saperi in visita

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Franca Faccioli
Presentazione
SAPERI IN VISITA
LA MEMORIA E IL FUTURO
N°1 – 2010
SOMMARIO
PRESENTAZIONE
Franca Faccioli (Sapienza Università di Roma)
HIGHLIGHTS
Comunicazione e memoria
Il ritorno delle Grandi narrazioni?
Silvia Leonzi (Sapienza Università di Roma)
La narrazione come luogo della memoria. L’estetica del ricordo tra visibile
e invisibile
Pierre Sorlin (Université Paris-Sorbonne Nouvelle)
La cripta
Antonio Cavicchia Scalamonti (Sapienza Università di Roma)
La memoria tra narrazione e conversazione
Giovanni Ciofalo (Sapienza Università di Roma)
Future matters for social theory?
Quale sociologia del futuro…
Giuliana Mandich (Università di Cagliari)
Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry
Barbara Adam (Cardiff University, UK)
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
Rob Stones (University of Essex, UK)
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
Carmen Leccardi (Università di Milano-Bicocca)
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del
discorso sociotecnico
Giuseppina Pellegrino (Università della Calabria)
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Saperi in visita. La memoria e il futuro.
Rivista Pic-Ais. Cultura e Comunicazione/Culture and Communication
N°1 – 2010. ISSN 2036-9700
Franca Faccioli
Presentazione
FOCUS
Making sense of “digital generation”
Relazione di David Buckingham (London University, UK)
Media, minori e Media Education
Presentazione di Gianna Cappello (Università degli Studi di Palermo)
RECENSIONI
Sul tema
Paolo Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d'Europa
di Giovanni Ciofalo (Sapienza Università di Roma)
Roberta Bartoletti, Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa
complessa per le cose del moderno
di Roberta Paltrinieri (Alma Mater Studiorum, Università di Bologna)
Su altri temi
Chris Anderson, Gratis
di Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini (Università di Verona)
Manuel Castells, Comunicazione e potere
di Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini (Università di Verona)
NEWS
Verso l’internazionalizzazione: il convegno “ESA – Lisbona 2009”
di Roberta Bartoletti (Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”)
“Culture and the Making of the Worlds”
di Anna Lisa Tota (Università degli Studi Roma Tre)
Segnalazione eventi in prossimità
PICALL FOR PAPERS
Per condividere riflessioni e integrare i temi della Rivista
COMITATO SCIENTIFICO
Franca Faccioli (Coordinatrice)
Roberta Bartoletti, Enrico Cheli, Giorgio Grossi, Giuliana Mandich,
Giuseppina Pellegrino, Bruno Sanguanini
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Saperi in visita. La memoria e il futuro.
Rivista Pic-Ais. Cultura e Comunicazione/Culture and Communication
N°1 – 2010. ISSN 2036-9700
Franca Faccioli
Presentazione
Presentazione
Franca Faccioli
(Sapienza Università di Roma)
A partire da questo numero, la Newsletter Cultura e comunicazione voluta dal Consiglio scientifico
del triennio 2005-2008, a cui va il ringraziamento
dell’attuale Consiglio, si presenta con una formula in parte rinnovata, nella prospettiva di valorizzarla ulteriormente quale spazio di riflessione e di
confronto per gli studiosi.
Tra gli aspetti di novità vi è la registrazione ISSN
che trasforma la Newsletter in una Rivista on line
della Sezione Processi e Istituzioni Culturali, rispondendo appunto alla necessità di formalizzarne la presenza all’interno del dibattito scientifico
[1].
Altro elemento di innovazione è la diversa veste
grafica [2] pensata per rendere, anche visivamente, la rivista un luogo non solo accademico per il
dialogo tra studiosi ed esperti. A questo proposito, infatti, Cultura e comunicazione verrà inviata
anche ad associazioni ed enti che possono essere
interessati ai temi di volta in volta trattati.
All’interno dell’indice, infine, è stata inserita la
rubrica PiCall for paper che offre un’opportunità
di attivare un dialogo con i lettori, sollecitando
l’invio di testi che trattino gli stessi argomenti oggetto delle varie sezioni della rivista, al fine di
consentire un costante aggiornamento dei contenuti on-line. L’idea è quella di rendere la rivista
un testo aperto agli interessati che vogliano dialogare su approcci, temi, metodi, risultati di ricerca.
Questo numero propone diversi spunti di riflessione su memoria e futuro, due temi che si intrecciano sempre di più nella vita delle persone e
che assumono un ruolo centrale nella sociologia
contemporanea. La memoria come processo che
permette di trasferire il vissuto in racconti, il futuro come luogo di insicurezza ed incertezza: sono
due ambiti problematici della modernità.
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Franca Faccioli
Presentazione
Il tema della memoria viene affrontato in questa
sede da diverse prospettive di analisi: dalle grandi
narrazioni, alle memorie plurali, al racconto del
passato per progettare il futuro. Se l’esplosione
mediale può limitare la capacità di narrarsi e di
narrare in quanto la realtà viene rappresentata in
frammenti, una proliferazione delle memorie e
diventa difficile rivisitare i propri vissuti organizzandoli in narrazioni che ricostruiscano i nessi tra
passato e presente e immaginino il futuro, è possibile individuare nuovi percorsi in cui le memorie
producano una sorta di confronto e di dialogo su
valori sociali e civili condivisi?
Il tema del futuro viene presentato come una
cornice interpretativa entro cui collocare diversi
processi sociali. Sia che si parli di futuro radicato
nel presente che di futuro immaginato, si tratta di
ambiti problematici dell’ esperienza sempre più
segnata dalle dimensioni dell’incertezza e della
precarietà, ma anche dalla paura per minacce
presenti o indefinite e comunque percepite come
incombenti. Ricordando l’ammonimento di Adorno secondo cui compito principale del pensiero
critico non è conservare il passato ma realizzare
le sue speranze, è possibile immaginare un futuro
che dia una risposta alla domanda di Bauman di
trovare un equilibrio accettabile tra libertà e sicurezza? Forse, come suggerito dagli autori dei saggi che seguono, è proprio dalla dimensione
dell’incertezza che bisogna partire per delineare
la progettazione di un futuro fatto di pochi punti
fermi, di frammenti e di confini mobili. Un futuro,
però, possibile, in quanto continuamente riprogettabile in esperienze che vivono tra presente,
passato e futuro, affermando la capacità di credere e di aspirare ad un mondo migliore. I contributi presenti in questo numero di Cultura e comunicazione riprendono alcune relazioni presentate nel corso di due seminari internazionali, organizzati a Roma e a Cagliari intorno alla presenza
di alcuni visiting professor. Il primo, si è svolto
presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione
della Sapienza Università di Roma nel maggio del
2009 ed ha visto la partecipazione di Pierre Sorlin
e David Buckingham. Il secondo si è tenuto presso
la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di
Cagliari nell’ottobre del 2009 con la presenza di
Barbara Adam e di Rob Stones. Da qui il titolo di
questo numero: Saperi in visita.
Questo numero della Rivista PicAis è stato curato
da Giovanni Ciofalo, Silvia Leonzi (Facoltà di
Scienze della Comunicazione, Sapienza Università
di Roma) e Giuliana Mandich (Facoltà di Scienze
Politiche, Università di Cagliari).
[1] Per questo motivo, la numerazione riparte da 1
[2] Il progetto grafico e l’editing della Rivista sono stati
realizzati da Giada Fioravanti
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Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
COMUNICAZIONE
E MEMORIA
Il ritorno delle Grandi narrazioni?
Silvia Leonzi
(Sapienza Università di Roma)
La narrazione come luogo della memoria.
L’estetica del ricordo tra visibile e invisibile
Pierre Sorlin
(Université Paris-Sorbonne Nouvelle)
La cripta
Antonio Cavicchia Scalamonti
(Sapienza Università di Roma)
La memoria tra narrazione e conversazione
Giovanni Ciofalo
(Sapienza Università di Roma)
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Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
HIGHLIGHTS
Comunicazione e memoria
Il ritorno delle Grandi narrazioni?
Silvia Leonzi
(Sapienza Università di Roma)
Abstract
La memoria assume un ruolo determinante nella
costruzione e conservazione delle identità individuali e collettive, mettendo al riparo dagli errori e
dagli orrori legati alle forme di oblio del passato,
responsabili di un futuro incerto e inevitabilmente frammentario.
Questo ambito di studio inizia a diventare centrale a partire dalle riflessioni di Halbwachs fino
all’era dell’esplosione mediale, quando la proliferazione delle memorie rischia di produrre un collasso di senso, rendendo inutilizzabili per una
comunità i ricordi non inseriti in una narrazione
condivisa.
Le Grandi Narrazioni della modernità, così come
teorizzato da Lyotard, hanno lasciato il posto a un
arcipelago di micronarrazioni difficilmente ricomponibili in un quadro coerente. Se nella società
della comunicazione l’estetica del frammento ha
in molti casi sostituito i racconti collettivi, tuttavia, è possibile osservare oggi le tracce di una seconda oralità in grado di intrecciare le storie locali
con lo spirito del tempo.
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Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
Il tema della memoria costituisce un oggetto di
indagine fondamentale nell’ambito delle scienze
umane e della comunicazione, in quanto, come
sottolineano numerosi studi, tra cui quelli fondamentali di Pierre Sorlin, e in particolare, il suo
intervento riportato in queste stesse pagine, si
tratta di un oggetto che implica nel suo disvelamento narrativo la possibilità di attivare pratiche
di definizione e consolidamento delle identità individuali e collettive. Un concetto così centrale
che, rovesciando i termini del discorso, è proprio
a partire dall’assenza di memoria che si rischia un
progressivo indebolimento del legame sociale. La
problematicità connessa al carattere “narrativo”
della memoria, ovvero la traduzione di quel che è
stato in una forma trasmissibile, condivisa e accessibile ai membri di una comunità, intesa sia in
senso diacronico che sincronico, costituisce un
indispensabile elemento di riflessione per il dibattito scientifico.
L’obiettivo è quello di avviare una rilettura dei
profondi cambiamenti che hanno avuto come esito una crisi delle “Grandi narrazioni” destinata a
riconfigurare le motivazioni alle forme di coesione sociale e la loro interpretazione. In generale, e
principalmente nella prospettiva di una sua elaborazione teorica (Olick, Robbins, 1998), il concetto di memoria, in un senso più specifico, è stato spesso ricondotto alla sociologia della conoscenza (Swidler, Arditi 1994), mentre in una prospettiva più ampia è stato valutato nei termini di
una categoria fondativa delle società. Soprattutto
in questa ultima accezione, la memoria è stata
costantemente connessa a riti di natura commemorativa o, comunque, a pratiche finalizzate alla
costruzione di miti o di monumenti, attraverso
cui le società hanno tentato di delineare i propri
confini simbolici.
È possibile rilevare, tuttavia, come a partire dalla
letteratura proveniente da ambiti disciplinari differenti e prodotta su questo tema sin dall’inizio
del Novecento, uno dei nodi più significativi di tale discorso sia rappresentato dalla relazione che
si stabilisce tra il valore sociale della memoria e il
possibile ventaglio delle traduzioni individuali che
essa può assumere. Del resto, il tentativo di oltrepassare il senso di una delle dicotomie sociologicamente più rilevanti (Elias, 1990), vale a dire,
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quella che si concretizza nell’opposizione di sociale e individuale, può essere coerentemente traslato nei termini di un confronto tra vicende pubbliche (memoria collettiva) ed esperienza privata
(ricordo personale). Un percorso teorico messo a
punto dalla riflessione di Maurice Halbwachs
(1997), per il quale queste due dimensioni sono
necessariamente destinate a sovrapporsi, in
quanto è l’appartenenza al gruppo, nel presente,
a generare i ricordi del singolo. Prima dello studioso francese, i padri fondatori della sociologia,
Durkheim e Weber, non avevano attribuito alla
memoria un ruolo particolarmente determinante
nell’attivazione delle dinamiche di socialità, concentrando piuttosto la loro attenzione sulla categoria più generale della temporalità e sui rituali
commemorativi all’interno di contesti sociali ancora primitivi. In parte, la distanza concettuale
che separava la sociologia moderna dallo studio
della memoria come oggetto scientifico nasceva
sia da una prospettiva fondata su una concezione
dicotomica della realtà sociale che dalla specifica
convinzione che la società tendesse inevitabilmente a modellare valori, ruoli e relazioni a prescindere dalla tradizione e, pertanto, che sottraesse alla dimensione temporale del passato ogni
possibilità di influenzare e incidere sul presente
(Shils, 1981).
Halbwachs, allievo di Durkheim, elabora, a tale
proposito, un contributo fondamentale: il suo
merito consiste nell’estendere l’ambito di riflessione relativo alla memoria, andando oltre una
visione fortemente psicologica, centrata sulle
modalità di attivazione del ricordo individuale [1],
verso una consapevolezza generalizzata del grado
di socialità della memoria stessa, prodotta sempre all’interno di un percorso e di un processo
collettivo [2]. Dalla sua analisi, in parte ispirata
allo strutturalismo durkheimiano, emerge con
forza la natura sociale della memoria, in base a
cui il soggetto non può che coltivare i propri ricordi entro “quadri” simbolici ben definiti, almeno fino a quando queste mappe restano intatte e
sono legittimate da una condivisione di interessi
e sentimenti all’interno del gruppo che li condivide. Tale prospettiva, però, come osservano Sorlin
e Cavicchia Scalamonti nei loro interventi, si dimostra problematica nel momento in cui non è in
Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
grado di spiegare come e perché una determinata
memoria, o una versione di essa, tenda ad affermarsi in un particolare momento storico. In alcune circostanze, si può ipotizzare lo svolgersi di
una vera e propria “guerriglia dell’immaginario”,
non in termini di capitale simbolico, ma piuttosto
come conflitto giocato sul piano del riconoscimento e della strumentalizzazione di un determinato evento secondo differenti modelli e prospettive di analisi. L’interrogativo che Sorlin, in
particolare, si pone, riguarda la possibilità che
una data circostanza, non vissuta direttamente
dai membri di una comunità o da uno specifico
gruppo sociale, torni alla luce in un certo momento storico, innescando di fatto un potenziale rovesciamento del senso comune condiviso. A questo proposito, Sorlin parla dell’esistenza di una
“memoria senza ricordi”, concentrando la sua attenzione sulle modalità di “trasmissione” che entrano in gioco in queste circostanze, giungendo
alla conclusione che ciò che è assente o trascurato per decenni, se non per secoli, dalla memoria
collettiva, riesce, in determinate condizioni, a riemergere, trasformandosi in un elemento attuale
ed attualizzato.
Cavicchia Scalamonti, a sua volta, attraverso la
metafora della cripta, fa riferimento ad una
“memoria inconscia”, sottolineando che tanto più
una determinata memoria è inconsapevole tanto
più essa sarà efficace e duratura, pronta a riemergere anche dopo numerose generazioni.
Come si può notare, in queste diverse elaborazioni ciò che viene messo in gioco non riguarda
soltanto l’equilibrio sempre precario tra struttura
sociale e libertà individuale, ma anche il grado di
conflittualità implicito nelle pratiche di costruzione e trasmissione della memoria collettiva. Analizzeremo più avanti come tale aspetto sia divenuto scientificamente rilevante in una particolare
fase della storia del Novecento, anche alla luce di
un’ulteriore declinazione del concetto di memoria a opera di Assmann, per il quale il processo di
interiorizzazione messo in atto dai singoli attraverso le loro esperienze dirette, grazie a dinamiche di coordinazione e trasmissione, si trasforma
in una “memoria culturale” che conferisce identità al gruppo (Assmann, 2002). Si può ipotizzare
che il successo di una concezione di questo tipo
sia alla base della crescente attenzione, sviluppata a partire dalla seconda metà del Novecento e
soprattutto dagli anni ’60 in poi, nei confronti della memoria in generale, tanto in relazione al dibattito accademico, quanto nella percezione del
pubblico [3].
D’altra parte, secondo Kammen (1995), tale fortuna potrebbe invece essere motivata da una
crescita del multiculturalismo, rafforzata dal fallimento dei regimi comunisti, e da una più ampia
politica di vittimizzazione e di dolore collettivo
(Olick, Robbins, 1998), soprattutto rispetto a
quelle situazioni in cui gli eventi risultano inevitabilmente soggetti a forme di risemantizzazione
sociale. Chiaramente, tale processo è legato al
fatto che la memoria, pur differenziandosi e contrapponendosi alla storia per molti aspetti, al pari
di questa, è scritta dai vincitori, selezionata da coloro che riescono a imporre una versione particolare della narrazione, selezionando episodi e
momenti funzionali alla costruzione e al consolidamento di una identità collettiva di parte [4].
Nell’ambito delle riflessioni sul rapporto tra storia, memoria e potere assume un valore fondativo l’analisi archeologica compiuta da Foucault
(1967), non a caso uno dei più significativi autori
postmoderni, che ha senza dubbio contribuito a
fornire un sostegno filosofico al processo di desacralizzazione delle tradizioni, non più da considerare come un oggetto pacifico, in quanto appartenenti al passato, ma invece come un territorio
endemicamente conflittuale, risultato di una costante guerra dei sogni, un processo di riscrittura,
e di progressiva riattualizzazione del passato. Al
superamento dello studio della storia e della
memoria nei termini di mere pratiche commemorative ha senza dubbio apportato un apporto significativo anche il lavoro di storici come Aries
(1989) e Agulhon (1979), orientato a considerare i
meccanismi di potere politico e capace di produrre uno slittamento dell’interesse storiografico dal
terreno dell’ideologia a quello dell’immaginario,
dal problema del significato a quello della possibile manipolazione. Allo stesso modo, appare determinante, seppure declinata sulla base di altre
coordinate interpretative, la poderosa ricerca di
Pierre Bourdieu (1983), che concentrandosi più
che sullo studio delle strutture sociali e dei siste8
Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
mi normativi, sull’analisi delle pratiche quotidiane, amplia la definizione funzionalista della cultura come norma, valore, atteggiamento, a un’idea
di cultura come dimensione simbolica costitutiva
di tutti i processi sociali (Crane, 2005).
La breve riflessione fin qui condotta evidenzia
come l’attenzione nei confronti della memoria sia
anzitutto un’attenzione nei confronti delle pratiche e, in secondo luogo delle strategie e delle
tecniche ad essa connesse. Vale a dire che non è
possibile svincolare l’analisi culturale di questo
oggetto da un’indagine focalizzata sull’evoluzione
della technè, e quindi delle modalità di registrazione, archiviazione e trasmissione del passato,
sia esso pubblico o privato. In questo senso, tra
coloro che hanno tentato una ricostruzione storica significativa e più attenta allo sviluppo tecnologico connesso alle pratiche sociali, possiamo ricordare il lavoro di Le Goff (1982), il quale individua cinque periodi storici fondamentali:
- una prima fase, in cui l’oralità si configura come
tratto determinante delle dinamiche identitarie
delle comunità umane, mentre la memoria costituisce ancora un elemento volatile e impreciso;
- una seconda fase, in cui si assiste alla transizione da una società caratterizzata dalla comunicazione orale ad una in cui la scrittura va ad integrare e non a sostituire i processi di trasmissione orale e iniziano ad affermarsi pratiche commemorative più consapevoli;
- una terza fase, caratterizzata dalla centralità anche culturale del Cristianesimo, che pone particolare enfasi su una concezione lineare del tempo e
della storia;
- una quarta fase, dominata dal Rinascimento e
poi dal Romanticismo, durante la quale la costruzione dello stato-nazione è affiancata da tentativi
di costruzione identitaria attraverso la realizzazione di archivi, biblioteche e musei;
- una quinta fase, in cui l’affermazione dei mezzi
di comunicazione elettronica conduce a modalità
innovative di archiviazione, trasmissione e “consumo” della memoria. In parte, tale transizione
storica è rintracciabile anche in opere provenienti
da differenti ambiti disciplinari, come nel caso del
lavoro condotto da Walter Ong (1986) sul rapporto tra memoria e tecnologia, il quale evidenzia
come lo sviluppo delle tecnologie elettroniche
9
abbia favorito l’affermazione di un’oralità di tipo
secondario, fenomeno culturale fondamentale
anche rispetto ai processi di costruzione e condivisione della memoria. Infatti, in una società caratterizzata dal presentismo dei mezzi di comunicazione il tema della memoria acquisisce funzioni
culturali in precedenza mai sperimentate, mentre
sulla scena sociale iniziano ad affacciarsi problematiche inedite: la costante produzione e archiviazione di eventi, immagini, informazioni che si
trasformano in pixel di memoria complicano in
alcuni casi la possibilità o la capacità di accedere
a tali dati (Ferrarotti, 2003), mentre, d’altra parte,
una maggiore attività del pubblico nel costruire
simbolicamente e in modo frammentario la realtà
quotidiana (Jenkins, 2006) apre le porte
all’affermazione di una “memoria 2.0”, che va a
implementare le prime cinque fasi identificate da
Le Goff.
Ritengo che tale fase, ancora in divenire, non
possa essere esclusivamente considerata il portato “naturale” di una determinata evoluzione tecnologica, ma rappresenti anche l’esito culturale e
sociale dell’attuale civiltà della comunicazione, in
cui, parafrasando Benjamin, l’aura che avvolgeva
la memoria, o un certo tipo di memoria, fino alla
prima metà degli anni ’90, tende in parte a dissolversi, lasciando spazio a una mappa articolata
e complessa di memorie.
In questo senso, ci appare quanto mai utile il lavoro di attualizzazione che riguarda gli “eventi
mediali” (Dayan, Katz, 1992) svolto più recentemente da Katz e Liebes (2007), i quali hanno definito in modo dettagliato la stretta interdipendenza tra variabili intervenienti di tipo sociale (la corrosione dell’autorità politica, in particolare) e gli
sviluppi di natura tecnologica (ad esempio,
l’ubiquità del mezzo televisivo). Gli eventi cerimoniali di tipo mediale hanno avuto una vasta
eco “pubblica” almeno fino all’inizio degli anni
’80, grazie all’accordo generalizzato tra politica,
media e pubblico; alla presenza determinante di
una tecnologia di tipo broadcasting; e alla particolare attrazione rappresentata da “grandi narrazioni collettive”, in grado di unificare, anche solo
per un brevissimo periodo, una data comunità o
l’umanità intera, come nel caso del primo uomo
Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
sbarcato sulla luna nel 1969, producendo memoria condivisa.
Ai “grandi eventi mediali” si affianca la costruzione di una “grande memoria collettiva”, che soprattutto a partire dalla fine degli anni ’50 prende
forma sulle rovine della Seconda Guerra mondiale e intorno alla tragedia dell’Olocausto. Si tratta
di un racconto che tende ad assumere i contorni
di un immaginario specifico all’interno dei differenti contesti nazionali in cui viene elaborato; tuttavia, la televisione (anche attraverso l’utilizzo di
materiale documentario) e il cinema sono stati in
grado di attivare, attraverso la peculiarità dei rispettivi linguaggi, una vera e propria retorica
“salvifica” della memoria.
In questi casi, i contenuti mediali, pur all’interno
dei quadri sociali nazionali e modellandosi sulle
specificità dei casi nazionali, hanno contribuito
alla realizzazione di un discorso e di un’aura condivisa intorno alla memoria. Negli ultimi decenni,
tuttavia, la pervasività dei mezzi di comunicazione e l’affermazione di fenomeni corrosivi
dell’autorità, politica e simbolica, accompagnati
da forme inedite di cinismo e disincanto del pubblico, causate dalle pratiche di disvelamento dei
segreti di retroscena di molti uomini pubblici
(Meyrowitz, 1993), hanno contribuito alla perdita
dell’aura degli eventi mediali.
Anche il discorso sulla memoria è stato coinvolto
nel cambiamento di questo scenario, mostrando
un livello di complessificazione ben più accentuato rispetto al passato. In questo ambito si inserisce, a mio giudizio, la problematica connessa al
rapporto tra narrazione e memoria. Sorlin, nel
suo intervento, analizza i processi comunicativi in
grado di determinare una trasformazione narrativa dell’accaduto. Il riferimento ai sopravvissuti
dell’Olocausto mette in evidenza come la dimensione del presente, in cui l’individuo si trova immerso, risulti per sua natura confusa, complessa
e inestricabile, e come dunque la ricerca di un
senso possa rivelarsi un’impresa difficile, sia dal
punto di vista individuale che collettivo. Pertanto,
nella maggior parte dei casi, si può osservare come la traduzione in forma narrativa, ovvero secondo una logica sequenziale e compiuta, il vissuto quotidiano, significhi inevitabilmente “tradire”
la realtà; tuttavia, in questa traduzione risiede
l’unico senso possibile di una narrazione e di una
memoria condivise e della Storia intesa come disciplina, nonostante le differenze costitutive esistenti tra queste dimensioni.
Lyotard, nel suo fortunato libro sulla condizione
postmoderna (1981), individuava proprio nella
fine delle Grandi Narrazioni uno dei fattori decisivi della fine della Modernità. Allora, sembrava
che l’avvento di una nuova epoca, identificata peraltro soltanto attraverso il suffisso post, fosse un
dato condivisibile, anche se per alcuni studiosi
l’era in questione non appariva segnata da una
decisa discontinuità con il passato, ma coincideva
piuttosto con il passaggio a una fase di radicalizzazione della modernità.
A partire dalle riflessioni di Lyotard, nell’ultimo
trentennio, la retorica postmoderna ha costretto
le scienze sociali a interrogarsi su questa ipotesi
discontinuista della storia e della cultura occidentale, fondata sull’idea di un radicale cambio di paradigma, alimentando un dibattito ancora attuale. D’altra parte, è difficile negare che dinamiche
quali l’avvento del pensiero debole in filosofia, la
messa in discussione delle regole dei giochi della
scienza, la crisi delle ideologie, la riscoperta del
barocco nelle espressioni artistiche, la perdita di
fiducia nei saperi esperti, e più in generale la rivoluzione del sapere in un mondo globalizzato in cui
la principale ricchezza è costituita dalla conoscenza, abbiano tracciato le principali coordinate di
una realtà sempre più incerta e indecidibile, ma
anche più aperta e potenzialmente ricca di possibilità. Nella prospettiva del filosofo francese un
fattore centrale di questo cambiamento è costituito dalla fine delle Grandi Narrazioni, che coincide
con la sopraggiunta impossibilità di concepire
l’evoluzione storica come uno svolgimento unitario e dotato di senso. Questi racconti si proponevano di offrire un’interpretazione coerente del
destino dell’umanità, non cercavano una legittimazione in un mito fondativo originario ma piuttosto in un progetto da realizzare nel futuro, come nel caso del cristianesimo o del marxismo.
La “crisi della modernità” dunque coincide con il
dissolversi di queste trame universali e con la
creazione di una miriade di piccole narrazioni, locali e situate, parziali e circoscritte. Nel contempo, la perdita di centralità del soggetto si lega alla
10
Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
dolorosa consapevolezza di vivere in un multiverso, in cui le molte storie, rese visibili anche grazie
ai media, disegnano l’affresco di un’umanità contingente, che può emanciparsi soltanto attraverso
la coscienza della parzialità del proprio orizzonte.
Nel passaggio verso una nuova configurazione
globale, in cui la distribuzione della conoscenza
acquista un valore fondativo per la costruzione
delle identità e per gli equilibri di potere tra attori
sociali, Stati e istituzioni la rassicurante percezione della linearità dell’evoluzione storica è stata
sostituita da percorsi biografici all’insegna della
provvisorietà e dell’incertezza, sia sul piano individuale che collettivo.
Le dinamiche di disaggregazione sociale e culturale che hanno segnato il passaggio da una visione
del mondo basata sulla ricerca di sintesi ideologiche, in funzione del controllo della realtà, a una
percezione sorta spontaneamente sulla frammentazione della realtà e del sapere, nell’ottica di
una riduzione dell’esperienza alla dimensione del
quotidiano, hanno contribuito a una forte valorizzazione della dimensione estetica, o a quella che
Maffesoli definisce etica dell’estetica (Maffesoli,
1993).
Per un periodo di almeno due decenni dalla pubblicazione del testo di Lyotard, la consapevolezza
della messa in discussione delle categorie fondative della modernità ha segnato gran parte della
produzione culturale dell’Occidente, anche se il
racconto della crisi era iniziato molto tempo prima ed è rintracciabile nella produzione letteraria
del Novecento, nell’arte espressionista, nel teatro
dell’assurdo, nella nascita della psicanalisi.
Che si tratti di un cambio radicale o di una lunga
metamorfosi, il dato certo è che i mezzi di comunicazione hanno avuto un ruolo fondamentale nel
fornire visibilità ai mutamenti in atto. Attraverso
la moltiplicazione delle immagini e dei discorsi e
la loro contaminazione i media hanno contribuito
a creare non tanto una società trasparente quanto piuttosto una vera e propria “fabulazione” del
mondo, profetizzata da Nietzsche, destinata a
svelare il carattere plurale dei racconti, offrendo
loro una nuova legittimità. Una conseguenza evidente della proliferazione di racconti e di prospettive è sicuramente rappresentata da un accrescimento del livello di complessità e articola11
zione della realtà, a cui non sempre corrispondono adeguate strategie di rappresentazione e archiviazione dell’esperienza.
Infatti, se da un lato l’evoluzione tecnologica consente di estendere a dismisura le possibilità di registrare e conservare immagini e testi, eventi
pubblici e privati, dall’altro si devono anche rilevare difficoltà di accesso, basate su gap culturali,
ma anche su scelte “politiche” di formazione e
socializzazione, agli archivi di una memoria sempre più dilatata e pertanto più soggetta a inevitabili dinamiche di selezione, valorizzazione, cancellazione e oblio.
In uno scenario caratterizzato da forme di parcellizzazione del sapere e dall’ideologia del presentismo diventa importante allora riflettere sul modo
in cui la memoria può, o in alcune circostanze deve, trasformarsi in racconto, lasciando tracce comunicabili, favorendo un lavoro di interpretazione in grado di produrre significati condivisi, costruendo relazioni che vanno al di là della contingenza: appare determinante chiedersi se e come
la memoria, attualizzata, possa diventare un oggetto culturale condiviso (Griswold, 2005).
Nell’alveo di queste trasformazioni, suggestioni
più generali si sono innestate su culture nazionali
profondamente diverse, assumendo caratteristiche specifiche. Soffermandoci, ad esempio, sulle
vicende culturali che riguardano il nostro paese,
un primo dato che emerge da queste riflessioni
riguarda il modo in cui l’affermazione del pensiero debole (Vattimo, 1989) in filosofia ha spesso
prodotto come riflesso più evidente, in particolare sul versante letterario e cinematografico, la
tendenza a concepire racconti “incompiuti”, basati su una comprensione parziale e intimistica
delle esperienze di vita dei soggetti descritti. Nello svolgersi di trame parziali, frammentarie, anguste, si è spesso abdicato all’aspirazione, presente in altre fasi della nostra produzione culturale, a raccontare la realtà assumendo una prospettiva corale, in grado di riflettere, e in alcuni casi,
anticipare processi di cambiamento destinati comunque a coinvolgere un’intera nazione.
Il caso italiano, da questo punto di vista, costituisce un esempio culturalmente problematico, rispetto al quale la difficoltà della classe dirigente e
delle élites intellettuali di suggerire e facilitare la
Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
costruzione di un immaginario condiviso, e la forza di altri protagonisti (la Chiesa, i partiti, i sindacati) nel costruire narrazioni di parte ha prodotto
una memoria collettiva labile e lacerata, soggetta
di continuo a forme, neppure troppo latenti, di
conflittualità o di oblio (Crainz, 2003).
Questa scarsa propensione a produrre narrazioni
in grado di oltrepassare la soglia della dimensione
privata ha rappresentato per un lungo periodo, al
di là di alcune eccezioni, una tendenza piuttosto
accentuata della nostra industria culturale.
Partendo da questo assunto, che non pretende di
restituire la completezza del panorama di
un’offerta comunque articolata, ma solo di rintracciare alcuni trend significativi, la domanda
contenuta nel titolo, nasce dall’osservazione di
una controtendenza relativamente recente e certamente circoscritta ad alcuni fenomeni culturali,
che ha iniziato a manifestarsi in Italia a metà degli
anni Novanta.
Si tratta dunque di riflettere su alcuni segnali che
possono essere interpretati come il tentativo di
volgersi verso la realtà, presente e passata, con
un nuovo sguardo più ampio. A partire da questi
anni, infatti, le pratiche narrative, che del resto
rappresentano una delle strategie di riduzione
della complessità più efficaci e durature della storia dell’umanità, sembrano aver acquisito una valenza centrale, contaminando differenti ambiti
della conoscenza, dalla scienza, alla medicina,
all’informazione, soltanto per fare qualche esempio. L’estetica del frammento e del citazionismo
(Calabrese, 1987), che aveva caratterizzato la
precedente produzione culturale, cede il passo,
per alcuni limitati tratti, a un rinnovato sforzo di
rappresentazione della totalità, intesa però non
più nei termini assolutistici e ideologici che alimentavano le Grandi Narrazioni, ma piuttosto
come sfida, continuamente attualizzata, alla parzialità dello sguardo sulla realtà, come aspirazione a ricomporre ambiti separati, a riavvicinare identità e complessità.
È proprio alla confluenza tra frammentazione della realtà e bisogno di ricomposizione del flusso
delle esperienze all’interno di un bacino collettivo, che la memoria, intesa sia come territorio
condiviso che come spazio del conflitto, assume
nuove valenze. La volontà di raccontare il mondo
nuovo, paradossalmente, ha ricevuto una spinta
importante proprio dallo studio di questo oggetto
scientifico e dalla creazione di prodotti culturali
centrati sul racconto della storia e della memoria.
Tornando ancora una volta al nostro paese, la
consapevolezza delle difficoltà che nel passato
avevano indotto a un sostanziale ripiegamento
del racconto della realtà sul presente e sulla sfera
intima del soggetto, ha coinciso con un’ operazione di scavo e narrazione nuovamente centrata
su eventi e processi di tipo collettivo. In particolare, la diffusione, nell’ultimo decennio, di una corrente letteraria accomunata dalla scelta di temi,
di stili, di riferimenti storici, ma soprattutto da
“uno sguardo morale” sul mondo, che, intrecciando memoria e narrazione, ha dato origine a
nuova generazione di scrittori, da Giuseppe Genna, a Carlo Lucarelli, a Massimo Carlotto, a Giancarlo De Cataldo, solo per citarne alcuni, che collocano al centro dei loro racconti vicende e personaggi che hanno avuto un ruolo decisivo negli
ultimi decenni della nostra storia. Se molti di questi testi nascono da una contaminazione di generi, da un’ibridazione di informazione e fiction, di
reale e immaginario, è piuttosto evidente la volontà degli autori di assumere una prospettiva etica distante dal cinismo postmoderno, con
l’intento di proporre una visione collettiva e aperta su alcune zone oscure del nostro passato. Creando intrecci significativi tra le vite di uomini e
donne comuni e i grandi eventi e le tragedie rimosse di un’Italia che ha da sempre coltivato un
cattivo rapporto con la propria identità collettiva,
nazionale e civile, questi scrittori riescono a far
dialogare storia e memoria, attraverso racconti
che spesso rivestono un carattere corale, presentando pur nella loro peculiarità alcuni dei tratti
delle “Opere mondo” (Moretti, 1994).
A queste narrazioni letterarie corrisponde, sul
versante audiovisivo, una produzione speculare
in cui, al di là delle differenze legate al genere o
allo stile, si può riconoscere un forte richiamo al
cinema di denuncia. In alcuni casi, come ad esempio per “Gomorra” o “Romanzo Criminale”,
affrontati in parte nell’intervento di Ciofalo, si
tratta di trasposizioni cinematografiche di testi
quasi naturalmente transmediali (Giovagnoli,
2009), come a voler sottolineare la vocazione
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Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
condivisa di uno sguardo nuovo sui contenuti, al
di là dei mezzi e delle piattaforme mediali utilizzate. Infine, un’analoga sensibilità nei confronti
del tema della memoria si afferma con grande efficacia in una forma espressiva relativamente recente, sebbene ispirata alle orazioni del teatro
classico, rappresentata dal teatro civile o teatro
della memoria, che attraverso le performance di
attori-autori come Marco Paolini, Ascanio Celestini e Moni Ovadia mette in scena il racconto di
eventi controversi, in cui spesso il presente e il
passato risultano legati inestricabilmente.
I caratteri comuni di queste differenti narrazioni
sono rintracciabili in molteplici elementi: la volontà di far riaffiorare momenti oscuri della nostra storia; la condivisione di un sentimento comune orientato alla valorizzazione dello spirito
civile; la presenza di una nuova fiducia nella forza
della parola, l’ibridazione di generi e stili narrativi,
e di fiction e non fiction. In sostanza, ciò che emerge con una certa evidenza da questi aspetti
brevemente illustrati è la volontà di attribuire un
differente valore a una memoria orale e condivisa, rifiutando in modo esplicito il minimalismo intimista, la frammentarietà, il cinismo e il distacco,
che, come abbiamo avuto modo di rilevare, rappresentavano alcuni tra i tratti più salienti della
cultura postmoderna. Questo “nuovo paradigma
culturale” apre la strada a una diversa concezione
della memoria, che pur abbandonando le pretese
teleologiche delle Grandi Narrazioni, intende
proporsi non soltanto come mera descrizione di
ciò che è trascorso, ma anche come racconto del
passato per progettare il futuro.
Certamente, riferendosi alla domanda contenuta
nel titolo di questo contributo, allora, non si può
ipotizzare una riproposizione effettiva delle
Grandi Narrazioni del passato e, soprattutto, la
riattivazione della loro forza universalistica nella
costruzione di interpretazioni del significato ultimo del destino umano. Detto questo, tuttavia,
non si può trascurare il fatto che una nuova aspirazione a narrazioni significative, in merito alle
quali mi sono limitata a prendere in esame soltanto l’esempio del nostro paese, coinvolge da
qualche tempo creatori, fruitori, contesto e oggetti culturali. Si tratta di racconti che attraversano spazi e tempi differenti, che non solo (o forse
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solo in parte) permettono di formulare ipotesi interpretative in merito a quel che è stato, ma soprattutto consentono di ridefinire il senso culturale e sociale di quel che è.
In conclusione, e anche rispetto ai diversi interventi che compongono questa sezione, si può sostenere che il rapporto tra memoria e narrazione,
nella società della seconda oralità, costituisce
un’importante forma di conversazione sociale e
civile in cui le colpevoli dimenticanze condivise
nel passato possono riaffiorare nel presente attraverso nuove modalità di racconto.
Non si tratta dunque di un ritorno delle Grandi
Narrazioni della modernità, ma certamente della
messa a punto di nuove strategie culturali e di
specifici prodotti capaci di ricordarci che «il sonno della memoria genera mostri».
Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
NOTE
[1] A questo proposito, è interessante rilevare come Halbwachs rifiuti decisamente l’approccio freudiano,
che invece tende a rappresentare l’inconscio in termini di chiusura e repressione.
[2] E’ sicuramente più utile, rispetto agli obiettivi della nostra riflessione, l’ottica junghiana, che concepisce
l’inconscio come un substrato attivo e produttivo, nel quale l’immaginario archetipico dell’essere umano si
cristallizza e al tempo stesso si riproduce. Tale analisi richiama l’idea di una memoria più di tipo antropologico.
[3] Ovviamente il nostro discorso può essere applicato esclusivamente al contesto occidentale.
[4] A tale proposito, Schwartz (1996) individua a partire dagli anni ’60-’70, nell’approccio dei multiculturalisti, dei postmodernisti e dei teorici dell’egemonia, una base fondamentale per una evidente rottura culturale nei confronti delle precedenti concezioni teoriche. Nel caso della prima di queste correnti si tratta di
considerare la storiografia una fonte di dominio culturale; nel secondo emerge una critica alla linearità dei
processi di costruzione identitaria della società occidentale; per quanto riguarda infine le teorie
dell’egemonia, l’attenzione si concentra sulla memoria popolare e sulle strategie di strumentalizzazione del
passato (Olick, Robbins 1998).
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Silvia Leonzi
Il ritorno delle Grandi narrazioni
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Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
HIGHLIGHTS
Comunicazione e memoria
La narrazione come luogo della
memoria. L’estetica del ricordo
tra visibile e invisibile
Pierre Sorlin
(Universitè Paris-Sorbonne Nouvelle)
Abstract
L’ipotesi secondo cui la narrazione costituisce il
luogo della memoria, attiene non solo al legame
che tiene insieme i ricordi individuali e la memoria storica, ma soprattutto alla funzione della
memoria come strumento di costruzione
dell’identità di una comunità, nel suo costituirsi
come narrazione utile a comprendere ad affrontare il presente. Generalmente, i ricordi sono
strutturati in conformità ai modi di pensare del
gruppo di riferimento; nonostante ciò esiste una
distanza che separa le molteplici versioni dei ricordi individuali, maturati dall’esperienza del singolo, dal quadro sociale attraverso cui si ricorda
un evento. In questo senso, quando ci troviamo
in presenza di momenti conflittuali è possibile
una compresenza di memorie antitetiche che, pur
facendo riferimento al medesimo avvenimento o
personaggio, si declinano in interpretazioni differenti, con l’obiettivo di conferire significato al
presente. Il ripiegamento verso il passato si concretizza, altre volte, nella costruzione di una
“nuova” memoria, una narrazione non tanto basata su eventi realmente accaduti, ma piuttosto
rimodellata collettivamente e condivisa da tutti i
membri della comunità, in grado di conferire significato al presente.
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Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
La nostra memoria è una facoltà individuale, l'esperienza vivente di un soggetto nella sua relazione con le tracce del suo passato. Le impronte
mnesiche non sono degli oggetti rigidi, si presentano sotto la forma d'impressioni, di ricordi che
l'individuo, dopo averli richiamati alla mente e
strutturati, trasforma in narrazione. Versione organizzata di sensazioni diffuse, il racconto permette di evocare certi momenti vissuti prima di
tutto per se stesso, nel flusso della vita quotidiana e anche, secondariamente, per gli altri. Singolare, l'attività memoriale è profondamente inserita nell'ambito sociale della persona. I bambini,
prima di essere consci di loro stessi, assimilano
una maniera di comportarsi nel rapporto con gli
adulti e con il mondo, che in seguito metteranno
in pratica. Poi, man mano che crescono, si integrano all’interno di vari gruppi di cui condividono
l'esperienza e di cui conservano un ricordo biografico, personale. Ogni collettività ridotta: famiglia, scuola, azienda, associazione, genera, a partire da eventi più o meno importanti, un racconto
interno che conferma la stabilità della comunità e
segna l'appartenenza di ciascuno dei singoli
membri all'insieme. Si tratta di un processo semplice, che conferma l’idea della memoria come
rielaborazione narrativa del vissuto.
