SU UN CERTO MODO DI ASCOLTARE I SUONI E I RUMORI DI QUESTO SECOLO fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza Dante, Inferno, Canto XXVI Il vento dell’Idaho “La Monte Young ... bambino é stato iniziato al canto del vento e all’armonioso ronzio delle linee elettriche che attraversano le grandi pianure americane”. Terry Riley L’aneddoto é conosciuto. Anni 30 e 40, una piccola comunità di Mormoni a Bern nelle pianure dell’Idaho. Il giovane La Monte, tra una lezione di sax col padre e una con lo zio, ascolta il vento che soffia tra le fessure della modesta baracca famigliare.Fuori, negli spazi aperti della pianura americana, il vento, ancora lui, soffia tra i fili elettrici, mentre quelli del telegrafo sono percorsi dal brusio delle conversazioni in morse; in questa composizione a dimensione planetaria il bordone é tenuto dal ronzio quasi costante dei trasformatori. Lo stesso Young ha più volte fatto riferimento a questo apprendistato musicale contribuendo cosi’ a farlo entrare nella leggenda e di fatto, se consideriamo la sua personale evoluzione, a renderlo paradigmatico. (1) Analizziamone più in dettaglio gli elementi. Il vento che soffia tra i fili elettrici costituisce un’enorme arpa eolica, cioé uno strumento nel quale le corde che producono il suono non sono fatte vibrare dalla mano o dal soffio umano ma dal vento. In questa arpa eolica é evidente la valenza “pitagorica” da “armonia delle sfere”. Forte é infatti la similitudine col Monocordo Divino di Robert Fludd, sappiamo inoltre che già Athanasius Kircher nel XVII° secolo aveva progettato oggetti musicali in cui delle corde metalliche dovevano essere fatte vibrare dal vento. Più vicino a noi e più in “tema” Henry David Thoreau nel suo Diario aveva notato le vibrazioni dei cavi telegrafici e ne aveva colto l’aspetto sonoro (2). Nel racconto di La Monte Young però una valenza “duchampiana” si somma a quella “pitagorica”. Infatti questa arpa eolica é un oggetto ready made, un oggetto sonoro trovato, nel più puro stile duchampiano. Il solo intervento possibile dell’uomo in questo concerto é sulla durata, può determinarne l’inizio e la fine, ma in più questa esperienza, ed é sopratutto questo aspetto ad avvicinarla all’ esperienza duchampiana, presuppone la volontà d’ascolto cioé l’apertura delle proprie orecchie al mondo. Il fatto di ascoltare e udire come musicale il vento che soffia tra i fili elettrici nelle pianure dell’Idaho é di fatto considerare il mondo come una sala da concerto. L’idea sottesa nel racconto di La Monte, é l’importanza fondamentale accordata all’ascolto, al semplice fatto di ascoltare in sé, in modo oggettivo, non più con l’orecchio filtrato dal temperamento. Questo nuovo modo di ascoltare, questo ascolto oggettivo e l’apertura al suono trovato (che per essere”trovato” deve poter essere ascoltato come tale e non più come rumore), congiunto all’altro aspetto del paradigma di Young, cioé il senso di comunione panica tra l’uomo e la natura, che trova la sua formulazione teorica più completa nel concetto di paesaggio sonoro cosi’ come é presentato nel libro di Murray Schafer (3), hanno contribuito alla nascita di una nuova organologia. La nuova organologia contiene in modo inscindibile questi due concetti, anche se poi nell’operare se ne privilegia più l’uno che l’altro. Da un lato un’attitudine trascendentale, di coinvolgimento dello strumentista al materiale che produce il suono: di annichilimento in esso. Dall’altro un bisogno di sfacciatagine, di irriverenza rispetto alla tradizione musicale classica: di affermazione del soggetto. Questa nuova organologia non puo’ essere separata da un’altra dimensione, in essa contenuta, che é la dimensione visiva di questo aproccio. Nel coinvolgimento totale dell’operatore sonoro la dimensione visiva é essenziale perché testimonia della globalità dell’esperienza e tende a realizzare quella sinestesia tra arti visive e sonore che é stata una delle massime utopie del XX secolo. Questa dimensione, già presente nei nuovi strumenti sonoro-musicali, é resa più esplicita, é concretizzata, nelle sculture sonore, vale a dire in oggetti che sono pensati per la vista, ma che allo stesso tempo sono volutamente concepiti per produrre suoni e quindi per essere uditi. L’operatore visivo apporta, con orecchie vergini, non educate, un ascolto nuovo. Un panorama (non una cronologia) di questo nuovo aproccio al sonoro e alla realizzazione di nuovi strumenti musicali potrebbe cominciare con le esperienze percussive di John Cage negli anni 30. “Un giorno mi presentarono Oskar Fischinger (4)... mi parlo’ dello spirito che si trova racchiuso in ogni oggetto ... per liberare questo spirito era sufficiente sfiorare l’oggetto, trarne un suono. Ecco l’dea che mi condusse alla percussione. Non ho cessato ...fino alla guerra, di palpare le cose, di farle suonare e risuonare per scoprire quali suoni contenessero” (5). Ecco come Cage arriva attraverso le percussioni, inventando en passant il water gong, ad un coinvolgimento fisico con le cose che troverà il suo apogeo nell’invenzione (nella scoperta ?) del piano preparato. Oppure potrebbe cominciare, con un aproccio più visivo, con le Sounding Sculptures (aprossimativamente: sculture suonanti) che Harry Bertoia ha costruito a partire dai primi anni 50. Per Bertoia il mediatore é lo stesso che per Cage e cioé O. Fischinger . Bertoia nato in Italia nel 1915, è emigrato negli USA nel 1930 ed é morto nel 1978. Disegnatore industriale di formazione incontra O. Fischinger a Los Angeles negli anni 40, ma é solo a partire dai primi anni 50 che comincia a costruire le sue Sounding Sculptures la maggior parte delle quali é composta da una base quadrata o rettangolare alla quale sono fissati steli metallici flessibili di altezze variabili (da 70 cm a 180 cm) che culminano con parti generalmente più spesse o di forma diversa. Oltre a questo tipo di sculture ne esiste un altro costituito da cerchi o rettangoli sempre in metallo, sospesi e fatti per essere percossi o sfregati come un gong. H. Bertoia, nonostante fosse cosciente della dimensione sonora delle sue opere, prova ne é la denominazione, non si é mai considerato un musicista, ma piuttosto uno scultore (6). Forse perché ciò che voleva rendere udibile, secondo lo spirito di Fischinger, era proprio l’anima delle cose indipendentemente da organizzazioni musicali considerate come elementi aggiunti a posteriori e non facenti parte dell’essenza delle cose. Il suono nelle sue sculture é prodotto dal libero gioco dei visitatori che sono invitati a toccarle, ad accarezzarle, quasi fossero steli d’erba mossi dal vento.Questo suono é generalmente un suono composto da molti armonici e da vibrazioni simpatiche del metallo che lentamente si spengono creando un’atmosfera soffusa e calma, meditativa, propizia alla concentrazione sull’ascolto. O ancora con François e Bernard Baschet, rispettivamente scultore e ingeniere di formazione, che dalla metà degli anni 50 tentano di realizzare “una sintesi tra la scultura e i suoni, perché esistono dei rapporti tra i suoni e le forme” (7). Inizia così la collaborazione con i compositori Jacques e Yvonne Lasry e con questi creano le strutture sonore Lasry-Baschet. Nel modello più comune queste strutture sono composte da steli di vetro, di dimensioni uguali, fissati a piccole barre in acciaio a loro volta a contatto con un foglio in acciaio laminato, piegato in forma conica, che funge da cassa di risonanza. Lo sfregamento degli steli in vetro con le dita umide produce vibrazioni che sono trasmesse dalle barrete metalliche alla cassa di risonanza che le amplifica. Oltre a questo tipo di struttura ne esistono altre a percussione o ad arco, ma comunque sempre basate sull’uso degli stessi materiali, fogli d’acciaio, steli di vetro, e sugli stessi principi, vibrazioni amplificate in modo naturale per trasmissione fisica delle onde. Queste strutture sono state prodotte per essere sia suonate in modo virtuosistico creando vere e proprie piccole orchestre sia per essere usate come elementi scultorei veri e propri (tra i diversi utilizzatori ricordiamo Anick Nozati (8) che le usa per amplificare e “colorare” la voce). Oppure usate in esperienze pedagogiche lasciandole alla disposizione dei bambini, conservandone così intatta la dimensione ludica che era ben presente fin dall’inizio dell’esperenza. Una delle qualità delle strutture musicali sottolineata dagli stessi fratelli Baschet é quella del “contatto fisico dell’esecutore con la vibrazione” (9). Questo elemento del contatto fisico col suono é importante in tutta la nuova organologia e nelle sculture sonore ed é stato ben messo in evidenza, in altro contesto, da Laurie Anderson con la sua Handphone Table (1978) dove le ossa dell’avanbraccio sono l’elemento conduttore delle vibrazioni dagli altoparlanti incorporati nella tavola alle orecchie dell’ascoltatore. La percezione sonora non passa solo per i “canali” normali, ma il suono, essendo vibrazione, come ogni vibrazione, é percepito in modo assolutamente fisico con tutto il corpo e non più solo dall’orecchio. Emmanuelle Laborit (10), figlia di Henri, sorda dalla nascita, ricorda nella sua autobiografia come bambina percepisse il suono del pianoforte della madre con tutto il corpo: le vibrazioni fisiche del suono propagandosi nello spazio le attraversavano tutto il corpo. Un altro personaggio tra i precursori della ricerca dell’inudito é Harry Partch (19011974). Teorico del microtonalismo, rifiuta i sistemi e le scale armoniche occidentali, si volge verso i sistemi armonici orientali e dell’antica Grecia. Questo atteggiamento lo porta, coerentemente, a rifiutare l’organologia che da quei sistemi derivava, così che dai primi anni 30 lo troviamo alle prese, ad esempio, con una Adapted Viola (11) che doveva permettergli di eseguire la musica di sua composizione basata sulla separazione dell’ottava in 55 toni (12). Per il resto della sua vita sarà un costruttore infaticabile di nuovi strumenti che gli permettessero di rendere udibili qui microintervalli che andava ricercando. L’esempio di Partch é rivelatore d’un aproccio diffuso tra gli adepti della nuova organologia