Psiche e techne, che di Umberto Galimberti è sicuramente il libro più

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Psiche e techne, di Umberto Galimberti, riprende e amplifica alcuni di questi concetti. Egli sostiene
che la tecnica ha sostituito la natura che ci circonda e costituisce oggi l'ambiente nel quale viviamo.
Noi però ci muoviamo in esso con i tratti tipici dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di
scopi, con un bagaglio di idee proprie e di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende
a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non svela verità, la tecnica "funziona".
Come "analfabeti emotivi" assistiamo all'irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità
dell'or-ganizzazione tecnica, priva ormai di qualunque senso riconoscibile. Ciò di cui
necessitiamo è un ampliamento psichico capace di compensare la nostra attuale
inadeguatezza.
Il progresso tecnico-scientifico provoca l'irreversibile decadenza dell'umanesimo: il pensiero
viene sottomesso alla potenza della tecnica. La tecnica contiene una volontà di dominio che
vuole in primo luogo il proprio infinito potenziamento: "vuole se stessa".
Che l'umanesimo sia finito è una storia vecchia almeno di cent' anni nel senso che già lo diceva
Heidegger nel 1930. Cosa vuol dire umanesimo fondamentalmente? Che l'uomo può governare
la terra: ecco oggi questa proposizione non è più praticabile. Per "tecnica" intendo
l'oggettivazione dell'intelligenza umana, la quale è decisamente superiore a qualsiasi uomo,
per cui non è più possibile pensare l'uomo come colui che dispone della terra ma bisogna
pensare a quei processi di oggettivazione della sua intelligenza che si chiamano tecnica e che,
essendo superiori alla capacità di tutti gli uomini (intesi sia come individui, sia come gruppi),
governano la tecnica, ossia governano la terra. Il problema grosso è che la tecnica non ha uno
scopo. Nel senso che, nelle età pretecnologiche, la tecnica è sempre stata pensata come un
mezzo. E gli scopi li assegnavano gli uomini.
Oggi la tecnica non è più un mezzo perché, essendo diventata la condizione universale per
realizzare qualsiasi scopo, essa diventa il primo scopo: ciò cui ci si rivolge, innanzitutto, e alla cui
conquista tutti gli uomini tendono. Solo che, quando un mezzo diventa scopo, si rivela anche un
mezzo senza scopi. Per cui la tecnica a questo punto è diventata scopo. Quindi la cosa si fa ancora
più drammatica, poiché essa tende esclusivamente al proprio potenziamento. Io produco ad esempio
una leva: in seguito farò una leva più potenziata, poi ancora più potenziata. Ma questa descrizione
vale finché la leva è un mezzo: però se la leva non è più un mezzo ma diventa lo scopo, allora resta
la struttura del mezzo che è quella di potenziarsi sempre di più senza alcuna finalità.
Ora, siccome la politica può realizzare i suoi scopi solo se si dispone dell'apparato tecnico, siccome
la stessa religione può realizzare il suo universalismo solo disponendo di mezzi tecnici, è chiaro che
tutti vogliono la tecnica, la quale però è un fare afinalizzato, un potenziamento afinalizzato, per cui
l'uomo oggi si trova in uno scenario senza orizzonti. E non li può certo assegnare alla tecnica questi
orizzonti, appunto perché la tecnica è più forte di lui. Questa è una persuasione diffusa anche a
livello elementare: ad esempio la gente oggi di fronte ad un incidente stradale o a uno scontro fra
due treni spesso cosa dice? Che è stato un "errore umano", per cui l'uomo è già pensato come un
errore, e lo si pensa dunque solo in relazione alle esigenze dell'apparato tecnico.
Sì, la cosa strana è che sembra di esser di fronte ad un nuovo individuo...
Questa è la nostra visione antropomorfica: non avendo altro linguaggio l'assumiamo come soggetto.
Però la tecnica può essere definita come la forma più alta di razionalità umana, più alta ancora
dell'economia — che è pure una forma razionale — perché l'economia è ancora corrotta da una
passione umana, ovvero la passione per il denaro; mentre la tecnica è la forma più alta di
razionalità, quindi è assolutamente anonima e indifferenziata.
Un'altra cosa che a me pare strana: non è comunque la tecnica un prodotto della mente
dell'uomo?
Sì, però il prodotto ha superato il produttore, per cui sono convinto che tutti quelli che usano il
computer sono inferiori al computer che usano, nel senso che non sono capaci di "manipolarlo"
come un semplice strumento...
Sì, ma questo è il problema di coloro che non hanno voglia — non dico di pensare, perché
pensare non ti risolve i problemi della macchina — però di sforzarsi, di essere convinti che si
può approfondire la conoscenza del mezzo...
E' vero quando parliamo di un computer, ma l'apparato tecnico è un complesso di sottoapparati.
Ora, il fatto è che l'apparato tecnico risultante dalla somma di tutti gli apparati è decisamente
superiore a tutte le competenze. Per cui bisogna anche smobilitare l'idea che esista un potere, un
presidente degli Stati Uniti che possa controllare la tecnica. No. Anche perché le competenze
tecniche sono arrivate ad un livello tale che, per esempio, in America sono nate delle tv divulgative
non per far capire le cose alla gente comune ma per far capire al fisico A, che sta studiando una
certa cosa, come poter intendersi col fisico B... per cui tra di loro già non si intendono più... dunque,
pure a livello di specializzazione non c'è più nessuno che è davvero "competente". E non è solo il
caso della fisica. Lo stesso avviene nel mondo dell'informazione. Oggi la politica guarda
all'economia per decidere, quindi la politica non è più il luogo della decisione. L'economia a sua
volta guarda alle risorse tecniche per investire. Quindi la tecnica finisce per essere il luogo della
decisione priva di effettivo "discernimento", perché non ha in vista scelte, scopi, che non siano il
suo mero potenziamento.
Se la tecnica è lo stadio ultimo di questo discorso, se però poi lei dice che non siamo ancora nel
pieno svolgimento dell'età della tecnica, cosa sta succedendo?
Direi che la tecnica non è ancora la forma universale del mondo, innanzitutto per una ragione
geografica, perché la tecnica è un evento solo occidentale. Inoltre, anche all'interno dell'occidente ci
sono dei residuati antropologici, nel senso che oggi ancora il potere politico può dire alla tecnica ti
potenzio qua e non ti potenzio là... Perché si arrivi all'egemonia totale ci vuole ancora un po' di
tempo: in questo senso dico "non si è ancora fatta sera", però non vedo l'alternativa.
«Come fa l'etica che non può, a dire alla scienza e alla tecnica, che possono, di non fare ciò che
possono?» A me sembra che l'attenzione sia sempre rivolta verso l'esterno, come per dire che
è tutto inevitabile. L'etica non ha forse delle colpe?
Io non farei una critica all'umanesimo, perché l'umanesimo ha gestito un'etica finché si pensava che
il bene e il male fossero faccende che riguardavano la sfera umana. Nessuno pensava che l'aria o
l'acqua rientrassero nella responsabilità umana, perché ce n'era tanta e gli uomini erano pochi, per
cui le visioni etiche che finora abbiamo costruito avevano nel bene e nel male limitato la sfera
umana. Noi sostanzialmente possiamo distinguere tre etiche nella storia della cultura occidentale: la
prima è quella dell'intenzione, per cui io sono colpevole o non colpevole a seconda dell'intenzione
che avevo nel compiere un'azione. Su questo si è fondato tutto l'ordine giuridico dell'Europa: di
fronte a un fatto si dice se il delitto era intenzionale, preterintenzionale, eccetera. Ora, a me sapere
le intenzioni di uno scienziato, ad esempio di Fermi che inventa la bomba atomica, non interessa
niente sul piano etico, mi interessano piuttosto gli effetti della bomba atomica. Per cui l'etica
dell'intenzione di origine cristiana non mi serve più.
Abbiamo poi un'etica laica che trova in Kant il suo maggiore esponente: afferma che l'uomo deve
essere trattato sempre come un fine e mai come un mezzo, lasciando implicito che tutte le altre cose
possano invece essere trattate come un mezzo. Solo che oggi posso davvero trattare come un mezzo
gli animali, i pesci, le piante, l'aria, l'acqua, cioè tutto quel che è fuori dall'umano? No, perché la
tecnica mi sta disfacendo l'habitat in cui vivo, per cui devo costruire un'etica che si faccia carico di
sfere extraumane di cui anche l'etica laica non aveva formulato il principio.
Poi c'è una terza etica, messa in circolazione da Max Weber, che è l'etica della responsabilità
(1910). Weber dice che non bisogna guardare l'intenzione degli uomini, bisogna guardare gli effetti
delle loro azioni. Poi però apre una parentesi e dice: «quando gli effetti sono prevedibili». Ora, è
proprio della tecnica produrre effetti imprevedibili, ad esempio gli organismi geneticamente
modificati hanno degli effetti che non conosciamo ancora, però la tecnica biogenetica va avanti.
