Franca Faccioli Presentazione SAPERI IN VISITA LA MEMORIA E IL FUTURO N°1 – 2010 SOMMARIO PRESENTAZIONE Franca Faccioli (Sapienza Università di Roma) HIGHLIGHTS Comunicazione e memoria Il ritorno delle Grandi narrazioni? Silvia Leonzi (Sapienza Università di Roma) La narrazione come luogo della memoria. L’estetica del ricordo tra visibile e invisibile Pierre Sorlin (Université Paris-Sorbonne Nouvelle) La cripta Antonio Cavicchia Scalamonti (Sapienza Università di Roma) La memoria tra narrazione e conversazione Giovanni Ciofalo (Sapienza Università di Roma) Future matters for social theory? Quale sociologia del futuro… Giuliana Mandich (Università di Cagliari) Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry Barbara Adam (Cardiff University, UK) Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis Rob Stones (University of Essex, UK) I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” Carmen Leccardi (Università di Milano-Bicocca) “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso sociotecnico Giuseppina Pellegrino (Università della Calabria) 1 Saperi in visita. La memoria e il futuro. Rivista Pic-Ais. Cultura e Comunicazione/Culture and Communication N°1 – 2010. ISSN 2036-9700 Franca Faccioli Presentazione FOCUS Making sense of “digital generation” Relazione di David Buckingham (London University, UK) Media, minori e Media Education Presentazione di Gianna Cappello (Università degli Studi di Palermo) RECENSIONI Sul tema Paolo Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d'Europa di Giovanni Ciofalo (Sapienza Università di Roma) Roberta Bartoletti, Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa complessa per le cose del moderno di Roberta Paltrinieri (Alma Mater Studiorum, Università di Bologna) Su altri temi Chris Anderson, Gratis di Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini (Università di Verona) Manuel Castells, Comunicazione e potere di Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini (Università di Verona) NEWS Verso l’internazionalizzazione: il convegno “ESA – Lisbona 2009” di Roberta Bartoletti (Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”) “Culture and the Making of the Worlds” di Anna Lisa Tota (Università degli Studi Roma Tre) Segnalazione eventi in prossimità PICALL FOR PAPERS Per condividere riflessioni e integrare i temi della Rivista COMITATO SCIENTIFICO Franca Faccioli (Coordinatrice) Roberta Bartoletti, Enrico Cheli, Giorgio Grossi, Giuliana Mandich, Giuseppina Pellegrino, Bruno Sanguanini 2 Saperi in visita. La memoria e il futuro. Rivista Pic-Ais. Cultura e Comunicazione/Culture and Communication N°1 – 2010. ISSN 2036-9700 Franca Faccioli Presentazione Presentazione Franca Faccioli (Sapienza Università di Roma) A partire da questo numero, la Newsletter Cultura e comunicazione voluta dal Consiglio scientifico del triennio 2005-2008, a cui va il ringraziamento dell’attuale Consiglio, si presenta con una formula in parte rinnovata, nella prospettiva di valorizzarla ulteriormente quale spazio di riflessione e di confronto per gli studiosi. Tra gli aspetti di novità vi è la registrazione ISSN che trasforma la Newsletter in una Rivista on line della Sezione Processi e Istituzioni Culturali, rispondendo appunto alla necessità di formalizzarne la presenza all’interno del dibattito scientifico [1]. Altro elemento di innovazione è la diversa veste grafica [2] pensata per rendere, anche visivamente, la rivista un luogo non solo accademico per il dialogo tra studiosi ed esperti. A questo proposito, infatti, Cultura e comunicazione verrà inviata anche ad associazioni ed enti che possono essere interessati ai temi di volta in volta trattati. All’interno dell’indice, infine, è stata inserita la rubrica PiCall for paper che offre un’opportunità di attivare un dialogo con i lettori, sollecitando l’invio di testi che trattino gli stessi argomenti oggetto delle varie sezioni della rivista, al fine di consentire un costante aggiornamento dei contenuti on-line. L’idea è quella di rendere la rivista un testo aperto agli interessati che vogliano dialogare su approcci, temi, metodi, risultati di ricerca. Questo numero propone diversi spunti di riflessione su memoria e futuro, due temi che si intrecciano sempre di più nella vita delle persone e che assumono un ruolo centrale nella sociologia contemporanea. La memoria come processo che permette di trasferire il vissuto in racconti, il futuro come luogo di insicurezza ed incertezza: sono due ambiti problematici della modernità. 3 Franca Faccioli Presentazione Il tema della memoria viene affrontato in questa sede da diverse prospettive di analisi: dalle grandi narrazioni, alle memorie plurali, al racconto del passato per progettare il futuro. Se l’esplosione mediale può limitare la capacità di narrarsi e di narrare in quanto la realtà viene rappresentata in frammenti, una proliferazione delle memorie e diventa difficile rivisitare i propri vissuti organizzandoli in narrazioni che ricostruiscano i nessi tra passato e presente e immaginino il futuro, è possibile individuare nuovi percorsi in cui le memorie producano una sorta di confronto e di dialogo su valori sociali e civili condivisi? Il tema del futuro viene presentato come una cornice interpretativa entro cui collocare diversi processi sociali. Sia che si parli di futuro radicato nel presente che di futuro immaginato, si tratta di ambiti problematici dell’ esperienza sempre più segnata dalle dimensioni dell’incertezza e della precarietà, ma anche dalla paura per minacce presenti o indefinite e comunque percepite come incombenti. Ricordando l’ammonimento di Adorno secondo cui compito principale del pensiero critico non è conservare il passato ma realizzare le sue speranze, è possibile immaginare un futuro che dia una risposta alla domanda di Bauman di trovare un equilibrio accettabile tra libertà e sicurezza? Forse, come suggerito dagli autori dei saggi che seguono, è proprio dalla dimensione dell’incertezza che bisogna partire per delineare la progettazione di un futuro fatto di pochi punti fermi, di frammenti e di confini mobili. Un futuro, però, possibile, in quanto continuamente riprogettabile in esperienze che vivono tra presente, passato e futuro, affermando la capacità di credere e di aspirare ad un mondo migliore. I contributi presenti in questo numero di Cultura e comunicazione riprendono alcune relazioni presentate nel corso di due seminari internazionali, organizzati a Roma e a Cagliari intorno alla presenza di alcuni visiting professor. Il primo, si è svolto presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza Università di Roma nel maggio del 2009 ed ha visto la partecipazione di Pierre Sorlin e David Buckingham. Il secondo si è tenuto presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari nell’ottobre del 2009 con la presenza di Barbara Adam e di Rob Stones. Da qui il titolo di questo numero: Saperi in visita. Questo numero della Rivista PicAis è stato curato da Giovanni Ciofalo, Silvia Leonzi (Facoltà di Scienze della Comunicazione, Sapienza Università di Roma) e Giuliana Mandich (Facoltà di Scienze Politiche, Università di Cagliari). [1] Per questo motivo, la numerazione riparte da 1 [2] Il progetto grafico e l’editing della Rivista sono stati realizzati da Giada Fioravanti 4 Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni COMUNICAZIONE E MEMORIA Il ritorno delle Grandi narrazioni? Silvia Leonzi (Sapienza Università di Roma) La narrazione come luogo della memoria. L’estetica del ricordo tra visibile e invisibile Pierre Sorlin (Université Paris-Sorbonne Nouvelle) La cripta Antonio Cavicchia Scalamonti (Sapienza Università di Roma) La memoria tra narrazione e conversazione Giovanni Ciofalo (Sapienza Università di Roma) 5 Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni HIGHLIGHTS Comunicazione e memoria Il ritorno delle Grandi narrazioni? Silvia Leonzi (Sapienza Università di Roma) Abstract La memoria assume un ruolo determinante nella costruzione e conservazione delle identità individuali e collettive, mettendo al riparo dagli errori e dagli orrori legati alle forme di oblio del passato, responsabili di un futuro incerto e inevitabilmente frammentario. Questo ambito di studio inizia a diventare centrale a partire dalle riflessioni di Halbwachs fino all’era dell’esplosione mediale, quando la proliferazione delle memorie rischia di produrre un collasso di senso, rendendo inutilizzabili per una comunità i ricordi non inseriti in una narrazione condivisa. Le Grandi Narrazioni della modernità, così come teorizzato da Lyotard, hanno lasciato il posto a un arcipelago di micronarrazioni difficilmente ricomponibili in un quadro coerente. Se nella società della comunicazione l’estetica del frammento ha in molti casi sostituito i racconti collettivi, tuttavia, è possibile osservare oggi le tracce di una seconda oralità in grado di intrecciare le storie locali con lo spirito del tempo. 6 Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni Il tema della memoria costituisce un oggetto di indagine fondamentale nell’ambito delle scienze umane e della comunicazione, in quanto, come sottolineano numerosi studi, tra cui quelli fondamentali di Pierre Sorlin, e in particolare, il suo intervento riportato in queste stesse pagine, si tratta di un oggetto che implica nel suo disvelamento narrativo la possibilità di attivare pratiche di definizione e consolidamento delle identità individuali e collettive. Un concetto così centrale che, rovesciando i termini del discorso, è proprio a partire dall’assenza di memoria che si rischia un progressivo indebolimento del legame sociale. La problematicità connessa al carattere “narrativo” della memoria, ovvero la traduzione di quel che è stato in una forma trasmissibile, condivisa e accessibile ai membri di una comunità, intesa sia in senso diacronico che sincronico, costituisce un indispensabile elemento di riflessione per il dibattito scientifico. L’obiettivo è quello di avviare una rilettura dei profondi cambiamenti che hanno avuto come esito una crisi delle “Grandi narrazioni” destinata a riconfigurare le motivazioni alle forme di coesione sociale e la loro interpretazione. In generale, e principalmente nella prospettiva di una sua elaborazione teorica (Olick, Robbins, 1998), il concetto di memoria, in un senso più specifico, è stato spesso ricondotto alla sociologia della conoscenza (Swidler, Arditi 1994), mentre in una prospettiva più ampia è stato valutato nei termini di una categoria fondativa delle società. Soprattutto in questa ultima accezione, la memoria è stata costantemente connessa a riti di natura commemorativa o, comunque, a pratiche finalizzate alla costruzione di miti o di monumenti, attraverso cui le società hanno tentato di delineare i propri confini simbolici. È possibile rilevare, tuttavia, come a partire dalla letteratura proveniente da ambiti disciplinari differenti e prodotta su questo tema sin dall’inizio del Novecento, uno dei nodi più significativi di tale discorso sia rappresentato dalla relazione che si stabilisce tra il valore sociale della memoria e il possibile ventaglio delle traduzioni individuali che essa può assumere. Del resto, il tentativo di oltrepassare il senso di una delle dicotomie sociologicamente più rilevanti (Elias, 1990), vale a dire, 7 quella che si concretizza nell’opposizione di sociale e individuale, può essere coerentemente traslato nei termini di un confronto tra vicende pubbliche (memoria collettiva) ed esperienza privata (ricordo personale). Un percorso teorico messo a punto dalla riflessione di Maurice Halbwachs (1997), per il quale queste due dimensioni sono necessariamente destinate a sovrapporsi, in quanto è l’appartenenza al gruppo, nel presente, a generare i ricordi del singolo. Prima dello studioso francese, i padri fondatori della sociologia, Durkheim e Weber, non avevano attribuito alla memoria un ruolo particolarmente determinante nell’attivazione delle dinamiche di socialità, concentrando piuttosto la loro attenzione sulla categoria più generale della temporalità e sui rituali commemorativi all’interno di contesti sociali ancora primitivi. In parte, la distanza concettuale che separava la sociologia moderna dallo studio della memoria come oggetto scientifico nasceva sia da una prospettiva fondata su una concezione dicotomica della realtà sociale che dalla specifica convinzione che la società tendesse inevitabilmente a modellare valori, ruoli e relazioni a prescindere dalla tradizione e, pertanto, che sottraesse alla dimensione temporale del passato ogni possibilità di influenzare e incidere sul presente (Shils, 1981). Halbwachs, allievo di Durkheim, elabora, a tale proposito, un contributo fondamentale: il suo merito consiste nell’estendere l’ambito di riflessione relativo alla memoria, andando oltre una visione fortemente psicologica, centrata sulle modalità di attivazione del ricordo individuale [1], verso una consapevolezza generalizzata del grado di socialità della memoria stessa, prodotta sempre all’interno di un percorso e di un processo collettivo [2]. Dalla sua analisi, in parte ispirata allo strutturalismo durkheimiano, emerge con forza la natura sociale della memoria, in base a cui il soggetto non può che coltivare i propri ricordi entro “quadri” simbolici ben definiti, almeno fino a quando queste mappe restano intatte e sono legittimate da una condivisione di interessi e sentimenti all’interno del gruppo che li condivide. Tale prospettiva, però, come osservano Sorlin e Cavicchia Scalamonti nei loro interventi, si dimostra problematica nel momento in cui non è in Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni grado di spiegare come e perché una determinata memoria, o una versione di essa, tenda ad affermarsi in un particolare momento storico. In alcune circostanze, si può ipotizzare lo svolgersi di una vera e propria “guerriglia dell’immaginario”, non in termini di capitale simbolico, ma piuttosto come conflitto giocato sul piano del riconoscimento e della strumentalizzazione di un determinato evento secondo differenti modelli e prospettive di analisi. L’interrogativo che Sorlin, in particolare, si pone, riguarda la possibilità che una data circostanza, non vissuta direttamente dai membri di una comunità o da uno specifico gruppo sociale, torni alla luce in un certo momento storico, innescando di fatto un potenziale rovesciamento del senso comune condiviso. A questo proposito, Sorlin parla dell’esistenza di una “memoria senza ricordi”, concentrando la sua attenzione sulle modalità di “trasmissione” che entrano in gioco in queste circostanze, giungendo alla conclusione che ciò che è assente o trascurato per decenni, se non per secoli, dalla memoria collettiva, riesce, in determinate condizioni, a riemergere, trasformandosi in un elemento attuale ed attualizzato. Cavicchia Scalamonti, a sua volta, attraverso la metafora della cripta, fa riferimento ad una “memoria inconscia”, sottolineando che tanto più una determinata memoria è inconsapevole tanto più essa sarà efficace e duratura, pronta a riemergere anche dopo numerose generazioni. Come si può notare, in queste diverse elaborazioni ciò che viene messo in gioco non riguarda soltanto l’equilibrio sempre precario tra struttura sociale e libertà individuale, ma anche il grado di conflittualità implicito nelle pratiche di costruzione e trasmissione della memoria collettiva. Analizzeremo più avanti come tale aspetto sia divenuto scientificamente rilevante in una particolare fase della storia del Novecento, anche alla luce di un’ulteriore declinazione del concetto di memoria a opera di Assmann, per il quale il processo di interiorizzazione messo in atto dai singoli attraverso le loro esperienze dirette, grazie a dinamiche di coordinazione e trasmissione, si trasforma in una “memoria culturale” che conferisce identità al gruppo (Assmann, 2002). Si può ipotizzare che il successo di una concezione di questo tipo sia alla base della crescente attenzione, sviluppata a partire dalla seconda metà del Novecento e soprattutto dagli anni ’60 in poi, nei confronti della memoria in generale, tanto in relazione al dibattito accademico, quanto nella percezione del pubblico [3]. D’altra parte, secondo Kammen (1995), tale fortuna potrebbe invece essere motivata da una crescita del multiculturalismo, rafforzata dal fallimento dei regimi comunisti, e da una più ampia politica di vittimizzazione e di dolore collettivo (Olick, Robbins, 1998), soprattutto rispetto a quelle situazioni in cui gli eventi risultano inevitabilmente soggetti a forme di risemantizzazione sociale. Chiaramente, tale processo è legato al fatto che la memoria, pur differenziandosi e contrapponendosi alla storia per molti aspetti, al pari di questa, è scritta dai vincitori, selezionata da coloro che riescono a imporre una versione particolare della narrazione, selezionando episodi e momenti funzionali alla costruzione e al consolidamento di una identità collettiva di parte [4]. Nell’ambito delle riflessioni sul rapporto tra storia, memoria e potere assume un valore fondativo l’analisi archeologica compiuta da Foucault (1967), non a caso uno dei più significativi autori postmoderni, che ha senza dubbio contribuito a fornire un sostegno filosofico al processo di desacralizzazione delle tradizioni, non più da considerare come un oggetto pacifico, in quanto appartenenti al passato, ma invece come un territorio endemicamente conflittuale, risultato di una costante guerra dei sogni, un processo di riscrittura, e di progressiva riattualizzazione del passato. Al superamento dello studio