LUISA AVITABILE I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto 1. Perché la filosofia del diritto oggi? L’attualità pervasa dagli effetti della globalizzazione, ormai declinata a favore di una dimensione post-, fa porre in discussione i lasciti di una rivoluzione, come quella informatica, internettiana, totalmente diversa dai tradizionali movimenti di rivolta, che ha ulteriormente incrinato la percezione della questione del senso della ragione giuridica. Il filosofo del diritto ed il giurista, posti di fronte ad un nichilismo che nella sostanza richiama, tra gli altri, quello della scuola di Kyoto1, sono portati criticamente ad affermare come nell’epoca contemporanea il rischio è che porre la «questione del senso diviene senza senso»2. Non esiste un’epoca aurea del diritto; l’età dell’oro è una dimensione della mente umana e coincide con una parte della vita dell’uomo permeata da sogni ed ambizioni; non è possibile dunque rinvenire, nella storia delle istituzioni umane, un diritto perfetto costrutto di una sorta di ‘Stato universale ed omogeneo’ – teorizzato da Alexandre Kojève –; così come non esiste la personificazione di Dike o l’uomo giusto; cerca, invece, di affermarsi con una certa difficoltà l’homo juridicus, vale a dire quella possibilità della giuridicità che si concretizza nell’humanitas come communitas. Questo non significa che la ricerca del senso della ragione giuridica abbia imboccato l’era del declino, al contrario, proprio laddove appare sempre più manifesta l’inutilità della ricerca del giusto e dunque della misura della legalità e del diritto positivo, si concretizza la conquista della ragione giuridica su eventuali istanze di follia che hanno come segno la prevaricazione. 1 K. NISHITANI, Dialettica del nichilismo, Palermo, 2008, p. 377 e ss. B. ROMANO, Dono del senso e commercio dell’utile. Diritti dell’io e leggi dei mercanti, Torino, 2011, p. 205. Vd. per una disamina dell’etica alla base delle ricerche fenomenologico-giuridiche, F. C. BRENTANO F. MAYER-HILLEBRAND, Grundlegung und Aufbau der Ethik, Bern-München,1952 e Die Lehre vom richtigen Urteil, Bern-München, 1956. 2 LUISA AVITABILE Non è esistita, peraltro, un’epoca storica in cui la ricerca del senso del diritto sia scomparsa del tutto; domata, soggiogata, dominata, strumentalizzata ricompare dirompente attraverso il perché, costringendo ad una motivazione delle scelte antigiuridiche, ad una spiegazione della ‘banalità del male’: Hitler, Stalin, Srebrenica, il genocidio del Ruanda, il Congo, la Nigeria, i kamikaze, le multinazionali che violano i diritti di chi lavora, le stragi legalizzate, le colonizzazioni in nome della civiltà … Proprio la ricerca sul senso della ragione giuridica porta a domandarsi quali siano i legami tra diritto, senso e linguaggio, nucleo delle riflessioni del pensiero contemporaneo, attraverso le questioni discusse nelle sue opere da Bruno Romano in modo equilibrato e simmetrico rispetto ad uno spostamento graduale verso l’una o l’altro impegno – quello del filosofo del diritto e quello del giurista positivo. Il lavoro speculativo si ricompone intorno all’et et e non all’aut aut, infatti quando si riflette sui cardini della teoria generale del diritto si avverte che non è data alla filosofia del diritto una colonizzazione, né alla teoria generale un’invasione, ma lo scrupolo è confrontarsi con un limite per evitare che si cada in una sorta di eutanasia dettata dal servilismo a tecniche che non competono al sapere filosofico, portato invece ad una dimensione, proficuamente critica, di ricerca continua, mai uguale a se stessa, nell’impronta di Socrate (una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta), piuttosto che di Nietzsche (l’eterno ritorno dell’uguale). Esiste un vinculum tra parole e diritto, tra logos e nomos? Se un legame emerge è nella strutturazione comunicativa. Allora è possibile attribuire priorità alla parola, dal logos il nomos, e la continua incessante ricerca in direzione della peculiarità della parola porta a riflettere su questioni esclusive dell’essere umano anche il giurista che usa con consapevolezza incondizionata le norme, esito ultimo di una procedura incardinata sulla genesi del diritto la cui ricerca critica appartiene alla filosofia del diritto. La paziente ricerca sulla parola la fa emergere come luogo privilegiato dell’espressione della libertà dell’uomo, topos di regole, ma anche dimensione fenomenologicamente differenziata dall’assetto e dal vasto ordinamento delle serie numeriche in grado di convergere, al pari di altre discipline, in una Grundnorm3. La parola non è netta e 3 H. HUSSERL, Ricerche logiche, Milano, p. 44 e ss. U. PAGALLO, Introduzione alla filosofia digitale. Da Leibniz a Chaitin, Torino, 2005, p. 71 e ss. 2 I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto radicale, comunica ‘più di quel che dice’, rinvia nel senso dell’interpretazione, nel tra-dire che rappresenta il luogo dello spazio sospeso (tra) e il dire inteso nella duplice veste della possibilità di travisare quanto detto dal cosiddetto loquente-parlante-soggetto4, e nell’intervallo di senso, a ciò che non è immediatamente enunciato. Peraltro, la parola non è solo il luogo della formazione delle regole, ma ha in sé la regola: parlare, ascoltare, in sintesi dialogare. Dunque, si può dire che già nella struttura del testo giuridico è presente l’interpretazione, la riflessione, che non è immediatamente ermeneutica funzionale5, ma complessità, non scevra da ambiguità, immagine del verbum. Se si pensa alla capacità dell’uomo di dirsi attraverso la parola, risuonano le riflessioni di von Humboldt: «Anche l’articolazione dei suoni, l’immane differenza tra il mutismo dell’animale e il discorso umano non si lascia spiegare fisicamente. Solo il vigore dell’autocoscienza impone alla natura corporea l’esatta divisione e la rigida delimitazione dei suoni che noi chiamiamo articolazione»6. Ne consegue che l’articolazione non è una banale esecuzione, ma necessita dell’autocoscienza, della possibilità di creare ogni volta un senso. La filosofia del diritto pone costantemente attenzione al linguaggio non esecutivo e alle intenzioni del giurista; le domande che guidano il cammino filosofico-giuridico sono: qual è l’attenzione che rivolge il giurista alla complessa dimensione dell’interpretazione7 che non può esaurirsi nelle tipologie interpretative? Qual è il dovere del giurista oggi?8 Qual è la responsabilità del giurista nel vedersi sottratte le questioni essenziali della giuridicità, tendenzialmente degradate al livello della possibilità ‘cimiteriale’9 del nichilismo giuridico? Riesce a mantenere la sua imparzialità di fronte alle declinazioni del formalismo che, da ultimo, si è rafforzato in formalismo finanziario? 