Ecco allora che anche questa etica della responsabilità non funziona. Altre non ne abbiamo
inventate. E allora ci troviamo nella posizione patetica per cui l'etica invoca la tecnica di non fare
ciò che può. Ad esempio, si può fecondare in mille maniere: si può fare o non si può fare? L'etica
può dire quello che vuole la tecnica va avanti e fa. Perché il motto della tecnica è che «si deve fare
tutto quello che si può fare». Questa è l'etica della tecnica, prescindendo da tutte le conseguenze.
«Inquietante non è che il mondo si trasformi in un unico apparato tecnico – ancora più
inquietante è che non siamo affatto preparati a questa radicale trasformazione del mondo»
(Heidegger). La consapevolezza di ciò a cosa porta? Io personalmente vivo quest'ansia da
tecnica (cellulari, computer… ) ma il sapere quali sono i danni miei e della civiltà non mi
consola, anzi mi intristisce ancora di più perché sento la frustrazione e l'impotenza del non
poter fare nulla, anche perché se io dico no alla tecnica, a parte il vivere male, vivo comunque
in un mondo tecnicizzato.
Qui Heidegger sta dicendo che la tecnica non solo ha degli effetti sul mondo esterno ma ha degli
effetti anche su di noi; dice anche un'altra cosa che è inquietante: il fatto per cui noi non disponiamo
di un pensiero che non sia il pensiero del calcolo. Oggi per noi occidentali pensare significa far di
conto, calcolare, prevedere, fare piani, organizzare, ma questo è pienamente il pensiero tecnico.
Allora la tecnica è già entrata a modificare il nostro modo di pensare: questo è l'inquietante. Allora
la domanda è questa, non è inquietante che il mondo si trasformi in un apparato tecnico, non è
inquietante abbastanza il fatto che noi non siamo preparati, ma è inquietante il fatto che non
disponiamo neppure di una risorsa di pensiero alternativa, perché la tecnica ha già condizionato il
nostro modo di pensare trasformando il pensiero in calcolo e quindi noi siamo organici alla tecnica
già nel nostro stesso modo di pensare.
La gente non accetta queste cose: continua a pensare di vivere in un'epoca umanistica e ha, sì, una
certa ansia della tecnica, ma è sempre persuasa che l'uomo possa controllare con la volontà la
tecnica medesima. E invece bisogna rendersi conto che la tecnica modifica radicalmente le figure
con cui l'umanità ha pensato se stessa. Per esempio, modifica il concetto di verità. Per cui è vero
quello che è efficace, quello che fa effetto: questo non si era mai detto, modifica il concetto di
libertà perché io posso scegliere alla sola condizione di poter essere tecnicamente competente,
perché se invece non ho una competenza non posso affatto scegliere...
Quindi, la libertà è cadenzata dalla competenza tecnica. L'individuo va in crisi perché nell'età della
tecnica, per effetto dei mezzi di comunicazione, ciascuno pensa quello che pensano tutti, e allora a
questo punto anche la storia dell'individuo deve essere rivisitata. Le rivoluzioni non sono più
possibili nell'età della tecnica perché le rivoluzioni sono possibili quando ci sono due volontà, il
signore e il servo, ma nell'età della tecnica sia il signore sia il servo sono subordinati all'accadere
tecnico. Nel senso che non è solo l'operaio a dover sottostare alle leggi del mercato, ma anche il
capitalista. Quindi, la tecnica riduce i contendenti a subordinati, per cui la rivoluzione è impossibile.
Con chi me la prendo? Con la tecnica che è la condizione della mia vita? E allora, in questo senso,
diciamo che parlare della tecnica significa oggi svegliare la gente e dire: rendetevi conto che siamo
nell'età della tecnica e se continuate ad abitare questo nuovo paesaggio con categorie umanistiche
vivete in un altro mondo, non siete all'altezza del mondo in cui vi muovete. Quindi si tratta di una
sorta di educazione alle consapevolezza che le categorie umanistiche oggi non funzionano più, cioè
sono disadatte ad interpretare questo mondo.
E per quelli che già se ne rendono conto?
Oggi la tecnica funziona ancora come mezzo di volontà contrastanti, poi arriverà ad un punto in cui
eliminerà anche le volontà contrastanti. Prendiamo ad esempio il capitalismo: il capitalismo per
espandersi, per seguire la sua logica espansionistica finisce per distruggere la terra che è l'elemento
della sua ricchezza e allora cosa fa per rallentare la distruzione della terra? Deve ricorrere alla
tecnica. E la tecnica pone le sue leggi indipendentemente dalle leggi del capitale. Per cui anche la
conceria di Treviso per fare il profitto deve distogliere parte del suo profitto per realizzare il
depuratore. Questo vuol dire che il capitalismo sta cominciando a pagare dei costi alla tecnica. In
qualche modo oggi è ipotizzabile un riscatto dell'umanità proprio grazie alla tecnica.
Può secondo lei l'arte — intesa in senso ampio come "espressione artistica" — essere una via
di fuga per quel mondo perduto della psiche, della fantasia, delle emozioni e dei sogni? E
come vede in tal caso il rapporto tra arte e tecnica?
L'arte è l'ornamento del capitale. L'arte può essere sì un'alternativa alla tecnica, ma dal punto di
vista, appunto, della via di fuga. La tecnica è efficentistica e incide anche nelle pratiche quotidiane
della vita. L'arte esiste, ma può essere un contraltare alla tecnica solo se il mondo si organizza
artisticamente. Ma non mi pare che il mondo si organizzi in questo senso. Non dovremmo forse
sempre vedere qual è la parola senza la quale non si può spiegare ciò che succede? Se io tolgo la
parole "arte" questo mondo va avanti lo stesso? Mi pare di sì. Se tolgo la parola "tecnica"? No.
Allora l'arte non è un contrappunto della tecnica, è un rifugio estetico ed emotivo. Qualcosa come il
weekend più nobile rispetto ad un weekend ormai tecnicizzato, poiché ormai assistiamo anche alla
tecnicizzazione del tempo libero. Dopodiché, c'è l'ultima speranza da affidare al terzo o quarto
mondo, nel senso che la tecnica è un elemento solo occidentale che investe 800 milioni di persone
che consumano l'80% delle risorse del mondo. La tecnica in sé è una struttura fortissima ma anche
debolissima. Ad esempio, il terrorismo capta la debolezza della tecnica. La sua fragilità.
Venezia, 12 Giugno 2002
Al centro del discorso filosofico di Galimberti c’è la tecnica, che secondo il filosofo è il tratto
comune e caratteristico dell’occidente. La tecnica è il luogo della razionalità assoluta, in cui non c’è
spazio per le passioni o le pulsioni, è quindi il luogo specifico in cui la funzionalità e
l’organizzazione guidano l’azione.
Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è
diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia,
efficienza, organizzazione) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo alle
esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Tuttavia ancora non ci rendiamo conto che il rapporto
uomo-tecnica si sia capovolto, e per questo ci comportiamo ancora come l’uomo pre-tecnologico
che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di
sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non
apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona e basta.
Il punto cruciale sta nel fatto che tutto ciò che finora ci ha guidato nella storia (sensazioni,
percezioni, sentimenti) risulta inadeguato nel nuovo scenario. Come "analfabeti emotivi" assistiamo
all'irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità dell'organizzazione tecnica, priva ormai di
qualunque senso riconoscibile. Non abbiamo i mezzi intellettuali per comprendere la nostra
posizione nel cosmo, per questo motivo ci adattiamo sempre di più all’apparato e ci adagiamo sulle
comodità che la tecnica ci offre. Ciò di cui necessitiamo è un ampliamento psichico capace di
compensare la nostra attuale inadeguatezza.
Inadeguato non è solo il nostro modo di pensare, inadeguata è anche l’etica tradizionale (cristiana e
kantiana in particolare): le diverse etiche classiche, infatti, ponevano l’uomo al centro dell’azione,
per cui Kant dice di non trattare l’uomo come mezzo ma sempre come fine. Ma oggi questo è
smentito dai fatti dell’apparato, infatti l’uomo (per usare un’espressione di Heidegger) è la materia
prima più importante, è ciò di cui la tecnica si serve per funzionare. La scienza , da quando è al
servizio della tecnica e del suo procedere, non è più al servizio dell’uomo, piuttosto è l’uomo al
servizio della tecno-scienza e non solo come funzionario dell’apparato tecnico come gli esponenti
della Scola di Francoforte andavano segnalando sin dagli anni '50, ma come materia prima. L’etica,
di fronte alla tecnica, diventa pat-etica, perché come fa a impedire alla tecnica che può di non fare
ciò che può? E l’etica, nell’età della tecnica, celebra tutta la sua impotenza. Infatti, finora abbiamo
elaborato delle etiche in grado di regolare esclusivamente i rapporti tra gli uomini. Queste etiche,
religiose o laiche che fossero, controllavano solo le intenzioni degli uomini, non gli effetti delle loro
azioni, perché i limiti della tecnica a disposizione non lasciava intravedere effetti catastrofici.