Un caso meno chiaro, e che pone un problema, è
quello di una memoria senza ricordi. In una comunità aperta, un’organizzazione, una città, una
provincia, un intero paese, i cui membri non si
conoscono, si fa frequentemente riferimento a
eventi che nessuno ha vissuto ma che tutti hanno
in mente. L'attualizzazione è individuale e si produce all'interno della coscienza singola d'ogni
partecipante, ma i vari pensieri confluiscono su
un oggetto a partire dal quale s'instaura una comunicazione, che in una certa misura genera un
racconto comune e crea un'interazione tra gli individui. Concretamente, quando, nel 2008, importanti istituzioni finanziarie crollarono, si fece
immediatamente allusione al "venerdì nero" del
1929 e alle sue conseguenze, si evocarono le file
di disoccupati e le mense dei poveri che nessuno
di coloro che vivono oggi aveva mai visto con i
propri occhi. La conoscenza di tali fatti non è in sé
un problema: film, fotografie, romanzi ne conser17
vano le tracce; la questione è comprendere come
sia possibile che un mondo scomparso riemerga
molto tempo dopo come se fosse attuale e familiare anche per coloro che non l'hanno conosciuto. In altri termini, si tratta di capire come l'assente, l'invisibile, ciò che non abbiamo mai sperimentato possa divenire il fondamento di un'emozione condivisa, sia che questa irrompa
all’interno di un situazione di intesa tra i partecipanti che in una situazione di conflitto. Come
s'inventa una memoria generale e astratta di cui
ognuno si appropria personalmente? Sulla scia di
Maurice Halbwachs si parla correntemente della
“memoria collettiva” [1]. Questa espressione, utilizzata in modo impreciso, come se si trattasse di
una realtà indiscutibile, è dannosa perché suggerisce che una collettività, raggruppamento aleatorio di individui, possa avere una “memoria”, vale a dire un pensiero. Halbwachs, nei suoi libri,
definisce in modo chiaro l'oggetto e i limiti della
sua ricerca. Spiega come all’interno di gruppi circoscritti, i cui membri condividono un progetto
comune, gli scambi costanti d'impressioni e di ricordi creino un patrimonio mentale comune, che
costituisce una sorta di “memoria”. E, quando
parla dei “quadri sociali della memoria”, Halbwachs intende mostrare che i nostri ricordi si
formano nell'ambito di una società particolare. Il
primo “quadro” è rappresentato dal linguaggio,
che permette certe manifestazioni della memoria
e ne impedisce altre; ulteriori quadri sono le leggi
e le regole, le tradizioni e le religioni. In sostanza,
noi tendiamo a ricordare in conformità con i modi
di pensare vigenti nei gruppi di cui facciamo parte. L'analisi del sociologo permette di contestualizzare la nostra maniera di registrare o di perdere
determinate informazioni - però non spiega perché, in un certo momento, possa affiorare il racconto di un episodio del passato.
Ricordi – memoria
Partendo dalla questione dell'oblio capiremo meglio la differenza tra la memoria individuale e la
memoria senza ricordi dei gruppi. L'individuo dimentica cose spiacevoli o inutili, l'oblio è, per lui,
Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
una difesa. Invece, in un gruppo, esistono fatti dei
quali non si parla mai, sebbene non siano stati
dimenticati e rimangono presenti, pronti a riapparire in momenti particolari, quale può essere
una situazione di conflitto.
Un esempio è costituito dalla collaborazione con i
nazisti durante la seconda guerra mondiale di alcune popolazioni presenti nei territori occupati, il
cui ricordo, generalmente taciuto, tuttavia non è
mai stato dimenticato. All'interno di questo quadro generale, i figli degli ex-collaborazionisti rappresentano un caso particolarmente emblematico in quanto vivono una doppia memoria. Essendo stati giovani durante la guerra, ne conservano
ricordi frammentari, imprecisi, non sufficienti per
riferire quello che hanno osservato. La comunità
nazionale nella quale sono cresciuti ha imposto,
dopo le ostilità, un “quadro” morale: la collaborazione con i nazisti era considerata un comportamento criminale. Quando la questione riemerge
nell’ambito di una discussione privata o di un dibattito pubblico, i figli degli ex-collaborazionisti
devono improvvisare un racconto in grado di giustificare l'azione dei padri o in alternativa, vergognarsi: i loro ricordi personali sono narrati
all’interno di un contesto che li espone alla condanna sociale.
L'esempio mette in evidenza la distanza che separa i ricordi personali dalla versione sociale di un
evento. Quest'ultima non è né un'addizione, né
un confronto tra ricordi individuali. Colui che ricorda elabora in modo solitario la sua conoscenza
intima dei fatti ma la sua maniera di narrarli si
modifica non appena tenta di comunicarli, poiché
deve passare attraverso il filtro del linguaggio. Citata come testimone al processo dei carcerieri di
Ravensbruck, Germaine Tillon, ex deportata, sottolinea questo elemento: «Per me fu la proiezione di un universo demenziale nell'irrealtà della
dimensione storica. Un aspetto di questa distanza
è l'opacità delle parole» [2] – e Primo Levi notava
che i sopravvissuti, quando sintetizzavano al massimo il loro vissuto, diventavano incomprensibili,
in modo tale che dovevano architettarne una versione comunicabile – e quindi necessariamente
lontana dalla violenza del ricordo: «l'esperienza di
noi reduci è peculiare. È un nostro fastidioso vez-
zo intervenire quando qualcuno parla di freddo,
di fame e di fatica. Che cosa ne sapete, voi? Avreste dovuto provare le nostre» [3].
Jacques Lanzman era consapevole di questa difficoltà quando inserì nel suo film Shoah (1985) le
rievocazioni esitanti di sopravvissuti o testimoni
dello sterminio, e pertanto non tentava di "arricchire" il racconto collettivo sulla strage degli Ebrei, bensì lasciava che essi dessero libero sfogo a
quello che chiamava “il dolore della parola”, ai
ricordi nascosti, repressi, che, nel film, sembrano
riaffiorare dal più profondo della persona e raramente sono narrati rispettando una logica sequenziale. Shoah non aggiunge niente alla “memoria” dello sterminio che ognuno di noi è in
grado di rievocare; infatti, Lanzman mostra che
una “storia” della tragedia, per necessaria che sia,
non ha niente in comune con le reminiscenze di
chi ha conosciuto i Lager. Primo Levi sosteneva di
ricordare con “precisione fotografica” i particolari
meno significativi della sua carcerazione: la forza
dei dettagli ostacolava la formulazione di una
narrazione unitaria e coerente. Lo scrittore era in
grado di raccontare l'arresto, il viaggio, la liberazione - ma non la vita nel campo e, dopo i primi
libri, rinunciò alla “cronaca retrospettiva” per
proporre una riflessione antropologica sull'universo concentrazionario.
La memoria condivisa, narrazione del passato
Germaine Tillon ha scritto tre versioni della sua
deportazione. Nella terza, riflette sul perché dei
testi precedenti. Nella prima, poco tempo dopo la
liberazione, aveva fornito «informazioni discontinue sommerse nella sfumatura del reale» mentre, nella terza, si impone di prendere in considerazione i documenti, le letture, le testimonianze
apparse progressivamente, ossia, i racconti, perché «d'ora in poi noi, ultimi testimoni, siamo assenti». In futuro, la memoria del Lager non si
fonderà sulla deposizione dei sopravvissuti, ma
sarà una memoria immaginaria, storica, senza ricordi, un mero racconto.
Le impressioni forti di chi ha vissuto una situazione disperata rimangono intatte nel ricordo, ma la
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Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
maniera di riportarle si adegua alla curiosità e alla
capacità di comprensione degli altri. I nuovi racconti non sono “falsi”, non modificano i particolari o le circostanze, ma si piegano alle usanze, allo
spirito di un'epoca che ha altri interessi. Una tale
labilità solleva molti interrogativi. Se il resoconto
dei fatti si distacca dal passato, per adattarsi al
presente (a diversi presenti, via via che passano
gli anni), si può ancora parlare di “memoria”? Sì,
visto che il soggetto ha memorizzato informazioni
che, oramai, ha a propria disposizione. Tuttavia,
si tratta di una memoria appresa come nel caso
delle tavole pitagoriche o della lista dei verbi irregolari, vale a dire di una conoscenza condivisa tra
i membri di una comunità e deprivata di ricordi.
Dunque, in che modo prende forma e si sviluppa
una rievocazione indiretta, comune a persone
che, non avendo partecipato agli eventi, ne hanno una visione imprecisa e ne parlano descrivendola a partire dalla loro realtà, dall'universo a cui
sono abituati? Studiando la classe operaia di Londra nei decenni che precedettero la Grande Guerra, Gareth Stedman Jones rimase sorpreso nel
constatare che le rivendicazioni quasi rivoluzionarie dell'epoca dell'Owenismo e del Cartismo, vecchie di mezzo secolo e ormai superate da molto
tempo, non erano state dimenticate. I lavoratori,
negli anni ’10 del Novecento, erano riformisti, accettavano il sistema a condizione di trarne qualche vantaggio – però nei momenti di crisi, come i
grandi scioperi, si raccontavano le lotte della prima metà dell'Ottocento; nella loro pratica si “sovrapponevano” due memorie: una immediata,
legata alle loro esigenze del momento, e una
“storica”, che conferiva una connotazione diversa, più radicale, a queste richieste [5].
A partire da informazioni e ricordi spesso trasmessi da parenti (nelle famiglie operaie inglesi, i
proverbi, i detti e soprattutto le canzoni rivoluzionarie si tramandavano di generazione in generazione) viene a concretizzarsi, in situazioni di
particolare turbamento, una narrazione elementare che modifica la percezione del presente.
A Praga, nel 1989, la popolazione liberata dal
dominio sovietico acclamava Thomas Masaryk, il
primo presidente della Repubblica, che era morto
cinquanta anni prima senza essere mai stato né
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un generale, né un liberatore. Il suo profilo non
aveva caratteri definiti, come si spiega dunque
tale situazione? Dopo quaranta anni di comunismo, il paese non aveva punti di riferimento e i
nomi che circolavano in città, come ad esempio
quello di Väclav Havel, per diversi motivi non riuscivano ad esprimerli, attraverso la loro figura;
questo politico non aveva avuto occasione di esprimersi e la gente non sapeva bene come inquadrarlo. Plaudere a Masaryk riportava la memoria dei praghesi alla fondazione di uno stato
indipendente e di una democrazia durata venti
anni, rispetto a cui il nome dello statista rappresentava una promessa di rifondazione, tracciando
una linea di continuità tra il fondatore e il nuovo
leader. Infatti Masaryk, nato in una Boemia sottomessa all'Austria, aveva contribuito ad affermare il carattere locale attraverso una ricostruzione storica puramente ideologica, che contrapponeva l'intelligenza, lo spirito critico e l'anticonformismo dei Cechi alla brutalità e all'autoritarismo degli Austriaci. Nel confrontare protestantesimo ceco e cattolicesimo austriaco, Masaryk non
aveva esitato a tracciare una linea continua che
da Giovanni Hus, precursore della riforma protestante, giustiziato nel 1415, arrivava fino al Novecento. Condannato da Roma, Hus fu invitato a
Costanza con l’inganno, dove, nonostante avesse
ottenuto un salvacondotto dall'imperatore, venne arrestato e bruciato. Per i cechi, negli anni Ottanta, tale caso evocava un’esperienza quotidiana, vale a dire le false promesse e le continue
vessazioni del regime comunista; tuttavia, i difficili ricordi individuali venivano trascesi attraverso
due nomi che, dotati di un valore emblematico,
simboleggiavano per tutti il dolore, la resistenza,
il desiderio di libertà. L'episodio mostra come, in
un momento critico, una comunità alla ricerca
della propria identità costruisce, a partire da informazioni eterogenee, una “memoria” storica
collettiva attraverso la quale può creare una narrazione utile ad affrontare il presente.
Il riemergere, nella Francia della seconda metà
dell’Ottocento, di una figura quasi dimenticata
come quella di Giovanna d'Arco, è paragonabile
al caso Hus/Masaryk. Per diversi secoli, la figura
di questa eroina era stata emarginata, dal mo-
Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
mento che sia la Chiesa, che l'aveva condannata,
sia la Monarchia, che l'aveva abbandonata quando fu catturata dagli Inglesi, avevano preferito
dimenticarla. Il Romanticismo la rappresentò come la personificazione del coraggio e della saggezza del popolo e tale immagine, di origine puramente letteraria, riuscì ad imporsi durante il disastroso conflitto del 1870 con la Prussia. Tornata
la pace, le due fazioni che lottavano per il potere,
monarchici e repubblicani, s'impossessarono
dell'icona e diffusero due memorie opposte: da
un lato, una Giovanna mandata da Dio per riportare il Re sul trono; dall'altro, una Giovanna salvatrice della patria, tradita da un clero venduto al
nemico. Dopo il trionfo definitivo della Repubblica, la memoria relativa a Giovanna d'Arco perse il
suo carattere polemico e si “storicizzò”.
La vicenda è doppiamente esemplare. Infatti, è
possibile osservare la ricomparsa di una personalità fino a quel momento secondaria, a partire da
una confusa analogia: come nella guerra dei
“cento anni” contro l'Inghilterra, la Francia contro
la Prussia si trovava in una situazione disperata e,
nonostante la situazione radicalmente diversa dei
due contesti storici, l'appello a Giovanna d'Arco
rappresentava un’evocazione tanto immaginaria
quanto inutile. Si può notare però che, in Boemia
come in Francia, tale azione si fondava sulla fama
di una personalità eccezionale, audace, morta
tragicamente [6], come se la memoria condivisa
avesse bisogno di un sacrificio iniziale. In Boemia
come in Francia, l'evocazione di un eroe possedeva un carattere ideologico, necessario a definire
una posizione politica. La disputa che seguì la disfatta della Francia trovò un'espressione simbolica attraverso due “memorie” antitetiche, edificate sulla base degli stessi documenti. In circostanze simili, segnate da un rivolgimento politico e da
una forte insicurezza riguardo al futuro, un richiamo al passato, necessariamente semplificato,
compensa l'assenza di un progetto. I giovani russi
che, dopo il crollo del “blocco sovietico”, chiesero
la revisione dei processi di Mosca, non avevano
vissuto gli anni neri dello stalinismo e non sapevano bene chi fossero Zinoviev o Boukharin. La
riabilitazione delle vittime era per loro un modo
di cancellare la mediocrità dell'ultimo decennio e,
tornando ad un'epoca anteriore, di delineare
nuove prospettive.
Nata nel conflitto, la memoria condivisa si afferma e si consolida in momenti meno tormentati.
Un altro esempio, utile rispetto ai termini del nostro discorso, è rappresentato dai ferrovieri in
Francia, i quali costituiscono un corpo professionale numeroso ma molto coeso, grazie, in particolare, ad una “narrazione memoriale” diffusa da
una rivista, da seminari, mostre e collezioni. Il
corpo ferroviere è attivamente militante e si mobilita continuamente contro il rischio di incidenti,
con l’obiettivo di migliorare il servizio. I nuovi arrivati apprendono una storia edificante di successi e, anche se sono nati negli anni ’70, possono
affermare con orgoglio di essere stati loro, nel
1954, ad aver conquistato il primato mondiale di
velocità. Un elemento fondamentale di questa
memoria è costituito dalla resistenza al Nazismo
rispetto alla quale i ferrovieri hanno avuto un
ruolo importantissimo, a tal punto che, in diverse
stazioni, un monumento ricorda gli agenti fucilati
dal nemico. Tuttavia, nell'ultimo decennio del
Novecento i nipoti di alcuni ebrei morti nei campi
di concentramento hanno contestato questa
“versione” del passato. Dal loro punto di vista, i
tedeschi non avevano a disposizione né il personale né il materiale necessario per deportare migliaia di persone, e quindi sarebbero stati i francesi a svolgere questo compito. La “memoria”
ferroviaria non ignorava la deportazione degli ebrei, anzi la compiangeva sinceramente, attribuendone la responsabilità ai soli nazisti. Pochi
vedevano la relazione tra l'oppressione tedesca,
vissuta quotidianamente nelle stazioni, nei depositi, sui treni, e lo sterminio programmato di una
minoranza "razziale". A quel tempo, era stato necessario far fronte agli eventi nel momento in cui
essi accadevano, senza la possibilità di mantenere
il distacco indispensabile, e i ricordi eroici dei resistenti avevano costruito la memoria delle generazioni successive.
Qual era il significato di un'offensiva contro un'istituzione i cui membri, nel 2000, erano tutti nati
dopo la guerra? Perché tornare su un passato conosciuto indirettamente e non vissuto in prima
persona? L'intervento dei giovani ebrei non era
20
Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
né aleatorio, né inutile, in realtà essi volevano riappropriarsi del destino dei propri avi, facendo
capire che una memoria generale, semplificatrice,
che attribuiva tutta la colpa ad una “meccanica
anonima”, ignorava le responsabilità individuali. Il
Presidente della Repubblica aveva solennemente
riconosciuto la partecipazione dello Stato francese alla deportazione ma, al di là delle istituzioni,
chi concretamente aveva fatto cosa? L'obiettivo
dei giovani ebrei non era tanto quello di attribuire la responsabilità ai ferrovieri, quanto di affiancare, a una narrazione trionfalistica, gli episodi di
una pagina nera della storia.
Tuttavia, neppure un'esperienza così problematica è sufficiente a generare una narrazione condivisa del passato. Durante la guerra d'Algeria, la
Francia costituì un reparto di suppletivi, gli Harkis, incaricati di controllare la popolazione nelle
zone occupate. Quando Parigi riconobbe l'indipendenza del Paese, una parte degli Harkis, con
loro famiglie, furono trasportati in Francia e sistemati in quartieri a loro destinati. Vivendo insieme e a confronto con una popolazione locale
diffidente, essi formarono un gruppo molto unito
ma ripiegato in se stesso e, a differenza di altri
immigrati, non edificarono una memoria in grado
di definire la loro identità in relazione alle difficoltà che avevano dovuto affrontare. Generalmente,
gli immigrati, dopo aver lasciato una patria nella
quale non riescono a vivere, ricreano una memoria nostalgica, felice, quasi incantata, del territorio perduto, oppure, meno frequentemente, sopravvalutano il luogo dove si sono sistemati. Gli
Harkis non potevano né ricordare positivamente
un'Algeria che li considerava traditori, né esaltare
una Francia che non voleva saperne di loro [7].
Una memoria condivisa non si afferma e non si
trasforma in un racconto positivo se non esistono
fatti illustri, gloriosi (gli eroi o i “grandi” eventi
funzionano in questo modo), da cui partire, e se
non si manifesta, tra i membri del gruppo, un implicito accordo per rendere tali esempi un'arma
ideologica, una giustificazione di fronte all'avversario.
La memoria condivisa soddisfa una funzione essenzialmente politica – se utilizziamo il termine
“politico” nel senso più esteso di comportamento
21
destinato a raggiungere un determinato fine.
Strumento d'identificazione in una entità sociale
e di contrapposizione verso altre entità, esso crea
una solidarietà attraverso una serie di riferimenti
comuni che non hanno bisogno di verifica, che
cambiano col passare del tempo e che, però, associati e continuamente ripetuti, delineano una
narrazione fortemente positiva. Questa può essere individuata in circostanze precise e particolarmente critiche, e, al tempo stesso, rintracciata a
molteplici livelli dello Stato, della scuola, della
famiglia, del lavoro, soprattutto nelle professioni
legate alle ferrovie, all'esercito, ai pompieri e anche nelle squadre sportive, i circoli, i club. In tutti
questi casi, intervengono l'iniziazione da parte del
gruppo e l'accettazione del nuovo membro. Così,
ad esempio, un giovane ferroviere desidera conoscere il passato dell'impresa per integrarsi; al
contrario, i figli degli immigrati, specialmente
quando vivono isolati in quartieri periferici, si rifiutano di apprendere la memoria del Paese in cui
vivono: sapendo che la loro “integrazione” è praticamente impossibile, respingono il simbolo di
un'assimilazione negata alla loro famiglia.
Memoria condivisa e iniziativa personale
Finora abbiamo insistito sulle differenze fondamentali tra ricordo individuale e memoria collettiva. E’ necessario ora riflettere sulla relazione
che si stabilisce tra i due fenomeni, apparentemente estranei tra loro, dal momento che il primo è puramente mentale, mentre il secondo è
essenzialmente sociale. Il ricordo privato non
considera il passato come un oggetto di conoscenza da esplorare (questo sarebbe un procedimento storico) bensì come un insieme riservato,
intimo, di informazioni semplici e prossime. Il
passato appreso non appartiene a nessuno, è collettivo, però ognuno lo rielabora a partire dalla
propria esperienza. A questo proposito, è sicuramente pertinente l’esempio proposto da Anthony
Giddens: le parole che usiamo non ci appartengono, sono immotivate, esterne alla nostra personalità – però il loro impiego ci appartiene [8].
Nel 1989, un cittadino ceco con un livello elevato
Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
di cultura poteva sapere che Masaryk era morto
da più di cinquanta anni e ricordarsi che era stato
Presidente. Il passato appreso, quindi sconosciuto, s'impone attraverso un'infinità di riletture
personali.
Il conflitto a proposito di Giovanna d'Arco conferma tale aspetto. All'inizio del Novecento, in
Francia, in alcune scuole elementari, gli allievi furono invitati a scrivere un tema centrato sull'insegnamento che si poteva trarre dalla vita
dell’eroina. Le ragazze contadine si dilungarono
sulla sua adolescenza rurale; in realtà, Giovanna,
essendo nata in un famiglia agiata, non aveva mai
sorvegliato le pecore, furono i commenti delle allieve a creare questa leggenda. Le ragazze cittadine posero l'accento sulla liberazione delle città
occupate dagli Inglesi, presentandola come una
vittoria.
Prendiamo ora in considerazione un caso più generale, la guerra civile spagnola: nell’ambito delle
due fazioni, alcuni elementi tratti dalla memoria
nazionale, precedentemente comune a tutti, servivano per qualificare il conflitto in atto. I nazionalisti celebravano la riconquista, la crociata in
nome di Dio. I repubblicani si riferivano al movimento di liberazione cha aveva sollevato la penisola contro Napoleone e i francesi – tanto più che
la Francia del Fronte Popolare non appoggiò il
governo in carica.
Il muro che divideva Berlino venne abbattuto nel
novembre del 1989 e, in occasione del secondo
anniversario della sua caduta, un'inchiesta si propose di indagare come i tedeschi che all’epoca
avevano tra i quindici e i quaranta anni, narrassero l'evento. Dalla ricerca emerse che tutti concordavano sui dati, parlavano della contestazione
nella Repubblica Democratica, della repressione,
del passaggio attraverso la breccia e della visita
all'ovest, però, la tonalità del racconto cambiava
da interlocutore a interlocutore. Ognuno raccontava dove era, che cosa faceva e dava alla propria
esposizione un colore particolare. Un ex membro
della polizia politica insistette sulla confusione e
l'assenza di prospettiva politica da parte dei manifestanti; un militante comunista risalì agli anni
precedenti e attribuì gli eventi all'assenza di lucidità dei dirigenti; una donna, sulla sessantina,
parlò soprattutto dell'affettuoso ma difficile incontro con un fratello passato all'ovest trenta anni prima; un prigioniero politico riferì del difficile
ritorno alla vita normale. Un evento unico, preciso, una coincidenza perfetta sugli avvenimenti e,
ciò nonostante, rielaborazioni che non s'incontrano: qual è la parte comune della memoria?
Emile Durkheim, maestro di Halbwachs, considerava la memoria individuale come una facoltà
condizionata da una pressione sociale esterna [9].
Si tratta veramente di un’azione coercitiva - o
piuttosto di un processo accettato spontaneamente, senza discussione, da chi vuole affermare
la propria appartenenza al gruppo? Pensiamo al
nome di Masaryk nel 1989: all'inizio era sullo
stesso piano di altri. In seguito, fu recuperato e, a
partire da un certo momento il suo ricordo si
consolidò attraverso frammenti di nozioni trasmesse dalle famiglie o da letture, che costituirono un racconto. Per questo, l'idea di un carattere
di esteriorità della memoria sembra inadeguata.
Nelle stesse circostanze, si attivò una spinta “esterna”, proveniente da un piccolo gruppo, ma
alla fine la maggioranza s'impadronì del nome
(«sì, ho sentito mio nonno parlare di lui»): pressione esteriore e rielaborazione individuale si
combinarono. Pur esagerando il carattere costrittivo della narrazione collettiva, Durkheim sollevava una questione importante: tutti i membri
di una collettività partecipano ugualmente a trasformare in modo coerente gli elementi della
memoria? Le ricerche sulla classe operaia inglese
hanno mostrato che, in base ai periodi, diverse
persone assegnavano sfumature differenti alla
narrazione memoriale [10] come nel caso dei ferrovieri francesi. All'epoca dei treni a vapore, macchinisti e fuochisti, sottoposti a un lavoro duro
che esigeva una resistenza fisica enorme, simboleggiavano “il rude mondo delle rotaie”; parlando
di loro, il racconto metteva in risalto lo sforzo fisico, la capacità di sopportare freddo e caldo, pioggia, vento e sole. L'elettrificazione ha modificato
le condizioni di lavoro, ora la tecnica prevale sulla
forza fisica, la relazione, anche quando tratta del
Novecento, mette a fuoco elementi come la velocità, la puntualità, la comodità e la sicurezza.
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Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
Narrazione memoriale e storia
Siamo costretti, ogni giorno, a rendere intelligibile l'ambiente nel quale viviamo. Di solito, routine
e buon senso sono sufficienti, ma ci sono situazioni eccezionali in cui dobbiamo inventare soluzioni inedite, e lo stesso accade in tutte le formazioni sociali, qualunque sia la loro importanza. Un
carattere particolare e singolare dei gruppi è rappresentato dal fatto che, quando si trovano in
una situazione critica, cercano soluzioni nel passato. Il procedimento è paradossale: il disagio che
si sperimenta è immediato, deriva spesso dalla
necessità di cambiare abitudini o tradizioni e richiede una riflessione collettiva sull'attualità. Invece di affrontare direttamente l'ostacolo nel
presente, tuttavia, il gruppo si rifugia in un'epoca
anteriore che tende a rimodellare con la fantasia.
L'etnologo Clifford Geertz parla a tale proposito
di un “modello di realtà”: l'oggetto della memoria
viene “congelato”, isolato dal contesto in cui è
avvenuto, la sua rilevanza viene esagerata al punto da ricavarne un insegnamento per il presente
[11].
E se si trattasse di una fuga davanti al reale? In
certi casi, probabilmente è così. Nell'URSS di Stalin si commemorava pomposamente la “Grande
guerra patriottica”, che venne progressivamente
trascurata dopo la morte del dittatore. Con la fine
del comunismo, il conflitto tra ex-comunisti, vittime del regime, e democratici diede inizio a un
periodo d'instabilità. Per mascherare la crisi, furono rispolverati i rituali celebrativi: il conflitto,
che aveva avuto luogo mezzo secolo prima, era
diventato un evento atemporale, lontanissimo
dalla situazione presente, la sua narrazione non
dava fastidio a nessuno e permetteva di ostentare un'apparente unità.
In molti casi, però, questa operazione non è una
mera evasione dalla realtà, rende comprensibile
un evento critico e procura il distacco necessario
per adattarsi a una nuova situazione. Ad esempio,
dalla sua fondazione, nel 1833, e fino al 1981 la
brigata dei pompieri di Londra conservò lo stesso
statuto informale, che permetteva a ogni stazione di effettuare il proprio reclutamento. La disparità tra le diverse stazioni e la necessità di amplia23
re gli effettivi spinsero il Consiglio comunale a
centralizzare e unificare l’arruolamento. Per difendersi, i pompieri richiamandosi alla tradizione,
inventarono una memoria comune che non era
mai esistita. In precedenza, le diverse stazioni,
che fino ad allora non comunicavano tra loro, entrarono in relazione per delineare un racconto
condiviso sul passato, e presero coscienza del posto che il loro corpo occupava nella vita londinese. La narrazione, per artificiale che fosse, fornì
uno strumento di resistenza comune e permise di
negoziare la riforma con il Consiglio [12].
Una “memoria” di questo genere non è basata sul
ricordo: chi era in grado di ricordare che, nel
1833, Londra era divisa in boroughs parzialmente
autonomi, liberi di scegliere poliziotti, vigili del
fuoco, giudici? Siamo di fronte a un'elaborazione
posteriore, fondata su impressioni, voci, dicerie e
tradizioni e non su una conoscenza ragionata.
Creata collettivamente sulla base di interventi e
suggerimenti individuali, non si consolida senza
l'approvazione di tutti i membri, che la interiorizzano e la reinterpretano a partire dalla loro esperienza e dai loro interessi personali.
Spesso, si contrappongono i tempi remoti nei
quali la tradizione veniva trasmessa oralmente,
modificandosi ogni volta che si tramandava da
una generazione all’altra, e l'età moderna, in cui
questa forma di diffusione viene sostituita da una
registrazione su documenti materiali o virtuali,
che forniscono una versione fattuale e stabile degli avvenimenti. Questa opposizione si fonda su
lavori etnografici che riguardano piccole comunità isolate ed enfatizza un'epoca anteriore, non
definita, in cui i rapporti umani erano, teoricamente, più stretti di oggi. La contrapposizione
non regge all'osservazione. Come abbiamo visto,
le comunità coese continuano a costruire una
narrazione memoriale quando devono confrontarsi con le avversità.
Questi racconti sono assertivi, sobri, refrattari a
ogni dubbio. A differenza della storia che guarda
il passato dialetticamente, bilanciando il pro e il
contro, l'evocazione memoriale non articola punti
antitetici, e, essendo autosufficiente, non tende a
proporre una sintesi. Ciò nonostante, storia e
rievocazione partecipano di una preoccupazione
Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
comune. Seguendo percorsi diversi, adempiono
alla stessa funzione: aspirano a dare un senso al
mondo contemporaneo. L'ambiente che ci circonda è opaco, ci mancano molti dati per capirlo,
e la comprensione del futuro è fuori dalla nostra
portata. All'inverso, il passato offre, sotto una
forma facilmente assimilabile, un'immagine. La
narrazione condivisa applica questa immagine alla situazione presente per conferirle significato,
mentre la Storia pretende di fornire strumenti
generali di spiegazione. Tuttavia, entrambe costituiscono una forma di racconto, versioni semplificate di quello che fu, in un certo tempo, un confuso presente.
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Pierre Sorlin
La narrazione come luogo della memoria.
L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile
NOTE
[1] M. Halbwachs, La memoria collettiva, Milano, Unicopoli, 1967; M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Napoli, Ipermedium, 1997
[2] G. Tillion, Ravensbruck, Parigi, Seul, 1988, p. 12
[3] P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 69
[4] Op. cit., p. 20
[5]"Working-class Culture and Working-class Politics in London, 1870-1900" in B. Waites (a cura di), Popular
Culture: Past and Present, London, Croom-Helm, 1982, pp. 92-121
[6] E anche, ma questo è puramente casuale, due quasi contemporanei
[7] Bisogna aggiungere che i francesi lasciarono volutamente molti Harkis in Algeria dove furono massacrati
dopo l'indipendenza. Questo tradimento, voluto dal governo, pesa fortemente su quelli che si sono sistemati in Francia
[8] A. Giddens, Central Problems in social Theory, Londra, Macmillan, 1979, p. 218
[9] "Jugements de valeur" in Sociologie et philosophie, Paris, PUF, 1951, p. 140
[10] R. Roberts, The Classic Slum, Harmondsworth, Penguin, 1973, p. 21
[11] "Religion as a cultural System" in M. Banton (a cura di), Anthropological Approaches to the Study of Religion, Londra, Tavistock, 1966, pp. 44-45
[12] G. Salaman, Working, Londra, Tavistock, 1986, pp. 35-54
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Antonio Cavicchia Scalamonti
La cripta
HIGHLIGHTS
Comunicazione e memoria
La cripta
Antonio Cavicchia Scalamonti
(Sapienza Università di Roma)
Abstract
La formulazione di “memoria senza ricordi”, utilizzata da Pierre Sorlin, costituisce un punto di
partenza per approfondire i possibili rimandi nelle scienze storiche, psicanalitiche e sociologiche
di una simile capacità di fondare emozioni condivise, secondo le dimensioni del conflitto e
dell’accordo. La parola-chiave che orienta tale
percorso è “cripta”: luogo psichico rigorosamente
inconscio, spazio sotterraneo e nascosto, al cui
interno è possibile ritrovare le tracce della memoria di un determinato gruppo, ma anche le
modalità di trasmissione di tale memoria tra le
generazioni e nel corso del tempo. Traumi personali e collettivi, segreti di famiglia e memorie sociali dei sopravvissuti alle diverse forme che il genocidio ha assunto nel XX secolo rappresentano
“fantasmi” che prendono corpo in ricordi incistati
nella psiche dei soggetti a prescindere dalle biografie personali.
Entità sotterranee simili, in tutto e per tutto, a
quelle cripte che li ospitano, la cui capacità fondativa di memorie durature è tanto più forte
quanto più inconsci sono i processi che contribuiscono al loro occultamento.
26
Antonio Cavicchia Scalamonti
La cripta
A mio giudizio, la parte più rilevante e propositiva
del lavoro del prof. Sorlin è questo concetto da lui
espresso di “Memoria senza ricordi”. La denominazione è volutamente – io credo – un po’ vaga
ma forse proprio per questo estremamente suggestiva e ricca d’implicazioni. Suppongo che egli
voglia riferirsi a una memoria i cui contenuti non
affiorano alla coscienza ma che, pur tuttavia è in
grado di condizionare il nostro pensiero nonché,
di conseguenza, il nostro comportamento. Una
sorta di lato oscuro che – anche se non ne abbiamo consapevolezza – agisce profondamente in
noi suscitando una “emozione condivisa”. È evidente che – da questo punto di vista – data per
scontata naturalmente l’esistenza di una tale
memoria – il problema è – come egli stesso si
domanda – come sia possibile che «l’assenza,
l’invisibile, il non conosciuto possano fondare
un’emozione condivisa, sia in situazioni di conflitto che di pieno accordo».
A ben guardare però, una tale definizione somiglia o richiama direttamente una nozione di tipo
psicoanalitico. Per cui una memoria senza ricordi,
almeno io credo, può essere ugualmente chiamata una “Memoria inconscia”. Si tratta cioè di una
serie di tracce mestiche che inevitabilmente sono
state, per varie ed ottime ragioni, “rimosse”, vale
a dire che non posseggono contenuti coscienti,
ma che continuano (emotivamente) ad agire nella
nostra psiche ed a influenzarci, a determinare
cioè i nostri comportamenti e i nostri orientamenti.
Ora se le cose stanno così i primi quesiti che una
tale impostazione pone sono di due tipi:
A) come sia possibile la condivisione in un
determinato gruppo – più o meno esteso - delle medesime tracce per di più
nascoste;
B)
come sia possibile il passaggio ad esempio da una generazione all’altra, visto che i contenuti di questa memoria
sono non conosciuti e non rientrano
cioè in nessun programma di trasmissione d’essi? In poche parole il “non
conosciuto, l’invisibile” così come si esprime Sorlin, è trasmettibile?
C)
E se sì. Come? Attraverso quali canali?
27
Come si vede problemi difficili su cui con difficoltà (almeno allo stato attuale) è possibile dire una
parola chiara e definitiva.
Il quesito non è nuovo ed, ad esempio, molto recentemente un autorevole studioso se l’è posto
con tutta la sua notevole competenza. Mi riferisco a Jan Assmann e ai suoi studi sulla memoria e
in particolare alla diretta influenza del monoteismo egizio su quello giudaico [1]. La correlazione
tra i due sistemi di pensiero è parsa a tutti e da
tempo, molto evidente, molto meno evidente risulta essere il modo in cui la trasmissione è avvenuta. Assmann avanza varie ipotesi tra cui – cosa
che mi ha incuriosito –riprende anche quella
freudiana avanzata dal padre della psicoanalisi
nel suo “Mosè e il Monoteismo” [2]. Com’è noto
il fondatore della psicoanalisi supponeva una nascita egiziana del profeta che era – a suo giudizio
– un seguace del culto di Akhenaton. Un culto
profondamente rivoluzionario fondato su di un
unico dio, che egli avrebbe trasmesso al popolo
ebreo. Freud suppone anche che il popolo ebreo,
stanco dell’eccessivo rigore della nuova religione
abbia ucciso Mosè, il loro capo e padre spirituale.
E che, dopo averlo ucciso, avrebbe interiorizzato
in una sorta di “cripta” (un luogo psichico rigorosamente inconscio) un sentimento di colpa che
avrebbe riproposto filogeneticamente l’altro assassinio, quello primordiale e fondamentale, quel
“dramma dimenticato che nell’inconscio attraversa i secoli” [3], descritto da Freud in un altro
dei suoi famosi e assai discussi saggi antropologici
“Totem e Tabù”.
Jan Assmann naturalmente scarta, come oramai
quasi tutti gli studiosi, l’ipotesi della trasmissione
filogenetica ma, in un certo senso, - almeno questa è la mia convinzione - abbraccia quella della
trasmissione inconscia, che avviene quindi senza
bisogno di ricorrere a ipotesi di tipo lamarkista.
Per lui quello riemerso è stato puramente e semplicemente un ricordo storico, un ricordo legato
alla brutalità teoclastica esercitata sulla religione
tradizionale, e che è stato risvegliato dalla riproposizione operata da Mosè del monoteismo [5].
Un ricordo naturalmente traumatico che, proprio
per questo, è stato più facilmente interiorizzato e
trasformato in memoria collettiva. Ma, si badi
bene, non un passaggio come dire, alla luce del
Antonio Cavicchia Scalamonti
La cripta
sole, ma sotterraneo, nascosto…secretato. «Quello che m’interessa – egli scrive infatti – è il meccanismo di una trasmissione che non si riduce alla
tradizione cosciente (sic), o all’educazione, ma
che passa attraverso molte altre vie: immagini,
riti, simboli, feste ecc..» [6].
Inoltre anche se egli, come è probabilmente giusto, rinuncia alla teoria filogenetica, non per questo accantona l’idea della “cripta”. Sia pure in
un’accezione leggermente diversa. Una sorta
d’incistamento inconscio, frutto di un forte traumatismo, ma, che secondo l’egittologo è lungi
dall’essere solo psichico: esso è infatti – di qui la
sua importanza per gli studi antropologici – fondamentalmente culturale. Una “memoria senza
ricordi” vale a dire un trauma senza rappresentazione, di cui parla Sorlin che, ereditata, agisce –
sconosciuta – orientando e influenzando il comportamento di molti.
Ebbene, quest’idea della “cripta” fondamentalmente si basa sulla nozione avanzata da Freud
nelle “Nuove Lezioni” [7] in cui egli ipotizza che il
Super- Io del bambino non si formi sull’immagine
dei parenti ma sull’immagine del Super-Io dei genitori stessi. Il che, tradotto, vuol dire che a una
trasmissione cosciente (e fondamentalmente voluta) si sostituisce una trasmissione sostanzialmente inconscia. Un Super-Io poi che, secondo
Freud, rappresentava l’aspetto valoriale e quindi
eminentemente “culturale” – così come ritiene
Assmann – di questo rapporto.
Ebbene, sempre nella scia del pensiero di Freud,
specie in Francia, ma non solo, questa ipotesi della “cripta” è stata ripresa in particolare dopo gli
studi di Maria Torok e Nicolas Abraham [8], con
risultati estremamente interessanti per lo studio
della trasmissione memoriale, anche se – per certi versi – problematici. Non dimentichiamoci, infatti che le verificabilità empiriche per la psicoanalisi sono diverse e assai meno “scientifiche” di
quelle su cui si basa la sociologia.
Senza necessità di riprendere la teoria filogenetica, secondo cui il “segreto” o “il fantasma” è un
evento traumatico vissuto in modo colpevolizzante e quindi rimosso che riappare nei componenti
della famiglia anche a distanza di varie generazioni. Fra parentesi questa teoria riproporrebbe
curiosamente l’antichissimo concetto della re-
sponsabilità transgenerazionale (le colpe dei padri ricadono sempre sui figli) oramai – specie nel
diritto – abbandonata da secoli se non da millenni. (Ma non evidentemente nella religione).
Questa tematica appare nel lavoro psicoanalitico
svolto con le famiglie, con i bambini e gli adolescenti e dà spesso l’impressione durante le sedute con questi soggetti, di una singolare invasione
di figure arcaiche nella psicologia degli analizzati.
Una intrusione di personaggi che a volte sono totalmente estranei alla biografia storica dei soggetti. Un vero e proprio “segreto di famiglia”
spesso “vergognoso” che passa attraverso varie
generazioni.
Ma l’altro terreno (sociologicamente molto più
intrigante) in cui questo tema appare con insistenza è il lavoro sui sopravvissuti alla Shoa o sui
sopravvissuti nei genocidi come quelli compiuti
durante il triste periodo delle dittature latinoamericane [9]. In tutti e due i casi appare evidente l’importanza del segreto, del fantasma. Nel caso infatti di questi sopravvissuti il tentativo di far
sparire la situazione traumatica (in questi casi,
come la storia tristemente dimostra per i superstiti dei campi, il ricordo letteralmente “uccide”);
si è tradotto in una negazione della rappresentazione d’essa. Ma ciò che è stato sepolto è riapparso inaspettatamente e incredibilmente a distanza di due o tre generazioni come un “fantasma” con imprevedibili conseguenze. Come un
nodo inestricabile che però tende sempre a sciogliersi. Questi ricordi si sono infatti “incistati” nella psiche dei soggetti prescindendo, in un certo
senso, dalla loro biografia. Un’eredità inconscia di
cui – nel caso – sono vittime innocenti.
Sociologicamente il dato è interessante perché da
una parte queste nuove teorie fanno uscire la
psicoanalisi da una visione fin troppo individualistica, e sono un segnale tra i tanti che gli orientamenti conoscitivi oggi nuovamente prevalenti
stanno correggendo un eccesso nominalistico e
dall’altra esse rendono più comprensibili le spiegazioni di fenomeni più decisamente storicosociologici. Mi domando infatti, se – come è successo in altri casi – sia possibile adoperare questa
impostazione esplicativa uscendo ancor più dai
ristretti ambiti del setting psicoanalitico per trasferirla più decisamente in un ambito collettivo.
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Antonio Cavicchia Scalamonti
La cripta
D’altronde “Il Disagio nella civiltà” e ancor più
“L’avvenire di un’illusione” continuano ad essere
delle spiegazioni fortemente plausibili di grandi
fenomeni sociali.
In effetti, la teoria abbracciata da Jan Assmann
non rende – a mio giudizio – perfettamente conto
della straordinaria persistenza e potenza di questi
ricordi trasmessi. Stiamo parlando in effetti di
una religione di grandissimo e – almeno ai miei
occhi – incredibile e singolare successo. Io credo
che la loro “forza” non dipenda solamente dai loro contenuti (la maggior parte di essi, se non tutti, sono espressione di irresistibili e universali desideri) ma anche dal modo come sono stati interiorizzati e conservati.