4 G. CARCATERRA, Corso di filosofia del diritto, Roma, 1996, p. 218. Cfr. A. FILIPPONIO, Le enunciazioni performative e il linguaggio del legislatore, Torino, 1990. 5 N. LUHMANN, Das Recht der Gesellschaft, F. a. M. 1995, capitolo 8 L’argomentazione giuridica. 6 W. VON HUMBOLDT, Scritti filosofici, Torino, 2007, pp. 726-727. 7 Cfr. F. VIOLA ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 1999. 8 CICERONE, De officiis, I, 34, 85; SENECA, Lettere a Lucilio, LXXI, 32. 9 B. ROMANO, Nietzsche e Pirandello. Il nichilismo mistifica gli atti nei fatti, Torino, 2008, p. 61; Due studi su forma e purezza del diritto, Torino, 2008, p. 36. 3 LUISA AVITABILE La struttura dell’opera interpretativa10, compiuta non certo in modo secondario o marginale dal giurista, è peculiare dell’uomo in quanto soggetto del dire, titolare del diritto primo alla parola che ri-torna oggi con la presa di posizione di Paesi considerati storicamente dal mondo occidentale solo per questioni di profitto. Il primo momento di manifestazione fenomenologica del senso della ragione giuridica si ha certo con Socrate, con il nucleo giuridico della storia di una rappresentazione processuale riportata nell’Apologia, descrivibile oggi come il luogo attuale in cui compaiono imputati, testimoni, avvocati, pubblici ministeri, psicologi, ma anche malfattori, falsi testimoni, bugiardi, mitomani, cinici …, dove ogni uomo racconta la sua storia, consegnando al giudice un complesso mondo da valutare, non solo secondo una modalità formale o tecno-logica11. L’intera celebrazione del processo permette al giudice di assumere la decisione: il giudizio giuridico, dimensione di certezza dell’esistenza del diritto con le sue caratteristiche di imparzialità e disinteresse che, nella fenomenologia giuridica, si possono discutere a partire da una critica circostanziata ai Lineamenti di fenomenologia del diritto di Alexandre Kojève12. Facendo attenzione alle motivazioni date dalle scienze sulla riducibilità dell’uomo al resto dei ‘viventi non umani’, si possono leggere i testi classici attribuendo all’ente umano prioritariamente la sua qualità di ‘soggetto parlante’13, autore della parola che si va costruendo nel tessuto linguistico del discorso e che rappresenta l’humanitas sulla scena della testualità sociale14. 10 F. MODUGNO, Interpretazione giuridica, Padova, 2009, p. 105 e ss. CICERONE, De officiis, I, 124, 155; M. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, Roma, 2005, p. 37 e ss.; cfr. ID., Diventare persone: donne e universalità dei diritti, Bologna, 2001. 12 A. KOJÈVE, Lineamenti di fenomenologia del diritto, Milano, 1986, p. 210 e ss.; vd. anche F. OST, Mosé, Eschilo, Sofocle, Bologna, 2007, p. 114 e ss. 13 Cfr. B. ROMANO, Il diritto strutturato come il discorso, Roma, 1994; P. LEGENDRE, Ce que l’Occident ne voit pas de l’Occident, Paris 2004, pp. 67-94 ; F. SCHLEIERMACHER, Ermeneutica, Milano, 2000, p. 79: «Bisogna conoscere già l’uomo per comprendere il discorso, e tuttavia è solo dal discorso che si impara a conoscere l’uomo». 14 Quindi anche sulla scena del non-detto e dell’in-conscio, a tal proposito cfr. V. DESCOMBES, L’incoscient malgré lui, Paris, 1997. 11 4 I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto Sin dall’opera di costruzione delle norme, il giurista segue la linea della soggettività15, in cui la questione sul diritto investe la genesi fenomenologica e la validità del discorso giuridico, riguarda dunque chi stabilisce e definisce il diritto nelle sue forme, in una parola l’autore del significato del dire, della parola, del discorso, del linguaggio16, specificamente giuridico. È un elemento critico nei confronti del formalismo e assurge a momento di disapprovazione non della forma del diritto, ma di quelle derive che trasformano il diritto in terreno di privatizzazione non solo da parte del formalismo finanziario. La critica al tecnicismo normativo – compito di ogni filosofia del diritto17 – depurato da ogni forma di interpretazione è, peraltro, una critica alle ragioni che conducono al depauperamento e alla banalizzazione del linguaggio secondo paradigmi biologici. L’enunciato normativo presenta un senso che emerge perché viene messo in parole, nell’impossibilità di dominare integralmente l’opera dell’interprete18. Nell’esperienza giuridica il significato delle parole non può essere a priori epurato dalla dialettica parole e silenzio, dunque norme e diritto, ma anche ambiguità, equivoci e fraintendimenti tipici della parola. Attraverso questo itinerario, il linguaggio diviene discorso 19, nel senso che è non solo effimera e rappresentativa esecuzione del già 15 Uno dei riferimenti è a Edith Stein e al suo concetto di persona e di interpretazione che – diversamente da Gadamer – non è configurabile come interpretazionismo, ma come interpretazione possibile solo a partire dalla struttura della persona umana. Cfr. E. STEIN, La struttura della persona umana, Roma, 1999; Una ricerca sullo Stato, Roma, 1999; Il problema dell’empatia, Roma, 1986; Psicologia e scienze dello spirito, Roma, 1999; cfr. H.G. GADAMER, Il movimento fenomenologico, Roma-Bari, 2005 che pur essendo testimone degli sviluppi del movimento fenomenologico dimentica la figura dell’allieva più presente e più attenta di E. Husserl, appunto Edith Stein. 