsiasi
dell’interprete42.
42
norma
deve
sollecitare
l’operare
critico
W. VON HUMBOLDT, La diversità delle lingue, p. 36.
16
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
3. Conclusioni
Chiedersi perché la filosofia del diritto oggi significa interrogarsi
sui saperi e sulla loro trasmissione, in un’attualità in cui
l’identificazione con l’immediato è subitanea, è fissa e portata ad un
nichilismo soft, privo di senso, noioso, dove l’unico motivo per
rimanere a leggere la realtà è un’ipotesi voyeuristica, primazia della
cronaca. Interrogarsi sul perché rivela oggi la volontà di mettere in
questione le forme del diritto, significare l’azione pedagogica che
conduce all’acquisizione e all’interpretazione di tali forme.
Solo all’apparenza sembra obsoleta quell’affermazione che
accompagna lo studioso: l'interpretazione del diritto è un'arte perché
crea un significato. Innanzitutto, l’opera dell’interpretare elabora un
significato che non è dato nell’immediata lettura dell’enunciato, crea
un senso empatico del testo da destinare a perfetti sconosciuti sotto il
distintivo segno dell’humanitas, secondo l'originalità di chi pronuncia
e di chi ascolta le parole, tentando di cercare il senso oltre un
contingente e semplicistico insieme di operazioni linguisticofunzionali43.
Il legame tra giuridico e reale consiste in una rappresentazione che
fa esistere il giuridico attraverso le forme; la costituzione di uno Stato
che non sia più territoriale, geograficamente determinato, localmente
vincolato rappresenta lo slancio verso un senso della giuridicità che ha
un che di ‘antico’ senza per questo essere obsoleto, in scadenza. Gli
effetti del linguaggio-interpretazione-discorso delle forme normative,
in questo concetto di sovrastatalità, rappresentano un segno
dell’istituzionalità divenuta reale attraverso la forma44: vincere il
nulla. Vincere il nichilismo giuridico attivo e passivo è l’impegno al
quale richiama ogni filosofo del diritto che non voglia collaborare
all’affermarsi dell’insignificanza del nulla.
È possibile affermare, dunque, che il principio di narcisismo
statalista (legge=Stato) non è più valido teoricamente, mentre continua
a permanere in una prassi che si va progressivamente modificando e
che vede i singoli Stati privati gradualmente di quel potere giuridico
basato sulla norma fondamentale che li rendeva portatori sì di
democrazie seppur discutibili, ma anche di dittature con un habitus
43
ID., La diversità delle lingue, p. 39.
P. LEGENDRE, La 901e, p. 279. J.-P. SARTRE, L’être e le néant, Paris, 1970, p. 37.
44
17
LUISA AVITABILE
democratico. La nuova fragile consapevolezza parte proprio
dall’espressione sociale del linguaggio45 che lotta contro la deriva
nichilista rintanata nella forma del più forte46. In Occidente una delle
sue espressioni è appunto la filosofia del diritto, il cui dovere è
rendere comunicabile, concreta e reale la scena del Terzo giuridico:
evitare che l’uomo possa delirare socialmente perdendosi in un moto
irrazionale, agiuridico, privo della misura della ratio; il terzo
normativo e, sulla base di questa analisi, l’istituzione della terzietà
legislativa, giudiziaria, della polizia, del testimone ecc. evitano il
delirio47 distruttivo della ragione giuridica e quindi della sua
possibilità di costituirsi come de-ragione o follia, o vuoto legalismo, o
self-service normativo nelle forme del management giudiziale48.
Il giurista è portato a riflettere sulle parole al di là dell'ambito
fisico-biologico: le parole sono tali, e non semplici prodotti degli
organi della fonazione, non appena si fissano in una forma dogmatica
vengono percepiti immediatamente solo come coercizione, pur
mantenendo la possibilità di essere ancora risignificati nel dialogo, per
creare un nuovo senso49.
La rivalutazione assoluta dei cosiddetti saperi tecnici tenta di
oscurare tutto ciò che non è riproducibile, non è oggettivamente
sperimentabile, che dia un’immediata sicurezza di visibilità e
45
W. VON HUMBOLDT, La diversità delle lingue, p. 158 e ss.
Sembrano qui appropriate alcune riflessioni di. E. CIORAN, Sommario di
decomposizione, Milano, 1996, p.31 «Il plurale implicito del ‘si’ e quello esplicito
del ‘noi’ costituiscono il confortevole rifugio dell’esistenza falsa. Soltanto il poeta si
assume la responsabilità dell’‘io’, soltanto lui parla a nome di se stesso, soltanto lui
ha il diritto di farlo».