della storia e della memoria nei termini di mere pratiche commemorative ha senza dubbio apportato un apporto significativo anche il lavoro di storici come Aries (1989) e Agulhon (1979), orientato a considerare i meccanismi di potere politico e capace di produrre uno slittamento dell’interesse storiografico dal terreno dell’ideologia a quello dell’immaginario, dal problema del significato a quello della possibile manipolazione. Allo stesso modo, appare determinante, seppure declinata sulla base di altre coordinate interpretative, la poderosa ricerca di Pierre Bourdieu (1983), che concentrandosi più che sullo studio delle strutture sociali e dei siste8 Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni mi normativi, sull’analisi delle pratiche quotidiane, amplia la definizione funzionalista della cultura come norma, valore, atteggiamento, a un’idea di cultura come dimensione simbolica costitutiva di tutti i processi sociali (Crane, 2005). La breve riflessione fin qui condotta evidenzia come l’attenzione nei confronti della memoria sia anzitutto un’attenzione nei confronti delle pratiche e, in secondo luogo delle strategie e delle tecniche ad essa connesse. Vale a dire che non è possibile svincolare l’analisi culturale di questo oggetto da un’indagine focalizzata sull’evoluzione della technè, e quindi delle modalità di registrazione, archiviazione e trasmissione del passato, sia esso pubblico o privato. In questo senso, tra coloro che hanno tentato una ricostruzione storica significativa e più attenta allo sviluppo tecnologico connesso alle pratiche sociali, possiamo ricordare il lavoro di Le Goff (1982), il quale individua cinque periodi storici fondamentali: - una prima fase, in cui l’oralità si configura come tratto determinante delle dinamiche identitarie delle comunità umane, mentre la memoria costituisce ancora un elemento volatile e impreciso; - una seconda fase, in cui si assiste alla transizione da una società caratterizzata dalla comunicazione orale ad una in cui la scrittura va ad integrare e non a sostituire i processi di trasmissione orale e iniziano ad affermarsi pratiche commemorative più consapevoli; - una terza fase, caratterizzata dalla centralità anche culturale del Cristianesimo, che pone particolare enfasi su una concezione lineare del tempo e della storia; - una quarta fase, dominata dal Rinascimento e poi dal Romanticismo, durante la quale la costruzione dello stato-nazione è affiancata da tentativi di costruzione identitaria attraverso la realizzazione di archivi, biblioteche e musei; - una quinta fase, in cui l’affermazione dei mezzi di comunicazione elettronica conduce a modalità innovative di archiviazione, trasmissione e “consumo” della memoria. In parte, tale transizione storica è rintracciabile anche in opere provenienti da differenti ambiti disciplinari, come nel caso del lavoro condotto da Walter Ong (1986) sul rapporto tra memoria e tecnologia, il quale evidenzia come lo sviluppo delle tecnologie elettroniche 9 abbia favorito l’affermazione di un’oralità di tipo secondario, fenomeno culturale fondamentale anche rispetto ai processi di costruzione e condivisione della memoria. Infatti, in una società caratterizzata dal presentismo dei mezzi di comunicazione il tema della memoria acquisisce funzioni culturali in precedenza mai sperimentate, mentre sulla scena sociale iniziano ad affacciarsi problematiche inedite: la costante produzione e archiviazione di eventi, immagini, informazioni che si trasformano in pixel di memoria complicano in alcuni casi la possibilità o la capacità di accedere a tali dati (Ferrarotti, 2003), mentre, d’altra parte, una maggiore attività del pubblico nel costruire simbolicamente e in modo frammentario la realtà quotidiana (Jenkins, 2006) apre le porte all’affermazione di una “memoria 2.0”, che va a implementare le prime cinque fasi identificate da Le Goff. Ritengo che tale fase, ancora in divenire, non possa essere esclusivamente considerata il portato “naturale” di una determinata evoluzione tecnologica, ma rappresenti anche l’esito culturale e sociale dell’attuale civiltà della comunicazione, in cui, parafrasando Benjamin, l’aura che avvolgeva la memoria, o un certo tipo di memoria, fino alla prima metà degli anni ’90, tende in parte a dissolversi, lasciando spazio a una mappa articolata e complessa di memorie. In questo senso, ci appare quanto mai utile il lavoro di attualizzazione che riguarda gli “eventi mediali” (Dayan, Katz, 1992) svolto più recentemente da Katz e Liebes (2007), i quali hanno definito in modo dettagliato la stretta interdipendenza tra variabili intervenienti di tipo sociale (la corrosione dell’autorità politica, in particolare) e gli sviluppi di natura tecnologica (ad esempio, l’ubiquità del mezzo televisivo). Gli eventi cerimoniali di tipo mediale hanno avuto una vasta eco “pubblica” almeno fino all’inizio degli anni ’80, grazie all’accordo generalizzato tra politica, media e pubblico; alla presenza determinante di una tecnologia di tipo broadcasting; e alla particolare attrazione rappresentata da “grandi narrazioni collettive”, in grado di unificare, anche solo per un brevissimo periodo, una data comunità o l’umanità intera, come nel caso del primo uomo Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni sbarcato sulla luna nel 1969, producendo memoria condivisa. Ai “grandi eventi mediali” si affianca la costruzione di una “grande memoria collettiva”, che soprattutto a partire dalla fine degli anni ’50 prende forma sulle rovine della Seconda Guerra mondiale e intorno alla tragedia dell’Olocausto. Si tratta di un racconto che tende ad assumere i contorni di un immaginario specifico all’interno dei differenti contesti nazionali in cui viene elaborato; tuttavia, la televisione (anche attraverso l’utilizzo di materiale documentario) e il cinema sono stati in grado di attivare, attraverso la peculiarità dei rispettivi linguaggi, una vera e propria retorica “salvifica” della memoria. In questi casi, i contenuti mediali, pur all’interno dei quadri sociali nazionali e modellandosi sulle specificità dei casi nazionali, hanno contribuito alla realizzazione di un discorso e di un’aura condivisa intorno alla memoria. Negli ultimi decenni, tuttavia, la pervasività dei mezzi di comunicazione e l’affermazione di fenomeni corrosivi dell’autorità, politica e simbolica, accompagnati da forme inedite di cinismo e disincanto del pubblico, causate dalle pratiche di disvelamento dei segreti di retroscena di molti uomini pubblici (Meyrowitz, 1993), hanno contribuito alla perdita dell’aura degli eventi mediali. Anche il discorso sulla memoria è stato coinvolto nel cambiamento di questo scenario, mostrando un livello di complessificazione ben più accentuato rispetto al passato. In questo ambito si inserisce, a mio giudizio, la problematica connessa al rapporto tra narrazione e memoria. Sorlin, nel suo intervento, analizza i processi comunicativi in grado di determinare una trasformazione narrativa dell’accaduto. Il riferimento ai sopravvissuti dell’Olocausto mette in evidenza come la dimensione del presente, in cui l’individuo si trova immerso, risulti per sua natura confusa, complessa e inestricabile, e come dunque la ricerca di un senso possa rivelarsi un’impresa difficile, sia dal punto di vista individuale che collettivo. Pertanto, nella maggior parte dei casi, si può osservare come la traduzione in forma narrativa, ovvero secondo una logica sequenziale e compiuta, il vissuto quotidiano, significhi inevitabilmente “tradire” la realtà; tuttavia, in questa traduzione risiede l’unico senso possibile di una narrazione e di una memoria condivise e della Storia intesa come disciplina, nonostante le differenze costitutive esistenti tra queste dimensioni. Lyotard, nel suo fortunato libro sulla condizione postmoderna (1981), individuava proprio nella fine delle Grandi Narrazioni uno dei fattori decisivi della fine della Modernità. Allora, sembrava che l’avvento di una nuova epoca, identificata peraltro soltanto attraverso il suffisso post, fosse un dato condivisibile, anche se per alcuni studiosi l’era in questione non appariva segnata da una decisa discontinuità con il passato, ma coincideva piuttosto con il passaggio a una fase di radicalizzazione della modernità. A partire dalle riflessioni di Lyotard, nell’ultimo trentennio, la retorica postmoderna ha costretto le scienze sociali a interrogarsi su questa ipotesi discontinuista della storia e della cultura occidentale, fondata sull’idea di un radicale cambio di paradigma, alimentando un dibattito ancora attuale. D’altra parte, è difficile negare che dinamiche quali l’avvento del pensiero debole in filosofia, la messa in discussione delle regole dei giochi della scienza, la crisi delle ideologie, la riscoperta del barocco nelle espressioni artistiche, la perdita di fiducia nei saperi esperti, e più in generale la rivoluzione del sapere in un mondo globalizzato in cui la principale ricchezza è costituita dalla conoscenza, abbiano tracciato le principali coordinate di una realtà sempre più incerta e indecidibile, ma anche più aperta e potenzialmente ricca di possibilità. Nella prospettiva del filosofo francese un fattore centrale di questo cambiamento è costituito dalla fine delle Grandi Narrazioni, che coincide con la sopraggiunta impossibilità di concepire l’evoluzione storica come uno svolgimento unitario e dotato di senso. Questi racconti si proponevano di offrire un’interpretazione coerente del destino dell’umanità, non cercavano una legittimazione in un mito fondativo originario ma piuttosto in un progetto da realizzare nel futuro, come nel caso del cristianesimo o del marxismo. La “crisi della modernità” dunque coincide con il dissolversi di queste trame universali e con la creazione di una miriade di piccole narrazioni, locali e situate, parziali e circoscritte. Nel contempo, la perdita di centralità del soggetto si lega alla 10 Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni dolorosa consapevolezza di vivere in un multiverso, in cui le molte storie, rese visibili anche grazie ai media, disegnano l’affresco di un’umanità contingente, che può emanciparsi soltanto attraverso la coscienza della parzialità del proprio orizzonte. Nel passaggio verso una nuova configurazione globale, in cui la distribuzione della conoscenza acquista un valore fondativo per la costruzione delle identità e per gli equilibri di potere tra attori sociali, Stati e istituzioni la rassicurante percezione della linearità dell’evoluzione storica è stata sostituita da percorsi biografici all’insegna della provvisorietà e dell’incertezza, sia sul piano individuale che collettivo. Le dinamiche di disaggregazione sociale e culturale che hanno segnato il passaggio da una visione del mondo basata sulla ricerca di sintesi ideologiche, in funzione del controllo della realtà, a una percezione sorta spontaneamente sulla frammentazione della realtà e del sapere, nell’ottica di una riduzione dell’esperienza alla dimensione del quotidiano, hanno contribuito a una forte valorizzazione della dimensione estetica, o a quella che Maffesoli definisce etica dell’estetica (Maffesoli, 1993). Per un periodo di almeno due decenni dalla pubblicazione del testo di Lyotard, la consapevolezza della messa in discussione delle categorie fondative della modernità ha segnato gran parte della produzione culturale dell’Occidente, anche se il racconto della crisi era iniziato molto tempo prima ed è rintracciabile nella produzione letteraria del Novecento, nell’arte espressionista, nel teatro dell’assurdo, nella nascita della psicanalisi. Che si tratti di un cambio radicale o di una lunga metamorfosi, il dato certo è che i mezzi di comunicazione hanno avuto un ruolo fondamentale nel fornire visibilità ai mutamenti in atto. Attraverso la moltiplicazione delle immagini e dei discorsi e la loro contaminazione i media hanno contribuito a creare non tanto una società trasparente quanto piuttosto una vera e propria “fabulazione” del mondo, profetizzata da Nietzsche, destinata a svelare il carattere plurale dei racconti, offrendo loro una nuova legittimità. Una conseguenza evidente della proliferazione di racconti e di prospettive è sicuramente rappresentata da un accrescimento del livello di complessità e articola11 zione della realtà, a cui non sempre corrispondono adeguate strategie di rappresentazione e archiviazione dell’esperienza. Infatti, se da un lato l’evoluzione tecnologica consente di estendere a dismisura le possibilità di registrare e conservare immagini e testi, eventi pubblici e privati, dall’altro si devono anche rilevare difficoltà di accesso, basate su gap culturali, ma anche su scelte “politiche” di formazione e socializzazione, agli archivi di una memoria sempre più dilatata e pertanto più soggetta a inevitabili dinamiche di selezione, valorizzazione, cancellazione e oblio. In uno scenario caratterizzato da forme di parcellizzazione del sapere e dall’ideologia del presentismo diventa importante allora riflettere sul modo in cui la memoria può, o in alcune circostanze deve, trasformarsi in racconto, lasciando tracce comunicabili, favorendo un lavoro di interpretazione in grado di produrre significati condivisi, costruendo relazioni che vanno al di là della contingenza: appare determinante chiedersi se e come la memoria, attualizzata, possa diventare un oggetto culturale condiviso (Griswold, 2005). Nell’alveo di queste trasformazioni, suggestioni più generali si sono innestate su culture nazionali profondamente diverse, assumendo caratteristiche specifiche. Soffermandoci, ad esempio, sulle vicende culturali che riguardano il nostro paese, un primo dato che emerge da queste riflessioni riguarda il modo in cui l’affermazione del pensiero debole (Vattimo, 1989) in filosofia ha spesso prodotto come riflesso più evidente, in particolare sul versante letterario e cinematografico, la tendenza a concepire racconti “incompiuti”, basati su una comprensione parziale e intimistica delle esperienze di vita dei soggetti descritti. Nello svolgersi di trame parziali, frammentarie, anguste, si è spesso abdicato all’aspirazione, presente in altre fasi della nostra produzione culturale, a raccontare la realtà assumendo una prospettiva corale, in grado di riflettere, e in alcuni casi, anticipare processi di cambiamento destinati comunque a coinvolgere un’intera nazione. Il caso italiano, da questo punto di vista, costituisce un esempio culturalmente problematico, rispetto al quale la difficoltà della classe dirigente e delle élites intellettuali di suggerire e facilitare la Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni costruzione di un immaginario condiviso, e la forza di altri protagonisti (la Chiesa, i partiti, i sindacati) nel costruire narrazioni di parte ha prodotto una memoria collettiva labile e lacerata, soggetta di continuo a forme, neppure troppo latenti, di conflittualità o di oblio (Crainz, 2003). Questa scarsa propensione a produrre narrazioni in grado di oltrepassare la soglia della dimensione privata ha rappresentato per un lungo periodo, al di là di alcune eccezioni, una tendenza piuttosto accentuata della nostra industria culturale. Partendo da questo assunto, che non pretende di restituire la completezza del panorama di un’offerta comunque articolata, ma solo di rintracciare alcuni trend significativi, la domanda contenuta nel titolo, nasce dall’osservazione di una controtendenza relativamente recente e certamente circoscritta ad alcuni fenomeni culturali, che ha iniziato a manifestarsi in Italia a metà degli anni Novanta. Si tratta dunque di riflettere su alcuni segnali che possono essere interpretati come il tentativo di volgersi verso la realtà, presente e passata, con un nuovo sguardo più ampio. A partire da questi anni, infatti, le pratiche narrative, che del resto rappresentano una delle strategie di riduzione della complessità più efficaci e durature della storia dell’umanità, sembrano aver acquisito una valenza centrale, contaminando differenti ambiti della conoscenza, dalla scienza, alla medicina, all’informazione, soltanto per fare qualche esempio. L’estetica del frammento e del citazionismo (Calabrese, 1987), che aveva caratterizzato la precedente produzione culturale, cede il passo, per alcuni limitati tratti, a un rinnovato sforzo di rappresentazione della totalità, intesa però non più nei termini assolutistici e ideologici che alimentavano le Grandi Narrazioni, ma piuttosto come sfida, continuamente attualizzata, alla parzialità dello sguardo sulla realtà, come aspirazione a ricomporre ambiti separati, a riavvicinare identità e complessità. È proprio alla confluenza tra frammentazione della realtà e bisogno di ricomposizione del flusso delle esperienze all’interno di un bacino collettivo, che la memoria, intesa sia come territorio condiviso che come spazio del conflitto, assume nuove valenze. La volontà di raccontare il mondo nuovo, paradossalmente, ha ricevuto una spinta importante proprio dallo studio di questo oggetto scientifico e dalla creazione di prodotti culturali centrati sul racconto della storia e della memoria. Tornando ancora una volta al nostro paese, la consapevolezza delle difficoltà che nel passato avevano indotto a un sostanziale ripiegamento del racconto della realtà sul presente e sulla sfera intima del soggetto, ha coinciso con un’ operazione di scavo e narrazione nuovamente centrata su eventi e processi di tipo collettivo. In particolare, la diffusione, nell’ultimo decennio, di una corrente letteraria accomunata dalla scelta di temi, di stili, di riferimenti storici, ma