e cioé che il bisogno di nuovi strumenti nasce dal fatto che la gamma dell’udibile, di ciò che può essere udito e accettato nel campo del musicale si và sempre più allargando, rendendo così sempre più stretti i canoni tradizionali. A queste esperienze si possono trovare padri e nonni senza grandi difficoltà, dagli automi musicali, veramente costruiti o solo sognati, dal XVII secolo in poi, ai Complessi Plastici Motorumoristi di Fortunato Depero o agli Intonarumori di Russolo ad esempio(13). Sia nel campo della nuova organologia che delle sculture sonore le esperienze sono state estremamente diverse e multiple, dal riciclaggio come strumenti musicali di oggetti della vita quotidiana a sofisticate strutture controllate da compiuters. Da realizzazioni con un fastidioso profumo naïf che di nuovo hanno solo l’aspetto esteriore, alle creazioni di veri “visionari” alla ricerca dell’inudito per gusto del nuovo e per incompressibile bisogno. Per quanto riguarda le sculture sonore si può notare che una parte della scultura di questo secolo é diventata sonora quasi in modo ineluttabile dopo l’introduzione del movimento. Pensiamo ai “mobili” di Calder: il vento o il soffio del curioso, per i “mobili” di più piccole dimensione, si possono considerare come potenziali sculture sonore. Il suono non poteva che essere una logica conseguenza dell’introduzione del movimento perché là dove c’é movimento c’é attrito e l’attrito é suono più o meno udibile. Diverse esperienze d’artisti cinetici negli anni 50 e 60 hanno contribuito all’introduzione del suono nell’arte plastica. Dalle sculture cinetico-sonore di Bruno Munari, come Giocare coi Suoni, in collaborazione con Davide Mosconi e Giovanni Belgrano, oggetti sonori per bambini con fini pedagocici (14), a certi lavori di Nicolas Schöffer. Dai Quadri Tattili-Sonori d’Agam (notiamo che nelle sue pitture si può parlare di “musica silenziosa” visto il costante riferimento all’”armonicismo” cromatico che si deve mettere in parallelo col cromatismo musicale), alle sculture a corde dei primi anni ‘70 di Pol Bury (15) composte da corde metalliche che potevano essere “sfregate” con biglie, anch’esse metalliche, per produrre suoni. Suoni che “erano prodotti per essere guardati e non solo ascoltati, l’audizione in un certo senso secondaria non era che la conseguenza di ciò che era visto” (16). Anche l’esperienza musicale di Takis é cominciata con un ascolto che ci riconduce al paradigma di Young. L’ascolto e poi la registrazione del ronzio emesso da un magnete alimentato elettricamente. Quello che faccio “non é certamente musica. Il suono é provocato dal caso, dal campo magnetico. Solo la possibilità di mettere in evidenza un mondo che non si vede mi interessa, non il risultato” dice Takis . Questa “fascinazione per l’invisibile e il sentimento che questo mondo invisibile ci stava dominando” (17) lo hanno condotto a produrre alla metà degli anni ‘60 delle Telesculture Musicali nelle quali una corda di piano o di violino é percossa da un grosso chiodo sospeso ad un filo e attirato da un magnete nascosto dietro un asse in legno o metallica che funziona da cassa di risonanza. Dalla metà degli anni ‘70 Takis integra diverse di queste sculture musicali in vere e proprie installazioni sonore, che chiama Ambienti Musicali, nei quali i suoni sovente gravi delle sculture e il senso d’inesorabilità, d’ineluttabilità, creano un’atmosfera drammatica sopratutto nel caso di un ascolto prolungato. Il voler “mettere in evidenza un mondo che non si vede” culmina con la grande installazione di Beauvais. Nella quale cavi metallici di diverse lunghezze, dai 30 ai 40 m., sono tesi lungo le pareti della torre dell’acquedotto della città ed esposte ai venti. Takis dopo le forze telluriche del magnetismo ci propone “una musica di spazi ... per ottenere dei suoni cosmici ... una specie di variazione cosmica” nella quale “siamo tutt’uno con lo spazio” (18). Ritroviamo qui un aspetto della percezione fisica, senza l’orecchio, del suono cui si faceva cenno a proposito di Emmanuelle Laborit. Un po’ seguendo l’esempio di Cage, un po’ per ricerca individuale, tutti i matriali sono stati percossi, sfregati, eccitati. Dalle strutture sonore Lasry-Baschet ,alle Sounding Sculptures di Bertoia, ai gong tradizionali di Philp Corner. Dal vetro, percosso o “sfregato”, della canadese Glass Orchestra, alla Glass Harmonica di Akio Suzuki (19) e agli strumenti in vetro del francese Jean-Claude Chapuis, ma già negli anni 50 H. Partch aveva costruito percussioni in vetro, le Cloud-Chamber bowls e ancora prima, nel XVIII secolo il vetro era stato usato per costruire strumenti musicali. Dalle percussioni in ceramica dell’americano Ward Hartenstein, ai litofoni del tedesco Elmar Daucher e dell’italiana Amalia Del Ponte (20). In questi esempi l’energia usata per mettere in vibrazione la materia é umana. È l’uomo, l’esecutore, che eccita gli oggetti, che ne estrae il suono. A proposito di questo tipo di strumenti che impiegano materiali e energia “naturali”, con una fievole valenza “culturale”, si può notare l’importanza sempre maggiore attribuita alla riscoperta di strumenti antichi o tradizionali, o meglio il loro uso decontestualizzato. A questo proposito ricordiamo le ricerche dell’inglese Max Eastley che, con David Toop (21), ha usato e prodotto Idrofoni (delle corde messe in vibrazione dal passaggio dell’acqua) e Metallofoni e, da solo, una specie d’arco musicale che può ricordare il berimbau brasiliano. Ha poi continuato le sue ricerche usando (nell’ambito della Whirled Music) rombi di varie dimensioni. Il rombo é un antico strumento, con forte valenza religiosa, conosciuto dai greci e usato, in ambito antropologico, dagli Aborigeni australiani o dai Dogon del Mali ad esempio. In questo campo di riutilizzo di strumenti antichi bisogna ricordare le ricerche di Walter Maioli e di Mariolina Zitta (22). O le esperienze dell’australiana Sarah Hopkins (23) che usando tubi di plastica roteati nell’aria produce un suono a metà strada tra il didjeridoo e il rombo degli aborigeni. O ancora i flauti in pietra, che sembrano oggetti trovati paleolitici, di Akio Suzuki (24). Alcuni esampi di riciclaggio in modo sonoro di oggetti trovati sono forniti dall’americano Ken Butler il quale ci presenta The Voices of Anxious Objects (Le voci di oggetti ansiosi) (25) creando, come lui stesso li chiama, degli strumenti ibridi, vale a dire degli strumenti musicali relativemente tradizionali per quanto riguarda la sonorità, ma che sono ottenuti deviando oggetti come martelli, pale, racchette da tennis, dalla loro funzione principale. Oppure il fancese Yves Pacher (26) che crea strumenti, anche questi classici rispetto alla sonorità, ottenuti quasi esclusivamente con materiali vegetali quali scorze d’albero o fili di paglia per creare quella che lui chiama una musica “dei sottoboschi e dei sentieri dell’immaginazione”. Pacher ha sviluppato questa organologia “verde” sopratutto in ambito scolastico per un risveglio musicale degli allievi della scuola elementare. O ancora Jacques Dudon (27) e i suoi strumenti ad acqua. Il riferimento ad un ascolto attivo e nuovo del mondo che ci circonda e alla fantastica ricerca dell’inudito sono evidentissimi. I presupposti che stanno alla base di tutte queste esperienze di riciclaggio e di strumenti “ecologici” sono l’ecologismo sonoro di Murray Schafer e le premesse trascendaliste ad esso sottese. Un esempio significativo di questo sentimento panico e dell’importanza accordata all’ascolto può essere fornito da Space in the Sun (Spazio nel sole) (28) di Akio Suzuki. Il titolo va preso alla lettera perche si tratta veramente di uno spazio pavimentato di 7 m. per 17 m., con due muri di 3 m. d’altezza costruiti sui lati nord e sud del rettangolo, in mattoni d’argilla cotti al sole che lo stesso Suzuki ha costruito ad Amino, una località in una foresta vicina a Kyoto, e nel quale, dall’alba al tramonto dell’equinozio d’autunno, si é installato per ascoltare i suoni dell’ambiente circostante, siano essi suoni naturali o dell’attività umana. Un “ascolto integrale” dell’ambiente circostante, nel quale non é l’uomo ad essere attivo, agente, e la natura a subirne le conseguenze, ma é la natura a “insegnare” all’uomo, ipotizzando quindi uno scambio equo tra uomo e natura. In tutti questi aprocci al suono é evidente il fascino esercitato da flussi sonori spessi e evanescenti allo stesso tempo. In una parola il fascino e il mistero della nascita del suono della sua percezione, di come una corda sfregata o un metallo percosso producano un fluido sonoro, quasi un torrente nel quale immergersi. Attonito l’uomo moderno ha l’impressione di riscoprire le sensazioni, o ciò che immagina essere le sensazioni, dell’uomo paleolitico all’ascolto per la prima volta del suono, soggiogato dalla magia del suono. Essere in questo divenire fornisce all’uomo l’impressione, l’illusione, di partecipare al tutto del mondo in divenire. Lo spazio-tempo é abolito non esiste più che il solo essere nella presenza nel divenire, non c’é più frattura tra l’oggetto e il soggetto. Il mistero del tempo non é più! L’uomo é in comunione col mondo. In questo contesto si può notare che lo strumento che produce la musica e la musica stessa assumono una valenza quasi ideologica.Un’importanza sempre più grande é attribuita alla sorgente sonora, da dove viene il suono, vale a dire ciò che mettendolo in vibrazione si fa suonare. I materiali in questo caso non sono più tanto un mezzo ma un fine in sé. Sono il suono della materia. Continuando la sommaria disamina delle esperienze significative condotte nel campo della nuova organologia soffermiamoci sul vasto gruppo degli strumenti a vento. Dai vari tipi di flauto, all’organo o alla fisarmonica vale a dire tutti quegli strumenti dove il suono é prodotto da un movimento di colonne o masse d’aria. Come nell’Orgue à Feu del francese Michel Moglia (29). Questo é basato sulle ricerche del fisico George Kastner che nel 1875 pubblica a Parigi Les Flammes Chantantes contenente la prima descrizione di un Pyrophone. Nell’Orgue à Feu di Moglia si tratta di tubi metallici, simili a quelli usati negli