su un certo modo di ascoltare i suoni ei rumori di questo secolo

annuncio pubblicitario
SU UN CERTO MODO DI ASCOLTARE I SUONI E I RUMORI DI QUESTO SECOLO
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza
Dante, Inferno, Canto XXVI
Il vento dell’Idaho
“La Monte Young ... bambino é stato iniziato al canto del vento e all’armonioso ronzio
delle linee elettriche che attraversano le grandi pianure americane”.
Terry Riley
L’aneddoto é conosciuto. Anni 30 e 40, una piccola comunità di Mormoni a Bern nelle
pianure dell’Idaho. Il giovane La Monte, tra una lezione di sax col padre e una con lo
zio, ascolta il vento che soffia tra le fessure della modesta baracca famigliare.Fuori,
negli spazi aperti della pianura americana, il vento, ancora lui, soffia tra i fili elettrici,
mentre quelli del telegrafo sono percorsi dal brusio delle conversazioni in morse; in
questa composizione a dimensione planetaria il bordone é tenuto dal ronzio quasi
costante dei trasformatori.
Lo stesso Young ha più volte fatto riferimento a questo apprendistato musicale
contribuendo cosi’ a farlo entrare nella leggenda e di fatto, se consideriamo la sua
personale evoluzione, a renderlo paradigmatico. (1)
Analizziamone più in dettaglio gli elementi. Il vento che soffia tra i fili elettrici costituisce
un’enorme arpa eolica, cioé uno strumento nel quale le corde che producono il suono
non sono fatte vibrare dalla mano o dal soffio umano ma dal vento. In questa arpa
eolica é evidente la valenza “pitagorica” da “armonia delle sfere”. Forte é infatti la
similitudine col Monocordo Divino di Robert Fludd, sappiamo inoltre che già
Athanasius Kircher nel XVII° secolo aveva progettato oggetti musicali in cui delle corde
metalliche dovevano essere fatte vibrare dal vento.
Più vicino a noi e più in “tema” Henry David Thoreau nel suo Diario aveva notato le
vibrazioni dei cavi telegrafici e ne aveva colto l’aspetto sonoro (2). Nel racconto di La
Monte Young però una valenza “duchampiana” si somma a quella “pitagorica”. Infatti
questa arpa eolica é un oggetto ready made, un oggetto sonoro trovato, nel più puro
stile duchampiano. Il solo intervento possibile dell’uomo in questo concerto é sulla
durata, può determinarne l’inizio e la fine, ma in più questa esperienza, ed é sopratutto
questo aspetto ad avvicinarla all’ esperienza duchampiana, presuppone la volontà
d’ascolto cioé l’apertura delle proprie orecchie al mondo. Il fatto di ascoltare e udire
come musicale il vento che soffia tra i fili elettrici nelle pianure dell’Idaho é di fatto
considerare il mondo come una sala da concerto.
L’idea sottesa nel racconto di La Monte, é l’importanza fondamentale accordata
all’ascolto, al semplice fatto di ascoltare in sé, in modo oggettivo, non più con l’orecchio
filtrato dal temperamento. Questo nuovo modo di ascoltare, questo ascolto oggettivo e
l’apertura al suono trovato (che per essere”trovato” deve poter essere ascoltato come
tale e non più come rumore), congiunto all’altro aspetto del paradigma di Young, cioé il
senso di comunione panica tra l’uomo e la natura, che trova la sua formulazione teorica
più completa nel concetto di paesaggio sonoro cosi’ come é presentato nel libro di
Murray Schafer (3), hanno contribuito alla nascita di una nuova organologia.
La nuova organologia contiene in modo inscindibile questi due concetti, anche se
poi nell’operare se ne privilegia più l’uno che l’altro. Da un lato un’attitudine
trascendentale, di coinvolgimento dello strumentista al materiale che produce il suono:
di annichilimento in esso. Dall’altro un bisogno di sfacciatagine, di irriverenza rispetto
alla tradizione musicale classica: di affermazione del soggetto.
Questa nuova organologia non puo’ essere separata da un’altra dimensione, in essa
contenuta, che é la dimensione visiva di questo aproccio. Nel coinvolgimento totale
dell’operatore sonoro la dimensione visiva é essenziale perché testimonia della globalità
dell’esperienza e tende a realizzare quella sinestesia tra arti visive e sonore che é stata
una delle massime utopie del XX secolo. Questa dimensione, già presente nei nuovi
strumenti sonoro-musicali, é resa più esplicita, é concretizzata, nelle sculture sonore,
vale a dire in oggetti che sono pensati per la vista, ma che allo stesso tempo sono
volutamente concepiti per produrre suoni e quindi per essere uditi. L’operatore visivo
apporta, con orecchie vergini, non educate, un ascolto nuovo.
Un panorama (non una cronologia) di questo nuovo aproccio al sonoro e alla
realizzazione di nuovi strumenti musicali potrebbe cominciare con le esperienze
percussive di John Cage negli anni 30. “Un giorno mi presentarono Oskar Fischinger
(4)... mi parlo’ dello spirito che si trova racchiuso in ogni oggetto ... per liberare questo
spirito era sufficiente sfiorare l’oggetto, trarne un suono. Ecco l’dea che mi condusse
alla percussione. Non ho cessato ...fino alla guerra, di palpare le cose, di farle suonare
e risuonare per scoprire quali suoni contenessero” (5). Ecco come Cage arriva
attraverso le percussioni, inventando en passant il water gong, ad un coinvolgimento
fisico con le cose che troverà il suo apogeo nell’invenzione (nella scoperta ?) del piano
preparato.
Oppure potrebbe cominciare, con un aproccio più visivo, con le Sounding Sculptures
(aprossimativamente: sculture suonanti) che Harry Bertoia ha costruito a partire dai
primi anni 50. Per Bertoia il mediatore é lo stesso che per Cage e cioé O. Fischinger .
Bertoia nato in Italia nel 1915, è emigrato negli USA nel 1930 ed é morto nel 1978.
Disegnatore industriale di formazione incontra O. Fischinger a Los Angeles negli anni
40, ma é solo a partire dai primi anni 50 che comincia a costruire le sue Sounding
Sculptures la maggior parte delle quali é composta da una base quadrata o
rettangolare alla quale sono fissati steli metallici flessibili di altezze variabili (da 70 cm a
180 cm) che culminano con parti generalmente più spesse o di forma diversa. Oltre a
questo tipo di sculture ne esiste un altro costituito da cerchi o rettangoli sempre in
metallo, sospesi e fatti per essere percossi o sfregati come un gong. H. Bertoia,
nonostante fosse cosciente della dimensione sonora delle sue opere, prova ne é la
denominazione, non si é mai considerato un musicista, ma piuttosto uno scultore (6).
Forse perché ciò che voleva rendere udibile, secondo lo spirito di Fischinger, era
proprio l’anima delle cose indipendentemente da organizzazioni musicali considerate
come elementi aggiunti a posteriori e non facenti parte dell’essenza delle cose.
Il suono nelle sue sculture é prodotto dal libero gioco dei visitatori che sono invitati a
toccarle, ad accarezzarle, quasi fossero steli d’erba mossi dal vento.Questo suono é
generalmente un suono composto da molti armonici e da vibrazioni simpatiche del
metallo che lentamente si spengono creando un’atmosfera soffusa e calma, meditativa,
propizia alla concentrazione sull’ascolto.
O ancora con François e Bernard Baschet, rispettivamente scultore e ingeniere di
formazione, che dalla metà degli anni 50 tentano di realizzare “una sintesi tra la scultura
e i suoni, perché esistono dei rapporti tra i suoni e le forme” (7). Inizia così la
collaborazione con i compositori Jacques e Yvonne Lasry e con questi creano le
strutture sonore Lasry-Baschet. Nel modello più comune queste strutture sono
composte da steli di vetro, di dimensioni uguali, fissati a piccole barre in acciaio a loro
volta a contatto con un foglio in acciaio laminato, piegato in forma conica, che funge da
cassa di risonanza. Lo sfregamento degli steli in vetro con le dita umide produce
vibrazioni che sono trasmesse dalle barrete metalliche alla cassa di risonanza che le
amplifica. Oltre a questo tipo di struttura ne esistono altre a percussione o ad arco, ma
comunque sempre basate sull’uso degli stessi materiali, fogli d’acciaio, steli di vetro, e
sugli stessi principi, vibrazioni amplificate in modo naturale per trasmissione fisica delle
onde.
Queste strutture sono state prodotte per essere sia suonate in modo virtuosistico
creando vere e proprie piccole orchestre sia per essere usate come elementi scultorei
veri e propri (tra i diversi utilizzatori ricordiamo Anick Nozati (8) che le usa per
amplificare e “colorare” la voce). Oppure usate in esperienze pedagogiche lasciandole
alla disposizione dei bambini, conservandone così intatta la dimensione ludica che era
ben presente fin dall’inizio dell’esperenza.
Una delle qualità delle strutture musicali sottolineata dagli stessi fratelli Baschet é quella
del “contatto fisico dell’esecutore con la vibrazione” (9). Questo elemento del contatto
fisico col suono é importante in tutta la nuova organologia e nelle sculture sonore ed é
stato ben messo in evidenza, in altro contesto, da Laurie Anderson con la sua
Handphone Table (1978) dove le ossa dell’avanbraccio sono l’elemento conduttore
delle vibrazioni dagli altoparlanti incorporati nella tavola alle orecchie dell’ascoltatore. La
percezione sonora non passa solo per i “canali” normali, ma il suono, essendo
vibrazione, come ogni vibrazione, é percepito in modo assolutamente fisico con tutto il
corpo e non più solo dall’orecchio. Emmanuelle Laborit (10), figlia di Henri, sorda dalla
nascita, ricorda nella sua autobiografia come bambina percepisse il suono del
pianoforte della madre con tutto il corpo: le vibrazioni fisiche del suono propagandosi
nello spazio le attraversavano tutto il corpo.
Un altro personaggio tra i precursori della ricerca dell’inudito é Harry Partch (19011974). Teorico del microtonalismo, rifiuta i sistemi e le scale armoniche occidentali, si
volge verso i sistemi armonici orientali e dell’antica Grecia. Questo atteggiamento lo
porta, coerentemente, a rifiutare l’organologia che da quei sistemi derivava, così che dai
primi anni 30 lo troviamo alle prese, ad esempio, con una Adapted Viola (11) che
doveva permettergli di eseguire la musica di sua composizione basata sulla
separazione dell’ottava in 55 toni (12). Per il resto della sua vita sarà un costruttore
infaticabile di nuovi strumenti che gli permettessero di rendere udibili qui microintervalli
che andava ricercando.