Anche l’etica della responsabilità che affiancò l’etica dell’intenzione (Kant) ha, oggi i suoi limiti. A
formularla fu Max Weber (poi la riprese Jonas nel suo celebre teso Il principio di responsabilità)
che però la limitò al controllo degli effetti "quando questi sono prevedibili". Sennonché è proprio
della scienza e della tecnica produrre effetti "imprevedibili". E allora anche l’etica della
responsabilità è costretta a gettare la spugna. Oggi siamo senza un’etica che sia efficace per
controllare lo sviluppo della tecnica che, come è noto, non tende ad altro scopo che non sia il
proprio potenziamento. La tecnica, infatti, non ha fini da realizzare, ma solo risultati su cui
procedere, risultati che non nascono da scopi che ci si è prefissi, ma che scaturiscono dalle
risultanze delle sue procedure.
Per Galimberti viviamo in una società al servizio dell’apparato tecnologico e non abbiamo i mezzi
per contrastarlo, soprattutto perché abbiamo la stessa etica di cent’anni fa: cioè un’etica che regola
il comportamento dell’uomo tra gli uomini. Tuttavia quello che oggi serve è una morale che tenga
conto anche della natura, dell’aria, dell’acqua, degli animali e di tutto ciò che è natura.
Riprendendo importanti autori come Marx, Heidegger, Jaspers, Marcuse, Freud, Severino e Anders
e coinvolgendo discipline quali l’antropologia filosofica e la psicologia , Galimberti sostiene che
oggi l’uomo occidentale dipende completamente dall’apparato tecnico, è un uomo-protesi come
sosteneva già Freud, e questa dipendenza non sembra potersi spezzare. Tutto rientra nel sistema
tecnico, qualsiasi azione o gesto quotidiano l’uomo compie ha bisogno del sostegno di questo
apparato. Ormai viviamo nel paradosso, infatti se l’uomo vuole salvare se steso e il pineta dalle
conseguenze del predominio della tecnica (inquinamento, terrorismo, povertà, etc.) lo può fare solo
con l’aiuto della tecnica: progettando depuratori per le fabbriche, cibi confezionati, grattacieli
antiaerei e così via. Il circolo è vizioso e uscirne, se non impossibile, sembra improbabile, visto
soprattutto la tendenza delle società occidentali. Una speranza sarebbe quella di riuscire a
mantenere le differenze tra scienza e tecnica; se riusciamo a salvaguardare una differenza tra il
pensare e il fare, la scienza potrebbe diventare l´etica della tecnica. La tecnica procede la sua corsa
sulla base del "si fa tutto ciò che si può fare". La scienza, che è il luogo pensante, potrebbe
diventare, invece, il luogo etico della tecnica. In questo senso va recuperato il valore umanistico
della scienza: la scienza al servizio dell’umanità e non al servizio della tecnica. La scienza potrebbe
diventare il luogo eminente del pensiero che pone un limite. Perché la scienza ha un´attenzione
umanistica. Promuove un agire in vista di scopi. Mentre la tecnica è un fare senza scopi, è solo un
fare prodotti.
Il valore più profondo del pensiero di Galimberti consiste, appunto, nel tentativo di fondare una
nuova filosofia dell'azione che ci consenta, se non di dominare la tecnica, almeno di evitare di
essere da questa dominati.
1. La sentenza di morte della religione
In Italia, negli ultimi decenni, si è verificato un incremento della riflessione filosofica sulla
religione, a prescindere dai vincoli sociologici e culturali di appartenenza istituzionale e
confessionale. Il dato biblico è diventato motivo di problematicità per pensatori di vari
orientamenti.1
La letteratura comincia ora a individuare «i Maestri che hanno tracciato le linee guida di un nuovo
approccio filosofico al problema religioso, tale da costituire in senso proprio dei modelli
interpretativi di filosofia della religione».2 Oltre ai percorsi inaugurati da queste figure -- che
trovano una continuazione in studiosi, istituzioni, eventi e pubblicazioni che a loro fanno
riferimento -- esiste una sorta di «paradigma laico»3 comprendente le numerose ed eterogenee
posizioni degli studiosi che, pur senza essere credenti e senza essere strettamente inscrivibili
nell'ambito disciplinare della filosofia della religione, si misurano con il tema religioso offrendo
contributo consistenti e stimolanti.
È il caso di Umberto Galimberti che, in un recente articolo,4 ha esposto con forza la tesi
dell'estinzione della religione.
Lo scritto è conseguente ad argomentazioni contenute in altri suoi lavori che coprono un arco di 25
anni, nei quali ha formulato una critica radicale al cristianesimo quale momento della vicenda di
alienazione dell'essere nel pensiero occidentale.
Galimberti pronuncia una sentenza severa e senza appello:
La religione morirà. Non è un auspicio, né tanto meno una profezia. È già un fatto che sta
attendendo il suo compimento, [...] perché l'ordine del mondo, che un tempo era cadenzato dai suoi
comandamenti [di Dio], ora è regolato dalle ferree leggi della tecnica che a Dio più non si rifanno,
perché di Dio hanno perso non solo il nome, ma anche il senso, l'origine e la traccia. [...]
Ciò significa che, passata la nostra generazione e forse quella dei nostri figli, che ancora si
alimentano degli ultimi resti della cultura umanistica che la religione cristiana ha inaugurato
ponendo l'uomo al centro dell'universo, nessuno più considererà il bisogno di dare un senso alla vita
un problema davvero fondamentale. Il rapido declino dell'orizzonte umanistico determinato dalla
tecnica che, non proponendosi alcun fine, estingue ogni possibile riferimento di senso, sembra
acutizzare e rendere più drammatica la domanda inevasa di senso e la ricerca affannosa di una
speranza religiosa.5
Il verdetto accomuna tutti gli aspetti del variegato panorama religioso odierno, dalle forme di
credenza tradizionali alle più recenti manifestazioni. Per poterlo discutere appropriatamente,
abbiamo ricostruito l'itinerario di pensiero che lo precede.6 Ne emerge che Galimberti, nel delineare
il suo discorso che applica indistintamente a tutte le religioni, adotta come presupposto una
concezione inautentica del cristianesimo che deriva dai suoi schemi mentali e non corrisponde alla
realtà. Questa sorta di «falsa coscienza» denota una mancanza di informazione sui fondamenti
biblici e teologici del pensiero cristiano. Documenteremo tale affermazione prima indicando lo
schema interpretativo da lui cucito addosso alla religione cristiana e poi mostrando le distorsioni a
cui dà luogo nell'applicazione al dato teologico, antropologico e cristologico.
In quanto riferito ad uno studioso i cui saggi godono di un successo di vendite superiore alla media
e i cui scritti sono ospitati con rilievo sulle pagine dei quotidiani nazionali, questo dato di fatto è
indicativo del persistere di un'estraneità del sapere teologico rispetto alla globalità della cultura
italiana. Pur non mancando segnali in senso contrario, non è ancora finito l'apartheid culturale del
mondo cattolico legato al noto processo di secolarizzazione e di cui storicamente è un fenomeno
emblematico, nella realtà italiana, l'espulsione delle discipline teologiche dalle università statali. La
teologia è così diventata affare privato della Chiesa cattolica e delle sue istituzioni formative in una
quasi totale assenza di dialogo con la cultura che si definisce laica la quale ha finito con il costruirsi
una propria immagine del fenomeno religioso. Segnalare i fraintendimenti a cui questa scissione dà
luogo, come qui ci proponiamo, contribuisce a ridurne l'ampiezza aumentando la comunicazione e
la circolazione della conoscenza.
2. La duplice radice del discorso di Galimberti
Prima di discutere le tesi di Galimberti, è opportuno indicare come è pervenuto a formularle
evidenziando che, fin dall'inizio del suo itinerario filosofico, risentono di idee aprioristiche sul
cristianesimo che ne deformano l'immagine.
In un recente libro-intervista, il pensatore monzese riconosce il suo debito nei confronti di
Emanuele Severino e Karl Jaspers: «Severino mi ha insegnato a organizzare il cervello e Jaspers mi
ha indicato il campo di applicazione di quello che avevo imparato da Severino».7 Questa duplice
radice è determinante nello sviluppo del suo pensiero è facilmente riscontrabile a partire dal suo
primo libro: Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente.8 Il riferimento a Jaspers quale oggetto
della trattazione è esplicito fin dal titolo e l'influenza di Severino si percepisce nello schema
interpretativo adottato che condiziona quel testo e la successiva produzione di Galimberti, almeno
per quel che riguarda l'interpretazione della religione che qui affrontiamo.