16 A proposito della molteplicità dei linguaggi e in particolare del linguaggio normativo cfr. A. G. CONTE, Filosofia del linguaggio normativo, Studi 1995-2001, Torino, 2001; vd. H. G. GADAMER, Linguaggio, Roma-Bari, 2005, p. 25 e ss. 17 La filosofia del diritto in Italia presenta una molteplicità di ‘anime’: E. OPOCHER, Enciclopedia del diritto, voce Filosofia del diritto, p. 517 e ss.; A. PUNZI, Enciclopedia del diritto, VI Aggiornamento, voce Filosofia del diritto, p. 1163 e ss. 18 Per una trattazione in direzione della filosofia analitica, E. TUGENDHAT, Introduzione alla filosofia analitica, Genova, 1989, p. 51 e ss. 19 B. ROMANO, Filosofia del diritto, Roma-Bari, 2001, p. 118. 5 LUISA AVITABILE dato, ma si trasforma in una strutturazione di parole che acquisiscono la peculiarità dell’argomentazione, dell’interpretazione20. Il discorso giuridico ha come trama essenziale le leggi del linguaggio mediate dalla coesistenza sociale, che è innanzitutto relazione interpersonale, dimensionata secondo l’originalità del singolo uomo che ritrova se stesso nella responsabilità della scelta compiuta e nella preparazione attuale avviata alla scelta che si concretizzerà nel futuro. Dunque, acquista un rilievo non certo secondario la questione dei legami tra temporalità e diritto non certo solo nel senso di Gerhart Husserl, ma nella direzione originaria discussa da Agostino, da Kierkegaard e da Heidegger. Ma la questione del diritto non avrebbe senso se non fosse rapportata alla questione del binomio temporalità-libertà. Infatti, la discussione critica della libertà si proietta oltre un concetto di ‘innocenza’, proveniente dal nulla e ad esso destinata, come si può leggere nelle tesi del nichilismo giuridico21 dettame del fondamentalismo funzionale. L’intero apparato contro-giuridico trova conforto in un ‘sistema del fondamentalismo funzionale’ ricco di apporti e contributi che nell’attualità rinviano alle ‘monarchie mediatiche’, considerabili indubbiamente alla stregua di dittature della parola, anche se la mistificazione del logos trova animazione ed animosità nelle situazioni di pubblicità e di merchandesing. Alla forma del diritto rimane il duplice e significativo aspetto della normatività e della giuridicità, in cui il diritto è nominato con riferimento al giusto, nel suo rapporto costante con la responsabilità dell’uomo che da soggetto diventa persona di diritto nelle relazioni interpersonali a statuto empatico (=riconoscimento costitutivo). Dunque, la manifestazione formale della norma, il diritto inteso come jus positum, non può escludere la struttura del linguaggio e di conseguenza quella dell’interpretazione22 che, a sua volta, implica la dinamica relazionale e razionale. La struttura discorsiva e testuale diventa così una ‘controversia di senso’ perché ogni lettura è 20 V. FROSINI, La lettera e lo spirito della legge, Milano, 1998, p. 46 e ss. K. NISHITANI, Dialettica del nichilismo, p. 83 e ss. In una prospettiva critica B. ROMANO, Scienza giuridica senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’, Torino, 2006, passim. 22 Trovano qui spazio le espressioni di Schleiermacher: «L’interpretazione deve quindi obbedire alle leggi dei diversi tipi di produzione sussumibili sotto il concetto di opera d’arte: altrimenti essa non coglie i diversi caratteri e interessi». F. SCHLEIERMACHER, Ermeneutica, Milano, 2000, p. 497. 21 6 I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto intrinsecamente interpretazione diretta alla costruzione di un’identità; ogni chiarimento presenta la sua plurivocità direzionale che impegna l’argomentazione giuridica nel muovere dall’uomo in quanto soggetto e dunque dall’istituzione della parola, della ‘parola giusta’23. L’intera questione del diritto è improntata allora sulla considerazione che l’architettura giuridica è costruita come metodo speculativo posto in parole; il linguaggio, attraverso l’espressione della parola, serve all’uomo per costruire la sua identità – la soggettività giuridica –, liberata da procedure di sottomissione dell’uomo all’altro uomo (il campo di concentramento costituisce uno degli esempi da custodire nella memoria dell’umanità). La critica del filosofo del diritto è rivolta oggi ad ogni totalitarismo capace di strumentalizzare il concetto di norma fondamentale per dominare l’uomo: dalle zone dell’Africa scelte come discariche del mondo ‘ricco’ sino all’affaire legislativo condizionato ed orientato dalle banche che sostituiscono, attraverso la finanza virtuale, al governo reale il governo finanziario (monetario). La questione può essere dibattuta secondo le coordinate del ‘sapere totale’ e del ‘sapere parziale’, per questo vivono in ognuno di noi le espressioni di Socrate ‘gridate’ davanti ad uno stuolo di magistrati24. Il male e la sofferenza sono quelli imposti, nelle forme ingiuste della negazione della parola sino alla condanna a morte, quella che da Socrate conduce a noi in una sorta di continuum temporale che vede al centro del pensiero filosofico un avvio dato dal processare pubblicamente stragi che nessuno ormai potrebbe pensare di confinare impunemente nei limiti di una Grundnorm. Pericolosamente nuove forme di razzismo potrebbe configurarsi in quella pulizia/polizia delle parole, criticata da Romano come inasprimento pragmatico della purezza che porta l’ideologia a non discernere tra diritto alla politica e politica del diritto25 e dove la giuridicità si confonde con gli interessi di una parte. Ne consegue un assunto fondamentale: il diritto ha una sua consistenza attraverso l’uso del linguaggio26 che, innestato nella legge 23 F. EBNER, Proviamo a guardare al futuro, Brescia, 2009, p. 299. W. F. OTTO, Socrate e l’uomo greco, Milano, 2005, pp. 62-66. 