L’esempio di Partch é rivelatore d’un aproccio diffuso tra gli adepti della nuova
organologia e cioé che il bisogno di nuovi strumenti nasce dal fatto che la gamma
dell’udibile, di ciò che può essere udito e accettato nel campo del musicale si và sempre
più allargando, rendendo così sempre più stretti i canoni tradizionali.
A queste esperienze si possono trovare padri e nonni senza grandi difficoltà, dagli
automi musicali, veramente costruiti o solo sognati, dal XVII secolo in poi, ai Complessi
Plastici Motorumoristi di Fortunato Depero o agli Intonarumori di Russolo ad
esempio(13). Sia nel campo della nuova organologia che delle sculture sonore le
esperienze sono state estremamente diverse e multiple, dal riciclaggio come strumenti
musicali di oggetti della vita quotidiana a sofisticate strutture controllate da compiuters.
Da realizzazioni con un fastidioso profumo naïf che di nuovo hanno solo l’aspetto
esteriore, alle creazioni di veri “visionari” alla ricerca dell’inudito per gusto del nuovo e
per incompressibile bisogno.
Per quanto riguarda le sculture sonore si può notare che una parte della scultura di
questo secolo é diventata sonora quasi in modo ineluttabile dopo l’introduzione del
movimento. Pensiamo ai “mobili” di Calder: il vento o il soffio del curioso, per i “mobili” di
più piccole dimensione, si possono considerare come potenziali sculture sonore. Il
suono non poteva che essere una logica conseguenza dell’introduzione del movimento
perché là dove c’é movimento c’é attrito e l’attrito é suono più o meno udibile.
Diverse esperienze d’artisti cinetici negli anni 50 e 60 hanno contribuito all’introduzione
del suono nell’arte plastica. Dalle sculture cinetico-sonore di Bruno Munari, come
Giocare coi Suoni, in collaborazione con Davide Mosconi e Giovanni Belgrano, oggetti
sonori per bambini con fini pedagocici (14), a certi lavori di Nicolas Schöffer. Dai Quadri
Tattili-Sonori d’Agam (notiamo che nelle sue pitture si può parlare di “musica
silenziosa” visto il costante riferimento all’”armonicismo” cromatico che si deve mettere
in parallelo col cromatismo musicale), alle sculture a corde dei primi anni ‘70 di Pol Bury
(15) composte da corde metalliche che potevano essere “sfregate” con biglie, anch’esse
metalliche, per produrre suoni. Suoni che “erano prodotti per essere guardati e non solo
ascoltati, l’audizione in un certo senso secondaria non era che la conseguenza di ciò
che era visto” (16).
Anche l’esperienza musicale di Takis é cominciata con un ascolto che ci riconduce al
paradigma di Young. L’ascolto e poi la registrazione del ronzio emesso da un magnete
alimentato elettricamente. Quello che faccio “non é certamente musica. Il suono é
provocato dal caso, dal campo magnetico. Solo la possibilità di mettere in evidenza un
mondo che non si vede mi interessa, non il risultato” dice Takis . Questa “fascinazione
per l’invisibile e il sentimento che questo mondo invisibile ci stava dominando” (17) lo
hanno condotto a produrre alla metà degli anni ‘60 delle Telesculture Musicali nelle
quali una corda di piano o di violino é percossa da un grosso chiodo sospeso ad un filo
e attirato da un magnete nascosto dietro un asse in legno o metallica che funziona da
cassa di risonanza. Dalla metà degli anni ‘70 Takis integra diverse di queste sculture
musicali in vere e proprie installazioni sonore, che chiama Ambienti Musicali, nei quali i
suoni sovente gravi delle sculture e il senso d’inesorabilità, d’ineluttabilità, creano
un’atmosfera drammatica sopratutto nel caso di un ascolto prolungato.
Il voler “mettere in evidenza un mondo che non si vede” culmina con la grande
installazione di Beauvais. Nella quale cavi metallici di diverse lunghezze, dai 30 ai 40
m., sono tesi lungo le pareti della torre dell’acquedotto della città ed esposte ai venti.
Takis dopo le forze telluriche del magnetismo ci propone “una musica di spazi ... per
ottenere dei suoni cosmici ... una specie di variazione cosmica” nella quale “siamo
tutt’uno con lo spazio” (18). Ritroviamo qui un aspetto della percezione fisica, senza
l’orecchio, del suono cui si faceva cenno a proposito di Emmanuelle Laborit.
Un po’ seguendo l’esempio di Cage, un po’ per ricerca individuale, tutti i matriali sono
stati percossi, sfregati, eccitati. Dalle strutture sonore Lasry-Baschet ,alle Sounding
Sculptures di Bertoia, ai gong tradizionali di Philp Corner. Dal vetro, percosso o
“sfregato”, della canadese Glass Orchestra, alla Glass Harmonica di Akio Suzuki (19) e
agli strumenti in vetro del francese Jean-Claude Chapuis, ma già negli anni 50 H.
Partch aveva costruito percussioni in vetro, le Cloud-Chamber bowls e ancora prima,
nel XVIII secolo il vetro era stato usato per costruire strumenti musicali. Dalle
percussioni in ceramica dell’americano Ward Hartenstein, ai litofoni del tedesco Elmar
Daucher e dell’italiana Amalia Del Ponte (20).
In questi esempi l’energia usata per mettere in vibrazione la materia é umana. È l’uomo,
l’esecutore, che eccita gli oggetti, che ne estrae il suono.
A proposito di questo tipo di strumenti che impiegano materiali e energia “naturali”, con
una fievole valenza “culturale”, si può notare l’importanza sempre maggiore attribuita
alla riscoperta di strumenti antichi o tradizionali, o meglio il loro uso decontestualizzato.
A questo proposito ricordiamo le ricerche dell’inglese Max Eastley che, con David Toop
(21), ha usato e prodotto Idrofoni (delle corde messe in vibrazione dal passaggio
dell’acqua) e Metallofoni e, da solo, una specie d’arco musicale che può ricordare il
berimbau brasiliano. Ha poi continuato le sue ricerche usando (nell’ambito della Whirled
Music) rombi di varie dimensioni. Il rombo é un antico strumento, con forte valenza
religiosa, conosciuto dai greci e usato, in ambito antropologico, dagli Aborigeni
australiani o dai Dogon del Mali ad esempio.
In questo campo di riutilizzo di strumenti antichi bisogna ricordare le ricerche di Walter
Maioli e di Mariolina Zitta (22). O le esperienze dell’australiana Sarah Hopkins (23) che
usando tubi di plastica roteati nell’aria produce un suono a metà strada tra il didjeridoo
e il rombo degli aborigeni. O ancora i flauti in pietra, che sembrano oggetti trovati
paleolitici, di Akio Suzuki (24).
Alcuni esampi di riciclaggio in modo sonoro di oggetti trovati sono forniti dall’americano
Ken Butler il quale ci presenta The Voices of Anxious Objects (Le voci di oggetti ansiosi)
(25) creando, come lui stesso li chiama, degli strumenti ibridi, vale a dire degli strumenti
musicali relativemente tradizionali per quanto riguarda la sonorità, ma che sono ottenuti
deviando oggetti come martelli, pale, racchette da tennis, dalla loro funzione principale.
Oppure il fancese Yves Pacher (26) che crea strumenti, anche questi classici rispetto
alla sonorità, ottenuti quasi esclusivamente con materiali vegetali quali scorze d’albero o
fili di paglia per creare quella che lui chiama una musica “dei sottoboschi e dei sentieri
dell’immaginazione”. Pacher ha sviluppato questa organologia “verde” sopratutto in
ambito scolastico per un risveglio musicale degli allievi della scuola elementare. O
ancora Jacques Dudon (27) e i suoi strumenti ad acqua.
Il riferimento ad un ascolto attivo e nuovo del mondo che ci circonda e alla fantastica
ricerca dell’inudito sono evidentissimi.
I presupposti che stanno alla base di tutte queste esperienze di riciclaggio e di strumenti
“ecologici” sono l’ecologismo sonoro di Murray Schafer e le premesse trascendaliste ad
esso sottese.
Un esempio significativo di questo sentimento panico e dell’importanza accordata
all’ascolto può essere fornito da Space in the Sun (Spazio nel sole) (28) di Akio Suzuki.
Il titolo va preso alla lettera perche si tratta veramente di uno spazio pavimentato di 7 m.
per 17 m., con due muri di 3 m. d’altezza costruiti sui lati nord e sud del rettangolo, in
mattoni d’argilla cotti al sole che lo stesso Suzuki ha costruito ad Amino, una località in
una foresta vicina a Kyoto, e nel quale, dall’alba al tramonto dell’equinozio d’autunno, si
é installato per ascoltare i suoni dell’ambiente circostante, siano essi suoni naturali o
dell’attività umana. Un “ascolto integrale” dell’ambiente circostante, nel quale non é
l’uomo ad essere attivo, agente, e la natura a subirne le conseguenze, ma é la natura a
“insegnare” all’uomo, ipotizzando quindi uno scambio equo tra uomo e natura.
In tutti questi aprocci al suono é evidente il fascino esercitato da flussi sonori spessi e
evanescenti allo stesso tempo. In una parola il fascino e il mistero della nascita del
suono della sua percezione, di come una corda sfregata o un metallo percosso
producano un fluido sonoro, quasi un torrente nel quale immergersi. Attonito l’uomo
moderno ha l’impressione di riscoprire le sensazioni, o ciò che immagina essere le
sensazioni, dell’uomo paleolitico all’ascolto per la prima volta del suono, soggiogato
dalla magia del suono. Essere in questo divenire fornisce all’uomo l’impressione,
l’illusione, di partecipare al tutto del mondo in divenire. Lo spazio-tempo é abolito non
esiste più che il solo essere nella presenza nel divenire, non c’é più frattura tra l’oggetto
e il soggetto. Il mistero del tempo non é più! L’uomo é in comunione col mondo.
In questo contesto si può notare che lo strumento che produce la musica e la musica
stessa assumono una valenza quasi ideologica.Un’importanza sempre più grande é
attribuita alla sorgente sonora, da dove viene il suono, vale a dire ciò che mettendolo in
vibrazione si fa suonare. I materiali in questo caso non sono più tanto un mezzo ma un
fine in sé. Sono il suono della materia.
Continuando la sommaria disamina delle esperienze significative condotte nel campo
della nuova organologia soffermiamoci sul vasto gruppo degli strumenti a vento. Dai vari
tipi di flauto, all’organo o alla fisarmonica vale a dire tutti quegli strumenti dove il suono
é prodotto da un movimento di colonne o masse d’aria.