Nel ripercorrere l'opera del filosofo dell'esistenza, Galimberti non rispetta la centralità che vi hanno
temi come l'esperienza del limite e l'esperienza della libertà con la loro apertura alla trascendenza.9
Invece, privilegia un'ottica metafisica che la qualifica come esplorazione del nichilismo che
caratterizza la storia del pensiero dell'Occidente. Dove con nichilismo si intende l'oblio dell'essere
operato dalla ragione occidentale che ne ha smarrito il senso perché «invece di ascoltare l'essere, ha
ideato l'essere, ovvero l'ha pensato a sua misura, scambiando l'immagine così riportata, col volto
dell'essere».10 Con Heidegger, Jaspers è colui le cui meditazioni «hanno evidenziato col massimo
rigore l'essenza metafisica del nichilismo e le sue profonde tracce in tutti gli aspetti dell'anima
occidentale».11
Questo è appunto uno schema intepretativo alla maniera di Severino che fa perno sulla storia della
filosofia occidentale interpretata come «vicenda dell'alterazione e quindi della dimenticanza del
senso dell'essere, inizialmente intravista dal più antico pensiero dei Greci»12 ed è la storia della
metafisica il luogo in cui è più difficile scoprire l'alterazione e la dimenticanza che non sono per
questo meno presenti, anzi. Comparando questa citazione severiniana con le due immediatamente
precedenti, l'identità di vedute è immediatamente evidente, a conferma delle parole dello stesso
Galimberti sull'influenza di Severino.
A onor del vero, bisogna riconoscere che egli non sposa fino in fondo la posizione del suo maestro
per il quale il nichilismo, più che oblio dell'essere, è annullamento dello stesso in cui persino
Heidegger e Jaspers sono coinvolti. Se Severino li considera pienamente dentro l'errore, da cui si
può uscire solo tornando alla verità dell'essere di Parmenide, Galimberti ritiene che il loro
esistenzialismo sia un pensare «il linguaggio come ascolto della voce dell'essere»,13 della parola
originaria in cui tutti convergono perché è parola che abbraccia e circoscrive; nel circoscrivere
comprende e nel comprendere contiene. L'essere, nella prospettiva esistenzialista in cui lui si
riconosce, è parola che contiene tutte le altre, impedendo alla propria parola di porsi come assoluta
(come avviene nella tradizione del pensiero occidentale) e facendo nascere la comunicazione
dialogica che è l'unica a permettere di pensare «insieme» lo «stesso», cioè di tornare a quel pensiero
aurorale che è vicino all'essere perduto. Pensiero che non vuole possedere l'essere per manipolarlo e
disporne, alla maniera della ragione occidentale di impronta metafisica, ma rispettarlo.
Diversamente da Severino, Galimberti, pertanto, riconosce in Heidegger e Jaspers un effettivo
accesso alla verità. Per il resto mutua il suo schema interpretativo per cui il cristianesimo è un
episodio dell'oblio dell'essere, come testimoniano i seguenti passaggi.
La dimenticanza dell'essere ha determinato la dominazione dell'ente. L'ente è grazie all'essere, ma,
là dove l'essere è obliato, si rende necessaria la ricerca di un ente superiore (das Seindeste) in grado
di garantire la dominazione dell'ente sul nulla. Nasce l'entissimo (Dio) che fonda la totalità degli
enti (mondo). Il dualismo metafisico si ripercuote nel sapere che si fa scientifico e religioso, la
filosofia incomincia a smarrire la sua identità in concomitanza dello smarrimento del senso
dell'essere.
Scienza e religione trasmettono alla filosofia la loro logica, che è logica della risposta, ottenuta
affidandosi alle sequenze causali che conducono dalla premessa alla conclusione. [...] Con la
spiegazione causale ci si proietta nel dominio del mondo e si assicura la salvezza dell'anima.14
Tecnica e fede condividono il medesimo errore e la medesima pretesa:
Alla scienza e alla tecnica oggi si chiede ciò che un tempo si chiedeva a un dio: la prosperità della
terra, la buona salute, la prole, il prolungamento della vita, persino la pace dell'anima mediante la
disponibilità delle cose che acquietano e rasserenano. [...] Preghiera e ricerca si fondano entrambe
sulla manipolazione dell'essere, in vista di un rassicurante vantaggio per l'uomo. La preghiera affida
l'essere alla theia techne, la ricerca scientifica alla anthropìne techne. È cambiato il soggetto ma non
l'impiego tecnico dell'essere e la finalità antropologica che l'ha promosso. In Occidente l'uomo ha
cercato solo se stesso e anche il Dio che ha pensato, l'ha pensato al proprio servizio.15
In altre parole
L'onnipotenza che l'uomo aveva attribuito a Dio nei tempi della sua radicale impotenza, oggi la
rivendica per sé, decidendo di gestire in proprio il processo creativo che la sua impotenza aveva
affidato a Dio. Così comportandosi, l'uomo occidentale si rivela perfettamente coerente con le
premesse metafisiche che aveva posto. La scienza non usurpa il luogo della metafisica, è la
metafisica che lascia essere se stessa come scienza. [...] La scienza è quindi la conseguenza diretta
della metafisica.16
In queste parole di 25 anni fa è già racchiusa l'attuale sentenza di condanna della religione, costretta
a soccombere di fronte alla tecnica. Entrambe condividono la medesima premessa metafisica, cioè
l'oblio dell'essere. Vi sopperiscono istituendo la dominazione dell'ente in funzione dei bisogni
dell'uomo, ma la tecnica si rivela in questo più efficiente di Dio e ne prende il posto.
3. L'oblio del cristianesimo
Tutto quando Galimberti ha scritto da allora in poi è coerente con questa idea di partenza derivante
dalla duplice radice del suo pensiero.
Pur magnificano la comunicazione dialogica, non entra in dialogo con il cristianesimo, non ne
ascolta la parola. Al contrario, parafrasando una sua affermazione più sopra riportata, lo pensa a sua
misura, scambiando l'immagine, così riportata, col volto del cristianesimo. Cioè ne costruisce
l'immagine che meglio si adatta al proprio schema di pensiero, senza verificare se corrisponda o
meno al vero.
L'intero procedimento ci sembra epistemologicamente molto simile alla forma decostruttiva della
filosofia della religione, in quanto Galimberti, similmente a Feuerbach, tende a risolvere la religione
in antropologia, ritenendola un'alienazione in un soggetto fantastico di attributi proprio dell'uomo
della tecnica ipostatizzati in una dimensione metafisica.17
Lo schema, però, non regge perché se si prendono in considerazione gli aspetti della tradizione
giudaico-cristiana discussi da Galimberti, emerge che ne ha una comprensione distorta. Con ciò non
vogliamo negare che storicamente si siano verificati fenomeni di adesione, anche massicci, alle
religioni del ceppo giudaico-cristiano nei quali il ricorso al divino aveva motivazioni utilitaristiche
fondate sulla volontà di manipolazione dell'essere. Neppure intendiamo ignorare che nello stesso
ambito si sono sviluppate concettualizzazioni teologiche e filosofiche delal religione che seguono
quella stessa logica. In questo senso, la riflessione di Galimberti può risultare uno stimolo alla
riflessione critica sugli aspetti inautentici dell'esperienza religiosa.
La nostra preoccupazione è piuttosto quella di far presente che l'essenza del giudaismo e del
cristianesimo è tutt'altra: non la creazione di un dio a immagine e somiglianza delle attese umane,
ma l'incontro nella storia con l'inatteso di Dio che scompagina quelle attese perché si presenta con
un carattere di assoluta novità. Di ciò non si trova traccia negli scritti di Galimberti.
Per rendere conto di quanto affermato, passiamo ora a discutere, direttamente a confronto con i
testi, i passaggi principali della sua interpretazione della religione giudaico cristiana: il discorso su
Dio, il discorso sull'uomo e il discorso su Cristo.
4. L'aspetto teologico
Egli considera la religione giudaico-cristiana storicamente nichilista, nel senso specificato nel par.
2, fin dall'origine che individua nell'introduzione dell'idea di creazione di Gn 1-3, in discontinuità
con il pensiero greco.
L'Antico e il Nuovo Testamento non conoscono il kosmos del pensiero aurorale, né il movimento
autonomo e onnicomprensivo della fysis che «divampa eternamente e di nuovo si spegne secondo
tempi immutabili», ma conoscono il mondo come creazione di Dio in funzione dell'uomo e come
residenza di quest'ultimo dopo il suo allontanamento da Dio.18
Il passaggio è dall'ordine ciclico dell'apparire e dello sparire incessanti alla progressione ad opera di
una volontà rivolta ad un fine.
Il mondo cessa così di appartenere a se stesso (una realtà perenne senza inizio né fine), ma lo si
riconosce come appartenente a Dio, che l'ha creato col suo comando, e all'uomo a cui è stato
affidato. Qui il riferimento è a Genesi 1, 26: «E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a
nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame e su tutte le
bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra»».