La teoria freudiana con quell’ardita analogia singolare-collettivo, facendo ricorso alla forza del
trauma, alla successiva colpevolizzazione e alla
conseguente ipotesi della costruzione della “cripta”, spiegava sufficientemente come certe “memorie” potessero “fondare” per usare le parole di
Sorlin un’emozione condivisa sia in situazioni di
conflitto che di pieno accordo”. In poche parole la
mia ipotesi è che quanto più inconscia sarà la
memoria tanto più essa sarà efficace e duratura.
Proprio in questa chiave, Carl Gustav Jung sosteneva che la forza della rimozione “caricava”
l’inconscio.
Non è un caso che l’oggetto della indagine di Jan
Assmann sia la religione giudaica. Essa – come
d’altronde tutte le religioni si fonda su di un insieme di credenze che, come tali resistono alla
prova della realtà (meglio sarebbe dire alle continue smentite della realtà) non solo perché sono
espressione di forti desideri (il che è evidentemente essenziale) ma anche perché la maggior
parte dei loro “valori” sono trasmessi ereditati e
collocati al di là della coscienza.
E questo, a ben guardare, è, di fatto, il problema
del “credere” e delle “credenze”.
Io penso che il credere vuol dire confidare in
qualcuno o qualcosa, ma penso anche che questa
confidenza non è la stessa confidenza di un soggetto che sa ciò che fa e conosce i rischi che si
prende. Che, in poche parole, è cosciente d’essi.
Ma, è qualcosa di profondamente diverso. Come
Emile Benveniste [10] ha dimostrato il senso fondamentale del latino fides – che è il sostantivo
29
corrispondente a credo – è confidare nella qualità
di un essere che comporta un’adesione che non si
può rifiutare. Io “credo”, scriveva con la solita acutezza, J. B. Pontalis – «non si dice. E’ antipredicativo. Enunciando “ciò che io credo”, instauro
già il dubbio e mi colloco nell’impostura» [11]. In
poche parole, quando la credenza si oggettiva
(emerge cioè, si coscientizza) [12] comincia a
perdere gran parte della sua forza. Credere solo
in ciò che si sa, non significa credere. La credenza
è una risposta a tutto, che anticipa e nega, ovvero
rifiuta ogni interrogativo.
Nello stesso tempo però rimane ancora vago il
modo della trasmissione e i segnali che rivelano la
presenza di questo vero e proprio (alcuni dicono
necessario) “perturbante”. Forse bisognerà indagare sulla forza di trasmissione delle immagini,
sulla foresta di simboli che esse rappresentano,
sulla loro capacità di trasmettere scavalcando la
barriera della coscienza.
Ma questo è forse un altro discorso!
Antonio Cavicchia Scalamonti
La cripta
NOTE
[1] Cfr. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche,
Torino, Einaudi, 1997; J. Assmann, Le prix du monoteism, Paris, Aubier, 2007; J, Assmann, Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria, Milano, Adelphi, 2000
[2] Il testo è del 1939 ed è stato l’ultima grande opera di Sigmund Freud scritta con lo scopo di spiegare
l’antisemitismo. Fu Karl Abraham a far notare a Freud questa singolarissima coincidenza tra un inno ad Aton e uno dei Salmi della Bibbia
[3] J. Lacan, Écrits. A selection, 1966
[4] Com’è noto in Totem e Tabù (1913) viene analizzato il processo di ominizzazione che è reso possibile
dall’interiorizzazione del sentimento di colpa suscitato dall’assassinio del “Padre”. Questo sentimento che è
la versione psicoanalitica del peccato originale è trasmesso attraverso una memoria “filogenetica”
[5] Assmann sulla scia della moglie (cfr. A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Milano, Il Mulino 2002) ritiene che quanto più l’evento è traumatico tanto più s’inciderà nella memoria.
D’altronde questa era anche l’opinione di Nietsche
[6] J. Assmann, La memoria culturale, op. cit., p. 211
[7] Le “Nuove lezioni” sono del 1933
[8] N. Abraham, M. Torok, L’Ecorce et le Noyau, Paris, Flammarion, 2001; Cfr. anche A. de Mijolla, Les visiteur du moi. Les Belles Lettres, 2003; dello stesso autore, Préhistoire de famille, PUF, 2004
[9] Cfr. M. Bergmann, F. Hartmann, The evolution of Psychoanalitic Technique, Basic Books, 1976
[10] E. Benveniste, Il Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, Einaudi, 1976
[11] J. B. Pontalis, Se fier à…sans croire en…, in La Croyance, Nouvelle Revue de Psychanalyse, Gallimard,
1978, p. 7
[12] Chiedo perdono di questo orribile neologismo. Ma è efficace!
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Antonio Cavicchia Scalamonti
La cripta
HIGHLIGHTS
Comunicazione e memoria
La memoria tra narrazione e
conversazione
Giovanni Ciofalo
(Sapienza Università di Roma)
Abstract
La dinamicità e la complessità della memoria, non
soltanto come oggetto di studio, può essere ricondotta ad un intervallo teorico delimitato da
due diverse coppie concettuali – “memoria individuale e memoria collettiva” e “memoria immediata e memoria mediata” – che originano un
rapporto dialettico di interazione ed interdipendenza.
Il progressivo potenziamento delle forme di rappresentazione e trasmissione della memoria, attraverso l’utilizzo di una pluralità di canali articolati in modo variabile, sancisce un profondo cambiamento. Quello che vede la memoria trasformarsi sempre di più in un testo, rispetto a cui diviene fondamentale tanto la possibilità di accesso
e fruizione (narrazione), quanto quella di decodifica e discussione (conversazione).
Il caso di “Romanzo Criminale”, esempio significativo di un prodotto crossmediale, e quello della
ricerca “Le officine della memoria”, realizzata con
l’obiettivo di analizzare l’impatto della televisione
nella vita quotidiana degli italiani, costituiscono
due possibili spunti di riflessione. Legati dalla capacità di sottolineare quanto la narrazione e la
conversazione rappresentino due dimensioni centrali nei processi di produzione e conservazione
della memoria.
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Giovanni Ciofalo
La memoria tra narrazione e conversazione
La relazione di Pierre Sorlin, riportata in queste
pagine, ci propone un quadro interpretativo della
memoria chiaro ed efficace. Il mio contributo
muove dai numerosi spunti di riflessione che vi
sono contenuti e, attraverso l'analisi di uno specifico prodotto culturale (Romanzo Criminale) e la
citazione di un caso di ricerca (Le officine della
memoria), si focalizza in particolare sulle modalità attraverso cui la narrazione e la conversazione
si pongono come dimensioni centrali nella produzione e nella conservazione della memoria.
Tale convinzione è situabile all'interno di uno
spazio teorico delimitato da due diverse coppie
concettuali - "memoria individuale e memoria
collettiva" e "memoria immediata e memoria
mediata" - i cui singoli termini, tuttavia, non vanno assolutamente considerati in un'ottica dicotomica, quanto piuttosto come i quadranti complementari che originano una specifica figurazione (N. Elias, 1990) della memoria.
Del resto, persino la più semplice definizione di
memoria - ciò di cui ci ricordiamo - racchiude implicitamente una estrema complessità, oltre che
una profonda vocazione sistemica. Questa accezione rimanda immediatamente agli archivi di
sensazioni, immagini e nozioni che ci accompagnano, si accumulano, ma che in parte inevitabilmente si perdono nel corso della nostra esistenza, così come all'imprescindibile contributo
nella costruzione della nostra identità tanto sul
piano individuale (ricordiamo ciò che siamo),
quanto su quello sociale (siamo ciò che ricordiamo). Un doppio livello fondamentale, secondo cui
la memoria agisce sia come fattore di individuazione, che di omologazione. Caratterizza la nostra
individualità, permettendoci di essere unici, ma
anche la nostra appartenenza ad una collettività,
che si concretizza nell'essere identici (Melucci,
1991). In questo, la memoria rivela la sua intima
natura di habitus (Bourdieu, 2000) che, in una
prospettiva ecologica va, ulteriormente, ricondotta all'idea di insieme contenente, e contenuto da,
altri insiemi: la società, la vita quotidiana, la comunicazione, e così via.
La memoria individuale, pertanto, dipende da
quella collettiva e può essere interpretata come il
risultato della sovrapposizione e dell'interazione
tra le nostre esperienze e quelle altrui. Non po-
tendo prescindere dalla co-esistenza degli altri e
da una realtà che ci appartiene in maniera direttamente proporzionale al fatto che anche noi gli
apparteniamo. Allo stesso modo, la memoria collettiva, sintesi teorica - rischiosa ammonisce Sorlin - di tutte le memorie individuali, ci è accessibile solo a patto di uno scambio costante e sottinteso, che non prevede sempre una volontà esplicita e cosciente.
Tanto nel primo, quanto nel secondo caso, un
problema di non facile risoluzione riguarda però
l'insieme dei processi che attegnono alla produzione della memoria. Tale questione appare estremamente centrale perché da un lato attiva
una ulteriore, e molto più complessa, coincidenza
teorica con il concetto stesso di cultura, la cui dinamicità e la fondamentale necessità di condivisione (W. Griswold, 1997) costituiscono significativamente anche i tratti caratteristici e distintivi
della memoria.
Dall'altro, attribuisce alla memoria il ruolo di risorsa strategica in un'epoca, come quella che
stiamo vivendo, caratterizzata da un elevatissimo
“tenore mediale” (A. Briggs, P. Burke, 2002).
Torniamo nuovamente alla dimensione individuale e collettiva e proviamo a considerare il ricordo
come unità minima della nostra memoria personale. Esso sembra essere prodotto anzitutto dalle
percezioni che abbiamo rispetto ad una particolare esperienza, ma la sua interpretazione e archiviazione avviene comunque sulla base delle nozioni che già possediamo al momento in cui questa si verifica. Il significato che siamo in grado di
attribuire a tale unità, inoltre, dipende dalla concatenazione di senso che viene instaurata con le
altre unità precedentemente elaborate e immagazzinate, conducendo così ad una potenziale,
anche se non ovvia e obbligata, risemantizzazione
costante del complesso dei nostri ricordi.
Metaforicamente, allora, l'immagine che più si
addice alla memoria personale e collettiva non è
tanto quella di una "biblioteca", con i suoi reparti
e i suoi volumi rigidamente catalogati, quanto
piuttosto quella di una "rete", la cui forza dipende dal numero dei nodi che la compongono e,
soprattutto, dai collegamenti e dai rimandi che
fra essi si possono sviluppare. Come nel suggestivo film di Michel Gondry, "Eternal Sunshine of
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Giovanni Ciofalo
La memoria tra narrazione e conversazione
the Spotless Mind" (2004) i ricordi non sono affatto frammenti cristallizzati - unità minime a se
stanti - che idealmente potremmo essere in grado di cancellare. Si tratta piuttosto di unità multiple (Morin, 2001), la cui concatenazione genera
una memoria cui abbiamo accesso attraverso la
messa a punto di criteri ordinatori variabili. Ad
esempio la riproposizione di una percezione precedente (tipica della memoria involontaria), l'attivazione funzionale (ai fini del raggiungimento di
un obiettivo specifico), la categorizzazione temporale (l'infanzia, la giovinezza, la maturità, etc.),
o ancora l'utilizzo di parametri spaziali o contestuali (la famiglia, la casa, il lavoro, i gruppi di amici, etc.).
Non tutti i ricordi, però, sono frutto delle nostre
esperienze dirette. Da sempre, i media non hanno fatto altro che produrre incessantemente
memoria: dal libro al quotidiano, dal cinema alla
televisione fino a internet, i contenuti mediali sono stati sia fonte di acquisizione di memoria che,
contemporaneamente, strumenti di archiviazione
e classificazione estremamente potenti. Soprattutto nei casi in cui non disponiamo di filtri critici,
derivanti dalle competenze ed esperienze specifiche rispetto ad un certa porzione di realtà, essi si
sono posti come sorgenti virtualmente attendibili
di ricordi di facile acquisizione. Gli esempi sono
innumerevoli: dalla notizia di cronaca riportata da
un notiziario televisivo ad un film storico, fino a
quell'innovativo giornale redatto quotidianamente dai nostri amici, che poi è Facebook. Scrive al
proposito Silverstone: « [...] in assenza di altre
fonti, i media hanno il potere di definire il passato: di presentarlo e di rappresentarlo. Essi rivendicano un'autorità storica nelle ricostruzioni di
fiction e nei documentari: versioni del realismo
che non hanno referenti se non in altre storie o in
altre immagini» (R. Silverstone, 2002, p. 200).
Rispetto al passato, poi, la crescente sinergia mediale ha condotto al raggiungimento di una nuova
soglia della memoria che, superando le limitazioni specifiche dei diversi canali di riferimento, oggi
più che mai appare convergente e crossmediale.
All'interno di un simile scenario, l'integrazione
della nostra memoria diretta con quella mediata
produce due principali effetti: da un lato estende
radicalmente i confini e gli ambiti dei nostri ricor33
di, dall'altro li ancora ad una matrice collettiva
dominante (mainstream), o almeno presunta tale. In questo senso, la memoria è costantemente
alla base tanto dei processi di narrazione, attraverso una sua elaborazione e ricombinazione per
stereotipi, quanto di conversazione, soprattutto
dal punto di vista prettamente comunicativo, nella costante alternanza tra il piano dell'informazione e quello della relazione (M. Morcellini, G.
Fatelli, 2000).
Un interessante esempio in grado di fornire una
sintesi di quanto detto fino a questo punto è fornito da un modello grafico che George Gerbner
elabora nel 1956 (G. Gerbner, 1956). Lo studioso
ungherese, in particolare, si orienta ad indagare i
processi di percezione da parte dell'individuo e le
forme di integrazione e sostituzione che i media
sembrano essere in grado di produrre. Chiaramente, nel nostro caso è possibile estendere la
portata esemplificativa di questa rappresentazione in virtù dell'ovvia considerazione del fatto che
la percezione è alla base della memorizzazione.
Gerbner sottolinea che l'insieme dei processi di
percezione di un individuo viene costantemente
condizionato da una serie di variabili ascrivibili in
generale al suo punto di vista, ma anche al suo
orizzonte di aspettative, alle sue competenze, e
più in generale alla sua cultura di riferimento, fino alla posizione che occupa sul piano sociale.
Tutto questo poi risulta ulteriormente amplificato
dalla produzione di resoconti mediali relativi alla
stessa percezione. La fusione tra le percezioni individuali e quelle mediali produce, di volta in volta, l'immagine di un evento simile e contemporaneamente diverso a quello realmente accaduto o
a quello individualmente percepito. Inoltre, proponendo una nuova percezione, e nel nostro caso
per completezza potremmo dire allora una nuova
memorizzazione, alimenta una sequenza interminabile di ipotetiche rielaborazioni di un singolo
evento.
Come per la percezione, anche per la memoria,
l'ipertrofia produttiva di rappresentazioni mediali
rende difficile la possibilità di risalire ad un originale. La progressiva sedimentazione di contenuti
che ci vengono offerti trasforma complessivamente la memoria sia in un resoconto, che in una
decodifica. Quindi essenzialmente in un testo.
Giovanni Ciofalo
La memoria tra narrazione e conversazione
Intendere la memoria come testo, allora, ha anzitutto il vantaggio di salvaguardare il piano individuale e quello collettivo - al proposito è centrale
il riferimento all'idea di cooperazione interpretativa (U. Eco, 1979) - così come il carattere immediato tipico della nostra memoria. Allo stesso
tempo, inoltre, presuppone coerentemente le
dimensioni della narrazione e della conversazione. Partiamo dalla narrazione. Come anticipato,
un fattore determinante consiste nella crescente
convergenza di apparati mediali, prima disgiunti,
che oggi, invece, tendono sempre più spesso a
interagire al fine di attivare una attenzione selettiva da parte del pubblico nei confronti di uno
stesso prodotto. La disseminazione produttiva,
supportata da un'evoluzione tecnologica in grado
di coerentizzare, ma anche di differenziare, i testi
proposti in contesti comunicativi differenti, ha
avuto come effetto principale quello di dare origine a grandi narrazioni transmediali. L'impatto di
queste storie non può più essere misurato attraverso criteri tradizionali, ma rimanda costantemente alla somma di tutti quei pubblici che declinano le loro scelte di consumo culturale in funzione di un numero molto più alto di variabili, ad
esempio l'alfabetizzazione, la possibilità di accesso, la preferenza di un genere rispetto ad altri.
Inoltre, la complementarietà, frequentemente
perseguita, dei differenti plot mediali alimenta un
effetto "passaparola" (E. Katz, P. F. Lazarsfeld,
1955), che si realizza nel contagio comunicativo di
pubblici diversi. Ecco allora che la narrazione, non
più legata ad un unico supporto, si compone di
una pluralità di canali, articolati in modo variabile, e si pone essa stessa come il veicolo più efficace di una nuova memoria mediale. Proviamo a
chiarire quanto detto attraverso l'analisi di uno
specifico prodotto culturale come “Romanzo criminale".
Il romanzo che De Cataldo pubblica nel 2002 è il
risultato di un'acuta operazione fictionale che unisce le competenze dell'autore, magistrato oltre
che scrittore, al tentativo, riuscito, di trasformare
una parte della recente storia italiana in una saga
epica.
Le successive trasposizioni, quella cinematografica diretta da Michele Placido nel 2005 e quella
televisiva trasmessa da SKY nel 2008, ben rappre-
sentano le fasi di consolidamento di una medesima narrazione, e dunque di una stessa forma di
rappresentazione della memoria, attraverso il ricorso a mezzi e formati espressivi differenti.
La memoria che viene recuperata e rielaborata
attraverso una simile narrazione estesa appare
dichiaratamente difforme dalla realtà storica che
comunque tende a rappresentare, ma non per
questo risulta meno incisiva. La moltiplicazione
delle opportunità di accesso, garantita semplicemente dalla messa in relazione del testo letterario con quello cinematografico e televisivo, consente di raggiungere una porzione di pubblico
molto più vasta. Accanto ai fan di quello specifico
prodotto culturale, disposti chiaramente a seguirne le varie evoluzioni, si vanno infatti ad affiancare anzitutto i lettori di romanzi, i fruitori di
cinema e di televisione, ma anche gli appassionati
del genere, i nostalgici o i curiosi del periodo rappresentato, fino a coloro che, semplicemente per
sentito dire, decidono di scegliere il formato preferito attraverso cui accedere alla storia.
Proprio la vastità della eco di questo romanzo
crossmediale induce necessariamente a riflettere
sulla modalità attraverso cui esso ripropone un
certo segmento di memoria con precise caratteristiche. La memoria narrata, in virtù del mescolamento tra realtà e finzione (F. Jost, 2003), non è
più ascrivibile esclusivamente alla sfera del male
o della criminalità e neppure al solo periodo degli
anni ’70 e ’80 o alla sola città di Roma. Si potrebbe addirittura sostenere che la forza rappresentativa del prodotto, paradossalmente, sta proprio
nella sua capacità di diluire l'elemento della verosimiglianza attraverso la costruzione di un'architettura narrativa coerente e articolata. Così, la
memoria che ci consegna “Romanzo Criminale”,
prodotta prima da parole e poi da immagini, nel
caso di persone nate almeno negli anni Settanta
si compone anche di ricordi personali, evocati ad
esempio dalla ricostruzione dei modi di vestire,
dalla scelta di alcune canzoni che compongono la
colonna sonora, fino alla citazione di elementi
che appartenevano alla realtà di senso comune
dell'epoca. Per le nuove generazioni, invece, rappresenta una fonte integrativa rispetto a quanto
hanno sentito, studiato o visto, che sfrutta l'inserimento di materiali mediali di archivio (le imma34
Giovanni Ciofalo
La memoria tra narrazione e conversazione
gini della strage della Stazione di Bologna) o la
costruzione di rappresentazioni stereotipate, anche nel senso di facilmente accessibili, di particolari fasi storiche di un passato comune (gli anni di
piombo, la banda della Magliana, etc.).
Come sostiene Flores D'Arcais, che però si riferisce esclusivamente al cinema, «vi è la realtà (l'originale) e vi è la riproduzione di essa (la copia, la
immagine) in una loro adeguazione riconosciuta
(e perciò valutata) dall'intelletto (e cioè, con la
necessaria presenza del riproduttore). Non è la
realtà, che, per sé, a contatto di mezzi tecnici, si
ripresenta nella sua immagine (globale), ma è
l'uomo che coglie in una immagine (e sarà sempre una sua immagine, anche se vorrà essere perfettamente adeguata) il reale stesso». (G. Flores
D'Arcais, 1953).
Aumentando, dunque, l'incisività sociale della
narrazione o delle narrazioni che ricorrono e rimandano, sempre più spesso, le une alle altre,
viene ad essere modificata la struttura stessa della memoria mediale, sempre meno frammentata
e circoscritta ai soli ambiti comunicativi che la
supportano. Al proposito, sarebbe sufficiente
considerare l'effetto di amplificazione generato
proprio da Romanzo Criminale che, nel nostro
media system, si è concretizzato in una proliferazione di prodotti (trasmissioni di approfondimento, talk show, articoli di giornale, saggi, libri di inchiesta, etc.) comunque orientati al recupero e
alla rappresentazione di porzioni complementari
di memoria, più o meno, esplicitamente presenti
nel testo originale di De Cataldo.
Limitarsi a considerare questi aspetti, però, può
celare il rischio di innescare un'analisi ristretta al
solo versante della produzione culturale e mediale, il cui principale effetto collaterale sarebbe
quello di sottovalutare il ruolo attivo e determinante degli individui.
I dati relativi alle scelte di consumo ci consegnano
un affresco immediato, e sicuramente suggestivo,
del successo e della diffusione di alcuni contenuti
declinati su piattaforme diverse. Oltre a questo,
tuttavia, è fondamentale valutare anche come,
progressivamente, essi vengano incorporati e metabolizzati dai loro fruitori. Non si tratta di un'operazione semplice, perché consiste nel cercare
di comprendere le modalità attraverso cui ven35
gono aggiornati, integrati o modificati gli schemi
cognitivi per orientarsi così alla comprensione,
del sé e del mondo circostante, e alla interazione
con gli altri. Si tratta, in poche parole, di verificare
come la narrazione diventi conversazione, e viceversa. È stato esattamente questo uno degli obiettivi principali della ricerca "Le officine della
memoria", sviluppata presso la Facoltà di Scienze
della Comunicazione della Sapienza Università di
Roma, sotto la direzione scientifica del Prof. Mario Morcellini e della Prof.ssa Silvia Leonzi.
L'indagine si è concentrata sul tentativo di analizzare, attraverso il recupero di una memoria collettiva condivisa, l'impatto della televisione nella
vita quotidiana degli italiani. A questo proposito,
si è scelto di optare per una necessaria delimitazione temporale dello scenario di ricerca, fissata
tra il 1948 e il 1960, e di una spaziale, riferendosi
al solo contesto di Roma. Per superare, invece, la
difficoltà di tradurre in termini operativi il macroconcetto di memoria collettiva, è stata adottata
una sua tripartizione in memoria personale, memoria mediale e memoria istituzionale. Nello specifico, si è cercato di recuperare la memoria autobiografica attraverso interviste in profondità,
mentre per le forme di rappresentazione mediale
e istituzionale sono stati condotti una ricerca ed
un esame dei contenuti disponibili rispetto ad alcuni particolari eventi (la nascita della televisione,
l'incremento delle vendite degli apparecchi, etc.).
In particolare, tanto l'acquisizione e l'elaborazione di dati statistici, frutto di indagini generali o
specifiche condotte dagli istituti di ricerca, quanto la consultazione di archivi storici hanno permesso di fissare un quadro di riferimento generale definibile appunto nei termini di memoria istituzionale.
La raccolta di materiali provenienti da archivi fotografici e audiovisivi, da quotidiani e periodici,
ma anche da saggi e romanzi, ha condotto invece
alla composizione di un frame relativo alla memoria mediale. In quest'ultimo caso è stato inoltre possibile individuare e analizzare alcuni testi
particolarmente significativi, in funzione della loro capacità di fotografare la realtà dell'epoca, sia
sul versante cinematografico (ad esempio, i film
neorealisti o della commedia all'italiana), che su
quello televisivo (le prime trasmissioni RAI).
Giovanni Ciofalo
La memoria tra narrazione e conversazione
L'impossibilità evidente di mantenere una netta
linea di demarcazione tra la sfera mediale e quella istituzionale, proprio in virtù della progressiva
centralità assunta dalla comunicazione sul piano
sociale e culturale, ha condotto a sviluppare queste due fasi di ricerca parallelamente. Il risultato
si è concretizzato in una ricostruzione del periodo
considerato che, seppure non esaustiva, si è rivelata indispensabile per la messa a punto del successivo step di indagine, orientato al recupero
della memoria personale.
La scelta di un approccio qualitativo e metatestuale [1], basato anche sul ricorso a materiali
mediali come spunto di riflessione, non garantendo certamente una possibilità di generalizzazione, ha offerto comunque una fondamentale
opportunità di approfondimento [2].
Al di là della definitiva elaborazione di tutti i risultati emersi, per altro ancora in corso, è possibile
trarre alcune indicazioni generali, che evidenziano la stretta connessione tra gli aspetti narrativi e
di ricostruzione, offerti da media e istituzioni, e
quelli discorsivi e di selezione, attivati dagli intervistati. Non a caso, infatti, la prima forma di comparazione tra le differenti aree di memoria, precedentemente individuate, ha avuto luogo nel
corso delle stesse interviste.
In generale, è stato registrato un debole legame
di dipendenza tra la memoria personale e quella
istituzionale, la cui capacità di impatto, ma anche
la cui possibilità di traduzione e adattamento, risultava decisamente limitata a causa delle forme
di veicolazione dei contenuti. Nel caso della memoria mediale, invece, è stata riscontrata una costante necessità di ricondurre il piano della conversazione a quello della narrazione (o rappresentazione a fini di integrazione). I contenuti mediali, acquisiti in particolar modo attraverso film o
trasmissioni televisive, hanno fornito una base
fondamentale per l'attivazione della memoria
personale. L'interpretazione degli stessi testi, avvenuta in funzione di una specifica declinazione
personale, ha confermato la presenza di un legame forte tra la memoria personale e quella mediale, senza tuttavia far presupporre una scontata
e quasi perfetta sovrapponibilità. Al contrario, invece, è stato possibile evidenziare una sorta di
intensità episodica, causata cioè da due principali
variabili: la coincidenza con esperienze dirette
(legate o arricchite dalla fruizione di particolari
testi) e la possibilità di accesso (estremamente
rilevante per l'epoca considerata, sia dal punto di
vista del possesso delle competenze tecnologiche
che delle potenzialità economiche).
Alcuni prodotti venivano citati dagli intervistati in
maniera decisamente più significativa, in quanto,
proprio grazie alla loro struttura narrativa, sembravano essere riusciti, a differenza di altri, ad
impressionare in modo più duraturo la memoria
personale, trascendendo il solo piano mediale per
entrare a far parte di un insieme di pratiche condivise, sottoforma di temi di confronto, occasioni
di interazione e discussione.
Un effetto che, rifacendosi alla tradizione della
Mass Communication Research, potrebbe essere
rimandato ad un'idea generale di agenda setting
e contemporaneamente di coltivazione. Con la
rilevante differenza, però, che la sua efficacia
sembra influire a livello cognitivo in modo permanente. Non stiamo affatto riferendoci ad una
ipotetica forma di manipolazione: tutti gli intervistati, infatti, hanno costantemente dimostrato
una profonda autonomia nella interpretazione di
quegli stessi materiali. Si potrebbe parlare, piuttosto, di una progressiva modificazione del senso
stesso di alcune narrazioni, capaci di trasformarsi
con il tempo in veri e propri ambienti narrativi e
discorsivi condivisi (P. Jedlowski, 2009).
Una dialettica che, per concludere, potremmo
definire appunto sistemica, e assolutamente non
causale, tra la dimensione della narrazione e
quella della conversazione. Indispensabile, appunto, per la produzione e la conservazione di
memoria.
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La memoria tra narrazione e conversazione
NOTE
[1] La struttura della traccia per le interviste è stata costruita seguendo una logica modulare, al fine di
prendere in considerazione anzitutto i diversi contesti biografici (famiglia, educazione, lavoro, tempo libero), ma anche l'articolazione specifica dei consumi culturali (consumi outdoor, cinema, letteratura, radio e
televisione)
[2] In particolare, sono state realizzate 61 interviste in profondità, rispetto ad un panel selezionato in base a
due requisiti principali: l’essere nati prima del 1948 e l’aver vissuto a Roma almeno fino al 1960
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 2000
A. Briggs, P. Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet, Bologna, Il Mulino, 2002
U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1975
N. Elias, La società degli individui, Il Mulino, Bologna, 1990
G. Flores D'Arcais, Il cinema. Il film nella esperienza giovanile, Liviana Editrice, Padova, 1953
G. Gerbner, Toward a General Theory of Communication, in “Audio Visual Communication Review”, n°4,
1956
W. Griswold, Sociologia della cultura, Il Mulino, Bologna, 1997
E. Katz, P. F. Lazarsfeld, L’influenza personale nelle comunicazioni di massa, Rai Eri, Torino, 1968
P. Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d'Europa, Torino, Bollati Boringhieri, 2009
F. Jost, Realtà/ Finzione. L’impero del Falso, Il Castoro, Milano, 2003
A. Melucci, Il Gioco dell'Io. Il cambiamento di sé in una società globale, Feltrinelli, Milano 1991
M. Morcellini, G. Fatelli, Le scienze della comunicazione, Carocci, Roma 2000
E. Morin, La natura della natura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001
R. Silverstone, Perché studiare i media, Bologna, Il Mulino, 2002
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La memoria tra narrazione e conversazione
FUTURE MATTERS
FOR SOCIAL
THEORY?
Quale sociologia del futuro…
Giuliana Mandich
(Università di Cagliari)
Future Matters: Challenge for Social Theory and
Social Inquiry
Barbara Adam
(Cardiff University, UK)
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and
Political Wisdom: A Framework for Case Study
Analysis
Rob Stones
(University of Essex, UK)
I giovani e il futuro nella “società
dell’incertezza”
Carmen Leccardi
(Università di Milano-Bicocca)
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti
tecnologici? Il futuro in fieri del discorso
sociotecnico
Giuseppina Pellegrino
(Università della Calabria)
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Giuliana Mandich
Quale sociologia del futuro…
HIGHLIGHTS
Future matters for social theory?
Quale sociologia del futuro…
Giuliana Mandich
(Università di Cagliari)
Abstract
Partendo dalle due dimensioni del present future
e future present elaborate da Barbara Adam questo contributo si pone l’obiettivo di mettere a
fuoco alcuni dei nodi fondamentali intorno ai
quali una vera e propria sociologia del futuro si
sta coagulando e la loro centralità per il dibattito
sociologico contemporaneo. L’analisi del present
future (il futuro che è già qui) mettendo a tema il
nesso tra conoscenza, etica e azione, entra in
consonanza con l’attenzione per le implicazioni
etiche della ricerca discusse nel dibattito sulla
public sociology. La dimensione del future present
(il futuro che guida l’agire nel presente) mette al
centro della discussione la questione delle capacità culturali. La capacità di immaginare il futuro e i
modi di dargli forma si pone oggi come una delle
risorse chiave per le generazioni che si trovano a
progettare i propri percorsi di vita in contesti fortemente segnati dall’incertezza e dall’ individualizzazione.
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Giuliana Mandich
Quale sociologia del futuro…
A society is a partnership not only between those who are
living, but between those who are living, those who are
dead, and those who are [yet] to be born
(Edmund Burke)
Contemporary societies dedicated to progress, innovation
and change, we want to argue, need to hone their tools for
anticipating taming and transforming their futures. Since the
pursuit of change radically reduces stability and with it structural security, the substantial effort required to achieve competence in futurity is the price to be paid for the prize of advancement on all fronts of knowledge and socio-economic
growth that awaits those most committed to the system of
accelerating change
(Barbara Adam)
The social sciences have no “choice” but to engage with various futures, to develop “sociologies of the future”
(John Urry,)
Da molte parti l’analisi del futuro viene considerata un impegno ineludibile per la sociologia contemporanea. E’ importante allora chiedersi quale
è la direzione che questo impegno deve prendere, quali nuove categorie e ambiti di analisi devono entrare nella riflessione sociologica e quali
modelli interpretativi sono più adatti ad includere
questa dimensione. I saggi di Barbara Adam, Rob
Stones, Carmen Leccardi e Giuseppina Pellegrino
proposti in questo numero di Cultura e comunicazione[1] vanno in questa direzione ponendosi
l’obiettivo di riaccendere la riflessione intorno al
futuro in quanto categoria sociologica e di mettere meglio a fuoco alcuni dei nodi fondamentali
intorno ai quali una vera e propria sociologia del
futuro si sta coagulando.
La varietà degli approcci e degli ambiti analitici
che i saggi qui proposti rappresentano, mette subito in luce uno dei motivi della cresciuta importanza del tema del futuro negli ultimi anni. Se
l’analisi del futuro, infatti, in quanto dimensione
sociologicamente rilevante, si colloca in primo
luogo nell’ambito della sociologia del tempo (che
fornisce l’apparato concettuale di base per pensare questa dimensione) la rilevanza di questo
tema emerge anche a partire da molti altri ambiti
all’interno della disciplina, imponendosi come
cornice interpretativa entro cui collocare una
gran varietà di processi sociali (Adam, 2007). Una
prima considerazione generale mi sembra emer-
ga con molta forza dalla lettura dei diversi contributi. Parlare di futuro, al singolare, come se fosse
una categoria univoca ed omogenea, è fuorviante. Il termine futuro indica un campo molto ampio di tematiche che richiedono un vocabolario
concettuale adeguato. Come Barbara Adam ha
messo in luce, in questo saggio e negli altri suoi
studi (in particolare Adam, 2007) per parlare del
futuro è necessario ricostruire l’insieme complesso di dimensioni che costituiscono i futurescapes
della società contemporanea.
Al futuro possono essere attribuiti significati diversi (cui si legano differenti meccanismi sociali).
Fate, fortune, fiction and fact costituiscono diversi modi di vedere il futuro che si sono sviluppati in
diverse epoche e si ritrovano, in differenti combinazioni, anche nella società contemporanea. Molteplici sono inoltre le pratiche sociali di “inclusione” del futuro nel presente. Il futuro può essere
told (svelato, indovinato, attraverso le pratiche di
divinazione), tamed (addomesticato attraverso
tutte le pratiche che rendono la vita quotidiana
meno precaria, i rituali, le tradizioni, le istituzioni), traded (quando entra negli scambi economici), traversed (quando è un futuro vuoto che deve
essere riempito, colonizzato dalle attività umane). Si tratta dunque di un campo estremamente
ampio di riflessione. In questo mio breve contributo vorrei focalizzare l’attenzione sulla distinzione che Barbara Adam propone (rielaborando
una “vecchia” classificazione Luhmaniana) tra
“present future” e “future presents”.
Il primo è un futuro profondamente radicato nel
presente perché già implicato nelle scelte e azioni
degli individui e incorporato negli artefatti tecnologici che sembrano, come discusso da Giuseppina Pellegrino, “materializzare il futuro”. Esiste
dunque una fattualità del futuro di cui è importante tener conto. La consapevolezza di questa
dimensione del futuro non può che modificare i
meccanismi delle scelte pubbliche e private nel
presente, come sostenuto, attraverso l’approccio
della “strong structuration theory” da Rob Stones. Questo futuro, in quanto dimensione fattuale, fa riferimento, nel vocabolario “tradizionale”
della sociologia, al campo delle conseguenze inattese e agli effetti di composizione (dal punto di
vista macro) e (dal punto di vista micro) all’etica
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Giuliana Mandich
Quale sociologia del futuro…
weberiana della responsabilità ed elaborazioni
successive.
Il “future present” è invece il modo in cui il futuro
viene anticipato attraverso le immagini e le rappresentazioni di “ciò che sarà”. Ha a che fare,
dunque, con i diversi modi in cui il futuro viene
culturalmente costruito attraverso le rappresentazioni sociali, l’immaginario, la definizione degli
orizzonti temporali dell’agire. Si tratta, ad esempio, dei “future presents” implicati nelle strategie
di addomesticamento dell’incertezza analizzate
da Carmen Leccardi. Diversi orientamenti verso il
futuro ampliano o restringono, ostacolano o sostengono l’agire individuale. Non più organizzate
all’interno delle “grandi narrazioni” (la scienza, la
religione, il progresso) entrambe le dimensioni
del futuro diventano, nella società contemporanea,
ambiti
estremamente
problematici
dell’esperienza, fonti di insicurezza ontologica e
frontiera delle nuove disuguaglianze. Intorno a
queste due dimensioni del futuro si coagulano
oggi un insieme di temi che non sono nuovi nella
teoria e ricerca sociologica ma assumono oggi
una rinnovata importanza e collocati entro la
cornice interpretativa del futuro, acquisiscono
nuove connotazioni e si arricchiscono di nuovi
strumenti concettuali. In questo mio breve contributo proverò a ragionare su alcuni di questi.
Il futuro che è già qui: conoscenza, etica e azione
Lo studio del futuro (ed in particolare del present
future) richiede alcune scelte di fondo. Barbara
Adam in Future Matters pone il tema del futuro
all’interno di un campo concettuale delimitato
dai concetti di azione, etica e conoscenza, prefigurando uno stretto legame tra i tre elementi.
«Yet, futures are not merely imagined but they
are also made. They are produced for months,
years and even millennia hence, creating chain
reactions that permeate matter and stretch
across time and space. These interdependencies,
which may not congeal into tangible symptoms
for a very long time, make it difficult to anticipate
the dispersed potential outcome of futurecreating actions, and so create problem of
41
knowledge. […] The difficulties associated with
knowledge about outcomes of actions, in turn,
raise uncomfortable questions about responsibility» [2]
In questo brano si toccano due punti che sono
centrali nel dibattito sociologico attuale. Il primo
riguarda i modelli esplicativi del sociale che sono
in grado di cogliere la natura complessa e multiforme delle società contemporanee. Nel momento in cui lo sguardo si indirizza al futuro diventa
ancora più difficile non tenere conto della varietà
di fattori che concorrono ai processi di costruzione sociale (i present futures di organizzazioni,
prodotti, tecnologie, forme di socialità) e soprattutto della fitta rete di interdipendenze in cui sono coinvolti. Ognuno dei sistemi che costituiscono la realtà sono al tempo stesso economici, fisici, tecnologici, politici e sociali [3]. Quindi possiedono proprietà emergenti che non possono essere ridotte a nessuno di questi fattori “presi individualmente”.
«Central, then, to complexity is the idea of emergence. It is not that the sum is greater than the
size of its parts – but that there are system effects that are different from their parts (see
Jervis, 1997, on system effects). Complexity examines how components of a system through
their interaction “spontaneously” develop collective properties or patterns, even simple properties such as colour that do not seem implicit, or at
least not implicit in the same way, within individual components». [4]
Riconoscere questa complessità richiede un nuovo modo di strutturare le interazioni tra i diversi
elementi della realtà. Fondamentale in questa direzione l’analisi delle dimensioni spaziali e temporali in cui i fenomeni sono implicati. Materialità, spazio e tempo sono in effetti le dimensioni
che forse più si sono imposte alla riflessione in
molte sfere dell’analisi sociologica. Provare a cogliere le complesse configurazioni che emergono
da questi processi è dunque la sfida che la sociologia contemporanea si deve porre. Una sfida alla
quale non è facile andare incontro.
Giuliana Mandich
Quale sociologia del futuro…
C’è in qualche modo una dissonanza – osserva
Barbara Adam - tra l’agilità con cui produciamo il
futuro, “danzando” quotidianamente entro gli orizzonti temporali aperti del presente, futuro e
passato, utilizzando simultaneamente memoria,
percezione ed anticipazione e la rigidità del ragionamento sociologico che utilizza prevalentemente il passato (o il presente) per guardare al
futuro. Analizzare il futuro, infatti, non richiede
semplicemente il rifiuto di spiegazioni univoche e
deterministiche ma implica la capacità di considerare l’ imprevedibilità degli effetti nello spaziotempo. In qualche modo significa abbracciare
l’incertezza e trovare dei modi di includerla nel
ragionamento sociologico.
Il secondo punto riguarda il tema della responsabilità. Nel momento in cui il legame tra azione e
conoscenza si riconfigura, le condizioni della responsabilità devono in qualche modo essere ridefinite. In particolare si fa sempre più urgente il
problema della responsabilità delle scienze sociali
nell’esplorare i futuri alternativi: possibili, probabili e preferibili (Bell, 2003). I future studies [5] si
propongono, sin dalle origini, l’intento di «fare
del mondo un luogo migliore dove vivere» [6].
Non si presentano dunque come un ambito puramente accademico, teorico ed avalutativo di
riflessione ma come, in qualche modo, laboratorio di soluzioni concrete. Impegnarsi nell’analisi
del futuro implica, in quest’ottica, l’adozione di
un giudizio morale - continua Bell - su quali esiti
dell’agire nel presente vadano incoraggiati o evitati (siano essi l’inquinamento o l’aumento delle
disuguaglianze).
Si tratta di un tema – come suggerisce Barbara
Adam – estremamente scomodo, e l’acceso dibattito sul posto della public sociology,
nell’ambito della sociologia di quest’ultimo decennio, lo dimostra ampiamente. La convinzione
di Burawoy del ruolo fondamentale della public
sociology [7] come risposta alla crisi della sociologia contemporanea non può che partire dalla critica ad una concezione puramente accademica e
“neutrale” della sociologia e da una “presa in carico” della responsabilità della ricerca.
Public sociology e sociologia del futuro condividono dunque un punto di vista simile sul legame
tra conoscenza-etica e azione. Nello stesso tempo
diventa fondamentale per la public sociology dotarsi di strumenti per l’analisi del futuro. Le discussioni e le decisioni pubbliche sui problemi sociali, infatti, sono sempre “future oriented” e si
misurano proprio sulla loro capacità di orientare
il futuro [8].
Il futuro presente: paura, incertezza e risorse
culturali
Se ragioniamo sul clima culturale entro cui si collocano le immagini, le rappresentazioni e gli orientamenti al futuro nella società contemporanea, ci troviamo di fronte ad un panorama piuttosto desolante.
«La modernità doveva essere un grande balzo in
avanti: via dalla paura, verso un mondo liberato
dal fato cieco e imperscrutabile, che è la serra di
tutte le paure. […] la scienza avrebbe inaugurato
un’epoca in cui sarebbero scomparse sorprese,
calamità e catastrofi – ma anche dispute, illusioni,
parassitismi… un’epoca, dunque, priva di tutto ciò
di cui sono fatte le paure» [9]
La frase di Bauman (che riecheggia quella forse
più conosciuta di Horkheimer e Adorno «…la terra interamente illuminata splende all’insegna di
trionfale sventura») coglie bene la profonda disillusione per le promesse mancate della modernità. Le categorie di rischio ed incertezza, che fanno
esplicitamente riferimento ad una perdita di controllo sul futuro, non a caso sono al centro della
riflessione sociologica in questi anni, in quanto
tratti costitutivi della tarda modernità.