organi tradizionali, ma disposti in modo completamente diverso, attraverso i quali passano delle fiamme, generate dalla combustione di gas, producendo un suono, un sibilo, che sarà funzione della lunghezza dei tubi; la tastiera permette l’”accensione” dei diversi tubi. Strumento relativamente pericoloso, richiede l’accettazione da parte dello strumentista di una certa dose di rischio fisico, idea, questa, comunemente assente nella musica. Le esperienze del tedesco, ma olandese d’adozione Horst Rickels (30) e della Logos Foundations dei belghi Godfried-Willem Raes e di Moniek Darge (31) sono certamente meno pericolose. Infatti questi costruiscono strumenti a vento pneumatici, nei quali cioé l’aria che produrrà il suono é immagazzinata in contenitori con la stessa funzione delle sacche delle zampogne. Il publico o l’esecutore, il momento venuto, agirà su queste sacche inviando così l’aria in tubi e condotti vari che produrranno il suono. Strumenti, che possono essere comparati agli strumenti a corda dell’organologia tradizionale, sono stati ottenuti utilizzando,in svariati modi, fili o corde metalliche di diverse dimensioni. In questo caso notiamo che l’elemento motore che, facendo vibrare le corde produce il suono, non é più soltanto l’azione dell’uomo o naturale, aria, acqua o vento, ma che può essere meccanico, generato cioé dall’azione di meccanismi elettrici o meccanici. Esempi di “forza motrice” naturale sono già stati citati in precedenza, a questi aggiungiamo le Anapalos di Akio Suzuki e il Long string Instrument di Ellen Fulman (32). Strumunti che presuppongono l’abilità dell’esecutore. Le Anapalos sono una lunga corda agli estremi della quale sono fissati due cilindri aperti, il suono é prodotto o facendo vocalizzi all’interno dei cilindri oppure arpeggiando e sfregando le corde. Il Long String Instrument di Ellen Fulman é costituito da una scatola in legno che funge da cassa di risonanza e da diverse lunghe corde metalliche, che possono essere anche di 15 m., a questa fissate. Le corde sono sfregate nel senso della lunghezza con le dita ricoperte di colofonia, lo stesso prodotto usato per le corde degli archetti. In questo modo é udibile la frequenza fondamentale e i suoi armonici. La partizione, basata sulle relazioni numeriche tra le diverse tonalità, indica il movimento e la posizione dell’esecutore. Lo strumento produce così un suono dalla testura estremamente ricca per l’esecuzione del quale il riferimento alle tonalità naturali é indispensabile. “Motorini elettrici” È un dato di fatto che il XX° secolo é un secolo sonoro, rumoroso. Questa rumorosità é dovuta in buona parte allo sviluppo impressionante della meccanizzazione di buona parte dell’agire umano, dai trasporti alla produzione di manufatti, tanto che sarebbe più giusto dire “macchinofatti”. Come si é già notato tutti questi meccanismi producono movimento e attrito quindi suono ed in questa prospettiva non potevano non essere usati nella produzione sonora. Ma alla base di queste nuove ricerche sta anche un altro aspetto di questo secolo certamente molto meno aneddotico. Vala a dire l’utopia che la macchina renda libero l’uomo dall’obligazione della produzione, lo emancipi dalla necessità. In campo artistico queste riflessioni si sono tradotte nel tentativo, annunciato da Marcel Duchamp, di svincolare la produzione musicale da qualsiasi obbligo virtuosistico, liberando l’esecutore dalle catene del virtuosismo. La meccanizzazione mette una distanza tra l’esecutore e lo strumento come se questo, una volta avviato il meccanismo, esistesse di vita propria e non dovesse più essere tributario dell’intervento umano per vibrare. Assicurando in oltre la “regolarità” della produzione sonora la rende allo stesso tempo più “scientifica” e più controllabile (notiamo en passant che questo meccanicismo é l’esatto contrario della ripetitività degli anni ‘70 perché nei ripetitivi c’é sempre uno sfasamento, un’evoluzione). Questa sudditanza dello strumento alla macchina lo renderebbe così più alla portata di tutti, più democratico, una sorta di democratizzazione dell’esecuzione, rendendo accessibile a tutti la creazione musicale. Ma, sopratutto, riduce l’artista a semplice detonatore di situazioni artistiche, che non é più nella posizione del demiurgo egocentrico, ma in quella del rivelatore di situazioni artistiche. Non più l’assunzione dell’ego dell’artista a solo fenomeno rilevante, ma la possibilita per ognuno d’essere al centro. Se tutto ciò che accade é musica la musica (e l’arte) é ovunque e in ognuno, nella vita come direbbero Rimbaud, i Surrealisti o Fluxus. Ritroviamo in queste idee l’eco di numerose esperienze: dai futuristi a Varese, dalle insistenze di J. Cage nei primi anni 40 per la democratizzazione di certa tecnologia all’epoca rinchiusa negli studi delle grandi Majors. Tutto il secolo é percorso da ricerche per realizzare macchine che producessero suono. Dai primi tentativi per la sintetizzazione del suono di Leon Theramin o di Thaddeus Chaill nel primo novecento, ai generatori d’Onde Martenot o ai primi sintetizzatori Moog degli anni 50 e 60, fino all’uso attuale del calcolatore elettronico o dei campionatori che quasi svincolano la pratica musicale non solo dal virtuosismo strumentale, ma anche dalla produzione di suono così come la s’intende correntemente (33). Nonostante il grande sevizio reso alla “democratizzazione” della pratica musicale dall’introduzione di queste macchine (“democratizzazione” che sarà messa a profitto sopratutto in ambito rock e in questo senso importante perchè gli interscambi tra ambito rock, o altri ambiti, e ambito sperimentale sono uno degli elementi più significativi delle ultime generazioni di sperimentatori) é evidente che l’obiettivo che si ponevano i loro inventori era la produzione di suono musicale in senso stretto attraverso la sua “sintetizzazione”: uno strumento musicale in più che apre sull’inudito solo per le possibilità offerta di nuove “coloriture” del suono o deformazioni impossibili altrimenti. Nel contesto che é il nostro altre esperienze ci paiono più significative, come il Concerto di sirene di fabbrica e fischi di fumo (34) a Baku nel 1922 (che per certi aspetti ricorda l’Orgue a feu di Moglia) o le prime esperienze di collage sonori di Walter Ruttman nella Germania dei primi anni 30 che sono, con i primi Imaginary Landscapes di Cage, tra gli antenati della musica concreta di Pierre Schaeffer e Pierre Henry anche se questi non ne conoscevano l’esistenza. Più vicino a noi bisogna ricordare le Music Machines che Joe Jones (35) comincia a costruire alla metà degli anni 60. Si tratta di strumenti musicali a corda o a percussione come chitarre, mandolini, violini, pianoforti, vibrafoni, tamburelli e tamburi, nei quali le corde, per gli strumenti a corda, sono sfregate dalle “pale” (in genere filamenti metallici) di motorini elettrici o, per gli strumenti a percussione, le superfici sono percosse, in modo ritmico costante, da martelletti anch’essi azionati da motorini elettrici. Questo é l’apparato più semplice, esistono però anche strutture più complesse come manichini nei quali le corde sono tese tra i piedi e il capo, ma il principio é sempre lo stesso. All’inizio questi strumenti erano presentati come solisti, ma con l’andar del tempo si sono costituiti in vere e proprie orchestre dove la fonte d’energia per i motorini elettrici é fornita da pannelli solari (come in Solar Music Hot Hause del 1988), oppure montati su tricicli e in questo caso la fonte d’energia é fornita dal pedalare dell’esecutore (come in The Music Bike del 1966 e The Music Trike del 1977). È un azzeramento del virtuosismo musicale. Jones interviene solo mettendo in funzione o meno i motorini elettrici. L’aspetto ludico tipicamente Fluxus é evidente. Il risultato é una musica dolcemente ripetitiva nella quale l’aspetto meccanico é facilmente percepibile e ammagliante. Una musica dolce che fa pensare ai carillons senza però il lato sciropposo e nostalgico di questi. Una via di mezzo tra gli “strumenti” di Joe Jones e il Long String Instrument di Ellen Fulman sono le Long String Installations degli olandesi Paul Panhuysen e Johan Goedhart (36). Si tratta infatti di installazioni in ambienti che possono essere anche estremamente vasti, come fabriche in disuso oppure intere case in costruzione, nei quali sono tesi cavi metallici che sono sia sfregati dagli esecutori come corde di enormi violini, sia sfregati o percossi da mezzi meccanici come appunto motori elettrici. Naturalmente viste le dimensioni delle corde, diversi metri, e il fatto che spesso si sia all’esterno, l’ambiente circostante interviene in modo casuale e indeterminato. In queste installazioni la cassa di risonanza dello “strumento” é l’architettura in cui risuonano le corde, l’ambiente diventa cassa di risonanza. A questi interventi dell’esecutore, meccanici e ambientali si aggiungono manipolazioni e amplificazioni eletroniche assenti invece in Jones e Fullman. Concettualmente simili agli strumenti meccanici di Joe Jones sono le strutture di Peter Vogel (37). Più sculture che strumenti musicali anche se l’idea di gioco strumentale é presente. Si tratta infatti di piccole campane tubolari o tamburelli oppure piccoli gong percossi da martelletti, o di citare le cui corde sono eccitate da motorini elettrici, oppure di piccole trombe nelle quali il “soffio” é prodotto da circuiti elettronici. O ancora altoparlanti che diffondono suoni prodotti anch’essi da circuiti elettronici. Questi strumenti acustici ed elettrici sono posti alla sommità, come se fungessero da piedistallo, dei circuiti elettronici che le governano svelandosi così a chi ascolta e guarda, sono la parte visiva dell’opera. Tutta la struttura,circuiti e strumenti, é in oltre illuminata da una sorgente luminosa diretta per aumentarne da un lato la visibilità, quasi si trattasse delle luci della ribalta, e dall’altro per creare un gioco d’ombre sul muro opposto. Nella situazione di riposo, senza cioé l’intervento dell’esecutore, queste strutture sono silenziose, solo sculture quindi, ma, grazie ad un sistema di fotocellule, l’ombra del visitatore che si interpone