La dipendenza del mondo da Dio e dall'uomo, fatto a immagine e somiglianza del Creatore, lo
rende manipolabile, sfruttabile e disponibile in funzione di uno scopo che il soggetto dominante,
divino o umano, si prefigge. Pertanto, «possesso scientifico e tecnico hanno la stessa matrice che è
biblica e non greca».19
La medesima posizione, insieme all'imputazione di nichilismo, ritorna a distanza di un quarto di
secolo:
La terra, separata dalla volontà di Dio che l'ha posta in essere, non ha in sé alcuna consistenza, nulla
che la salvi dalla caducità, per cui è nell'idea stessa di creazione la negazione dell'autosufficienza
della terra, e quindi il suo bisogno di salvezza è già inscritto nella sua origine, prima ancora di
considerare ciò che accade sulla terra.20
È l'atto della creazione dal nulla che istituisce il nichilismo e pone le premesse per il pensiero della
tecnica. Alle spalle, c'è una concezione di Dio inteso soprattutto come creatore e come tale lo
presenterebbe in primo luogo la religione.
L'interpretazione di Galimberti, incentrata sul primato dell'idea di creazione, sta in piedi?
Non lo crediamo per due motivi.
In primo luogo, il primato dell'idea di creazione non è giustificabile storicamente. L'ordine dei testi
biblici, con il mito della creazione all'inizio, non rispecchia la cronologia della loro stesura. Il testo
rivelato ricostruisce a posteriori l'insieme delle vicende che costituiscono le tappe della storia sacra.
Di fatto, però, la narrazione dei capp. 12-50 di Genesi è più antica dei capitoli 1-11 e, soprattutto,
dei primi tre.
L'evento fondatore della fede di Israele è l'alleanza con Jhwh, per iniziativa di questi, a partire da
Abramo, tramandata attraverso ricordi di vita familiare e di clan dei patriarchi ebrei, raccolti e
rielaborati in forma scritta. Successivamente, la riflessione religiosa ha fatto risalire fino alle origini
stesse del mondo il disegno divino di elezione e salvezza. È questa la chiave di lettura della genesi e
non la creazione dal nulla.
In secondo luogo, ciò è riscontrabile anche e soprattutto sul piano dottrinario.
La categoria teologica legata alla storia di Israele in tutti i suoi momenti è infatti quella di
alleanza.21
Ermeneuticamente, è fondamentale aver ben presente tutto l'insegnamento biblioc sulla creazione,
senza ridurlo ai soli temi genesiaci come fa Galimberti che ne dà una interpretazione gnostica,
riassumibile nella contrapposizione tra il mondo e Dio: scaturito dal nulla per volontà dell'ente
supremo e privo di propria consistenza teologica, il mondo è una realtà di ordine inferiore. Alla luce
della fede nell'alleanza, il mondo creato, invece, non è uno strumento inerte rimesso all'arbitrio di
Dio o dell'uomo, ma è una espressione della volontà benevola e gratuitamente salvifica del Signore.
È un dono, non un prodotto; risponde a una logica di amore, piuttosto che di funzionalità. Il dono
non è un oggetto manipolabile in vista di un utile, ma è denso di significati simbolici, al di là della
bruta fattualità, che svelano il cuore del donatore.
Il dono è inatteso, sorprendente e chiama a una risposta libera, a seconda del credito che si dà al
donatore. È la storia di tutte le vocazioni alla fede, a partire da Abramo (Gn 12, 1-6).
L'uomo di fede è colui il quale si apre a una diversa lettura simbolica del reale entrando in relazione
con l'autore di quel simbolismo. Entrambi sono lontani dalla logica dispotica della tecnica: alterare
a piacimento il mondo per i propri fini vorrebbe dire tradire i significati simbolici della relazione
amorosa. Se il primo è capace di tradimento, nel qual caso esce dall'orizzonte di fede, il secondo si
mantiene incrollabilmente fedele.
Quella di creazione, prima di essere una categoria ontologica alla maniera del pensiero greco, come
vorrebbe Galimberti, che indica la produzione di un ente da parte di un ente maggiore, è una
categoria teologica che indica una relazione storico-salvifica, un rapporto del mondo con Dio
assolutamente originale e diverso da ogni altro concetto.22
Il mondo è una lettera di Dio all'uomo in cui Egli si rivela; non è uno strumento da sfruttare, in
bilico sul baratro del nulla, perché lo sorreggono la sua fedeltà e la sua volontà salvifica. Questo
sguardo positivo e carico di senso, proprio della tradizione ebraico-cristiana, è agli antipodi della
presentazione che ne fa Galimberti, contrapponendo Dio e mondo.
5. L'aspetto antropologico
Il successivo passaggio pone il nichilismo antropologico come conseguenza del nichilismo
cosmico.23
Il nichilismo antropologico fa dipendere la condizione umana di dolore e di morte dalla colpa, cioè
dall'infrazione del comando di Dio che ribadisce la dipendenza dell'uomo, oltre che della terra, dalla
volontà di questi.
La storia umana è dunque una storia di espiazione: «il ksomos perenne che irpete se stesso diventa
saeculum, tempo mondano compreso tra un inizio e una fine, tra una creazione e un èschaton, tra
una colpa e una redenzione».24 Il mondo, in quanto teatro di questa storia di peccato ed espiazione,
oltre che ontologicamente inconsistente, è anche caricato di una forte valenza negativa, accentuando
il tratto gnostico già segnalato.
Galimberti non sostiene che per la religione biblica il mondo sia in sé peccaminoso perché ha
presente che in Gn 1, 1-31 Dio trova buono tutto ciò che crea. La interpreta piuttosto nei termini di
un dualismo cosmico che contrappone vita e morte, «spirito» e «carne», peccato e alleanza (AT)
/resurrezione (NT). L'elemento connotato positivamente di ciascuna coppia dipende dalla vicinanza
a Dio, quello negativo dalla lontananza da lui. È una logica disgiuntiva che crea un'opposizione
polare da cui scaturisce il nichilismo antropologico per la «massima distanza e assoluta differenza
tra l'onnipotenza (ruah) di Dio e l'indigenza (nefes), la caducità (bâsâr), l'incerto muoversi (leb)
dell'uomo che solo da Dio può ottenere l'ordine della sapienza e la forma della volontà».25
Lontano da Dio e dal suo comando, l'uomo cade nell'ombra del peccato, cioè della morte; non è
nulla in proprio.
Il dualismo cosmico che Galimberti riscontra nella religione biblica e che fonda la sua
argomentazione non è sostenibile. Un'impostazione dualista implica che il peccato si ponga in
contrapposizione al disegno di Dio su un piano di parità. Come se la realtà fosse sospesa sul crinale
tra la vita e la morte e potesse egualmente cadere da una parte o dall'altra. Come se ci fosse
un'alternativa uguale e contraria a Dio, un negativo opposto al positivo, un anti-Dio, una Tenebra,
un principio del Male. Questo non è né ebraismo né cristianesimo, è la gnosi manichea.26
La Bibbia prende senz'altro sul serio il peccato, ma non gli attribuisce una tale centralità. Il primato
spetta decisamente alla misericordia e all'amore personale di Dio che vengono ben prima del
peccato, sono originari. C'è un unico principio: la grazia che è Dio stesso quale sorgente eterna di
amore per l'uomo. La grazia precede il peccato, è il progetto di vita che da sempre Dio persegue,
cioè la predestinazione: gli eventi decisivi della storia della salvezza sono stati determinati da Dio
prima della fondazione del mondo (Ef 1, 4; 1 Pt 1, 20; Mt 25, 34), prima del tempo stesso (1 Cor 2,
7). La predestinazione, spiega Paolo, è il mistero fondamentale nel senso che da sempre la storia
della salvezza rientra nel desiderio, nel volere, nell'eterno consiglio di Dio che l'aveva preconosciuta e predeterminata. Dio, in Cristo, chiama, giustifica e glorifica gli uomini creati alla sua
immagine (Gn 1, 26) affinché essi raggiungano pienamente lo stato di «figliolanza di Dio».27
Da sempre l'intenzione di Dio è quella di renderci figli nel Figlio, partecipi della vita trinitaria.
I testi che tipicamente racchiudono questa dottrina sono Ef 1, 3-6.9-11 e Rom 8, 28-30.
Il peccato è l'opzione, lasciata alla libertà dell'uomo, di non fidarsi di questa buona intenzione di
Dio, ma non è un principio uguale e contrario in grado di frustrarla. La salvezza ha luogo per grazia,
gratuitamente, nonostante il peccato e non in subordine ad esso. Questo nel Nuovo Testamento è
annunciato dal crocifisso risorto, ma già nell'Antico Testamento era riscontrabile nella categoria
biblica dell'elezione (Dt 7, 6-15).28
Nessun dualismo cosmico, quindi.