25 B. ROMANO, Dono del senso e commercio dell’utile, p. 245 e ss. 26 Il linguaggio costituisce il centro prospettico dal quale procede la stessa arte della riflessione vd. E. CASSIRER, La filosofia delle forme simboliche, vol. I Il linguaggio, Firenze, 1961, p. 151: «La facoltà fondamentale della ‘riflessione’ opera in ognuno 24 7 LUISA AVITABILE della parola27, produce effetti giuridici. Il diritto è istituzione interpersonale che separa il soggetto dall’oggettività naturalistica delle cose e allo stesso tempo lo scinde e lo divide da se stesso in una dialettica che va dal principio di identità a quello di alterità, impegnandolo, come afferma Legendre, a «communiquer à la manière humaine»28. In sintesi, l’opera linguistica del giurista rappresenta, in questo senso, l'impegno e la responsabilità a garantire la libera «costruzione dell’identità»29 giuridica. La parola, in quanto espressione ermetica – messaggio – è alla base della costruzione del ‘giuridico’ inteso nella sua realizzazione di un discorso; non si tratta di un potere fattuale, poiché il suo esercizio consiste nel produrre effetti attraverso la mediazione fondamentale del potere di dire – esclusivo dell’uomo –, di parlare, di porgere la parola all’altro, di istituire il diritto sulla base del logos costitutivo. La tesi «il diritto è strutturato come il linguaggio»30 chiarifica il diritto come testo della società attraverso la struttura dialogica (dialogos), dunque conduce alle considerazioni del filosofo del diritto che: quando l’uomo esercita il diritto alla parola non significa che disponga della futura interpretazione e comprensione che istituiscono il senso del discorso31. Questo sottolinea che l’uomo pur potendo produrre parole non può rimuovere quella consapevolezza che vanno via via ad dei suoi atti all’‘interno’ e all’‘esterno’: si manifesta da un lato nell’articolazione del suono, nell’articolazione e ritmizzazione del movimento del linguaggio, dall’altro lato nella sempre più netta differenziazione e distinzione del mondo rappresentativo»; sulle possibilità del linguaggio K. JASPERS, Del tragico. Sul linguaggio, Napoli, 2000, p.87: «‘Linguaggio’ è in primo luogo il parlare che si attua di volta in volta; in secondo luogo è la forma obiettivata della lingua (…), in terzo luogo è la facoltà linguistica in generale, il tratto distintivo dell’uomo»; anche F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Bari, 1967, p.19: «…il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio sociale; non si lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani, poiché non si sa come enucleare la sua unità./ La lingua, al contrario, è in sé una totalità e un principio di classificazione». 27 La constatazione teoretica radicale – rilevante nella sua semplicità – è rappresentata dalla possibilità di un declino storico del mondo costruito dall’uomo tramite un uso esclusivamente formale del linguaggio, trasmesso per esempio anche e non solo attraverso il mito; vd. W. VON HUMBOLDT, La diversità delle lingue, Roma-Bari, 2005, p. 58. 28 P. LEGENDRE, De la Société, p.16. 29 ID., p.17. 30 B. ROMANO, Il diritto strutturato come il discorso, p. 27 e ss. 31 W. VON HUMBOLDT, La diversità delle lingue, in part. p. 15. 8 I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto avere in un continuo, progressivo, inesauribile ‘rinvio di senso’ e nella differenza di significato che ogni uomo attribuisce loro. La storia mostra l’esistenza, la strutturazione delle regole sintattiche e grammaticali, ma dimostra anche che è oggettivamente impossibile creare la struttura della parola sino a renderla omogenea all’esattezza numerica; da ultimo, la struttura della parola è formata da verba e silentia, intervalli di senso che richiamano l’uomo al suo discorso originale, liberamente scelto, non consegnato alla contingenza o alla necessità. Proprio per il profondo legame tra logos e nomos, le considerazioni della filosofia del diritto investono l’homo juridicus che, pur essendo impegnato con le parole della legge, non può disporre della struttura della giustizia, perché non può renderla dogmatica; pur conoscendo la differenza tra la dimensione della giustizia (le condotte giuste) e quella dell’ingiustizia (escludere l’altro, in primis attraverso l’esclusione dal diritto alla parola), non può negoziare sulla distinzione tra il rispetto (giuridicità) e la violenza (controgiuridicità) e non può arbitrariamente confondere l’ascolto dell’altro con la negazione della parola. Allo stesso modo, non può disporre della condizione di essere libero o meno; si può dire che si trova esposto alla libertà, anche quando la svuota sino a vivere nell’insensatezza disperante di una quotidianità non più impegnata nell’esercizio della libera scelta, della decisione, insomma sino al nichilismo che coinvolge le strutture del ‘giuridico’. Il legislatore istituisce le norme, ma non crea il diritto, ovvero non crea l’affermazione o la negazione della differenza tra il giusto (rispetto) e l’ingiusto (esclusione come violenza) e, pertanto, non è il creatore assoluto dei contenuti normativi che differenziano il giusto dall’ingiusto. Questo argomento, proposto nei termini enunciati, non sembra presentare una questione così netta se – cancellata la distinzione tra giusto e ingiusto – l’uomo rimane confinato nell’unica dimensione formalizzata della giuridicità – ossia della legalità, fattualmente vigente, perché espressione della forza più forte. Si può riproporre un’interpretazione meno ingenua dell’opera di Kelsen32, laddove non la si consideri completamente obsoleta. È questa la Kehre: evitare che il diritto si trasformi nella vecchia legge del più forte sotto nuove spoglie edulcorate dalla globalizzazione; 32 Cfr. F. VON HAYEK, Legge legislazione e libertà, Milano, 2000, in cui esplicita il pericolo di una ratifica della legalità/giuridicità da parte del più forte. 9 LUISA AVITABILE mostrare fenomenologicamente che la scelta dell’uomo è determinante per liberarsi dal nodo della necessità e della contingenza, evitando così lo stare a vedere della ‘noia’ in cerca di una ragione procedurale che si limiti a ratificate l’indifferenza tra giusto e legale, con una arbitrarietà tendente a giustificare in modo legale (=la forza della maggioranza, la dittatura della democrazia, i numeri del consenso) anche le forme estreme, oltre a quelle sottili e raffinate, di violenza identificabili con il terrore legalizzato. 