E’ proprio dal fallimento della promessa di poter
finalmente controllare il destino che le molteplici
paure che sembrano caratterizzare l’esperienza
contemporanea trovano il terreno in cui svilupparsi. L’impossibilità di vedere innanzi a sé un futuro certo e prevedibile si riflette sul rapporto
con la realtà privando la sicurezza ontologica di
un orizzonte temporale entro cui definirsi.
La percezione di un futuro indeterminabile ed
imprevedibile, non solo è ampiamente diffusa e si
estende a sfere sempre nuove dell’esperienza,
ma soprattutto si associa ad un senso sempre più
42
Giuliana Mandich
Quale sociologia del futuro…
marcato di insicurezza e di vulnerabilità. Assume
appunto i connotati della paura, quella paura socialmente e culturalmente “derivata” che, indipendentemente o meno dalla presenza di una
minaccia, orienta il comportamento degli individui dopo averne modificato percezione del mondo e aspettative (Bauman, 2009). La paura così
intesa è qualcosa di diverso rispetto alla paura in
quanto emozione in risposta involontaria ad uno
stimolo ambientale. Si tratta di un tratto culturale
più ampio, che fa da sfondo alle emozioni vere e
proprie ma soprattutto costituisce un filtro che si
interpone tra gli individui e l’interpretazione della
realtà, diventa insicurezza ontologica. La cosa che
suscita più spavento – sostiene Bauman – è
l’ubiquità delle paure; esse possono venir fuori da
qualsiasi angolo o fessura della nostra casa o del
nostro pianeta.
Scenari disastrosi (alimentati dai media) come
quelli delle catastrofi ecologiche, delle crisi finanziarie ricorrenti, della mancanza di prospettive
per i giovani, della crescita del terrorismo, contribuiscono a fomentare un atteggiamento di timore per il futuro che incide sulle scelte degli individui oscurando la prospettiva entro cui si svolge
ogni agire sociale. Con il tramonto delle grandi
narrazioni (la religione e la scienza) entro cui si
collocavano le diverse strategie di dominio
dell’incertezza (Adam, 2000), dunque, la possibilità di rendere prevedibile il futuro, di colonizzarlo
per ridurre l’ansia, si fa sempre più evanescente.
Se quindi la società moderna vedeva il futuro
come un territorio da conquistare illuminato dalla
luce della scienza (il futuro vuoto e aperto
all’agire di cui parla Barbara Adam) la società
contemporanea lo immagina forse più come una
stanza buia di cui non è facile trovare la porta.
Nel valutare gli esiti di questo “oscuramento” del
futuro, è importante tener conto della doppia valenza contenuta dall’ incertezza contemporanea.
Da un lato l’incertezza presenta connotazioni positive, in quanto valore che amplia le possibilità di
realizzazione e apre nuove opportunità, dall’altro
in quanto condizione subita diventa segno di una
«nuova ascrittività generatrice di paure irrazionali
e di minacciosi fondamentalismi» (Privitera,
2002).
43
La radicalizzazione dell’incertezza nella società
contemporanea ne accentua questa doppia valenza, mettendo in luce nuove modalità di polarizzazione sociale che si basano proprio sulle diverse risorse culturali per pensare al futuro.
Se è vero, infatti, che la paura del futuro costituisce lo sfondo che caratterizza l’esperienza contemporanea, essa non coinvolge nello stesso modo tutti gli individui e non assume gli stessi tratti
nelle diverse società. Nel mondo globalizzato
l’espressione “avere un futuro” assume un significato “escludente”: verrebbe intesa come una
lotta contro gli altri, come se non ci fosse sufficiente posto per tutti (Sandkühler, 2008). Il futuro
vuoto della modernità diventa improvvisamente
troppo affollato.
Una delle risposte a questa profonda incertezza
sono i processi di presentificazione [10] ampiamente discussi anche nell’intervento di Carmen
Leccardi. La presentificazione è il tratto dominante di percorsi biografici in cui l’ancoraggio al quotidiano e la capacità di esserne padroni sostituisce la capacità di progettare il futuro. Anche la
capacità di agire nel presente deve però nutrirsi
di un orizzonte che le dia senso, della capacità di
immaginare il futuro, vederlo come un futuro aperto e non un campo chiuso e senza scelte.
Molte ricerche (Leccardi, 2005) infatti hanno sottolineato forti differenze nella capacità di gestire
l’individualizzazione in condizioni di incertezza.
Sono i giovani con maggiori risorse (culturali, sociali ed economiche) che sono in grado di leggere
l’incertezza come moltiplicazione delle possibilità
virtuali e di guardare all’imprevedibilità del futuro
come ad una risorsa. Questi giovani non hanno
paura del futuro anche se non sono in grado di
controllarlo attraverso la progettazione.
L’incertezza assume invece i connotati di un futuro chiuso, un futuro senza speranza per quei giovani che possiedono risorse sociali e culturali
scarse. Per questi, l’impossibilità di progettare si
risolve in una profonda sfiducia nel futuro.
La capacità di immaginare il futuro e i modi di
dargli forma (quella che Appadurai, 2004, definisce come "the capacity to aspire") sta diventando
dunque una delle risorse chiave per le generazioni che oggi si trovano a progettare i propri percorsi di vita. Senza questa capacità neppure le
Giuliana Mandich
Quale sociologia del futuro…
capacità più concrete possono avere significato,
sostanza e sostenibilità.
«The capacity to aspire is thus a navigational capacity. The more privileged in any society simply
have used the map of its norms to explore the future more frequently and more realistically, and
to share this knowledge with one another more
routinely than their poorer and weaker
neighbours. The poorer members, precisely because of their lack of opportunities to practice
the use of this navigational capacity (in turn because their situations permit fewer experiments
and less easy archiving of alternative futures),
have a more brittle horizon of aspirations». [11]
In questo contesto, la credenza nel fato e nel destino che caratterizzava collettivamente la visione
del futuro nelle società premoderne, riemerge
sotto nuove forme che esprimono il processo di
detradizionalizzazione e individualizzazione [12].
Si affermano forme di fatalismo, che potremmo
definire passivo, che esprimono la mancanza di
presa sulla realtà e assumono i tratti di una sfiducia nel fatto che il futuro possa essere diverso dal
passato possa essere un ambito di realizzazione.
Il fatalismo assume invece connotazioni diverse
(è un fatalismo attivo, che riconosce ruolo che il
caso e la fortuna giocano nella biografia di ciascuno) per i giovani che dispongono di maggiori
risorse. In questo caso la consapevolezza
dell’impossibilità di controllare il futuro assume
addirittura, connotazioni positive, in quanto capacità di accettare la frammentazione e
l’incertezza dell’ambiente come dato non eliminabile, da trasformare in risorsa grazie a quella
capacità di navigare il futuro, di “danzare” entro
gli orizzonti temporali aperti del presente, futuro
e passato.
44
Giuliana Mandich
Quale sociologia del futuro…
NOTE
[1] I contributi qui presentati costituiscono una rielaborazione delle relazioni presentate nella tavola rotonda “Future matters for social theory?” che si è svolta a Cagliari il 29 ottobre 2009 nell’ambito del programma scientifico della sezione Processi e Istituzioni culturali dell’AIS. Si ringraziano i presenti all’iniziativa per i
numerosi spunti di riflessione ed in modo particolare i partecipanti al workshop Understanding the Social
from a Temporal Perspective che Barbara Adam ha coordinato successivamente: Valentina Cuzzocrea, Aide
Esu, Giulio Marini, Guido Nicolosi, Manuela Nicosia, Giuseppina Pellegrino, Giulia Rodeschini, Caterina Satta
Le riflessioni emerse dal workshop sono in corso di pubblicazione nel numero speciale di Sociologi@DRES –
Quaderni di ricerca. Università di Cagliari curato da Valentina Cuzzocrea
[2] B. Adam, C. Groves, Future Matters. Action, Knowledge, Ethics, Leiden & Boston, Brill, 2007, p. XIV
[3]Questa consapevolezza ha tra l’altro contribuito allo sviluppo di quello che viene definito “complexity
turn in sociology” (Urry 2003, 2005)
[4] J. Urry, “Cars, climates and complex futures”, Dept of Sociology, Lancaster University, mimeo (2006)
[5] I future studies, che trovano le loro origini, secondo alcuni autori, addirittura nei romanzi di Jules Verne
o nella fantascienza di H. G. Wells, si sono ormai istituzionalizzati in quanto campo specifico di studi che
propone una riflessione sistematica ed esplicita intorno al futuro (Bell, 2003). I future studies si propongono
come vero e proprio campo transdisciplinare che attraversa e integra le diverse discipline. Negli ultimi anni
sono forti i segnali di una forte convergenza tra ambito dei future studies e sociologia. Se nel primo periodo
di sviluppo dei future studies il fulcro principale della riflessione sono le diverse tecniche di forecasting e la
finalità è quella di fare previsioni il più accurate possibile su alcuni aspetti specifici della realtà ( si parla di
futurologist o future content experts Van der Duing 2007) successivamente l’intento è più specificamente
teorico ed epistemologico, finalizzato alla comprensione di come organizzare processi attraverso i quali il
futuro è esplorato (si parla di future process experts).
[6] W. Bell, Foundations of future studies. History, purposes and knowledge, Transaction Publishers, New
Jersey, 2003, pag. 3
[7] La distinzione è ben conosciuta. Secondo la terminologia di Burawoy la public sociology è quella parte
della sociologia che si impegna nel dibattito pubblico (riflessiva e orientata ad un publico extra-accademico)
in opposizione alla “professional sociology” intesa come “sapere strumentale” che ha come referenti principalmente gli altri sociologi. Per il dibattito su questo tema nella sociologia italiana si rimanda a sociologica
(Sociologica N. 1/2007 http://www.sociologica.mulino.it/doi/10.2383/24188)
[8] In un recente volume sulla public sociology, ad esempio, sono presenti ben due saggi che analizzano esplicitamente il legame tra public sociology e sociologia del futuro
[9] Z. Bauman, Paura Liquida, Bari, Laterza, 2009, p. 5
[10] La presentificazione può essere analizzata anche a livello del present future, come fa Pellegrino nel suo
intervento.
[11] A. Appadurai, “Then Capacity to aspire. Culture and the terms of recognition”, in Cultural and Public
Action, (Eds: V. Rao, M. Walton), Stanford University Press, 2004, p. 69
[12] Per una discussione più ampia mi permetto di rimandare a Mandich (2009)
45
Giuliana Mandich
Quale sociologia del futuro…
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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J. Urry, “Cars, climates and complex futures, Dept of Sociology, Lancaster University, mimeo, 2006
P. Van der Duing, Knowing tomorrow? How science deals with the future, Eburon Academic Publishers,
2007
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Giuliana Mandich
Quale sociologia del futuro…
HIGHLIGHTS
Future matters for social theory?
Future Matters: Challenge for
Social Theory and Social Inquiry
Barbara Adam
(Cardiff University, UK)
Abstract
Social action is performed in the temporal domain of open pasts and futures. It is both mindful
of the recoverable and lived past and projectively
oriented towards an intangible future. It sets
processes in motion that ripple through the entire social system, across space and time, to
eventually emerge as facts. This futurity of action
tends to get lost in analyses that concentrate
primarily on empirically accessible, factual outcomes of plans, decisions, hopes and fears. To
encompass this “not yet” as central component in
the production of social facts requires changes to
social theory and the logic of social inquiry. It necessitates an openness to rethink the subject
matter of sociology, its epistemology and its
methodology. The paper presents a broad-brush
socio-historical analysis of changing approaches
to the future as foundation to theoretical considerations of necessary conceptual changes to the
discipline in order that social futurity may be accorded its appropriate place in the study of social
life.
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Barbara Adam
Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry
Introduction
Contemporary daily life is conducted in the temporal domain of open pasts and futures, mindful
of the lived past while projectively oriented towards the “not yet”. We move in this temporal
domain with great agility, pirouetting and swivelling to face both past and future, twisting and
turning in the knowledge realms of perception,
memory and anticipation. We operate with equal
confidence in the action domains of choice and
planning, where we are engaged in future making
and future taking. Without giving much thought
to the matter we alternate perspectives between
future presents which we anticipate and present
futures [1] which we enact. While our practical
understanding includes the future orientation as
an inescapable feature of social existence, for the
study of that life the future poses major challenges because it lacks the tangible materiality
needed for empirical study. This difficulty should
not be taken as an excuse to place futurity outside the social science frame of reference. Rather,
it needs to be acknowledged and understood in
order to adapt our modes of inquiry. If the future
is an inescapable aspect of human being and social life through action that is purposive, intentional and motivated, as well as goal and value
orientated then the future is de facto a subject
matter for the study of that life. If some of the
key institutions of social life are future orientated, such as religion, education, politics, economics, work, family, science, business and organisations then this future orientation is de
facto a subject matter for institutional analysis.
Finally, if the production of the future is the purpose of economic, political, scientific, educational, environmental activity, then it is de facto a
subject matter of the study of these social activities. Study of this temporal domain may be extremely challenging but the associated difficulties
are no adequate reason to bracket social futurity
from mainstream social theory and research. For
sociology to address the disjuncture between social life and its academic modes of inquiry, I want
to suggest, needs a multi-pronged approach to
aid understanding, and facilitate a critical theoretical perspective which in turn helps to identify
openings for change. It first requires historical
understanding of every-day, expert and academic
approaches to the future. Four historically distinct understandings and assumptions about the
future are identified here together with their associated expertise and modes of inquiry: the future as fate, fortune, fiction and fact. Through
this historical understanding theorists can appreciate the depth of the challenge that futurity
poses for the discipline and its logic of social inquiry and are able to explore how the gap between social action and empirical study of that
action might be narrowed. Clearly, this is a huge
programme of work which needs extensive research. In this paper I can do no more than open
a window on the issues, map some outlines of
key arguments and show their pertinence for the
study of contemporary social life.
The Future as Fate
Some of the earliest approaches to the futures
can be gleaned from mythology (Littleton, ed.
2002). In this ancient world gods and ancestors
set the world in motion and move it in particular
future directions. The myths of ancient and traditional cultures portray a world where people
have dominion over space and matter only, while
the temporal domain belongs to gods (or to ancestors as is the case in African and Australian
myths). Here, the unknowable future is projected
onto the sacred realm and has a particular status;
it pre-exists as fate. To penetrate this opaque,
pre-destined realm requires experts with special
access to divine purpose, that is, knowledge
about what god(s) and spirits have in store for individuals and collectives. Often, experts on the
sacred, pre-existing future are message-bearers
through which supernatural beings convey their
will. The source of this specialist knowledge is external to the oracles, prophets and mediums that
act as mere conduits for the messages of god(s),
spirits and souls from the netherworld. Impor48
Barbara Adam
Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry
tantly, these experts seek answers to specific
questions about what is going to happen, in a
certain situation, to a particular person or groups
of persons. As such, prophecies and divinations
are to aid people’s efforts to be prepared and
ready for what is to be and come about. This understanding of the future as pre-destined fate has
been largely displaced during modernity and substituted with the unquestioned assumption that
the future is ours to make, shape and exploit.
Modernity has swept away the universe of faith
and people have been transmuted from recipients of fate to makers of their own future. As
they assumed ownership, they began to approach the future as a source of fortune destined
for the present.
The Future as Fortune
In western cultures this dramatic shift in perspective on the future from fate to resource and
source of fortune occurred slowly over a period
of some four hundred years. The French Revolution is a key exemplar of this changed futures
perspective. During that period key thinkers from
Condorcet to Comte saw themselves as moral
agents for change. They were concerned not just
to “unveil” a pre-existing, pre-destined future but
to steer it in a particular direction (Manuel,
1962). This involved a fundamental shift in understanding of and approach to the future. Ownership of the future shifted from gods and ancestors to people. The future has been transmuted
from a pre-destined realm of unique individuals
and groups, into an abstract, empty and quantifiable entity available for unrestricted use and free
exploitation. The future as domain of fate gives
way to the future as realm of action potential:
the future becomes ours to shape, make and
take. This means that individual fate as a future
fact is displaced by a domain of probabilities
which is subject to calculation on the basis of past
facts. Divorced from context the abstract and
empty future can be exploited anywhere, at any
time and for any circumstance. It is treated as re49
sources to be traded and exchanged for wealth
creation. As open realm of potential it practically
requires shaping and making. It becomes a task
for planning, holding out the promise that it can
be what we want it to be. However, the very
openness and emptyness of the future of fortune
brings with it problems for knowledge and enforces significant changes in expertise. Without
predestination the future no longer exists as future fact and knowledge about it has to be
achieved from the present as present future. During the early phases of this transition while social
change was still slow and overall structures remained stable across the life times of individuals
a certain level of predictability could be maintained. However, with the pursuit of progress,
the social goal was no longer stability but change.
Stability became associated with standing still
and being out-moded. Thus, while the quest for
progress produced futures that extended into
ever more distant times, as well a providing increased wealth and prosperity, it simultaneously
reduced the certainty of outcomes. Here we see a
scissor movement: with the increase in future
making the future becomes ever less knowable.
In light of this difficulty, experts on the future had
to find new approaches to knowing the‚ not yet.
They shifted attention from the future present,
which had become unknowable under the modern conditions, to the present future as the outcome of human choice. Prophecy and divination
were abandoned in favour of scientific methods.
Experts on the future of fortune are no longer
forewarning of an impending fate, or concerned
with what will be happening in the lives of specific individuals and groups of people. Instead,
the focus shifts from individuals to collectives and
avarages. Importantly, the source of knowledge
for this present future is sought in the past: in
past occurrances and patterns of occurances. The
future of fortune is calculated on the basis of present and past collective data projected into an
empty future as general trend. As such, expert
knowledge of this future is no longer intended to
assist people to adapt to their fate but to aid intervention and social engineering on the one
Barbara Adam
Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry
hand and the pursuit of progress, innovation and
growth on the other. Both science and economics, for example, make extensive use of this
method by drawing on accumulated evidence
and, on the basis of this, make probability calculations about an avarage future, projected as
trend or cycle (Bell 2003, de Jouvenel 1967).
This scientific method of knowing the future
works, up to a point, as long as change is moderate and sufficient past facts are available from
which to calculate a probable future, that is, as
long as the past can act as indicator for the present and future. However, as Aurelio Peccei
(1982, p. 11) points out, when the future is no
longer a continuation of the past, but a consequence of actions and choices in the present, it is
no longer knowable on the basis of accumulated
facts and lessons of from the past. A number of
developments during the 20th century brought
with it such significant changes that the belief in a
calculable future became delimited and for certain conditions turned out to be a fiction (Colborn
et al, 1996).
The Future as Fiction
The first problem for a future calculated on the
basis of the past was the pursuit of progress itself, since it was tied to a commitment, a compulsion even, to innovate and change, with instability rather than stability being the inherent goal
(Bury 1955/1932). It meant that the less the present could be expected to be a repetition of the
past, the shorter would be the potential horizon
of planned action with predictable outcomes.
With the persistent and intensified pursuit of
progress, therefore, the past lost much of its unquestioned position as knowledge base not only
for future presents but also for present futures. In
addition, when one change chases the next, the
pace of life becomes accelerated. Changes stack
up and accumulate. As Karl Marx and Friedrich
Engels noted so memorably in their Communist
Manifesto:
«All fixed, fast-frozen relationships, with their
train of venerable ideas and opinions, are swept
away, all new-formed ones become obsolete before they can ossify. All that is solid melts into
air...» (Marx and Engels, 1967/1848, p. 224)
In contexts of such all-encompassing change,
moreover, the emptiness of the future is compromised. The abstract, empty future is becoming a crowded space, a territory congested with
intended and unintended consequences of our
own and predecessors’ dreams and desires. Consequently much of planned future making has to
give way to future repair and damage limitation.
Even this, however, is beset by problems since,
outcomes and products of the abstracting, quantifying mode of knowing sit uneasily in the interconnected, interdependent temporal world of
social and ecological processes, with their jarring
often producing further unintended, indeterminable consequences. This cluster of interrelated
consequences of future making in conditions of
modernity is nowhere more apparent than with
contemporary information and communication
technologies (ICT) where succession and duration
have been replaced by seeming instantaneity and
simultaneity, which means that both time and
space are altered in those relations of communication. Networked information is distributed simultaneously across space and instantaneously
across time. With ICT, movement across space
has been de-materialised; duration has been
compressed to zero and the present extended
spatially to encircle the earth. For people with access to ICT, and those implicated in their effects,
therefore, the present has been globalised. This
electronic present bestows on people powers
that had previously been the preserve of gods,
that is, it makes us “all-seeing”, and endows us
with the capacity of supernatural beings to be
everywhere at once and nowhere in particular
(Adam 1995, 2004). Importantly, when in principle everyone has access anywhere with the potential to influence anyone, probability of future
outcomes, let alone certainty, is no longer attainable. This difficulty is further increased with the
50
Barbara Adam
Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry
loss of time gaps between before and after,
which means that the assumption of causality
and sequences, which underpins daily affairs, is
no longer workable. Knowledge practices and expertise on the future have to adapt and alter.
The fictional status of the future intensified with
a wide range of technologies from genetic engineering to nano-technology. Most notably among
these is the development of the nuclear bomb
which brought to an end the certainty of continuity. Without assurance of continuity, humanity
has to learn to live with the potential end in the
present. This means that not just our individual
but also our collective lives are “lived unto death”
in the Heideggerian sense. In a context where we
are deprived of the taken-for-granted fundamental assumption that successor generations will
carry on where we leave off, faith is required to
maintain belief in this particular fiction. In light of
such developments Helga Nowotny (1994/1989)
suggests that the future is being eliminated and
replaced by an extended present. In a present
overloaded with choices, she proposes, the future is being determined now. Stumbling from
one correcting measure to another, Nowotny
(1985) considers us unable to get beyond having
to cope with the innovative present. Moreover,
an incessant need for innovation creates obsolescence at an ever-increasing rate which poses
problems for future absorption. Again these are
difficult issues that have to be dealt with in the
present, with the effect that the future is incorporated into the present. For Nowotny, therefore, today’s preoccupations with the future signify nostalgia for something that is about to disappear.
Experts on this fictional future require new skills
to supplement those of evidence-based science
and economics where probable futures are calculated on collective data from a known past. These
new skills, which experts on the future require in
order to grasp the fictional future and the extended present, are tied to knowledge about
complexity and interdependence. This means
that expertise on the fictional future and extended present has to transcend the binary think51
ing of the past and engage with systems thinking.
The systems perspective facilitates an appreciation of how the tiniest change can ripple through
the entirety of a system with unintended, unknown and unknowable consequences. Moreover, this understanding needed to be expanded
to apply not just to ICT and other contemporary
technological future productions but to all of
life’s processes, given that from this knowledge
perspective it becomes apparent that all creatures produce futures through their mere being
in the world. Every breath they take, every blade
of grass they eat, impacts on their world and creates chains of effects that ripple out into an open
future (Adam 1998). Humans, of course, are not
exempt from this inescapable future-producing
capacity. They too are tied into a boundless web
if interdependent relations of doing and receiving, giving and taking. As Hannah Arendt noted
more than half a century ago, […] the smallest act
in the most limited circumstances bears the seed
of the same boundlessness, because one deed,
and sometimes one word, suffices to change
every constellation. (Arendt 1998/1958: 190)
Cleary, the trusted dualisms of past or present,
present or future, local or global, individual or
collective can no longer be relied upon to provide
appropriate understanding. Only systems thinking can handle these interdependencies and mutual implications and theorize their consequences
[2]. However, while systems thinking is clearly an
important corrective to the knowledge of possible and probable futures, it is not sufficient to
understand contemporary social relations of the
future. From a social theory perspective there are
still numerous issues that require further exploration and discussion. In particular there is the
question about the reality status of the future: is
it ideal or real, fiction or fact? How these questions are answered, in turn, has significant consequences for the issue of responsibility for futures of our making.
Barbara Adam
Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry
The Future as Fact
Future making may have indeterminate outcomes for us in the present but it has outcomes
never-the-less. As such it is real in its consequences, even if these are opaque to the people
producing those impacts and effects. Every future
making, we need to appreciate, does not only
send ripples through the entire system across
space and time it also inevitably involves future
taking: it prefigures, shapes and forecloses future
presents of successors. This important fact is easily forgotten once the idea has been naturalised
that the future is empty and ours to make and
take to our desire. Despite this collective amnesia, however, the assumption of the future as
free resource for present use becomes today difficult to uphold as the empty futures of predecessors begin to impose themselves on our present,
restricting our choices and options. Amidst debates about climate change, environmental degradation and pollution, we are beginning to recognise that our own present is our predecessors’
empty and open future: their dreams, desires and
discoveries, their imaginations, innovations and
impositions, their creations. Our progress as well
as our climate change, our colonial and contractual responsibilities as well as our global institutions, markets and corrupt financial systems are
their empty, open, commodified futures in progress, are their creative imaginations working
themselves out in and as our embodied and embedded present. Our war memorials are their political aspirations, their pursuit of ethnic cleansing. Our present was their uncertain future,
where all that was solid melted into air, their discounted future, exploited commercially for the
exclusive benefit of their present. We realize that
we are the recipients of their empty-future illusion, which is for us inescapably real in its consequences.
Claims are being filed today for some of the results of their past pretences of emptiness. Accusations accumulate about past wilful blindness,
for example, about asbestos, smoking and Thalidomide. Our predecessors’ glorious creations
rebound as nightmares. The costs have to be
paid, the disasters rectified, the cancers endured.
Successor recipients shoulder the burden, are required to forgive and remedy past follies and pretences. Yet, despite all this, we still hold on to the
same illusion, still live the same make-believe:
The future is empty and open, we say. Ideal and
unreal, the future exists only in our minds. It is
ours to forge and shape to will, ours to colonise
with treasured belief systems and technoscientific products of the mind, ours for the taking. As social scientists we are charged to address
this illusion, take it out of the invisible domain of
implicit, naturalised assumptions and raise it to a
conscious level of understanding where it becomes available as subject for public debate. Difficulties arise, however, because the established
conceptual tools that guide contemporary social
science expertise on the future are no longer appropriate to the new task. That is to say, the future as fact does not yet have its accompanying
expertise but still relies on theories and modes of
inquiry that cannot access it. A distinction which
Betrand de Jouvenel (1967, p.3) discussed in his
seminal book The Art of Conjecture allows us to
see one of the key difficulties. De Jouvenel explains the difference between the Latin terms
facta and futura. Facta refer to past events,
done, achieved and completed; something that
has already taken (unalterable) form. Futura in
contrast, refers to that which has not yet come
about, someting that is still open to influence and
will become a factum only after it has occurred.
The distinction entails the recognition that‚ there
are no past possibilities and there are no future
facts’ (Brumbaugh 1966, p. 649 in Bell and Mau
1971, p. 9). The past is closed to influence and
therefore open to factual knowledge while the
future is open to choice and efforts to colonize
and control, but closed to factual inquiry. De Jouvenel’s dichotomy stands like a motto above social science inquiry and it entails implicit assumptions about the reality status of the future that
have become social science common sense. From
this perspective, not “the future” but only present possibilities for the future are real. Not fu52
Barbara Adam
Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry
ture presents but only present futures, therefore,
are amenable to contemporary inquiry. Since the
future as future present is considered to lack reality status the conclusion is drawn that, therefore,
the future present is an aspect of mind, belonging
to the world of ideas, thus to the realm of the
ideal rather than the real. In ancient times this
would obviously have been deemed utter nonsense. With rise of science, however, the assumption that the future is unreal has become naturalised as taken-for-granted fact.
Yet, in today’s technologically driven world, impacts of present choices and actions stretch
across time and space as futures in progress that
may be latent across generations for hundreds,
even thousands, of years. In such a context the
idea that the future is non-factual, ideal and thus
unreal is once more becoming untenable. Today
we have to learn to recognize and accept that the
latent process world of futures on their way and
in the making is real even if it is not tangible or
material in the conventional sense of materiality.
If we want to encompass this futurity in social
theory and the logic of social inquiry, then we
need to find ways to accord material (thus factual) status to the intangible effecting world of
processes. Furthermore, there is a need to embrace anew the idea of the pre-existing future.
Unlike their ancient pre-destined counterpart,
however, today’s pre-existing futures are largely
the result of human action. They are not tied to
single outcomes but dispersed across space time
and matter. They are not determined, that is, not
fully set in all their details but pre-existing neverthe-less, albeit in fuzzy, undetermined and indeterminable ways [3]. This once more alters the
temporal direction of the source of knowledge: in
addition to present futures we have to re-engage
with future presents.
Much more in our conceptual apparatus that we
take for granted requires when we take seriously
the idea of encompassing futurity in our social
theories, frames of reference and logic of social
inquiry. Some of this conceptual renewal reaches
into the deep structure of modern (western)
thought. The way we understand causality can
53
serve as exemplar. The modern (scientific) concept of causality has a specific temporal direction:
it works from past to present. As such, however,
it is no longer adequate to encompass the temporality of futures in the making, latent and invisible but on their way nevertheless. Older understandings of causality, in contrast, encompassed both past and future. It may be helpful,
therefore, to revisit one of these alternative ways
of conceptualising causality.
Aristotle proposed that causality needs to be understood with reference to four interdependent
elements. He called them “material”, “formal”,
“effective” and “final” cause respectively [4].
Natural science unified the first three causes into
one general physical cause where action causes
subsequent effects in a linear fashion from past
to present and future, while the idea of a “final
cause”, as both for-ness and the goal or end (telos) towards which organisms develop, has been
eliminated altogether. Biological scientists had
difficulty with this eradication of final causes,
given that they were encountering unmistakable
forms of goal directedness in their subject matter. Acorns grow into oak trees (and not beech
trees or dandelions), the final cause of the oak
tree being encoded in the acorn, and vice versa.
In order to eliminate all traces of the religious
language of creation and predestination, biological scientists replaced‚ final causes’ with the atemporal idea of, function’, that each part has a
function within the whole. Thus, the function of a
part brings about development, not its encoded
pre-existing end. It is the acorn’s function, not its
destiny, to become an oak tree. With this simple
move the temporal has been reigned in and futurity effectively shielded out from scientific causality in biology. In its place, the past and the atemporal present have been installed as the exclusive sources of scientific meaning. Sociologists
and anthropologists will recognise the parallel
move in the social sciences.
The pertinence of Aristotle’s “final cause”, however, relates to its materiality: final causes permeate the realm of matter. Future-oriented and
future-creating knowledge practices have mate-
Barbara Adam
Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry
rial effects that reverberate through the entire
system of physical, biological and cultural relations and processes. Aristotle’s four causes,
therefore, offer a base on which to start a contemporary conceptual reconstruction that is consistent with today’s impacts of knowledge practices which permeate outwards in space, spread
inwards in matter, organisms and bodies and extend temporally into the future: tomorrow, one
hundred, even one thousand years hence. The
task for social theory, therefore, is to produce
conceptualisations that are appropriate to contemporary future making and future taking in
general and to the future as fact in particular.
This entails, among other things, understanding
that transcends the taken-for granted scientific
conceptualisation of matter, facts and causes in
order to encompass fore-ness and the real futurity of processes.
societies’ self understanding and if their investigations are to be appropriate to their contemporary condition, then they do need to engage with
this difficult subject matter and get involved in
conceptual revision. If we as sociologists and social theorists want to encompass not just present
futures but future presents and if we want to acknowledge the reality status of futures in the
making, then we need to change our implicit assumptions and our modes of inquiry. To bridge
the gap between daily life and the study of that
life we need to take futurity seriously and encompass the complexity that such engagement
entails. With futurity moved to the heart of the
discipline, we can begin to critically support and,
where necessary counterbalance, the innovative
policies and activities that shape our world for
contemporaries and untold generations of successors.
Reflections
Acknowledgements
Fate, fortune, fiction and fact have been identified as historically different approaches to and
assumptions about the future. Yet, the different
perspectives and attendant knowledge practices
did not replace each other but continue to coexist, if in particular hierarchical relations. None
of the earlier futures relations, for example, are
lost. Thus, the future as fate continues to play a
powerful role in understanding and decisions. In
many domains of life and situations the future as
fortune is still the dominant perspective. The assumption that we make our own futures and fortunes remains prevalent and belief in an empty
future that is to be filled with our desires is as
strong as ever, tempered only by the awareness
that outcomes are not fully amenable to human
design. For the social sciences this layeredness of
futures relations makes investigation of that domain very complex indeed. Moreover, the
changes happened so fast that social theory and
our modes of inquiry have not caught up with the
mutating knowledge practices. However, if sociologists are to play a central role in contemporary
The work presented in this paper draws on recent
research on the social future which was funded
by the UK’s Economic and Science Research
Council (ESRC) under their Professorial Fellowship
Scheme (RES-051-27-0049; see
www.cardiff.ac.uk/socsi/futures) as well as
twenty-five years of research on social time. It
was first presented to a Round Table discussion
on “Future Matters for Social Theory?” 29 October 2009 at the University of Cagliari, Sardinia
and prepared for publication during a Fellowship
at the same university during October 2009.
54
Barbara Adam
Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry
Note
[1] The distinction between present future and future present has been introduced to social science by Niklas Luhmann (1982: 281) who suggested that the present future is rooted in a utopian approach which allows for prediction whilst the future present is technologically constituted and as such enables us to transform future presents into present presents. In Adam and Groves (2007) the distinction is expanded and
theorized with reference to standpoints that position us differently vis-à-vis our impact on successors
[2] See Adam and Groves 2007 for an extended discussion on systems thinking and its limitations for understanding futurity; also Adam 2005, a conference paper on complexity theory, futurity and social theory
[3] The studies of Rachel Carson 1965 and Theo Colborn et al. 1996 provide excellent examples of such
time-space distantiated futures in progress
[4] For a more detailed discussion, see Adam and Groves 2007
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55
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
HIGHLIGHTS
Future matters for social theory?
Futures-in-Train, Strategic
Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study
Analysis
Rob Stones
(University of Essex, UK)
Abstract
The article sketches a framework for thinking
more deeply about how to integrate the theorisation of the future into the detailed analysis of
particular cases. Barbara Adam (2009) has argued
powerfully that the ideology of modernity envisages an empty future, and that this can be not
only misleading but destructive. The development of a theoretically informed case study approach to futures, drawing on Adam’s work and
combining it with strong structuration theory’s
treatment of the strategic context (Stones, 2005),
is intended to increase the resources available for
thinking systematically against this ideology. It
offers examples of a disciplined series of combined conceptual and methodological steps for
addressing conjunctural strategic questions about
futures which are grounded or anchored in processes already-in-train, or likely to be in-train,
once that future arrives. These are designed to
guard against the kind of ungrounded, voluntaristic, wishful ideals as to “what can be” that all too
often lead to moral recklessness and irresponsible advocacy.
56
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
Introduction: Social Theory and the Grounding
of Normative Judgement
My aim in this article is to sketch in the outline of
a framework for thinking more deeply about how
to integrate the theorisation of the future into
the detailed analysis of particular cases. More
specifically, the focus of the case studies will be
on how thinking about futures can help to ground
political and moral judgements about “what
should be done” in the present (or what should
be done at a further point in a journey towards a
future present) in order to bring about a future
that is desired, or to subvert one that isn’t. The
framework I propose is one that synthesises aspects of Barbara Adam’s theorisation of the future (cf. Adams, 2009) with strong structuration
theory’s treatment of the strategic context of action (Stones, 2005). It will be implicit throughout
that this combination of social theoretical approaches is able to begin to systematically acknowledge the complexity of the future. As a result it is better able to “ground” or “anchor” political and moral judgements about what to do. The
adjective “voluntaristic” is often used by social
theorists to indicate the irresponsibility of political or interventionist initiatives that lack such a
sufficient grounding in the realities and dynamics
of the strategic terrain. A close parallel within
normative theory is Aristotle’s attribution of
“rashness” to those whose actions are reckless
rather than brave (Aristotle, 1976), or, to be
more subtle, and to extend a variation introduced
by the Aristotelian scholar J. O. Urmson (1988,
pp. 64-5), it is to distinguish between recklessness and appropriate, suitably grounded, caution,
the latter being the ability to apply just the right
combination of practical knowledge, confidence,
caution, and wisdom (also cf. Bernstein, 1986).
As soon as one goes beyond the pure deontological normative position, in which one simply acts
out of principle irrespective of the consequences,
then a judgement about “how to act” must not
only involve an assessment of the relevant actor’s
character and the influences on its formation, as
in the virtue ethics associated with Aristotle, but
57
must also involve an assessment of the potential
and likely risks, dangers, and rewards of a particular course of action. In social theoretical
terms it must involve an analysis and assessment
of the strategic context. An acknowledgement of
this, expressed in one language or another, is inherent in teleological or consequentialist theories
of moral and political philosophy, and also naturally in theories that combine the deontological
with the consequentialist, as in Rawls’s seminal A
Theory of Justice (1971). However, judging what
the consequences of particular actions will be in
any given context is no easy matter, and moral
and political philosophy are not particularly well
designed to explore such matters. In order to be
able to ground moral consequentialist judgements in an adequate grasp of social realities it is
therefore necessary to explicitly import concepts
of social theory, particularly those focused on issues such as the contextualised actions of social
actors (including “characters”), processes and
possibilities, structural constraints, sanctions, and
intended and unintended consequences.
Structuration, Strong Structuration and the Strategic Context
It is necessary at this point to say a bit more
about strong structuration theory. Structuration
theory, as developed by Anthony Giddens and
others, is a way of looking at social phenomena
as the product of social structures and social action, rather than just one or the other of these.
Social structures are understood subtly here as
being themselves produced by social actors who,
in turn, then engage in practices on the basis of
these social structures. Equally, the characteristics of these social actors, who are seen as knowledgeable and reflexive, will have been constituted in significant part through their insertion
and socialization into the practices of the past
and present social structures that provide the
context for their relations and interactions.
Moreover, the context of social structures which
helps to produce actors, and which provides the
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
context for their actions, is itself conceived as
having actors at its heart, not only in the process
of their initial production but also in the successive moments of their continuation. Thus, not only are social actors constituted in significant part
by structures, but structures are constituted in
significant part by social actors. There is a continual cycle or serial process in which actors situated within structures recursively draw upon
those structures in their actions, and those actions, in turn, help to constitute – through contributing to their reproduction or through affecting
change – the structures.
The notion of the duality of structure is the most
fundamental conceptual building block for the
theory of structuration (Giddens, 1979, p. 5;
1984, p. 25; and see, e.g., McLennan, 1984, p.
126; Sewell Jnr., 1992, pp. 12-13; Sydow and
Windeler, 1997, p. 462). Essential to this conception is a “structural-hermeneutic” core in the way
structuration theory characterises and understands social processes, practices and relations.
Giddens defines this in terms of:
«…the essential recursiveness of social life, as
constituted in social practices: structure is both
medium and outcome of the reproduction of
practices. Structure enters simultaneously into
the constitution of the agent and social practices,
and “exists” in the generating moments of this
constitution» (Giddens, 1979, p. 5, my emphasis)
In other words, there is a complex and mediated
connection between what is out-there in the social world and what enters in-here into the phenomenology of the mind and body of the agent.
Structures serve as the “medium” of action as
they are the material and social context, grasped
through memory and awareness of current circumstances, upon which agents draw, and in relation to which they strategise about the future,
when they engage in social practices. Meaningful
and ordered social action would be impossible
without this “medium”. Structures are also, however, the outcome of these practices of agents.
These manifest themselves in a plurality of differ-
ent forms. The structuration process places the
emphasis on social practices ordered and reordered in institutional clusters and alignments
across time and space.
Strong structuration theory (SST) was developed
as a way of building on and extending Giddens’s
more philosophical, generalising, approach to
structuration, by retaining its conceptual emphases but developing it in a more in-situ, empirically sensitive and research oriented direction [1]
. This version, which emerged from debate, counter-debate, empirical applications and ensuing
theoretical synthesis over the last two decades,
has produced a more refined conceptualisation of
the duality of structure, one that distinguishes
between four different aspects involved in any
structuration cycle, each of which is attuned to
the variability of content at the empirical, in-situ,
level. The first dimension singles out external
structures as conditions of action. This is a clear
statement, pace Margaret Archer (1995), that
there is much more to structuration theory than
the phenomenology and memory traces of the
current agent-in-focus. Nicos Mouzelis has written lucidly on the variable levels of intractability
or malleability of these external structures, and
this is necessarily related to the specific positioning and power resources available to the agent
who confronts them (see Mouzelis, 1991, pp. 379; 1995, p. 156; see also Archer, 1995 and Stones,
2001). The external structures can be thought of
as the agent-in-focus’s context of action, and will
involve her methodologically in an agent’s strategic context analysis of relevant positionpractice relations. This form of analysis can also
be engaged in from an external position which
may be more or less well informed than the vantage point of the agent-in-focus [2].
The second aspect of the structuration cycle involves internal structures within the agent, which
are the phenomenological preconditions that allow agents to mediate between external structures and their own orientation towards future
actions. These internal structures can be divided
into: i) general dispositions, akin to Bourdieu’s
notion of habitus, which refer to the specific and
58
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
variable dispositions, cultural and discursive
schemas, conventional understandings and typifications, “stocks” of transposable knowledge,
principles of action, emotional investments and
value-commitments [3], skills, aesthetic tastes,
and habits of speech and gesture within the
agent-in-focus. These will typically be pluralistic
and internally differentiated in character [4]; and
ii) conjuncturally-specific knowledge, which refers
to the variable knowledge and understanding an
agent-in-focus has of the external context of action within a specific conjuncture. This will include knowledge related to the different analytical, but empirically intertwined, domains of power relations, norms and meaning, and also of the
combination of material and non-material factors
relevant to action and its probable consequences.
Again, such knowledge will typically be linked to a
plurality of differentiated sets of position-practice
relations and their incumbents relevant to the
conjuncture and to particular goals and interests.
The third aspect is that of active agency, including a range of factors potentially implicated when
agents draw upon internal structures in producing practical action [5]. Important amongst these
is the agent’s tendency to order or sort their concerns and value commitments into a hierarchy of
priorities or purposes. This may involve more or
less critical reflection and distance from the
events, and the various orderings will be more or
less clear cut or blurred and indeterminate. The
final dimension of the structuration cycle is that
of the intended and unintended outcomes or
consequences of actions (which impact upon external and internal structures, as well as on
events and the general well being of actors).
This quadripartite cycle of structuration is trained
on the meso-level of ontological scale [6], that is,
on the point at which an agent-in-focus is involved in institutionalised practices, within unfolding time and relational space, and at the junction with other individual and collective actors in
a field of socially relational and cross-cutting position-practices. All these relational practices are
horizontally and/or hierarchically organised, a
point made cogently and at length by both Cohen
59
and Mouzelis in their contributions to the structuration synthesis (Cohen, 1989, pp. 207-213; and
Mouzelis, 1991). These “position-practice relations”, to adopt Cohen’s term, provide the strategic context or terrain that provides the range of
objective possibilities and limits to the possible
for actors-in-focus. The conjunctural-specific
knowledge an actor has of this context is a precondition for being able to think about strategic
possibilities.