tra la sorgente luminosa e gli oggetti sonori, o l’ombra della mano dell’esecutore, con gesto virtuosistico o casuale, fa “suonare” la struttura trasformandola in scultura sonora. Si tratta quindi di strutture che richiedono la complicità del pubblico stuzzicandone l’appetito ludico. David Dunn, Entrainments 2, 1985 Un posto a parte spetta a Tinguely (38). Diverse delle sue sculture funzionano sia a livello visivo che sonoro, ma i suoi meccanismi sono molto più teatrali e sono piuttosto da mettre in relazione con il meccanicismo e la perversità di certe “macchine celibi” che non con la raffinatezza e la discrezione di Agam o Bury. Pensiamo alla sculture autodistruggentesi, il suicidio della macchina messo in scena, come Homage a New York (1960) o Etude pour une fin du Monde (1962), o ancora al vero e proprio happening in piazza Duomo a Milano nel 1970. Oppure alle numerose sculture dove tra gli altri materiali ci sono radio funzionanti o sventrate quasi si fosse praticata un’autopsia. L’introduzione di meccanismi, di motori elettrici che producendo il movimento, dalle prime opere cinetiche fino alle ultime meta-sculture, permettono l’integrazione del rumore, del suono, nell’opera. Ma nelle atmosfere cupe che queste sculture creano, a base di catene e teschi di animali, l’idillio tra macchina e uomo é finito, nonostante già l’ronia di Dada avesse contribuito a scuoterlo. Chi ha portato al parossismo la fine di questo idillio é Matt Heckert con la sua Mechanical Sound Orchestra (39). Qui non é più questione di grazia e leggerezza come in Jones o Vogel, ma di anti-grazioso da industria pesante. L’atmosfera che prevale é da industria siderurgica con effetti, ricercati, di paure viscerali. L’incanto é rotto, la macchina presenta il suo lato “oscuro”, non é più la liberatrice dell’uomo, ma la sua asservitrice. Eppure la macchina continua ad affascinare, anche se Heckert evita il compiacimento e l’ideoligia dubbia di un Vivenza, ad esempio, rimane questa attrazione quasi ipnotica per il ritmo regolare e sicuro che genera, come se questa regolarità rassicurasse rendendo conto dell’immutabilità della condizione umana. Il suono come materiale “La musica non é solo quello che udiamo o ascoltiamo, ma tutto ciò che accade” George Brecht L’invenzione e la commercializzazione, all’inizio del secolo, del fonografo sono da annoverare tra gli accadimenti di maggiore rilevanza per gli argomenti che ci interessano. Questa invenzione ha permesso, teoricamente, ad ogni tipo di pubblico la fruizione di ogni tipo di musica. Un altra democratizzazione della musica questa volta resa possibile dalla messa in conserva della musica stessa. Per la prima volta non sono i musicisti a spostarsi ma il loro suono messo in scatola. A questo proposito gli avversari del fonografo all’inizio del secolo non hanno mancato di porsi la domanda se questa sia veramente musica, se siamo veramente in presenza della musica o solo di un suo surrogato più o meno significativo. Senza cadere nella trappola di chi sostiene che la sola vera musica sia quella dal vivo (attribuendo così a questa una specie di valore aggiunto perchè eseguita tutta d’un fiato), bisogna riconoscere un certo turbamento di fronte a certe pratiche di registrazione o di “correzione” del suono. Comunque sia ci pare che la differenza tra i due modi é più nella fruizione che non nella natura dell’oggetto musica. Il fenomeno mondano legato al concerto non é certo scomparso con l’avvento de fonografo, anzi ne é stato amplificato perché messo a nudo. E la musica ha guadagnato una faccetta supplementare, una nuova musica e nuovi strumenti per produrla. Pensiamo, ad esempio, all’uso che i dj techno fanno del giradischi, smitizando a loro volta il fonografo così come questo aveva fatto rispetto alla musica dal vivo. In questa prospettiva un discorso a parte meriterebbe la commercializzazione del registratore alla metà degli anni ‘50, così fondamentale per tutta la musica degli anni ’60, elettronica o concreta che sia, e per l’uso creativo che la poesia sonora, da Chopin e Heidsieck in poi, ne ha fatto. Così come un discorso a parte meriterebbe, in anni più recenti, la diffusione di massa del personal computer. Qui si discorre solo del fonografo perché è una delle prime invenzioni tecnologiche ad aver giocato un ruolo importante nello sviluppo della musica di questo secolo e ad aver avuto una diffusione di massa. Ma al di là di queste considerazioni generali due ci paiono essere le conseguenze più significative dell’invenzione del fonografo oltre a quella già ricordata della “trasportabilità” della musica. Anzitutto lo scollamento, il vuoto temporale, tra causa ed effetto. Il supporto su cui é registrata la musica, prodotto di una certa azione, costituisce il mediatore tra l’azione stessa e la percezione di questa azione; distanza temporale, tra produzione e fruizione, che può essere anche molto importante. In un certo senso la fruizione dell’azione é scissa dall’azione stessa, come resa autonoma da questa distanza temporale. L’affermazione, tipica della “modernità”, secondo la quale é il fruitore a fare l’opera d’arte trova qui esemplificazione e concretizzazione. In secondo luogo le invenzioni tecnologiche di questo secolo, moltiplicando le possibilità di sorgenti musicali, anche grazie al medium radio di cui quì si tace per mancanza di spazio, ma che gli artisti non hanno mancato di frequentare in modo creativo, hanno reso possibile, secondo l’espressione di Pascal Quignard, una specie di “odio per la musica” o, secondo Cage, un inquinamento sonoro, simbolizzato dalla società Muzak, produttrice di musica di sottofondo per supermecati, alla quale Cage consiglierà la diffusione di 4’33” inteso come rivelatore di questo inquinamento. In questa prospettiva di presa di coscienza del significato dell’ascolto e dell’essenza del suono, il silenzio, fondamentale é l’esparienza che Cage conduce, alla fine degli anni 40, nella camera anecoica dell’università di Harvard dove entra per ascoltare il silenzio ed invece ode un suono acuto, la circolazione del sangue, e un suono più grave, il battito cardiaco: i rumori prodotti dal corpo umano. Questa esperienza concorre a giustificare teoricamente e rendere possibile a Cage la realizzazione del suo pezzo “silenzioso” il 4’33’’ del 1952, nel quale si concretizza una dialettica tra esterno e interno alla musica, ma anche al corpo: l’assenza di musica non coincide necessariamente con l’assenza di suono. Allo stesso tempo questa esperienza, mettendo in luce questa dialettica, identifica il mondo musicale e il mondo sonoro, attribuendo a ciascuno il loro spazio. Il passo seguente per Cage sarà l’integrazione di questo spazio esterno alla musica nello spazio musicale. Questa dialettica tra esterno e interno può anche essere applicata al corpo. Il corpo umano produce suono.La vita é suono. Il campo del sonoro é una specificità dell’essere vivente e il silenzio, l’assenza di suoni, é assenza di vita. Esiste quindi una sorta di suono “corporale” , interno al corpo, che sarà messo a profitto in buona parte della poesia sonora che attraversa tutto il secolo, dalle prime esperienze futuriste fino a Henri Chopin o al gruppo Exvoco che per educare la propria voce ascolta le galline. Un suono del corpo quindi. Ma, come abbiamo visto, il suono ha anche ragioni fisiche esterne al corpo, é il prodotto di un attrito generato da un movimento. Il contatto, lo sfregamento tra due materiali o due corpi, qualsiasi essi siano, generano suono. Da questo punto di vista il XX° secolo é un secolo estremamente sonoro, alcuni dicono rumoroso. La civiltà delle macchine é una civiltà rumorosa. Buona parte della pratica sonora di molti artisti di questo secolo é stata di mettere in evidenza, attibuendogli alle volte valenze positive altre volte valenze negative, questa constatazione. Cage lascia entrare il mondo esterno nella sala da concerto, altri usciranno da questa per fare entrare il mondo musicale nel mondo esterno. Le ragioni del suono sono però anche intellettuali perché legate alla percezione di questo ed alla riflessione su questa percezione. Il XX° secolo é un secolo nel quale, forse più di ogni altro, questa riflessione é stata assunta a essenza della produzione artistica. L’Objet à Detruire (1923) di Man Ray: la fotografia di un occhio é ritagliata e attacata al cursore che scorrendo lungo la barra metallica di un metronomo determina il tempo, la velocità. La fissità del tempo ottico è messa a confronto con il divenire del tempo musicale. A Bruit Secret (1916) di Marcel Duchamp e Walter Arensberg: un oggetto sconosciuto é nascosto all’interno di un gomitolo di spago leggermente compresso tra due rettangoli metallici. La sorgente sonora é nascosta, acusmatica, il risultato, il rumore, diviene più misterioso. Non conoscendo l’oggetto che provoca il rumore, questo diventa di difficile identificazione. Così solo importa il risultato, o meglio: il fatto che ascoltiamo e che l’ascolto, essendo percepito svincolato dalla sorgente, é come se ascoltassimo per la prima volta. Un ascolto concettuale dunque. Il fatto sonoro diventa oggettivo, indipendente da interpretazioni o stati d’animo: é ciò che accade. Il mondo sonoro esiste ed é udito in tutte le sue varietà possibili. È come se le orecchie si aprissero per la prima volta e il tuttuno che costituisce la realtà sensibile fosse veramente inteso scisso nelle sue componenti. Box with the Sound of Its Own Making (Scatola col suono della sua propria costruzione) (1963) di Robert Morris é una scatola in legno all’interno della quale é racchiuso un registratore che diffonde i rumori prodotti durante la sua costruzione, vale a dire rumori di una sega che sega del legno, un martello che batte dei chiodi.. Naturalmente niente ci assicura che quei suoni siano quelli veramente prodotti per la costruzione di quella scatola, significano più che rappresentano. Il rapporto azionesuono é ricostruito mentalmente dall’ascoltatore: é lui che identifica quei suoni con quelle azioni. Di fatto più che unire l’azione e il risultato le scindono nelle sue componenti rendendole percepibili come azione e risultato. Queste