E nessun nichilismo antropologico, inoltre. Come ha ricordato sinteticamente e chiaramente Ireneo
di Lione (Adversus Haereses V, prologo), il Verbo di Dio, il Signore Gesù Cristo, per amore è
divenuto come l'uomo per rendere gli uomini come Lui: figli connaturati a Dio. L'uomo è chiamato
a essere divinizzato nella comunione con il Padre nel Figlio per lo Spirito, partecipe della natura
divina (2 Pt 1, 4). Lo Spirito introduce l'uomo nella relazione d'amore tra il Padre e il Figlio. «In
quel giorno voi conoscerete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi» (Gv 14, 20). «L'amore di
Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5).
«Carissimi, già adesso siamo figli di Dio, e ancora non si manifestò quel che saremo» (1 Gv 3, 2).
Il seme racchiuso nell'umanità è il divino e non il nulla.
6. L'aspetto cristologico
Il fraintendimento del cristianesimo operato da Galimberti si ripercuote anche sulla cristologia.
Nel suo schema colpa-redenzione, la salvezza realizzata dalla morte e resurrezione di Gesù Cristo è
vista in funzione di riparazione dell'infrazione commessa. L'avvenimento cristiano è subordinato
alla redenzione del peccato dell'uomo secondo una visione decisamente amartiocentrica: prima c'è
l'uomo, con il suo peccato, che ha turbato l'ordo universi, e poi il Cristo, il Verbo incarnato, la cui
funzione è quella di ristabilire il giusto ordine delle cose.
Galimberti afferma quindi che il tratto specifico del cristianesimo è l'incarnazione.29
La funzionalità di quest'ultima alla salvezza dell'uomo e la sua centralità lo confermano nella
convinzione che la tecnica sia la secolarizzazione del cristianesimo che ha in sé il germe
dell'ateismo.
Ora, il primato dell'incarnazione in vista del riscatto del peccato risale al Cur Deus homo di S.
Anselmo di Canterbury (sec. XI); si è imposto in epoca medievale ed è rimasto egemone nella
cristologia di gran parte del secondo millennio.30 È una prospettiva dalla quale ha preso nettamente
le distanze il rinnovamento cristologico novecentesco in cui è avvenuto un recupero della vicenda
storica di Gesù di Nazareth. La chiave di volta che ne chiarisce il senso è la Pasqua, prima
dell'incarnazione, che è al centro dell'originaria predicazione neotestamentaria.
In altre parole, non è il mistero di Cristo che va letto alla luce del peccato dell'uomo (posizione
anselmiano-tomista: Cristo non si sarebbe incarnato se l'uomo non avesse peccato): non è il peccato
di Adamo che spiega Cristo perché questi è al centro già dell'originario piano di Dio che presiede a
tutta la creazione, e la sua funzione non può essere ridotta alla redenzione dal peccato. [...]
La direzione cioè è quella di un recupero in pienezza di un orizzonte cristocentrico: di là da ogni
riduttivo amartiocentrismo-antropocentrismo. La predestinazione cristiana è predestinazione in
Cristo fin dall'inizio.31
La Pasqua di Gesù è dunque l'epifania di un disegno di salvezza e di vita che è da sempre nelle
intenzioni di Dio, precedentemente al peccato umano.
Quest'ultimo non consiste nella rottura del disegno divino, ma nell'incapacità di comprenderlo e nel
non volerlo accogliere.
Sottolineando l'incarnazione, si sostituisce, a un quadro storico-salvifico, «un quadro ontologicoconcettuale che, pur non tradendo la struttura del kerygma originario, lo svuota di carica storicodinamica, trasponendola in un orizzonte culturale e socio-politico completamente diverso».32 La
centralità della Pasqua, invece, corrisponde all'originario annuncio cristiano e ne rispetta
maggiormente il contenuto e la valenza conformemente al dato concreto della vicenda di Gesù e
dell'esperienza ierofanica degli apostoli. È la fede nel crocifisso risorto la scintilla che suscita la
Chiesa, non uno schema speculativo incentrato sul Dio-uomo.
7. Conclusioni
Galimberti ha applicato lo schema concettuale con cui interpreta la religione giudaico-cristiana a
vari momenti della sua vicenda storica, presentandoli sempre come episodi di un costante
atteggiamento nichilista che dimentica l'essere e si sottomette alla dominazione dell'ente divino.
Pertanto, facendo due esempi di rilievo, legge in Agostino la riduzione dell'essere alla volontà e in
Tommaso d'Aquino la riduzione dell'essere all'intelletto.33
Non riteniamo di dover discutere anche queste affermazioni perché ci dilungheremmo
eccessivamente e perché ci sembra di aver in precedenza rilevato le incongruenze interpretative alla
base dello schema. Volendo riassumere il tutto, potremmo dire che egli critica il cristianesimo
perché presenta Dio come «ipotesi di lavoro» alla quale l'uomo occidentale ricorre per trovare
risposta alle questioni importanti che non riesce a spiegare da solo. Il progresso della conoscenza
tecnico-scientifica consente all'uomo di bastare a se stesso senza più fare ricorso a detta ipotesi di
lavoro i cui spazi si riducono sempre di più fino ad estrometterla dalla sua vita.
Non si avvede che la stessa tesi era stata formulata prima di lui da Dietrich Bonhoeffer nelle
fondamentali lettere dal carcere berlinese di Tegel dell'8 giugno e del 16 luglio 1944. Con una
sostanziale differenza: Bonhoeffer, da credente e da teologo, si rendeva perfettamente conto che
quel genere di fede in Dio, utilitaristica e in decadimento, era una tipica proiezione dei bisogni
umani e soprattutto che ben altro è il messaggio biblico.
In esso, Dio non si rivela nella sua potenza nel mondo sopperendo alle carenze, al nulla dell'uomo;
potenza che la tecnica va man mano rimpiazzando. Il Dio della Bibbia si rivela, contrariamente a
tutte le nostre attese, nella sua impotenza, nella sua debolezza e persino nella sua sofferenza.34
Cade allora l'argomento della necessaria estinzione della religione cristiana di fronte all'incedere
della tecnica che ne sostituisce con più efficacia la funzione.
Croce e tecnica seguono due strade diverse.
Una è quella della gratuità e del dono di sé che approda alla comunione con gli altri e con il mondo.
L'altra è quella dell'efficienza e dell'affermazione di sé che approda alla manipolazione, al dominio
sugli altri e sul mondo. Entrambe hanno come sfondo l'autonomia dell'uomo; la croce, però, vi
legge la possibilità del servizio, mentre la tecnica vi riconosce la condizione di esercizio del potere.
Non vi può essere distanza più radicale tra le due. In questo senso, Galimberti ha ragione a dire che
la tecnica si oppone alla fede cristiana: non perché ne realizza meglio gli intenti, che abbiamo visto
essere assolutamente eterogenei nell'una rispetto all'altra, ma perché vuole imporre i propri mezzi e
i propri fini a discapito dell'altra. La salvezza della tecnica è tutta intramondana, è la salvezza che
l'individuo vuole per se stesso, secondo le proprie attese, realizzandola con le proprie forze e la
propria bravura, anche se il prezzo lo pagano altri. La salvezza della croce è quella che l'uomo non
si aspetta perché è dono gratuito di Dio per tutti, è sorpresa e meraviglia che non nega l'uomo, i
mondo, la storia, ma li trasfigura compiendo la pienezza divina che racchiudono.
La validità del discorso di Galimberti consiste nell'aver tratteggiato e ampiamente documentato, in
Psiche e techne, la pervasività della logica della tecnica nella nostra cultura unitamente alle
conseguenze negative a cui può dare luogo. Inoltre, ha segnalato che quella stessa logica è una
tentazione in cui il cristianesimo può cadere, come è avvenuto e avviene in certe posizioni
teologiche e in certe vicende. Sbaglia, invece, nel ritenere che quella sia, essenzialmente, proprio la
logica del cristianesimo; così come sbaglia nel sostenere, in forza della medesima convinzione, la
necessaria morte di quest'ultimo.
Respingendo la sua conclusione, pensiamo che il problema del confronto fra croce e tecnica
rimanga aperto.
Che cosa dire del suo possibile esito?
A favore della tecnica depongono, come Galimberti descrive magistralmente, il suo successo, i suoi
risultati, il consenso generalizzato che incontra. Di fronte a questa offensiva il cristianesimo sembra
essere particolarmente inerme, senza contare che è lacerato dalle divisioni confessionali e
teologiche al proprio interno e che è sottoposto all'assedio esterno di altre filosofie e religioni in via
di diffusione. Come può opporsi all'avanzata della tecnica la quale può contare su un predominio,
conforme alla sua logica egemone, che copre diversi secoli di cultura occidentale?