soprattutto da “uno sguardo morale” sul mondo, che, intrecciando memoria e narrazione, ha dato origine a nuova generazione di scrittori, da Giuseppe Genna, a Carlo Lucarelli, a Massimo Carlotto, a Giancarlo De Cataldo, solo per citarne alcuni, che collocano al centro dei loro racconti vicende e personaggi che hanno avuto un ruolo decisivo negli ultimi decenni della nostra storia. Se molti di questi testi nascono da una contaminazione di generi, da un’ibridazione di informazione e fiction, di reale e immaginario, è piuttosto evidente la volontà degli autori di assumere una prospettiva etica distante dal cinismo postmoderno, con l’intento di proporre una visione collettiva e aperta su alcune zone oscure del nostro passato. Creando intrecci significativi tra le vite di uomini e donne comuni e i grandi eventi e le tragedie rimosse di un’Italia che ha da sempre coltivato un cattivo rapporto con la propria identità collettiva, nazionale e civile, questi scrittori riescono a far dialogare storia e memoria, attraverso racconti che spesso rivestono un carattere corale, presentando pur nella loro peculiarità alcuni dei tratti delle “Opere mondo” (Moretti, 1994). A queste narrazioni letterarie corrisponde, sul versante audiovisivo, una produzione speculare in cui, al di là delle differenze legate al genere o allo stile, si può riconoscere un forte richiamo al cinema di denuncia. In alcuni casi, come ad esempio per “Gomorra” o “Romanzo Criminale”, affrontati in parte nell’intervento di Ciofalo, si tratta di trasposizioni cinematografiche di testi quasi naturalmente transmediali (Giovagnoli, 2009), come a voler sottolineare la vocazione 12 Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni condivisa di uno sguardo nuovo sui contenuti, al di là dei mezzi e delle piattaforme mediali utilizzate. Infine, un’analoga sensibilità nei confronti del tema della memoria si afferma con grande efficacia in una forma espressiva relativamente recente, sebbene ispirata alle orazioni del teatro classico, rappresentata dal teatro civile o teatro della memoria, che attraverso le performance di attori-autori come Marco Paolini, Ascanio Celestini e Moni Ovadia mette in scena il racconto di eventi controversi, in cui spesso il presente e il passato risultano legati inestricabilmente. I caratteri comuni di queste differenti narrazioni sono rintracciabili in molteplici elementi: la volontà di far riaffiorare momenti oscuri della nostra storia; la condivisione di un sentimento comune orientato alla valorizzazione dello spirito civile; la presenza di una nuova fiducia nella forza della parola, l’ibridazione di generi e stili narrativi, e di fiction e non fiction. In sostanza, ciò che emerge con una certa evidenza da questi aspetti brevemente illustrati è la volontà di attribuire un differente valore a una memoria orale e condivisa, rifiutando in modo esplicito il minimalismo intimista, la frammentarietà, il cinismo e il distacco, che, come abbiamo avuto modo di rilevare, rappresentavano alcuni tra i tratti più salienti della cultura postmoderna. Questo “nuovo paradigma culturale” apre la strada a una diversa concezione della memoria, che pur abbandonando le pretese teleologiche delle Grandi Narrazioni, intende proporsi non soltanto come mera descrizione di ciò che è trascorso, ma anche come racconto del passato per progettare il futuro. Certamente, riferendosi alla domanda contenuta nel titolo di questo contributo, allora, non si può ipotizzare una riproposizione effettiva delle Grandi Narrazioni del passato e, soprattutto, la riattivazione della loro forza universalistica nella costruzione di interpretazioni del significato ultimo del destino umano. Detto questo, tuttavia, non si può trascurare il fatto che una nuova aspirazione a narrazioni significative, in merito alle quali mi sono limitata a prendere in esame soltanto l’esempio del nostro paese, coinvolge da qualche tempo creatori, fruitori, contesto e oggetti culturali. Si tratta di racconti che attraversano spazi e tempi differenti, che non solo (o forse 13 solo in parte) permettono di formulare ipotesi interpretative in merito a quel che è stato, ma soprattutto consentono di ridefinire il senso culturale e sociale di quel che è. In conclusione, e anche rispetto ai diversi interventi che compongono questa sezione, si può sostenere che il rapporto tra memoria e narrazione, nella società della seconda oralità, costituisce un’importante forma di conversazione sociale e civile in cui le colpevoli dimenticanze condivise nel passato possono riaffiorare nel presente attraverso nuove modalità di racconto. Non si tratta dunque di un ritorno delle Grandi Narrazioni della modernità, ma certamente della messa a punto di nuove strategie culturali e di specifici prodotti capaci di ricordarci che «il sonno della memoria genera mostri». Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni NOTE [1] A questo proposito, è interessante rilevare come Halbwachs rifiuti decisamente l’approccio freudiano, che invece tende a rappresentare l’inconscio in termini di chiusura e repressione. [2] E’ sicuramente più utile, rispetto agli obiettivi della nostra riflessione, l’ottica junghiana, che concepisce l’inconscio come un substrato attivo e produttivo, nel quale l’immaginario archetipico dell’essere umano si cristallizza e al tempo stesso si riproduce. Tale analisi richiama l’idea di una memoria più di tipo antropologico. [3] Ovviamente il nostro discorso può essere applicato esclusivamente al contesto occidentale. [4] A tale proposito, Schwartz (1996) individua a partire dagli anni ’60-’70, nell’approccio dei multiculturalisti, dei postmodernisti e dei teorici dell’egemonia, una base fondamentale per una evidente rottura culturale nei confronti delle precedenti concezioni teoriche. Nel caso della prima di queste correnti si tratta di considerare la storiografia una fonte di dominio culturale; nel secondo emerge una critica alla linearità dei processi di costruzione identitaria della società occidentale; per quanto riguarda infine le teorie dell’egemonia, l’attenzione si concentra sulla memoria popolare e sulle strategie di strumentalizzazione del passato (Olick, Robbins 1998). RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI M. Agulhon, Marianne au combat. L'imagerie et la symbolique républicaines de 1789 à 1880, Paris, Flammarion, 1979 P. Ariès, Storia della morte in Occidente: dal medioevo ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1989 A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, il Mulino, 2002 P. Bourdieu, La distinzione, Bologna, il Mulino, 1983 O. Calabrese, L’età neobarocca, Roma, Laterza, 1987 G. Crainz, Il paese mancato, Roma, Donzelli, 2003 D. Crane, La produzione della cultura, Bologna, il Mulino, 2005 D. Dayan, E. Katz, Le grandi cerimonie dei media, Bologna, Baskerville, 1992 N. Elias, La società degli individui, Bologna, il Mulino, 1990 F. Ferrarotti, Il silenzio della parola, Bari, Dedalo, 2003 M. Foucault, Le parole e le cose: un'archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1967 M. Giovagnoli, Cross-media le nuove narrazioni, Milano, Apogeo, 2009 W. Griswold, Sociologia della cultura, Bologna, il Mulino, 2005 M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Napoli, Ipermedium, 1997 M. Halbwachs, La memoria collettiva, Milano, Unicopli, 2001 H. Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2006 M. Kammen, Review of Frames of Remembrance: The Dynamics of Collective Memory, di I. Irwin-Zarecka, in “Historical Theory”, 34, 1995 E. Katz, T. Liebes, No more peace!, in “The International Journal of Communication”, 1, 2007 J. Le Goff, Storia e memoria, Torino, Einaudi, 1982 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981 M. Maffesoli, Nel vuoto delle apparenze, Milano, Garzanti, 1993 J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Bologna, Baskerville, 1993 F. Moretti, Opere Mondo, Torino, Einaudi, 1994 J.K. Olick, J. Robbins, Social memory studies: From Collective Memory to the Historical Sociology of Mnemonic Practices, in “Annual Review of Sociology”, n° 24, 1998 14 Silvia Leonzi Il ritorno delle Grandi narrazioni W. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, il Mulino, 1986 E. Shils, Tradition, Chicago, University of Chicago Press, 1981 A. Swidler, J. Arditi, The new sociology of knowledge, in “Annual Review of Sociology”, n° 20, 1994 G. Vattimo, La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989 15 Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile HIGHLIGHTS Comunicazione e memoria La narrazione come luogo della memoria. L’estetica del ricordo tra visibile e invisibile Pierre Sorlin (Universitè Paris-Sorbonne Nouvelle) Abstract L’ipotesi secondo cui la narrazione costituisce il luogo della memoria, attiene non solo al legame che tiene insieme i ricordi individuali e la memoria storica, ma soprattutto alla funzione della memoria come strumento di costruzione dell’identità di una comunità, nel suo costituirsi come narrazione utile a comprendere ad affrontare il presente. Generalmente, i ricordi sono strutturati in conformità ai modi di pensare del gruppo di riferimento; nonostante ciò esiste una distanza che separa le molteplici versioni dei ricordi individuali, maturati dall’esperienza del singolo, dal quadro sociale attraverso cui si ricorda un evento. In questo senso, quando ci troviamo in presenza di momenti conflittuali è possibile una compresenza di memorie antitetiche che, pur facendo riferimento al medesimo avvenimento o personaggio, si declinano in interpretazioni differenti, con l’obiettivo di conferire significato al presente. Il ripiegamento verso il passato si concretizza, altre volte, nella costruzione di una “nuova” memoria, una narrazione non tanto basata su eventi realmente accaduti, ma piuttosto rimodellata collettivamente e condivisa da tutti i membri della comunità, in grado di conferire significato al presente. 16 Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile La nostra memoria è una facoltà individuale, l'esperienza vivente di un soggetto nella sua relazione con le tracce del suo passato. Le impronte mnesiche non sono degli oggetti rigidi, si presentano sotto la forma d'impressioni, di ricordi che l'individuo, dopo averli richiamati alla mente e strutturati, trasforma in narrazione. Versione organizzata di sensazioni diffuse, il racconto permette di evocare certi momenti vissuti prima di tutto per se stesso, nel flusso della vita quotidiana e anche, secondariamente, per gli altri. Singolare, l'attività memoriale è profondamente inserita nell'ambito sociale della persona. I bambini, prima di essere consci di loro stessi, assimilano una maniera di comportarsi nel rapporto con gli adulti e con il mondo, che in seguito metteranno in pratica. Poi, man mano che crescono, si integrano all’interno di vari gruppi di cui condividono l'esperienza e di cui conservano un ricordo biografico, personale. Ogni collettività ridotta: famiglia, scuola, azienda, associazione, genera, a partire da eventi più o meno importanti, un racconto interno che conferma la stabilità della comunità e segna l'appartenenza di ciascuno dei singoli membri all'insieme. Si tratta di un processo semplice, che conferma l’idea della memoria come rielaborazione narrativa del vissuto. Un caso meno chiaro, e che pone un problema, è quello di una memoria senza ricordi. In una comunità aperta, un’organizzazione, una città, una provincia, un intero paese, i cui membri non si conoscono, si fa frequentemente riferimento a eventi che nessuno ha vissuto ma che tutti hanno in mente. L'attualizzazione è individuale e si produce all'interno della coscienza singola d'ogni partecipante, ma i vari pensieri confluiscono su un oggetto a partire dal quale s'instaura una comunicazione, che in una certa misura genera un racconto comune e crea un'interazione tra gli individui. Concretamente, quando, nel 2008, importanti istituzioni finanziarie crollarono, si fece immediatamente allusione al "venerdì nero" del 1929 e alle sue conseguenze, si evocarono le file di disoccupati e le mense dei poveri che nessuno di coloro che vivono oggi aveva mai visto con i propri occhi. La conoscenza di tali fatti non è in sé un problema: film, fotografie, romanzi ne conser17 vano le tracce; la questione è comprendere come sia possibile che un mondo scomparso riemerga molto tempo dopo come se fosse attuale e familiare anche per coloro che non l'hanno conosciuto. In altri termini, si tratta di capire come l'assente, l'invisibile, ciò che non abbiamo mai sperimentato possa divenire il fondamento di un'emozione condivisa, sia che questa irrompa all’interno di un situazione di intesa tra i partecipanti che in una situazione di conflitto. Come s'inventa una memoria generale e astratta di cui ognuno si appropria personalmente? Sulla scia di Maurice Halbwachs si parla correntemente della “memoria collettiva” [1]. Questa espressione, utilizzata in modo impreciso, come se si trattasse di una realtà indiscutibile, è dannosa perché suggerisce che una collettività, raggruppamento aleatorio di individui, possa avere una “memoria”, vale a dire un pensiero. Halbwachs, nei suoi libri, definisce in modo chiaro l'oggetto e i limiti della sua ricerca. Spiega come all’interno di gruppi circoscritti, i cui membri condividono un progetto comune, gli scambi costanti d'impressioni e di ricordi creino un patrimonio mentale comune, che costituisce una sorta di “memoria”. E, quando parla dei “quadri sociali della memoria”, Halbwachs intende mostrare che i nostri ricordi si formano nell'ambito di una società particolare. Il primo “quadro” è rappresentato dal linguaggio, che permette certe manifestazioni della memoria e ne impedisce altre; ulteriori quadri sono le leggi e le regole, le tradizioni e le religioni. In sostanza, noi tendiamo a ricordare in conformità con i modi di pensare vigenti nei gruppi di cui facciamo parte. L'analisi del sociologo permette di contestualizzare la nostra maniera di registrare o di perdere determinate informazioni - però non spiega perché, in un certo momento, possa affiorare il racconto di un episodio del passato. Ricordi – memoria Partendo dalla questione dell'oblio capiremo meglio la differenza tra la memoria individuale e la memoria senza ricordi dei gruppi. L'individuo dimentica cose spiacevoli o inutili, l'oblio è, per lui, Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile una difesa. Invece, in un gruppo, esistono fatti dei quali non si parla mai, sebbene non siano stati dimenticati e rimangono presenti, pronti a riapparire in momenti particolari, quale può essere una situazione di conflitto. Un esempio è costituito dalla collaborazione con i nazisti durante la seconda guerra mondiale di alcune popolazioni presenti nei territori occupati, il cui ricordo, generalmente taciuto, tuttavia non è mai stato dimenticato. All'interno di questo quadro generale, i figli degli ex-collaborazionisti rappresentano un caso particolarmente emblematico in quanto vivono una doppia memoria. Essendo stati giovani durante la guerra, ne conservano ricordi frammentari, imprecisi, non sufficienti per riferire quello che hanno osservato. La comunità nazionale nella quale sono cresciuti ha imposto, dopo le ostilità, un “quadro” morale: la collaborazione con i nazisti era considerata un comportamento criminale. Quando la questione riemerge nell’ambito di una discussione privata o di un dibattito pubblico, i figli degli ex-collaborazionisti devono improvvisare un racconto in grado di giustificare l'azione dei padri o in alternativa, vergognarsi: i loro ricordi personali sono narrati all’interno di un contesto che li espone alla condanna sociale. L'esempio mette in evidenza la distanza che separa i ricordi personali dalla versione sociale di un evento. Quest'ultima non è né un'addizione, né un confronto tra ricordi individuali. Colui che ricorda elabora in modo solitario la sua conoscenza intima dei fatti ma la sua maniera di narrarli si modifica non appena tenta di comunicarli, poiché deve passare attraverso il filtro del linguaggio. Citata come testimone al processo dei carcerieri di Ravensbruck, Germaine Tillon, ex deportata, sottolinea questo elemento: «Per me fu la proiezione di un universo demenziale nell'irrealtà della dimensione storica. Un aspetto di questa distanza è l'opacità delle parole» [2] – e Primo Levi notava che i sopravvissuti, quando sintetizzavano al massimo il loro vissuto, diventavano incomprensibili, in modo tale che dovevano architettarne una versione comunicabile – e quindi necessariamente lontana dalla violenza del ricordo: «l'esperienza di noi reduci è peculiare. È un nostro fastidioso vez- zo intervenire quando qualcuno parla di freddo, di fame e di fatica. Che cosa ne sapete, voi? Avreste dovuto provare le nostre» [3]. Jacques Lanzman era consapevole di questa difficoltà quando inserì nel suo film Shoah (1985) le rievocazioni esitanti di sopravvissuti o testimoni dello sterminio, e pertanto non tentava di "arricchire" il racconto collettivo sulla strage degli Ebrei, bensì lasciava che essi dessero libero sfogo a quello che chiamava “il dolore della parola”, ai ricordi nascosti, repressi, che, nel film, sembrano riaffiorare dal più profondo della persona e raramente sono narrati rispettando una logica sequenziale. Shoah non aggiunge niente alla “memoria” dello sterminio che ognuno di noi è in grado di rievocare; infatti, Lanzman mostra che una “storia” della tragedia, per necessaria che sia, non ha niente in comune con le reminiscenze di chi ha conosciuto i Lager. Primo Levi sosteneva di ricordare con “precisione fotografica” i particolari meno significativi della sua carcerazione: la forza dei dettagli ostacolava la formulazione di una narrazione unitaria e coerente. Lo scrittore era in grado di raccontare l'arresto, il viaggio, la liberazione - ma non la vita nel campo e, dopo i primi libri, rinunciò alla “cronaca retrospettiva” per proporre una riflessione antropologica sull'universo concentrazionario. La memoria condivisa, narrazione del passato Germaine Tillon ha scritto tre versioni della sua deportazione. Nella terza, riflette sul perché dei testi precedenti. Nella prima, poco tempo dopo la liberazione, aveva fornito «informazioni discontinue sommerse nella sfumatura del reale» mentre, nella terza, si impone di prendere in considerazione i documenti, le letture, le testimonianze apparse progressivamente, ossia, i racconti, perché «d'ora in poi noi, ultimi testimoni, siamo assenti». In futuro, la memoria del Lager non si fonderà sulla deposizione dei sopravvissuti, ma sarà una memoria immaginaria, storica, senza ricordi, un mero racconto. Le impressioni forti di chi ha vissuto una situazione disperata rimangono intatte nel ricordo, ma la 18 Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile maniera di riportarle si adegua alla curiosità e alla capacità di comprensione degli altri. I nuovi racconti non sono “falsi”, non modificano i particolari o le circostanze, ma si piegano alle usanze, allo spirito di un'epoca che ha altri interessi. Una tale labilità solleva molti interrogativi. Se il resoconto dei fatti si distacca dal passato, per adattarsi al presente (a diversi presenti, via via che passano gli anni), si può ancora parlare di “memoria”? Sì, visto che il soggetto ha memorizzato informazioni che, oramai, ha a propria disposizione. Tuttavia, si tratta di una memoria appresa come nel caso delle tavole pitagoriche o della lista dei verbi irregolari, vale a dire di una conoscenza condivisa tra i membri di una comunità e deprivata di ricordi. Dunque, in che modo prende forma e si sviluppa una rievocazione indiretta, comune a persone che, non avendo partecipato agli eventi, ne hanno una visione imprecisa e ne parlano descrivendola a partire dalla loro realtà, dall'universo a cui sono abituati? Studiando la classe operaia di Londra nei decenni che precedettero la Grande Guerra, Gareth Stedman Jones rimase sorpreso nel constatare che le rivendicazioni quasi rivoluzionarie dell'epoca dell'Owenismo e del Cartismo, vecchie di mezzo secolo e ormai superate da molto tempo, non erano state dimenticate. I lavoratori, negli anni ’10 del Novecento, erano riformisti, accettavano il sistema a condizione di trarne qualche vantaggio – però nei momenti di crisi, come i grandi scioperi, si raccontavano le lotte della prima metà dell'Ottocento; nella loro pratica si “sovrapponevano” due memorie: una immediata, legata alle loro esigenze del momento, e una “storica”, che conferiva una connotazione diversa, più radicale, a queste richieste [5]. A partire da informazioni e ricordi spesso trasmessi da parenti (nelle famiglie operaie inglesi, i proverbi, i detti e soprattutto le canzoni rivoluzionarie si tramandavano di generazione in generazione) viene a concretizzarsi, in situazioni di particolare turbamento, una narrazione elementare che modifica la percezione del presente. A Praga, nel 1989, la popolazione liberata dal dominio sovietico acclamava Thomas Masaryk, il primo presidente della Repubblica, che era morto cinquanta anni prima senza essere mai stato né 19 un generale, né un liberatore. Il suo profilo non aveva caratteri definiti, come si spiega dunque tale situazione? Dopo quaranta anni di comunismo, il paese non aveva punti di riferimento e i nomi che circolavano in città, come ad esempio quello di Väclav Havel, per diversi motivi non riuscivano ad esprimerli, attraverso la loro figura; questo politico non aveva avuto occasione di esprimersi e la gente non sapeva bene come inquadrarlo. Plaudere a Masaryk riportava la memoria dei praghesi alla fondazione di uno stato indipendente e di una democrazia durata venti anni, rispetto a cui il nome dello statista rappresentava una promessa di rifondazione, tracciando una linea di continuità tra il fondatore e il nuovo leader. Infatti Masaryk, nato in una Boemia sottomessa all'Austria, aveva contribuito ad affermare il carattere locale attraverso una ricostruzione storica puramente ideologica, che contrapponeva l'intelligenza, lo spirito critico e l'anticonformismo dei Cechi alla brutalità e all'autoritarismo degli Austriaci. Nel confrontare protestantesimo ceco e cattolicesimo austriaco, Masaryk non aveva esitato a tracciare una linea continua che da Giovanni Hus, precursore della riforma protestante, giustiziato nel 1415, arrivava fino al Novecento. Condannato da Roma, Hus fu invitato a Costanza con l’inganno, dove, nonostante avesse ottenuto un salvacondotto dall'imperatore, venne arrestato e bruciato. Per i cechi, negli anni Ottanta, tale caso evocava un’esperienza quotidiana, vale a dire le false promesse e le continue vessazioni del regime comunista; tuttavia, i difficili ricordi individuali venivano trascesi attraverso due nomi che, dotati di un valore emblematico, simboleggiavano per tutti il dolore, la resistenza, il desiderio di libertà. L'episodio mostra come, in un momento critico, una comunità alla ricerca della propria identità costruisce, a partire da informazioni eterogenee, una “memoria” storica collettiva attraverso la quale può creare una narrazione utile ad affrontare il presente. Il riemergere, nella Francia della seconda metà dell’Ottocento, di una figura quasi dimenticata come quella di Giovanna d'Arco, è paragonabile al caso Hus/Masaryk. Per diversi secoli, la figura di questa eroina era stata emarginata, dal mo- Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile mento che sia la Chiesa, che l'aveva condannata, sia la Monarchia, che l'aveva abbandonata quando fu catturata dagli Inglesi, avevano preferito dimenticarla. Il Romanticismo la rappresentò come la personificazione del coraggio e della saggezza del popolo e tale immagine, di origine puramente letteraria, riuscì ad imporsi durante il disastroso conflitto del 1870 con la Prussia. Tornata la pace, le due fazioni che lottavano per il potere, monarchici e repubblicani, s'impossessarono dell'icona e diffusero due memorie opposte: da un lato, una Giovanna mandata da Dio per riportare il Re sul trono; dall'altro, una Giovanna salvatrice della patria, tradita da un clero venduto al nemico. Dopo il trionfo definitivo della Repubblica, la memoria relativa a Giovanna d'Arco perse il suo carattere polemico e si “storicizzò”. La vicenda è doppiamente esemplare. Infatti, è possibile osservare la ricomparsa di una personalità fino a quel momento secondaria, a partire da una confusa analogia: come nella guerra dei “cento anni” contro l'Inghilterra, la Francia contro la Prussia si trovava in una situazione disperata e, nonostante la situazione radicalmente diversa dei due contesti storici, l'appello a Giovanna d'Arco rappresentava un’evocazione tanto immaginaria quanto inutile. Si può notare però che, in Boemia come in Francia, tale azione si fondava sulla fama di una personalità eccezionale, audace, morta tragicamente [6], come se la memoria condivisa avesse bisogno di un sacrificio iniziale. In Boemia come in Francia, l'evocazione di un eroe possedeva un carattere ideologico, necessario a definire una posizione politica. La disputa che seguì la disfatta della Francia trovò un'espressione simbolica attraverso due “memorie” antitetiche, edificate sulla base degli stessi documenti. In circostanze simili, segnate da un rivolgimento politico e da una forte insicurezza riguardo al futuro, un richiamo al passato, necessariamente semplificato, compensa l'assenza di un progetto. I giovani russi che, dopo il crollo del “blocco sovietico”, chiesero la revisione dei processi di Mosca, non avevano vissuto gli anni neri dello stalinismo e non sapevano bene chi fossero Zinoviev o Boukharin. La riabilitazione delle vittime era per loro un modo di cancellare la mediocrità dell'ultimo decennio e, tornando ad un'epoca anteriore, di delineare nuove prospettive. Nata nel conflitto, la memoria condivisa si afferma e si consolida in momenti meno tormentati. Un altro esempio, utile rispetto ai termini del nostro discorso, è rappresentato dai ferrovieri in Francia, i quali costituiscono un corpo professionale numeroso ma molto coeso, grazie, in particolare, ad una “narrazione memoriale” diffusa da una rivista, da seminari, mostre e collezioni. Il corpo ferroviere è attivamente militante e si mobilita continuamente contro il rischio di incidenti, con l’obiettivo di migliorare il servizio. I nuovi arrivati apprendono una storia edificante di successi e, anche se sono nati negli anni ’70, possono affermare con orgoglio di essere stati loro, nel 1954, ad aver conquistato il primato mondiale di velocità. Un elemento fondamentale di questa memoria è costituito dalla resistenza al Nazismo rispetto alla quale i ferrovieri hanno avuto un ruolo importantissimo, a tal punto che, in diverse stazioni, un monumento ricorda gli agenti fucilati dal nemico. Tuttavia, nell'ultimo decennio del Novecento i nipoti di alcuni ebrei morti nei campi di concentramento hanno contestato questa “versione” del passato. Dal loro punto di vista, i tedeschi non avevano a disposizione né il personale né il materiale necessario per deportare migliaia di persone, e quindi sarebbero stati i francesi a svolgere questo compito. La “memoria” ferroviaria non ignorava la deportazione degli ebrei, anzi la compiangeva sinceramente, attribuendone la responsabilità ai soli nazisti. Pochi vedevano la relazione tra l'oppressione tedesca, vissuta quotidianamente nelle stazioni, nei depositi, sui treni, e lo sterminio programmato di una minoranza "razziale". A quel tempo, era stato necessario far fronte agli eventi nel momento in cui essi accadevano, senza la possibilità di mantenere il distacco indispensabile, e i ricordi eroici dei resistenti avevano costruito la memoria delle generazioni successive. Qual era il significato di un'offensiva contro un'istituzione i cui membri, nel 2000, erano tutti nati dopo la guerra? Perché tornare su un passato conosciuto indirettamente e non vissuto in prima persona? L'intervento dei giovani ebrei non era 20 Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile né aleatorio, né inutile, in realtà essi volevano riappropriarsi del destino dei propri avi, facendo capire che una memoria generale, semplificatrice, che attribuiva tutta la colpa ad una “meccanica anonima”, ignorava le responsabilità individuali. Il Presidente della Repubblica aveva solennemente riconosciuto la partecipazione dello Stato francese alla deportazione ma, al di là delle istituzioni, chi concretamente aveva fatto cosa? L'obiettivo dei giovani ebrei non era tanto quello di attribuire la responsabilità ai ferrovieri, quanto di affiancare, a una narrazione trionfalistica, gli episodi di una pagina nera della storia. Tuttavia, neppure un'esperienza così problematica è sufficiente a generare una narrazione condivisa del passato. Durante la guerra d'Algeria, la Francia costituì un reparto di suppletivi, gli Harkis, incaricati di controllare la popolazione nelle zone occupate. Quando Parigi riconobbe l'indipendenza del Paese, una parte degli Harkis, con loro famiglie, furono trasportati in Francia e sistemati in quartieri a loro destinati. Vivendo insieme e a confronto con una popolazione locale diffidente, essi formarono un gruppo molto unito ma ripiegato in se stesso e, a differenza di altri immigrati, non edificarono una memoria in grado di definire la loro identità in relazione alle difficoltà che avevano dovuto affrontare. Generalmente, gli immigrati, dopo aver lasciato una patria nella quale non riescono a vivere, ricreano una memoria nostalgica, felice, quasi incantata, del territorio perduto, oppure, meno frequentemente, sopravvalutano il luogo dove si sono sistemati. Gli Harkis non potevano né ricordare positivamente un'Algeria che li considerava traditori, né esaltare una Francia che non voleva saperne di loro [7]. Una memoria condivisa non si afferma e non si trasforma in un racconto positivo se non esistono fatti illustri, gloriosi (gli eroi o i “grandi” eventi funzionano in questo modo), da cui partire, e se non si manifesta, tra i membri del gruppo, un implicito accordo per rendere tali esempi un'arma ideologica, una giustificazione di fronte all'avversario. La memoria condivisa soddisfa una funzione essenzialmente politica – se utilizziamo il termine “politico” nel senso più esteso di comportamento 21 destinato a raggiungere un determinato fine. Strumento d'identificazione in una entità sociale e di contrapposizione verso altre entità, esso crea una solidarietà attraverso una serie di riferimenti comuni che non hanno bisogno di verifica, che cambiano col passare del tempo e che, però, associati e continuamente ripetuti, delineano una narrazione fortemente positiva. Questa può essere individuata in circostanze precise e particolarmente critiche, e, al tempo stesso, rintracciata a molteplici livelli dello Stato, della scuola, della famiglia, del lavoro, soprattutto nelle professioni legate alle ferrovie, all'esercito, ai pompieri e anche nelle squadre sportive, i circoli, i club. In tutti questi casi, intervengono l'iniziazione da parte del gruppo e l'accettazione del nuovo membro. Così, ad esempio, un giovane ferroviere desidera conoscere il passato dell'impresa per integrarsi; al contrario, i figli degli immigrati, specialmente quando vivono isolati in quartieri periferici, si rifiutano di apprendere la memoria del Paese in cui vivono: sapendo che la loro “integrazione” è praticamente impossibile, respingono il simbolo di un'assimilazione negata alla loro famiglia. Memoria condivisa e iniziativa personale Finora abbiamo insistito sulle differenze fondamentali tra ricordo individuale e memoria collettiva. E’ necessario ora riflettere sulla relazione che si stabilisce tra i due fenomeni, apparentemente estranei tra loro, dal momento che il primo è puramente mentale, mentre il secondo è essenzialmente sociale. Il ricordo privato non considera il passato come un oggetto di conoscenza da esplorare (questo sarebbe un procedimento storico) bensì come un insieme riservato, intimo, di informazioni semplici e prossime. Il passato appreso non appartiene a nessuno, è collettivo, però ognuno lo rielabora a partire dalla propria esperienza. A questo proposito, è sicuramente pertinente l’esempio proposto da Anthony Giddens: le parole che usiamo non ci appartengono, sono immotivate, esterne alla nostra personalità – però il loro impiego ci appartiene [8]. Nel 1989, un cittadino ceco con un livello elevato Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile di cultura poteva sapere che Masaryk era morto da più di cinquanta anni e ricordarsi che era stato Presidente. Il passato appreso, quindi sconosciuto, s'impone attraverso un'infinità di riletture personali. Il conflitto a proposito di Giovanna d'Arco conferma tale aspetto. All'inizio del Novecento, in Francia, in alcune scuole elementari, gli allievi furono invitati a scrivere un tema centrato sull'insegnamento che si poteva trarre dalla vita dell’eroina. Le ragazze contadine si dilungarono sulla sua adolescenza rurale; in realtà, Giovanna, essendo nata in un famiglia agiata, non aveva mai sorvegliato le pecore, furono i commenti delle allieve a creare questa leggenda. Le ragazze cittadine posero l'accento sulla liberazione delle città occupate dagli Inglesi, presentandola come una vittoria. Prendiamo ora in considerazione un caso più generale, la guerra civile spagnola: nell’ambito delle due fazioni, alcuni elementi tratti dalla memoria nazionale, precedentemente comune a tutti, servivano per qualificare il conflitto in atto. I nazionalisti celebravano la riconquista, la crociata in nome di Dio. I repubblicani si riferivano al movimento di liberazione cha aveva sollevato la penisola contro Napoleone e i francesi – tanto più che la Francia del Fronte Popolare non appoggiò il governo in carica. Il muro che divideva Berlino venne abbattuto nel novembre del 1989 e, in occasione del secondo anniversario della sua caduta, un'inchiesta si propose di indagare come i tedeschi che all’epoca avevano tra i quindici e i quaranta anni, narrassero l'evento. Dalla ricerca emerse che tutti concordavano sui dati, parlavano della contestazione nella Repubblica Democratica, della repressione, del passaggio attraverso la breccia e della visita all'ovest, però, la tonalità del racconto cambiava da interlocutore a interlocutore. Ognuno raccontava dove era, che cosa faceva e dava alla propria esposizione un colore particolare. Un ex membro della polizia politica insistette sulla confusione e l'assenza di prospettiva politica da parte dei manifestanti; un militante comunista risalì agli anni precedenti e attribuì gli eventi all'assenza di lucidità dei dirigenti; una donna, sulla sessantina, parlò soprattutto dell'affettuoso ma difficile incontro con un fratello passato all'ovest trenta anni prima; un prigioniero politico riferì del difficile ritorno alla vita normale. Un evento unico, preciso, una coincidenza perfetta sugli avvenimenti e, ciò nonostante, rielaborazioni che non s'incontrano: qual è la parte comune della memoria? Emile Durkheim, maestro di Halbwachs, considerava la memoria individuale come una facoltà condizionata da una pressione sociale esterna [9]. Si tratta veramente di un’azione coercitiva - o piuttosto di un processo accettato spontaneamente, senza discussione, da chi vuole affermare la propria appartenenza al gruppo? Pensiamo al nome di Masaryk nel 1989: all'inizio era sullo stesso piano di altri. In seguito, fu recuperato e, a partire da un certo momento il suo ricordo si consolidò attraverso frammenti di nozioni trasmesse dalle famiglie o da letture, che costituirono un racconto. Per questo, l'idea di un carattere di esteriorità della memoria sembra inadeguata. Nelle stesse circostanze, si attivò una spinta “esterna”, proveniente da un piccolo gruppo, ma alla fine la maggioranza s'impadronì del nome («sì, ho sentito mio nonno parlare di lui»): pressione esteriore e rielaborazione individuale si combinarono. Pur esagerando il carattere costrittivo della narrazione collettiva, Durkheim sollevava una questione importante: tutti i membri di una collettività partecipano ugualmente a trasformare in modo coerente gli elementi della memoria? Le ricerche sulla classe operaia inglese hanno mostrato che, in base ai periodi, diverse persone assegnavano sfumature differenti alla narrazione memoriale [10] come nel caso dei ferrovieri francesi. All'epoca dei treni a vapore, macchinisti e fuochisti, sottoposti a un lavoro duro che esigeva una resistenza fisica enorme, simboleggiavano “il rude mondo delle rotaie”; parlando di loro, il racconto metteva in risalto lo sforzo fisico, la capacità di sopportare freddo e caldo, pioggia, vento e sole. L'elettrificazione ha modificato le condizioni di lavoro, ora la tecnica prevale sulla forza fisica, la relazione, anche quando tratta del Novecento, mette a fuoco elementi come la velocità, la puntualità, la comodità e la sicurezza. 