2. Le parole giuridiche sono la pretesa? Seguendo le dinamiche di una discussione sul diritto che mette al centro la parola, si può affermare che il concetto di ‘linguaggiodiscorso’ prevede una sorta di passaggio della parola che diventa interpretata, quindi ‘discorso’, libertà. Infatti, la dia-logicità pone in rilievo la totale interpersonalità della parola che non può, però, essere purificata e chiudersi in una formula paradigmatica (la forma della parola), da usare come una sorta di programma. La parola è passaggio che significa contaminazione con la realtà dell’uomo, con l’ipotesi di senso che diviene progetto di ogni uomo33, in qualunque luogo geografico. Da queste brevi considerazioni comincia un itinerario secondo il quale il pensiero giuridico non può assumere una connotazione solo ‘scientista’, subendo il vincolo di una sorta di destino tirannico della rappresentazione esatta; la parola è innanzitutto ‘libertà di parola’ che diventa ‘diritto primo alla parola’, codificato dal diritto positivo che, per il giurista, deve essere rinvio alla giuridicità in cui risiede un a priori non negoziabile (=riconoscimento dell’altro in quanto uomo, nella differenza), da qui l’uguaglianza si libera dal codice binario che la collega alla non uguaglianza o ad un’equivalenza funzionale. L’autentica uguaglianza è, infatti, quella del riconoscimento interpersonale nella consapevolezza che l’altro è alterità differente da ogni altra egoità, capace di emanciparsi dalle premesse neurobiologiche, attraverso il ‘no’. L’uomo è volontariamente capace di dire ‘no’, il no al perseguimento dell’ingiustizia come forma di declinazione di quella che, parafrasando Kant, si potrebbe definire ingiustizia radicale. 33 M. BLONDEL, L’azione, Firenze, 1921, p. 281 e ss. 10 I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto Ora, la libertà dell’uomo non può essere considerata semplicisticamente una libertà formale, ma diventa potere di esercitarla e il diritto diventa la condizione di garanzia che questa libertà venga esercitata senza abusi, si presenta una duplice direzione: garantire a ciascun uomo di esercitare la libertà di parola o distruggerla; la prima direzione, si manifesta nella prospettiva della ‘giustizia’ – il ‘giusto’; la seconda è orientata all’ingiusto. Le due direzioni hanno una loro struttura profonda solo se si possono manifestare in relazione all’opera interpretativa radicata nella parola. A proposito dell’architettura della parola giuridica, il diritto forma una serie di tecnici competenti della parola stessa. Questi agiscono in un profluvio di perfezionismi normativi e legalismi ipertrofici, destinati a scavare nelle pieghe di ogni equilibrio che si mostri in qualche modo disfunzionale all’intero sistema giuridico pervaso da un’unica ambigua espressione del più forte, a dispetto dei racconti mitologici e della manicheista distinzione tra buoni e cattivi che rappresenta in modo netto la differenza tra giusto e ingiusto. Oggi il diritto tende a diventare camaleontico, sventagliato come continua minaccia sanzionatoria per chi protesta34, dissente e non vuole adeguarsi. Senza una costante critica e vigilanza sull’imparzialità, il legislatore rischia di consegnare se stesso a nuove funzioni legislative – le leggi dei mercanti – che una volta svelate fanno sorridere il ‘tormentato’ tecnico delle norme che deve continuamente essere un passo avanti nel giustificare il più forte, nell’edulcorare normativamente il nuovo ‘agire comunicativo’ – quello dei più forti attraverso il latifondismo mediatico, dei socialmente rilevanti mediante la produzione del divertimento in ogni luogo, ad ogni costo come lotta contro la noia, dove il concetto di fiducia si declina su un versante totalmente funzionale al mercato35. Il mercato non può però essere considerato il mare magnum del male, il centro di imputazione di tutte le ingiustizie. Nella realtà, prevede attori, soggetti agenti che decidono sulla base di profitti radicati in un paradigma non certo universale ed incondizionato – come quello del diritto positivo basato sulla giuridicità – ma, al contrario, su un modello declinato in base ad oligarchie di potentati che assumono la finzione di democrazia attraverso l’espressione passe-partout di ‘libero mercato’. Il rischio è che il pianeta diventi un 34 35 Cfr. A. SUPIOT, Homo juridicus, Milano, 2006. Cfr. N. LUHMANN, La fiducia, Bologna, 2002. 11 LUISA AVITABILE condominio normativo dove ciascuno vale in base ai millesimi che possiede, allora il giurista è richiamato alle sue responsabilità: usare il linguaggio seguendo una doppia modalità; come legislatore istituire il testo della legge e come giudice interpretarlo, custodendo il legame tra fedeltà al contenuto enunciato nel testo (ciò che è detto nel dettato normativo) e lettura creativa del testo (ciò che non è detto, ma permane come nucleo della giuridicità). Inoltre, la sua vocazione – nel senso di chiamata più profonda ad un dovere universale di giustizia36 – lo investe nell’essere non semplicemente un ‘tecnico’ delle norme che, con la liquidità di Bauman si trasforma in un ‘idraulico’, ma un ‘artista della ragione’, non estraneo alla terzietà imparziale, come se fosse un’effimera figura per idioti che ancora credono in un diritto imparziale e disinteressato che sia garanzia per uomini e donne, per diversamente abili, per diversamente agée. Il giurista ha il dovere incondizionato di custodire le relazioni giuridiche – l’altro è uguale all’io nella differenza – tra gli uomini nelle condizioni di una uguaglianza non monetizzabile e deve rifiutare con vigore l’assoggettamento ad una funzione vincente, generatrice di rapporti di sproporzione e di diseguaglianza. Chi e perché dovrebbe imporre una condizione di diseguaglianza? Chi e perché dovrebbe imporre una questione di uguaglianza non solo formale? Riproporre la questione della rilevanza dell’uomo e della sua parola nell’ambito del linguaggio costituisce il momento più iniziale nella concretizzazione del principio di uguaglianza. Può riavviare un’opera che non si fermi ad una pedissequa analisi delle intenzioni del legislatore, ma vada al di là della lettera e affronti lo spirito– anche lo spirito del tempo, come ricordava Jaspers37. Dove il tempo non è la questione dell’epoca38, ma la ricerca del senso della ragione giuridica oggi e il giurista ha il dovere di rispondere a questa pretesa39. La massa di persone che, ai bordi di un diritto costruito in modo oligarchico ed élitario, rivendica la sua partecipazione al benessere lo fa indubbiamente nella inconsapevole forma della pretesa dell’io ad essere considerato non in modo cosale40; questo impulso alla 36 CICERONE, De officiis, I, 28. K. JASPERS, La situazione spirituale del tempo, 38 M. HEIDEGGER, Il principio di ragione, Milano, 2004, pp.58-59. 