Come nell’Orgue à Feu del francese Michel Moglia (29). Questo é basato sulle ricerche
del fisico George Kastner che nel 1875 pubblica a Parigi Les Flammes Chantantes
contenente la prima descrizione di un Pyrophone. Nell’Orgue à Feu di Moglia si tratta di
tubi metallici, simili a quelli usati negli organi tradizionali, ma disposti in modo
completamente diverso, attraverso i quali passano delle fiamme, generate dalla
combustione di gas, producendo un suono, un sibilo, che sarà funzione della lunghezza
dei tubi; la tastiera permette l’”accensione” dei diversi tubi. Strumento relativamente
pericoloso, richiede l’accettazione da parte dello strumentista di una certa dose di
rischio fisico, idea, questa, comunemente assente nella musica.
Le esperienze del tedesco, ma olandese d’adozione Horst Rickels (30) e della Logos
Foundations dei belghi Godfried-Willem Raes e di Moniek Darge (31) sono certamente
meno pericolose. Infatti questi costruiscono strumenti a vento pneumatici, nei quali cioé
l’aria che produrrà il suono é immagazzinata in contenitori con la stessa funzione delle
sacche delle zampogne. Il publico o l’esecutore, il momento venuto, agirà su queste
sacche inviando così l’aria in tubi e condotti vari che produrranno il suono.
Strumenti, che possono essere comparati agli strumenti a corda dell’organologia
tradizionale, sono stati ottenuti utilizzando,in svariati modi, fili o corde metalliche di
diverse dimensioni. In questo caso notiamo che l’elemento motore che, facendo vibrare
le corde produce il suono, non é più soltanto l’azione dell’uomo o naturale, aria, acqua
o vento, ma che può essere meccanico, generato cioé dall’azione di meccanismi
elettrici o meccanici.
Esempi di “forza motrice” naturale sono già stati citati in precedenza, a questi
aggiungiamo le Anapalos di Akio Suzuki e il Long string Instrument di Ellen Fulman
(32). Strumunti che presuppongono l’abilità dell’esecutore.
Le Anapalos sono una lunga corda agli estremi della quale sono fissati due cilindri
aperti, il suono é prodotto o facendo vocalizzi all’interno dei cilindri oppure arpeggiando
e sfregando le corde. Il Long String Instrument di Ellen Fulman é costituito da una
scatola in legno che funge da cassa di risonanza e da diverse lunghe corde metalliche,
che possono essere anche di 15 m., a questa fissate. Le corde sono sfregate nel senso
della lunghezza con le dita ricoperte di colofonia, lo stesso prodotto usato per le corde
degli archetti. In questo modo é udibile la frequenza fondamentale e i suoi armonici. La
partizione, basata sulle relazioni numeriche tra le diverse tonalità, indica il movimento e
la posizione dell’esecutore. Lo strumento produce così un suono dalla testura
estremamente ricca per l’esecuzione del quale il riferimento alle tonalità naturali é
indispensabile.
“Motorini elettrici”
È un dato di fatto che il XX° secolo é un secolo sonoro, rumoroso. Questa rumorosità é
dovuta in buona parte allo sviluppo impressionante della meccanizzazione di buona
parte dell’agire umano, dai trasporti alla produzione di manufatti, tanto che sarebbe più
giusto dire “macchinofatti”.
Come si é già notato tutti questi meccanismi producono movimento e attrito quindi
suono ed in questa prospettiva non potevano non essere usati nella produzione sonora.
Ma alla base di queste nuove ricerche sta anche un altro aspetto di questo secolo
certamente molto meno aneddotico. Vala a dire l’utopia che la macchina renda libero
l’uomo dall’obligazione della produzione, lo emancipi dalla necessità.
In campo artistico queste riflessioni si sono tradotte nel tentativo, annunciato da Marcel
Duchamp, di svincolare la produzione musicale da qualsiasi obbligo virtuosistico,
liberando l’esecutore dalle catene del virtuosismo. La meccanizzazione mette una
distanza tra l’esecutore e lo strumento come se questo, una volta avviato il
meccanismo, esistesse di vita propria e non dovesse più essere tributario dell’intervento
umano per vibrare. Assicurando in oltre la “regolarità” della produzione sonora la rende
allo stesso tempo più “scientifica” e più controllabile (notiamo en passant che questo
meccanicismo é l’esatto contrario della ripetitività degli anni ‘70 perché nei ripetitivi c’é
sempre uno sfasamento, un’evoluzione). Questa sudditanza dello strumento alla
macchina lo renderebbe così più alla portata di tutti, più democratico, una sorta di
democratizzazione dell’esecuzione, rendendo accessibile a tutti la creazione musicale.
Ma, sopratutto, riduce l’artista a semplice detonatore di situazioni artistiche, che non é
più nella posizione del demiurgo egocentrico, ma in quella del rivelatore di situazioni
artistiche. Non più l’assunzione dell’ego dell’artista a solo fenomeno rilevante, ma la
possibilita per ognuno d’essere al centro. Se tutto ciò che accade é musica la musica (e
l’arte) é ovunque e in ognuno, nella vita come direbbero Rimbaud, i Surrealisti o Fluxus.
Ritroviamo in queste idee l’eco di numerose esperienze: dai futuristi a Varese, dalle
insistenze di J. Cage nei primi anni 40 per la democratizzazione di certa tecnologia
all’epoca rinchiusa negli studi delle grandi Majors. Tutto il secolo é percorso da ricerche
per realizzare macchine che producessero suono. Dai primi tentativi per la
sintetizzazione del suono di Leon Theramin o di Thaddeus Chaill nel primo novecento,
ai generatori d’Onde Martenot o ai primi sintetizzatori Moog degli anni 50 e 60, fino
all’uso attuale del calcolatore elettronico o dei campionatori che quasi svincolano la
pratica musicale non solo dal virtuosismo strumentale, ma anche dalla produzione di
suono così come la s’intende correntemente (33).
Nonostante il grande sevizio reso alla “democratizzazione” della pratica musicale
dall’introduzione di queste macchine (“democratizzazione” che sarà messa a profitto
sopratutto in ambito rock e in questo senso importante perchè gli interscambi tra ambito
rock, o altri ambiti, e ambito sperimentale sono uno degli elementi più significativi delle
ultime generazioni di sperimentatori) é evidente che l’obiettivo che si ponevano i loro
inventori era la produzione di suono musicale in senso stretto attraverso la sua
“sintetizzazione”: uno strumento musicale in più che apre sull’inudito solo per le
possibilità offerta di nuove “coloriture” del suono o deformazioni impossibili altrimenti.
Nel contesto che é il nostro altre esperienze ci paiono più significative, come il Concerto
di sirene di fabbrica e fischi di fumo (34) a Baku nel 1922 (che per certi aspetti ricorda
l’Orgue a feu di Moglia) o le prime esperienze di collage sonori di Walter Ruttman nella
Germania dei primi anni 30 che sono, con i primi Imaginary Landscapes di Cage, tra gli
antenati della musica concreta di Pierre Schaeffer e Pierre Henry anche se questi non
ne conoscevano l’esistenza.
Più vicino a noi bisogna ricordare le Music Machines che Joe Jones (35) comincia a
costruire alla metà degli anni 60. Si tratta di strumenti musicali a corda o a percussione
come chitarre, mandolini, violini, pianoforti, vibrafoni, tamburelli e tamburi, nei quali le
corde, per gli strumenti a corda, sono sfregate dalle “pale” (in genere filamenti metallici)
di motorini elettrici o, per gli strumenti a percussione, le superfici sono percosse, in
modo ritmico costante, da martelletti anch’essi azionati da motorini elettrici. Questo é
l’apparato più semplice, esistono però anche strutture più complesse come manichini
nei quali le corde sono tese tra i piedi e il capo, ma il principio é sempre lo stesso.
All’inizio questi strumenti erano presentati come solisti, ma con l’andar del tempo si
sono costituiti in vere e proprie orchestre dove la fonte d’energia per i motorini elettrici é
fornita da pannelli solari (come in Solar Music Hot Hause del 1988), oppure montati su
tricicli e in questo caso la fonte d’energia é fornita dal pedalare dell’esecutore (come in
The Music Bike del 1966 e The Music Trike del 1977).
È un azzeramento del virtuosismo musicale. Jones interviene solo mettendo in funzione
o meno i motorini elettrici. L’aspetto ludico tipicamente Fluxus é evidente. Il risultato é
una musica dolcemente ripetitiva nella quale l’aspetto meccanico é facilmente
percepibile e ammagliante. Una musica dolce che fa pensare ai carillons senza però il
lato sciropposo e nostalgico di questi.
Una via di mezzo tra gli “strumenti” di Joe Jones e il Long String Instrument di Ellen
Fulman sono le Long String Installations degli olandesi Paul Panhuysen e Johan
Goedhart (36). Si tratta infatti di installazioni in ambienti che possono essere anche
estremamente vasti, come fabriche in disuso oppure intere case in costruzione, nei
quali sono tesi cavi metallici che sono sia sfregati dagli esecutori come corde di enormi
violini, sia sfregati o percossi da mezzi meccanici come appunto motori elettrici.
Naturalmente viste le dimensioni delle corde, diversi metri, e il fatto che spesso si sia
all’esterno, l’ambiente circostante interviene in modo casuale e indeterminato. In queste
installazioni la cassa di risonanza dello “strumento” é l’architettura in cui risuonano le
corde, l’ambiente diventa cassa di risonanza.
A questi interventi dell’esecutore, meccanici e ambientali si aggiungono manipolazioni e
amplificazioni eletroniche assenti invece in Jones e Fullman.
Concettualmente simili agli strumenti meccanici di Joe Jones sono le strutture di Peter
Vogel (37). Più sculture che strumenti musicali anche se l’idea di gioco strumentale é
presente. Si tratta infatti di piccole campane tubolari o tamburelli oppure piccoli gong
percossi da martelletti, o di citare le cui corde sono eccitate da motorini elettrici, oppure
di piccole trombe nelle quali il “soffio” é prodotto da circuiti elettronici. O ancora
altoparlanti che diffondono suoni prodotti anch’essi da circuiti elettronici. Questi
strumenti acustici ed elettrici sono posti alla sommità, come se fungessero da
piedistallo, dei circuiti elettronici che le governano svelandosi così a chi ascolta e
guarda, sono la parte visiva dell’opera. Tutta la struttura,circuiti e strumenti, é in oltre
illuminata da una sorgente luminosa diretta per aumentarne da un lato la visibilità, quasi
si trattasse delle luci della ribalta, e dall’altro per creare un gioco d’ombre sul muro
opposto. Nella situazione di riposo, senza cioé l’intervento dell’esecutore, queste
strutture sono silenziose, solo sculture quindi, ma, grazie ad un sistema di fotocellule,
l’ombra del visitatore che si interpone tra la sorgente luminosa e gli oggetti sonori, o
l’ombra della mano dell’esecutore, con gesto virtuosistico o casuale, fa “suonare” la
struttura trasformandola in scultura sonora. Si tratta quindi di strutture che richiedono la
complicità del pubblico stuzzicandone l’appetito ludico.