22 Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile Narrazione memoriale e storia Siamo costretti, ogni giorno, a rendere intelligibile l'ambiente nel quale viviamo. Di solito, routine e buon senso sono sufficienti, ma ci sono situazioni eccezionali in cui dobbiamo inventare soluzioni inedite, e lo stesso accade in tutte le formazioni sociali, qualunque sia la loro importanza. Un carattere particolare e singolare dei gruppi è rappresentato dal fatto che, quando si trovano in una situazione critica, cercano soluzioni nel passato. Il procedimento è paradossale: il disagio che si sperimenta è immediato, deriva spesso dalla necessità di cambiare abitudini o tradizioni e richiede una riflessione collettiva sull'attualità. Invece di affrontare direttamente l'ostacolo nel presente, tuttavia, il gruppo si rifugia in un'epoca anteriore che tende a rimodellare con la fantasia. L'etnologo Clifford Geertz parla a tale proposito di un “modello di realtà”: l'oggetto della memoria viene “congelato”, isolato dal contesto in cui è avvenuto, la sua rilevanza viene esagerata al punto da ricavarne un insegnamento per il presente [11]. E se si trattasse di una fuga davanti al reale? In certi casi, probabilmente è così. Nell'URSS di Stalin si commemorava pomposamente la “Grande guerra patriottica”, che venne progressivamente trascurata dopo la morte del dittatore. Con la fine del comunismo, il conflitto tra ex-comunisti, vittime del regime, e democratici diede inizio a un periodo d'instabilità. Per mascherare la crisi, furono rispolverati i rituali celebrativi: il conflitto, che aveva avuto luogo mezzo secolo prima, era diventato un evento atemporale, lontanissimo dalla situazione presente, la sua narrazione non dava fastidio a nessuno e permetteva di ostentare un'apparente unità. In molti casi, però, questa operazione non è una mera evasione dalla realtà, rende comprensibile un evento critico e procura il distacco necessario per adattarsi a una nuova situazione. Ad esempio, dalla sua fondazione, nel 1833, e fino al 1981 la brigata dei pompieri di Londra conservò lo stesso statuto informale, che permetteva a ogni stazione di effettuare il proprio reclutamento. La disparità tra le diverse stazioni e la necessità di amplia23 re gli effettivi spinsero il Consiglio comunale a centralizzare e unificare l’arruolamento. Per difendersi, i pompieri richiamandosi alla tradizione, inventarono una memoria comune che non era mai esistita. In precedenza, le diverse stazioni, che fino ad allora non comunicavano tra loro, entrarono in relazione per delineare un racconto condiviso sul passato, e presero coscienza del posto che il loro corpo occupava nella vita londinese. La narrazione, per artificiale che fosse, fornì uno strumento di resistenza comune e permise di negoziare la riforma con il Consiglio [12]. Una “memoria” di questo genere non è basata sul ricordo: chi era in grado di ricordare che, nel 1833, Londra era divisa in boroughs parzialmente autonomi, liberi di scegliere poliziotti, vigili del fuoco, giudici? Siamo di fronte a un'elaborazione posteriore, fondata su impressioni, voci, dicerie e tradizioni e non su una conoscenza ragionata. Creata collettivamente sulla base di interventi e suggerimenti individuali, non si consolida senza l'approvazione di tutti i membri, che la interiorizzano e la reinterpretano a partire dalla loro esperienza e dai loro interessi personali. Spesso, si contrappongono i tempi remoti nei quali la tradizione veniva trasmessa oralmente, modificandosi ogni volta che si tramandava da una generazione all’altra, e l'età moderna, in cui questa forma di diffusione viene sostituita da una registrazione su documenti materiali o virtuali, che forniscono una versione fattuale e stabile degli avvenimenti. Questa opposizione si fonda su lavori etnografici che riguardano piccole comunità isolate ed enfatizza un'epoca anteriore, non definita, in cui i rapporti umani erano, teoricamente, più stretti di oggi. La contrapposizione non regge all'osservazione. Come abbiamo visto, le comunità coese continuano a costruire una narrazione memoriale quando devono confrontarsi con le avversità. Questi racconti sono assertivi, sobri, refrattari a ogni dubbio. A differenza della storia che guarda il passato dialetticamente, bilanciando il pro e il contro, l'evocazione memoriale non articola punti antitetici, e, essendo autosufficiente, non tende a proporre una sintesi. Ciò nonostante, storia e rievocazione partecipano di una preoccupazione Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile comune. Seguendo percorsi diversi, adempiono alla stessa funzione: aspirano a dare un senso al mondo contemporaneo. L'ambiente che ci circonda è opaco, ci mancano molti dati per capirlo, e la comprensione del futuro è fuori dalla nostra portata. All'inverso, il passato offre, sotto una forma facilmente assimilabile, un'immagine. La narrazione condivisa applica questa immagine alla situazione presente per conferirle significato, mentre la Storia pretende di fornire strumenti generali di spiegazione. Tuttavia, entrambe costituiscono una forma di racconto, versioni semplificate di quello che fu, in un certo tempo, un confuso presente. 24 Pierre Sorlin La narrazione come luogo della memoria. L'estetica del ricordo tra visibile e invisibile NOTE [1] M. Halbwachs, La memoria collettiva, Milano, Unicopoli, 1967; M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Napoli, Ipermedium, 1997 [2] G. Tillion, Ravensbruck, Parigi, Seul, 1988, p. 12 [3] P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 69 [4] Op. cit., p. 20 [5]"Working-class Culture and Working-class Politics in London, 1870-1900" in B. Waites (a cura di), Popular Culture: Past and Present, London, Croom-Helm, 1982, pp. 92-121 [6] E anche, ma questo è puramente casuale, due quasi contemporanei [7] Bisogna aggiungere che i francesi lasciarono volutamente molti Harkis in Algeria dove furono massacrati dopo l'indipendenza. Questo tradimento, voluto dal governo, pesa fortemente su quelli che si sono sistemati in Francia [8] A. Giddens, Central Problems in social Theory, Londra, Macmillan, 1979, p. 218 [9] "Jugements de valeur" in Sociologie et philosophie, Paris, PUF, 1951, p. 140 [10] R. Roberts, The Classic Slum, Harmondsworth, Penguin, 1973, p. 21 [11] "Religion as a cultural System" in M. Banton (a cura di), Anthropological Approaches to the Study of Religion, Londra, Tavistock, 1966, pp. 44-45 [12] G. Salaman, Working, Londra, Tavistock, 1986, pp. 35-54 25 Antonio Cavicchia Scalamonti La cripta HIGHLIGHTS Comunicazione e memoria La cripta Antonio Cavicchia Scalamonti (Sapienza Università di Roma) Abstract La formulazione di “memoria senza ricordi”, utilizzata da Pierre Sorlin, costituisce un punto di partenza per approfondire i possibili rimandi nelle scienze storiche, psicanalitiche e sociologiche di una simile capacità di fondare emozioni condivise, secondo le dimensioni del conflitto e dell’accordo. La parola-chiave che orienta tale percorso è “cripta”: luogo psichico rigorosamente inconscio, spazio sotterraneo e nascosto, al cui interno è possibile ritrovare le tracce della memoria di un determinato gruppo, ma anche le modalità di trasmissione di tale memoria tra le generazioni e nel corso del tempo. Traumi personali e collettivi, segreti di famiglia e memorie sociali dei sopravvissuti alle diverse forme che il genocidio ha assunto nel XX secolo rappresentano “fantasmi” che prendono corpo in ricordi incistati nella psiche dei soggetti a prescindere dalle biografie personali. Entità sotterranee simili, in tutto e per tutto, a quelle cripte che li ospitano, la cui capacità fondativa di memorie durature è tanto più forte quanto più inconsci sono i processi che contribuiscono al loro occultamento. 26 Antonio Cavicchia Scalamonti La cripta A mio giudizio, la parte più rilevante e propositiva del lavoro del prof. Sorlin è questo concetto da lui espresso di “Memoria senza ricordi”. La denominazione è volutamente – io credo – un po’ vaga ma forse proprio per questo estremamente suggestiva e ricca d’implicazioni. Suppongo che egli voglia riferirsi a una memoria i cui contenuti non affiorano alla coscienza ma che, pur tuttavia è in grado di condizionare il nostro pensiero nonché, di conseguenza, il nostro comportamento. Una sorta di lato oscuro che – anche se non ne abbiamo consapevolezza – agisce profondamente in noi suscitando una “emozione condivisa”. È evidente che – da questo punto di vista – data per scontata naturalmente l’esistenza di una tale memoria – il problema è – come egli stesso si domanda – come sia possibile che «l’assenza, l’invisibile, il non conosciuto possano fondare un’emozione condivisa, sia in situazioni di conflitto che di pieno accordo». A ben guardare però, una tale definizione somiglia o richiama direttamente una nozione di tipo psicoanalitico. Per cui una memoria senza ricordi, almeno io credo, può essere ugualmente chiamata una “Memoria inconscia”. Si tratta cioè di una serie di tracce mestiche che inevitabilmente sono state, per varie ed ottime ragioni, “rimosse”, vale a dire che non posseggono contenuti coscienti, ma che continuano (emotivamente) ad agire nella nostra psiche ed a influenzarci, a determinare cioè i nostri comportamenti e i nostri orientamenti. Ora se le cose stanno così i primi quesiti che una tale impostazione pone sono di due tipi: A) come sia possibile la condivisione in un determinato gruppo – più o meno esteso - delle medesime tracce per di più nascoste; B) come sia possibile il passaggio ad esempio da una generazione all’altra, visto che i contenuti di questa memoria sono non conosciuti e non rientrano cioè in nessun programma di trasmissione d’essi? In poche parole il “non conosciuto, l’invisibile” così come si esprime Sorlin, è trasmettibile? C) E se sì. Come? Attraverso quali canali? 27 Come si vede problemi difficili su cui con difficoltà (almeno allo stato attuale) è possibile dire una parola chiara e definitiva. Il quesito non è nuovo ed, ad esempio, molto recentemente un autorevole studioso se l’è posto con tutta la sua notevole competenza. Mi riferisco a Jan Assmann e ai suoi studi sulla memoria e in particolare alla diretta influenza del monoteismo egizio su quello giudaico [1]. La correlazione tra i due sistemi di pensiero è parsa a tutti e da tempo, molto evidente, molto meno evidente risulta essere il modo in cui la trasmissione è avvenuta. Assmann avanza varie ipotesi tra cui – cosa che mi ha incuriosito –riprende anche quella freudiana avanzata dal padre della psicoanalisi nel suo “Mosè e il Monoteismo” [2]. Com’è noto il fondatore della psicoanalisi supponeva una nascita egiziana del profeta che era – a suo giudizio – un seguace del culto di Akhenaton. Un culto profondamente rivoluzionario fondato su di un unico dio, che egli avrebbe trasmesso al popolo ebreo. Freud suppone anche che il popolo ebreo, stanco dell’eccessivo rigore della nuova religione abbia ucciso Mosè, il loro capo e padre spirituale. E che, dopo averlo ucciso, avrebbe interiorizzato in una sorta di “cripta” (un luogo psichico rigorosamente inconscio) un sentimento di colpa che avrebbe riproposto filogeneticamente l’altro assassinio, quello primordiale e fondamentale, quel “dramma dimenticato che nell’inconscio attraversa i secoli” [3], descritto da Freud in un altro dei suoi famosi e assai discussi saggi antropologici “Totem e Tabù”. Jan Assmann naturalmente scarta, come oramai quasi tutti gli studiosi, l’ipotesi della trasmissione filogenetica ma, in un certo senso, - almeno questa è la mia convinzione - abbraccia quella della trasmissione inconscia, che avviene quindi senza bisogno di ricorrere a ipotesi di tipo lamarkista. Per lui quello riemerso è stato puramente e semplicemente un ricordo storico, un ricordo legato alla brutalità teoclastica esercitata sulla religione tradizionale, e che è stato risvegliato dalla riproposizione operata da Mosè del monoteismo [5]. Un ricordo naturalmente traumatico che, proprio per questo, è stato più facilmente interiorizzato e trasformato in memoria collettiva. Ma, si badi bene, non un passaggio come dire, alla luce del Antonio Cavicchia Scalamonti La cripta sole, ma sotterraneo, nascosto…secretato. «Quello che m’interessa – egli scrive infatti – è il meccanismo di una trasmissione che non si riduce alla tradizione cosciente (sic), o all’educazione, ma che passa attraverso molte altre vie: immagini, riti, simboli, feste ecc..» [6]. Inoltre anche se egli, come è probabilmente giusto, rinuncia alla teoria filogenetica, non per questo accantona l’idea della “cripta”. Sia pure in un’accezione leggermente diversa. Una sorta d’incistamento inconscio, frutto di un forte traumatismo, ma, che secondo l’egittologo è lungi dall’essere solo psichico: esso è infatti – di qui la sua importanza per gli studi antropologici – fondamentalmente culturale. Una “memoria senza ricordi” vale a dire un trauma senza rappresentazione, di cui parla Sorlin che, ereditata, agisce – sconosciuta – orientando e influenzando il comportamento di molti. Ebbene, quest’idea della “cripta” fondamentalmente si basa sulla nozione avanzata da Freud nelle “Nuove Lezioni” [7] in cui egli ipotizza che il Super- Io del bambino non si formi sull’immagine dei parenti ma sull’immagine del Super-Io dei genitori stessi. Il che, tradotto, vuol dire che a una trasmissione cosciente (e fondamentalmente voluta) si sostituisce una trasmissione sostanzialmente inconscia. Un Super-Io poi che, secondo Freud, rappresentava l’aspetto valoriale e quindi eminentemente “culturale” – così come ritiene Assmann – di questo rapporto. Ebbene, sempre nella scia del pensiero di Freud, specie in Francia, ma non solo, questa ipotesi della “cripta” è stata ripresa in particolare dopo gli studi di Maria Torok e Nicolas Abraham [8], con risultati estremamente interessanti per lo studio della trasmissione memoriale, anche se – per certi versi – problematici. Non dimentichiamoci, infatti che le verificabilità empiriche per la psicoanalisi sono diverse e assai meno “scientifiche” di quelle su cui si basa la sociologia. Senza necessità di riprendere la teoria filogenetica, secondo cui il “segreto” o “il fantasma” è un evento traumatico vissuto in modo colpevolizzante e quindi rimosso che riappare nei componenti della famiglia anche a distanza di varie generazioni. Fra parentesi questa teoria riproporrebbe curiosamente l’antichissimo concetto della re- sponsabilità transgenerazionale (le colpe dei padri ricadono sempre sui figli) oramai – specie nel diritto – abbandonata da secoli se non da millenni. (Ma non evidentemente nella religione). Questa tematica appare nel lavoro psicoanalitico svolto con le famiglie, con i bambini e gli adolescenti e dà spesso l’impressione durante le sedute con questi soggetti, di una singolare invasione di figure arcaiche nella psicologia degli analizzati. Una intrusione di personaggi che a volte sono totalmente estranei alla biografia storica dei soggetti. Un vero e proprio “segreto di famiglia” spesso “vergognoso” che passa attraverso varie generazioni. Ma l’altro terreno (sociologicamente molto più intrigante) in cui questo tema appare con insistenza è il lavoro sui sopravvissuti alla Shoa o sui sopravvissuti nei genocidi come quelli compiuti durante il triste periodo delle dittature latinoamericane [9]. In tutti e due i casi appare evidente l’importanza del segreto, del fantasma. Nel caso infatti di questi sopravvissuti il tentativo di far sparire la situazione traumatica (in questi casi, come la storia tristemente dimostra per i superstiti dei campi, il ricordo letteralmente “uccide”); si è tradotto in una negazione della rappresentazione d’essa. Ma ciò che è stato sepolto è riapparso inaspettatamente e incredibilmente a distanza di due o tre generazioni come un “fantasma” con imprevedibili conseguenze. Come un nodo inestricabile che però tende sempre a sciogliersi. Questi ricordi si sono infatti “incistati” nella psiche dei soggetti prescindendo, in un certo senso, dalla loro biografia. Un’eredità inconscia di cui – nel caso – sono vittime innocenti. Sociologicamente il dato è interessante perché da una parte queste nuove teorie fanno uscire la psicoanalisi da una visione fin troppo individualistica, e sono un segnale tra i tanti che gli orientamenti conoscitivi oggi nuovamente prevalenti stanno correggendo un eccesso nominalistico e dall’altra esse rendono più comprensibili le spiegazioni di fenomeni più decisamente storicosociologici. Mi domando infatti, se – come è successo in altri casi – sia possibile adoperare questa impostazione esplicativa uscendo ancor più dai ristretti ambiti del setting psicoanalitico per trasferirla più decisamente in un ambito collettivo. 