47
L. BINSWANGER, Delirio. Antropoanalisi e fenomenologia, Venezia, 1990, p. 136
«… per ciò che concerne la traducibilità del testo del delirio, così insolitamente
variegato, nella lingua dell’‘esperienza naturale’ non disponiamo, né potremmo
disporre, al riguardo, di alcun dizionario. Infatti l’illegibilità di tale testo si basa sul
fatto che i testi deliranti, lungi dal rappresentare una «lingua straniera» dalla quale si
possano agevolmente tradurre parole e frasi in un’altra lingua esprimente
un’esperienza naturale, sono dettati da una coscienza che è «scompaginata» o i cui
limiti sono «scombinati» rispetto ai nostri».
48
Solo in questo senso trova una giustificazione il comune procedere dell’estetica e
della poetica, posti in un ordine di reciprocità di effetti. Cfr. anche H. G. GADAMER,
Linguaggio, cit., p. 27 e ss.
49
M. MERLEAU-PONTY, Segni, Milano 2003, p. 68: «ogni linguaggio è indiretto o
allusivo, è, se si vuole, silenzio»; vd. anche R. SPAEMANN, Natura e ragione, Roma,
2006.
46
18
I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto
stabilizzi le ansie attraverso un’espressione50 di certezza ed univocità
che appaiono innanzitutto linguistiche.
L’uomo internettiano non vuole interpretazioni: twitter ed altre
possibilità messaggistiche sono immediate, non hanno lo statuto della
creatività ermeneutica. L’ermeneutica è sostituita da una Kunstwerk
funzionale che non lascia spazio alla discrezionalità ma solo a ‘gradi
distinti di libertà’51 in base al ruolo, divenuto ormai un recinto.
Tutto sembrerebbe portare ad alcune conseguenze che non hanno
qui la pretesa di costruire il côté destruens della pratica giuridica a
statuto funzionalista: innanzitutto, la riflessione sul concetto di libertà
connesso a quello del logos che conduce a pensare all’esercizio della
libertà così come a quello della parola non come a concessioni,
privilegi. La loro ‘datità’ conserva il carattere di unicità ed
irripetibilità per ogni persona quindi non riproducibilità perché
costituita da una dimensione di rinvii che, nella plurivocità del futuro,
non può essere considerata un ‘dato oggettivo’, visualizzato,
configurato e riproducibile.
Anche se in alcune espressioni, il diritto ambisce a divenire scienza
a statuto tecnico, immediatamente scioglie uno status di
insoddisfazione e gli elementi costitutivi della soggettività conducono
i giuristi a considerare la dimensione della libertà connessa alla
giuridicità, con attenzione a concretizzare l’esercizio della libertà e
della giuridicità nella responsabilità e nella pretesa giuridica.
La libertà e il diritto sfuggono ad un’oggettivazione scientifica
(scientista) a mo’ dell’oggettività, presentano delle forme che
emergono dall’indifferenziato: il diritto – la giuridicità – estrinseca un
suo significato nel momento in cui diventa forma (norma); solo in tale
dimensione il diritto è criticato o criticabile, modificato e messo in
discussione. Attraverso la forma, il diritto storicizza le tre figure
imparziali della terzietà (legislatore, giudice, polizia), garantendo un
contenuto che non sia contenuto di parte.
La questione della tecnica , qualunque sia il suo ambito applicativo,
corre il rischio, ogni volta, di asservirsi al fondamentalismo
funzionale, nel senso di sottomettersi ad un ambito che ha come base
la dogmatica funzionalista, che non è una dogmatica in senso oscuro
ma che, ponendo a fondamento il dogma della funzione, non accetta
aperture, si pone accanto ad un nichilismo compiaciuto: la vita scorre
50
51
E. BONCINELLI, Il posto della scienza, Milano 2004, p. 166.
N. LUHMANN, Das Recht der Gesellschaft, capitolo 7.
19
LUISA AVITABILE
e con essa le poche regole che l’uomo è in grado di darsi determinate
dai mercati che si muovono su un trend univoco, quello del profitto, e
che si manifestano in modelli relazionali in cui la parte che ha
successo nella fattualità monetizzata del mercato vince sulle altre.
In tale direzione, allora si pone la questione dell’impegno del
filosofo del diritto e del giurista, purtroppo anche del tecnico delle
norme che non può fare spallucce e rimanere indifferente alla qualità
delle relazioni e alla dimensione di terzietà del diritto.
Il filosofo del diritto non può considerare il mondo del diritto e
quello dell’economia estranei l’uno all’altro e il fatto di considerarli
indipendenti è un’utopia degli spiriti puri. Il mondo del diritto ha
bisogno dell’universo economico, data la pervasività del denaro inteso
quale ‘medium simbolicamente generalizzato’: i tribunali e i
parlamenti sono fonte di dispersione di danaro, investimenti
economici che passano dal sistema politico al sistema giuridico,
mediati dal sistema dell’economia. Ma spetta al giurista positivo
concretizzare la misura di una legalità sensibile all’incanto (danaroso)
delle sirene finanziarie, rinviando ogni volta alla domanda iniziale: sto
istituendo norme che, oltre al carattere della generalità e
dell’astrattezza, rispondono al requisito dell’universalità e
dell’incondizionatezza dei diritti dell’io?
20