David Dunn, Entrainments 2, 1985
Un posto a parte spetta a Tinguely (38). Diverse delle sue sculture funzionano sia a
livello visivo che sonoro, ma i suoi meccanismi sono molto più teatrali e sono piuttosto
da mettre in relazione con il meccanicismo e la perversità di certe “macchine celibi” che
non con la raffinatezza e la discrezione di Agam o Bury. Pensiamo alla sculture autodistruggentesi, il suicidio della macchina messo in scena, come Homage a New York
(1960) o Etude pour une fin du Monde (1962), o ancora al vero e proprio happening in
piazza Duomo a Milano nel 1970. Oppure alle numerose sculture dove tra gli altri
materiali ci sono radio funzionanti o sventrate quasi si fosse praticata un’autopsia.
L’introduzione di meccanismi, di motori elettrici che producendo il movimento, dalle
prime opere cinetiche fino alle ultime meta-sculture, permettono l’integrazione del
rumore, del suono, nell’opera. Ma nelle atmosfere cupe che queste sculture creano, a
base di catene e teschi di animali, l’idillio tra macchina e uomo é finito, nonostante già
l’ronia di Dada avesse contribuito a scuoterlo.
Chi ha portato al parossismo la fine di questo idillio é Matt Heckert con la sua
Mechanical Sound Orchestra (39). Qui non é più questione di grazia e leggerezza
come in Jones o Vogel, ma di anti-grazioso da industria pesante. L’atmosfera che
prevale é da industria siderurgica con effetti, ricercati, di paure viscerali. L’incanto é
rotto, la macchina presenta il suo lato “oscuro”, non é più la liberatrice dell’uomo, ma la
sua asservitrice. Eppure la macchina continua ad affascinare, anche se Heckert evita il
compiacimento e l’ideoligia dubbia di un Vivenza, ad esempio, rimane questa attrazione
quasi ipnotica per il ritmo regolare e sicuro che genera, come se questa regolarità
rassicurasse rendendo conto dell’immutabilità della condizione umana.
Il suono come materiale
“La musica non é solo quello che udiamo o ascoltiamo, ma tutto ciò che accade”
George Brecht
L’invenzione e la commercializzazione, all’inizio del secolo, del fonografo sono da
annoverare tra gli accadimenti di maggiore rilevanza per gli argomenti che ci
interessano.
Questa invenzione ha permesso, teoricamente, ad ogni tipo di pubblico la fruizione di
ogni tipo di musica. Un altra democratizzazione della musica questa volta resa possibile
dalla messa in conserva della musica stessa. Per la prima volta non sono i musicisti a
spostarsi ma il loro suono messo in scatola. A questo proposito gli avversari del
fonografo all’inizio del secolo non hanno mancato di porsi la domanda se questa sia
veramente musica, se siamo veramente in presenza della musica o solo di un suo
surrogato più o meno significativo.
Senza cadere nella trappola di chi sostiene che la sola vera musica sia quella dal vivo
(attribuendo così a questa una specie di valore aggiunto perchè eseguita tutta d’un
fiato), bisogna riconoscere un certo turbamento di fronte a certe pratiche di
registrazione o di “correzione” del suono.
Comunque sia ci pare che la differenza tra i due modi é più nella fruizione che non nella
natura dell’oggetto musica. Il fenomeno mondano legato al concerto non é certo
scomparso con l’avvento de fonografo, anzi ne é stato amplificato perché messo a
nudo. E la musica ha guadagnato una faccetta supplementare, una nuova musica e
nuovi strumenti per produrla. Pensiamo, ad esempio, all’uso che i dj techno fanno del
giradischi, smitizando a loro volta il fonografo così come questo aveva fatto rispetto alla
musica dal vivo.
In questa prospettiva un discorso a parte meriterebbe la commercializzazione del
registratore alla metà degli anni ‘50, così fondamentale per tutta la musica degli anni
’60, elettronica o concreta che sia, e per l’uso creativo che la poesia sonora, da Chopin
e Heidsieck in poi, ne ha fatto. Così come un discorso a parte meriterebbe, in anni più
recenti, la diffusione di massa del personal computer. Qui si discorre solo del fonografo
perché è una delle prime invenzioni tecnologiche ad aver giocato un ruolo importante
nello sviluppo della musica di questo secolo e ad aver avuto una diffusione di massa.
Ma al di là di queste considerazioni generali due ci paiono essere le conseguenze più
significative dell’invenzione del fonografo oltre a quella già ricordata della
“trasportabilità” della musica.
Anzitutto lo scollamento, il vuoto temporale, tra causa ed effetto. Il supporto su cui é
registrata la musica, prodotto di una certa azione, costituisce il mediatore tra l’azione
stessa e la percezione di questa azione; distanza temporale, tra produzione e fruizione,
che può essere anche molto importante. In un certo senso la fruizione dell’azione é
scissa dall’azione stessa, come resa autonoma da questa distanza temporale.
L’affermazione, tipica della “modernità”, secondo la quale é il fruitore a fare l’opera
d’arte trova qui esemplificazione e concretizzazione.
In secondo luogo le invenzioni tecnologiche di questo secolo, moltiplicando le possibilità
di sorgenti musicali, anche grazie al medium radio di cui quì si tace per mancanza di
spazio, ma che gli artisti non hanno mancato di frequentare in modo creativo, hanno
reso possibile, secondo l’espressione di Pascal Quignard, una specie di “odio per la
musica” o, secondo Cage, un inquinamento sonoro, simbolizzato dalla società Muzak,
produttrice di musica di sottofondo per supermecati, alla quale Cage consiglierà la
diffusione di 4’33” inteso come rivelatore di questo inquinamento.
In questa prospettiva di presa di coscienza del significato dell’ascolto e dell’essenza del
suono, il silenzio, fondamentale é l’esparienza che Cage conduce, alla fine degli anni
40, nella camera anecoica dell’università di Harvard dove entra per ascoltare il silenzio
ed invece ode un suono acuto, la circolazione del sangue, e un suono più grave, il
battito cardiaco: i rumori prodotti dal corpo umano.
Questa esperienza concorre a giustificare teoricamente e rendere possibile a Cage la
realizzazione del suo pezzo “silenzioso” il 4’33’’ del 1952, nel quale si concretizza una
dialettica tra esterno e interno alla musica, ma anche al corpo: l’assenza di musica non
coincide necessariamente con l’assenza di suono.
Allo stesso tempo questa esperienza, mettendo in luce questa dialettica, identifica il
mondo musicale e il mondo sonoro, attribuendo a ciascuno il loro spazio. Il passo
seguente per Cage sarà l’integrazione di questo spazio esterno alla musica nello spazio
musicale.
Questa dialettica tra esterno e interno può anche essere applicata al corpo. Il corpo
umano produce suono.La vita é suono. Il campo del sonoro é una specificità dell’essere
vivente e il silenzio, l’assenza di suoni, é assenza di vita.
Esiste quindi una sorta di suono “corporale” , interno al corpo, che sarà messo a profitto
in buona parte della poesia sonora che attraversa tutto il secolo, dalle prime esperienze
futuriste fino a Henri Chopin o al gruppo Exvoco che per educare la propria voce ascolta
le galline. Un suono del corpo quindi. Ma, come abbiamo visto, il suono ha anche
ragioni fisiche esterne al corpo, é il prodotto di un attrito generato da un movimento. Il
contatto, lo sfregamento tra due materiali o due corpi, qualsiasi essi siano, generano
suono. Da questo punto di vista il XX° secolo é un secolo estremamente sonoro, alcuni
dicono rumoroso. La civiltà delle macchine é una civiltà rumorosa.
Buona parte della pratica sonora di molti artisti di questo secolo é stata di mettere in
evidenza, attibuendogli alle volte valenze positive altre volte valenze negative, questa
constatazione. Cage lascia entrare il mondo esterno nella sala da concerto, altri
usciranno da questa per fare entrare il mondo musicale nel mondo esterno.
Le ragioni del suono sono però anche intellettuali perché legate alla percezione di
questo ed alla riflessione su questa percezione. Il XX° secolo é un secolo nel quale,
forse più di ogni altro, questa riflessione é stata assunta a essenza della produzione
artistica.
L’Objet à Detruire (1923) di Man Ray: la fotografia di un occhio é ritagliata e attacata al
cursore che scorrendo lungo la barra metallica di un metronomo determina il tempo, la
velocità. La fissità del tempo ottico è messa a confronto con il divenire del tempo
musicale.
A Bruit Secret (1916) di Marcel Duchamp e Walter Arensberg: un oggetto sconosciuto
é nascosto all’interno di un gomitolo di spago leggermente compresso tra due rettangoli
metallici. La sorgente sonora é nascosta, acusmatica, il risultato, il rumore, diviene più
misterioso. Non conoscendo l’oggetto che provoca il rumore, questo diventa di difficile
identificazione. Così solo importa il risultato, o meglio: il fatto che ascoltiamo e che
l’ascolto, essendo percepito svincolato dalla sorgente, é come se ascoltassimo per la
prima volta.
Un ascolto concettuale dunque. Il fatto sonoro diventa oggettivo, indipendente da
interpretazioni o stati d’animo: é ciò che accade. Il mondo sonoro esiste ed é udito in
tutte le sue varietà possibili. È come se le orecchie si aprissero per la prima volta e il
tuttuno che costituisce la realtà sensibile fosse veramente inteso scisso nelle sue
componenti.
Box with the Sound of Its Own Making (Scatola col suono della sua propria
costruzione) (1963) di Robert Morris é una scatola in legno all’interno della quale é
racchiuso un registratore che diffonde i rumori prodotti durante la sua costruzione, vale
a dire rumori di una sega che sega del legno, un martello che batte dei chiodi..
Naturalmente niente ci assicura che quei suoni siano quelli veramente prodotti per la
costruzione di quella scatola, significano più che rappresentano. Il rapporto azionesuono é ricostruito mentalmente dall’ascoltatore: é lui che identifica quei suoni con
quelle azioni. Di fatto più che unire l’azione e il risultato le scindono nelle sue
componenti rendendole percepibili come azione e risultato.
Queste esperienze fanno si che il luogo dello spazio musicale non sia più solo la sala
da concerto e che il tempo musicale possa essere indipendente dalla manifestazione
musicale. L’attenzione a ciò che ci circonda, all’environnement, e un ascolto nuovo,
sono, come si é visto, alla base del 4’33’’ di John Cage, ma lasciare le porte aperte della
sala da concerto non é solo lasciar uscire la musica, ma anche lasciarla entrare in uno
scambio reciproco tra ciò che é fuori e ciò che é dentro, o meglio, abolendo questa
soglia.