28 Antonio Cavicchia Scalamonti La cripta D’altronde “Il Disagio nella civiltà” e ancor più “L’avvenire di un’illusione” continuano ad essere delle spiegazioni fortemente plausibili di grandi fenomeni sociali. In effetti, la teoria abbracciata da Jan Assmann non rende – a mio giudizio – perfettamente conto della straordinaria persistenza e potenza di questi ricordi trasmessi. Stiamo parlando in effetti di una religione di grandissimo e – almeno ai miei occhi – incredibile e singolare successo. Io credo che la loro “forza” non dipenda solamente dai loro contenuti (la maggior parte di essi, se non tutti, sono espressione di irresistibili e universali desideri) ma anche dal modo come sono stati interiorizzati e conservati. La teoria freudiana con quell’ardita analogia singolare-collettivo, facendo ricorso alla forza del trauma, alla successiva colpevolizzazione e alla conseguente ipotesi della costruzione della “cripta”, spiegava sufficientemente come certe “memorie” potessero “fondare” per usare le parole di Sorlin un’emozione condivisa sia in situazioni di conflitto che di pieno accordo”. In poche parole la mia ipotesi è che quanto più inconscia sarà la memoria tanto più essa sarà efficace e duratura. Proprio in questa chiave, Carl Gustav Jung sosteneva che la forza della rimozione “caricava” l’inconscio. Non è un caso che l’oggetto della indagine di Jan Assmann sia la religione giudaica. Essa – come d’altronde tutte le religioni si fonda su di un insieme di credenze che, come tali resistono alla prova della realtà (meglio sarebbe dire alle continue smentite della realtà) non solo perché sono espressione di forti desideri (il che è evidentemente essenziale) ma anche perché la maggior parte dei loro “valori” sono trasmessi ereditati e collocati al di là della coscienza. E questo, a ben guardare, è, di fatto, il problema del “credere” e delle “credenze”. Io penso che il credere vuol dire confidare in qualcuno o qualcosa, ma penso anche che questa confidenza non è la stessa confidenza di un soggetto che sa ciò che fa e conosce i rischi che si prende. Che, in poche parole, è cosciente d’essi. Ma, è qualcosa di profondamente diverso. Come Emile Benveniste [10] ha dimostrato il senso fondamentale del latino fides – che è il sostantivo 29 corrispondente a credo – è confidare nella qualità di un essere che comporta un’adesione che non si può rifiutare. Io “credo”, scriveva con la solita acutezza, J. B. Pontalis – «non si dice. E’ antipredicativo. Enunciando “ciò che io credo”, instauro già il dubbio e mi colloco nell’impostura» [11]. In poche parole, quando la credenza si oggettiva (emerge cioè, si coscientizza) [12] comincia a perdere gran parte della sua forza. Credere solo in ciò che si sa, non significa credere. La credenza è una risposta a tutto, che anticipa e nega, ovvero rifiuta ogni interrogativo. Nello stesso tempo però rimane ancora vago il modo della trasmissione e i segnali che rivelano la presenza di questo vero e proprio (alcuni dicono necessario) “perturbante”. Forse bisognerà indagare sulla forza di trasmissione delle immagini, sulla foresta di simboli che esse rappresentano, sulla loro capacità di trasmettere scavalcando la barriera della coscienza. Ma questo è forse un altro discorso! Antonio Cavicchia Scalamonti La cripta NOTE [1] Cfr. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino, Einaudi, 1997; J. Assmann, Le prix du monoteism, Paris, Aubier, 2007; J, Assmann, Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria, Milano, Adelphi, 2000 [2] Il testo è del 1939 ed è stato l’ultima grande opera di Sigmund Freud scritta con lo scopo di spiegare l’antisemitismo. Fu Karl Abraham a far notare a Freud questa singolarissima coincidenza tra un inno ad Aton e uno dei Salmi della Bibbia [3] J. Lacan, Écrits. A selection, 1966 [4] Com’è noto in Totem e Tabù (1913) viene analizzato il processo di ominizzazione che è reso possibile dall’interiorizzazione del sentimento di colpa suscitato dall’assassinio del “Padre”. Questo sentimento che è la versione psicoanalitica del peccato originale è trasmesso attraverso una memoria “filogenetica” [5] Assmann sulla scia della moglie (cfr. A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Milano, Il Mulino 2002) ritiene che quanto più l’evento è traumatico tanto più s’inciderà nella memoria. D’altronde questa era anche l’opinione di Nietsche [6] J. Assmann, La memoria culturale, op. cit., p. 211 [7] Le “Nuove lezioni” sono del 1933 [8] N. Abraham, M. Torok, L’Ecorce et le Noyau, Paris, Flammarion, 2001; Cfr. anche A. de Mijolla, Les visiteur du moi. Les Belles Lettres, 2003; dello stesso autore, Préhistoire de famille, PUF, 2004 [9] Cfr. M. Bergmann, F. Hartmann, The evolution of Psychoanalitic Technique, Basic Books, 1976 [10] E. Benveniste, Il Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, Einaudi, 1976 [11] J. B. Pontalis, Se fier à…sans croire en…, in La Croyance, Nouvelle Revue de Psychanalyse, Gallimard, 1978, p. 7 [12] Chiedo perdono di questo orribile neologismo. Ma è efficace! 30 Antonio Cavicchia Scalamonti La cripta HIGHLIGHTS Comunicazione e memoria La memoria tra narrazione e conversazione Giovanni Ciofalo (Sapienza Università di Roma) Abstract La dinamicità e la complessità della memoria, non soltanto come oggetto di studio, può essere ricondotta ad un intervallo teorico delimitato da due diverse coppie concettuali – “memoria individuale e memoria collettiva” e “memoria immediata e memoria mediata” – che originano un rapporto dialettico di interazione ed interdipendenza. Il progressivo potenziamento delle forme di rappresentazione e trasmissione della memoria, attraverso l’utilizzo di una pluralità di canali articolati in modo variabile, sancisce un profondo cambiamento. Quello che vede la memoria trasformarsi sempre di più in un testo, rispetto a cui diviene fondamentale tanto la possibilità di accesso e fruizione (narrazione), quanto quella di decodifica e discussione (conversazione). Il caso di “Romanzo Criminale”, esempio significativo di un prodotto crossmediale, e quello della ricerca “Le officine della memoria”, realizzata con l’obiettivo di analizzare l’impatto della televisione nella vita quotidiana degli italiani, costituiscono due possibili spunti di riflessione. Legati dalla capacità di sottolineare quanto la narrazione e la conversazione rappresentino due dimensioni centrali nei processi di produzione e conservazione della memoria. 31 Giovanni Ciofalo La memoria tra narrazione e conversazione La relazione di Pierre Sorlin, riportata in queste pagine, ci propone un quadro interpretativo della memoria chiaro ed efficace. Il mio contributo muove dai numerosi spunti di riflessione che vi sono contenuti e, attraverso l'analisi di uno specifico prodotto culturale (Romanzo Criminale) e la citazione di un caso di ricerca (Le officine della memoria), si focalizza in particolare sulle modalità attraverso cui la narrazione e la conversazione si pongono come dimensioni centrali nella produzione e nella conservazione della memoria. Tale convinzione è situabile all'interno di uno spazio teorico delimitato da due diverse coppie concettuali - "memoria individuale e memoria collettiva" e "memoria immediata e memoria mediata" - i cui singoli termini, tuttavia, non vanno assolutamente considerati in un'ottica dicotomica, quanto piuttosto come i quadranti complementari che originano una specifica figurazione (N. Elias, 1990) della memoria. Del resto, persino la più semplice definizione di memoria - ciò di cui ci ricordiamo - racchiude implicitamente una estrema complessità, oltre che una profonda vocazione sistemica. Questa accezione rimanda immediatamente agli archivi di sensazioni, immagini e nozioni che ci accompagnano, si accumulano, ma che in parte inevitabilmente si perdono nel corso della nostra esistenza, così come all'imprescindibile contributo nella costruzione della nostra identità tanto sul piano individuale (ricordiamo ciò che siamo), quanto su quello sociale (siamo ciò che ricordiamo). Un doppio livello fondamentale, secondo cui la memoria agisce sia come fattore di individuazione, che di omologazione. Caratterizza la nostra individualità, permettendoci di essere unici, ma anche la nostra appartenenza ad una collettività, che si concretizza nell'essere identici (Melucci, 1991). In questo, la memoria rivela la sua intima natura di habitus (Bourdieu, 2000) che, in una prospettiva ecologica va, ulteriormente, ricondotta all'idea di insieme contenente, e contenuto da, altri insiemi: la società, la vita quotidiana, la comunicazione, e così via. La memoria individuale, pertanto, dipende da quella collettiva e può essere interpretata come il risultato della sovrapposizione e dell'interazione tra le nostre esperienze e quelle altrui. Non po- tendo prescindere dalla co-esistenza degli altri e da una realtà che ci appartiene in maniera direttamente proporzionale al fatto che anche noi gli apparteniamo. Allo stesso modo, la memoria collettiva, sintesi teorica - rischiosa ammonisce Sorlin - di tutte le memorie individuali, ci è accessibile solo a patto di uno scambio costante e sottinteso, che non prevede sempre una volontà esplicita e cosciente. Tanto nel primo, quanto nel secondo caso, un problema di non facile risoluzione riguarda però l'insieme dei processi che attegnono alla produzione della memoria. Tale questione appare estremamente centrale perché da un lato attiva una ulteriore, e molto più complessa, coincidenza teorica con il concetto stesso di cultura, la cui dinamicità e la fondamentale necessità di condivisione (W. Griswold, 1997) costituiscono significativamente anche i tratti caratteristici e distintivi della memoria. Dall'altro, attribuisce alla memoria il ruolo di risorsa strategica in un'epoca, come quella che stiamo vivendo, caratterizzata da un elevatissimo “tenore mediale” (A. Briggs, P. Burke, 2002). Torniamo nuovamente alla dimensione individuale e collettiva e proviamo a considerare il ricordo come unità minima della nostra memoria personale. Esso sembra essere prodotto anzitutto dalle percezioni che abbiamo rispetto ad una particolare esperienza, ma la sua interpretazione e archiviazione avviene comunque sulla base delle nozioni che già possediamo al momento in cui questa si verifica. Il significato che siamo in grado di attribuire a tale unità, inoltre, dipende dalla concatenazione di senso che viene instaurata con le altre unità precedentemente elaborate e immagazzinate, conducendo così ad una potenziale, anche se non ovvia e obbligata, risemantizzazione costante del complesso dei nostri ricordi. Metaforicamente, allora, l'immagine che più si addice alla memoria personale e collettiva non è tanto quella di una "biblioteca", con i suoi reparti e i suoi volumi rigidamente catalogati, quanto piuttosto quella di una "rete", la cui forza dipende dal numero dei nodi che la compongono e, soprattutto, dai collegamenti e dai rimandi che fra essi si possono sviluppare. Come nel suggestivo film di Michel Gondry, "Eternal Sunshine of 32 Giovanni Ciofalo La memoria tra narrazione e conversazione the Spotless Mind" (2004) i ricordi non sono affatto frammenti cristallizzati - unità minime a se stanti - che idealmente potremmo essere in grado di cancellare. Si tratta piuttosto di unità multiple (Morin, 2001), la cui concatenazione genera una memoria cui abbiamo accesso attraverso la messa a punto di criteri ordinatori variabili. Ad esempio la riproposizione di una percezione precedente (tipica della memoria involontaria), l'attivazione funzionale (ai fini del raggiungimento di un obiettivo specifico), la categorizzazione temporale (l'infanzia, la giovinezza, la maturità, etc.), o ancora l'utilizzo di parametri spaziali o contestuali (la famiglia, la casa, il lavoro, i gruppi di amici, etc.). Non tutti i ricordi, però, sono frutto delle nostre esperienze dirette. Da sempre, i media non hanno fatto altro che produrre incessantemente memoria: dal libro al quotidiano, dal cinema alla televisione fino a internet, i contenuti mediali sono stati sia fonte di acquisizione di memoria che, contemporaneamente, strumenti di archiviazione e classificazione estremamente potenti. Soprattutto nei casi in cui non disponiamo di filtri critici, derivanti dalle competenze ed esperienze specifiche rispetto ad un certa porzione di realtà, essi si sono posti come sorgenti virtualmente attendibili di ricordi di facile acquisizione. Gli esempi sono innumerevoli: dalla notizia di cronaca riportata da un notiziario televisivo ad un film storico, fino a quell'innovativo giornale redatto quotidianamente dai nostri amici, che poi è Facebook. Scrive al proposito Silverstone: « [...] in assenza di altre fonti, i media hanno il potere di definire il passato: di presentarlo e di rappresentarlo. Essi rivendicano un'autorità storica nelle ricostruzioni di fiction e nei documentari: versioni del realismo che non hanno referenti se non in altre storie o in altre immagini» (R. Silverstone, 2002, p. 200). Rispetto al passato, poi, la crescente sinergia mediale ha condotto al raggiungimento di una nuova soglia della memoria che, superando le limitazioni specifiche dei diversi canali di riferimento, oggi più che mai appare convergente e crossmediale. All'interno di un simile scenario, l'integrazione della nostra memoria diretta con quella mediata produce due principali effetti: da un lato estende radicalmente i confini e gli ambiti dei nostri ricor33 di, dall'altro li ancora ad una matrice collettiva dominante (mainstream), o almeno presunta tale. In questo senso, la memoria è costantemente alla base tanto dei processi di narrazione, attraverso una sua elaborazione e ricombinazione per stereotipi, quanto di conversazione, soprattutto dal punto di vista prettamente comunicativo, nella costante alternanza tra il piano dell'informazione e quello della relazione (M. Morcellini, G. Fatelli, 2000). Un interessante esempio in grado di fornire una sintesi di quanto detto fino a questo punto è fornito da un modello grafico che George Gerbner elabora nel 1956 (G. Gerbner, 1956). Lo studioso ungherese, in particolare, si orienta ad indagare i processi di percezione da parte dell'individuo e le forme di integrazione e sostituzione che i media sembrano essere in grado di produrre. Chiaramente, nel nostro caso è possibile estendere la portata esemplificativa di questa rappresentazione in virtù dell'ovvia considerazione del fatto che la percezione è alla base della memorizzazione. Gerbner sottolinea che l'insieme dei processi di percezione di un individuo viene costantemente condizionato da una serie di variabili ascrivibili in generale al suo punto di vista, ma anche al suo orizzonte di aspettative, alle sue competenze, e più in generale alla sua cultura di riferimento, fino alla posizione che occupa sul piano sociale. Tutto questo poi risulta ulteriormente amplificato dalla produzione di resoconti mediali relativi alla stessa percezione. La fusione tra le percezioni individuali e quelle mediali produce, di volta in volta, l'immagine di un evento simile e contemporaneamente diverso a quello realmente accaduto o a quello individualmente percepito. Inoltre, proponendo una nuova percezione, e nel nostro caso per completezza potremmo dire allora una nuova memorizzazione, alimenta una sequenza interminabile di ipotetiche rielaborazioni di un singolo evento. Come per la percezione, anche per la memoria, l'ipertrofia produttiva di rappresentazioni mediali rende difficile la possibilità di risalire ad un originale. La progressiva sedimentazione di contenuti che ci vengono offerti trasforma complessivamente la memoria sia in un resoconto, che in una decodifica. Quindi essenzialmente in un testo. Giovanni Ciofalo La memoria tra narrazione e conversazione Intendere la memoria come testo, allora, ha anzitutto il vantaggio di salvaguardare il piano individuale e quello collettivo - al proposito è centrale il riferimento all'idea di cooperazione interpretativa (U. Eco, 1979) - così come il carattere immediato tipico della nostra memoria. Allo stesso tempo, inoltre, presuppone coerentemente le dimensioni della narrazione e della conversazione. Partiamo dalla narrazione. Come anticipato, un fattore determinante consiste nella crescente convergenza di apparati mediali, prima disgiunti, che oggi, invece, tendono sempre più spesso a interagire al fine di attivare una attenzione selettiva da parte del pubblico nei confronti di uno stesso prodotto. La disseminazione produttiva, supportata da un'evoluzione tecnologica in grado di coerentizzare, ma anche di differenziare, i testi proposti in contesti comunicativi differenti, ha avuto come effetto principale quello di dare origine a grandi narrazioni transmediali. L'impatto di queste storie non può più