Il risultato più probabile pare la sconfitta del cristianesimo. Ma sarebbe davvero tale?
La strada della croce è quella della fedeltà all'amore gratuito che si spinge fino al sacrificio, fedeltà
che non può snaturare se stessa nel tentativo di contrastare la tecnica sul piano dei risultati. Se il
cristianesimo cercasse di dimostrarsi preferibile alla tecnica in termini di efficienza, probabilmente
non ci riuscirebbe e perderebbe la propria anima abbracciando la logica di quella stessa tecnica a cui
si oppone. Ma il cristianesimo sa che la diaconia può comportare anche il martirio, cioè la sconfitta
di fronte al mondo (la croce, appunto) che è gloria al cospetto di Dio. Da questo punto di vista, la
vittoria della tecnica è solo apparente perché apre lo spazio all'agire di Dio che è qualitativamente
diverso. Ciò naturalmente vale solo per chi accetta l'ottica di fede e non è accessibile a chi non la
condivide.
Ci sembra che sul confronto tra croce e tecnica si possa aggiungere qualcosa di sottoscrivibile anche
da chi non sente propria la speranza cristiana. Bisogna soffermarsi sull'idea del successo della
tecnica che è il principale presupposto del suo prevalere mondano sulla croce. Le tecnica vince se
ha successo, se è efficace; chiediamoci però se è un successo reale o apparente. C'è sul serio o non
c'è?
Di fronte alla tecnica si assiste ad un quasi universale ossequio alla sua potenza trasformatrice.
«Quasi» universale perché ci sono anche voci critiche, non di secondo piano, che sollevano seri
dubbi in proposito. Tra gli altri, ricordiamo esplicitamente il testo di Fritjof Capra che è un po' il
capostipite delle riflessioni che nell'ultimo ventennio hanno contestato il paradigma moderno non su
un piano di principio, per ragioni ideali, ma nei suoi risultati.35
La tecnica, che è connaturata alla modernità, consegue senz'altro dei risultati, ma ad un certo punto
essi diventano disfunzionali provocando danni tanto quanto benefici. Ciò dipende dalla sua logica di
derivazione cartesiana che ha un approccio parziale e riduttivo al reale per cui, quando opera su
quest'ultimo, lo fa a partire da una comprensione incompleta. Se il sapere della tecnica è fuorviato,
allora il suo agire ha in sé il germe del fallimento. Il suo successo non è garantito, come presume,
dal possesso della verità oggettiva e assoluta della scienza occidentale applicata operativamente
perché quell'oggettività e quell'assolutezza non ci sono.
Oltre a Capra, ricordiamo velocemente altri autori. Anthony Giddens e Ulrich Beck mettono in luce
la dimensione di pericolo e di rischio racchiusa negli apparati tecnici della tarda modernità il cui
potere, in grado di raggiungere il genere umano nel suo complesso (energia atomica, questione
ecologica) e la sua stessa natura (ingegneria genetica), comprende l'eventualità di un suo impiego
distruttivo. Charles Taylor evidenzia il disagio morale che la civiltà della tecnica induce facendo
dimenticare le certezze metafisiche che fondavano l'etica di un tempo e favorendo comportamenti
che essa non ammetteva o non era in grado di prevedere. Alberto Melucci rileva l'insufficienza
culturale del paradigma moderno a dare senso alla complessità contemporanea e alle scelte etiche
davanti alle quali progresso tecnico e mutamento sociale ci pongono.
Allo stesso modo, molti dei sempre più allarmanti sintomi di malessere personale (incluso l'uso di
droga, la violenza sessuale, la diffusione di malattie mentali croniche e la comparsa di un'intera
serie di malattie precedentemente sconosciute, legate all'inquinamento, e di sindromi di
immunodeficienza) si stanno rivelando come controparti biologiche, psicologiche e socioculturali
degli squilibri ecologici. L'impatto negativo, in termini umani ed ecologici, dell'aggressione in corso
contro l'abitabilità del nostro ambiente planetario è particolarmente evidente nel drammatico
generale declino della qualità della vita umana nelle più grandi metropoli del mondo. Inoltre, c'è un
dislivello sempre più ampio tra il centro ricco e la periferia povera del mondo. Nel frattempo la
guerra, il genocidio e la minaccia dell'olocausto nucleare rimangono gli esempi più estremi del
potenziale di violenza incontrollata che è sotteso all'apparente vittoria della razionalità moderna.36
Giunta al suo apogeo, la tecnica attraversa una profonda «crisi di visione» che suscita disincanto nei
suoi stessi figli. Rimane dunque aperta la possibilità che la sua presa non sia infrangibile.
Melucci e Chorover sostengono l'importanza di far rinascere in noi la capacità di meraviglia quale
facoltà che ci consentirebbe di andare oltre questo stallo. Laddove la tecnica decide, programma,
determina, la meraviglia ci permette di scoprire che c'è qualcosa d'altro e di inatteso rispetto a
quanto abbiamo previsto e voluto. È la riscoperta che la tecnica non è l'unico orizzonte, ma che
viceversa c'è uno spazio non circoscrivibile che si sottrae alle nostre certezze e alla nostra azione. È
la riscoperta del mistero che ci circonda e ci abita.
Ma l'inatteso che ci viene incontro dal mistero non ha anche il volto del crocifisso risorto? Egli non
è forse colui nel quale si fa presente a noi il dono di Dio, gratuito e totalmente altro rispetto ai nostri
progetti, aspettative e desideri? Un Dio che nelle intenzioni e nel comportamento si rivela
inconciliabile con le nostre proiezioni.
Sono spunti di riflessione che, per il momento, ci limitiamo a proporre e lasciamo in sospeso, ma
che suggeriscono uno sbocco del confronto tra croce e tecnica diverso da quel che ci si potrebbe
aspettare.
Recensione di Francesco Tampoia - 25/5/2000
Psyché deriva da physé che significa: ciò che sostiene e muove la natura.
Téchne deriva da héxis nou che significa: esser padrone e disporre della propria mente.
Platone, Cratilo, 400 b; 414 bc.
Indice
In questo poderoso e ponderoso volume, pari a summa interdisciplinare a denominatore filosofico o
di storia della filosofia, Galimberti si sposta, con dire circolare e conoscenza notevole, dal mito alla
scienza, dalla filosofia alla storia, dalla psicologia alla sociologia, dalla filosofia del linguaggio alla
teologia, dall’antropologia alla questione della tecnica, fino all’intimo, oscuro, drammatico rapporto
tecnica/destino dell’uomo.
Seguendo un percorso liberamente storicistico, e ricordando dettagliatamente ( cap 8) il mito di
Prometeo, nella versione riportata da Platone nel Protagora, fa riferimento alla concezione
platonica, di San Tommaso, di Cartesio, di Kant laddove risulta che la natura ha dato all’uomo la
ragione al fine di compensarlo per la sua debolezza di essere un animale, ultimo nato, e per ciò
stesso nudo, scalzo, inerme.
La carenza istintuale dell’uomo è compensata dalla ragione, facoltà che determina la specificità
umana, facoltà di schematizzare e connettere le parole, il discorso, e che mette in relazione anima e
corpo.
Prendendo le distanze da alcuni filosofi e contro gli esiti più discutibili dell’interpretazione
heideggeriana della tecnica come disvelamento dell’Essere, Galimberti chiarisce che la tecnica non
è dopo la ragione: psyché, ciò che sostiene e muove la natura, è nello stesso tempo téchne, esser
padrone e disporre della propria mente. In aggiunta dice che è per opera della tecnica che avviene il
superamento del dualismo anima/corpo, ragione/ tecnica; è con una più attenta valutazione della
tecnica che si scopre l’originaria e reciproca interazione tra la tecnica come prodotto della ragione e
la ragione come prodotto della tecnica. Si scopre che la tecnica fa parte a tutti gli effetti
dell’ambiente che ci circonda, che l’uomo vive la tecnica.
Dal cap.16 della parte seconda in poi, prendendo spunto da alcuni scritti di Gehlen per una
rifondazione della psicologia umana, ritorna alla condizione naturale dell’uomo, alla sua speciale
capacità di apertura al mondo, di adattamento mediante la tecnica, di sviluppo secondo natura e
cultura.
Fin quando la vita umana è ancora l’orizzonte ultimo della visione del mondo, la tecnica desitua
l’uomo, in quanto primo uomo o uomo della nascita, per rilanciarlo in una prospettiva di azione, di
fare e trasformare (pag.247), in linea con la storia dell’Occidente.
Mentre la concezione greca del mondo è cosmologica, e pensa il mondo come eterno e ciclico, la
concezione cristiana, considerando il mondo creato con un fiat voluto da Dio, ha un valore antropoteologico. All’amore per il cosmo, alla philia greca per il cosmo, che può comportare il "non
cognoscere Deum", il cristianesimo sostituisce l’ amare mundum, trattando il mondo come creato
per l’uomo, perché l’uomo ne sia il dominatore.