This strategic or practical context of action, however, should not be thought of as existing somehow outside time. Its relations with the realities
of time need to be strongly theorised as part of
the process of avoiding voluntarism, recklessness
and irresponsibility. It is equally necessary to be
aware of the relations between time and the situated actor or actors who will engage practically
and strategically within that context of action, including the question of how to include time, and
the future, within the notion of the “conjuncturally-specific”. In looking at this time dimension,
aiming to bring out the close relations that will
exist in any case study between structuration
processes, the strategic context, strategy, and
various temporal processes and orientations, I
will base my arguments on Barbara Adam’s stimulating paper presented in the Round Table discussion on “Future Matters for Social Theory?” at
the University of Cagliari, and reproduced in the
present issue.
The Future Present as Fact
In “Future Matters: Challenges for Social Theory
and Social Inquiry”, Adam deftly foregrounds the
tension that exists between, on the one hand, the
open promise for shaping and making that the
future has come to signify in the dominant culture of modernity, and, on the other hand, the
ways in which this future has in reality – and increasingly as modernity has given way to radical
or post-modernity – already become crowded,
constraining and damaging, long before we arrive
at the point the future (becomes the) present. I
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
will focus primarily on Adam’s conception of future as fact and the insights it contains on the
ways in which a significant set of actions set in
train in the present are “future making” in that
they “prefigure, shape and foreclose future
presents of successors” (Adam, 2009, p. 6). On
this basis I will revisit strong structuration’s conception of the strategic context that provides the
setting for political and moral action, now configuring it more explicitly and systematically in
terms of a future present many of whose constituent elements have already been set in train
some time before that present arrives. Adam is
concerned in her paper to forge a general sociophilosophical frame which can be used to acknowledge and think about the “reality status of
futures in the making” (Adam, 2009, p. 8). By
combining her frame with strong structuration
and its conception of the strategic context I want
to flesh out some of the conceptual and methodological issues involved in applying it to the empirical research of in-situ case studies and to insitu political judgements.
Within this overall approach, which takes its core
guiding principle from Adam’s enigmatic but
compelling proposal that we should respect the
future as fact, I hope to indicate that an in-depth
emphasis on the detail of what it means for particular futures to be already populated and even
crowded, would allow for less voluntaristic and
reckless practical orientations towards the future.
Such an approach differs from the modernist, social engineering, impulse which conceived of the
future as something that was empty, something
that could be steered in a particular direction on
the basis of generalised knowledge of the past
and the present. Rather, the future as fact is understood as full of schemes and actions that are
already working themselves out, and that are increasingly more complex and interdependent.
Their precise content and character as future social facts, crowding the terrain into which present
strategies are launched, needs to be grasped by
those who are launching those strategies. Equally, we need to develop sensibilities that understand how our ability to grasp them is, in radical
modernity, ever more difficult as we are confronted by an increasingly complex, risk, society
in which the future consequences of our present
actions are at least as unintended, and indeterminable as they are intended and transparent
(Adam, 2009, p.4; cf. Giddens, 1990, Beck, 1992;
Urry, 2000; and Bauman, 2000). This is a state of
affairs in which the past and the present do continue to matter to the future. They matter now,
however, not only as things that can be learnt
from, as guides to what can be done in the future, and even the latter must take on the proviso that with the speeding up of innovation,
change, and obsolescence, this use of the past is
in many ways in decline (Adam, 2009, pp. 4-6).
Most centrally, the past and present matter to
the future in the ways they become embedded in
continuing social processes that stretch into the
future, already laying claim to, colonising, what it
will be.
The normative critique will often focus upon the
detrimental effects the aspects-in-train will produce once they reach the destination of the future present. But the practical strategic critique,
which can be prompted by that normative critique, can attempt to alter negative aspects of future fact before they arrive in that future present,
before they create or consolidate their detrimental consequences. Attempts to alter those aspects
can include political advocacy aimed at convincing actors participating and producing the relevant processes, or in the strategic vicinity of
those processes, to act to subvert them or alter
their course. Responsible advocacy [7] will naturally entail a judgement as to the risks and dangers involved for the lay actors if they respond to
these calls, and will need to weigh these against
the scale of the calamities that might be avoided.
60
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
Synthesising Strategic Context Analysis with Respect for the Future Present: Conceptual and
Methodological Guidelines for Case Study Analysis
In order to genuinely and systematically respect
the future present as “fact” from a responsible,
critical, normative and political standpoint it is
necessary to alter sensibilities towards the future.
This is the intended purpose of the framework I
propose. An important aspect of SST is its insistence that the precise question or problem-athand is an essential guide to what, exactly, needs
to be focused on in substantive and empirical
study (see Stones, 2005, pp. 116-27). A number
of different problem-foci and methodological
steps can be distinguished within a case study
approach to the future present as fact:
i) The need to consider the likely future consequences (for the well being, gains, sensibilities,
interests, objective and perceived harms and sufferings, of others, for social materiality, and for
nature) of focused actors’ actions within a given
time frame (time 1), and whether these are intended or unintended by those actors. Normatively, these future consequences can be judged,
at least provisionally, as positive or negative.
These future consequences can be thought of in
terms of:
• the main consequence or set of consequences directly-in-focus within a particular action domain. This might, for example, be in a formal policy making domain such as foreign or environmental
policy, or in the generally more informal
domains of home and family, or to within
the domain of work, perhaps aimed specifically at the nature of the systemic efficiency of authority relations there [8];
• other indirect consequences within the
domain of, and closely linked to the main
consequence of, the actions and consequences directly in focus. For example,
the effects of actions considered directly
in terms of their consequences for the
systemic efficiency of authority relations
61
at work may also be seen to give rise indirectly to consequences for other aspects of work experience, such as levels
of morale and degrees of social integration;
• broader consequences or side-effects
outside the domain of the orientation of
the actor(s)-in-focus and her/his/its actions (e.g. the implications of US foreign
policy commitments, and the time, energy and financial resources expended on
these, for US policy orientations and capabilities in the domains of climate
change or issue of the supply of food to
poor nations) (cf. Stewart, 2009).
ii) It is intrinsic to the hermeneutic character of
structuration that the nature of the consequences
in (i), above, and within the various points below,
involve an internal, meaningful, experiential dimension. That is, the future consequences of the
actions of actors-in-focus in any of the three
areas just outlined (direct, indirect, and broader
domains) will include their effects on relevant actors’ internal sense of well-being, respect and satisfaction, or suffering, humiliation and hurt.
These resulting consequences would include such
negative group and individual states of mind from
frustration and bitterness to the harbouring of
sentiments of violence and revenge. These internal states could also come to express themselves,
at a particular point or period of time, in externally oriented actions, in concerted reformist campaigns of resistance, in more radical actions, or in
acts of violence and terrorism. However one
wants to judge any of these responses, morally
and ethically, and whether they have crystallised
gradually over time or have been more swiftly
triggered by a single event, the various causes of
such topography of resentment, resistance, or
violence should be thought about as actors orient
themselves to the present future. There will already be certain potential for both negative and
positive future hermeneutic states embedded in
present internal states. These latent potentials
will typically be dependent for their future activation on what actions, processes and attendant
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
experiences are previously put-in-train. Looking
at present actions from this perspective foregrounds the responsibility to treat the possibility
of certain potentials unfolding as something that
is real, and which needs to be carefully considered. That is, we need to treat as real the future
that we, or they, may put in-train (cf. Adam,
2009, p. 8).
Let me take one broad area as an illustrative example here. The example I will use is that of collective memory and its junction with what Jeffrey
Alexander et al have referred to as “cultural
trauma” (cf. Margalit, 2002; Alexander et al.
2004). The existence of collective memory is a
necessary condition for the entrenchment of collective resentments and sufferings, and a sense
of a generalised culture having been traumatised
in some way. Having some awareness of the contours and content of such phenomena in the
present is a necessary precondition for understanding whether its character is such as to be
more or less malleable or intractable at different
moments in the journey from the present to the
future. This is the emphasis some writers place
on the associated ideological and cultural struggles over which constructions of the past and its
processes come to be hegemonic. In this, we are
dealing with formations in the present of cultural
discourses, collective memories and internal
hermeneutic processes that are both already-intrain and may be worked upon and affected by
current and future cultural and other actions and
struggles oriented to a more or less hazy, more or
less clearly envisaged, future present.
iii) Following directly on from the last sentence,
there is the need to identify those structuration
processes already-in-train (either routinely reproduced processes or processes that are changing) within the relevant strategic context at time
1 that may significantly affect the likely future
consequences set out in (i) and (ii). It may well be
the case, for example, that in the domain of collective cultural experience, widespread but
muted resentments within a population are already in train. This could be due to certain conjuncturally-specific practices of the past decade
which have been, for some time, perceived as unjust or disrespectful. The present future oriented
actions of the actor in focus (i above), seeing the
future simply as open and malleable, can gauchely and unintentionally transform this collective
culture from one of passive or submissive indignation to one of bitter and active resistance.
iv) The need to identify structuration processes
that are likely to, or could potentially be, put-intrain-after the actions at time 1 of the actors-infocus of (i), and that may significantly affect the
likely consequences of (i) within a given future
time frame (time 2). Example of this would be
those kinds of everyday injustices alluded to in
(iii), above, but now having their genesis after the
primary actions-in-focus of the case study.
It is not hard to think of examples which would
apply in their specifically different ways to both
(iii) and (iv). That is, of futures already-in-train,
and futures put-in-train-after, the actions in focus
(i) of the primary actors of a given case study.
Variations of the following three illustrations
could be formulated for either already-in-train or
put-in-train-after scenarios, but for the sake of
clarity I will articulate the longer first illustration
in relation to an already-in-train process and the
second and third to processes that can be put-intrain-after the primary actions in focus in the
case study:
• the lack of regulation of secondary lending markets by the US Federal Reserve in
the early years of the new Millennium,
coupled with a policy of maintaining low
interest rates on the back of record capital inflows had already begun to sow the
seeds of the global financial crisis of 2008
long before the latter future became the
present. Even in 2004, before interest
rates began to rise, large numbers of
subprime borrowers in the housing market were experiencing acute difficulties in
keeping up with their interest payments.
Much of this was shielded from view by
the buoyancy of the housing market,
which allowed “borrowers who fell behind on their payments to exit their
62
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
•
63
mortgages under duress without being
foreclosed” (Turner, 2008, pp. 57-9), but
the reality of the processes at work
meant the future crisis was well and truly
already-in-train. On a much smaller scale
something similar was already at work in
the recent talk about a possible decision
by the owners of Manchester United, the
American Glazer family, to sell and lease
back the club’s training ground and the
stadium at Old Trafford. Like most decisions in business, this is not a choice that
will be made in the face of an open and
unpopulated future. Rather, it needs to
be situated in processes that were already set in motion as the family purchased the club in May 2005. The £540
million they borrowed to finance the deal
put-in-train a process by which four years
later they were paying £42 million net interest on the bulk of that debt, an
amount that accounted for more than
half the unprecedented fee they were
paid that year for Cristiano Ronaldo’s sale
to Real Madrid, and which put the £100
million match day revenue for 2009 into
the deepest shade. The financial debt
processes already-in-train by this time
had so crowded and constrained the future of Manchester United Finance plc
that the doubling of prices for match day
tickets, squeezing out the traditional
working class supporter, and other
sources of revenue, were nowhere near
enough to keep the club solvent and successful in the medium term without more
drastic measures being taken. It is at this
juncture, in the midst of an already unfolding journey towards a further future,
that the Glazer’s decision to publicly
broach the issue of selling the grounds
needs to situated (Conn, 2010; Herbert,
2010).
In the period after primary actors-infocus have jointly initiated a peace
process to address the Israeli-Palestinian
•
issue, they will be looking for ways to induce the various parties to come to
and/or stay at the negotiating table. It
should be apparent to all (and should be
apparent that it is apparent to all) that
the consequences for this wished-forfuture of the subsequent setting up of
punitive new checkpoints and, even
more, the subsequent expansion of settlements in the West Bank or Gaza in
contravention of perceived legal and informal norms, would be negative. The
very natures of these processes put-intrain after the primary actions-in-focus
have been carried out are such as to significantly affect the consequences of
those primary actions. That is, identifiable forms of irritation, provocation, and
harms suffered by Palestinians at the
hands of, for example, the military, Orthodox settlers, and others after the
point at which peace overtures has been
made will clearly not facilitate the consequences which, at face-value, the actions
of the primary actors intended (cf. Shulman, 2007; Elon, 2008).
Intended or unintended structuration
processes initiated by the relatively powerful actions of landowners, criminal
gangs, the police, or local or central government officials often negatively affect
the lives of peasantry in rural areas in the
less industrialised world (cf. Turton,
1989; Pasuk and Sungsidh, 1994). It is not
difficult to envisage the triggering, by the
powerful actors, of virtually enforced internal migration by poor farmers and rural workers to the street of major cities,
after, and in spite of, processes in which
the primary actors-in-focus of the international development agencies of foreign
governments or national and international charities have directed support at
the rural population with the aim of allowing them to stay on the land.
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
v) The need to identify the temporality of the
structuration processes put in train by the actorsin-focus in (i) and of those processes in-train in
(ii), (iii) and (iv) including:
• the duration required for the individual
or collective actions to be enacted, from
conception to execution, which may require a good deal of co-ordination with
other social actors;
• the length of time between the execution
of particular actions and identified outcomes;
• the key points in time (more or less embedded in institutionalised ritual), key
temporal cycles, and the key temporal
junctions between the processes put in
train by the primary actors-in-focus and
those relevant processes already-in- train
or subsequently put-in-train;
• combining all these above points within
(v) with an assessment of the relation between the positive capabilities possessed
by primary situated actors with certain
structural resources at time 1, and the
achievement or otherwise of certain outcomes at time 2. This will entail tracing
intended goals or unintended positive or
negative outcomes identified by an external observer through the various temporalities just outlined. This entails integrating the stretched temporal dimension
into an in-situ appraisal of capabilities
stretched over relevant relational position-practice networks of structures and
actors.
vi) The need to identify the likely degrees of malleability or intractability (Mouzelis, 1991; Stones,
2005) of structural obstacles to:
• the intended goals of actors-in-focus
and/or
• the unintended outcomes and/or
• the desired outcomes linked to the political-normative critique.
Intrinsic here to the synthesis between SST and a
due respect for the future present as fact - a precondition for the exercise of responsible moral
judgement - is the need to include in this step a
sense of the likely time-frames of specific aspects
of malleability and/or intractability (from 5 minutes to forever). Knowing these time-frames,
and integrating them into strategy, can mean the
difference between advocating a course of action
that leads to well-being and the consummation of
justifiable interests, and advocating one that
leads to defeat, victimization and suffering.
vii) The extent to which the outcomes associated
with (i), which are understood as more or less determinate, will populate or colonise the future in
such a way that they will rule out, or make much
more difficult, the pursuit of other identifiable
policies or outcomes in the future. That is, attempting to specify in advance the ways in which
present action-orientations towards the future
are likely to alter future strategic contexts in such
a way as to narrow down which outcomes it will
then be possible to pursue. There will be certain
things that will, at that future point, have been so
crystallised by past practices as to be well-nigh
intractable.
viii) Closely linked to the last two points; the need
to have some awareness of the extent to which
“likely” future consequences in relation to (i), taking account of (ii)-(vii), are determinate or indeterminate, and to develop a political and moral
sensibility (of wisdom and judgement) towards
these. It is irresponsible to advocate to actors
strategies that have little chance of working and
which carry great risks of potential suffering. Actors may still choose to pursue such strategies for
deontological normative purposes, but even here
there is a responsibility to illuminate and expose
those risks, and to attempt to develop the best
possible non-voluntaristic policies.
Conclusion
I hope to have shown that the systematic combination of strong structuration theory with Adam’s
insights into futures can provide a powerful basis
for case study analysis. The approach draws attention to interrelated aspects of social
64
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
processes, constraints and possibilities that are
otherwise difficult to articulate. It is no doubt often the case with respect to specific tasks and dilemmas in everyday life that the “natural attitude” would not recognise a notion of the future
as empty. However, this robust common sense
stance is in a good deal of tension with the hubris
of the more generalised ideology of modernity
sketched out by Adam, and chronically invoked
by political, administrative and strategic rhetoric.
It is not easy to think systematically against the
dominance of this latter ideology, drawing out all
the implications of futures-in-train and a
grounded imagination of future presents as fact
for imminent judgements about capabilities,
plural causation, strategy and responsible advo-
65
cacy. It is towards developing the ability to do
this that the theoretically informed case study
approach of this paper is directed.
Acknowledgements
This paper was first presented to a Round Table
discussion on “Future Matters for Social Theory?”
at the University of Cagliari, Sardinia, and I would
like to thank the other participants in this event
for a stimulating discussion, and particularly the
organizers, Giuliana Mandich and Valentina Cuzzocrea.
Rob Stones
Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom:
A Framework for Case Study Analysis
NOTE
[1] See Stones, 2005, and subsequent applications, for example, Jack and Kholeif, 2007, Coad and Herbert,
2009; Delormier et al, 2009; and Greenhalgh and Stones, 2010. See Parker, 2006, for a review article on the
strong structuration approach
[2] For an elaboration of agent’s or strategic context analysis see Stones, 1991, and 2005, 121-25
[3] For a powerful elaboration of the case for a more systematic inclusion of the emotional investments and
moral-commitments of actors into social theory see Andrew Sayer’s The Moral Significance of Class, 2005,
Cambridge, Cambridge University Press
[4] On plurality within the general-dispositional structures see Stones, 2005, pp. 104-7
[5] See Stones, 2005, pp.100-104
[6] See Stones, 2005, pp.76-8, 81-84, 189-90
[7] On the relationship of responsible advocacy to Lukes’s notion of real interests (2005) see Stones, 2009a
[8] See Boltanski and Thevenot, 1991/2006, and 1999 for an extended and illuminating account of orientations to different domains that combines a sense of objective settings with the phenomenological tradition.
Also see Stones, 2009b
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Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
HIGHLIGHTS
Future matters for social theory?
I giovani e il futuro nella “società
dell’incertezza”
Carmen Leccardi
(Università di Milano-Bicocca)
Abstract
Se la modernità al suo zenit ha rappresentato il
futuro come tempo delle possibilità e della sperimentazione, la modernità contemporanea tende piuttosto a definirlo come una dimensione incerta e ricca di rischi, quasi più un limite che una
risorsa. Questa nuova semantica del futuro influenza in modo profondo anche i modi e le forme
attraverso le quali i giovani costruiscono le loro
biografie. In questo scenario, ad esempio, il “progetto di vita”, cuore della biografia intesa in senso moderno, appare come una dimensione sempre più evanescente. Sarebbe tuttavia fuorviante
considerare la relazione fra i giovani e l’avvenire
esclusivamente nei termini di una pura e semplice perdita del futuro. In realtà, come viene messo
in luce dalle ricerche, una parte del mondo giovanile è oggi impegnata in interessanti sperimentazioni temporali, finalizzate a mantenere il controllo soggettivo sul tempo di vita nonostante il
paesaggio sociale nebbioso in cui si trovano a vivere.
68
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
Introduzione
Tradizionalmente il meccanismo denominato
“differimento delle gratificazioni” – la repressione
degli impulsi edonistici, la determinazione a rinviare in là nel tempo la possibile soddisfazione che
il presente può garantire in vista dei benefici che
questa procrastinazione rende possibili – è stato
alla base dei processi di socializzazione. Se consideriamo quella giovanile una fase biografica di
preparazione alla vita adulta, il differimento delle
gratificazioni appare come la chiave di volta per
garantirne il successo. In questa prospettiva, infatti, è grazie alla capacità di vivere il presente in
funzione del futuro, utilizzando il tempo quotidiano come essenziale strumento per la realizzazione dei progetti – dunque sacrificando gli aspetti “espressivi” dell’azione a favore di quelli strumentali [1] – che il processo di transizione può
avere esito positivo. Qui il presente non è soltanto un ponte tra il passato e il futuro, ma la dimensione che “prepara” il futuro. Allo stesso modo il
tempo di vita giovanile, grazie alla relazione positiva con il presente costruita intorno al divenire
che esso prefigura, può essere rappresentato
come un tempo di attesa attiva, una fase che deve consentire una transizione a sua volta positiva
all’età adulta. Come ha scritto Alessandro Cavalli
in riferimento allo stretto nesso tra differimento
delle gratificazioni e disciplina temporale: «Se lo
scopo è determinato e desiderabile, anche la necessità di sopportare o di imporsi una […] disciplina diventa, soggettivamente, una strategia adeguata» [2]. L’identità personale, come conseguenza, si costruisce intorno ad una proiezione di
sé in là nel tempo (Chi voglio diventare?) grazie
alla quale non solo il passato ricava luce, ma viene anche tollerata l’eventuale frustrazione che
può accompagnare le esperienze nel presente.
Se dunque il futuro è considerato come la dimensione depositaria del senso dell’agire [3]; se è
rappresentato come il tempo strategico nella definizione di sé, il veicolo attraverso il quale, in diretta congiunzione con il passato, prende forma
la narrazione biografica, allora la posticipazione
della gratificazione può essere accettata. In que69
sta prospettiva, il futuro è lo spazio per la costruzione di un progetto di vita [4] e, insieme, per la
definizione di sé: progettando che cosa si farà in
futuro si progetta anche, in parallelo, chi si sarà.
In sostanza, la prospettiva biografica cui il differimento delle gratificazioni rinvia implica la presenza di un orizzonte temporale esteso, una forte
capacità di autocontrollo, una condotta di vita in
cui la programmazione del tempo risulta cruciale.
Il tempo quotidiano va accuratamente investito e
fatto fruttare in analogia al denaro, va programmato e il suo uso razionalizzato. Max Weber ha
scritto pagine memorabili su questo specifico orientamento all'azione ne «L’etica protestante e
lo spirito del capitalismo» [5]. Continua ad accadere che questo meccanismo venga dato per
scontato e che le nuove condizioni temporali
dell’agire, benché evocate sovente nel discorso
comune e anche nella comunicazione mediatica,
non siano adeguatamente messe a tema nella riflessione sulle costruzioni biografiche giovanili [6].
Occorre chiedersi, ad esempio, se e in che misura
la relazione fra progetto, tempo biografico e identità, che il differimento delle gratificazioni
presuppone, possa essere ancora considerata valida in un clima sociale, come quello contemporaneo, dove la componente dell’incertezza tende
a dominare, e dove i vissuti di contingenza lievitano [7]. Quando infatti l’incertezza aumenta oltre una certa soglia e si associa non solo all’idea
del futuro, ma alla stessa realtà quotidiana mettendone in discussione la dimensione data-perscontata, allora al “progetto di vita” viene sottratta la sua propria base. Inoltre, là dove il mutamento, come accade ai nostri giorni, è straordinariamente accelerato e il dinamismo, la capacità di
performance sono imperativi; dove l’ immediatezza è un parametro per valutare la qualità di
un’azione, investire sul futuro a lungo termine finisce per apparire tanto poco sensato quanto
procrastinare la soddisfazione. Più che rinunciare
alle gratificazioni che il presente può offrire conviene allora addestrarsi a “cogliere l’attimo”, non
chiudere le porte all’imprevisto, disporsi mentalmente in termini positivi nei confronti di
un’indeterminatezza che si carica di potenzialità
[8].
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
In questo orizzonte temporale compresso, il significato stesso dell’età giovanile si trasforma. Chi la
vive tende ad apprezzarla più per quello che può
offrire nel presente piuttosto che per il tempo futuro che essa virtualmente dischiude. Come conseguenza, l’identità si struttura intorno al presente: la “buona vita” non è più basata su impegni di
lunga durata, l’idea di stabilità perde di valore [9].
Per comprendere in modo adeguato la profondità
di queste trasformazioni, concentrerò qui la mia
attenzione in primo luogo sugli accenti e i tratti
semantici nuovi che caratterizzano la dimensione
del futuro. In un secondo momento, mi soffermerò sulle trasformazioni contemporanee nel modo
di concettualizzare il corso di vita giovanile e il
progetto biografico. Utilizzando anche i risultati di
una recente ricerca condotta in Italia sulla relazione tra giovani e temporalità a cui ho personalmente preso parte [10], prenderò infine in
considerazione alcune nuove forme di progettualità giovanile, frutto della crisi della concezione
della gioventù come fase di transizione all’età
adulta e del meccanismo del differimento delle
gratificazioni che ne è alla base.
Rischi globali e crisi del futuro: la modernità
contemporanea
La modernità contemporanea appare governata
in modo crescente da processi quali
l’intensificarsi della globalizzazione e dei mercati
globali, il pluralismo dei valori e delle autorità,
l’individualismo istituzionalizzato. Sul piano culturale, vengono favorite le forme di identità composita, in cui tratti globali e locali si mescolano
imponendo la convivenza anche conflittuale tra
diverse immagini di sé – un processo che tende a
produrre “identità cosmopolite” [11].
Come sappiamo dalla nostra esperienza diretta e
non solo attraverso riflessioni teoriche, caratterizza questa modernità una dimensione di rischi
globali: crisi economica ed ambientale, terrorismo internazionale, minacce (ad esempio, sanitarie) di tipo planetario, nuove modalità di diseguaglianza sociale, a partire dalla povertà crescente
di aree sempre più vaste del pianeta e, ad essa
intrecciate, nuove forme di sottoccupazione dai
riflessi devastanti sul piano esistenziale. In questo
scenario, c’è sempre meno spazio per dimensioni
come la controllabilità e la certezza, aspetti che
hanno contribuito a disegnare il profilo sociale
della prima modernità. Mentre quest’ultima può
essere dunque considerata espressione del progetto illuminista di superamento dell’idea di limite – di ogni limite, a partire da quelli legati alla
conoscenza la modernità contemporanea ci obbliga a confrontarci con l’irrealizzabilità dell’idea
di controllo [12]. Se il futuro cui guarda la prima
modernità è il futuro aperto, il futuro della modernità contemporanea è il futuro indeterminato
e indeterminabile, governato dal rischio – oltre
che dall’impossibilità, almeno ad un primo sguardo, di stabilire nessi significativi fra eventi/processi e relative responsabilità [13].
Soffermiamoci brevemente su questa dimensione, che si rivela di importanza strategica per
comprendere la portata dei mutamenti intervenuti nell’interpretazione e nel vissuto del futuro
e, insieme, nella costruzione delle identità giovanili. Il rischio appare, in questo scenario, più come
esito della perdita di relazione fra intenzione e
risultato, fra razionalità strumentale e controllo
piuttosto che, nell’accezione scientifica comune,
come relazione fra un evento e la probabilità che
esso si verifichi. Mentre nella prima modernità
con il termine rischio veniva sostanzialmente
concettualizzata una modalità di calcolo di conseguenze non prevedibili – si trattava, in sostanza,
di “rendere prevedibile l’imprevedibile” attraverso il calcolo probabilistico – nella modernità contemporanea la riflessione sui rischi impone strumentazioni concettuali di altro tipo. Questi rischi
appaiono scarsamente governabili, sono di portata globale e la loro prevenzione risulta particolarmente impervia. Minacciosi, essi avvolgono il
futuro in una cappa di pesante incertezza.
L’incertezza peculiare che questi rischi generano
è legata soprattutto al loro carattere umanamente prodotto, portato della crescita della conoscenza che caratterizza la nostra epoca: rischi incommensurabili ma umanamente prodotti sono i
mutamenti climatici o i rischi legati al nucleare; lo
stesso vale per malattie come la BSE o la SARS. In
70
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
un’epoca di rischi globali qual è la nostra, dunque, si interrompe l’imponente processo di “colonizzazione del futuro” avviato dalla prima modernità. Il futuro si sottrae al nostro controllo,
con ripercussioni profonde sul piano politico e
sociale. La nuova realtà generata dalla diffusione
di rischi globali trasforma l’avvenire da terra
promessa a scenario a tinte fosche, quando non
apertamente minacciose, per l’esistenza collettiva. E’ importante sottolineare lo stretto legame
che intercorre tra questa particolare categoria di
rischi e il futuro. Per loro stessa costituzione, infatti, questi rischi sono per così dire, “costruiti” e
nutriti in senso proprio dalla relazione con il futuro – sebbene non ci dicano nulla su ciò che, in positivo, nel futuro occorre perseguire. Non ci parlano di “beni”, ma concentrano l’attenzione esclusivamente sui “mali” che il futuro può diffondere. L’idea di futuro cui essi rinviano è, dunque,
al tempo stesso non determinata e improntata a
un diffuso senso di allarme associato a una sensazione di impotenza.
Nuove forme di temporalizzazione
Gli scenari di rischi non commensurabili menzionati (e capaci, tra l’altro, di proiettarsi su archi
temporali anche molto estesi: il divario temporale tra le azioni e i loro effetti, nell’epoca del rischio, può risultare decisamente consistente [14])
hanno ricadute sui modi di temporalizzare sui
quali è opportuno soffermarsi. Se intendiamo,
con il termine temporalizzazione, quella prospettiva in base alla quale passato e futuro, esperienze e aspettative, debbono essere continuamente
rapportate le une alle altre e coordinate sempre
di nuovo [15], non è difficile rendersi conto che in
un’epoca di rischi diffusi la capacità di temporalizzare tende a frammentarsi. Un orizzonte futuro
occupato dalla dimensione del rischio impedisce
ad esempio di costruire narrazioni biografiche in
cui ciascun evento appaia legato all’altro e capace
sensatamente di condizionarlo.
Analizzando i riflessi temporali delle condizioni di
incertezza contemporanea afferma ad esempio
Zygmunt Bauman [16]: «In passato, i periodi di
71
tempo ricevevano il proprio significato
dall’anticipazione di nuovi segmenti, ancora a venire, del continuum temporale; ora ci si aspetta
che traggano il proprio senso per così dire
dall’interno: che si giustifichino senza alcun riferimento al futuro, o con riferimenti soltanto superficiali. Gli intervalli di tempo sono disposti
l’uno accanto all’altro piuttosto che in una progressione logica; non c’è una logica preordinata
nel loro succedersi; possono cambiare posto facilmente, senza trasgredire alcuna regola ferrea: i
settori del continuum temporale sono in teoria
intercambiabili. Ogni singolo momento deve autolegittimarsi e deve offrire la massima soddisfazione personale».
Questa polverizzazione dell’esperienza del tempo
– è quasi inevitabile - porta con sé un’attenzione
speciale nei confronti del presente, «l’unica dimensione del tempo che viene frequentata senza
disagio e su cui si sofferma senza difficoltà
l’attenzione» [17]. Ancora una volta, i giovani sono un termometro particolarmente sensibile di
queste trasformazioni. Già negli anni Ottanta del
Novecento le ricerche sul tempo dei giovani [18]
registrano ad esempio il passaggio dal futuro al
presente, in particolare il “presente esteso”, come area di potenziale governo del tempo sociale
e individuale.
Con il termine “presente esteso” si intende quello
spazio temporale che bordeggia il presente, acquistando crescente valore in parallelo
all’accelerazione temporale contemporanea, favorita tra l’altro dalla velocità dei tempi tecnologici e dall’esigenza di flessibilità che fa loro da corollario. Secondo Helga Nowotny, che ha approfondito questo concetto [19], abolita la categoria
ormai poco funzionale di futuro diventa necessario riformulare il concetto di presente, costituendolo come referente centrale degli orizzonti temporali contemporanei. In questa prospettiva, non
più il futuro ma il presente più prossimo – quel
lasso temporale sufficientemente breve da non
sfuggire al dominio umano e sociale, ma anche
sufficientemente ampio da consentire qualche
forma di proiezione in là nel tempo – diventerebbe il nuovo tempo dell’azione. Nei quadri temporali di fine Novecento, in sostanza, il presente (o-
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
ra più, ora meno esteso) appare come la sola dimensione temporale disponibile per la definizione delle scelte, un vero e proprio orizzonte esistenziale che, in un certo senso, include e sostituisce futuro e passato [20].
In questo contesto appare chiara la consunzione
cui è sottoposta l’idea stessa di progetto – possiamo definire qui il progetto come una forma di
selezione, soggettivamente costruita, fra i molteplici “futuri virtuali” disponibili, capace di distillare, dalle fantasie e dai desideri che li sostanziano,
obiettivi perseguibili, dotati di una chiara cifra
temporale [21]. Ma si può ancora parlare di biografia in senso proprio in assenza di progetto? La
prima modernità ha delineato uno scenario in cui
non solo i due termini si presuppongono a vicenda, ma progetto collettivo e progetto individuale
rappresentano due facce della medesima medaglia. Gli obiettivi del progetto collettivo – libertà,
democrazia, uguaglianza, benessere economico –
appaiono come le condizioni base per la realizzazione del progetto individuale. Le biografie, a loro
volta, si strutturano intorno a questa coincidenza.
La seconda modernità tende a cancellare, con l'idea di continuità temporale, anche quella di progetto che lo zenith della modernità ha costruito.
Oggi ci troviamo dunque di fronte a costruzioni
biografiche di carattere inedito, prive di forme
progettuali tradizionalmente intese.
Possiamo prendere a prestito da Lévi-Strauss [22]
il concetto di bricolage – figura del pensiero magico e arcaico – per mettere a fuoco il particolare
stile cognitivo che le guida. Per Lévi-Strass il bricoleur è colui che esegue un lavoro con le proprie
mani utilizzando strumenti diversi da quelli usati
dalla persona di mestiere. Ciò che colpisce, osservandolo, è la sua capacità di adattarsi ai materiali
disponibili,
di
costruirsi
passo
passo
l’equipaggiamento necessario. Mancando un
progetto specifico a monte, l’attrezzatura viene
creata al momento. Ciascun elemento
dell’insieme sul quale il bricoleur agisce non è
vincolato a un impiego pre-determinato; l’esito
del lavoro è legato alle condizioni e ai mezzi con
cui il soggetto si confronta qui-e-ora. I risultati del
lavoro intrapreso sono perciò per definizione
contingenti. Non solo. L’intenzione iniziale può
facilmente risultare estranea al prodotto finale. In
un certo senso, il bricoleur – guidato da una logica essenzialmente “pratica” – personifica la separazione fra razionalità e intenzionalità.
Alberto Melucci ha evocato la figura del “nomade” come metafora delle traiettorie biografiche
contemporanee [23]. I “nomadi del presente”
non perseguono una meta, vagano/esplorano avvolti nella provvisorietà. Non si confrontano con
l’idea di frontiera, con un’idea che lega spazio e
tempo a qualcosa che “sta di fronte” e, in quanto
tale, va “affrontato”. Le frontiere, nell’universo
mediatico in cui viviamo, si sono spalancate. I
“nomadi del presente” si aggirano, senza una meta precisa, fra luoghi tra loro non collegati, altrettante stazioni della loro biografia le cui connessioni possono eventualmente essere identificate,
invece che sulla base di un progetto, come risultato di una riflessione ex post. Il tempo di frammenta in episodi, ciascuno con un proprio sistema temporale di riferimento.
Prende piede, in questo contesto, la tendenza alla sperimentazione – non intesa, tuttavia, secondo il consueto riferimento ad un itinerario per
prove ed errori, finalizzato ad individuare le vie
più idonee per raggiungere un obiettivo dato. Il
processo è invertito: si tentano «applicazioni
sempre diverse delle capacità, dei talenti e delle
altre risorse che abbiamo, crediamo di avere o
speriamo di avere – cercando di scoprire – quale
risultato ci dia maggiore soddisfazione» [25]. Ne
discende un orientamento all’azione in base al
quale «il segreto del successo consiste nel non
essere troppo conservatori, nell’evitare di abituarsi a un caso particolare, nell’essere mobili e
sempre a portata di mano» [26].
Nuove tendenze nella relazione fra i giovani e il
futuro
I riflessi di questi processi sui modelli di azione,
sui modi di interpretare la realtà, sugli stili di vita
e i modi di definizione dell’identità possono essere facilmente intuiti. In accordo al tema affrontato in questa sede, vorrei in particolare richiamare
l’attenzione sul ruolo che questi mutamenti gio72
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
cano nel rimettere a tema la stessa concezione
della fase di vita giovanile. Per definizione, infatti,
quest’ultima ha una doppia connessione con il
tempo: da un lato è considerata una condizione
temporanea, destinata a venir meno con lo scorrere del tempo; dall’altro, i giovani sono socialmente richiesti di costruire forme di relazione positiva tra il proprio tempo di vita e il tempo sociale. Questa relazione si sostanziava, fino a qualche
decennio fa (per i soggetti di sesso maschile), in
fasi biografiche lineari e ben riconoscibili: dapprima la preparazione al lavoro attraverso la formazione scolastica; poi l’esercizio del lavoro remunerato, sorgente centrale di identità e contrassegno indiscusso dell’età adulta; infine il ritiro
dal lavoro.
Oggi questa traiettoria biografica, capace di garantire una traiettoria prevedibile per l’ingresso
nella vita adulta, costituisce non più la regola, ma
l’eccezione. Per i giovani il processo di deistituzionalizzazione del corso di vita, che trascina
con sé anche la fine del concetto di “biografia
normale”, comporta il venir meno di un aspetto
sin qui determinante nella riflessione sulla condizione giovanile: l’identificazione della gioventù
con un insieme di tappe, socialmente normate,
che conducono progressivamente verso il mondo
adulto [27]. Queste tappe, abitualmente sintetizzate attraverso il termine “transizione” identificavano la fase di vita giovanile con un “attraversamento” guidato di passaggi di status. Come nelle
tre fasi biografiche indicate da Kohli, anche qui la
relazione tra individuo ed istituzioni era garantita
dall’intreccio tra tempo di vita e tempo sociale,
sulla base di una sequenza lineare ben riconoscibile. Si diventava adulti in senso pieno una volta
coperto quel percorso che prevedeva, in rapida
successione, “tappe” quali la conclusione degli
studi, l’inserimento nel mondo del lavoro,
l’abbandono della casa dei genitori per una soluzione abitativa indipendente, la costruzione di un
nucleo familiare autonomo e la nascita dei figli.
Oggi, sebbene questi eventi siano destinati prima
o poi a verificarsi, è venuto meno tanto il loro ordine e la loro irreversibilità quanto la cornice sociale che ne garantiva il senso complessivo.
73
Prima ancora che dalla sequenzialità, linearità e
rapida successione delle singole tappe, questa
cornice di senso era frutto del valore simbolico
che, nel loro insieme, esse rivestivano nella vita
dell’individuo giovane. Per loro tramite, infatti,
mentre trovava conferma il carattere “a termine”
della fase di vita giovanile, potevano entrare in
positiva congiunzione i due poli dell’autonomia
(interiore) e dell’indipendenza (sociale). La gioventù concepita come fase di transizione, in una
parola, permetteva di pensare il rapporto tra identità individuale e identità sociale come a quello tra due dimensioni non solo complementari,
ma sovrapposte in modo praticamente perfetto.
La certificazione della raggiunta autonomia interiore era garantita dal progressivo passaggio a
gradi sempre maggiori di indipendenza, resi possibili dalla relazione con istituzioni sociali sufficientemente credibili e non frammentate.
Lo scenario è ora mutato. Le istituzioni sociali
continuano a scandire i tempi del quotidiano, ma
è venuta meno la loro capacità di garantire ai
soggetti una dimensione fondamentale nella costruzione dell’individualità: il senso di continuità
biografica, una traiettoria socialmente normata
verso l’età adulta [28]. Il punto di arrivo di questa
traiettoria, a sua volta, è incerto non meno degli
itinerari per raggiungerlo. La continuità biografica
diventa allora frutto della capacità individuale di
costruire e ricostruire sempre di nuovo cornici di
senso, sempre nuove auto-narrazioni.
L’obbligo all’individualizzazione delle biografie –
le narrazioni biografiche devono essere rigorosamente auto-organizzate e auto-tematizzate, insieme “veloci” e creative –caratterizza, come
conseguenza, la fase storica in cui viviamo [29].
Questo implica una nuova enfasi sull’autodeterminazione, sull’autonomia e sulla scelta
(senza per questo cancellare i solchi profondi
tracciati dalle differenze di classe, educative, di
appartenenza etnica e, su un piano forse meno
appariscente ma non meno potente, quelle di genere). Per i giovani, tutto ciò si traduce nella conquista di nuovi percorsi di libertà e spazi di sperimentazione, ma anche nella perdita del carattere
dato per scontato di una relazione positiva con il
tempo sociale.
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
Se è vero che l’allungamento della fase giovanile
di vita ne costituisce certamente oggi l’aspetto
più appariscente, la trasformazione decisiva consiste tuttavia nel venir meno della possibilità di
ancorare le esperienze che i giovani compiono - in
questa fase, come sappiamo, esse si susseguono
con un’intensità esistenziale e un ritmo quasi irripetibile – al mondo delle istituzioni sociali e politiche. La crisi del futuro, e del progetto, che abbiamo preso in considerazione in queste pagine è
diretta espressione di questa difficoltà.
Al suo centro, per i giovani, c’è la deconnessione
tra traiettorie di vita, ruoli sociali e legami con
l’universo delle istituzioni capaci di dare forma
stabile all’identità. Così, ad esempio, si può entrare nel mercato del lavoro, uscirne poco dopo e
ancora rientrarvi senza poter identificare in questi ingressi una progressione verso l’assunzione di
ruoli lavorativi stabili; o, per quel che riguarda gli
studi universitari, interromperli, riprenderli e poi
concluderli senza che l’acquisizione di credenziali
educative superiori rappresenti una vera e propria “svolta” sul piano biografico, un empowerment capace di aprire la via a situazioni esistenziali di segno nuovo: non solo sotto il profilo della
stabilità del lavoro ma anche, ad esempio
nell’Europa mediterranea, per quel che riguarda
la scelta di vivere soli o con un partner, oppure di
costruire un proprio nucleo familiare. In una parola, l’autonomia esistenziale si dissocia
dall’acquisizione della indipendenza sociale ed
economica.
E’ tuttavia essenziale non limitare la riflessione
esclusivamente agli aspetti di perdita, di riduzione delle possibilità di azione, associati ai processi
di ridefinizione temporale della modernità contemporanea. Esiste infatti anche un diverso versante di questi stessi processi, una faccia in luce
che occorre analizzare con altrettanta attenzione.
Su di essa sono disegnate le strategie che i soggetti costruiscono per fare fronte a queste trasformazioni e, fin dove possibile, controllarle.
Come anche la recente ricerca sui mutamenti dei
modi di vivere la relazione con il tempo da parte
dei giovani – ricordata in apertura di queste riflessioni – ha messo in luce [30], l’esito di questi
importanti processi di ri-strutturazione della rela-
zione tra giovani, tempo biografico e tempo sociale non si riduce all’assolutizzazione del presente immediato in congiunzione alla glorificazione
del qui-e-ora. Le identità non si declinano esclusivamente al presente. Seppure questa opzione
possa apparire relativamente diffusa, essa non
esclude altre possibilità. Diversi giovani sembrano
ad esempio impegnati nella ricerca di modalità di
relazione nuove tra il processo di produzione e
creazione personale che al futuro è comunque
associato e le condizioni di incertezza specifiche
in cui esso è oggi vissuto.