essere misurato attraverso criteri tradizionali, ma rimanda costantemente alla somma di tutti quei pubblici che declinano le loro scelte di consumo culturale in funzione di un numero molto più alto di variabili, ad esempio l'alfabetizzazione, la possibilità di accesso, la preferenza di un genere rispetto ad altri. Inoltre, la complementarietà, frequentemente perseguita, dei differenti plot mediali alimenta un effetto "passaparola" (E. Katz, P. F. Lazarsfeld, 1955), che si realizza nel contagio comunicativo di pubblici diversi. Ecco allora che la narrazione, non più legata ad un unico supporto, si compone di una pluralità di canali, articolati in modo variabile, e si pone essa stessa come il veicolo più efficace di una nuova memoria mediale. Proviamo a chiarire quanto detto attraverso l'analisi di uno specifico prodotto culturale come “Romanzo criminale". Il romanzo che De Cataldo pubblica nel 2002 è il risultato di un'acuta operazione fictionale che unisce le competenze dell'autore, magistrato oltre che scrittore, al tentativo, riuscito, di trasformare una parte della recente storia italiana in una saga epica. Le successive trasposizioni, quella cinematografica diretta da Michele Placido nel 2005 e quella televisiva trasmessa da SKY nel 2008, ben rappre- sentano le fasi di consolidamento di una medesima narrazione, e dunque di una stessa forma di rappresentazione della memoria, attraverso il ricorso a mezzi e formati espressivi differenti. La memoria che viene recuperata e rielaborata attraverso una simile narrazione estesa appare dichiaratamente difforme dalla realtà storica che comunque tende a rappresentare, ma non per questo risulta meno incisiva. La moltiplicazione delle opportunità di accesso, garantita semplicemente dalla messa in relazione del testo letterario con quello cinematografico e televisivo, consente di raggiungere una porzione di pubblico molto più vasta. Accanto ai fan di quello specifico prodotto culturale, disposti chiaramente a seguirne le varie evoluzioni, si vanno infatti ad affiancare anzitutto i lettori di romanzi, i fruitori di cinema e di televisione, ma anche gli appassionati del genere, i nostalgici o i curiosi del periodo rappresentato, fino a coloro che, semplicemente per sentito dire, decidono di scegliere il formato preferito attraverso cui accedere alla storia. Proprio la vastità della eco di questo romanzo crossmediale induce necessariamente a riflettere sulla modalità attraverso cui esso ripropone un certo segmento di memoria con precise caratteristiche. La memoria narrata, in virtù del mescolamento tra realtà e finzione (F. Jost, 2003), non è più ascrivibile esclusivamente alla sfera del male o della criminalità e neppure al solo periodo degli anni ’70 e ’80 o alla sola città di Roma. Si potrebbe addirittura sostenere che la forza rappresentativa del prodotto, paradossalmente, sta proprio nella sua capacità di diluire l'elemento della verosimiglianza attraverso la costruzione di un'architettura narrativa coerente e articolata. Così, la memoria che ci consegna “Romanzo Criminale”, prodotta prima da parole e poi da immagini, nel caso di persone nate almeno negli anni Settanta si compone anche di ricordi personali, evocati ad esempio dalla ricostruzione dei modi di vestire, dalla scelta di alcune canzoni che compongono la colonna sonora, fino alla citazione di elementi che appartenevano alla realtà di senso comune dell'epoca. Per le nuove generazioni, invece, rappresenta una fonte integrativa rispetto a quanto hanno sentito, studiato o visto, che sfrutta l'inserimento di materiali mediali di archivio (le imma34 Giovanni Ciofalo La memoria tra narrazione e conversazione gini della strage della Stazione di Bologna) o la costruzione di rappresentazioni stereotipate, anche nel senso di facilmente accessibili, di particolari fasi storiche di un passato comune (gli anni di piombo, la banda della Magliana, etc.). Come sostiene Flores D'Arcais, che però si riferisce esclusivamente al cinema, «vi è la realtà (l'originale) e vi è la riproduzione di essa (la copia, la immagine) in una loro adeguazione riconosciuta (e perciò valutata) dall'intelletto (e cioè, con la necessaria presenza del riproduttore). Non è la realtà, che, per sé, a contatto di mezzi tecnici, si ripresenta nella sua immagine (globale), ma è l'uomo che coglie in una immagine (e sarà sempre una sua immagine, anche se vorrà essere perfettamente adeguata) il reale stesso». (G. Flores D'Arcais, 1953). Aumentando, dunque, l'incisività sociale della narrazione o delle narrazioni che ricorrono e rimandano, sempre più spesso, le une alle altre, viene ad essere modificata la struttura stessa della memoria mediale, sempre meno frammentata e circoscritta ai soli ambiti comunicativi che la supportano. Al proposito, sarebbe sufficiente considerare l'effetto di amplificazione generato proprio da Romanzo Criminale che, nel nostro media system, si è concretizzato in una proliferazione di prodotti (trasmissioni di approfondimento, talk show, articoli di giornale, saggi, libri di inchiesta, etc.) comunque orientati al recupero e alla rappresentazione di porzioni complementari di memoria, più o meno, esplicitamente presenti nel testo originale di De Cataldo. Limitarsi a considerare questi aspetti, però, può celare il rischio di innescare un'analisi ristretta al solo versante della produzione culturale e mediale, il cui principale effetto collaterale sarebbe quello di sottovalutare il ruolo attivo e determinante degli individui. I dati relativi alle scelte di consumo ci consegnano un affresco immediato, e sicuramente suggestivo, del successo e della diffusione di alcuni contenuti declinati su piattaforme diverse. Oltre a questo, tuttavia, è fondamentale valutare anche come, progressivamente, essi vengano incorporati e metabolizzati dai loro fruitori. Non si tratta di un'operazione semplice, perché consiste nel cercare di comprendere le modalità attraverso cui ven35 gono aggiornati, integrati o modificati gli schemi cognitivi per orientarsi così alla comprensione, del sé e del mondo circostante, e alla interazione con gli altri. Si tratta, in poche parole, di verificare come la narrazione diventi conversazione, e viceversa. È stato esattamente questo uno degli obiettivi principali della ricerca "Le officine della memoria", sviluppata presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza Università di Roma, sotto la direzione scientifica del Prof. Mario Morcellini e della Prof.ssa Silvia Leonzi. L'indagine si è concentrata sul tentativo di analizzare, attraverso il recupero di una memoria collettiva condivisa, l'impatto della televisione nella vita quotidiana degli italiani. A questo proposito, si è scelto di optare per una necessaria delimitazione temporale dello scenario di ricerca, fissata tra il 1948 e il 1960, e di una spaziale, riferendosi al solo contesto di Roma. Per superare, invece, la difficoltà di tradurre in termini operativi il macroconcetto di memoria collettiva, è stata adottata una sua tripartizione in memoria personale, memoria mediale e memoria istituzionale. Nello specifico, si è cercato di recuperare la memoria autobiografica attraverso interviste in profondità, mentre per le forme di rappresentazione mediale e istituzionale sono stati condotti una ricerca ed un esame dei contenuti disponibili rispetto ad alcuni particolari eventi (la nascita della televisione, l'incremento delle vendite degli apparecchi, etc.). In particolare, tanto l'acquisizione e l'elaborazione di dati statistici, frutto di indagini generali o specifiche condotte dagli istituti di ricerca, quanto la consultazione di archivi storici hanno permesso di fissare un quadro di riferimento generale definibile appunto nei termini di memoria istituzionale. La raccolta di materiali provenienti da archivi fotografici e audiovisivi, da quotidiani e periodici, ma anche da saggi e romanzi, ha condotto invece alla composizione di un frame relativo alla memoria mediale. In quest'ultimo caso è stato inoltre possibile individuare e analizzare alcuni testi particolarmente significativi, in funzione della loro capacità di fotografare la realtà dell'epoca, sia sul versante cinematografico (ad esempio, i film neorealisti o della commedia all'italiana), che su quello televisivo (le prime trasmissioni RAI). Giovanni Ciofalo La memoria tra narrazione e conversazione L'impossibilità evidente di mantenere una netta linea di demarcazione tra la sfera mediale e quella istituzionale, proprio in virtù della progressiva centralità assunta dalla comunicazione sul piano sociale e culturale, ha condotto a sviluppare queste due fasi di ricerca parallelamente. Il risultato si è concretizzato in una ricostruzione del periodo considerato che, seppure non esaustiva, si è rivelata indispensabile per la messa a punto del successivo step di indagine, orientato al recupero della memoria personale. La scelta di un approccio qualitativo e metatestuale [1], basato anche sul ricorso a materiali mediali come spunto di riflessione, non garantendo certamente una possibilità di generalizzazione, ha offerto comunque una fondamentale opportunità di approfondimento [2]. Al di là della definitiva elaborazione di tutti i risultati emersi, per altro ancora in corso, è possibile trarre alcune indicazioni generali, che evidenziano la stretta connessione tra gli aspetti narrativi e di ricostruzione, offerti da media e istituzioni, e quelli discorsivi e di selezione, attivati dagli intervistati. Non a caso, infatti, la prima forma di comparazione tra le differenti aree di memoria, precedentemente individuate, ha avuto luogo nel corso delle stesse interviste. In generale, è stato registrato un debole legame di dipendenza tra la memoria personale e quella istituzionale, la cui capacità di impatto, ma anche la cui possibilità di traduzione e adattamento, risultava decisamente limitata a causa delle forme di veicolazione dei contenuti. Nel caso della memoria mediale, invece, è stata riscontrata una costante necessità di ricondurre il piano della conversazione a quello della narrazione (o rappresentazione a fini di integrazione). I contenuti mediali, acquisiti in particolar modo attraverso film o trasmissioni televisive, hanno fornito una base fondamentale per l'attivazione della memoria personale. L'interpretazione degli stessi testi, avvenuta in funzione di una specifica declinazione personale, ha confermato la presenza di un legame forte tra la memoria personale e quella mediale, senza tuttavia far presupporre una scontata e quasi perfetta sovrapponibilità. Al contrario, invece, è stato possibile evidenziare una sorta di intensità episodica, causata cioè da due principali variabili: la coincidenza con esperienze dirette (legate o arricchite dalla fruizione di particolari testi) e la possibilità di accesso (estremamente rilevante per l'epoca considerata, sia dal punto di vista del possesso delle competenze tecnologiche che delle potenzialità economiche). Alcuni prodotti venivano citati dagli intervistati in maniera decisamente più significativa, in quanto, proprio grazie alla loro struttura narrativa, sembravano essere riusciti, a differenza di altri, ad impressionare in modo più duraturo la memoria personale, trascendendo il solo piano mediale per entrare a far parte di un insieme di pratiche condivise, sottoforma di temi di confronto, occasioni di interazione e discussione. Un effetto che, rifacendosi alla tradizione della Mass Communication Research, potrebbe essere rimandato ad un'idea generale di agenda setting e contemporaneamente di coltivazione. Con la rilevante differenza, però, che la sua efficacia sembra influire a livello cognitivo in modo permanente. Non stiamo affatto riferendoci ad una ipotetica forma di manipolazione: tutti gli intervistati, infatti, hanno costantemente dimostrato una profonda autonomia nella interpretazione di quegli stessi materiali. Si potrebbe parlare, piuttosto, di una progressiva modificazione del senso stesso di alcune narrazioni, capaci di trasformarsi con il tempo in veri e propri ambienti narrativi e discorsivi condivisi (P. Jedlowski, 2009). Una dialettica che, per concludere, potremmo definire appunto sistemica, e assolutamente non causale, tra la dimensione della narrazione e quella della conversazione. Indispensabile, appunto, per la produzione e la conservazione di memoria. 36 Giovanni Ciofalo La memoria tra narrazione e conversazione NOTE [1] La struttura della traccia per le interviste è stata costruita seguendo una logica modulare, al fine di prendere in considerazione anzitutto i diversi contesti biografici (famiglia, educazione, lavoro, tempo libero), ma anche l'articolazione specifica dei consumi culturali (consumi outdoor, cinema, letteratura, radio e televisione) [2] In particolare, sono state realizzate 61 interviste in profondità, rispetto ad un panel selezionato in base a due requisiti principali: l’essere nati prima del 1948 e l’aver vissuto a Roma almeno fino al 1960 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 2000 A. Briggs, P. Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet, Bologna, Il Mulino, 2002 U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1975 N. Elias, La società degli individui, Il Mulino, Bologna, 1990 G. Flores D'Arcais, Il cinema. Il film nella esperienza giovanile, Liviana Editrice, Padova, 1953 G. Gerbner, Toward a General Theory of Communication, in “Audio Visual Communication Review”, n°4, 1956 W. Griswold, Sociologia della cultura, Il Mulino, Bologna, 1997 E. Katz, P. F. Lazarsfeld, L’influenza personale nelle comunicazioni di massa, Rai Eri, Torino, 1968 P. Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d'Europa, Torino, Bollati Boringhieri, 2009 F. Jost, Realtà/ Finzione. L’impero del Falso, Il Castoro, Milano, 2003 A. Melucci, Il Gioco dell'Io. Il cambiamento di sé in una società globale, Feltrinelli, Milano 1991 M. Morcellini, G. Fatelli, Le scienze della comunicazione, Carocci, Roma 2000 E. Morin, La natura della natura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001 R. Silverstone, Perché studiare i media, Bologna, Il Mulino, 2002 37 Giovanni Ciofalo La memoria tra narrazione e conversazione FUTURE MATTERS FOR SOCIAL THEORY? Quale sociologia del futuro… Giuliana Mandich (Università di Cagliari) Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry Barbara Adam (Cardiff University, UK) Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis Rob Stones (University of Essex, UK) I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” Carmen Leccardi (Università di Milano-Bicocca) “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso sociotecnico Giuseppina Pellegrino (Università della Calabria) 38 Giuliana Mandich Quale sociologia del futuro… HIGHLIGHTS Future matters for social theory? Quale sociologia del futuro… Giuliana Mandich (Università di Cagliari) Abstract Partendo dalle due dimensioni del present future e future present elaborate da Barbara Adam questo contributo si pone l’obiettivo di mettere a fuoco alcuni dei nodi fondamentali intorno ai quali una vera e propria sociologia del futuro si sta coagulando e la loro centralità per il dibattito sociologico contemporaneo. L’analisi del present future (il futuro che è già qui) mettendo a tema il nesso tra conoscenza, etica e azione, entra in consonanza con l’attenzione per le implicazioni etiche della ricerca discusse nel dibattito sulla public sociology. La dimensione del future present (il futuro che guida l’agire nel presente) mette al centro della discussione la questione delle capacità culturali. La capacità di immaginare il futuro e i modi di dargli forma si pone oggi come una delle risorse chiave per le generazioni che si trovano a progettare i propri percorsi di vita in contesti fortemente segnati dall’incertezza e dall’ individualizzazione. 