39 CICERONE, De officiis, I, 85; SENECA, De beneficiis, III, XXI. 40 CICERONE, De officiis, II, 42; SENECA, De beneficiis, III, XXVIII. 37 12 I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto rivendicazione di ‘ciò che è giusto’ viene dai sobborghi del benessere, di quel diritto al lusso che le novelle pubblicità stuzzicano nella decadenza di un’umanità generatrice di conflitti tra i ‘periferici’ che ambiscono al lusso; l’affermazione di una ricerca del giusto proviene dallo sguardo attento di chi guarda ai diritti – non tramite la spocchiosa solidarietà, carità, aiuto … – delle caste degli indiani (intoccabili), delle donne anche del mondo musulmano, dei poveri delle baracche, degli emigrati, degli apolidi non di lusso, dei rifugiati non illustri, delle vittime di genocidio, dei minatori della Sierra Leone, dei bambini che lavorano i tappeti che arredano le nostre case, dei lavatori-coloratori di jeans che fasciano le nostre gambe, dei dannati alla ricerca dei diamanti delle multinazionali che nelle vetrine fanno bella mostra di sé, delle operaie africane, prive dell’elementare diritto primo alla parola per proteggere la loro salute, che coltivano fiori ricchi di anticrittogamici destinati ai mercati europei. Desidero che mi si consideri un soggetto di diritto, è la pretesa che viene da mondi sconosciuti che, a volte, non condividono con il mondo dei più forti né la lingua, né la razza, né il credo religioso, né l’ideologia politica e che ripropongono la questione della lotta antropogena di fronte alle domande: chi sono io per essere trattato in questo modo? Chi è costui che mi può costringere ad eseguire, sino ad identificare il mio diritto ad essere io con la concretizzazione di un profitto? La massa di persone che spinge per entrare in un mondo di riconoscimento giuridico – prima che di riconoscimento economico – è la domanda che viene posta oggi al giurista che in questo momento non può più considerarsi al sicuro nei confini di uno Stato nazionale. È la domanda che poneva la rivolta degli schiavi, ma con un potenziale completamente diverso: l’uomo, la donna, i bambini, l’intoccabile … sono parte di un fenomeno – quello della globalizzazione e della piena rivoluzione informatica – destinato a confrontarsi con l’evidenza che ogni uomo, in qualunque luogo del mondo, è titolare di diritti incondizionati che prescindono dalla collocazione geo-politico-religiosa, ponendo l’io di fronte ad un’alternativa: costruzione di quell’impero universale ed omogeneo di Kojève; consapevolezza critica che il diritto è l’unica dimensione istituita imparziale e disinteressata che permette di contrastare la sproporzione e la diseguaglianza, imposte dalla sempiterna legge del più forte, e di garantire l’universalità e l’incondizionatezza della giuridicità. 13 LUISA AVITABILE E il concetto di diritti dell’io non è più prerogativa di intellettuali occidentali che ancora affermano che la definizione di diritti umani non è contemplata negli ideogrammi, quasi a voler ridurre la giuridicità e la sofferenza causata dalla negazione dei diritti ad una forma e non all’esercizio della libertà da parte di uomini e donne del pianeta. La rivoluzione del web ha portato alla conoscenza – in tempo reale – che in altri parti del mondo reale uomini e donne non hanno la possibilità di esercitare concretamente la loro pretesa giuridica e che il diritto non si può ridurre ad un’impresa di solidarietà al pari del ‘commercio equo e solidale’. Il blog, il web, le chat rooms, skype, i social networks … – con le loro strumentalizzazioni e i loro limiti – hanno dato ‘parola’: nella comunicazione interpersonale, nessuno vuole rinunciare a parlare, nessun uomo accetta che si dicano parole in sua vece, nessuno intende essere sostituibile, nessuno si vuole sentire disconnesso. Proprio in questo la parola rivela la sua ‘energia’, non è dominabile, l’uomo pur esprimendola non può vietare che venga interpretata nella libertà dialogica, in una dimensione di pluralità che ormai è planetaria e cerca di sfuggire, non senza difficoltà, all’assolutizzazione del ‘commercio dell’utile’. L’uomo, nella espressione costante e difficoltosa della parola, continua a cercare un senso, che slitta sempre verso l’alterità in modo a volte condizionale, funzionale, ma anche gratuito; è sempre l’uomo che si rende responsabile della sua scelta in modo consapevole e mai banale, secondo quella responsabilità che riafferma ‘mea res agitur’41. Infatti, ogni volta che ‘conversa’ l’essere umano chiarifica la sua condizione, la riprende e dà voce al ‘suo’ linguaggio, ogni volta preordina mentalmente un discorso che rischia di essere interpretato in modo del tutto diverso da come si era rappresentato, ogni volta doverosamente e difficilmente si rivolge all’altro e a se stesso. La comunità nella quale oggi l’uomo vive è virtualmente planetaria, fa da sfondo alle relazioni interpersonali e non può essere considerata una comunità di puri spiriti, una comunità empatica dove l’empatia acquista la fisionomia dell’entropatia come forma della differenza formale, di una distinzione a carattere paradigmaticamente puro che non si fa contaminare dalla realtà. La comunità di cui qui si discute è una comunità reale e la filosofia del diritto rimane attuale proprio 41 V. JANKÉLÉVITCH, Il