Il futuro viene dunque messo in relazione insieme
all’apertura potenziale – il futuro costituisce, oggi
più che mai, lo spazio del divenire possibile – ma,
al contempo, a un’indeterminazione declinata
sempre più frequentemente come insicurezza.
Dentro la virtualità che, per definizione, caratterizza l’avvenire (ciò che è in potenza, ma non in
atto), si delinea, in altre parole, un intreccio peculiare tra l’ “anarchia del futuro”, per utilizzare
l’espressione di Elizabeth Grosz [31], e
l’esitazione, l’ansia, il desiderio, ora più, ora meno sotterraneo, di sostituire al progetto il sogno.
Di fronte alla crescita di questi tratti ambivalenti
del futuro, appare fondamentale la capacità di
ciascuno/di ciascuna di elaborare strategie cognitive in grado di garantire il controllo sul tempo di
vita nonostante l’aumento della contingenza: ad
esempio sviluppando l’abilità di mantenere una
direzione o una traiettoria nonostante l’ impossibilità di anticipare la destinazione finale.
In una recente ricerca condotta tra giovani francesi e spagnoli dove un analogo orientamento
biografico è emerso, esso è stato efficacemente
definito “strategia dell’ indeterminazione” [32].
Con questo termine si è inteso sottolineare la
crescente capacità dei giovani con maggiori risorse riflessive (ad esempio gli studenti) di leggere
l’incertezza del futuro come moltiplicazione delle
possibilità virtuali, e l’imprevedibilità che
all’avvenire si associa come potenzialità aggiuntiva invece che limite dell’azione. In altre parole, di
fronte ad un futuro sempre meno ricongiungibile
al presente attraverso una linea ideale che li unisce potenziandone reciprocamente il senso, una
quota di giovani - forse non maggioritaria, ma
74
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
certo culturalmente trainante - elabora risposte
capaci di neutralizzare il timore paralizzante
del’avvenire.
In modo analogo, una parte dei nostri intervistati,
ragazze e ragazzi nella medesima misura, esprime
in modo netto la tendenza ad aprirsi in positivo
all’imprevedibilità, mettendo anticipatamente in
conto la possibilità di cambiamenti di rotta anche
repentini, di risposte da costruire in “tempo reale”, via via che le “occasioni” si presentano. Il
training alla velocità che i ritmi sociali impongono
viene, in questo caso, “sfruttato” al meglio: essere veloci diventa un atout, permette in positivo di
“cogliere l’attimo”, di avviare una sperimentazione che può avere favorevoli ricadute sul tempo di
vita nella sua interezza.
Per questi giovani, l’incertezza del futuro significa
allora disponibilità all’incontro con l’accidentale,
con il fortuito – il “caso” di cui molti tra i nostri
intervistati e le nostre intervistate appaiono estimatori. Qui il controllo sul tempo biografico
non si identifica con la capacità di portare avanti
progetti specifici neutralizzando gli eventuali imprevisti che si incontrano sul cammino. Piuttosto,
controllo equivale alla volontà di raggiungere gli
obiettivi generali che ci si è posti – gran parte dei
giovani, pur in assenza di veri e propri progetti
esistenziali, possiede uno o più obiettivi di ampio
respiro collocati nel futuro: per quel che riguarda
il lavoro, la vita privata o, piuttosto, la “cura di
sé” à la Foucault. L’aspetto innovativo di questa
nuova costruzione biografica – che ha al proprio
centro la tensione verso un “futuro senza progetto” – è la capacità di accettare la frammentazione
e l’incertezza dell’ambiente come dato non eliminabile, da trasformare in risorsa grazie ad un esercizio costante di consapevolezza e riflessività.
Va subito sottolineato che coloro che esprimono
questa strategia temporale appaiono specialmente ricchi di risorse – culturali, sociali ed economiche. Se i soggetti dominanti della nostra epoca
sono coloro che si differenziano in virtù della capacità di fare buon uso, a fini di potere, della velocità e della mobilità, questi giovani sembrano
inserirsi sulla loro scia. Chi invece possiede risorse
sociali e culturali scarse sembra soprattutto patire la perdita del futuro progressivo e della pro75
gettualità tradizionale della prima modernità. Per
questi giovani, il futuro, fuori controllo, può essere soltanto azzerato, cancellato per far posto a un
presente privo di fascino. Nel loro caso, come ha
descritto bene Robert Castel riflettendo
sull’individualismo contemporaneo, siamo di
fronte a una forma di individualismo “per difetto”: qui l’individuo non possiede i supporti necessari per costruire la propria autonomia, ed è
schiacciato su un’identità senza spessore temporale [34]. L’accelerazione sociale diventa allora, in
modo palese, fonte di esclusione sociale, si traduce in una staticità patita.
La maggior parte dei giovani, ragazzi e ragazze, in
risposta alle condizioni sociali di forte insicurezza
e di rischio trova soprattutto rifugio in progetti a
breve e brevissimo termine, che prendono come
area temporale di riferimento il “presente esteso”. Essi reagiscono al “tempo corto” della società dell’accelerazione con una progettualità sui
generis, che si esprime su archi temporali minimi
e, anche per questo, appare decisamente duttile.
In alcuni casi essa sembra configurarsi essenzialmente come reazione all’inquietudine che l’idea
stessa del futuro evoca; in altri, assume la caratteristica di forme progettuali improntate alla concretezza – per lo più legate al portare positivamente a termine le attività già avviate – capaci di
dare risposta sia al bisogno di padronanza sul
tempo biografico in un ambiente veloce e incerto,
sia alla pressione sociale per risultati a breve termine. In quest’ultimo caso, la tipologia dei “progetti corti” appare come una sorta di “terza via”
fra la speciale capacità di gestione della complessità propria del primo tipo di orientamento biografico preso in considerazione, capace di relazionarsi al futuro senza formulare progetti, e il
riferimento esclusivo al presente di chi non riesce
a costruire reazioni adeguate alla crescita di indeterminazione dell’avvenire.
La concentrazione su un’area temporalmente limitata consente infatti la costruzione di un vissuto del tempo come campo unificato e continuo,
soggettivamente controllabile; a sua volta, il dominio sui tempi di vita è ricercato non attraverso
l’elaborazione di mete temporalmente distanti
(obiettivo irrealistico nella società dell’ incertez-
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
za), ma nella loro pratica qui-e-ora. Questa “strategia della via di mezzo” appare specialmente attraente perché, mentre non impedisce del tutto
una proiezione nel futuro attraverso il progetto,
risulta in sintonia con l’orientamento duttile reso
necessario da un’epoca in cui i processi di mutamento sono rapidi e spesso imprevedibili.
In conclusione: in un tempo in cui il futuro a medio-lungo termine non può essere messo a tema
senza suscitare preoccupazione e spesso un sentimento di vero e proprio timore, un metodo di
azione fondato sul “valutare di volta in volta”, sul
“quando mi si aprono delle porte cercare di non
chiuderle”, sul “cogliere le occasioni appena si
presentano”, può rappresentare una strategia razionale per trasformare l’imprevedibilità in una
chance di vita, per volgere l’opacità del futuro in
un’opportunità per il presente.
Per disporsi in positivo verso il divenire. Se, in
questo scenario, il meccanismo del differimento
delle gratificazioni conferma la propria inadeguatezza come standard di riferimento per l’agire sociale, un numero crescente di giovani appare tuttavia capace di sostituirlo con modelli di azione
costruiti intorno a nuove forme di disciplina temporale (ad esempio per periodo brevi, ma intensi,
“a termine”), di programmazione e di controllo
attento del tempo quotidiano.
In un periodo storico di crisi del futuro (e di crisi
della concezione della gioventù come transizione
alla vita adulta tout-court), si delinea dunque un
nuovo “stato d’animo” giovanile nei confronti del
tempo. Al suo centro c’è il bisogno di non farsi
fagocitare dalla velocità degli eventi, di controllare il mutamento attrezzandosi ad agire in modo
pronto, di non sprecare il tempo lasciando che “le
cose accadano”, di non farsi mettere alle corde
dall’insicurezza diffusa. Anche se il tempo che si
vive è oltremodo incerto, ciò che appare importante è soprattutto “mantenere la rotta”, non
perdere la direzione interiore.
Se queste sperimentazioni biografiche avranno
esito positivo, consentendo comunque ai giovani
la necessaria integrazione sociale, dipenderà anche dalla capacità del mondo adulto di riconoscerne la legittimità come espressioni di costru-
zioni identitarie in sintonia con le rappresentazioni del tempo dominanti nel nuovo secolo.
76
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
NOTE
[1] Si può considerare come “espressiva” quell’azione che non presuppone alcun investimento temporale
e considera come proprio fine l’azione in quanto tale. La dimensione temporale con cui l’agire espressivo
viene a identificarsi è il presente. Le attività di consumo possono essere considerate, sotto questo profilo,
emblema della dimensione espressiva dell’azione. Le azioni strumentali, di contro, sono guidate dalla razionalità di scopo e presuppongono la capacità di collocarsi all’interno di un orizzonte temporale che non
coincide con il qui-e-ora
[2] A. Cavalli, “La gioventù: condizione o processo?”, Rassegna Italiana di Sociologia, n. 4, 1980, p. 523
[3] A partire dalla Rivoluzione Francese, e per quasi due secoli, nelle società occidentali il senso dell’agire non solo individuale ma anche collettivo - è stato legato al futuro. Vedi, in proposito, le riflessioni di S. Neckel, Entzauberung der Zukunft, in R. Zoll (hrsg.), Zerstörung und Wiederaneignung der Zeit, Frankfurt a.
M., Suhrkamp, 1988
[4] “La biografia di un individuo è da lui appresa come […] progetto”, sottolineano ad esempio P. Berger, B.
Berger e H. Kellner in The Homeless Mind, New York, Vintage Books–Random House, 1973, p. 71
[5] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965 (ed. or. 1922)
[6] Mi permetto di rinviare, a questo riguardo, a C. Leccardi, Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella
società dell’accelerazione, Roma-Bari, Laterza, 2009
[7] Cfr. U. Beck, Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2008. World Risk Society,
London, Sage, 1999 e Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 2000. Sulla relazione fra
“società dell’incertezza” contemporanea e trasformazioni dell’identità vedi la recente riflessione di M.
Rampazi, Storie di normale incertezza. Le sfide dell’identità nella società del rischio, Milano, LED, 2009
[8] Per una riflessione su questa prospettiva esistenziale vedi Z. Bauman, Liquid Modernity, Cambridge, Polity Press, 2000. (trad. it., Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002)
[9] Cfr. H. Rosa, “Social Acceleration: Ethical and Political Consequences of a Desynchronized High-Speed
Society”, in Constellations, vol. 10, n.1, 2003, pp. 3-33
[10] I risultati della ricerca, a carattere nazionale e di tipo qualitativo condotta nel 2002-03, sono in corso
di pubblicazione in F. Crespi (a cura di), Tempo vola, Bologna, il Mulino
[11] Cfr. U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Roma, Carocci, 2005
[12] C. Leccardi (a cura di), Limiti della modernità. Trasformazioni del mondo e della conoscenza, Roma,
Carocci, 1999
[13] Vedi, al riguardo, M. Mason, The New Accountability: Environmental Responsibility Across Borders,
London, Earthscan, 2005
[14] Cfr. B. Adam, La responsabilità e la dimensione temporale della scienza, della tecnologia e della natura, in C. Leccardi (a cura di), Limiti della modernità, Roma, Carocci, 1999. Vedi anche B. Adam, Timescapes
of Modernity. The Environment and Invisible Hazards, Routledge, London-New York, 1998
[15] Vedi, in proposito, le riflessioni di R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici,
Genova, Marietti, 1986 (ed. or. 1979)
[16] Z. Bauman, In Search of Politics, Cambridge, Polity Press, 1999 (trad. it, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 83)
[17] S. Tabboni, Le radici quotidiane della rappresentazione del tempo storico, in M.C. Belloni ( a cura di),
L’aporia del tempo, Milano, Angeli, 1986, p. 123
[18] Vedi, per l’Italia, A. Cavalli (a cura di), Il tempo dei giovani, Bologna, il Mulino, 1985. Anche a questa
ricerca, la prima in Italia ad affrontare, agli inizi degli anni Ottanta, questo importante aspetto della condizione giovanile contemporanea, ho avuto la possibilità di partecipare in prima persona
77
Carmen Leccardi
I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza”
[19] H. Nowotny, Tempo privato. Origine e struttura del concetto di tempo, Bologna, il Mulino, 1993 (ed.
or. 1989)
[20] Secondo il filosofo tedesco Hermann Lübbe, in ragione degli intensi processi di mutamento in cui la
velocità dell’innovazione tecnologica si coniuga all’accelerazione dei ritmi di vita in uno spazio globalizzato,
ai nostri giorni anche la dimensione del presente finirebbe per contrarsi. Si verificherebbe, in questo caso,
una perdita dello stesso presente - oltre che del futuro - come spazio della scelta e dell’elaborazione riflessiva dell’azione. Cfr. H. Lübbe, Die Gegenwartsschrumpfung, in K. Backhaus e H. Bonus (a cura di), Die Beschleunigungsfalle oder der Thriumph der Schildkröte, Stuttgart, Schaeffer/Poeschel, 1998
[21] Ho approfondito il tema del progetto in Futuro breve, dedicato allo studio delle forme progettuali delle giovani donne. C. Leccardi, Futuro breve. Le giovani donne e il futuro, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996
[22] C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano, il Saggiatore, 1964 (ed. or. 1962)
[23] A. Melucci, Nomads of the Present, London, Hutchinson Radius, 1998. Sulle nuove traiettorie biografiche vedi anche Z. Bauman, From Pilgrim to Tourist – Or a Short History of Identity, in S. Hall e P. du Gay
(eds.), Questions of Cultural Identity, London, Sage, 1996
[24] Vedi, in proposito, F. Cassano, ‘Pensare la frontiera’, Rassegna Italiana di Sociologia, n. 1, 1995, pp.
118-132
[25] Z. Bauman, K. Tester, Conversazioni con Zygmunt Bauman, Milano, Raffaello Cortina, 2002, pp. 36
[26] Ibid., p. 38
[27] Per uno sguardo di sintesi sulle trasformazioni delle costruzioni biografiche giovanili in Europa negli
ultimi cinquant’anni, vedi V. Cicchelli e O. Galland, Le trasformazioni della gioventù e dei rapporti tra le
generazioni, in L. Sciolla (a cura di), Processi e trasformazioni sociali. La società europea dagli anni Sessanta a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2009
[28] La letteratura su questo aspetto è ormai vastissima. A titolo indicativo, cfr. J. Bynner, L. Chisholm L. e
A. Furlong (eds.) Youth, Citizenship and Social Change in a European Context, Aldershot, Ashgate, 1997; A.
Cavalli e O. Galland, (a cura di) Senza fretta di crescere, Napoli, Liguori, 1996; Du Bois-Reymond, “I Don’t
Want to Commit Myself Yet: Young People’s Life Concepts”, Journal of Youth Studies, 1(1), 1998, 63-79; A.
Furlong A. e F. Cartmel, Youth and Social Change. Individualization and Risk in Late Modernity, BuckingamPhiladelphia, Open University Press, 1997; C. Wallace e S. Kovatcheva, Youth in Society. The Construction
and Deconstruction of Youth in East and West Europe, Houndmills - Basingstoke, Palgrave, 1998; J. Wyn e
R. White, Rethinking Youth, London, Sage, 1997; J.J. Arnett, Emerging Adulthood, New York, Oxford University Press, 2004. Vedi anche, C. Leccardi e E. Ruspini (eds.), A New Youth?, Aldershot, Ashgate, 2006 e
C. Leccardi, Sociologie del tempo, Roma-Bari, Laterza, 2009. Per un’analisi dettagliata dei processi di trasformazione della condizione giovanile in Italia vedi i volumi curati dall’Istituto IARD negli ultimi vent’anni,
tutti pubblicati dalla casa editrice il Mulino
[29] U. Beck e E. Beck-Gernsheim, Individualization. Institutionalized Individualism and its Social and Political Consequences, London, Sage, 2003
[30] Vedi, in particolare, C. Leccardi, I tempi di vita tra accelerazione e lentezza, in F. Crespi (a cura di),
Tempo vola, Bologna, il Mulino, 2005 e C. Leccardi, Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella società
dell’accelerazione, Roma-Bari, Laterza, 2009, cap. V e VI
[31] E. Grosz (ed.), Becomings. Explorations in Time, Memory and Futures, Ithaca and London, Cornell University Press, 1999
[32] A. Lasen, Le temps des jeunes. Rythmes, durée et virtualités, Paris, L’Harmattan, 2001, p. 90.
[33] M. Foucault, La cura di sé, Milano, Feltrinelli, 2001 (ed. or. 1984)
[34] R. Castel, Les métamorphoses de la question sociale, Paris, Fayard, 1996
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Giuseppina Pellegrino
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
Il futuro in fieri del discorso socio tecnico
HIGHLIGHTS
Future matters for social theory?
“Leggere il futuro” attraverso gli
artefatti tecnologici? Il futuro in
fieri del discorso socio tecnico
Giuseppina Pellegrino
(Università della Calabria)
Abstract
Il futuro può essere (de)costruito, letto e interpretato a partire dall’analisi della progettazione e
dell’uso di nuove tecnologie e mezzi di comunicazione, intesi come artefatti sociotecnici emergenti da processi complessi.
Assumendo che il futuro a sua volta non sia dato,
ma l’esito di una serie di pratiche, rappresentazioni e conoscenze, osservare il modo in cui esso
viene immaginato e materializzato attraverso gli
artefatti tecnologici significa ripercorrere un
complesso paesaggio temporale, in cui tempi e
spazi si articolano specificamente.
Obiettivo di questo contributo è dunque inquadrare il particolare futuro prefigurato e realizzato
dagli immaginari sociotecnici, costruzioni material-discorsive caratterizzate da opposti determinismi, strategie di addomesticamento e controllo,
presentificazione e obsolescenza del tempo.
79
Giuseppina Pellegrino
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
Il futuro in fieri del discorso socio tecnico
«Mi metto interamente nelle tue mani», un tempo
era una frase che caratterizzava il dialogo con Dio;
oggi è una dimensione irriducibile della vita secolare,
che esperiamo quotidianamente ogni volta che
interagiamo con i prodotti della scienza
e con i sistemi di competenze.
(Barbara Adam)
Oggi dobbiamo vivere con prospettive future molto incerte,
e l’incertezza non si fonda sul piano divino di salvezza,
bensì nel sistema sociale, che deve rendere conto di se
stesso.
(Niklas Luhmann)
Introduzione
Il futuro è il tempo del nuovo, dell’(in)atteso e
soprattutto del possibile: oggetto di desiderio
quanto di timore, in cui si fondono speranza e
paura dell’ignoto, di ciò che potrebbe essere ma
ancora non è. Quasi mai, nella storia, si è avuto lo
stesso rapporto con ciò che ‘ancora non è’; né,
del resto, l’azione umana ha avuto la medesima
interpretazione del suo dispiegarsi, a maggior ragione rispetto a quella dimensione del tempo che
appare proiettata oltre il presente (cfr. Adam,
2009).
Questo contributo intende focalizzare una particolare modalità di produzione e costruzione del
futuro, che si realizza nella progettazione e
nell’uso di nuove tecnologie e nuovi mezzi di comunicazione, qui definiti, con un termine mutuato dagli approcci di tipo Science and Technology
Studies, artefatti tecnologici o artefatti sociotecnici (cfr. Bijker e Law, 1992; Bijker, Hughes e
Pinch, 1994; Akrich, 1992 tra gli altri). Gli artefatti
sociotecnici, andando oltre l’idea di una tecnologia autonoma e non controllabile (Winner, 1977)
appaiono non più dati, ma risultanti di processi
articolati.
Assumendo che il futuro, a sua volta, non sia dato, ma l’esito di una serie di pratiche, rappresentazioni e conoscenze, e che vi sia una interdipendenza tra spazio, tempo e materialità (cfr. Adam,
2009), osservare il modo in cui esso viene immaginato e materializzato attraverso gli artefatti
tecnologici significa ripercorrere un complesso
paesaggio temporale (timescape; Adam, 2009a).
Tale paesaggio chiama in causa la storia dei media e della tecnica, le retoriche dell’immaginario
tecnologico, le dinamiche del discorso pubblico
riguardanti il rapporto tra tecnologia e società.
Infatti, è attraverso l’uso di una immaginazione
proiettiva collettiva (e di un conseguente immaginario) avente ad oggetto le possibilità sociali dischiuse da nuove tecnologie, che queste diventano mezzi di comunicazione conquistati dai rispettivi pubblici, nonché artefatti a disposizione di differenti gruppi sociali, che li interpretano in modo
flessibile per i loro scopi nell’ambito delle culture
tecniche, dei metodi e delle informazioni che costituiscono il quadro tecnologico (Bijker, 1995).
L’unità di analisi sociale del futuro, dunque, diventa il discorso sociotecnico o discorso pubblico
sulla tecnologia, ovvero l’insieme dei discorsi e
delle forme comunicative (scritte e orali, mediate
e non) che riguardano tecnologie nuove o in fieri,
e che permettono di interpretarle associandovi,
spesso, un ordine sociale ritenuto auspicabile
(cfr. Iacono e Kling, 2001).
Tale discorso è caratterizzato da alcuni topoi che
lo articolano come una narrazione esemplificativa
del rapporto che si instaura, in un dato contesto
spazio-temporale, tra le tecnologie e gli attori,
attraverso alleanze, negoziazioni e conflitti riguardanti gli usi possibili e potenziali delle tecnologie stesse.
Obiettivo di questo contributo, dunque, è quello
di collocare il problema del futuro rispetto ad artefatti tecnologici che sembrano incorporarlo e
materializzarlo (si pensi al valore attribuito nella
società contemporanea al telefono cellulare e alla
mobilità in generale). Nello stesso tempo, il futuro plasmato attraverso questi artefatti ha durate
diversificate, cicli lunghi o brevi a seconda degli
attori che veicolano il discorso pubblico, nelle sue
sfumature più o meno deterministiche, e degli
obiettivi che si intendono conseguire associando
a certe tecnologie certi scenari (spesso stereotipati). Qui occorre distinguere gli artefatti oggetto
del discorso, dai (mass) media che sono attoriautori di tale discorso, insieme a molti altri gruppi
80
Giuseppina Pellegrino
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
Il futuro in fieri del discorso socio tecnico
sociali (dalle istituzioni alle comunità professionali, cfr. Iacono e Kling, 2001).
Dopo una breve analisi della centralità di scienza
e tecnica nella produzione sociale del tempo, si
analizzeranno gli immaginari sociotecnici e il modo in cui essi articolano un futuro specifico, caratterizzato da alcune dimensioni fondative:
- il perdurare, in forme più o meno forti, di
uno schema binario e oppositivo, che confronta un determinismo tecnologico ad uno
sociale nella (pre)visione del futuro;
- le strategie di addomesticamento (materiali
e discorsive) delle tecnologie e del futuro
possibile ad esse associato, nonché il tentativo di controllare il futuro attraverso gli artefatti sociotecnici;
- l’obsolescenza, la presentificazione e l’attesa
di una (presunta) rivoluzione che di fatto deve essere governata, come caratteristiche
del futuro nel discorso sociotecnico.
Scienza, tecnica e tempo
E’ innegabile che la costruzione sociale del tempo
e la sua molteplicità abbiano conosciuto una diversificazione attraverso la storia. Rispetto al ‘solo’ futuro, ad esempio, si possono individuare
quattro forme culturali, o grandi fasi concettuali:
il futuro come destino, come risorsa, come finzione e come fatto (Adam, 2009). Tuttavia, la definizione del tempo è cambiata soprattutto in
rapporto ai modi di accumulazione e trasformazione della conoscenza, e alle tecniche sviluppatesi in modo concomitante. Come evidenzia Lewis
Mumford nel suo “Tecnica e cultura” (Mumford,
2005), la standardizzazione e meccanizzazione del
tempo si deve ad istituzioni che hanno contribuito all’irreggimentazione della vita sociale (dal
monastero benedettino all’esercito) attraverso
tecniche specifiche e artefatti correlati (l’ora benedettina prepara e precorre, in questo senso,
l’orologio meccanico). Il rapporto tra scienza,
tecnica e tempo è dunque soggetto a processi di
longue durée: «durante i primi sette secoli di esistenza della macchina, i concetti di tempo e spa81
zio furono assoggettati ad uno straordinario
cambiamento e nessun aspetto della vita rimase
indenne dalla trasformazione. L’applicazione di
metodi di pensiero quantitativi allo studio della
natura ebbe la sua prima manifestazione nella
misurazione regolare del tempo; ed il nuovo concetto meccanico di questo sorse in parte dalle regole di vita del monastero» [1].
D’altro canto, scienza e tecnica sono cruciali nella
realizzazione di un mondo moderno in cui un
progresso irresistibile ed irreversibile procede in
senso non più circolare (moto tipico del corpo,
dei corpi celesti e della natura), ma unilineare. Il
progetto di un mondo in cui il tempo si meccanicizza e può essere scambiato come merce, rivela
l’imperativo
economico
dell’efficienza
e
dell’efficacia come diktat per la vita sociale, nonché la crucialità della pratica della misurazione
del tempo per l’attribuzione ad esso di un valore
condiviso e standardizzato (cfr. Landes, 1984).
Del resto, il rapporto che connette il tempo alla
scienza e alla tecnica, consolidatosi nel corso della modernità (si pensi a quanto la fisica teorica,
relativistica e quantistica, abbia contribuito a
modificare le concezioni dello spazio-tempo) prosegue nella globalizzazione contemporanea, con
la cruciale ri-articolazione legata alle tecnologie
della comunicazione e dell’informazione. Così, la
centralità dell’interazione sociale faccia-a-faccia
nella creazione di legami di prossimità (cfr. Berger
e Luckmann, 1969) si confronta con l’estensione
dell’interazione oltre la compresenza, nella direzione dell’accessibilità spazio-temporale, attraverso l’interazione mediata (Thompson, 1998).
Continuare a considerare la comunicazione faccia
a faccia il prototipo di riferimento della comunicazione mediata non appare più così ovvio (Fortunati, 2005), poiché «quando le distanze sono
state ridotte dalla velocità delle comunicazioni,
anche gli orizzonti personali, sociali, religiosi, politici ed economici si sono espansi» [2].
In questa flessibilità degli orizzonti spaziotemporali, la pluralità e l’ambivalenza dei tempi
personali, collettivi e sociali si riflette nei ritmi del
corpo, sempre più tecnologico (Fortunati et al.,
1997), esteso nella sua performatività spazio-
Giuseppina Pellegrino
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
Il futuro in fieri del discorso socio tecnico
temporale dalla scienza, proteso e proiettato verso un futuro rispetto al quale anche l’etica deve
confrontarsi con la molteplicità di una corporeità
materiale ed immateriale nello stesso tempo (Pellegrino, 2009).
Determinismo e discorso pubblico sulle
tecnologie
Del rapporto tra scienza, tecnica e tempo, il discorso pubblico sulle tecnologie costituisce una
manifestazione sincronica e diacronica. Sincronica poiché in un dato momento si può rintracciare
un insieme di discorsi associati ad una tecnologia
considerata emergente; diacronica in quanto tale
discorso perdura ed attraversa le epoche storiche
per confermare, in diversi contesti storico-sociali,
la rilevanza delle forme di comunicazione che
immaginano e plasmano non solo gli usi presenti,
ma anche quelli possibili e futuri della tecnica.
Attraverso il discorso pubblico tecnologico, si dispiega nel tempo quel determinismo (tecnologico
e/o sociale) che sulle tecnologie e i nuovi media
proietta speranze e paure, utopie e distopie, alimentando un confine tra coloro che, secondo Eco
(1964), possono essere definiti come integrati o
apocalittici, di fatto rispetto ad ogni nuova tecnologia. La persistenza di un pensiero deterministico-binario è stata acutamente sottolineata nella
definizione dell’approccio “visionario”, proiettato
nel futuro, che permea tanta parte del discorso
pubblico sulle tecnologie: «Le visioni della tecnologia hanno una lunga storia di un tale pensiero
binario. Le visioni delle tecnologie come trasformative della vita, sia in modi trascendenti sia in
modi minacciosi, sono state reiterate ed abbracciate molte volte nel corso della storia, dalla
stampa al computer [...] con nuove tecnologie
che prendono il posto di altre più consolidate, in
un ciclo apparentemente infinito […] mentre il
cambiamento tecnologico continua ad un passo
rapido, le visioni che lo definiscono restano bloccate in un ciclo ripetitivo di strutture binarie oltremodo semplificate» [3].
Queste opposizioni binarie che rinviano ad un determinismo in cui la tecnologia è considerata, unilateralmente ed univocamente, fonte di cambiamento, costituiscono la “retorica del nuovo”, la
cui temporalità è quella del progresso irreversibile, una lunga retta in cui al sogno dell’ iperconnettività si alterna la paura di una perdita irrimediabile del legame sociale.
Questa retorica del nuovo non costituisce una
novità, così come il termine “nuove tecnologie”
ha un valore storico solo relativo. Infatti, i nuovi
media, incluse le nuove tecnologie di comunicazione, «[…] vengono sempre a inserirsi in un clima
di tensione creato dalla coesistenza di vecchio e
nuovo, assai più ricco di quanto possa mai essere
un singolo mezzo di comunicazione che attiri
l’interesse in virtù della sua novità […]. Per quanto possa sembrare saldamente organizzata e racchiusa in usanze e strumenti, la comunicazione
reca in sé il germe del suo stesso sovvertimento»
[4].
Se le pratiche discorsive focalizzano una tecnologia autonoma ed incontrollabile, che trascende
l’umano nel bene e nel male (Winner, 1977), occorre allora ulteriormente indagare le
(dis)continuità
tra
le
rappresentazioni
dell’immaginario e le pratiche quotidiane di integrazione e appropriazione della tecnologie, badando di non ricadere nella trappola dualistica
del discorso pubblico orientato, nella sua componente più visibile ed influente, dal determinismo.
Immaginari sociotecnici, addomesticamento e
controllo del futuro
Il discorso visionario, fondato su speranze e paure, utopie e distopie (cfr. Kling, 1996) è al centro
degli immaginari sociali incorporati e suscitati dalle innovazioni tecnoscientifiche, tanto più quando
la tecnologia in questione è mediatrice della comunicazione, dell’interazione sociale e della circolazione dell’informazione e delle conoscenze.
Le visioni veicolate da questo discorso entrano, in
modo più o meno cruciale, nei processi di addomesticamento e controllo attraverso i quali gli u82
Giuseppina Pellegrino
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
Il futuro in fieri del discorso socio tecnico
tenti “trasportano”, adottano e fanno propri i
media nella loro vita quotidiana (cfr. Silverstone,
2000). Nelle più recenti versioni di questa teoria
(Berker et al., 2006), il passaggio dallo stato selvaggio a quello di familiarità, intimità e domesticità della tecnologia si realizza oltre le pareti della
“casa”, laddove inizialmente questo processo veniva situato. L’addomesticamento del futuro sociotecnico assume una sua contestualizzazione
spazio-temporale, essendo definito anche dagli
spazi e dagli orizzonti temporali entro cui circolano i molteplici discorsi sulla tecnologia. Possono
essere individuate diverse durate temporali del
futuro, attraverso le quali si realizza, nei temi e
nei tempi tipici dell’immaginario, il raggiungimento della familiarità con le nuove tecnologie, e il
tentativo di controllarne gli usi. C’è un futuro di
breve termine, obsolescente e presentificato, che
però non rinuncia a proiettarsi, attraverso il determinismo binario, in un orizzonte meno immediato, denso di empiti rivoluzionari (vedi oltre).
Quale che sia la durata del futuro prefigurato, i
discorsi riguardanti una nuova tecnologia assumono un ruolo strategico, divenendo l’arena
pubblica in cui diversi gruppi sociali si confrontano e si scontrano sulle rispettive interpretazioni,
aspettative e usi potenziali della tecnologia stessa
(Bijker, 1995). In gioco, è il potere di definire chi
ha voce e chi no, il potere di costruire catene di
alleanze e assemblaggi eterogenei che divengano
punti di passaggio obbligato per un grande numero di attori (Latour, 1998). La stessa storia dei
media mostra come una specifica comunità tecnico-professionale possa utilizzare a suo vantaggio l’immaginario relativo ad una tecnologia emergente, al fine di legittimarsi come depositaria
delle competenze e delle future azioni da intraprendere rispetto al suo sviluppo (cfr. Marvin,
1994, sull’elettricità).
Le strategie discorsive e materiali che rendono
una tecnologia meno estranea e distante dalla
vita quotidiana, nello stesso tempo presiedono
ad una funzione di controllo e indirizzamento dei
suoi usi potenziali e futuri, trasformando in “noto”, “familiare” e “malleabile” ciò che appare
come “ignoto”, “distante” e “selvaggio”.
83
Noto ed ignoto sono legati reciprocamente nella
dimensione immaginativa (ed immaginifica) del
discorso “visionario”, che nominando il nuovo, lo
rende possibile. L’immaginazione alimenta
l’innovazione, come accade sin dagli albori del laboratorio scientifico, rintracciabili nella contiguità
tra magia, scienza e tecnica nel Medioevo (cfr.
Mumford, 2005).
Questa dimensione creativa e, potremmo dire,
performativa, appartiene propriamente alla costruzione del futuro, un processo rispetto al quale
si può rintracciare «una storia molto lunga di
sforzi […] per conoscere l’ignoto e rendere trasparente ciò che è opaco. I tentativi di conoscere
il futuro venivano completati dallo sviluppo di un
know-how, di pratiche di conoscenza […]. Molta
di questa continuità colloca i creatori degli artefatti nel futuro di lungo termine, sia che i prodotti
culturali siano camere tombali, templi o cattedrali
[…] radiazioni nucleari o inquinamento. Alcuni
sono mezzi per colonizzare il futuro; altri hanno il
potenziale di eliminare il nostro futuro e quello
dei nostri discendenti» [5].
Il paradosso della scienza e della tecnica è che,
mentre da un lato vorrebbe migliorare questo
processo di conoscenza e di “lettura” del futuro
(si pensi alle previsioni scientifiche, all’analisi dei
trend etc.), dall’altro lo rende sempre più difficile
da controllare, per la complessità legata alla rapidità e alle conseguenze inattese del cambiamento, unita alla percezione che il futuro sia già alle
nostre spalle (cfr. Adam, 2004, 2006).
Obsolescenza, presentificazione e rivoluzione, le
tre caratteristiche che di seguito saranno tracciate, restituiscono le contraddizioni dei presenti futuri: le prospettive future del presente, attraverso
quei processi decisionali che portano alla probabilità che tali prospettive si realizzino (cfr. Luhmann, 1982) e che rendono il futuro a portata di
mano nel “qui ed ora” esteso di una rivoluzione
da governare.
Futuro obsolescente
L’obsolescenza delle forme (Dorfles, 1987) sembra essere condivisa da quegli oggetti culturali
Giuseppina Pellegrino
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
Il futuro in fieri del discorso socio tecnico
(Griswold, 2005) attraverso i quali si realizza una
mediazione delle pratiche quotidiane, della comunicazione e dell’interazione sociale. Nella fase
di relativa stabilizzazione (Bijker, 1995), molti artefatti tecnologici assumono lo statuto di oggetti
di largo consumo. I cicli dell’innovazione subiscono, al pari del tempo globalizzato, una rapida accelerazione, al punto da obbedire a cicli di vita
frammentati da continui “aggiornamenti” o variazioni sul tema, concepite come miglioramenti
progressivi
dell’artefatto.
L’altra
faccia
dell’aggiornamento è, appunto, l’obsolescenza
delle forme, la loro sacralizzazione temporanea,
in nome di un valore estetico-simbolico che rende
gli artefatti tecnologici “oggetti di culto”, rivestiti
di uno status che li investe di valore simbolicoaffettivo oltre che funzionale. Il telefono cellulare
è, probabilmente, il più noto e il più contemporaneo di questi “oggetti culturali” continuamente
sottoposti alla spinta di un’innovazione incrementale che ne varia le forme e le funzioni.
L’equivalente di questa obsolescenza materiale si
ritrova nel discorso pubblico orientato a descrivere le nuove tecnologie di un futuro considerato
perlomeno prossimo: si tratta di una forma discorsiva in cui vaghezza e ambiguità “approssimano” il ciclo delle mode, obbedendo a fasi di
diffusione espansiva a livello retorico-discorsivo,
che non sempre si traducono in una realizzazione
materiale e concreta (si pensi alla popolarità del
telelavoro come prospettiva della riorganizzazione del lavoro negli anni ’80-’90; oggi, a “parole
chiave” come cloud computing, ubiquitous
computing, nanotecnologie).
Futuro presentificato
L’obsolescenza del futuro sociotecnico va di pari
passo con lo schiacciamento temporale del futuro
sul “qui ed ora”, sull’attualità della forma e del
contenuto. Nello slogan identificativo di un noto
fornitore di comunicazione mobile, “life is now”.
Il futuro è già qui, presentificato, a portata di mano. In effetti, è lo stesso determinismo
dell’immaginario sociotecnico a privare la tecnologia di un vero e proprio frame temporale, foca-
lizzandola in un presente “esteso” (Nowotny,
1994) e “continuo” (Urry, 2002), uno spazio astorico, un “là fuori” privo di connotazioni temporali.
A queste caratteristiche enfatizzate dalle visioni
tecnologiche (cfr. Winner, 1977), si accompagna
l’abbraccio dei tempi globali (Adam, 2005) che è
un abbraccio simultaneo e istantaneo, reso possibile dalla temporalità sincrona delle nuove tecnologie, ad un tempo estesa e contratta. Estesa
dalla distanziazione spazio-temporale tipica della
comunicazione mediata (Thompson, 1998); sempre più contratta (e prossima) alla compresenza
virtuale, a forme di prossimità a distanza e di
prossimità intermittente legate alle mobilità plurali della società contemporanea (Urry, 2002,
2007).
Questo schiacciamento o presentificazione del
futuro, che insieme all’obsolescenza ne smorza il
respiro di lungo termine, trova una manifestazione ulteriore nella fragilità dei sistemi esperti
(Giddens, 1996), a partire dalle istituzioni del
nuovo capitalismo (cfr. Sennett, 2006) che mostrano la costruzione di un futuro di breve corso,
un orizzonte che trova la sua drammatica definizione nella crisi dei mercati finanziari globali e
nella focalizzazione sul “qui ed ora” rispetto a politiche della posterità (Adam, 2006a) quanto mai
necessarie.
Futuro, tecnologie di libertà e rivoluzione
Il potenziale trasformativo associato alle nuove
tecnologie appare spesso, nei canoni e nei topoi
del discorso sociotecnico deterministico, repentino e talora carico di tonalità violente, improntato
ad atmosfere (anti)utopiche capaci di prefigurare
gli orrori e le angosce di una tecnologia che va oltre le umane possibilità di controllo, o il paradiso
di una originaria libertà di azione, svincolata da
norme costrittive. Non si tratta di prefigurare
semplici mutamenti, ma trasformazioni totali e
radicali che hanno il carattere proprio delle rivoluzioni e interrompono il corso della storia (cfr.
Arendt, 1963).
84
Giuseppina Pellegrino
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
Il futuro in fieri del discorso socio tecnico
L’attesa di una presunta rivoluzione determinata
dalle nuove tecnologie della comunicazione, così
come dal progresso scientifico e tecnico, costituisce perciò una caratteristica fondativa del discorso sociotecnico sul futuro. Poiché le rivoluzioni
coniugano l’idea della libertà con il principio di un
nuovo inizio [6], le tecnologie, nella loro carica
rivoluzionaria, chiamano in causa e rimettono in
gioco l’idea stessa di libertà, contribuendo, negli
auspici, al compimento di una liberazione.
Gli esiti di questa rivoluzione, tuttavia, possono
essere controversi, e non sempre sostitutivi del
vecchio ordine (delle vecchie tecnologie) se è vero che in senso etimologico, rivoluzione indica il
moto astronomico dei pianeti (della terra intorno
al proprio asse): si tratta di un movimento ciclico,
ricorrente e soprattutto preordinato. In origine,
dunque, rivoluzione in senso politico indicava una
“restaurazione” [7]. Questa ambivalenza del
termine consente, da un lato, di confermare la
prevalenza dell’integrazione vecchio-nuovo, al di
là di una aspettativa di cambiamento radicale collocata nel presente, che si ritiene debba essere
governata (si pensi alla definizione dei “nativi digitali” come generazione di rottura con il passato,
che ci traghetta verso il futuro). Dall’altro, il carattere restaurativo-radicale delle rivoluzioni tecnologiche mette in discussione le libertà fondamentali conquistate attraverso le rivoluzioni classiche (quella francese e quella americana) per cui
«mentre la parola passa sempre di più attraverso
i media elettronici, viene messo in pericolo il diritto inviolabile dei cittadini, sviluppato in cinquecento anni, a parlare senza controlli» [8]. Parole
scritte ben prima che le tecnologie di rete e
l’architettura acefala di Internet conquistassero
l’attuale centralità. La tutela della libertà, insieme
alla liberazione da vecchi ordini, permane come
imperativo del discorso e della pratica sociotecnica, a fortiori quando le rivoluzioni rivelano
l’ambivalenza dei loro esiti.
85
Riflessioni conclusive
Attraverso vecchi e nuovi artefatti tecnologici,
seguendo i sentieri e le direzioni del discorso
pubblico da essi suscitato e ad essi riferito, è possibile “leggere il futuro”. Non nel senso di quel
futuro come destino rivelato soltanto dagli dei e
dalla divinità concesso agli umani, ma nel senso
del controllo, tutto e soltanto umano, (sociotecnicamente) perseguito a mezzo di artefatti che
vanno a mediare la comunicazione, l’interazione
e le pratiche sociali.
Attraverso il discorso sociotecnico, e le sue estensioni materiali, si possono recuperare i futuri immaginati del presente e del passato, ma soprattutto si può accedere a quella risorsa di immaginazione proiettiva che, pur costretta nei binari di
un determinismo riduzionista, sempre associa ad
ogni nuovo artefatto tecnologico speranze e timori, orrori e sogni legati ad un’idea di libertà e
di nuovo principio.
Il discorso sociotecnico come futuro in costruzione e in divenire, appare orientato a confinare gli
esiti dell’azione in un presente esteso e continuo,
che nella costante obsolescenza delle forme sociotecniche insegue una rivoluzione che si vorrebbe già compiuta, o, nella migliore delle ipotesi,
in fieri nelle sue conseguenze.
E’ possibile superare il determinismo che orienta
il discorso pubblico sulle tecnologie, e in che modo la durata dei futuri costruiti nei processi decisionali attuali può varcare la soglia di un presente
che ne mortifica lo slancio e l’assunzione di responsabilità?
Disgiungere il nuovo e l’ignoto da antiche, rassicuranti opposizioni, significa affiancare all’ immaginazione un’etica della visione tecnologica; render(si) conto di chi e per chi si definisca la tecnologia, e a quali voci convenga confinare il discorso
sociotecnico nei collaudati binari della speranza e
della paura.