Una tappa in questo percorso é stato l’uso del suono come “rivelatore architettonico”
della sala (da concerto o meno). Come se L’architettura, che é stata definita come una
musica gelata per l’uso che fa della proporzione, dell’armonia, fosse resa udibile. Una
delle opere più significative in questo senso é I Am Sitting in a Room (1969) di Alvin
Lucier (40). Si tratta infatti della messa in rilievo sonoro, del rendere udibile l’ambiente in
cui ci si trova, grazie ad una frase non musicale letta ad alta voce e di cui I am sitting in
a room sono le prima parole, frase registrata da un normale registratore, registrazione
che viene a sua volta ascoltata e di nuovo registrata per poi essere di nuovo
ritrasmessa e così via di seguito fino a che la frase originale diventa incomprensibile
perché deformata dalle caratteristiche fisiche, architettoniche, della sala. La frase
originale non é più comprensibile, ma é come se al posto suo si udisse la forma della
sala. Le deformazioni sonore dell’originale sono la testimonianza, la messa in evidenza
della forma sonora dell’ambiente.
Già in nuce nel paradigma Young il concetto di spazializzazione del suono, del suono
nello spazio, la “scoperta”, la presa di coscienza del far parte, di essere inseriti
nell’ambiente, nello spazio sono uno dei fenomeni più marcanti e significativi delle
esperienze sonoro-musicali degli ultimi anni.
Le preoccupazioni legate alla spazializzazione del suono non sono certo d’oggi. Già
Stockhausen con Gruppen (1957), ad esempio, s’era posto il problema risolvendolo
brillantemente, ma considerandolo più come uno spazio da riempire, un vuoto che
l’azione del musicista, la musica e l’operare dell’uomo deve riempire per testimoniare
dell’unitarietà del mondo. Per non parlare poi della spazializzazione del suono nei
concerti di musica elettroacustica, dove però il problema era più affrontato da un punto
di vista tecnico che non teorico.
Nell’ambito che qui ci interessa invece la prospettiva é diversa. Non è più questione di
vuoto da rienpire, ma di presa di coscienza del fatto che l’uomo non é che una parte di
questo mondo. È come se questa unitarietà fosse stata persa e devesse essere
riconquistata. Non é più l’uomo che riempie il mondo con la sua azione, ma l’uomo che
ponendosi all’ascolto del mondo ritrova un’armonia, una comunione con questo. L’uomo
non é più il solo attore, non é più il solo ad agire, ma scegliendo di essere spettatore
diviene un elemento agente tra altri.Non é più solo un movimento che dall’uomo va
verso l’esterno, ma un movimento che può andare nei due sensi. Uno scambio
reciproco tra uomo e natura diviene quindi possibile. Se l’uomo può agire sulla natura
questa può “insegnare” all’uomo.
Tutte queste considerazioni richiedono precisazioni sul concetto di paesaggio sonoro
che in gran parte sottendono e da cui, molte, traggono spunto o origine.
Questo concetto é evidentemente legato al libro di Murray Schafer e, nella sua
accezione minima, può essere inteso come la semplice registrazione di un accadimento
sonoro in un ambiente dato. Questa registrazione sarà poi analizzata secondo diversi
parametri: acustici, sociologici, psicologici ecc. In modo tale che sia possibile attribuire
ad ognuno un gradiente di fedeltà, di qualità, un land mark, che, secondo Schafer, sarà
più elevato in ambiente naturale o in piccoli aglomerati umani e più debole o nullo nelle
grandi città. Praticamente Schafer getta le basi per una vera e propria ecologia sonora
aprendo la via ad un nuovo ascolto del mondo. Di fatto non fa che catalizzare tutta una
serie di idee che in un certo senso erano nel vento dell’epoca, organizzandole e
ordinandole. Basti pensare che il suo libro esce alla fine degli anni ‘70 quindi
posteriormente a molte delle esperienze che qui si sono esposte. Ma non toglie niente
alla sua originalità e al valore della sua sintesi.
Un esempio d’analisi di un paesaggio sonoro condotta seguendo le teorie di Schafer é
Segnale Contesto realizzata da Albert Mayr nel luglio 1980 in piazza Santo Stefano, a
Bologna, nell’ambito della rassegna Isole del Suono. L’azione comportava quattro fasi:
una prima fase di rilevamento delle caratteristiche acustiche della piazza e dei suoi
dintorni, una seconda comportava la “proiezione” di segnali nella piazza stessa che
tenessero conto dei rilevamenti della prima fase, la terza il rilevamento della percebilità
acustica e psicoacustica dei segnali nella piazza e la quarta le conclusioni e le eventuali
registrazioni delle fasi uno e due. “Questa azione” conclude Mayr “chiaramente non si
pone come opera artistica, ma come esemplificazione di metodi e tecniche rivolte alla
rivalutazione della comunicazione acustica nel contesto urbano e a un esame più
globale della tematica segnale/disturbo” (41) .
Molto più spesso però, nella realizzazione di paesaggi sonori, contrariamente a Mayr, si
é tralasciata l’analisi per sottolinere solo l’aspetto più appariscente del lavoro di
Schafer, vale a dire il giudizio portato sulle qualità di un paesaggio sonoro. Vediamo
apparire quindi tutta una serie di lavori e registrazioni en plein air che sono più che altro
da considerare per il loro explot tecnico che non per il loro fare artistico. Avremo allora
registrazioni di foreste canadesi o della calma risacca delle onde marine, meglio se
dell’oceano, ad uso di cittadini per calmare le loro notti inquiete: la bellezza e la calma
sono sempre altrove.
Un autore importante in questa prospettiva di Deep Ecology, sottesa nelle teorie di
Schafer, e che ben esemplifica, radicalizzandole, tutto un campo delle ricerche musicali
dell’ultima generazione di autori americani é David Dunn (42). Convinto della possibilità
di comunicazione tra uomo e animale e, più in generale, tra uomo e ambiente
circostante, tutto il suo lavoro é teso, senza concessione alcuna, al tentativo di abolire la
piramide delle gerarchie che la società occidentale é andata via via costruendo tra i
regni animale, vegetale e minerale. Il cambiamento radicale del modo e
dell’atteggiamento di fare musica che Dunn propone é di fatto basato da un lato su di
un ascolto profondo del mondo circostante, ascolto che può essere assimilato ad una
messa in discussione di tipo psicologico del ruolo e dello spazio attribuito all’uomo nella
natura, e dall’altro al rifiuto della gamma musicale, dell’organizzazione dei suoni della
cultura musicale occidentale. Questo secondo aspetto, che in parte deriva dal primo, é
legato alle esperienze sul microtonalismo, vale a dire sulla differenza tra percezione
reale dei suoni da parte dell’orecchio umano e la sua codificazione da parte della
musica colta occidentale. Dunn ha potuto attingere direttamente ad una delle fonti
americane del microtonalismo é stato infatti, prima di studiare con Kenneth Gaburo che
considera come il suo maestro, l’assistente di Harry Partch dal 1970 fino al 1974 anno
della sua morte.
Una parte importante del suo lavoro é basata sull’interazione tra suoni prodotti
dall’uomo e suoni del mondo animale, non grazie o sopra o contro questi, ma con
questi, mano nella mano, come, ad esempio, in Mimus Polyglottos del 1976, tra suoni
elettronici e il canto di un tordo beffeggiatore, o allora l’esecutore deve impregnarsi dello
spirito del luogo in cui si svolge la performance come in Aura (Communication Stimulus
for Eighteen Voices and Cetaceans), la partizione della quale é stata presentata a
Sonorità Prospettiche nel 1982, e dove gli esecutori devono recarsi nel loro habitat
naturale. Infatti le sue composizioni in cui questi sono presenti, che in genere si
svolgono in deserti dell’ovest americano, o comunque in luoghi isolati, iniziano sempe
con un preambolo meditativo, di messa in situazione dell’esecutore, perché, appunto,
possa impregnarsi dello spirito del luogo e perché possa essere ricettivo a questo.
Pensiamo, per fare un solo esempio, a Nexus 1 per tre trombe, registrato nel 1973 in un
canyon poco frequentato del Parco Nazionale del Grand Canyon, nel quale “lo spartito
specificava gesti sonori con le trombe che potessero articolarsi interattivamente con
l’ambiente del canyon. Questa interazione era anzitutto focalizzata su 1) prolungare la
riverberazione e la straordinaria acustica spaziale delle formazioni rocciose, e 2) le
forme di vita non umana come i corvi che si udivano durante tutta l’esecuzione e la
registrazione” (43).
Questa pratica ecologico-musicale é ben lontana dal rifiuto della tecnologia Dunn usa
manipolazioni elettroniche e informatica come in Entrainments 1 e Entrainments 2
(rispettivamente del 1984 e1985) dove le voci, con una pratica per certi aspetti simile a
quella di Alvin Lucier, sono registrate e diffuse in un ambiente, in modo da percepirne le
modificazioni, con l’aggiunta di bordoni elettronici derivati da considerazioni astrologiche
e temporali legate al posto in cui ha avuto luogo la registrazione.
Dunn non é certo ne il primo compositore a lavorare col canto degli uccelli ne il solo.
Senza scomodare Messian, anche perché, nonostante l’aproccio filosofico di partenza,
il sentimento panico di appartenere allo stesso creato, possa essere letto come simile, il
contesto musicale nel quale questi canti sono inseriti é completamente diverso, basta
pensare al Live with the Birds del Maciunas Ensemble and Kanary Grand Band di Paul
Panhuysen del 1995 (44) nel quale sono combinate le Long Strings, cui si é già
accennato, e il canto di molti canarini liberi di volare nell’ambiente in cui ha luogo
l’esecuzione, come in una recente installazione dello stesso Panhuysen a Lione nel
quadro dell’esposizione Musiques en Scène. I musicisti cercano di reagire alle
sollecitazioni sonore dei canarini e viceversa (sostiene Panhuysen). In questo contesto
si può accennare ancora al Douglas Quinn di Oropendola, realizzato tra il 1991 e il
1994, e che ha come sottotitolo Music by and from Birds, appunto (45).
Dunn non é neppure il primo ad aver usato l’ambiente come cassa di risonanza e ad
averne tenuto conto nella sua esecuzione musicale, già nel canto gregoriano toviamo
tracce di queste problematiche, e più vicino a noi basta ricordare la Deep Listening
Band di Pauline Oliveros che realizza The Ready Made Boomerang, nel 1991 (46),
all’interno di una grande e vuota cisterna per la raccolta dell’acqua. Bisogna però
riconoscere a Dunn una grande radicalità e perseveranza nella ralizzazione del suo
progetto.