Bacone, pioniere della rivoluzione scientifica e tecnologica dell’età moderna, segue tale
insegnamento cristiano: manipolare e trasformare il mondo. Marx, a sua volta, parla di
trasformazione ma si ferma soprattutto a confrontare il modo di produrre dell’età industrializzata
contrapposto a quello dell’età medievale. Egli parla di "alienazione", ossia di negazione dell’uomo
mediante la tecnica, della fine dell’uomo, ma in quanto proletario, operaio. Marx pensa che per
superare il dominio della tecnica è sufficiente la socializzazione dei mezzi di produzione.
Evidentemente per entrambi il possesso tecnico e scientifico hanno una matrice biblica e non greca.
Dio, cacciando Adamo dal paradiso, condannandolo al lavoro, a guadagnarsi i mezzi del
sostentamento con il sudore della fronte, ha obbligato l'uomo all’ attività tecnica.
La tecnica antica, cristiana e non, poteva essere interpretata come strumento perché ancora molto
limitata sia dalla strumentazione, sia dalle fonti energetiche, sia dalla tecnologia. Si istruiva per il
controllo, la verifica dell’idoneità di un mezzo a un fine, non si occupava del fine o dei fini, perché
questa scelta, secondo il mito, spetta alla saggezza, phronesis, che è prerogativa di Zeus.
Ma, se in epoche remote e primitive la tecnica asseconda la natura che ha un ruolo preponderante
nella vita umana, nell’epoca attuale i rapporti interni alle diverse sfere uomo/natura/tecnica sono
squilibrati o riequilibrati a forte vantaggio della sfera tecnologica.
Oggi la tecnica da mezzo è divenuta fine, dal momento che gli scopi e i fini dell’uomo sono
raggiunti, su un piano terreno, solo attraverso la mediazione tecnica; con una tecnica o tecnologia,
divenuta l’orizzonte ultimo della vita, non si può parlare più di alienazione, siamo oltre ogni forma
di umanesimo.
Eppure da un punto di vista psicologico, umano, esistenziale l’uomo comune pare non abbia preso
coscienza del cambiamento, è simile all'uomo pretecnologico, non riesce a liberarsi della visione
umanistica, soggettocentrica che gli fa ancora pensare la tecnica come uno strumento, un mezzo,
neutrale di fronte all’uomo, di fronte ai fini dell’uomo.
La tecnica, invece, lungi dall’essere neutrale, ci condiziona e ci determina. È il nostro habitat, è un
mondo tecnologico, che è il nostro ambiente, un ambiente che siamo costretti a subire, non è più
fattore di mediazione tra uomo e natura, dandosi come l’orizzonte al cui interno soltanto l’uomo e la
natura possono esistere. Detto altrimenti siamo di fronte all’assoluto tecnico, dove per assoluto
s’intende "ab-solutus" cioè sciolto, libero da ogni legame.
Sia il capitalismo che il marxismo sono figure ideologiche inscritte nell’età pretecnologica in cui
l’uomo è ancora soggetto e la tecnica strumento. Capitalismo e marxismo sono impregnati di
umanesimo, mentre oggi l’uomo non è più al centro, non è più soggetto: il soggetto è la tecnica,
l’uomo ne è predicato. Per capire questa svolta mi si conceda un richiamo opportuno e stimolante,
su cui non insiste Galimberti (vedi pag.323, pag.701), al clima filosofico della metà del secolo
scorso (1946). In un contesto diverso, partendo da altri presupposti e in epoca tecnologica non
estremamente spinta come l’attuale, avevano polemizzato sull’essenza dell’umanesimo da un lato il
Sartre de "L’esistenzialismo è un umanesimo", dall’altro Heidegger con la Lettera sull’umanesimo,
testo in cui si annuncia la fine dell’uomo, la fine delle diverse forme di umanesimo.
Nelle ultime pagine di Galimberti, ispirate al suo maestro Severino e ai suoi ultimi scritti (si pensa
soprattutto a Il destino della tecnica), si legge la concordanza nella visione pessimistica sul futuro
dell’umanità, nel dire che nell’età della tecnica l’umanesimo si è dissolto, che il dominio della
tecnica ha annullato e annulla l’uomo, ma anche la proposta di suggerire all’uomo, mentre rotola sul
piano inclinato della nostra epoca tecnologica, come ultima chance il chiudersi in se stesso, usando
una forma di titanico narcisismo, come ultima guida ideologica adottare la cultura del
relativismo.(pagg.587-90)
Copyright © 2001 Christian Albini
Christian Albini. «Croce e techne. Confronto con Umberto Galimberti», Dialegesthai. Rivista
telematica di filosofia [in linea], anno 3 (2001) [inserito il 9 maggio 2001], disponibile su World
Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [55 KB], ISSN 1128-5478.
Note
1. Ne è una dimostrazione, significativa per la diffusione che ha avuto, il numero della rivista
MicroMega. Almanacco di filosofia, n. 2 (2000) dedicato appunto al tema «filosofia e
religione».
2. Carlo Scilironi, «Modelli di filosofia della religione nel pensiero italiano contemporaneo»,
Hermeneutica, anno VII, (2000), p. 245.
3. Ibid., p. 273.
4. Umberto Galimberti, «Nessun Dio ci può salvare», MicroMega. Almanacco di filosofia, n. 2
(2000), pp. 187-198.
5. Ibid., pp. 187-188.
6. Si può fare un confronto con Giandomenico Mucci, «La tecnica prenderà il posto del Dio
biblico?», La Civiltà Cattolica, anno CII, quad. 3605 (2000), pp. 351-361. È un'analisi
incentrata esclusivamente sull'articolo di cui alla nota 4, mentre noi riteniamo che sia più
efficace considerare il tragitto di Galimberti nel suo insieme.
7. Edoardo Boncinelli e Umberto Galimberti, E ora? La dimensione umana e le sfide della
scienza, Einaudi, Torino 2000, p. 79.
8. Umberto Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente, Marietti, Torino
1975.
9. Vedi Karl Jaspers, Philosophie, Bände, Berlin 1932, 3 voll.; Filosofia, trad. it. Di Umberto
Galimberti, Utet, Torino 1978. Si tratta dunque di un'opera che il nostro ben conosceva.
10. Heidegger, Jaspers e..., op. cit., p. 16.
11. Ibid., p. 12.
12. Emanuele Severino, Essenza del nichilismo, 2ª ed., Adelphi, Milano 1982, p. 19.
13. Heidegger, Jaspers e..., op. cit., p. 22.
14. Ibid., p. 13.
15. Ibid., p. 17.
16. Ibid., pp. 18-19.
17. Vedi Italo Mancini, Filosofia della religione, 3ª ed., Marietti, Genova 1991, pp. 26-30.
18. Heidegger, Jaspers e..., op. cit., p. 35.
19. Ibid., p. 34.
20. Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 493.
21. Vedi Antonio Bonora, «Alleanza», in AA.VV., Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, San
Paolo, Cinisello Balsamo 1988.
22. Vedi Gianni Colzani, Antropologia teologica, 9ª ed., EDB, Bologna 1997, p. 433.
23. Vedi Umberto Galimberti, Heidegger, Jaspers e..., op. cit., p. 35; Il corpo, Feltrinelli,
Milano 1983, pp. 33-40; Psiche e techne, op. cit., p. 494.
24. Umberto Galimberti, Heidegger, Jaspers e..., op. cit., pp. 35-36.
25. Umberto Galimberti, Il corpo, op. cit., p. 36.
26. Vedi Kurt Rudolph, La gnosi, Paideia, Brescia 2000, pp. 416ss.
27. Vedi Johann Auer, Il vangelo della grazia, Cittadella, Assisi 1971, p. 82.
28. Vedi Gianni Colzani, Antropologia teologica, op. cit. pp. 285-309.
29. Umberto Galimberti, Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000, p. 79.
30. Mario Serenthà, «La discussione più recente sulla teoria anselmiana della soddisfazione.
Attuale «status questionis»», in La Scuola Cattolica, n. 108 (1980), pp. 344-393.
31. Mario Serenthà, «Cristologia», in La Scuola Cattolica, n. 114 (1986), p. 544.
32. Bruno Forte, Gesù di Nazaret. Storia di Dio, Dio nella storia, San Paolo, Cinisello Balsamo
1981, p. 175.
33. Vedi Umberto Galimberti, Linguaggio e civiltà, Mursia, Venezia 1977, pp. 142ss.
34. Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, 2ª ed., San Paolo,
Cinisello Balsamo 1988, p. 440.
35. Fritjof Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano
1984.
36. Alberto Melucci -- Stephan L. Chorover, «Conoscenza e meraviglia. Oltre la crisi della
scienza moderna?», Pluriverso, anno V, n. 4 (2000), p. 78.
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