Giuseppina Pellegrino
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
Il futuro in fieri del discorso socio tecnico
Ringraziamenti
Queste riflessioni hanno grandemente beneficiato
degli stimoli e delle discussioni intraprese con
Barbara Adam a Cagliari nel corso della sua visita,
e del confronto con tutti i partecipanti agli eventi
organizzati da Giuliana Mandich in quell’ occasione. Ancora prima, ho discusso di questi temi con
Peppino Ortoleva, in una comune visita a New
York: assieme alla sua poliedricità, ho ritrovato
l’urgenza di un’analisi critica e multiprospettica.
Resta solo mia la responsabilità di eventuali omissioni, errori, o travisamenti di ciò che il futuro sociotecnico ci obbliga a tenere, prima o poi, in conto.
86
Giuseppina Pellegrino
“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
Il futuro in fieri del discorso socio tecnico
Note
[1] L. Mumford, Tecnica e cultura, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 28
[2] B. Adam, Timewatch. Per un’analisi sociale del tempo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005, p. 206
[3] M. Sturken, T. Douglas, “Introduction: Technological Visions and the Rhetoric of the New”, in M.
Sturken, T. Douglas, S. Ball-Rokeach (a cura di), Technological Visions. The Hopes and Fears that Shape New
Technologies, Philadelphia, Temple University Press, 2004, p. 2, trad. mia
[4] C. Marvin, Quando le vecchie tecnologie erano nuove, Torino, Utet, 1994, p. 9
[5] B. Adam, “Futurity from a Complexity Perspective”,
http://www.cardiff.ac.uk/socsi/futures/wp_ba_complexity230905.doc, 2005, p. 3
[6] H. Arendt, Sulla rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 25
[7] Ibidem, pp. 41 e seguenti
[8] I. De Sola Pool, Tecnologie di Libertà, Torino, Utet, 1995, p. 3
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87
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“Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici?
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88
Gianna Cappello
Media, minori e Media Education
Media, minori e Media
Education
Gianna Cappello
(Università degli Studi di Palermo)
In un volume del 2000 David Buckingham sintetizzava bene la polarizzazione entro cui spesso si
riduce il dibattito sul rapporto tra media e minori,
una polarizzazione che a un pubblico italiano richiama la ben nota dicotomia echiana tra apocalittici e integrati (Eco, 1964). I primi, denunciando
il potere corruttore dei media, si appellano alla
protezione e alla tutela dei minori, mentre i secondi, celebrando l’“attivismo” del pubblico, difendono il “diritto di scelta” dei minori e la loro
“naturale” media expertise. Pur diametralmente
opposte, queste due posizioni condividono in realtà molte più cose di quanto non sembri a prima
vista.
Entrambe soffrono dei limiti delle cosiddette posizioni “profetiche” in quanto rispondono più «al
criterio di generalità di una grande teoria, non a
quello della sua scientificità […], protette dalla
loro non verificabilità» [1] e dalle semplicità delle
tesi sostenute. I “profeti” (apocalittici o integrati
che siano) esprimono valutazioni prima ancora di
tentare di conoscere i media, i minori e il rapporto tra i due. Spesso non solo non forniscono una
reale e circostanziata evidenza empirica di quanto affermano, ma altrettanto spesso riducono i
due termini della questione – i minori e i media –
entro una prospettiva essenzialistica e tecnodeterministica. La visione tradizionale dei minori
come esseri “naturalmente” vulnerabili e indifesi,
bisognosi della protezione degli adulti da media
pericolosi e onnipotenti, viene perfettamente
controbilanciata da una visione, opposta ma ugualmente romantica, che li vede invece come
esseri “naturalmente” esperti di media (specie di
89
Gianna Cappello
Media, minori e Media Education
nuovi media), capaci di interagire con il mezzo
con un’istintiva destrezza sconosciuta alle generazioni precedenti. In entrambi i casi viene meno
quello che oggi è diventato un assunto comune
nella storia e nella sociologia dell’infanzia, come
pure nella psicologia: l’infanzia è un costrutto sociale e non una categoria naturale o universale,
determinata soltanto dalla biologia o da una
qualche essenza universale [2]. Allo stesso modo,
in entrambi i casi, ai media vengono attribuiti poteri e caratteristiche intrinseche che prescindono
dagli usi, dai circuiti sociali, dalle condizioni di
possibilità entro cui essi operano e vengono adottati (si pensi al digital divide).
Pertanto, malgrado innumerevoli ricerche, si sa in
fondo ancora poco delle pratiche di consumo
mediale dei minori e ancora meno si sa su come
esse funzionino come una sorta di identity work
tramite il quale i minori definiscono il loro stare al
mondo insieme o in opposizione agli altri; o su
come varino secondo le dinamiche familiari di
“domesticamento” dei media, la classe sociale, i
contesti e gli stili di vita, il sesso, l’età; si sa ancora poco su come si formino gusti e mode nei
bambini e negli adolescenti; su come i media digitali di ultima generazione rendano possibili inedite forme di globalizzazione/ localizzazione/ personalizzazione dei contenuti. Per colmare questo
vuoto, si sta sempre più affermando una corrente
di studi che, innestandosi nel solco delle sociologie del quotidiano e degli audience studies, è
giunta a una serie di conclusioni che qui brevemente si riassumono:
- il consumo dei minori (e in genere) non
può essere pensato soltanto come
un’esperienza
psico-cognitiva
mentemedium, ma anche e soprattutto come una
pratica sociale in contesto, ovvero come un
comportamento da valutare – come detto
– a partire da una combinazione micromacro di vettori e campi di forza diversi: le
caratteristiche socio-demografiche del soggetto, le relazioni con gli adulti e con il
gruppo dei pari, la scolarizzazione, la propria (sub)-cultura di riferimento, lo status
sociale, lo sviluppo tecnologico e dei mercati, ecc.;
- nei consumi dei minori (ma anche degli adulti), più che una logica omogeneizzante,
sembra prevalere una logica “tribale” che
coagula la fruizione secondo modalità di
nicchia piuttosto che generaliste o massificanti. Per quanto sia sempre possibile ritrovare una molteplicità di elementi socioculturali che sembrano indicare trend omologanti, tuttavia sarebbe poco realistico
pensare ai minori come a una categoria sociale omogenea, viste le tante possibilità di
differenziazione e l’instabilità di cui si compongono le loro traiettorie di vita e di consumo;
- se da un lato la dimensione affettivorituale del consumo – il bisogno di identificazione – sembra prevalere su quella logico-razionale per cui per i minori più che i
contenuti sembrano contare le relazioni/situazioni sociali e le pratiche condivise
che da tali contenuti possono avere origine, dall’altro il consumo diventa anche una
delle tante modalità di individuazione attraverso le quali i minori costruiscono e
manifestano le proprie peculiarità soggettive;
- il rapporto tra media e minori è in realtà
ben più complesso e articolato di quanto le
“visioni profetiche” lascino intendere. Esso
va definito secondo le categorie concettuali dell’appropriazione, della negoziazione,
dell’agire comunicativo, sia pure tenendo
sempre conto dei vincoli, dei condizionamenti e delle determinanti macro-sociali
del contesto. Ciò comporta la necessità
non tanto di “misurare” gli effetti della frequentazione mediale, quanto di individuare
gli usi e le interpretazioni che i minori fanno dei media, partendo dai loro stessi discorsi, chiedendosi come la presenza dei
media vada a riconfigurarne le pratiche culturali e le socialità del quotidiano, come
pure le rappresentazioni attraverso le quali
essi danno senso al reale, all’ambiente che
li circonda, al rapporto con gli altri. In breve, come il consumo mediale si intreccia
con le loro pratiche di vita quotidiana e con
90
Gianna Cappello
Media, minori e Media Education
i loro processi di formazione delle identità
e di socializzazione dando vita a una fitta
rete di influenze reciproche difficilmente
traducibili in meccanici rapporti causaeffetto.
Nel complesso questi studi problematizzano una
consolidata tradizione di ricerca di stampo comportamentistico su media e minori, e configurano
un approccio di ricerca fortemente contestualizzato e interdisciplinare attraverso il quale
l’analista, intrecciando dati di metrica sociale con
dati etnografici più soft, apparentemente vaghi e
soggettivi, cerca da un lato di comprendere come
i minori stessi definiscono le loro relazioni sociali
e consumi mediali, e dall’altro di collocare queste
definizioni entro cornici più ampie, in un movimento continuo tra interno ed esterno, tra biografie situate e vincoli strutturali, tra significati
particolari e condizioni di possibilità più generali.
Data la complessità del rapporto tra media e minori e dato un contesto sociale caratterizzato da
profondi processi di mutamento globale di cui i
media sono insieme causa ed effetto, qual è il
ruolo che l’educazione è chiamata a svolgere?
Oggi più che mai i concetti di educazione e di comunicazione mediata dimostrano di avere una
natura reciprocamente costitutiva: l’educazione è
strutturalmente comunicativa poiché fondata su
una relazione dialogica; allo stesso modo la comunicazione mediata è strutturalmente educativa
dal momento che modifica di fatto idee, visioni
del mondo e dimensioni della sfera pubblica come pure comportamenti e vissuti della sfera privata. La Media Education, collocandosi al crocevia
epistemologico e metodologico tra le Scienze della comunicazione e le Scienze dell’educazione,
coglie bene questa relazione offrendosi come apparato concettuale e operativo entro il quale elaborare interventi educativi con l’obiettivo di contribuire alla formazione di una cittadinanza attiva,
di individui cioè in grado di convivere in maniera
più riflessiva e responsabile con il mutamento sociale contemporaneo, segnato dalla presenza capillare dei media, intesi come sistema industriale,
come apparato tecnologico, come forma culturale. Se informazione e comunicazione sono la cifra
caratterizzante della società contemporanea, al91
lora appare del tutto inappropriata la posizione di
coloro che pretendono di censurare o limitare
drasticamente i media dalla vita quotidiana dei
minori poiché sottraendoli ai “pericoli” dei media
li si priva al tempo stesso di un’importante risorsa
simbolica e materiale. Ma anche posizioni più ragionevoli e frequentemente evocate nel dibattito
pubblico – come porre dei filtri nei computer di
casa, guardare la televisione con i figli, verificare i
siti dove i figli navigano o le chat che frequentano
– risultano in ultima analisi insufficienti non fosse
altro perché il consumo dei media, soprattutto
nella tarda adolescenza, si va collocando sempre
più fuori dal contesto domestico (e quindi meno
facilmente controllabile dagli adulti) assumendo
un ubiquitarismo diffuso grazie a tecnologie che
permettono una portabilità, personalizzabilità e
multimedialità integrata avanzata (si pensi, per
esempio, agli smart phone di ultima generazione).
Tutto questo evoca la necessità che l’approccio di
tutela/controllo/disciplinamento con cui solitamente si affronta il “problema” del rapporto tra
media e minori vada affiancato (se non propriamente sostituito) da un approccio mediaeducativo attraverso il quale i minori, sin dalla più tenera
età, vengono messi in condizione di autogovernare (o perlomeno co-governare) il proprio
rapporto con i media, di coglierne le infinite opportunità e al tempo stesso i limiti, i vincoli, le sovradeterminazioni.
Adottare un approccio mediaeducativo comporta
in prima istanza una ridefinizione dell’approccio
apocalittico con cui le agenzie educative hanno
solitamente guardato al rapporto tra media e minori, e quindi definito il loro ruolo al riguardo: un
ruolo non più di protezione, di stigmatizzazione di
certi prodotti mediali e pratiche di consumo, ma
di preparazione affinché i minori possano continuare a investire nei media le loro passioni, identità e relazioni sociali e al tempo stesso prenderne le distanze crescendo così come cittadini attivamente e criticamente partecipi alla moderna
«sfera pubblica mediata» (Thompson, 1995). In
questo senso assumere una prospettiva mediaeducativa significa gettare un ponte tra ciò che i
minori sanno e fanno già con i media e ciò che essi dovrebbero sapere e fare. È solo attraversando
Gianna Cappello
Media, minori e Media Education
questo ponte che i minori – aiutati dagli educatori
– potranno cominciare a capire come certi prodotti mediali che seguono con tanta assiduità e
passione sono in effetti il risultato di complessi
processi economici, sociali e culturali che si riverberano nel loro vissuto quotidiano definendolo e
organizzandolo in un certo modo.
Un ulteriore fronte di cambiamento riguarda in
particolare la scuola, cui si richiede l’adozione di
un pluralismo epistemologico e metodologico
tramite il quale superare l’idea della presunta supremazia di un sapere alfabetico e librocentrico,
raggiunto mobilitando la dimensione “astrattiva”,
logico-razionale del conoscere, a scapito di altre
intelligenze (Gardner, 1983), di forme di conoscenza più “leggere” (quelle per l’appunto promosse dai media) che interpellano la dimensione
“immersiva”, corporeo-affettiva del conoscere e
che spesso risultano per gli allievi più coinvolgenti, motivanti, challenging.
Occorre infine che la scuola rifletta bene sulla
prospettiva con cui essa si propone di introdurre i
media nelle proprie prassi didattiche. Si è infatti
verificata ultimamente, anche per effetto di
un’interpretazione semplificata di tutta una serie
politiche comunitarie che hanno puntato molto
sulle nuove tecnologie digitali quale leva principale dell’innovazione nei sistemi scolastici della cosiddetta “società della conoscenza”, una sovraesposizione di tali tecnologie e soprattutto una
riduzione della loro introduzione a scuola come
semplice dotazione infrastrutturale e alfabetizzazione strumentale. Si è trascurato il fatto che
l’accesso e l’uso della “macchina” si deve necessariamente coniugare con la capacità di coglierne
le molteplici sfaccettature: strumentali sì, ma anche relazionali, culturali, comunicative, espressive, creative e, se necessario, critiche. I media –
intesi come tecnologia e forma culturale al tempo
stesso (Williams, 1974) – richiedono approcci educativi che sappiano dotare gli individui (minori
e adulti) della capacità tecnica di usare lo “strumento”, ma anche e soprattutto dell’assai più
complessa capacità di cogliere i contesti sociali,
ideologici, economici e istituzionali entro cui essi
operano e vengono adottati, e di sfruttarne appieno le possibilità espressive e comunicative
nell’ottica di un’azione sociale configurata come
un agire comunicativo riflessivo e responsabile
(Cappello, 2009).
92
Gianna Cappello
Media, minori e Media Education
NOTE
[1] J. Bourbon, Introduzione ai media, Bologna, il Mulino, 1997, p.20-21
[2] «L’infanzia – scrive David Buckingham – è una variabile storica, culturale e sociale. I bambini sono stati
definiti, e hanno definito se stessi, in modi molto diversi in diversi periodi storici, in diverse culture e in diversi gruppi sociali. Nessuna di queste definizioni è fissa, ma anzi il significato di “infanzia” è stato sempre
soggetto a un processo di lotta e negoziazione, sia nei discorsi pubblici (per esempio nei media,
nell’università o nelle politiche sociali) sia nelle relazioni interpersonali, tra pari e in famiglia» in D. Buckingham, Né con la tv, né senza la tv. Bambini, media e cittadinanza nel XXI secolo, Milano, FrancoAngeli,
2000, p.38
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93
David Buckingham
Making sense of the “digital generation”
MAKING SENSE OF THE “DIGITAL
GENERATION”
David Buckingham
(London University)
We are often told that technological changes
have created a new “generation gap”. Notions
like “the digital generation”, “the internet generation”, and “the playstation generation” frequently recur in the popular debate. These ideas
see generations as being defined in and through
their experiences of media and technology. In
some cases, these changes are seen to be having
fundamental and far-reaching psychological and
even physiological consequences – and so we
have “the thumb generation”, “bionic children”
and even “cyborg babies”. Technology is seen
here to be precipitating fundamental changes in
humanity, and in what it means to be a person.
This approach can be contrasted with a more sociological account of generations, for example in
the work of Mannheim, which sees generations
as being defined through social and historical experience.
Popular debates about children and technology
are typically quite polarised. On the one hand, we
have familiar moral panics, for example about
violence and computer games, or pornography
on the internet. However, there is also a new
utopian discourse – an argument that technology
is liberating young people, enabling them to
learn, communicate and create in free and unfettered ways. These views embody different social
constructions of childhood or youth; and very different constructions of technology. The combination of childhood and technology therefore brings
into focus intense hopes and fears about the future; and this is often accompanied by a tendency
to “exoticise” or sentimentalise children.
94
David Buckingham
Making sense of the “digital generation”
Research in this field is obviously at an early
stage, but there is much we can learn from looking historically at technological and media
change, and at previous work on children’s relationships with “older” technologies such as television and print media. Several general points
might be made in this respect. Change in this
area is generally incremental rather than revolutionary. Many new media technologies rely heavily on the forms and conventions of old technologies. Technologies are developed, designed and
marketed in specific social contexts, that reflect
broader economic, cultural and social factors.
Technologies possess inherent constraints and
possibilities, but they may be used in unexpected
ways, and hence have unpredictable consequences – and this is perhaps particularly true in
the case of children and young people. Technologies are typically adopted (and indeed adapted)
in ways that reflect existing social and individual
needs; only rarely do they create needs that did
not previously exist. For all these reasons, we
should resist generalised assertions about the inherently transformative powers of technology.
There are good reasons to question the notion of
a distinctive “digital generation”. Research suggests that most young people’s use of new technology is mundane rather than spectacular. Much
of it is heavily dependent on well-established
routines of everyday life, and on existing relationships within the family and the peer group. The
differences between youth and adults are also
often overstated. It would be false to assume
that children in general are automatically more
fluent or competent in their use of technology
than adults. For most young people, technology
per se is a relatively marginal concern. Very few
children are interested in technology in its own
right, or believe it has magical powers: they are
simply concerned about what they can use it for.
At the same time, there are some significant differences here. Today’s childhoods are much more
intensively mediated or media-saturated. The
range of technologies and the sheer amount of
media content available to children have proliferated massively. Most children are growing up in a
very different technological environment from
the one in which their parents grew up; and this
95
is bound to mean that they regard technology in
a different way, and use it for different purposes.
In this context, both the risks and the opportunities that are potentially offered by new technologies may not be immediately obvious to adults.
Yet in seeking to understand these developments, we need to situate them in the context of
wider social forces. There are seven broad issues
that are at stake here.
Convergence
This is partly a technological phenomenon, but
also an economic and cultural one. It is made
possible by the digitalisation of a range of media
or communicative modes; but it is particularly
apparent in the rise of lucrative multi-media franchises, particularly in the children’s market. Culturally, this has meant that the boundaries between different technologies and cultural forms
have become increasingly blurred. Both as “readers” and as “writers” of media, we are increasingly working across different modes of communication, and often in several modes simultaneously.
Multitasking
Convergence has particular implications for the
experience of media users. The history of technological innovation suggests that new media do
not necessarily replace older media, so much as
add to the range of options that are available.
This is also apparent in practices of children’s
media use. Children are increasingly able to combine and shuttle between different activities.
While some see this as leading to a form of postmodern distraction, others see it as a manifestation of children’s skill in “multitasking” or parallel
processing. It also suggests that contemporary
culture is increasingly governed by the laws of
the “attention economy”.
David Buckingham
Making sense of the “digital generation”
Individualisation
Developments in technology, combined with
changes in family life, mean that children’s access
to technology in the home is increasingly individualised. Many of these media are also increasingly portable, and capable of being accessed at
any time and in any location. In terms of parenting, this is a very ambivalent phenomenon. On
one level, individualised access effectively undermines the potential for parental control or
mediation of their children’s media use; yet it
also seems to increase surveillance. The mobile
phone is a particularly ambivalent technology in
this respect.
Participation
These new technologies also offer children far
greater opportunities to access the means of
creative production, and potentially to communicate with wider audiences. The phenomena collectively known as “Web 2.0” or “social software”
are seen to be creating much more interactive
and participatory culture, in which the boundaries between the elite of producers and the mass
of ordinary consumers seem to be breaking
down. However, these possibilities are clearly not
yet available to all – and whether they represent
meaningful “empowerment” is quite questionable.
Identification
Taken together, these developments pose new
questions about the nature and formation of
identity. We know that media play a key role in
children’s peer group culture and within the family: struggles over expertise and control in these
domains are also struggles over identity. Equally,
media are offering new, more diverse and more
confusing images of identity, for example through
forms of celebrity culture and reality television,
and in areas such as sexuality. These questions
become more acute as young people are increasingly able to construct their own representations
of themselves, and to distribute these online, for
example via social networking sites. There are
far-reaching questions here about how young
people understand the boundaries between the
public and the private, and the relationships between on-line and offline identities.
Credibility, ethics and trust
New media offer the benefit of a much wider
range of information sources, but the motivations, identity and quality of those sources are
often difficult to ascertain. The demise of the traditional editorial function creates particular difficulties in terms of trust. Communities of users
may develop their own standards for judging and
maintaining credibility, although this process can
be fraught with disputes. The potential of digital
technology in terms of copying and circulating
content also has significant implications for the
notion of copyright and intellectual property. In
these respects, the ethical dimensions of these
media pose significant educational challenges.
Commercialisation
Behind many of these developments, and in
many cases largely driving them, are economic
motivations. They need to be seen in the context
of a broader commercialisation of public space
and public goods. The individualisation of contemporary media and technologies offers significant new opportunities for targeted or personalised marketing. We have also seen a shift from
advertising to less visible forms of marketing and
promotion – as well as more “participatory”
forms such as viral marketing. The boundaries between promotional and other content may be
much harder to identify here. New media also
have significant potential in terms of surveillance
and intrusion on privacy. My observations here
point to a rather more critical response to the
phenomenon of “Web 2.0”, and the apparently
“participatory” media culture it represents. There
are several reasons to be cautious here. There
remains a continuing digital divide, in that the
96
David Buckingham
Making sense of the “digital generation”
most active participants in so-called participatory
media are largely those who are already privileged in other respects. These media are also
largely driven by commercial marketing – even if
many of them have so far failed to generate profit. I would also question the idea that Web 2.0 is
a free space for self-expression: there are significant constraints here in terms of how participants
can define identities, and in terms of the nature
of community. Despite the utopian rhetoric that
surrounds these developments, knowledge still
matters: the ability to access but also to evaluate
and mobilize knowledge is still a key dimension of
social power in the digital world.
More broadly, I would argue that these developments are not simply a consequence of technological change, but a manifestation of wider social processes. The notion that the contemporary
world has been characterised by a growing sense
of mobility, fragmentation and individualisation –
explored in different ways by authors such as
Beck, Giddens and Rose – seems to me to offer a
useful reflection on what is taking place here. In
particular, I would draw attention to the notion
of governmentality, the notion that government
is becoming internalised – that it is no longer a
matter of obedience to authority but of selfgovernance, self-surveillance, and even selfcontrol. Developments in the media both reflect
and contribute to this – for example, through the
growth of niche marketing, the promotion of
more individuated forms of identity and lifestyle,
and the emphasis on customised or personalised
uses and interpretations of cultural goods. How
much of this is just superficial appearance, and
how far it really undermines existing social structures, is of course debatable. Even so, it is clear
that these developments are by no means simply
to do with technology.
To some extent, all the issues I have raised are
reflected in developments in media policy. There
is a sense here that technology is moving beyond
control; but also that the legitimacy of direct governmental intervention in matters to do with
private taste or morality is much more questionable and problematic. So we have seen a shift in
thinking about media regulation away from centralized control towards a more modern, neo97
liberal form of governance, based on the notion
of the self-regulating “citizen-consumer”. This in
turn raises interesting issues for education.
On one level, education has a great deal to learn
from what is going on in young people’s new media cultures – and perhaps particularly from the
new styles of informal learning that may be
emerging. However, there is some danger of a
simplistic celebration here – for example in some
of the discussion around learning and computer
games. My argument here is that we need to be
wary of simply importing new technology into
education; rather, we need a strong form of digital media literacy. Young people need practical
skills, but they also need critical understanding
and knowledge, and they are not going to develop these simply because they have access to
technology.
The notion of media literacy is increasingly popular in policy debates, in the UK but also across Europe. The UK media regulator Ofcom, for example, defines media literacy in terms of three
areas: access, understand, create – although in
practice, much of its focus is on access, and there
has been less attention to critical understanding.
There is also an implicit focus on information
here, and a neglect of the cultural dimensions of
media use – and this is something that is more
strongly emphasized by media educators who
have been working in this area for a long time.
The more critical question, however, is whether
media literacy merely represents a new technique of governmentality – another way of creating well-behaved, self-regulating consumers, or
good little citizens; or whether it offers a genuine
opportunity for empowerment – a way of increasing democratic control and participation in
media, and beyond that, of extending people’s
rights to self-expression and self-determination.
David Buckingham
Making sense of the “digital generation”
Sul tema
Paolo Jedlowski, Il racconto come dimora.
«Heimat» e le memorie d'Europa
di Giovanni Ciofalo
(Sapienza Università di Roma)
Roberta Bartoletti, Memoria e comunicazione.
Una teoria comunicativa complessa per le
cose del moderno,
di Roberta Paltrinieri
(Alma Mater Studiorum, Università di
Bologna)
Su altri temi
Chris Anderson, Gratis,
di Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini
(Università di Verona)
Manuel Castells, Comunicazione e potere
di Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini
(Università di Verona)
98
Giovanni Ciofalo
Il racconto come dimora.
Heimat e le memorie d’Europa
RECENSIONI
Sul tema
Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa
Giovanni Ciofalo
(Sapienza Università di Roma)
P. Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp.
158
Seppure una recensione, per logica e per economicità, generalmente dovrebbe analizzare un volume dal suo inizio, nel caso del libro di Paolo Jedlowski, “Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa", preferisco
invece cominciare dalla frase conclusiva dell'ultima pagina: «l’esperienza è il
processo che ci permette di trarre partito da ciò che abbiamo vissuto: raccontare, se ne siamo capaci, aiuta a elaborarla e a continuare la strada».
Il libro di Paolo Jedlowski propone un percorso analitico estremamente interessante, ma anche complesso, e queste parole riescono in maniera molto
efficace a coglierne l'essenza, racchiudendo i principali temi che vengono
trattati: certamente l'esperienza e il racconto, ma anche, specularmente, la
vita e la memoria. Jedlowski, anzitutto, elabora il suo racconto - e utilizzo qui
il termine "racconto" appropriandomi del significato attribuitogli dallo stesso
autore, ovvero quello di contenuto e resoconto di una propria esperienza prendendo come spunto di riflessione un altro racconto: la trilogia filmica
"Heimat" di Edgar Reitz.
L’opera di Reitz, che racconta le vicende di una famiglia tedesca dal 1919 fino al 1999, intrecciando dal punto di vista narrativo le piccole storie di alcuni dei protagonisti con la grande storia del Novecento, diviene la
base su cui Jedlowski edifica un quadro interpretativo che, non risolvendosi nella sola scomposizione e ricomposizione dei film, utilizza Heimat più puntualmente come testo e come ipertesto.
Come testo anzitutto perché, se dal punto di vista cinematografico, con i suoi undici episodi, rappresenta
una unitas complex e un esempio paradigmatico di narrazione, in una prospettiva più propriamente sociologica Heimat offre, grazie ad un accurato processo di ricostruzione e messa in scena delle vite dei suoi molti personaggi, un campo lungo sulla storia sociale della Germania e una panoramica su quella dell’Europa.
Un testo che per tanto, non solo deve essere fruito, ma anche studiato; scrive, infatti, Jedlowski: «(Heimat)
Restituisce il Novecento ai tedeschi e non solo a questi. Permette di ripercorrerlo, gli dà un ordine. Man mano che il racconto si dipana, lo spettatore ha modo di collocarvi a fianco tanto le informazioni storiche di cui
è a conoscenza quanto i propri stessi ricordi. Si costituisce una trama, di cui egli stesso scopre di essere parte» (p. 45).
Pur non trattandosi affatto di un documentario, nonostante l'attenzione ai più piccoli dettagli sia estrema,
lo sguardo in soggettiva che caratterizza Heimat consente allo spettatore sia di ripercorrere i piccoli e grandi avvenimenti che hanno segnato la vita del paesino di Shabbach e l’esperienza dei suoi abitanti, che, in
qualche modo, di diventare uno di loro. Questo avviene non soltanto in funzione dell’esperienza diretta –
aver vissuto, seppure a latitudini diverse, la seconda guerra mondiale, il boom economico oppure gli anni
Ottanta – ma soprattutto attraverso la sovrapposizione e l'ibridazione tra i ricordi che possiede, derivanti
99
Giovanni Ciofalo
Il racconto come dimora.
Heimat e le memorie d’Europa
oltre che dagli avvenimenti della sua vita, dai libri di scuola, da altri film, da romanzi e così via, e l’insieme
delle immagini presentate proprio in Heimat. Reitz, di fatto, mette a punto un modello unico di rappresentazione, seppure non sempre caratterizzato dal medesimo livello qualitativo, definendo una sorta di struttura ideale, applicabile, e talvolta in parte applicata, anche in altri contesti. Al di là dell’individuazione di
possibili assonanze e rimandi, l’interesse specifico nei confronti di questo particolare prodotto culturale nasce precisamente, sottolinea Jedlowski, dalla sua capacità di porsi nel mezzo dei «due estremi del racconto
che testimonia la vita e quello che la moltiplica nell’immaginazione» (p. 34). E del resto, la vita è appunto
uno dei temi principali sia di Heimat, che del volume, intesa nelle sue differenti declinazioni: privata e pubblica, soggettiva e collettiva, quotidiana e straordinaria, reale e virtuale, raccontata o indicibile. In tutti questi casi, non esiste un’alternatività, quanto piuttosto una complementarità sistemica, così profonda e inestricabile che la scelta di soffermare l’attenzione su uno specifico attributo (privata, pubblica, soggettiva,
etc.) acquisisce significato soltanto in funzione dell’attivazione di una concatenazione semantica con gli altri
termini e le altre accezioni. Una concatenazione, possibile secondo Jedlowski soltanto attraverso la narrazione e il racconto, che trova in Heimat un delicato equilibrio di funzionamento, basato su un meccanismo
di rimandi e di oscillazioni e capace di fornire una misura della multidimensionalità della vita.
In questo senso, allora, il testo Heimat è anzitutto "una storia del quotidiano", ricca di contenuti uniti dal
filo della narrazione che ripristina i legami temporali che invece la Storia può aver reciso, mettendoli nuovamente a disposizione di altri. Facendo riferimento al complesso significato etimologico, allora più che la
madre patria Heimat diviene il luogo del tempo perduto dove, come scrive Jedlowski, «raccontare significa
dunque costruire un intreccio che permette al soggetto di rifigurarsi lo svolgimento della vita nel tempo e
così, in una certa misura di padroneggiarlo. Un padroneggiamento che è ancor più manifesto nella possibilità che ha il racconto di venir ripetuto: possibilità che compensa l'irreversibilità del tempo che fugge» (p.
95).
Heimat, inoltre, è anche un testo mediale, che sfruttando la sua modularità narrativa e il supporto del medium cinematografico cristallizza uno spazio di rappresentazione, contribuendo, come sempre fanno i media che sono parte attiva della sfera pubblica, alla costruzione di una memoria pubblica e accessibile (cfr.
Silverstone, 2005; Rampazi-Tota, 2007). Per riprendere la definizione fornita dall'autore del volume, si tratta di un'esperienza mediata che propone una visione del passato per il presente, che non esaurisce la
gamma di tutti i racconti possibili sugli stessi temi che affronta, ma che certamente entra a far parte dell'archivio documentale che il cinema e la televisione, più ancora che gli altri mezzi di comunicazione, sono riusciti gradualmente a edificare, colonizzando il territorio della nostra memoria collettiva.
Jedlowski, però, sostenendo efficacemente che la narrazione è interazione, all'interno del suo libro non si
limita soltanto all'analisi testuale, ma individua anche una serie di collegamenti che da Heimat, proprio come se si trattasse in un ipertesto, consentono altri approfondimenti concettuali. Tra le dimensioni della storia, che include la memoria, del racconto, che prevede una mediazione, la narrazione si pone come l'azione
specifica di uno nei confronti di un altro (o più altri). In generale, ogni forma di narrazione è anzitutto motivata dall’esigenza di attivare un contatto: è un atto comunicativo e, in quanto tale, è uno scambio che presuppone il mettersi in gioco, sia in qualità di emittente che di ricevente. Jedlowski sottolinea questo passaggio fondamentale: l'esperienza diviene narrazione e la narrazione, a sua volta, esperienza. Un'esperienza
comunicativa in cui la punteggiatura (il nostro modo di stabilire una progressione lineare) rappresenta soltanto un criterio soggettivo di ordinamento: non è possibile raggiungere la consapevolezza, e di conseguenza la completezza, di un'esperienza personale senza avere la capacità di elaborarla e, dunque, di raccontarla. Soltanto una volta divenuta narrazione e destinata ad un altro, individuo o tempo, essa può venire memorizzata e ripercorsa.
La narrazione, inoltre, diviene, nelle moderne società tecnologiche della comunicazione, un bisogno specifico, amplificato e tradotto in una serie di altri bisogni (comprensione, razionalizzazione, evasione): una pratica quotidiana in grado di attivare forme comunitarie ad un diverso livello di concretezza, ma non per que100
Giovanni Ciofalo
Il racconto come dimora.
Heimat e le memorie d’Europa
sto meno presenti e incidenti sulla scena sociale. La nozione di "comunità narrativa", utilizzata da Jedlowski,
coincide o può essere fatta coincidere, del resto, con quella di comunità in generale. Sono il tessuto dei racconti, la qualità dei contenuti, la loro capacità di focalizzare dei temi, la loro durata a determinare le caratteristiche della comunità di riferimento e viceversa. Se non la somma aritmetica, certamente l'insieme di
tutte le possibili comunità origina la società stessa ed è per questo, allora, che la narrazione deve essere interpretata come «[...] una pratica che si incastona nelle relazioni sociali e con queste intrattiene un rapporto di circolarità» (p. 35).
Jedlowski, utilizzando Heimat, lo dimostra e, contestualmente, sottolinea il progressivo cambiamento che
ha reso la sfera pubblica sempre più mediata: processi come la costruzione della realtà o la definizione del
senso comune hanno luogo all'interno di uno spazio in cui il coinvolgimento dei media rappresenta una variabile determinante. Il cinema, ad esempio, in qualità di sistema di produzione e veicolazione di storie concorre non soltanto a fornire una immagine, più o meno stereotipata, della realtà, ma produce anche una
forma di sensibilizzazione, più o meno elevata, nei confronti dei contenuti che trasmette. Così Heimat non è
più soltanto l'insieme dei film che compongono la trilogia e neppure la ricostruzione di un arco temporale
della storia della Germania e delle storie di alcuni suoi abitanti. Diventa, per usare una suggestione tecnologica, un "portale" tramite cui può essere avviata una o più forme di navigazione all'interno di quello stesso
spazio (la sfera pubblica) che contribuisce a comporre.
Di questa navigazione, il volume di Paolo Jedlowski rappresenta un validissimo strumento di orientamento
multidisciplinare, riuscendo a contenere insieme approfondimenti riguardanti la narrazione e la storia, la
memoria e il racconto, la sfera pubblica e l'individuo. Un libro che, estendendo volutamente il suo approccio teorico e interpretativo, approda ad una preziosa dimensione ecologica relativa all'oggetto che problematizza, trasformando davvero Heimat nella dimora del racconto e della narrazione.
101
Roberta Paltrinieri
Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa
complessa per le cose del moderno
RECENSIONI
Sul tema
Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa complessa per le
cose del moderno
Roberta Paltrinieri
(Alma Mater Studiorum, Università di Bologna)
R. Bartoletti, Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa complessa per le cose del moderno, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 192
Nel proporre una teoria comunicativa complessa per le cose del moderno,
come cita il sottotitolo del volume di Roberta Bartoletti “Memoria e comunicazione”, l’autrice propone un vero e proprio salto paradigmatico per lo studio del rapporto esistente tra gli individui ed il mondo delle cose, mediato
dal sistema del consumo, luogo emblematico in cui si esprime il simbolico,
del quale si nutre l’esperienza individuale.
Ripercorrendo i passi dei Maestri del pensiero sociologico sui consumi, Veblen e Baudrillard i più illustri, studiare il mondo degli oggetti diviene un pretesto “eccentrico”, questo è l’aggettivo che compare nel testo, per osservare
il funzionamento delle società, in questo caso le società complesse.
Così facendo ella ci offe un punto di vista estremamente originale, in cui il
processo del consumo, gli oggetti del consumo, gli attori ed il mercato possono essere osservati secondo una prospettiva capace di sovvertire il sapere
consolidato sul tema.
L’ipotesi teorica che viene presupposta è radicale: il rapporto tra comunicazione e memoria sociale è ciò che permette la riproduzione autoreferenziale, in senso luhmanniano, dei sistemi sociali complessi nella ridefinizione delle proprie identità.
Questo implica il prodursi e riprodursi di una memoria del sociale che, con le sue caratteristiche di generalizzazione, indifferenza e contingenza genera, a livello del simbolico, forme senza contenuto, senza alcuna
referenza a memorie individuali e memorie collettive che, al contrario, si nutrono della specificità fondata
sulla differenza, di soggettività viventi e di collettivi concreti.
Affermare il primato della memoria del sociale come prodotto della modernità, sostenere che il passato, la
storia della società è oggetto di un continuo processo selettivo tra le operazioni del ricordare e del dimenticare, affermare, infine, che l’oblio è l’operazione più vitale per assicurare al sistema il futuro, svela al lettore nuove prospettive per rileggere il processo di individualizzazione che sappiamo essere centrale nel dibattito sociologico attuale.
Lo iato si colloca ora tra le memorie individuali e collettive, da una parte, e la memoria del sociale,
dall’altra. Il sistema degli oggetti trova in questa prospettiva significati e categorizzazioni teoriche inedite.
La nuova classificazione proposta distingue gli oggetti per ricordare, i feticci, dagli oggetti per dimenticare,
le merci, che portano in sé la qualità immanente del denaro, passando per le memorie della differenza, che
si incarnano negli oggetti di classe, rivisitando così la retorica dello status symbol che ha costituito il perno
del discorso sociale sui consumi per quasi 100 anni.
102
Roberta Paltrinieri
Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa
complessa per le cose del moderno
E’ in questo modo che l’analisi del consumo esce dai confini, forse troppo angusti, di un approccio specialistico per inserirsi in una più ampia teoria della società.
Se poi è vero che le “cose”, come ci hanno insegnato Mary Douglas e Michel de Certeau, autori che ricorrono nel testo, e recentemente ci ha ricordato il filosofo Remo Bodei, sono il luogo in cui si concretizza la tensione tra struttura ed azione, tra sovradeterminazione e creatività, libertà e coercizione, non dobbiamo
pensare che lo iato si risolva solo a favore del sistema.
Non si può dare per scontato, afferma Roberta Bartoletti, che le memorie individuali in accoppiamento
strutturale con le memorie del sociale finiscano trasformate in forme senza contenuto.
L’epilogo della proposta teorica, che qui viene avanzata, non induce verso il pessimismo tipico di quel minimalismo sociologico che non vede alcuna possibilità per il soggetto.
La pervasività del sociale incontra resistenza sul piano dei vissuti soggettivi e nei loro consumi.
Le memorie individuali e collettive non sono semplicemente lavori di conservazione di ciò che è stato, il
passato attraverso la memoria è costruito nel presente, perché è nel presente che è funzionale nel produrre senso e significato alle esistenze individuali e di gruppo.
Per questo è fondamentale il rapporto tra consumi, identità e memoria.
È in tal senso che la produttività del consumo e le azioni del consumatore-produttore non solo acquisiscono
rilevanza nella sfera privata, così come siamo abituati a pensare nel contrapporre le tattiche dei soggetti alle strategie del mercato, ma anche in quella pubblica, laddove si costruiscano narrazioni e discorsi identitari
anche alternativi a quelli ufficialmente costruiti dalle istituzioni preposte.
Ecco la grande novità: il mercato ed i media della comunicazione non sono esclusivamente luoghi sociali per
la riproduzione del consenso attraverso atti persuasivi, così come ci ha insegnato la critica alla società dei
consumi.
Come dimostrano gli esempi di Heidiland, dell’Ostalgia e le biografie delle bambole islamiche, il mercato e i
media della comunicazione, nella distanza e nella indifferenza che contraddistingue il loro atteggiamento
blasè, assurgono a spazi pubblici in cui esprimere una creatività diffusa che, incarnando memorie ed identità individuali e collettive, è spesso dissociata dai discorsi ufficiali sulla memoria e sull’identità, creando forme alternative capaci di dare voce alle identità individuali e di gruppo.
E se è vero che, come scrive Vincenzo Cesareo nella prefazione al testo, le scienze e la ricerca sociale sono
sempre anche una forma di azione, questo libro, ricordandoci che è possibile la presa di parola, diviene imprescindibile per lo studio della dimensione politica del consumo, dimostrandoci quanto la life politics rappresenti la nostra realtà esperienziale nella società globale.
103
Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Gratis
RECENSIONI
Su altri temi
Gratis
Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini
(Università di Verona)
C. Anderson, Gratis, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 285
(Ed. orig.: Free. The Past and Future of a Radical Price, New York, Hyperion, 2009)
Da Casa “Wired”
“Gratis” è il titolo dell’ultimo libro scritto da Chris Anderson, cinquantenne
californiano: dal 2001 dirige il mensile “Wired”, la cosiddetta “bibbia” delle
news sul mondo di internet e del web. Questo esponente della exCyberpunk Generation, non è nuovo a scrivere libri di divulgazione
scientifica che si basano su delle tesi a cui prestano attenzione soprattutto
gli scienziati sociali del Web. Infatti, risale a tre anni fa la prima edizione
statunitense del saggio “The Long Tail”, opera che è ancora sul tavolo dei
manager dell’Ict e delle Tlc di mezzo mondo post-industrializzato, e che
molti dottorandi di sociologia, economia, psicologia e antropologia ancora
ignorano.
Con “Free” il saggista californiano torna a scrivere dell’economia globale by
internet. Si tratta di pagine che investono i cosiddetti “servizi gratuiti”. Ne
abbiamo tutti esperienza quando facciamo download di un neo-software,
un’applicazione o un prodotto di consumo. Non dimentichiamo però che
siamo nll’epoca in cui la comunicazione interumana via computer in Rete e via telefonino soggiace ad ogni
sorta di costi per l’hardware, prezzi per il software, costi per i servizi che, peraltro, variano da Paese a
Paese, anche se le Telco sono multinazionali. Eppure, si enfatizza il gratis on line? Come mai?
In che cosa consiste la convenienza del “gratis on line”?
Per Anderson la conditio sine qua non dell’ubiquità della Rete è il “mercato libero” in Rete e lo sviluppo del
“gratis” è conseguenza dell’abbondanza dell’offerta. Le condizioni sono ormai mature per far sì che la Rete
passi da essere una mega-macchina a confondersi con l’ambiente. La transizione non è comunque indolore.