esperienze fanno si che il luogo dello spazio musicale non sia più solo la sala da concerto e che il tempo musicale possa essere indipendente dalla manifestazione musicale. L’attenzione a ciò che ci circonda, all’environnement, e un ascolto nuovo, sono, come si é visto, alla base del 4’33’’ di John Cage, ma lasciare le porte aperte della sala da concerto non é solo lasciar uscire la musica, ma anche lasciarla entrare in uno scambio reciproco tra ciò che é fuori e ciò che é dentro, o meglio, abolendo questa soglia. Una tappa in questo percorso é stato l’uso del suono come “rivelatore architettonico” della sala (da concerto o meno). Come se L’architettura, che é stata definita come una musica gelata per l’uso che fa della proporzione, dell’armonia, fosse resa udibile. Una delle opere più significative in questo senso é I Am Sitting in a Room (1969) di Alvin Lucier (40). Si tratta infatti della messa in rilievo sonoro, del rendere udibile l’ambiente in cui ci si trova, grazie ad una frase non musicale letta ad alta voce e di cui I am sitting in a room sono le prima parole, frase registrata da un normale registratore, registrazione che viene a sua volta ascoltata e di nuovo registrata per poi essere di nuovo ritrasmessa e così via di seguito fino a che la frase originale diventa incomprensibile perché deformata dalle caratteristiche fisiche, architettoniche, della sala. La frase originale non é più comprensibile, ma é come se al posto suo si udisse la forma della sala. Le deformazioni sonore dell’originale sono la testimonianza, la messa in evidenza della forma sonora dell’ambiente. Già in nuce nel paradigma Young il concetto di spazializzazione del suono, del suono nello spazio, la “scoperta”, la presa di coscienza del far parte, di essere inseriti nell’ambiente, nello spazio sono uno dei fenomeni più marcanti e significativi delle esperienze sonoro-musicali degli ultimi anni. Le preoccupazioni legate alla spazializzazione del suono non sono certo d’oggi. Già Stockhausen con Gruppen (1957), ad esempio, s’era posto il problema risolvendolo brillantemente, ma considerandolo più come uno spazio da riempire, un vuoto che l’azione del musicista, la musica e l’operare dell’uomo deve riempire per testimoniare dell’unitarietà del mondo. Per non parlare poi della spazializzazione del suono nei concerti di musica elettroacustica, dove però il problema era più affrontato da un punto di vista tecnico che non teorico. Nell’ambito che qui ci interessa invece la prospettiva é diversa. Non è più questione di vuoto da rienpire, ma di presa di coscienza del fatto che l’uomo non é che una parte di questo mondo. È come se questa unitarietà fosse stata persa e devesse essere riconquistata. Non é più l’uomo che riempie il mondo con la sua azione, ma l’uomo che ponendosi all’ascolto del mondo ritrova un’armonia, una comunione con questo. L’uomo non é più il solo attore, non é più il solo ad agire, ma scegliendo di essere spettatore diviene un elemento agente tra altri.Non é più solo un movimento che dall’uomo va verso l’esterno, ma un movimento che può andare nei due sensi. Uno scambio reciproco tra uomo e natura diviene quindi possibile. Se l’uomo può agire sulla natura questa può “insegnare” all’uomo. Tutte queste considerazioni richiedono precisazioni sul concetto di paesaggio sonoro che in gran parte sottendono e da cui, molte, traggono spunto o origine. Questo concetto é evidentemente legato al libro di Murray Schafer e, nella sua accezione minima, può essere inteso come la semplice registrazione di un accadimento sonoro in un ambiente dato. Questa registrazione sarà poi analizzata secondo diversi parametri: acustici, sociologici, psicologici ecc. In modo tale che sia possibile attribuire ad ognuno un gradiente di fedeltà, di qualità, un land mark, che, secondo Schafer, sarà più elevato in ambiente naturale o in piccoli aglomerati umani e più debole o nullo nelle grandi città. Praticamente Schafer getta le basi per una vera e propria ecologia sonora aprendo la via ad un nuovo ascolto del mondo. Di fatto non fa che catalizzare tutta una serie di idee che in un certo senso erano nel vento dell’epoca, organizzandole e ordinandole. Basti pensare che il suo libro esce alla fine degli anni ‘70 quindi posteriormente a molte delle esperienze che qui si sono esposte. Ma non toglie niente alla sua originalità e al valore della sua sintesi. Un esempio d’analisi di un paesaggio sonoro condotta seguendo le teorie di Schafer é Segnale Contesto realizzata da Albert Mayr nel luglio 1980 in piazza Santo Stefano, a Bologna, nell’ambito della rassegna Isole del Suono. L’azione comportava quattro fasi: una prima fase di rilevamento delle caratteristiche acustiche della piazza e dei suoi dintorni, una seconda comportava la “proiezione” di segnali nella piazza stessa che tenessero conto dei rilevamenti della prima fase, la terza il rilevamento della percebilità acustica e psicoacustica dei segnali nella piazza e la quarta le conclusioni e le eventuali registrazioni delle fasi uno e due. “Questa azione” conclude Mayr “chiaramente non si pone come opera artistica, ma come esemplificazione di metodi e tecniche rivolte alla rivalutazione della comunicazione acustica nel contesto urbano e a un esame più globale della tematica segnale/disturbo” (41) . Molto più spesso però, nella realizzazione di paesaggi sonori, contrariamente a Mayr, si é tralasciata l’analisi per sottolinere solo l’aspetto più appariscente del lavoro di Schafer, vale a dire il giudizio portato sulle qualità di un paesaggio sonoro. Vediamo apparire quindi tutta una serie di lavori e registrazioni en plein air che sono più che altro da considerare per il loro explot tecnico che non per il loro fare artistico. Avremo allora registrazioni di foreste canadesi o della calma risacca delle onde marine, meglio se dell’oceano, ad uso di cittadini per calmare le loro notti inquiete: la bellezza e la calma sono sempre altrove. Un autore importante in questa prospettiva di Deep Ecology, sottesa nelle teorie di Schafer, e che ben esemplifica, radicalizzandole, tutto un campo delle ricerche musicali dell’ultima generazione di autori americani é David Dunn (42). Convinto della possibilità di comunicazione tra uomo e animale e, più in generale, tra uomo e ambiente circostante, tutto il suo lavoro é teso, senza concessione alcuna, al tentativo di abolire la piramide delle gerarchie che la società occidentale é andata via via costruendo tra i regni animale, vegetale e minerale. Il cambiamento radicale del modo e dell’atteggiamento di fare musica che Dunn propone é di fatto basato da un lato su di un ascolto profondo del mondo circostante, ascolto che può essere assimilato ad una messa in discussione di tipo psicologico del ruolo e dello spazio attribuito all’uomo nella natura, e dall’altro al rifiuto della gamma musicale, dell’organizzazione dei suoni della cultura musicale occidentale. Questo secondo aspetto, che in parte deriva dal primo, é legato alle esperienze sul microtonalismo, vale a dire sulla differenza tra percezione reale dei suoni da parte dell’orecchio umano e la sua codificazione da parte della musica colta occidentale. Dunn ha potuto attingere direttamente ad una delle fonti americane del microtonalismo é stato infatti, prima di studiare con Kenneth Gaburo che considera come il suo maestro, l’assistente di Harry Partch dal 1970 fino al 1974 anno della sua morte. Una parte importante del suo lavoro é basata sull’interazione tra suoni prodotti dall’uomo e suoni del mondo animale, non grazie o sopra o contro questi, ma con questi, mano nella mano, come, ad esempio, in Mimus Polyglottos del 1976, tra suoni elettronici e il canto di un tordo beffeggiatore, o allora l’esecutore deve impregnarsi dello spirito del luogo in cui si svolge la performance come in Aura (Communication Stimulus for Eighteen Voices and Cetaceans), la partizione della quale é stata presentata a Sonorità Prospettiche nel 1982, e dove gli esecutori devono recarsi nel loro habitat naturale. Infatti le sue composizioni in cui questi sono presenti, che in genere si svolgono in deserti dell’ovest americano, o comunque in luoghi isolati, iniziano sempe con un preambolo meditativo, di messa in situazione dell’esecutore, perché, appunto, possa impregnarsi dello spirito del luogo e perché possa essere ricettivo a questo. Pensiamo, per fare un solo esempio, a Nexus 1 per tre trombe, registrato nel 1973 in un canyon poco frequentato del Parco Nazionale del Grand Canyon, nel quale “lo spartito specificava gesti sonori con le trombe che potessero articolarsi interattivamente con l’ambiente del canyon. Questa interazione era anzitutto focalizzata su 1) prolungare la riverberazione e la straordinaria acustica spaziale delle formazioni rocciose, e 2) le forme di vita non umana come i corvi che si udivano durante tutta l’esecuzione e la registrazione” (43). Questa pratica ecologico-musicale é ben lontana dal rifiuto della tecnologia Dunn usa manipolazioni elettroniche e informatica come in Entrainments 1 e Entrainments 2 (rispettivamente del 1984 e1985) dove le voci, con una pratica per certi aspetti simile a quella di Alvin Lucier, sono registrate e diffuse in un ambiente, in modo da percepirne le modificazioni, con l’aggiunta di bordoni elettronici derivati da considerazioni astrologiche e temporali legate al posto in cui ha avuto luogo la registrazione. Dunn non é certo ne il primo compositore a lavorare col canto degli uccelli ne il solo. Senza scomodare Messian, anche perché, nonostante l’aproccio filosofico di partenza, il sentimento panico di appartenere allo stesso creato, possa essere letto come simile, il contesto musicale nel quale questi canti sono inseriti é completamente diverso, basta pensare al Live with the Birds del Maciunas Ensemble and Kanary Grand Band di Paul Panhuysen del 1995 (44) nel quale sono combinate le Long Strings, cui si é già accennato, e il canto di molti canarini liberi di volare nell’ambiente in cui ha luogo l’esecuzione, come in una recente installazione dello stesso Panhuysen a Lione nel quadro dell’esposizione Musiques en Scène. I musicisti cercano di