Del resto le similitudini tra il lavoro di Dunn e di Pauline Oliveros, come del resto con
tutta la Just Intonation americana, non si limitano a qualche aspetto aneddotico, ma
sono molto più sostanziali. In entrambi c’é la ricerca di un rapporto privato, o limitato a
piccoli gruppi, quasi comunità, con il mondo circostante, un rapporto ecologico,
attraverso il suono. Rapporto basato sulla meditazione generata dal suono e dall’ascolto
delle interazioni tra suono e natura per percepire il posto dell’uomo all’interno
dell’universo. La musica diventa un santuario (secondo la definizione di Cage) in cui
raccogliersi come in tutti i lavori musicali di La Monte Young da The Tortoise. His
Dreams and Journeys, passando attraverso il Drift Study, The Well-Tuned Piano e tutti
i progetti concepiti per la Dream House.
Secondo queste teorie e questi aprocci al fatto sonoro esiste una specie di metaarmonia, un’armonia che oltrepassa quella percepibile del tempo e dall’orecchio umani.
Cicli che oltrepassano l’esistenza stessa dell’uomo sono possibili, questi non sono
percepibili dall’uomo perché oltrepassano la sua memoria uditiva andando al di la della
sua stessa vita. Il problema é “cartografico” si tratta di trovare un metro, una scala di
trasposizione che renda percepibile l’evento all’uomo.
Rotf Julius,Music for the Eyes, 1981.
Questa problematica é evidentemente legata alla percezione e all’organizzazione del
tempo, musicale o meno. Albert Mayr lavorato su queste ciclicità “espanse” pensiamo al
suo Calendario Armonico che applica “criteri estetici all’organizzazione del tempo.
Calendario Armonico esemplifica un possibile approccio: quello dell’estensione del
modello “suono” a periodicità infra sonore. Infatti, prendendo come riferimento uno
spettro armonico audio (le cui componenti rilevanti si trovano, di solito nell’ambito
compreso tra la fondamentale e la + o - dodicesima armonica) questo calendario
visualizza la suddivisione fino al dodicesimo sottomultiplo del periodo di 365 giorni con i
rispettivi semicicli positivi (colorati) e negativi (in bianco)”. Nonostante la produzione di
Mayr sia più un lavoro di ricerca sui ritmi biologici e sulla loro percezione ha usato
considerazioni di questo tipo anche in installazioni sonore comeHora Harmonica del
1984 basata sulla suddivisione armonica del tempo e dove il suono serve a rendere
udibile questa struttura ritmica (47).
Anche altri compositori hanno basato il loro lavoro sulla ciclicità partendo da
considerazioni simili come l’americano James Tenney e il canadese Udo Kasemets, ma
l’analisi del loro lavoro ci porterebbe troppo lontano. Per il nostro proposito é preferibile
evocare alcuni lavori nei quali il suono funge da rivelatore del mendo sensibile o come
elemento di catalogazione.
L’olandese Jan Dibbets in The Sound of 25 km (1969) registra i rumori dell’ambiente
durante un tragitto di 25 km su un’autostrada olandese (48).
Un altro olandese, herman de vries (é lui a voler che il suo nome sia scritto senza
maiuscole), in water, the music of sound (1977) ha ragistrato il suono della pioggia, del
mare o di cascate per costituire una specie di catalogo, di “memoria” dei suoni acquatici
(49). O ancora l’amaricana d’adozione Annea Lockwood che prelieva campioni sonori
lungo il fiume Hudson dalla sorgente alla foce per ricostruirne un’ipotetica mappa (A
Sound Map of the Hudson River 1982) (50).
Siamo lontani dall’uso che J. Dudon, ad esempio, fa dell’acqua nei sui strumenti.
In Dudon l’acqua é solo elemento motore qui é soggetto. Così come nessun tentativo di
ricostruzione di un paesaggio sonoro unitario é presente in questo agire, ma piuttosto
un tentativo di catalogazione del mondo alla Perec. Nessuna idea di land mark, di
qualità sonora dell’ambiente, nessuna interpretazione, ma solo la registrazione di
eventi, quasi se per intenderli bisognasse passare attaverso le forche caudine del
medium registratore, come se, solo così decontestualizzati, senza il supporto visivo,
fosse possibile intendere veramente quei luoghi.
Il suono come rivelatore dell’ambiente, come elemento usato per metterlo in rilievo, é
stato usato da molti artisti tanto che di fatto é l’elemento centrale di molte delle
installazioni sonore realizzate negli ultimi 30 anni. È presente nelle prime installazioni di
Max Neuhaus (51) da Listen (15 “passeggiate sonore” realizzate tra il 1966 e il 1976) e
Drive-in Music (1967), ai vari Water Whistle (dal 1971 al 1974) fino alle installazioni a
Time Square (1977-1993) o al Domaine de Kerguehennec in Bretagna (1986-1988). Il
principio é sempre simile: suoni elettronici sono proiettati nello spazio ad un volume
molto debole, al limite dell’udibile. Il ruolo dell’ascoltatore é per forza attivo, nel senso
che se vuole ascoltare quei suoni deve tendere l’orecchio, fare astrazione dai suoni
dell’ambiente circostante. Questa operazione di filtraggio é uno degli obiettivi dell’opera.
Ma allo stesso tempo questa non é imposta dato che la maggior parte degli ascoltatori
potenziali, ossia tutti coloro che attraversano lo spazio dell’installazione, possono non
rendersene assolutamente conto. La musica come ambiente da attraversare. La musica
diventa un ambiente, ambiente all’interno del quale l’uomo evolve e agisce. Fino alle
ultime opere di Neuhaus, sobrie stilizzazioni grafiche di luoghi e ambienti, nelle quali il
suono é solo evocato, per riprendere il titolo di una sua recente esposizione al Castello
di Rivoli. L’assenza di suoni pone ancora una volta l’accento sulla volontarietà
dell’ascolto e sulla sua possibile totalità.
In questa direzione della musica come ambiente da attraversare si é mossa Christina
Kubisch (52) quando, dopo aver negato il flauto traverso che aveva studiato pensiamo
alla serie Emergency Solos del 1973 nei quali tentava di suonarlo con guanti da
pugilato o ditali da cucito, ha iniziato, nei primi anni ‘80, Ecoutez les murs a Lione é del
1981, la realizzazione di installazioni costituite da cavi elettrici ai quali bisognava
avvicinarsi per poter captare suoni registrati nell’ambiente circostante con appositi
caschi senza fili a induzione elettromagnetica. L’ascolto diventa individuale, ogni
movimento della testa od ogni spostamento dell’ascoltatore variano la percezione del
suono.
Christina Kubisch ha realizzato questo tipo di installazioni per buona parte degli anni ‘80
parallelamente ad altre esperienze nelle quali però l’attenzione all’architettura, il volerne
mettere in valore le forme e i volumi, il legame tra il luogo in cui si svolgono e il suono, il
deambulare dei fruitori nello spazio, la percezione come fatto individuale nel senso di
non voler imporre una audizione-visione univoca allo spettatore, la grande importanza
data ai mezzi tecnologici impiegati, senza farne sfoggio, senza cioé integrarla
visivamente all’opera, ma considerandoli come un “aiuto” indispensabile e, nelle
installazioni degli ultimi anni, l’uso di luci ultraviolette per sottolineare colorandoli i
luoghi, sono sempre centrali.
Le installazioni sonore di Bill Fontana (53) sono invece da intendere più come un
ambiente da visitare che non da attravesare. Anche lui usa il suono come rivelatore, ma
in un contesto molto più evidente. Niente più suoni elettronici deboli, ma spiazzamento
dell’ascoltatore ottenuto attraverso la trasposizione di suoni normalmente incompatibili
con l’ambiente in cui ha luogo l’ascolto. Come ad esempio con la Sound Island
realizzata Parigi nel giugno del 1994 per la commemorazione del cinquantesimo
anniversario dello sbarco degli alleati in Normandia, dove ha sonorizzato l’Arco di
Trionfo dell’Etoile con la trasmissione di suoni prelevati in diretta dalle spiagge in cui lo
sbarco aveva avuto luogo. Straniamento dell’ascoltatore che in uno dei nodi stradali
forse più rumorosi della capitale francese era investito da rumori di risacca, stormire del
vento e grida di gabbiani ed allo stesso tempo teatralizzazione di un avvenimento, sia a
causa delle dimensioni e del volume sonoro dell’opera, che per il significato simbolico
del luogo scelto. Contemporaneamente, per sottolineare l’effetto di riduzione delle
distanze possibile grazie ai mezzi elettronici, sulla terrazza dell’Arco di Trionfo era
installata una specie di panorama sonoro circolate, come quelli nei belvedere delle valli
montane, con l’indicazione di altri luoghi parigini, come la stazione Montparnasse,
l’edificio della Borsa, l’Opera, ecc. ed avvicinandosi a questo panorama si potevano
udire, sempre in diretta, i suoni captati in questi luoghi.
Questo concetto di simultaneità degli accadimenti, di trasmissione quasi istantanea da
un luogo all’altro é presente in molti dei lavori di Fontana. Ricordiamo Distant Trains , a
Berlino nel 1984, nel quale i suoni e rumori dell’attuale stazione ferroviaria erano diffusi
tra le rovine della Anhalter Bahnhof distrutta durante la seconda guerra mondia. O
ancora il Landscape Sounding realizzato a Vienna nel 1990 nel quale un paesaggio
sonoro di una quieta foresta era trasmesso in un quartiere centrale della città. Ma
sopratutto Ohrbrüke/Soundbridge Köln/ San Francisco (1987) che consiste nella
trasmissione simultanea via satellite di suoni registrati appunto a Colonia e a San
Francisco. Anche se questa dimensione teatrale-planetaria era assente nei primi lavori
più intimisti di Fontana, pensiamo per fare un solo esempio allo stupendo Kirribilli Wharf
registrato a Sydney nel 1976, per Fontana l’ascolto del mondo diventa planetario.
Anche Maryanne Amacher (54), di cui ricordiamo il passaggio a Roma alla sala
Borromini nel 1980 nell’ambito degli Opening events organizzati dall’Associazione
Culturale Beat ‘72, ha praticato questa trasmissione del suono da un luogo all’altro
anche se in una prospettiva e con intenzioni diverse da quelle di Fontana. L’esperienza
é molto più di tipo confidenziale manca infatti la dimensione spettacolare di Fontana ed
in oltre ciò che cambia é la durata, in questo la si deve piuttosto collegare a Neuhaus.
Pensiamo in particolare a Tone and Place Pier 6 Boston Harbor nel quale per 5 anni i
suoni captati in un deposito abbandonato del porto di Boston sono stati trasmessi, dal
novembre 1973 al maggio 1976, nel suo studio al MIT e poi, dal maggio 1976 al
novembre 1978, all’ Artificial Intelligence Laboratory sempre al MIT. Anche per
l’Amacher l’obiettivo é quello di una specie di catalogo del mondo e del suo ascolto
dando però più peso all’esperienza personale, quasi un’introspezione, che al
coinvolgimento di un pubblico. Quando invece il pubblico é presente “proietta” nella sala
suoni naturali, estratti dalla sua abbondante sonoteca (la qualità della quale le ha valso
una collaborazione con John Cage in Lecture on the Weather nel 1975), per ricreare
ambienti, situazioni, luoghi col solo ausilio del suono: una sorta di film sonoro senza
immagini.