Da una parte, lo sviluppo del capitalismo maturo vede prima la drastica riduzione del valore di scambio dei
prodotti e poi la facile reperibilità delle risorse. Dall’altra, alla ormai lunga stagione di elevata produttività di
beni corrisponde una non decrescente opulenza socio-economica.
Nei Paesi economicamente più sviluppati non si può rallentare né il volume né l’accelerazione dello
sviluppo dei sistemi produttivi, né far venire meno o ampliare largamente il ciclo dei consumi. Se il
crescente accumulo di tecnologie, innovazioni, conoscenza, permette di abbassare il costo dei prodotti, per
mantenere entro i limiti accettabili il regime dei consumi si rende necessaria la distribuzione su una vasta e
crescente scala dei prodotti a basso costo specifico. Per i produttori, la distribuzione gratuita a determinate
104
Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Gratis
condizioni ed in alcuni ambiti può essere anche economicamente conveniente. Quando allo spreco
produttivo corrisponde un valore incrementale dei consumi generalizzati o dei consumi dei prodotti a
pagamento. Come dire che agli ipermercati dell’elettronica e del digitale conviene regalare ai loro clienti
delle Key Usb quando questi ultimi effettuano un discreto volume di spesa nelle stagioni di basso profilo dei
consumi.
Dov’è la convenienza sia dei produttori che dei consumatori?
L’Autore, pur dichiarandosi un non-economista, si slancia a parlare di economia della comunicazione
digitale. Per lui, l’economia del Gratis è una novità della Rete. Da una parte permette di ‘posizionare’ il
prodotto in una sorta di “vetrina universale”. Dall’altra, fa sì che i consumatori su scala globale – quindi da
S.Francisco a Goa – più che confrontare il prezzo dei prodotti della stessa gamma, in base ai rapporti
qualità-prezzo, preferiscano subito il “gratuito” o il “quasi-gratuito”.
Per questo motivo ai produttori conviene azzerare i prezzi: ovviamente, senza s-considerare il recupero
della soglia minima di costo produttivo. Contemporaneamente, però, è il caso di varare delle strategie sia di
“sovvenzionamento incrociato” dei distributori, sia di fidelizzazione delle associazioni di consumo
organizzato. Da entrambi ci si aspetta l’impegno a – secondo gli auspici della comunicazione strategica –
garantire dei profitti indiretti allocando sul mercato i prodotti più costosi, quali sono, l’hardware e le
applicazioni per l’accesso ai servizi.
Perché le neo-tecnologie digitali rendono efficace questa strategia socio-economica?
La realtà delle tecnologie informatiche non è paragonabile a quella delle tecnologie mass-mediatiche. Ora,
lo sviluppo è basato non sull’originalità del medium o del programma ma sulla combinazione e
sull’economicità delle applicazioni. Si basa sull’elevato rapporto tra le idee ed i materiali. Per esempio, per
rinnovare la gamma dei semi-conduttori e dei microchip servono più idee che materia prima.
In parallelo, più le dimensioni fisiche dell’hardware sono miniaturizzate maggiormente l’utilizzo è favorito e
la commercializzazione è facilitata ed allargata. Occorre sempre tener presente che tra atomo e bit sussiste
una radicale differenza. Le applicazioni delle tecnologie digitali favoriscono i consumi, ma soprattutto gli
investimenti nell’innovazione tecnologica. Da qui la crescente riduzione dei costi dell’hardware. Se ciò
favorisce la diffusione dell’hardware informatico, l’incremento del valore del software “schizza verso l’alto”.
Con delle conseguenze immediate sulla struttura produttiva: l’aumento degli investimenti nei laboratori
dislocati nei Paesi meno industrializzati; il maggior numero di webmaster; la “liberazione” delle risorse
intellettuali e creative dei giovani.
L’innovazione del software non chiede forse dei grandi investimenti finanziari a rischio? Chi può
permetterseli?
Per Anderson, il web 2.0 dimostra che, accanto agli ingegneri informatici, scende in campo l’utente
collettivo. Quest’ultimo va considerato un nuovo tipo di webmaster. Perché? Gli utenti della Rete che
consumano molti applicativi tendono anche a testarli, migliorarli, regalare delle informazioni su di essi. La
quota di essi che “mette becco”, accedendo ai blog per informare prima gli amici e poi la Software House, è
cooperativa ed interoperativa. I suggerimenti spontanei creano “coordinamento sociale”.
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Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Gratis
Non trascuriamo l’importanza degli atti di pirateria informatica. C’è differenza tra hacker e cracker. I primi
sono, più o meno indirettamente, degli sviluppatori gratuiti. Forniscono ai professionisti delle informazioni
sulla loro esperienza che sono facilmente traducibili in nuove idee per nuovi prodotti. I produttori
industriali lo sanno, e se ne avvantaggiano favorendo talvolta il lavoro creativo dei “corsari del Re”. Con una
precauzione: procedendo con cautela nella diffusione dell’innovazione, visto che i concorrenti ed i cracker
sono sempre davanti al buco della serratura.
Nonostante la logica del “gratis” sia sempre più condivisa, la logica del “rilascio lento” delle novità resta
dominante. Soprattutto per le multinazionali del software. L’esigenza di creare profitto (non decrementale)
imponendo dazi sulle applicazioni e barriere di accesso ai servizi digitali è ancora in primo piano.
La storia sociale del software dimostra che la tensione tra la divulgazione dei prodotti innovativi e gli sforzi
tesi a mercificare gli applicativi di massa non accenna a diminuire, anche se la neo-cultura del “Gratis”
segna una svolta. La disputa tra Microsoft e Linux, Yahoo e Google, per esempio, ci dimostra che la lotta tra
la logica della commercializzazione – software su licenza; dati a pagamento, volumi di archiviazione a
pagamento – e la logica della distribuzione gratuita – open source, spazio illimitato di archiviazione, ecc. –
ha un passato senza risparmio di colpi a ferire. Ora, dal momento che gli utenti-webmaster vogliono andare
oltre questa realtà, il mercato ne ascolta i peana offrendo dei modelli ibridi di mercato.
Come intervengono i Titani del software?
Qualcuno ha già compreso quali possano essere i trend di convenienza. Per esempio, sperimentando
l’offerta gratuita dei suoi prodotti meno raffinati. Il “gratis” è compensato da altri profitti di mercato –
vendita di software specializzati, assistenza tecnica alle aziende, ecc. Google, in particolare, ormai si
presenta con una “anima Geek”. Possedendo dei Data Center grandi come i capannoni della Ford a Detroit,
pieni di schede-madre e dischi rigidi connessi a internet, ha facilità ad offrire spazi gratuiti ai suoi utenti.
Sempre Google, da una parte investe sulle energie rinnovabili ed il contro-inquinamento ambientale.
Dall’altra, però, chiede ai suoi ingegneri di creare dei nuovi prodotti per incantesimare il “popolo del web”.
La rinuncia al profitto su una gamma di singoli prodotti è compensata dal controllo del mercato di molte
altre gamme di prodotti. Come avviene il controllo? Nei modi più svariati. Il più solvibile riguarda il mercato
delle inserzioni pubblicitarie on line che sono associate a questo o quel prodotto in offerta.
Quali sono le novità assolute del neo-mercato on line basato sul “gratis”?
Anderson presenta tre “formule” di risoluzione del “Gratis” in Rete. Innanzitutto, c’è il cosiddetto “mercato
a tre vie”, consistente nel pagamento del prodotto digitale. Questo è acquisito dagli utenti direttamente
dagli inserzionisti di pubblicità sul web. Poi, c’è il “Freemium”: la massa dei consumatori che usufruisce di
un servizio gratuito. Questo è pagato da pochi, ovvero solo da coloro che finanziano i produttori del servizio
stesso. Infine, c’è il mercato dell’open source, basato sulla fornitura gratuita on line dei contenuti che sono
auto-prodotti dagli utenti o dalle Software House.
Gli esempi associati a queste tre “formule” sono parecchi. Tra i più popolari troviamo: i) il File Sharing
musicale; ii) la musica per l’iPod; iii) i videogames gratuiti on line. Il boom di tali settori in questi anni fa da
auspicio al secolo XXI, che, secondo l’Autore, vedrà l’economia del Gratis particolarmente fiorente e
progressiva. D’altronde, soltanto nell’ultimo decennio ha mosso tra i 260 miliardi ed i 300 miliardi di dollari
ad annata. Una bella cifra, vero!
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Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Gratis
Allora, torna d’attualità l’economia del dono degli antropologi del primo Novecento?
Secondo Chris Anderson parrebbe proprio di sì, anche se i “distinguo” non mancano. Non c’è un ritorno al
valore d’uso, ma il suo incorporamento in un valore di scambio più raffinato, invisibile, informazionale.
L’economia del Gratis si basa principalmente su due fattori: la reputazione e l’attenzione. Entrambi sono dei
fattori non-monetari. Sono, invece, espressione dell’intrusione degli utenti-consumatori di internet nei
processi di riproduzione del valore di scambio dei prodotti on line.
L’utente, nella veste di corrispondente di blog, webmaster domestico, consumatore personalizzato, assume
facilmente la funzione di interprete, ri-produttore, divulgatore dei contenuti che gli interessano.
Trasponendoli in Rete, da un lato li pubblicizza, dall’altro lui medesimo si attribuisce il ruolo di “portatore di
interessi” di massa. È questa una forma di “interventismo digitale” che, pur essendo di base, avviene spesso
con creatività e passione. Spesso, comporta dei quid così alti, circa l’innovazione dei contenuti o della
distribuzione dei prodotti, da favorire i competitori industriali che sanno comprenderli per
avvantaggiarsene. Anderson spiega il fenomeno ricorrendo alla nota e celebrata teoria della motivazione
umana di Abraham Maslow, peraltro formulata alcuni decenni fa. Dopo il soddisfacimento dei bisogni
fisiologici di base, gli uomini rincorrono sempre più il soddisfacimento dei bisogni di sicurezza, amore, autorealizzazione. Poi, aspirano a concretizzare i bisogni di stima, riconoscimento sociale, auto-realizzazione.
Per quanto possa apparire una “prova di ingenuita”, questo richiamo al “vecchio” psicologo
comportamentista non è, almeno qui, totalmente inutile. Per l’Autore, nella comunicazione on line, la
reputazione e l’attenzione divengono sempre più dei motivi di gratificazione. Anche di tipo economico. In
quali casi? La reputazione – in positivo – matura facilmente se il contatto digitale porta a forme di
fidelizzazione che generano una disponibilità quasi-permanente di “capitale sociale”. Parimenti, la
concessione di spazi digitali alla pubblicità degli inserzionisti paganti rende il principio di attenzione una
fonte di profitto economico. D’altro canto, non è una novità che i data dei consumatori siano sì
informazioni ma anche un capitale economico. Con l’economia del Gratis non si specula forse sull’utente on
line? Certo è che l’intero web è rappresentato – più volte – come una sorta di “giardino delle delizie” di
tutti gli stakeholder. In nome di che cosa? Non certo dello scambio del dono della “rosa aulentissima” di
tradizione trobadorica. A nostro parere, lo scambio reale riguarda piuttosto la capitalizzazione socialeconomica delle “risorse umane” che nella comunicazione on line trovano il loro hortus conclusus. Come
dire che il “Gratis” è una nuova “ragnatela” per catturare la comunicazione digitale di ciascuno di noi,
trasformandoci in stakeholder cooperativi dei “Polifemo della Rete”.
Ciò che è gratis in rete è caro per il mercato!
“Gratis” è un saggio che consigliamo a tutti coloro che sono interessati alle scienze sociali dell’Ict e delle Tlc.
Soprattutto se fino ad oggi si sono preoccupati molto dei contenuti o delle singole tecnologie e poco dei
mercati mondiali. L’occasione di scoprire come la convergenza in corso tra i Titani dell’Ict ed i Colossi delle
Tlc stia provocando delle faglie e dei sollevamenti dei consumi avanzati di massa è ora a portata di mano.
Anderson ci fornisce qualche avviso circa le conseguenze economiche su scala globale di cui l’innovazione
tecno-digitale è responsabile. Beninteso nel bene e nel male, secondo lui. Il suo è un libro che, ancora una
volta, è portavoce di una “tendenziosità”, visto che abbraccia una tesi e la coltiva dalla prima all’ultima
pagina. Non a torto, ma con la verve di chi scrive più un pamphlet colto-divulgativo che un saggio
scientifico. Ciò non significa che questo libro non abbia i meriti per entrare di diritto nei seminari
universitari, anzi! Uscito in edizione inglese nel maggio del 2009, è stato tradotto in italiano in pochi mesi. Il
merito va senz’altro riconosciuto all’Editore.
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Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Comunicazione e Potere
RECENSIONI
Su altri temi
Comunicazione e Potere
Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini
(Università di Verona)
M. Castells, Comunicazione e Potere, Milano, Università Bocconi Editore, 2009, pp. 665.
(Ed. orig.: Communication Power, Oxford, Oxford University Press, 2009.)
Un libro che lancia un segnale
Con 550 pagine di testo e 115 pagine di apparato documentale,
“Communication Power” – titolo originale – è un saggio che, con ogni
probabilità, avrà una non breve popolarità. La tematica porterà
inevitabilmente ad una cascata di citazioni soprattutto in area europea ed
asiatica. Dove la consuetudine nord-americana di guardare sia verso l’alto che
verso il basso della spirale dei fenomeni socio-culturali non è (ancora) un fatto
globale. Tanto in Asia quanto nell’Europa continentale, la tradizione degli
scienziati sociali di volgersi soprattutto verso il basso, cioè verso i consumatori,
gli utenti, le audience, è ancora prevalente. Lo rimarchiamo subito dal
momento che l’opera del sociologo catalan-franco-californiano fornisce non un
cannocchiale ma sia un binocolo che un micro-telescopio su diversi fenomeni
della comunicazione mediata a distanza. Come farne uso?
Nella decina di pagine di Ouverture (Apertura), Manuel Castells presenta il
repertorio delle espressioni-chiave che rappresentano le sue idee. Così facendo, da un lato fornisce al
lettore una mappa cognitiva, dall’altro avvisa tutti che lo scavo dei cinque capitoli che seguono richiede
pazienza e sagacia. D’altro canto, non si tratta di né di un volume tascabile né di un’opera di facile
consumo. L’Indice offre dei titoli di capitolo abbastanza comprensibili, ma presenta anche dei paragrafi i cui
titoli sono, spesso, almeno a prima vista, un’incognita. Tra i tanti paragrafi, ne ricordo subito uno
esemplare: “The message is the medium”. Ricorda da vicino “The Network is the Message” – titolo
attribuito da Castells all’Opening del suo saggio “The Internet Galaxy” del 2001. E’ un tributo a Marshall
McLuhan? Sì, ma al quadrato.
Circa il “potere” della comunicazione? Che tipo di potere è?
A pagina XX, l’autore scrive: “Il potere è più che comunicazione, e la comunicazione eccede il potere. Ma il
potere si fonda sul controllo della comunicazione, come il contropotere dipende dall’infrangere quel
controllo.” Ed a pagina XXI prosegue così: “Per spiegare però in che modo il potere è costruito nelle nostre
menti mediante processi di comunicazione, dobbiamo andare al di là del come e da chi i messaggi sono
originati nel processo di formazione del potere e trasmessi/formattati nelle reti elettroniche di
comunicazione.”
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Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Comunicazione e Potere
“Comunicazione e potere” è uno studio sui poteri sociali della comunicazione più che sui rapporti tra la
comunicazione e le forme di potere, da un lato, i poteri ed i mezzi di comunicazione, dall’altro. Si riferisce
alla struttura sociale della nostra epoca: la società in rete. Di questa considera cinque o sei tipi di realtà: le
istituzioni; le corporation; il mercato globale di massa; i movimenti sociali; i soggetti autonomi comunicanti;
la rete emozioni-mente dell’uomo contemporaneo. Si tratta di tipi su cui l’autore non “fa storie”,
concentrato come è a costruire il suo “caso di studio”. Probabilmente è questa la causa che lo spinge a non
citare né il canadese Harold Innis né il bordolese Jacques Ellul, ma neppure l’europeo Denis McQuail, tutti
studiosi che hanno già battuto la massicciata delle tematiche di cui si sta parlando.
Su quali “forme di potere” si sofferma?
Castells si occupa molto dei fenomeni della “comunicazione mediata”. Solo in via derivata presta riguardo
alle forme di potere che scaturiscono dalle pratiche della comunicazione con: i) Alter a distanza; ii) i mezzi
culturali; iii) i media – massivi o digitali. In parallelo, l’attenzione per i mondi ed i modi d’essere
dell’audience non è sempre in primo piano. Viceversa, il rapporto tra le forme di comunicazione mediata ed
i poteri che quest’ultima è in grado di accendere è illuminato a giorno.
Il sociologo fa riferimento soprattutto allo scenario internazionale del primo decennio del XXI secolo. Egli
afferma, a più riprese, che le pratiche del potere cambiano continuamente, assumendo forme e dimensioni
differenti, in conformità alle modalità che lo rendono qualcosa di concreto, cioè, un “meccanismo sociale”.
Esso non è né una caratteristica pre-costituita di un qualche attore né l’attributo situazionale di un agente,
bensì uno “stato di relazioni”, ovvero, una modalità di tipo relazionale. Si manifesta in tanti modi, ma
particolarmente con l’a-simmetria dei ruoli sociali delle parti in causa.
Tra due parti, l’una esercita il potere sull’altra comunicando i propri valori e significati. La seconda, invece,
si limita a recepire consumando: e condividendo – più o meno forzatamente o liberamente – ciò che è
comunicato. La novità è che, in questi anni, il fenomeno del “potere comunicativo” è sempre più globale,
rispetto alla sfera pubblica dai confini nazionali, e pervasivo della sfera privata, tanto da risultare una sorta
di “canone” della nostra vita quotidiana. Se così non fosse ci sottrarremmo facilmente dal rispondere
immediatamente alle e-mail ed agli sms in arrivo, o no!
“Il potere è relazionale, il dominio è istituzionale”, scrive Castells. Vuol dire che, anche nella sfera politica, il
potere non è un dato di fatto; però, impera in maniera un po’ speciale. Come? Cristallizzandosi nelle
istituzioni che si riproducono basandosi sul dominio sociale. Non dimentichiamo, però, che attualmente il
potere fa seguito al consenso popolare, cioè, alla legittimazione pubblica del suo esercizio che è basata sul
voto democraticamente espresso.
Come si “fa consenso”? Notiamo, per inciso, che il significato del “making” anglosassone è simile al “fare”
all’italiana, ma non è la stessa cosa. Castells lo sa e ci spiega che nel mondo il ricorso ai media per “making
power” è da tempo più che esiziale. I media, e particolarmente i network media, sono i mezzi e le reti
pressoché insostituibili per la divulgazione di massa di significati condivisibili. Anche quando essi perorano,
come accade con social network, la retro-comunicazione dell’utente della chat, del blog, della newsletter.
Da qui il presupposto sociologico che la sfera politica dei “sistemi sociali nazionali” non possa più fare più a
meno di misurarsi con i poteri sia dei network system (Microsoft, Google, ecc.) che del mercato mediale
globale.
Per l’autore, stiamo accelerando verso una svolta epocale. I sistemi mediali sono divenuti i regolatori della
sfera pubblica. Con buona pace di Jurgen Habermas, che ne ha sempre perorato la funzione di ’mezzi’
dell’opinione pubblica! Oggi, invece, i media assurgono al ruolo sia di arena-principe della sfera pubblica
che di fine dell’opinione pubblica. Ciò comporta che la politica globalizzata non ne possa più fare a meno:
anzi, coincida con le pratiche comunicativo-mediatiche. L’indipendenza dei media (pubblici e privati) sia
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Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Comunicazione e Potere
dalla sfera politica che dalla sfera economico-industriale che la tradizione sociologica ha attribuito al mondo
anglo-sassone non è che un pio rammarico. La classica inter-dipendenza che contraddistingue l’area
europeo-continentale ed il mondo asiatico – ad esclusione del Giappone – è divenuto un canone mondiale.
Se da un lato i media dipendono dal sistema economico e dalle istituzioni politiche, dall’altro la politica è
assurta a programma-contenuto dei media, divenendo dipendente da essi. Non di meno, ciò accade anche
con la sfera economica. La mediatizzazione della finanza e dei regimi di consumo-produzione economica è
oramai un condizionatore mainstream dei mercati. In che maniera?
Consideriamo subito il rapporto media-politica. Ai programmatori dei media la politica “costa poco”. È già
predisposta dai politici e dalle istituzioni. Quando i media fanno della politica un contenuto mediatico
spesso la trasformano non in edutainment. Come è noto, la street performance del politico al talk show
docet! La stessa cosa accade con industriali, economisti, opinion leader. Al punto che non c’è iniziativa
industriale che, se da un lato soggiace alla “speculazione” delle parti in causa, dall’altro è calata nell’arena
mediatica mentre diviene un affare di mercato, tanto che gli effetti comunicativi dell’una sono
complementari agli effetti economico-finanziari dell’altro. Si tratta di una trasmutazione che è
sociologicamente molto rilevante in quanto è trasversale alle scale globale e locale, ma anche per la
disattenzione prestata dall’opinione pubblica globale.
La comunicazione nella società-rete cambia le istituzioni
La realtà è un complesso di “realtà sociali” – sostiene il sociologo. Tale consistenza “al plurale” deriva dalla
governance esercitata da un potere politico-istituzionale che ha anch’esso una natura composita, visto che
scaturisce dalla relazionalità di diversi “portatori di interessi” che, in ogni occasione, rivendicano
contemporaneamente, la propria eteronomia ed autonomia, quindi l’auto-governance del potere
relazionale. Chi sono gli stakeholder in questione? Le istituzioni nazionali, le multinazionali economicofinanziarie, le organizzazioni umanitarie, i movimenti sociali, e soprattutto i network mediatici. La realtà
non è più fotocopia della rappresentazione dello Stato-nazione, frutto novecentesco delle élites e delle
burocrazie locali.
Allo Stato-rete dei “portatori di interesse” corrisponde, ormai da tempo, una “società-rete”. Castells fa il
suo gioco (teorico) sostenendo che le istituzioni dello Stato-rete, operando a-traverso i confini ed i suoi
stessi apparati, si avvalgono sempre più dei sistemi mediali. Per comunicare ad ampio spettro, si dice; in
realtà, è conquistare legittimazione (consenso popolare) ed efficienza (servizi informativi, pubblicità, ecc.).
In che maniera? Via media, ovviamente! Così facendo, però, lo Stato-rete si reticola, fors’anche ignorando
che la reticolazione porta all’enfasi del controllo, ma, anche, a cedere quote di potere reale, che, dal centro
passano alle periferie. Su che cosa hanno rilevanza? In primis, riguardano la responsabilità sociale, la
sovranità sulla sfera pubblica da parte delle istituzioni.
Si tratta di un processo che non è nato ieri. Tanto Daniel Bell che Alain Touraine – maestro francese di
Castells – direbbero, seppure in maniera diversa, che esso ha delle radici che risalgono agli anni Settanta.
L’avvento di internet – già rimarcato da David Lyon, Barry Wellman, Armand Mattelart – ha reso evidente
che il campo di gioco non è solo bianco-rosso – i colori delle autonomie locali fondate sulla tradizione
cultural-politica – ma è anche giallo e verde-celeste – i colori classici delle lobby sovra-locali. L’avvento del
web è tutt’uno con i fenomeni della globalizzazione. Si constata così che il rischio che internet divenisse il
“tappeto volante” di un qualche potere specializzato è stato esorcizzato. Tuttavia, non dobbiamo trascurare
di interrogare “come” la globalizzazione delle tecnologie digitali sia divenuto il contenuto per eccellenza del
tecno-capitalismo finanziario – chioserebbe Henry Schiller.
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Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Comunicazione e Potere
Il posto di internet e delle reti digitali
Manuel Castells non si presenta né come un apocalittico né come un integrato della Web Age. Ciò
nonostante, qualche pericolo lo paventa. Sostiene, infatti, che la fortuna di cui i quasi-monopoli delle Tlc o
delle Ict attualmente godono comporta più di un effetto negativo. In primo luogo, la privatizzazione
(capitalistica) degli impianti e della programmazione di una “rete” (networking-making power) non è stata
scalfita né dallo sboom del 1999 né dalla crisi attuale (p. 535). Poi, la dipendenza delle istituzioni pubbliche
dalle aziende creatrici di reti è in crescendo. Inoltre, l’ambizione da parte di qualche governo politicostatale di “controllare internet” almeno su scala nazionale, offrendo ai network media lo svincolo locale
dalla soggezione alle norme sovra-nazionali, è sempre all’ordine del giorno.
Le aziende soggiacciono al richiamo dello Stato nazional-autocratico circa le libertà comunicative by
internet? Castells non ne fa un mistero. Però, bolla tali strategie come una scappatoia di breve respiro. Il
suo focus è ben altro! Punta lo sguardo sociologico contro i creatori di “reti creative di reti”. Infatti, afferma
che i Titans dei social network ed i Tycoon dei media vanno incontro ad un facile matrimonio in quanto
entrambi perseguono la “moltiplicazione delle reti”. A che scopo? Per reticolare i mercati, la sfera pubblica
nazionale, la vita quotidiana, ciascuno di noi. A che cosa sta portando? È presto detto: «Massimizzazione
dei profitti sui mercati finanziari globali”; incremento del potere politico per le aziende di comunicazione di
proprietà statale; e l’attrazione, la creazione e l’intrattenimento del pubblico come mezzo per accumulare
capitale finanziario e capitale culturale» (p. 536).
La causa di tutto questo non è certo la crescente popolarizzazione del web: però, la globalizzazione delle
reti crea sia un’arena di libero accesso che un mercato che suscita interessi e allarmi di ogni genere. Non si
paventa che un “bit in più” possa affogarci nella comunicazione pervasiva: piuttosto, che la “società-rete”
maturi dei regimi più anarchici di digitalizzazione dell’informazione. Con quali esiti? Tanto da spingere i
regimi politico-statali più severi a pretendere sia di apporre dei “cancelli” alla comunicazione digitale –
come peraltro insegna il caso China-Google –, sia di essere mercantilisti ‘fuori’ ed ‘autarchici’ dentro – come
dimostra la pirateria digitale tra Est ed Ovest.
Il sociologo afferma comunque di essere convinto che gli “utenti del web” dimostrino di essersene già
avveduti dando vita a espressioni varie di “contro-società-rete”. Da questa sortisce una “voce digitale
globale” che, pur non disponendo di alcuna bandiera istituzionale, sa farsi sentire. Quando?
Saltuariamente. Da qui a sviluppare la capacità di sostenere che “il Re è nudo”, tanto da spingerlo a riliberalizzare, il passo è, in ogni caso, tutt’altro che breve – almeno per chi scrive. Secondo Castells, invece, è
più che breve. In più di un paragrafo, infatti, lui “celebra” la vocazione del cosiddetto “popolo della Rete” a
trasformarsi in “movimento sociale” – con funzioni di advocacy. Con quali esempi empirici? Lui non si
pronuncia: chiede a noi di farlo.
Una delle questioni-chiave dell’opera è senz’altro la pervasività del potere della comunicazione. Essa si
dispiega tramite la persuasione, che, colpisce sia la mente che i cuori. Come? Promuovendo non più “una”
narrazione ma “delle” narrazioni della realtà che generano condivisione di significato. Definendo i contesti
specifica anche la divisione dei ruoli. Per sviluppare quest’argomento, a cui peraltro dedica non poche
pagine, il sociologo mutua dichiaratamente dalla psicologia neuro-biologica di Antonio Damasio lo sviluppo
analitico che deriva dall’assunto che “noi” siamo delle “reti connesse”. Si dà così rilevanza prima alla
connettività “cuore-mente” e poi al ruolo-chiave delle emozioni, trampolino bio-cognitivo del processo tra
empatia e decisionalità.
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Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Comunicazione e Potere
A che cosa porta questa escursione del sociologo in campo psicologico?
Per Castells è una novità, almeno rispetto alle antecedenti opere. Eppure, non è una “deriva”. Lo sforzo –
volto ad acquisire un neo-concetto di Self, confacente al suo discorso, è apprezzabile. Il lettore coglie
l’avvertenza – non granché dichiarata dall’autore– che si tratta di un passaggio obbligato. Perché? (Non
trascuriamo che, tra gli anni ’30 e gli anni ’60, non pochi classici della sociologia e della psicologia sociale si
sono sbracciati in ponderosi studi sui rapporti tra “comunicazione” e “forme di potere”). Non di meno, il
nostro sociologo, ora, avverte un obbligo: dimostrare a che cosa porta la network society.
Castells è attratto dai fuochi del rapporto “media-mente”. Sostiene che le informazioni diffuse dai media
colpiscono gli “stati di coscienza”, provocando delle emozioni che trascinano il comportamento umano a
compiere le scelte che sono conformi al significato introiettato. Come? È recepito in maniera non
dissonante dall’emittente. Da qui la prima concettualizzazione del senso del potere in ambiente
comunicativo: si tratta del framing della “mente pubblica”. Le virgolette sono nostre, qui apposte per
rimarcare che, secondo il sociologo, i media hanno “un” potere più che evidente: confezionare e
trasmettere “il” messaggio alla società-rete nel suo complesso. A che scopo? Per modellare un
“immaginario pubblico” – ma come non ricordare qui le pagine di Edgar Morin sull’industria
cinematografica degli anni ’50?
Ritornando a Castells, l’analisi si inoltra sul crinale più affilato. Presenta l’incontro fra le quattro
determinanti degli effetti persuasori: l’agenda setting, il priming, il framing, l’indicizzazione. Pur usufruendo
di passaggi non particolarmente brillanti, l’argomentazione non è fragile. Peraltro, si appoggia non poco su
una letteratura scientifica di tipo psicologico ed economico-cognitivista, prevalentemente di area nordamericana, che, in massima parte, non ha più di un decennio.
Secondo il sociologo, le quattro determinanti poc’anzi richiamate sono gli “assi nella manica” dei network
mediatici. Da una parte, avendone già vantaggiosamente sperimentato l’impatto sull’opinione pubblica, i
politici di professione non mancano di farne crescentemente ricorso. Tanto da chiedere continua ospitalità
nell’arena mediatica. Dall’altra, la gestione dell’arena da parte dei Media Mogul specula sulle conseguenze
socio-economiche del proprio ruolo strategico. Al punto che tali arene non sono né una tribuna né un
altoparlante, ma assurgono a vero e proprio “centro di potere comunicativo”. Indipendentemente dal fatto
di essere localmente di seconda importanza, più è globalmente radicato – come è il caso dell’impero
editoriale e mediatico di Ruperth Murdoch – maggiormente detiene le facoltà di sostenere che “rien ne va
plus”.
Chi matura un potere comunicativo “dal basso” contrapponendosi ai poteri comunicativi “dall’alto”?
I soggetti del contro-potere non mancano – sostiene Castells – e sono espressi, in massima parte, dai
movimenti sociali global-locali. Ad essi il sociologo attribuisce la vocazione a rappresentare la contro-prova
della cosiddetta “politica sociale globale”. Le prove empiriche sono rintracciate in diverse direzioni: per
esempio, nelle lotte degli ambientalisti. Queste sono sociologicamente spiegate riconducendone i motivi sia
al sentimento di paura che scaturisce a seguito delle trasformazioni dell’ambiente globale, sia al
coinvolgimento entusiasta di rock star e divi del cinema.
I movimenti No Global che contrastano tanto i summit della politica internazionale quanto le campagne
pubblicitarie delle Corporation si manifestano con delle espressioni pubbliche che hanno carattere di
“evento”: sono le cosiddette “Comunità di pratica”. Contrastando gli illeciti politici che avvengono nelle
società autocratiche (Birmania, Nepal, nord-Corea, ecc.) o non democratiche (Filippine, Ucraina, ecc.),
attuano delle forme di resistenza che hanno una forte risonanza globale, ma debole incisività locale. Un
altro esempio è fornito dalla campagna di Barak Obama per le Presidenziali Usa, caratterizzata dalla
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Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Comunicazione e Potere
coltivazione di sentimenti positivi, speranze di cambiamento, dalla comunicazione personalizzante via
internet. In altri termini, per i movimenti collettivi della “società-rete” internet è un vero e proprio
“specchio di Archimede”: più il focus è lontano dalla sorgente maggiormente è efficace.
I movimenti sociali più incisivi sono quelli che lottano affinché internet resti “Out of Control” – scriverebbe
Kevin Kelly. Per Castells, allora, la rete digitale globale è una “libera creazione di amanti della libertà”. Ecco,
allora, la risoluzione-clou: il controllo istituzionale di internet significherebbe la perdita della libertà di autocomunicazione globale. Verrebbe così meno lo “spazio pubblico” che è necessario sia al cambiamento
locale, sia alle pratiche del contropotere auto-diretto.
Per il sociologo, infatti, il “potere della comunicazione” nelle società civili a livello planetario risiede nella
libertà alla “auto-comunicazione di massa” (mass self-communication). Soltanto i movimenti sanno come
“opporre resistenza” ai poteri sociali globali. Come? Ricorrendo alle tecnologie digitali – leggi: mail, chat,
blog, Twitter, Messenger, ecc. – che rendono possibile l’auto-comunicazione di massa. Così comunicando i
movimenti auto-producono delle “neo-narrazioni di realtà”, consistenti in immagini e categorie valoriali.
Con queste agiscono sui frame mentali degli utenti dei network mediatici, provocando un retroorientamento degli stati di coscienza ed orientamenti ideali. Torna qui in auge l’idea della controcultura
così cara ai Liberal d’altri tempi. Sì, dal momento che la “società-rete” tanto la provoca quanto la ospita
facilmente, soprattutto se può trasformarla in un suo “contenuto”, predisposto gratuitamente dagli
appassionati – più o meno come capita con i blog o i video in YouTube?
Quali sono i concetti-chiave che Castells offre alla sociologia?
In primis, il concetto di “mass self-communication”. La traduzione italiana in “auto-comunicazione di
massa” è immediata e pratica, ma sbrigativa. Essa riguarda tutte le singolarità, tra cui annoveriamo anche le
individualità umane e ogni soggetto sociale. D’altronde, c’è un dato di fatto che non si può ignorare. Il
primo lustro del secolo XXI ha visto maturare la convergenza tra i Titan di internet, del web, dei social
network, ed i Mogul delle telecomunicazioni e della telefonia mobile. Rispetto alle arene sia della politica
che dei consumatori, entrambe le parti hanno scoperto degli interessi convergenti di potere comunicativo.
Con il secondo lustro, è esplosa un’altra tendenza: la convergenza con i Tycoon delle comunicazioni di
massa (televisioni, radio, giornali, cinema).
Ciò comporta una novità sociale: l’auto-comunicazione dei movimenti sociali. Essa, davanti a eventi
politico-culturali come quelli sopra menzionati, “fiorisce dalle reti” e si trasforma in comunicazione globale.
Non “fa massa”, ma diviene massive, cioè massiccia e potente, quindi influente, se non proprio quasipervasiva. All’auto-comunicazione di massa Castells attribuisce la rappresentanza della ‘differenza’ tra i
media digitali e la comunicazione (mono-direzionale) dei mass-media. L’accesso al w.w.w. (world wide web)
è celebrato quasi come un “movimento di liberazione”.
A che cosa porta la pubblicazione di contenuti auto-prodotti in formato di iper-testo e multimedia? A far sì
che milioni di utenti, interessati a tali contenuti, siano “catturati dal web”. Ma si tratta veramente di
diffusione gratuita e di libero accesso? In che cosa consiste il ‘valore’ del contenuto? Per il sociologo, il
‘valore’ non è che l’espressione del potere comunicato che si sedimenta nell’utente. Intanto, quest’ultimo si
trasforma prima in consumatore e poi in retro-comunicante. Divenendo una sorta di prometeo fai-da-te o
un dwarf myself?
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Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini
Comunicazione e Potere
Dall’ipotesi alla teoria
Confrontiamo ora l’ipotesi con gli esiti teorici. La “società delle reti” comporta una neo-cultura. Scrive
Castells: «La cultura globale è una cultura della comunicazione per la comunicazione (il corsivo è nostro). È
una rete aperta di significati culturali che possono non solo coesistere, ma anche interagire e modificarsi a
vicenda sulla base di questo scambio. La cultura della società in rete è una cultura di protocolli di
comunicazione tra tutte le culture del mondo, sviluppata sulla base del comune convincimento nel potere
del networking e delle sinergie ottenute dando ad altri e ricevendo da altri» (p. 37).
Occorre distinguere – spiega il sociologo – tra potere reticolare (networked power), potere in rete (network
power) e potere del networking (networking power). Ora, non si tratta di “poteri divisi”, ma di “poteri
convergenti” che vedono i programmatori di rete costituire essi stessi una rete di governance, cioè,
“costituire i programmati”. Ne consegue che il potere-chiave è “Il potere della creazione di reti” (p. 535).
Però, accanto alla prima c’è anche una seconda configurazione del “potere delle reti”.
Mogul, Titan e Tycoon delle “reti” confliggono continuamente tra di loro per poi allearsi quando si
presentano degli interessi particolari. Quando? Ogni qualvolta si rende necessario “cambiare tutto per non
cambiare niente”. Ciò comporta, per esempio, trasformare gli utenti in audience “vendendo l’immagine
della vita” (p. 538) che essi vivono comunicando via media. Oppure, creando la “meta-rete delle reti”. In
altri termini, offrono come “contenuto della cultura” le interfacce di rete, gestite dai “commutatori di rete”
(switchers). Insorge così un secondo tipo di potere, il potere di commutazione, che secondo il sociologo è il
“potere fondamentale nella società in rete” (p. 545).
Dentro e fuori la biblioteca sociologica
In fine, crediamo che anche il prodotto-libro meriti una chiosa. Le grandi dimensioni del volume, simili a
quelle di un best-seller della letteratura di consumo, sono poco usuali all’editoria sociologica: eppure sono
apprezzabili. L’ampia pagina e la stampa nitida permettono l’agevole lettura con ogni tipo di illuminazione.
La mole, però, mal si presta allo studio mobile da parte dello studente pendolare.
La traduzione inglese-italiano è avvenuta a pochi mesi dalla stampa dell’edizione inglese. Ne rendiamo
merito all’editore. La riconosciuta notorietà dell’autore giustifica le copiose recensioni dei principali
quotidiani nazionali, ma non la disinvoltura con cui i contenuti sociologici sono stati ricordati. Lo
sottolineamo dal momento che si tratta di un’opera che presenta una tematica-chiave che, oltre ad essere
d’attualità, interessa varie categorie di studiosi: sociologi, politologi, psicologi, ma anche economisti dei
media, urbanisti, management dei sistemi dei media.
114
News
Verso l’internazionalizzazione:
il convegno “ESA-Lisbona 2009”
Roberta Bartoletti
(Università degli Studi di Urbino, “Carlo Bo”)
Dal 2 al 5 settembre 2009 a Lisbona si è tenuta la
9 Conferenza Internazionale dell’European Sociological Association (ESA), nel cui ambito il Research Network 7 di Sociologia della cultura ha organizzato 24 sessioni che hanno visto la presentazione di ben 110 contributi, a conferma
dell’importanza del gruppo di sociologi della cultura all’interno dell’Associazione. Le aree tematiche principali su cui i partecipanti si sono confrontati a Lisbona sono le culture europee, heritage culturale e identità nazionali, globalizzazione, vecchi e nuovi individualismi, le mediazioni
culturali, il rapporto tra cultura e potere, le culture performative, l’innovazione in campo metodologico e la riflessività. Parallelamente il RN Sociology of Culture ha organizzato anche 8 sessioni
dedicate al tema specifico “Memory, Culture, and
Public Discorse”, a cui hanno partecipato 48 presenters. Il programma complessivo delle sessioni
del Research Network organizzate a Lisbona sono
disponibili al sito
http://www.europeansociology.org/index.php?o
ption=com_content&task=view&id=190&Itemid=
131.
In occasione della Conferenza di Lisbona è stato
rinnovato il board del Research Network Sociology of Culture, e il nuovo coordinatore è la collega italiana Anna Lisa Tota (Università di Roma
Tre), che nell’ambito del suo nuovo ruolo ha annunciato un particolare impegno a collaborare
con la Sezione Pic dell’Ais, in quanto interlocutore
privilegiato a livello nazionale.
115
News
La conferenza intermedia del RN 7, in vista della
prossima conferenza ESA (Ginevra 2011) si terrà
nell’ottobre 2010 presso l’Università Bocconi di
Milano; in quella sede la sezione Pic-Ais organizzerà tre sessioni su temi di rilievo per lo studio
della cultura e della comunicazione su cui la sociologia italiana ha prodotto significativi risultati,
che vogliamo condividere e discutere con i colleghi del resto d’Europa.
“Culture and the Making of
Worlds”
Anna Lisa Tota
(Università degli Studi Roma Tre)
Dal 7 al 9 ottobre 2010 si terrà a Milano presso
l’Università Bocconi il convegno di metà mandato
del Research Network on “Sociology of Culture”
della European Sociological Association. Il titolo
del convegno è “Culture and the Making of
Worlds”, con una citazione non casuale
dell’ultima biennale di Venezia. E’ sempre difficile
lavorare sui grandi temi e con concetti ampi, come quello di cultura. In questo convegno - che è
frutto di un intenso scambio intellettuale tra
l’intero Board del Network e il Local Organizer in
Bocconi - abbiamo provato a declinare il tema
della cultura in modo interdisciplinare, facendo
dialogare la sociologia culturale, con l’analisi economica, politica, antropologica e con tutto il filone dei cultural studies. La nozione di cultura, che
abbiamo in mente, si riferisce a quella pluralità di
universi simbolici in cui scelte e azioni acquisiscono significati condivisi. Pensiamo alla cultura come medium per “costruire mondi” e per delineare corsi di azione.
La cultura, o meglio le culture, sono analizzate in
quanto capaci di mettere in scena nel discorso
pubblico nazionale ed internazionale i passati
scomodi e controversi che preferiremmo dimenticare, sono considerate come risorse per dare
forma alle identità individuali e collettive, e ai futuri possibili. Parlare della complessità come caratteristica cruciale della contemporaneità sembra essere uno slogan quasi scontato, tuttavia
questo rimane un dato imprescindibile da cui partire. E allora le culture diventano risorse cruciali
per l’articolazione delle issues legate alla giustizia
e ai diritti civili, per la ricomposizione dei conflitti
e per la comprensione delle controversie. D’altra
parte le culture creano anche costantemente
nuovi confini e nuove forme di inclusione ed esclusione sociale. In tale prospettiva un tratto caratterizzante le culture appare essere la loro ambiguità e ambivalenza. Le culture in definitiva
conservano pur sempre una loro opacità, come
gran parte del discorso antropologico ci ha insegnato. Vi alleghiamo di seguito il call for papers
nella speranza che questa sia un’occasione ulteriore per fare dialogare la sociologia italiana con
quella europea. Desidero ringraziare la coordinatrice Franca Faccioli e il Comitato scientifico di PIC
per l’organizzazione di alcune sessioni congiunte
nel convegno.
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