reagire alle sollecitazioni sonore dei canarini e viceversa (sostiene Panhuysen). In questo contesto si può accennare ancora al Douglas Quinn di Oropendola, realizzato tra il 1991 e il 1994, e che ha come sottotitolo Music by and from Birds, appunto (45). Dunn non é neppure il primo ad aver usato l’ambiente come cassa di risonanza e ad averne tenuto conto nella sua esecuzione musicale, già nel canto gregoriano toviamo tracce di queste problematiche, e più vicino a noi basta ricordare la Deep Listening Band di Pauline Oliveros che realizza The Ready Made Boomerang, nel 1991 (46), all’interno di una grande e vuota cisterna per la raccolta dell’acqua. Bisogna però riconoscere a Dunn una grande radicalità e perseveranza nella ralizzazione del suo progetto. Del resto le similitudini tra il lavoro di Dunn e di Pauline Oliveros, come del resto con tutta la Just Intonation americana, non si limitano a qualche aspetto aneddotico, ma sono molto più sostanziali. In entrambi c’é la ricerca di un rapporto privato, o limitato a piccoli gruppi, quasi comunità, con il mondo circostante, un rapporto ecologico, attraverso il suono. Rapporto basato sulla meditazione generata dal suono e dall’ascolto delle interazioni tra suono e natura per percepire il posto dell’uomo all’interno dell’universo. La musica diventa un santuario (secondo la definizione di Cage) in cui raccogliersi come in tutti i lavori musicali di La Monte Young da The Tortoise. His Dreams and Journeys, passando attraverso il Drift Study, The Well-Tuned Piano e tutti i progetti concepiti per la Dream House. Secondo queste teorie e questi aprocci al fatto sonoro esiste una specie di metaarmonia, un’armonia che oltrepassa quella percepibile del tempo e dall’orecchio umani. Cicli che oltrepassano l’esistenza stessa dell’uomo sono possibili, questi non sono percepibili dall’uomo perché oltrepassano la sua memoria uditiva andando al di la della sua stessa vita. Il problema é “cartografico” si tratta di trovare un metro, una scala di trasposizione che renda percepibile l’evento all’uomo. Rotf Julius,Music for the Eyes, 1981. Questa problematica é evidentemente legata alla percezione e all’organizzazione del tempo, musicale o meno. Albert Mayr lavorato su queste ciclicità “espanse” pensiamo al suo Calendario Armonico che applica “criteri estetici all’organizzazione del tempo. Calendario Armonico esemplifica un possibile approccio: quello dell’estensione del modello “suono” a periodicità infra sonore. Infatti, prendendo come riferimento uno spettro armonico audio (le cui componenti rilevanti si trovano, di solito nell’ambito compreso tra la fondamentale e la + o - dodicesima armonica) questo calendario visualizza la suddivisione fino al dodicesimo sottomultiplo del periodo di 365 giorni con i rispettivi semicicli positivi (colorati) e negativi (in bianco)”. Nonostante la produzione di Mayr sia più un lavoro di ricerca sui ritmi biologici e sulla loro percezione ha usato considerazioni di questo tipo anche in installazioni sonore comeHora Harmonica del 1984 basata sulla suddivisione armonica del tempo e dove il suono serve a rendere udibile questa struttura ritmica (47). Anche altri compositori hanno basato il loro lavoro sulla ciclicità partendo da considerazioni simili come l’americano James Tenney e il canadese Udo Kasemets, ma l’analisi del loro lavoro ci porterebbe troppo lontano. Per il nostro proposito é preferibile evocare alcuni lavori nei quali il suono funge da rivelatore del mendo sensibile o come elemento di catalogazione. L’olandese Jan Dibbets in The Sound of 25 km (1969) registra i rumori dell’ambiente durante un tragitto di 25 km su un’autostrada olandese (48). Un altro olandese, herman de vries (é lui a voler che il suo nome sia scritto senza maiuscole), in water, the music of sound (1977) ha ragistrato il suono della pioggia, del mare o di cascate per costituire una specie di catalogo, di “memoria” dei suoni acquatici (49). O ancora l’amaricana d’adozione Annea Lockwood che prelieva campioni sonori lungo il fiume Hudson dalla sorgente alla foce per ricostruirne un’ipotetica mappa (A Sound Map of the Hudson River 1982) (50). Siamo lontani dall’uso che J. Dudon, ad esempio, fa dell’acqua nei sui strumenti. In Dudon l’acqua é solo elemento motore qui é soggetto. Così come nessun tentativo di ricostruzione di un paesaggio sonoro unitario é presente in questo agire, ma piuttosto un tentativo di catalogazione del mondo alla Perec. Nessuna idea di land mark, di qualità sonora dell’ambiente, nessuna interpretazione, ma solo la registrazione di eventi, quasi se per intenderli bisognasse passare attaverso le forche caudine del medium registratore, come se, solo così decontestualizzati, senza il supporto visivo, fosse possibile intendere veramente quei luoghi. Il suono come rivelatore dell’ambiente, come elemento usato per metterlo in rilievo, é stato usato da molti artisti tanto che di fatto é l’elemento centrale di molte delle installazioni sonore realizzate negli ultimi 30 anni. È presente nelle prime installazioni di Max Neuhaus (51) da Listen (15 “passeggiate sonore” realizzate tra il 1966 e il 1976) e Drive-in Music (1967), ai vari Water Whistle (dal 1971 al 1974) fino alle installazioni a Time Square (1977-1993) o al Domaine de Kerguehennec in Bretagna (1986-1988). Il principio é sempre simile: suoni elettronici sono proiettati nello spazio ad un volume molto debole, al limite dell’udibile. Il ruolo dell’ascoltatore é per forza attivo, nel senso che se vuole ascoltare quei suoni deve tendere l’orecchio, fare astrazione dai suoni dell’ambiente circostante. Questa operazione di filtraggio é uno degli obiettivi dell’opera. Ma allo stesso tempo questa non é imposta dato che la maggior parte degli ascoltatori potenziali, ossia tutti coloro che attraversano lo spazio dell’installazione, possono non rendersene assolutamente conto. La musica come ambiente da attraversare. La musica diventa un ambiente, ambiente all’interno del quale l’uomo evolve e agisce. Fino alle ultime opere di Neuhaus, sobrie stilizzazioni grafiche di luoghi e ambienti, nelle quali il suono é solo evocato, per riprendere il titolo di una sua recente esposizione al Castello di Rivoli. L’assenza di suoni pone ancora una volta l’accento sulla volontarietà dell’ascolto e sulla sua possibile totalità. In questa direzione della musica come ambiente da attraversare si é mossa Christina Kubisch (52) quando, dopo aver negato il flauto traverso che aveva studiato pensiamo alla serie Emergency Solos del 1973 nei quali tentava di suonarlo con guanti da pugilato o ditali da cucito, ha iniziato, nei primi anni ‘80, Ecoutez les murs a Lione é del 1981, la realizzazione di installazioni costituite da cavi elettrici ai quali bisognava avvicinarsi per poter captare suoni registrati nell’ambiente circostante con appositi caschi senza fili a induzione elettromagnetica. L’ascolto diventa individuale, ogni movimento della testa od ogni spostamento dell’ascoltatore variano la percezione del suono. Christina Kubisch ha realizzato questo tipo di installazioni per buona parte degli anni ‘80 parallelamente ad altre esperienze nelle quali però l’attenzione all’architettura, il volerne mettere in valore le forme e i volumi, il legame tra il luogo in cui si svolgono e il suono, il deambulare dei fruitori nello spazio, la percezione come fatto individuale nel senso di non voler imporre una audizione-visione univoca allo spettatore, la grande importanza data ai mezzi tecnologici impiegati, senza farne sfoggio, senza cioé integrarla visivamente all’opera, ma considerandoli come un “aiuto” indispensabile e, nelle installazioni degli ultimi anni, l’uso di luci ultraviolette per sottolineare colorandoli i luoghi, sono sempre centrali. Le installazioni sonore di Bill Fontana (53) sono invece da intendere più come un ambiente da visitare che non da attravesare. Anche lui usa il suono come rivelatore, ma in un contesto molto più evidente. Niente più suoni elettronici deboli, ma spiazzamento dell’ascoltatore ottenuto attraverso la trasposizione di suoni normalmente incompatibili con l’ambiente in cui ha luogo l’ascolto. Come ad esempio con la Sound Island realizzata Parigi nel giugno del 1994 per la commemorazione del cinquantesimo anniversario dello sbarco degli alleati in Normandia, dove ha sonorizzato l’Arco di Trionfo dell’Etoile con la trasmissione di suoni prelevati in diretta dalle spiagge in cui lo sbarco aveva avuto luogo. Straniamento dell’ascoltatore che in uno dei nodi stradali forse più rumorosi della capitale francese era investito da rumori di risacca, stormire del vento e grida di gabbiani ed allo stesso tempo teatralizzazione di un avvenimento, sia a causa delle dimensioni e del volume sonoro dell’opera, che per il significato simbolico del luogo scelto. Contemporaneamente, per sottolineare l’effetto di riduzione delle distanze possibile grazie ai mezzi elettronici, sulla terrazza dell’Arco di Trionfo era installata una specie di panorama sonoro circolate, come quelli nei belvedere delle valli montane, con l’indicazione di altri luoghi parigini, come la stazione Montparnasse, l’edificio della Borsa, l’Opera, ecc. ed avvicinandosi a questo panorama si potevano udire, sempre in diretta, i suoni captati in questi luoghi. Questo concetto di simultaneità degli accadimenti, di trasmissione quasi istantanea da un luogo all’altro é presente in molti dei lavori di Fontana. Ricordiamo Distant Trains , a Berlino nel 1984, nel quale i suoni e rumori dell’attuale stazione ferroviaria erano diffusi tra le rovine della Anhalter Bahnhof distrutta durante la seconda guerra mondia. O ancora il Landscape Sounding realizzato a Vienna nel 1990 nel quale un paesaggio sonoro di una quieta foresta era trasmesso in un quartiere centrale della città. Ma sopratutto Ohrbrüke/Soundbridge Köln/ San Francisco (1987) che consiste nella trasmissione simultanea via satellite di suoni registrati appunto a Colonia e a San Francisco. Anche se questa dimensione teatrale-planetaria era assente nei primi lavori più intimisti di Fontana, pensiamo per fare un solo esempio allo stupendo Kirribilli Wharf registrato a Sydney