non-so-che e il quasi-niente, Torino 2011, p. 390 e ss. 14 I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto prendendendo le mosse da un primo uomo – Socrate – che davanti ad una pletora di giudici decide di difendersi e dare le sue motivazioni non confuse con l’opera della sofistica, né tantomeno con un mondo della vita presocratico dove la fenomenologia è di ordine vitalistico. Socrate, l’uomo che discorre di un sapere che non si sa, che non fugge di fronte ad una legalità ingiusta, fa ancora riflettere oggi il filosofo del diritto ed il giurista sulla possibilità di istituire una legalità imperfetta del sapere parziale, per cui si possa affermare che l’homo juridicus non può dominare la libertà della parola, ma ha il dovere di non porre in essere – in nome di una legalità convenzionale – il dominio dell’altro, di non imporre un principio annichilente. Nel linguaggio giuridico questo può avvenire attraverso un discorso preconfezionato che non lascia nulla alla libertà ermeneutica, ma la riduce ad ermeneutica funzionale: atti di violenza rivolti ad ottenere il completo dominio dell’uomo, del soggetto parlante. Il diritto – al pari del linguaggio – sfugge a questo ricatto nel tentativo di non lasciarsi dominare; appena una rappresaglia giuridica si manifesta in un determinato punto del globo terrestre, si sollevano innumerevoli lenti interrogativi sulla possibilità che essa collimi con l’ingiustizia; è una sorta di tornaconto che fa affermare al mondo di attori normativi che la presa di coscienza è nei confronti di una dimensione giuridica che non può essere esclusivo appannaggio dei tecnici del diritto o di un élite economicamente rilevante chiusa in un’enclave reticolare. Il diritto, come il linguaggio, è indisponibile, rappresenta il primo reale motivo di differenziazione dell’essere; il diritto positivo, da parte sua, non può considerarsi il riso beffardo del legislatore più furbo nella contingenza, avido di una realtà che per alcuni è dorata e per altri rappresenta una meta irraggiungibile. Il diritto – con le sue forme, la complessità, i simboli, le liturgie, le procedure – mette in scena l’uomo attraverso l’uomo, proporziona le parti della relazione giuridica e allo stesso tempo ha il dovere di garantire le generazioni future da qualsiasi presa di posizione egemone. Così come le parole degli uomini non sono solo ciò che sono, il diritto non è solo ciò che viene detto nelle norme, non può essere il risultato di un oltraggio alla persona, al principio di uguaglianza e le parole degli uomini – a differenza dei suoni – sollecitano l'opera dell'interpretazione che possiede le proprietà dell'opera d'arte, così 15 LUISA AVITABILE come qualsiasi dell’interprete42. 42 norma deve sollecitare l’operare critico W. VON HUMBOLDT, La diversità delle lingue, p. 36. 16 I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto 3. Conclusioni Chiedersi perché la filosofia del diritto oggi significa interrogarsi sui saperi e sulla loro trasmissione, in un’attualità in cui l’identificazione con l’immediato è subitanea, è fissa e portata ad un nichilismo soft, privo di senso, noioso, dove l’unico motivo per rimanere a leggere la realtà è un’ipotesi voyeuristica, primazia della cronaca. Interrogarsi sul perché rivela oggi la volontà di mettere in questione le forme del diritto, significare l’azione pedagogica che conduce all’acquisizione e all’interpretazione di tali forme. Solo all’apparenza sembra obsoleta quell’affermazione che accompagna lo studioso: l'interpretazione del diritto è un'arte perché crea un significato. Innanzitutto, l’opera dell’interpretare elabora un significato che non è dato nell’immediata lettura dell’enunciato, crea un senso empatico del testo da destinare a perfetti sconosciuti sotto il distintivo segno dell’humanitas, secondo l'originalità di chi pronuncia e di chi ascolta le parole, tentando di cercare il senso oltre un contingente e semplicistico insieme di operazioni linguisticofunzionali43. Il legame tra giuridico e reale consiste in una rappresentazione che fa esistere il giuridico attraverso le forme; la costituzione di uno Stato che non sia più territoriale, geograficamente determinato, localmente vincolato rappresenta lo slancio verso un senso della giuridicità che ha un che di ‘antico’ senza per questo essere obsoleto, in scadenza. Gli effetti del linguaggio-interpretazione-discorso delle forme normative, in questo concetto di sovrastatalità, rappresentano un segno dell’istituzionalità divenuta reale attraverso la forma44: vincere il nulla. Vincere il nichilismo giuridico attivo e passivo è l’impegno al quale richiama ogni filosofo del diritto che non voglia collaborare all’affermarsi dell’insignificanza del nulla. È possibile affermare, dunque, che il principio di narcisismo statalista (legge=Stato) non è più valido teoricamente, mentre continua a permanere in una prassi che si va progressivamente modificando e che vede i singoli Stati privati gradualmente di quel potere giuridico basato sulla norma fondamentale che li rendeva portatori sì di democrazie seppur discutibili, ma anche di dittature con un habitus 43 ID., La diversità delle lingue, p. 39. P. LEGENDRE, La 901e, p. 279. J.-P. SARTRE, L’être e le néant, Paris, 1970, p. 37. 