Anche nelle opere del francese Erik Samakh (55) il suono é usato come rivelatore della
interazione tra il vedere e l’ascoltare e la tecnologia e l’informatica hanno grande rilievo,
ma qui in più il pubblico o l’ambiente modificano in diretta l’opera, ne sono in un certo
senso coautori non più solo al livello relativamente passivo dell’ascolto, ma ad un livello
più attivo grazie ai loro movimenti o alla loro assenza e a causa delle variazioni
climatiche. Nelle installazioni di grandi dimensioni, ad esempio nell’ Oasis Acoustique
del castello di Talcy, nella valle della Loira, del luglio 1990, erano diffusi suoni incongrui
per il luogo o la regione come, nella piccola foresta adiacente il castello, canti di uccelli
esotici o lo stormire del vento in assenza di vento, oppure si udiva il tubare di piccioni
nella piccionaia e quando si entrava in questa non solo si constatava che era vuota, ma
il tubare stesso si zittiva, o ancora vecchie presse per il vino, da anni inattive, erano
rianimate dal suono del loro funzionamento e da tutti i rumori che normalmente
facevano da corollario alla vendemia.
Ma le opere più interessanti di Samakh sono forse quelle di piccole dimensioni e nelle
quali l’interattività tra opera e pubblico o ambiente é più forte. Come ad esempio Animal
en Cage del 1988 oOctave le Canari del 1992 nei quali da una gabbia per uccelli vuota
un modulo acustico concepito da Samakh genera rumori e canti in funzione dei
movimenti del pubblico. Oppure Animal 1 del 1987 e le Grenouilles Èlectroniques del
1990 del Jardin de Bambou nel Parc de la Villette a Parigi che sono sensibili al
movimento e al clima. Da ultimo vorrei citare, per la loro semplicità e capacità evocativa,
anche se sarebbero piuttosto da annoverare tra le sculture, le anfore sonore dalle quali
esce un brusio di acqua e quando ci si avvicina si scopre che, naturalmente, sono
completamente vuote.
In questi ultimi anni si sono svolte almeno due manifestazioni molto importanti nel
campo delle installazioni sonore. Si tratta di KlangKunst a Berlino nel 1996 e della già
citata Musiques en Scène a Lione nel 1998. Entrambe testimoniano della ricchezza e
della varità del panorama internazionale in questo campo e permettono di constatare
come sempre più il suono sia considerato dagli artisti come un materiale col quale
lavorare, come un materiale da manipolare.
L’idea di scolpire il suono, di manipolarlo, di plasmarlo come si plasma la materia, é
frequente in questo secolo. Qui però siamo di fronte ad atteggiamento
fondamentalmente diverso: la volontà dell’uomo non é più la sola creatrice
dell’accadimento sonoro, ma questo deriva da un’interazione tra il materiale e l’attività
umana. L’uomo non é più il solo creatore, ma é un elemento tra altri del risultato
sonoro.L’attitudine, quasi da rigattieri, rigattieri geniali a mezza strada tra il ready-made
duchampiano e il riciclaggio pop d’oggetti quotidiani, almeno così come s’é venuta a
concretizzare durante il secolo, degli scultori sonori é appunto quella dell’essere
all’ascolto del materiale, del voler svelare, non creare, un fenomeno considerato come
inconscio o nascosto all’interno della materia.
In questo senso le installazioni sonore da un lato realizzano la sinestesia tra le arti, solo
vagheggiata all’inizio del secolo, e dall’altro testimoniano della totalità di campo
dell’agire artistico attuale, non esiste più un campo separato e deputato all’artista, ma
può spaziare sui 360° della vita. Questa situazione é stata resa possibile grazie al
lavoro svolto dagli artisti citati fino ad ora, e da altri che per ragioni di spazio o di
pertinenza col discorso che si voleva portare avanti non vi hanno trovato posto.
Per concludere vorrei ricordare alcune altre esperienze che fino ad ora non hanno
trovato il loro posto. Nel campo dell’interattività, ad esempio, che sempre più, grazie
all’informatica e ad una tendenza generale di fascino e curiosità rispetto a queste
macchine (che fa pensare ad un atteggiamento già constatato all’inizio del secolo nei
confronti di altre macchine), sta prendendo piede vorrei ricordare gli Specchi Sonori del
francese Gilles Richard nei quali l’interazione é resa visibile non solo metaforicamente.
Si tratta infatti di veri e propri specchi che raccontano storie o emettono suoni quando
l’immagine dello spettatore vi si riflette.
Il perfezionamento delle tecniche di registrazione ha permesso a molti artisti di
arricchire lo spetro dell’udibile allargandolo. In questo ambito vorrei ricordare i lavori
dell’americano Leif Brush (56) e del danese, ma francese d’adozione, Knud Viktor (57).
Entrambi usano micro-suoni amplificati, Leif Brush con il suo Forest Terrain Instrument,
installazione permanente nel Minesota, registra con sensori e trasduttori elettronici,
infilati nel terreno, negli alberi o posti all’esterno, i micro-suoni della foresta o le
modificazioni climatiche dell’ambiente circostante; Knud Viktor registra i rumori degli
insetti i quali sono poi amplificati e montati tra di loro riuscendo, grazie alla
decontestualizzazione dovuta al montaggio, ad evitare di cadere nella trappola
dell’entomologia sonora. Per entrambi l’obiettivo é quello di rendere udibile ciò che
abitualmente non lo é. Ritroviamo l’utopismo di Takis vale a dire il voler captare quelle
forze magnetico-telluriche che percorrerebbero il mondo governandolo. In oltre con
questi due esempi si tocca da vicino la problematica di buona parte della musica
elettroacustica. Vale a dire la trasformazione, il cambiamento di senso, di un
accadimento sonoro producendo da un lato una presa di coscienza dell’inudito e
dall’altro uno spiazzamento dell’ascoltatore. Il suono può venire, essere generato,
dall’ambiente, come in Viktor e Brush, o andare, essere proiettato verso l’ambiente,
come già si é visto, ad esempio, per Bill Fontana, a sua volta l’ambiente può essere il
luogo dell’ascolto come in Suzuki o nel Cylindre Sonore (1987) di Bernhard Leitner
(58), installazione permanente nel Parc de la Villette a Parigi.
Per Julius (59) il problema della fonte sonora o del luogo non é primordiale nel senso
che il suono é in ogni luogo così come può essere percepito con ogni parte del corpo,
come lui stesso afferma si può ascoltare coi piedi, l’ascolto del suono é un’esperienza
globale che coinvolge il corpo e la mente interi. Ciò che vuole privilegiare é la visione
del suono e per questo realizza, tra l’altro, delle sculture sonore colorate a base di
piccoli altoparlanti, che possono essere isolati o posti all’interno degli oggetti i più
diversi, da bicchieri pieni d’acqua a tazze da the, o disposti nello spazio, ricoperti di
pigmeni colorati che vibrano quando c’é emissione di suono. Le sue installazioni non
richiedono la partecipazione o la presenza dello spettetore esistono in sé. Il dialogo con
lo spazio, col luogo, sono loro a condurlo anche quando é Julius stesso ad intervenire
anche lui come lo spettatore é testimone di un’esperienza, di un accadimento.
Le sculture sonore dell’inglese Hugh Davies (60) invece esigono la partecipazione dello
spettatore. La serie delle Shozyg, iniziata nei primi anni ‘70 e tutt’ora in corso, é
costituita da diverse molle di varie dimensioni che sono “suonate” dall’esecutore con
vari altri oggetti in modo estremamente libero e ludico e sono proprio questa libertà e
questa ludicità a fare di Davies un buon improvvisatore di live eletronics. Un solo cenno
alla libera improvvisazione, ma siamo ben coscienti che é stato uno dei fenomeni e dei
motori della nuova musica riintroducendo così nella ricerca sonora un vento di
freschezza che sempre si dovrebbe aver presente.
La musica, forse più di ogni altra manifestazione artistica, si é sempre prestata meglio a
speculazioni metafisiche. Probabilmente perché tra gli elementi che la costituiscono e la
caratterizzano vi é il tempo e la memoria. A ben vedere la ricerca musicale ha sempre
oscillato tra la voglia di oggettività e il bisogno di metafisica. Seguendo il precetto
dantesco del “fatti non foste a vivere come bruti ...” ci si può pure perdere l’anima.
Letta in questo senso la frase di George Brecht citata all’inizio de capitolo, oltre ad
essere l’oggetto dell’esperienza di Fluxus, ponendo l’accento sull’agire, sulle azioni che
l’uomo concretamente compie, ha quasi funzione d’antidoto contro certo divagare.
Perché finalmente, parafrasando Cage, il suono possa diventare soltanto un’altra parte
del mondo; non più, non meno.
Bibliografia e note
Cataloghi e testi generali
Michael Nyman - Experimental Music: Cage and Beyond - Schirmer Books 1974
Germano Celant - Disco come lavoro d’arte - estratto da Off Media Dedalo 1977
Murray Schafer - The Tuning of the World - A. Knopf Inc. 1978 (trad. italiana .......)
AA.VV. - Ècouter par les Yeux, objet et environnements sonores - ARC Musée d’Art
Moderne de la Ville de Paris 1980
Franco Masotti, Roberto Masotti, Veniero Rizzardi e Roberto Taroni (a cura di) Sonorità Prospettiche, suono, ambiente, immagine - Comune di Rimini 1982 AA.VV. L’Oreille Oubliée - Centre Georges Pompidou 1982
AA.VV. - A Noise in your Eye - Arnolfini Gallery, Bristol 1985
Dominique e Jean-Yves Bosseur - Révolutions Musicales - Minerve, Paris 1986
P. Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the Images of Sound -Het Apollohuis,
Eindhoven, Holland 1987
Thomas DeLio, Stuart Saunders Smith (a cura di) - Words & Spaces - University Press
of America 1988
Ursula Block, Michael Glasmeier - Broken Music - daadgalerie Berlin,
Gemeentemuseum Den Haag, Magasin Grenoble 1989
Tom Johnson - The Voice of New Music -Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1989
Dan Lander, Micah Lexier (a cura di) - Sound by Artists - Art Metropole, Walter Phillips
Gallery, Canada 1990
Douglas Kahn, Gregory Whitehead (a cura di) -Wireless Imagination. Sound, Radio and
the Avant-Garde - The MIT Press 1992
Jean-Yves Bosseur - Le sonore et le visuel - Dis Voir, Paris 1993
René van Peer - Interviews with Sound Artists - Het Apollohuis, Eindhoven, Holland
1993
AA.VV. - Het Apollohuis 1990-1995 -Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1996
AA.VV. - KlangKunst - Akademie der Künste Berlin, Prestel-Verlag München 1996
Jean-Yves Bosseur - Musique et art plastiques, interactions au XX° siècle - Minerve,
Paris 1998
AA.VV. - Musiques en Scène - GRAME Centre Nationale de Création Musicale Lyon
1998
Note
( 1) Su La Monte Young vedi Sound and Light a cura di W. Duckworth e R. Fleming
Bucknell University Press, Lewisburg, Pennsylvania, 1996 e il libretto allegato al
cofanetto di 5LP The Well Tuned Piano Gramavision Record, 18-8701-1, New York,
1987
( 2) vedi a questo proposito il numero speciale della rivista canadese Musicworks n° 30,
winter 1985, Toronto, dedicato alla nuova organologia. Per le arpe eoliche in particolare
vedi l’articolo di Gordon Monahan Singing Wires. The Music of Aeolian Harps alle
pagine 12-16.