nel 1976, per Fontana l’ascolto del mondo diventa planetario. Anche Maryanne Amacher (54), di cui ricordiamo il passaggio a Roma alla sala Borromini nel 1980 nell’ambito degli Opening events organizzati dall’Associazione Culturale Beat ‘72, ha praticato questa trasmissione del suono da un luogo all’altro anche se in una prospettiva e con intenzioni diverse da quelle di Fontana. L’esperienza é molto più di tipo confidenziale manca infatti la dimensione spettacolare di Fontana ed in oltre ciò che cambia é la durata, in questo la si deve piuttosto collegare a Neuhaus. Pensiamo in particolare a Tone and Place Pier 6 Boston Harbor nel quale per 5 anni i suoni captati in un deposito abbandonato del porto di Boston sono stati trasmessi, dal novembre 1973 al maggio 1976, nel suo studio al MIT e poi, dal maggio 1976 al novembre 1978, all’ Artificial Intelligence Laboratory sempre al MIT. Anche per l’Amacher l’obiettivo é quello di una specie di catalogo del mondo e del suo ascolto dando però più peso all’esperienza personale, quasi un’introspezione, che al coinvolgimento di un pubblico. Quando invece il pubblico é presente “proietta” nella sala suoni naturali, estratti dalla sua abbondante sonoteca (la qualità della quale le ha valso una collaborazione con John Cage in Lecture on the Weather nel 1975), per ricreare ambienti, situazioni, luoghi col solo ausilio del suono: una sorta di film sonoro senza immagini. Anche nelle opere del francese Erik Samakh (55) il suono é usato come rivelatore della interazione tra il vedere e l’ascoltare e la tecnologia e l’informatica hanno grande rilievo, ma qui in più il pubblico o l’ambiente modificano in diretta l’opera, ne sono in un certo senso coautori non più solo al livello relativamente passivo dell’ascolto, ma ad un livello più attivo grazie ai loro movimenti o alla loro assenza e a causa delle variazioni climatiche. Nelle installazioni di grandi dimensioni, ad esempio nell’ Oasis Acoustique del castello di Talcy, nella valle della Loira, del luglio 1990, erano diffusi suoni incongrui per il luogo o la regione come, nella piccola foresta adiacente il castello, canti di uccelli esotici o lo stormire del vento in assenza di vento, oppure si udiva il tubare di piccioni nella piccionaia e quando si entrava in questa non solo si constatava che era vuota, ma il tubare stesso si zittiva, o ancora vecchie presse per il vino, da anni inattive, erano rianimate dal suono del loro funzionamento e da tutti i rumori che normalmente facevano da corollario alla vendemia. Ma le opere più interessanti di Samakh sono forse quelle di piccole dimensioni e nelle quali l’interattività tra opera e pubblico o ambiente é più forte. Come ad esempio Animal en Cage del 1988 oOctave le Canari del 1992 nei quali da una gabbia per uccelli vuota un modulo acustico concepito da Samakh genera rumori e canti in funzione dei movimenti del pubblico. Oppure Animal 1 del 1987 e le Grenouilles Èlectroniques del 1990 del Jardin de Bambou nel Parc de la Villette a Parigi che sono sensibili al movimento e al clima. Da ultimo vorrei citare, per la loro semplicità e capacità evocativa, anche se sarebbero piuttosto da annoverare tra le sculture, le anfore sonore dalle quali esce un brusio di acqua e quando ci si avvicina si scopre che, naturalmente, sono completamente vuote. In questi ultimi anni si sono svolte almeno due manifestazioni molto importanti nel campo delle installazioni sonore. Si tratta di KlangKunst a Berlino nel 1996 e della già citata Musiques en Scène a Lione nel 1998. Entrambe testimoniano della ricchezza e della varità del panorama internazionale in questo campo e permettono di constatare come sempre più il suono sia considerato dagli artisti come un materiale col quale lavorare, come un materiale da manipolare. L’idea di scolpire il suono, di manipolarlo, di plasmarlo come si plasma la materia, é frequente in questo secolo. Qui però siamo di fronte ad atteggiamento fondamentalmente diverso: la volontà dell’uomo non é più la sola creatrice dell’accadimento sonoro, ma questo deriva da un’interazione tra il materiale e l’attività umana. L’uomo non é più il solo creatore, ma é un elemento tra altri del risultato sonoro.L’attitudine, quasi da rigattieri, rigattieri geniali a mezza strada tra il ready-made duchampiano e il riciclaggio pop d’oggetti quotidiani, almeno così come s’é venuta a concretizzare durante il secolo, degli scultori sonori é appunto quella dell’essere all’ascolto del materiale, del voler svelare, non creare, un fenomeno considerato come inconscio o nascosto all’interno della materia. In questo senso le installazioni sonore da un lato realizzano la sinestesia tra le arti, solo vagheggiata all’inizio del secolo, e dall’altro testimoniano della totalità di campo dell’agire artistico attuale, non esiste più un campo separato e deputato all’artista, ma può spaziare sui 360° della vita. Questa situazione é stata resa possibile grazie al lavoro svolto dagli artisti citati fino ad ora, e da altri che per ragioni di spazio o di pertinenza col discorso che si voleva portare avanti non vi hanno trovato posto. Per concludere vorrei ricordare alcune altre esperienze che fino ad ora non hanno trovato il loro posto. Nel campo dell’interattività, ad esempio, che sempre più, grazie all’informatica e ad una tendenza generale di fascino e curiosità rispetto a queste macchine (che fa pensare ad un atteggiamento già constatato all’inizio del secolo nei confronti di altre macchine), sta prendendo piede vorrei ricordare gli Specchi Sonori del francese Gilles Richard nei quali l’interazione é resa visibile non solo metaforicamente. Si tratta infatti di veri e propri specchi che raccontano storie o emettono suoni quando l’immagine dello spettatore vi si riflette. Il perfezionamento delle tecniche di registrazione ha permesso a molti artisti di arricchire lo spetro dell’udibile allargandolo. In questo ambito vorrei ricordare i lavori dell’americano Leif Brush (56) e del danese, ma francese d’adozione, Knud Viktor (57). Entrambi usano micro-suoni amplificati, Leif Brush con il suo Forest Terrain Instrument, installazione permanente nel Minesota, registra con sensori e trasduttori elettronici, infilati nel terreno, negli alberi o posti all’esterno, i micro-suoni della foresta o le modificazioni climatiche dell’ambiente circostante; Knud Viktor registra i rumori degli insetti i quali sono poi amplificati e montati tra di loro riuscendo, grazie alla decontestualizzazione dovuta al montaggio, ad evitare di cadere nella trappola dell’entomologia sonora. Per entrambi l’obiettivo é quello di rendere udibile ciò che abitualmente non lo é. Ritroviamo l’utopismo di Takis vale a dire il voler captare quelle forze magnetico-telluriche che percorrerebbero il mondo governandolo. In oltre con questi due esempi si tocca da vicino la problematica di buona parte della musica elettroacustica. Vale a dire la trasformazione, il cambiamento di senso, di un accadimento sonoro producendo da un lato una presa di coscienza dell’inudito e dall’altro uno spiazzamento dell’ascoltatore. Il suono può venire, essere generato, dall’ambiente, come in Viktor e Brush, o andare, essere proiettato verso l’ambiente, come già si é visto, ad esempio, per Bill Fontana, a sua volta l’ambiente può essere il luogo dell’ascolto come in Suzuki o nel Cylindre Sonore (1987) di Bernhard Leitner (58), installazione permanente nel Parc de la Villette a Parigi. Per Julius (59) il problema della fonte sonora o del luogo non é primordiale nel senso che il suono é in ogni luogo così come può essere percepito con ogni parte del corpo, come lui stesso afferma si può ascoltare coi piedi, l’ascolto del suono é un’esperienza globale che coinvolge il corpo e la mente interi. Ciò che vuole privilegiare é la visione del suono e per questo realizza, tra l’altro, delle sculture sonore colorate a base di piccoli altoparlanti, che possono essere isolati o posti all’interno degli oggetti i più diversi, da bicchieri pieni d’acqua a tazze da the, o disposti nello spazio, ricoperti di pigmeni colorati che vibrano quando c’é emissione di suono. Le sue installazioni non richiedono la partecipazione o la presenza dello spettetore esistono in sé. Il dialogo con lo spazio, col luogo, sono loro a condurlo anche quando é Julius stesso ad intervenire anche lui come lo spettatore é testimone di un’esperienza, di un accadimento. Le sculture sonore dell’inglese Hugh Davies (60) invece esigono la partecipazione dello spettatore. La serie delle Shozyg, iniziata nei primi anni ‘70 e tutt’ora in corso, é costituita da diverse molle di varie dimensioni che sono “suonate” dall’esecutore con vari altri oggetti in modo estremamente libero e ludico e sono proprio questa libertà e questa ludicità a fare di Davies un buon improvvisatore di live eletronics. Un solo cenno alla libera improvvisazione, ma siamo ben coscienti che é stato uno dei fenomeni e dei motori della nuova musica riintroducendo così nella ricerca sonora un vento di freschezza che sempre si dovrebbe aver presente. La musica, forse più di ogni altra manifestazione artistica, si é sempre prestata meglio a speculazioni metafisiche. Probabilmente perché tra gli elementi che la costituiscono e la caratterizzano vi é il tempo e la memoria. A ben vedere la ricerca musicale ha sempre oscillato tra la voglia di oggettività e il bisogno di metafisica. Seguendo il precetto dantesco del “fatti non foste a vivere come bruti ...” ci si può pure perdere l’anima. Letta in questo senso la frase di George Brecht citata all’inizio de capitolo, oltre ad essere l’oggetto dell’esperienza di Fluxus, ponendo l’accento sull’agire, sulle azioni che l’uomo concretamente compie, ha quasi funzione d’antidoto contro certo divagare. Perché finalmente, parafrasando Cage, il suono possa diventare soltanto un’altra parte del mondo; non più, non meno. Bibliografia e note Cataloghi e testi generali Michael Nyman - Experimental Music: Cage and Beyond - Schirmer Books 1974 Germano Celant - Disco come lavoro d’arte - estratto da Off Media Dedalo 1977 Murray Schafer - The Tuning of the World - A. Knopf Inc. 1978 (trad. italiana .......) AA.VV. - Ècouter par les Yeux, objet et environnements sonores - ARC Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris 1980 Franco Masotti, Roberto Masotti, Veniero Rizzardi e Roberto Taroni (a cura di) Sonorità Prospettiche, suono, ambiente, immagine - Comune di Rimini 1982 AA.VV. L’Oreille Oubliée - Centre Georges Pompidou 1982 AA.VV. - A Noise in your Eye - Arnolfini Gallery, Bristol 1985 Dominique e Jean-Yves Bosseur - Révolutions Musicales - Minerve, Paris 1986 P. Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the Images of Sound -Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1987 Thomas DeLio, Stuart Saunders Smith (a cura di) - Words & Spaces - University Press of America 1988 Ursula Block, Michael Glasmeier - Broken Music - daadgalerie Berlin, Gemeentemuseum Den Haag, Magasin Grenoble 1989 Tom Johnson - The Voice of New Music -Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1989 Dan Lander, Micah Lexier (a cura di) - Sound by Artists - Art Metropole, Walter Phillips Gallery, Canada 1990 Douglas Kahn, Gregory Whitehead (a cura di) -Wireless Imagination. Sound, Radio and the Avant-Garde - The MIT Press 1992 Jean-Yves Bosseur - Le sonore et le visuel - Dis Voir, Paris 1993 René van Peer - Interviews with Sound Artists - Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1993 AA.VV. - Het Apollohuis 1990-1995 -Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1996 AA.VV. - KlangKunst - Akademie der Künste Berlin, Prestel-Verlag München 1996 Jean-Yves Bosseur - Musique et art plastiques, interactions au XX° siècle - Minerve, Paris 1998 AA.VV. - Musiques en Scène - GRAME Centre Nationale de Création Musicale Lyon 1998 Note ( 1) Su La Monte Young vedi Sound and Light a cura di W. Duckworth e R. Fleming Bucknell University Press, Lewisburg, Pennsylvania, 1996 e il libretto allegato al cofanetto di 5LP The Well Tuned Piano Gramavision Record, 18-8701-1, New York, 1987 ( 2) vedi a questo proposito il numero speciale della rivista canadese Musicworks n° 30, winter 1985, Toronto, dedicato alla nuova organologia. Per le arpe eoliche in particolare vedi l’articolo di Gordon Monahan Singing Wires. The Music of Aeolian Harps alle pagine 12-16. ( 3) The Tuning of the World - A. Knopf Inc., New York, 1978 (trad. italiana .......) ( 4) Su Fischinger vedi Jean Etienne Marie L’homme musical Arthaud, Parigi, 1976 in particolare le pagine 195-197 ( 5) John Cage Per gli uccelli conversazioni con D. Charles trad. di W. Marchetti Multhipla Edizioni, Milano, 1977, p. 71 ( 6) Tom Johnson - The Voice of New Music Het Apollohuis, Eindhoven, Holland, 1989, p. 427 ( 7) AA.VV. - Ècouter par les Yeux objet et environnements sonores - ARC Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris 1980, p. 48. Sui fratelli Baschet vedi anche il CD Palette Sonore SSP Editions, SSP 01, Parigi, 1996 ( 8) Vedi il recente CD A. Nozati La peau des Anges CCAM, Vand’oeuvre 9712, Vandoeuvre-les-Nancy, 1998 ( 9) AA.VV. - Ècouter par les Yeux cit., p. 48 (10)Emmanuelle Laborit Le cri de la mouette Laffon, Parigi, 1994 (11)Harry Partch Genesis of a Music Da Capo Press, New York, 1974, p. 198-202 (12)Bob Gilmore Harry Partch: “The Early Vocal Works 1930-33” The British Harry Partch Society, Birmingham, 1996. Tesi per il Degree of Doctor of Philosophy sostenuta da Gilmore alla Queen’s University of Belfast nell’aprile 1992. (13)per una carrellata storica a proposito di queste esperienze vedi i testi introduttivi a AA.VV. - Ècouter par les Yeux cit. , P. Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the Images of Sound Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1987 e Bart Hopkin Gravikords, Whirlies & Pyrophones Ellipsis Arts, Roslyn stato di New York, 1996 (14)P. Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the Images of Sound cit., p. 14 (15)Pol Bury Sculptures à Cordes Meaght Editeur, Parigi, 1974 (16)citato in Pierre Cabanne Les lenteurs programmées de Pol Bury in Artstudio n°22 automne 1991, Parigi, p. 101 (17)in una intervista con A. Paquement in Trois Totem. Espace Musical Centre Pompidou 1981 (18)intervista con J.-Y. Bosseur in Jean-Yves Bosseur Le sonore et le visuel Dis Voir, Parigi, 1993, p. 68-69. (19)su Suzuki vedi Akio Suzuki Soundsphere Het Apollohuis, Eindhoven, Holland 1990 (20)vedi il CD Amalia Del Ponte Lithovocis, Amalia Del Ponte 001, Milano,1996, su Hartenstein vedi Bart Hopkin Gravikords, Whirlies & Pyrophones , cit. p. 44-45. (21)su Eastley e Toop vedi P. Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the Images of Sound , cit., p.35-37, e gli LP New and Rediscovered Instruments Editions EG, Obscure 4, EGED 24, Londra, 1975 e Whirled Music Quarz Publications, Quartz 005, Londra, 1980. (22)su Maioli vedi Walter Maioli Il suono e la Musica Jaka Book 1991 e il CD Art of Primitive Sound Hic Sunt Leones, HSL 003, Milano, 1991, su Mariolina Zitta vedi il CD Perle di grotta, la musica delle stalattiti , MZ 087, Milano,1997 (23)vedi Bart Hopkin Gravikords, Whirlies & Pyrophones cit., p. 78-79. (24)A. Suzuki Stone Berliner Künstlerprogamm des DAAD, 1994. (25)vedi il CD omonimo edito dalla Tzadik, TZ 7402, New York, 1997 (26) Y. Pacher Musique des buissons des sentiers de l’imagination Centre Régional de Documentation Pédagogique, Poitiers, 1982. (27)J. Dudon La musique de l’eau Editions Alternatives, Parigi, 1982, di Dudon ricordiamo anche il recente CD Lumieres Audibles Mondes Harmoniques, MH1, Le Thoronet, 1995, sui suoni armonici generati con un procedimento foto-sonico. (28)Akio Suzuki Soundsphere , cit., senza indicazione di pagina. (29)Bart Hopkin Gravikords, Whirlies & Pyrophones , cit., p.10-11. (30)vedi CD Mercury 235 Media, LC 8767, Colonia, 1989. (31)a titolo di esempio vedi il recente CD Logos Works Experimental Intermedia Foundation, XI 117, New York,1995 (32)vedi in particolare LP omonimo edito da Apollo Records, AR 118501, Eindhoven, 1985 (33)a questo proposito vedi le introduzioni a AA.VV. - Ècouter par les Yeux cit. e P. Panhuysen, H. Davies (a cura di) - Echo, the Images of Sound cit. (34)vedi Douglas Kahn, Gregory Whitehead (a cura di) -Wireless Imagination. Sound, Radio and the Avant-Garde The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1992, p.245252. (35) vedi in partcolare Joe Jones Music Machines from the Sixties until Now Berliner Künstlerprogamm des DAAD, 1990. (36)vedi il libretto incluso nel tiplo LP omonimo Apollo Records, AR 088502, Eindhoven, 1986. (37)vedi AA.VV. - Musiques en Scène GRAME Centre Nationale de Création Musicale, Lyon, 1998, p. 19. (38)su Tinguely e la “musica” vedi la sua intervista e gli “esempi “ musicali inclusi nel supplemento a Audio Arts vol 6 n° 1, Londra, 1983, in occasione della retrospettiva alla Tate Gallery. (39)vedi CD omonimo Catasonic Record, CS 002, Hollywood, 1995 (40)su Alvin Lucier vedi A. Lucier Reflections Interviews Scores Writings , MusikTexte, Colonia, 1995. (41)estratto dal programma della rassegna Isole del Suono Bologna 1980. (42)su Dunn vedi i CD Music, Language and Environment Innova Recordings, Innova 508, St. Paul, Minnesota, 1996 e Angel & Insects What Next Recordings, WN 009, Santa Fe, 1992, gli articoli Nature, Sound Art and Sacred in Terra Nova vol 2 n°3 summer 1997, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, p. 61-71; Environment, Consciousness and Magic: an Interview with D. Dunn in Perspectives on Musical Aesthetics a cura di J. Rahn, W.W. Norton & Company, New York, 1994, p. 234-245 (ma la prima pubblicazione é del 1989 nella rivista Perspectives of New Music); An Expository Journal of Extractions from Wilderness in Thomas DeLio, Stuart Smith (a cura di) - Words & Spaces, University Press of America, 1989, p. 250-264. (43)dalle note di Dunn incluse nel CD Music, Language and Environment , cit. (44)CD omonimo Apollo Records, ACD 129615, Eindhoven, Holland 1997. (45)CD omonimo Apollo Records, ACD 049413, Eindhoven, Holland 1994. (46)CD omonimo New Albion Records, NA 044CD, San Francisco, 1991, su P. Oliveros vedi anche Pauline Oliveros Software for People Collected Writings 1963-1980 Smith Publications, Baltimore, 1984. (47)Albert Mayr Calendario Armonico Edizioni Supergruppo Ravenna s.d.; vedi in oltre Musicworks n° 29 fall 1985, Toronto, p. 3-6; e A. Mayr, Antonello Colimberti e Gabriele Montagano (a cura di) L’ascolto del tempo (mp)x2 Editore, Firenze, 1995. (48)vedi il catalogo della mostra al Walker Art Center, Minneapolis, 1987, p. 74. (49)vedi il catalogo Différentes Natures FIACRE, Paris La Défence,1993, p. 106. (50)CD omonimo Lovely Music, LCD2081, New York,1989. (51)su M. Neuhaus vedi Max Neuhaus Sound Works , 3 vol., Canz Verlag, Ostfildern, Germania, 1994, e il catalogo della mostra al Castello di Rivoli Evocare l’udibile Edizioni Charta, Milano, 1995. (52)vedi Christina Kubisch Zwischenräume Stadtgalerie, Saarbrücken, 1996. (53)vedi i CD Australian Sound Sculptures Edition Block, EB 203, Berlino, 1990; Ohrbrücke/ Soundbridge Köln-San Francisco Wergo, WER 6302-2, Mainz, 1994; la rivista Soundings n°14-15 Sounding Press, Santa Fe,1986, p. 102-107; oltre che AA.VV. - Ècouter par les Yeux , cit., p. 72-73, e Ursula Block, Michael Glasmeier Broken Music daadgalerie Berlin, Gemeentemuseum Den Haag, Magasin Grenoble, 1989, p. 135-136. (54)su M. Amacher vedi Musicworks n° 41, summer 1988,Toronto, p. 4-5. (55)vedi il catalogo Erik Samakh La Culture pour vivre Editeur, Flaine, 1993. (56)vedi la rivista-CD americana the Aerial, a journal in sound n° 4 Nonsequitur, AER 1991/4, Santa Fe, 1991, e Musicworks n° 30, winter 1985, Toronto, p. 17-19. (57)vedi AA.VV. - Histoires d’écoute,Etats Generaux du Bruits, Festival de La Rochelle, La Rochelle, 1982, p. 15 e Musicworks n° 55, spring 1993, Toronto, in particolare il cd allegato alla rivista. (58)vedi AA.VV. - KlangKunst Akademie der Künste Berlin, Prestel-Verlag, München, 1996, p. 88-89. (59)vedi Rolf Julius Small Music (Grau) Kehrer Verlag, Heidelberg, 1995. (60)vedi LP Shozyg Free Music Production, SAJ 36, Berlino, 1982 e i CD H. Davies, Hans-Karsten Raecke Klangbilder Klangwerkstatt Edition, SM 500 135 D, Mannheim, 1994; H. Davies Interplay FMR Records, FMR CD39-V0697, Chelmsford, 1997.