44 17 LUISA AVITABILE democratico. La nuova fragile consapevolezza parte proprio dall’espressione sociale del linguaggio45 che lotta contro la deriva nichilista rintanata nella forma del più forte46. In Occidente una delle sue espressioni è appunto la filosofia del diritto, il cui dovere è rendere comunicabile, concreta e reale la scena del Terzo giuridico: evitare che l’uomo possa delirare socialmente perdendosi in un moto irrazionale, agiuridico, privo della misura della ratio; il terzo normativo e, sulla base di questa analisi, l’istituzione della terzietà legislativa, giudiziaria, della polizia, del testimone ecc. evitano il delirio47 distruttivo della ragione giuridica e quindi della sua possibilità di costituirsi come de-ragione o follia, o vuoto legalismo, o self-service normativo nelle forme del management giudiziale48. Il giurista è portato a riflettere sulle parole al di là dell'ambito fisico-biologico: le parole sono tali, e non semplici prodotti degli organi della fonazione, non appena si fissano in una forma dogmatica vengono percepiti immediatamente solo come coercizione, pur mantenendo la possibilità di essere ancora risignificati nel dialogo, per creare un nuovo senso49. La rivalutazione assoluta dei cosiddetti saperi tecnici tenta di oscurare tutto ciò che non è riproducibile, non è oggettivamente sperimentabile, che dia un’immediata sicurezza di visibilità e 45 W. VON HUMBOLDT, La diversità delle lingue, p. 158 e ss. Sembrano qui appropriate alcune riflessioni di. E. CIORAN, Sommario di decomposizione, Milano, 1996, p.31 «Il plurale implicito del ‘si’ e quello esplicito del ‘noi’ costituiscono il confortevole rifugio dell’esistenza falsa. Soltanto il poeta si assume la responsabilità dell’‘io’, soltanto lui parla a nome di se stesso, soltanto lui ha il diritto di farlo». 47 L. BINSWANGER, Delirio. Antropoanalisi e fenomenologia, Venezia, 1990, p. 136 «… per ciò che concerne la traducibilità del testo del delirio, così insolitamente variegato, nella lingua dell’‘esperienza naturale’ non disponiamo, né potremmo disporre, al riguardo, di alcun dizionario. Infatti l’illegibilità di tale testo si basa sul fatto che i testi deliranti, lungi dal rappresentare una «lingua straniera» dalla quale si possano agevolmente tradurre parole e frasi in un’altra lingua esprimente un’esperienza naturale, sono dettati da una coscienza che è «scompaginata» o i cui limiti sono «scombinati» rispetto ai nostri». 48 Solo in questo senso trova una giustificazione il comune procedere dell’estetica e della poetica, posti in un ordine di reciprocità di effetti. Cfr. anche H. G. GADAMER, Linguaggio, cit., p. 27 e ss. 49 M. MERLEAU-PONTY, Segni, Milano 2003, p. 68: «ogni linguaggio è indiretto o allusivo, è, se si vuole, silenzio»; vd. anche R. SPAEMANN, Natura e ragione, Roma, 2006. 46 18 I doveri del giurista, le critiche della filosofia del diritto stabilizzi le ansie attraverso un’espressione50 di certezza ed univocità che appaiono innanzitutto linguistiche. L’uomo internettiano non vuole interpretazioni: twitter ed altre possibilità messaggistiche sono immediate, non hanno lo statuto della creatività ermeneutica. L’ermeneutica è sostituita da una Kunstwerk funzionale che non lascia spazio alla discrezionalità ma solo a ‘gradi distinti di libertà’51 in base al ruolo, divenuto ormai un recinto. Tutto sembrerebbe portare ad alcune conseguenze che non hanno qui la pretesa di costruire il côté destruens della pratica giuridica a statuto funzionalista: innanzitutto, la riflessione sul concetto di libertà connesso a quello del logos che conduce a pensare all’esercizio della libertà così come a quello della parola non come a concessioni, privilegi. La loro ‘datità’ conserva il carattere di unicità ed irripetibilità per ogni persona quindi non riproducibilità perché costituita da una dimensione di rinvii che, nella plurivocità del futuro, non può essere considerata un ‘dato oggettivo’, visualizzato, configurato e riproducibile. Anche se in alcune espressioni, il diritto ambisce a divenire scienza a statuto tecnico, immediatamente scioglie uno status di insoddisfazione e gli elementi costitutivi della soggettività conducono i giuristi a considerare la dimensione della libertà connessa alla giuridicità, con attenzione a concretizzare l’esercizio della libertà e della giuridicità nella responsabilità e nella pretesa giuridica. La libertà e il diritto sfuggono ad un’oggettivazione scientifica (scientista) a mo’ dell’oggettività, presentano delle forme che emergono dall’indifferenziato: il diritto – la giuridicità – estrinseca un suo significato nel momento in cui diventa forma (norma); solo in tale dimensione il diritto è criticato o criticabile, modificato e messo in discussione. Attraverso la forma, il diritto storicizza le tre figure imparziali della terzietà (legislatore, giudice, polizia), garantendo un contenuto che non sia contenuto di parte. La questione della tecnica , qualunque sia il suo ambito applicativo, corre il rischio, ogni volta, di asservirsi al fondamentalismo funzionale, nel senso di sottomettersi ad un ambito che ha come base la dogmatica funzionalista, che non è una dogmatica in senso oscuro ma che, ponendo a fondamento il dogma della funzione, non accetta aperture, si pone accanto ad un nichilismo compiaciuto: la vita scorre 50 51 E. BONCINELLI, Il posto della scienza, Milano 2004, p. 166. N. LUHMANN, Das Recht der Gesellschaft, capitolo 7. 19 LUISA AVITABILE e con essa le poche regole che l’uomo è in grado di darsi determinate dai mercati che si muovono su un trend univoco, quello del profitto, e che si manifestano in modelli relazionali in cui la parte che ha successo nella fattualità monetizzata del mercato vince sulle altre. In tale direzione, allora si pone la questione dell’impegno del filosofo del diritto e del giurista, purtroppo anche del tecnico delle norme che non può fare spallucce e rimanere indifferente alla qualità delle relazioni e alla dimensione di terzietà del diritto. Il filosofo del diritto non può considerare il mondo del diritto e quello dell’economia estranei l’uno all’altro e il fatto di considerarli indipendenti è un’utopia degli spiriti puri. Il mondo del diritto ha bisogno dell’universo economico, data la pervasività del denaro inteso quale ‘medium simbolicamente generalizzato’: i tribunali e i parlamenti sono fonte di dispersione di danaro, investimenti economici che passano dal sistema politico al sistema giuridico, mediati dal sistema dell’economia. Ma spetta al giurista positivo concretizzare la misura di una legalità sensibile all’incanto (danaroso) delle sirene finanziarie, rinviando ogni volta alla domanda iniziale: sto istituendo norme che, oltre al carattere della generalità e dell’astrattezza, rispondono al requisito dell’universalità e dell’incondizionatezza dei diritti dell’io? 20