( 3) The Tuning of the World - A. Knopf Inc., New York, 1978 (trad. italiana .......)
( 4) Su Fischinger vedi Jean Etienne Marie L’homme musical Arthaud, Parigi, 1976 in
particolare le pagine 195-197
( 5) John Cage Per gli uccelli conversazioni con D. Charles trad. di W. Marchetti
Multhipla Edizioni, Milano, 1977, p. 71
( 6) Tom Johnson - The Voice of New Music Het Apollohuis, Eindhoven, Holland, 1989,
p. 427
( 7) AA.VV. - Ècouter par les Yeux objet et environnements sonores - ARC Musée
d’Art Moderne de la Ville de Paris 1980, p. 48. Sui fratelli Baschet vedi anche il CD
Palette Sonore SSP Editions, SSP 01, Parigi, 1996
( 8) Vedi il recente CD A. Nozati La peau des Anges CCAM, Vand’oeuvre 9712,
Vandoeuvre-les-Nancy, 1998
( 9) AA.VV. - Ècouter par les Yeux cit., p. 48
(10)Emmanuelle Laborit Le cri de la mouette Laffon, Parigi, 1994
(11)Harry Partch Genesis of a Music Da Capo Press, New York, 1974, p. 198-202
(12)Bob Gilmore Harry Partch: “The Early Vocal Works 1930-33” The British Harry
Partch Society, Birmingham, 1996. Tesi per il Degree of Doctor of Philosophy sostenuta
da Gilmore alla Queen’s University of Belfast nell’aprile 1992.
(13)per una carrellata storica a proposito di queste esperienze vedi i testi introduttivi a
AA.VV. - Ècouter par les Yeux cit. , P. Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the
Images of Sound Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1987
e Bart Hopkin Gravikords, Whirlies & Pyrophones Ellipsis Arts, Roslyn stato di New
York, 1996
(14)P. Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the Images of Sound cit., p. 14
(15)Pol Bury Sculptures à Cordes Meaght Editeur, Parigi, 1974
(16)citato in Pierre Cabanne Les lenteurs programmées de Pol Bury in Artstudio n°22
automne 1991, Parigi, p. 101
(17)in una intervista con A. Paquement in Trois Totem. Espace Musical Centre
Pompidou 1981
(18)intervista con J.-Y. Bosseur in Jean-Yves Bosseur Le sonore et le visuel Dis Voir,
Parigi, 1993, p. 68-69.
(19)su Suzuki vedi Akio Suzuki Soundsphere Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1990
(20)vedi il CD Amalia Del Ponte Lithovocis, Amalia Del Ponte 001, Milano,1996, su
Hartenstein vedi Bart Hopkin Gravikords, Whirlies & Pyrophones , cit. p. 44-45.
(21)su Eastley e Toop vedi P. Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the Images of
Sound , cit., p.35-37, e gli LP New and Rediscovered Instruments Editions EG,
Obscure 4, EGED 24, Londra, 1975 e Whirled Music Quarz Publications, Quartz 005,
Londra, 1980.
(22)su Maioli vedi Walter Maioli Il suono e la Musica Jaka Book 1991 e il CD Art of
Primitive Sound Hic Sunt Leones, HSL 003, Milano, 1991, su Mariolina Zitta vedi il CD
Perle di grotta, la musica delle stalattiti , MZ 087, Milano,1997
(23)vedi Bart Hopkin Gravikords, Whirlies & Pyrophones cit., p. 78-79.
(24)A. Suzuki Stone Berliner Künstlerprogamm des DAAD, 1994.
(25)vedi il CD omonimo edito dalla Tzadik, TZ 7402, New York, 1997
(26) Y. Pacher Musique des buissons des sentiers de l’imagination Centre Régional de
Documentation Pédagogique, Poitiers, 1982.
(27)J. Dudon La musique de l’eau Editions Alternatives, Parigi, 1982, di Dudon
ricordiamo anche il recente CD Lumieres Audibles Mondes Harmoniques, MH1, Le
Thoronet, 1995, sui suoni armonici generati con un procedimento foto-sonico.
(28)Akio Suzuki Soundsphere , cit., senza indicazione di pagina.
(29)Bart Hopkin Gravikords, Whirlies & Pyrophones , cit., p.10-11.
(30)vedi CD Mercury 235 Media, LC 8767, Colonia, 1989.
(31)a titolo di esempio vedi il recente CD Logos Works Experimental Intermedia
Foundation, XI 117, New York,1995
(32)vedi in particolare LP omonimo edito da Apollo Records, AR 118501, Eindhoven,
1985
(33)a questo proposito vedi le introduzioni a AA.VV. - Ècouter par les Yeux cit. e P.
Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the Images of Sound cit.
(34)vedi Douglas Kahn, Gregory Whitehead (a cura di) -Wireless Imagination. Sound,
Radio and the Avant-Garde The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1992, p.245252.
(35) vedi in partcolare Joe Jones Music Machines from the Sixties until Now Berliner
Künstlerprogamm des DAAD, 1990.
(36)vedi il libretto incluso nel tiplo LP omonimo Apollo Records, AR 088502, Eindhoven,
1986.
(37)vedi AA.VV. - Musiques en Scène GRAME Centre Nationale de Création Musicale,
Lyon, 1998, p. 19.
(38)su Tinguely e la “musica” vedi la sua intervista e gli “esempi “ musicali inclusi nel
supplemento a Audio Arts vol 6 n° 1, Londra, 1983, in occasione della retrospettiva alla
Tate Gallery.
(39)vedi CD omonimo Catasonic Record, CS 002, Hollywood, 1995
(40)su Alvin Lucier vedi A. Lucier Reflections Interviews Scores Writings , MusikTexte,
Colonia, 1995.
(41)estratto dal programma della rassegna Isole del Suono Bologna 1980.
(42)su Dunn vedi i CD Music, Language and Environment Innova Recordings, Innova
508, St. Paul, Minnesota, 1996 e Angel & Insects What Next Recordings, WN 009,
Santa Fe, 1992, gli articoli Nature, Sound Art and Sacred in Terra Nova vol 2 n°3
summer 1997, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, p. 61-71; Environment,
Consciousness and Magic: an Interview with D. Dunn in Perspectives on Musical
Aesthetics a cura di J. Rahn, W.W. Norton & Company, New York, 1994, p. 234-245
(ma la prima pubblicazione é del 1989 nella rivista Perspectives of New Music); An
Expository Journal of Extractions from Wilderness in Thomas DeLio, Stuart Smith (a
cura di) - Words & Spaces, University Press of America, 1989, p. 250-264.
(43)dalle note di Dunn incluse nel CD Music, Language and Environment , cit.
(44)CD omonimo Apollo Records, ACD 129615, Eindhoven, Holland 1997.
(45)CD omonimo Apollo Records, ACD 049413, Eindhoven, Holland 1994.
(46)CD omonimo New Albion Records, NA 044CD, San Francisco, 1991, su P. Oliveros
vedi anche Pauline Oliveros Software for People Collected Writings 1963-1980 Smith
Publications, Baltimore, 1984.
(47)Albert Mayr Calendario Armonico Edizioni Supergruppo Ravenna s.d.; vedi in oltre
Musicworks n° 29 fall 1985, Toronto, p. 3-6; e A. Mayr, Antonello Colimberti e Gabriele
Montagano (a cura di) L’ascolto del tempo (mp)x2 Editore, Firenze, 1995.
(48)vedi il catalogo della mostra al Walker Art Center, Minneapolis, 1987, p. 74.
(49)vedi il catalogo Différentes Natures FIACRE, Paris La Défence,1993, p. 106.
(50)CD omonimo Lovely Music, LCD2081, New York,1989.
(51)su M. Neuhaus vedi Max Neuhaus Sound Works , 3 vol., Canz Verlag, Ostfildern,
Germania, 1994, e il catalogo della mostra al Castello di Rivoli Evocare l’udibile Edizioni
Charta, Milano, 1995.
(52)vedi Christina Kubisch Zwischenräume Stadtgalerie, Saarbrücken, 1996.
(53)vedi i CD Australian Sound Sculptures Edition Block, EB 203, Berlino, 1990;
Ohrbrücke/ Soundbridge Köln-San Francisco Wergo, WER 6302-2, Mainz, 1994; la
rivista Soundings n°14-15 Sounding Press, Santa Fe,1986, p. 102-107; oltre che
AA.VV. - Ècouter par les Yeux , cit., p. 72-73, e Ursula Block, Michael Glasmeier Broken Music daadgalerie Berlin, Gemeentemuseum Den Haag, Magasin Grenoble,
1989, p. 135-136.
(54)su M. Amacher vedi Musicworks n° 41, summer 1988,Toronto, p. 4-5.
(55)vedi il catalogo Erik Samakh La Culture pour vivre Editeur, Flaine, 1993.
(56)vedi la rivista-CD americana the Aerial, a journal in sound n° 4 Nonsequitur, AER
1991/4, Santa Fe, 1991, e Musicworks n° 30, winter 1985, Toronto, p. 17-19.
(57)vedi AA.VV. - Histoires d’écoute,Etats Generaux du Bruits, Festival de La Rochelle,
La Rochelle, 1982, p. 15 e Musicworks n° 55, spring 1993, Toronto, in particolare il cd
allegato alla rivista.
(58)vedi AA.VV. - KlangKunst Akademie der Künste Berlin, Prestel-Verlag, München,
1996, p. 88-89.
(59)vedi Rolf Julius Small Music (Grau) Kehrer Verlag, Heidelberg, 1995.
(60)vedi LP Shozyg Free Music Production, SAJ 36, Berlino, 1982 e i CD H. Davies,
Hans-Karsten Raecke Klangbilder Klangwerkstatt Edition, SM 500 135 D, Mannheim,
1994; H. Davies Interplay FMR Records, FMR CD39-V0697, Chelmsford, 1997.
Scarica