39 Giuliana Mandich Quale sociologia del futuro… A society is a partnership not only between those who are living, but between those who are living, those who are dead, and those who are [yet] to be born (Edmund Burke) Contemporary societies dedicated to progress, innovation and change, we want to argue, need to hone their tools for anticipating taming and transforming their futures. Since the pursuit of change radically reduces stability and with it structural security, the substantial effort required to achieve competence in futurity is the price to be paid for the prize of advancement on all fronts of knowledge and socio-economic growth that awaits those most committed to the system of accelerating change (Barbara Adam) The social sciences have no “choice” but to engage with various futures, to develop “sociologies of the future” (John Urry,) Da molte parti l’analisi del futuro viene considerata un impegno ineludibile per la sociologia contemporanea. E’ importante allora chiedersi quale è la direzione che questo impegno deve prendere, quali nuove categorie e ambiti di analisi devono entrare nella riflessione sociologica e quali modelli interpretativi sono più adatti ad includere questa dimensione. I saggi di Barbara Adam, Rob Stones, Carmen Leccardi e Giuseppina Pellegrino proposti in questo numero di Cultura e comunicazione[1] vanno in questa direzione ponendosi l’obiettivo di riaccendere la riflessione intorno al futuro in quanto categoria sociologica e di mettere meglio a fuoco alcuni dei nodi fondamentali intorno ai quali una vera e propria sociologia del futuro si sta coagulando. La varietà degli approcci e degli ambiti analitici che i saggi qui proposti rappresentano, mette subito in luce uno dei motivi della cresciuta importanza del tema del futuro negli ultimi anni. Se l’analisi del futuro, infatti, in quanto dimensione sociologicamente rilevante, si colloca in primo luogo nell’ambito della sociologia del tempo (che fornisce l’apparato concettuale di base per pensare questa dimensione) la rilevanza di questo tema emerge anche a partire da molti altri ambiti all’interno della disciplina, imponendosi come cornice interpretativa entro cui collocare una gran varietà di processi sociali (Adam, 2007). Una prima considerazione generale mi sembra emer- ga con molta forza dalla lettura dei diversi contributi. Parlare di futuro, al singolare, come se fosse una categoria univoca ed omogenea, è fuorviante. Il termine futuro indica un campo molto ampio di tematiche che richiedono un vocabolario concettuale adeguato. Come Barbara Adam ha messo in luce, in questo saggio e negli altri suoi studi (in particolare Adam, 2007) per parlare del futuro è necessario ricostruire l’insieme complesso di dimensioni che costituiscono i futurescapes della società contemporanea. Al futuro possono essere attribuiti significati diversi (cui si legano differenti meccanismi sociali). Fate, fortune, fiction and fact costituiscono diversi modi di vedere il futuro che si sono sviluppati in diverse epoche e si ritrovano, in differenti combinazioni, anche nella società contemporanea. Molteplici sono inoltre le pratiche sociali di “inclusione” del futuro nel presente. Il futuro può essere told (svelato, indovinato, attraverso le pratiche di divinazione), tamed (addomesticato attraverso tutte le pratiche che rendono la vita quotidiana meno precaria, i rituali, le tradizioni, le istituzioni), traded (quando entra negli scambi economici), traversed (quando è un futuro vuoto che deve essere riempito, colonizzato dalle attività umane). Si tratta dunque di un campo estremamente ampio di riflessione. In questo mio breve contributo vorrei focalizzare l’attenzione sulla distinzione che Barbara Adam propone (rielaborando una “vecchia” classificazione Luhmaniana) tra “present future” e “future presents”. Il primo è un futuro profondamente radicato nel presente perché già implicato nelle scelte e azioni degli individui e incorporato negli artefatti tecnologici che sembrano, come discusso da Giuseppina Pellegrino, “materializzare il futuro”. Esiste dunque una fattualità del futuro di cui è importante tener conto. La consapevolezza di questa dimensione del futuro non può che modificare i meccanismi delle scelte pubbliche e private nel presente, come sostenuto, attraverso l’approccio della “strong structuration theory” da Rob Stones. Questo futuro, in quanto dimensione fattuale, fa riferimento, nel vocabolario “tradizionale” della sociologia, al campo delle conseguenze inattese e agli effetti di composizione (dal punto di vista macro) e (dal punto di vista micro) all’etica 40 Giuliana Mandich Quale sociologia del futuro… weberiana della responsabilità ed elaborazioni successive. Il “future present” è invece il modo in cui il futuro viene anticipato attraverso le immagini e le rappresentazioni di “ciò che sarà”. Ha a che fare, dunque, con i diversi modi in cui il futuro viene culturalmente costruito attraverso le rappresentazioni sociali, l’immaginario, la definizione degli orizzonti temporali dell’agire. Si tratta, ad esempio, dei “future presents” implicati nelle strategie di addomesticamento dell’incertezza analizzate da Carmen Leccardi. Diversi orientamenti verso il futuro ampliano o restringono, ostacolano o sostengono l’agire individuale. Non più organizzate all’interno delle “grandi narrazioni” (la scienza, la religione, il progresso) entrambe le dimensioni del futuro diventano, nella società contemporanea, ambiti estremamente problematici dell’esperienza, fonti di insicurezza ontologica e frontiera delle nuove disuguaglianze. Intorno a queste due dimensioni del futuro si coagulano oggi un insieme di temi che non sono nuovi nella teoria e ricerca sociologica ma assumono oggi una rinnovata importanza e collocati entro la cornice interpretativa del futuro, acquisiscono nuove connotazioni e si arricchiscono di nuovi strumenti concettuali. In questo mio breve contributo proverò a ragionare su alcuni di questi. Il futuro che è già qui: conoscenza, etica e azione Lo studio del futuro (ed in particolare del present future) richiede alcune scelte di fondo. Barbara Adam in Future Matters pone il tema del futuro all’interno di un campo concettuale delimitato dai concetti di azione, etica e conoscenza, prefigurando uno stretto legame tra i tre elementi. «Yet, futures are not merely imagined but they are also made. They are produced for months, years and even millennia hence, creating chain reactions that permeate matter and stretch across time and space. These interdependencies, which may not congeal into tangible symptoms for a very long time, make it difficult to anticipate the dispersed potential outcome of futurecreating actions, and so create problem of 41 knowledge. […] The difficulties associated with knowledge about outcomes of actions, in turn, raise uncomfortable questions about responsibility» [2] In questo brano si toccano due punti che sono centrali nel dibattito sociologico attuale. Il primo riguarda i modelli esplicativi del sociale che sono in grado di cogliere la natura complessa e multiforme delle società contemporanee. Nel momento in cui lo sguardo si indirizza al futuro diventa ancora più difficile non tenere conto della varietà di fattori che concorrono ai processi di costruzione sociale (i present futures di organizzazioni, prodotti, tecnologie, forme di socialità) e soprattutto della fitta rete di interdipendenze in cui sono coinvolti. Ognuno dei sistemi che costituiscono la realtà sono al tempo stesso economici, fisici, tecnologici, politici e sociali [3]. Quindi possiedono proprietà emergenti che non possono essere ridotte a nessuno di questi fattori “presi individualmente”. «Central, then, to complexity is the idea of emergence. It is not that the sum is greater than the size of its parts – but that there are system effects that are different from their parts (see Jervis, 1997, on system effects). Complexity examines how components of a system through their interaction “spontaneously” develop collective properties or patterns, even simple properties such as colour that do not seem implicit, or at least not implicit in the same way, within individual components». [4] Riconoscere questa complessità richiede un nuovo modo di strutturare le interazioni tra i diversi elementi della realtà. Fondamentale in questa direzione l’analisi delle dimensioni spaziali e temporali in cui i fenomeni sono implicati. Materialità, spazio e tempo sono in effetti le dimensioni che forse più si sono imposte alla riflessione in molte sfere dell’analisi sociologica. Provare a cogliere le complesse configurazioni che emergono da questi processi è dunque la sfida che la sociologia contemporanea si deve porre. Una sfida alla quale non è facile andare incontro. Giuliana Mandich Quale sociologia del futuro… C’è in qualche modo una dissonanza – osserva Barbara Adam - tra l’agilità con cui produciamo il futuro, “danzando” quotidianamente entro gli orizzonti temporali aperti del presente, futuro e passato, utilizzando simultaneamente memoria, percezione ed anticipazione e la rigidità del ragionamento sociologico che utilizza prevalentemente il passato (o il presente) per guardare al futuro. Analizzare il futuro, infatti, non richiede semplicemente il rifiuto di spiegazioni univoche e deterministiche ma implica la capacità di considerare l’ imprevedibilità degli effetti nello spaziotempo. In qualche modo significa abbracciare l’incertezza e trovare dei modi di includerla nel ragionamento sociologico. Il secondo punto riguarda il tema della responsabilità. Nel momento in cui il legame tra azione e conoscenza si riconfigura, le condizioni della responsabilità devono in qualche modo essere ridefinite. In particolare si fa sempre più urgente il problema della responsabilità delle scienze sociali nell’esplorare i futuri alternativi: possibili, probabili e preferibili (Bell, 2003). I future studies [5] si propongono, sin dalle origini, l’intento di «fare del mondo un luogo migliore dove vivere» [6]. Non si presentano dunque come un ambito puramente accademico, teorico ed avalutativo di riflessione ma come, in qualche modo, laboratorio di soluzioni concrete. Impegnarsi nell’analisi del futuro implica, in quest’ottica, l’adozione di un giudizio morale - continua Bell - su quali esiti dell’agire nel presente vadano incoraggiati o evitati (siano essi l’inquinamento o l’aumento delle disuguaglianze). Si tratta di un tema – come suggerisce Barbara Adam – estremamente scomodo, e l’acceso dibattito sul posto della public sociology, nell’ambito della sociologia di quest’ultimo decennio, lo dimostra ampiamente. La convinzione di Burawoy del ruolo fondamentale della public sociology [7] come risposta alla crisi della sociologia contemporanea non può che partire dalla critica ad una concezione puramente accademica e “neutrale” della sociologia e da una “presa in carico” della responsabilità della ricerca. Public sociology e sociologia del futuro condividono dunque un punto di vista simile sul legame tra conoscenza-etica e azione. Nello stesso tempo diventa fondamentale per la public sociology dotarsi di strumenti per l’analisi del futuro. Le discussioni e le decisioni pubbliche sui problemi sociali, infatti, sono sempre “future oriented” e si misurano proprio sulla loro capacità di orientare il futuro [8]. Il futuro presente: paura, incertezza e risorse culturali Se ragioniamo sul clima culturale entro cui si collocano le immagini, le rappresentazioni e gli orientamenti al futuro nella società contemporanea, ci troviamo di fronte ad un panorama piuttosto desolante. «La modernità doveva essere un grande balzo in avanti: via dalla paura, verso un mondo liberato dal fato cieco e imperscrutabile, che è la serra di tutte le paure. […] la scienza avrebbe inaugurato un’epoca in cui sarebbero scomparse sorprese, calamità e catastrofi – ma anche dispute, illusioni, parassitismi… un’epoca, dunque, priva di tutto ciò di cui sono fatte le paure» [9] La frase di Bauman (che riecheggia quella forse più conosciuta di Horkheimer e Adorno «…la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura») coglie bene la profonda disillusione per le promesse mancate della modernità. Le categorie di rischio ed incertezza, che fanno esplicitamente riferimento ad una perdita di controllo sul futuro, non a caso sono al centro della riflessione sociologica in questi anni, in quanto tratti costitutivi della tarda modernità. E’ proprio dal fallimento della promessa di poter finalmente controllare il destino che le molteplici paure che sembrano caratterizzare l’esperienza contemporanea trovano il terreno in cui svilupparsi. L’impossibilità di vedere innanzi a sé un futuro certo e prevedibile si riflette sul rapporto con la realtà privando la sicurezza ontologica di un orizzonte temporale entro cui definirsi. La percezione di un futuro indeterminabile ed imprevedibile, non solo è ampiamente diffusa e si estende a sfere sempre nuove dell’esperienza, ma soprattutto si associa ad un senso sempre più 42 Giuliana Mandich Quale sociologia del futuro… marcato di insicurezza e di vulnerabilità. Assume appunto i connotati della paura, quella paura socialmente e culturalmente “derivata” che, indipendentemente o meno dalla presenza di una minaccia, orienta il comportamento degli individui dopo averne modificato percezione del mondo e aspettative (Bauman, 2009). La paura così intesa è qualcosa di diverso rispetto alla paura in quanto emozione in risposta involontaria ad uno stimolo ambientale. Si tratta di un tratto culturale più ampio, che fa da sfondo alle emozioni vere e proprie ma soprattutto costituisce un filtro che si interpone tra gli individui e l’interpretazione della realtà, diventa insicurezza ontologica. La cosa che suscita più spavento – sostiene Bauman – è l’ubiquità delle paure; esse possono venir fuori da qualsiasi angolo o fessura della nostra casa o del nostro pianeta. Scenari disastrosi (alimentati dai media) come quelli delle catastrofi ecologiche, delle crisi finanziarie ricorrenti, della mancanza di prospettive per i giovani, della crescita del terrorismo, contribuiscono a fomentare un atteggiamento di timore per il futuro che incide sulle scelte degli individui oscurando la prospettiva entro cui si svolge ogni agire sociale. Con il tramonto delle grandi narrazioni (la religione e la scienza) entro cui si collocavano le diverse strategie di dominio dell’incertezza (Adam, 2000), dunque, la possibilità di rendere prevedibile il futuro, di colonizzarlo per ridurre l’ansia, si fa sempre più evanescente. Se quindi la società moderna vedeva il futuro come un territorio da conquistare illuminato dalla luce della scienza (il futuro vuoto e aperto all’agire di cui parla Barbara Adam) la società contemporanea lo immagina forse più come una stanza buia di cui non è facile trovare la porta. Nel valutare gli esiti di questo “oscuramento” del futuro, è importante tener conto della doppia valenza contenuta dall’ incertezza contemporanea. Da un lato l’incertezza presenta connotazioni positive, in quanto valore che amplia le possibilità di realizzazione e apre nuove opportunità, dall’altro in quanto condizione subita diventa segno di una «nuova ascrittività generatrice di paure irrazionali e di minacciosi fondamentalismi» (Privitera, 2002). 43 La radicalizzazione dell’incertezza nella società contemporanea ne accentua questa doppia valenza, mettendo in luce nuove modalità di polarizzazione sociale che si basano proprio sulle diverse risorse culturali per pensare al futuro. Se è vero, infatti, che la paura del futuro costituisce lo sfondo che caratterizza l’esperienza contemporanea, essa non coinvolge nello stesso modo tutti gli individui e non assume gli stessi tratti nelle diverse società. Nel mondo globalizzato l’espressione “avere un futuro” assume un significato “escludente”: verrebbe intesa come una lotta contro gli altri, come se non ci fosse sufficiente posto per tutti (Sandkühler, 2008). Il futuro vuoto della modernità diventa improvvisamente troppo affollato. Una delle risposte a questa profonda incertezza sono i processi di presentificazione [10] ampiamente discussi anche nell’intervento di Carmen Leccardi. La presentificazione è il tratto dominante di percorsi biografici in cui l’ancoraggio al quotidiano e la capacità di esserne padroni sostituisce la capacità di progettare il futuro. Anche la capacità di agire nel presente deve però nutrirsi di un orizzonte che le dia senso, della capacità di immaginare il futuro, vederlo come un futuro aperto e non un campo chiuso e senza scelte. Molte ricerche (Leccardi, 2005) infatti hanno sottolineato forti differenze nella capacità di gestire l’individualizzazione in condizioni di incertezza. Sono i giovani con maggiori risorse (culturali, sociali ed economiche) che sono in grado di leggere l’incertezza come moltiplicazione delle possibilità virtuali e di guardare all’imprevedibilità del futuro come ad una risorsa. Questi giovani non hanno paura del futuro anche se non sono in grado di controllarlo attraverso la progettazione. L’incertezza assume invece i connotati di un futuro chiuso, un futuro senza speranza per quei giovani che possiedono risorse sociali e culturali scarse. Per questi, l’impossibilità di progettare si risolve in una profonda sfiducia nel futuro. La capacità di immaginare il futuro e i modi di dargli forma (quella che Appadurai, 2004, definisce come "the capacity to aspire") sta diventando dunque una delle risorse chiave per le generazioni che oggi si trovano a progettare i propri percorsi di vita. Senza questa capacità neppure le Giuliana Mandich Quale sociologia del futuro… capacità più concrete possono avere significato, sostanza e sostenibilità. «The capacity to aspire is thus a navigational capacity. The more privileged in any society simply have used the map of its norms to explore the future more frequently and more realistically, and to share this knowledge with one another more routinely than their poorer and weaker neighbours. The poorer members, precisely because of their lack of opportunities to practice the use of this navigational capacity (in turn because their situations permit fewer experiments and less easy archiving of alternative futures), have a more brittle horizon of aspirations». [11] In questo contesto, la credenza nel fato e nel destino che caratterizzava collettivamente la visione del futuro nelle società premoderne, riemerge sotto nuove forme che esprimono il processo di detradizionalizzazione e individualizzazione [12]. Si affermano forme di fatalismo, che potremmo definire passivo, che esprimono la mancanza di presa sulla realtà e assumono i tratti di una sfiducia nel fatto che il futuro possa essere diverso dal passato possa essere un ambito di realizzazione. Il fatalismo assume invece connotazioni diverse (è un fatalismo attivo, che riconosce ruolo che il caso e la fortuna giocano nella biografia di ciascuno) per i giovani che dispongono di maggiori risorse. In questo caso la consapevolezza dell’impossibilità di controllare il futuro assume addirittura, connotazioni positive, in quanto capacità di accettare la frammentazione e l’incertezza dell’ambiente come dato non eliminabile, da trasformare in risorsa grazie a quella capacità di navigare il futuro, di “danzare” entro gli orizzonti temporali aperti del presente, futuro e passato. 44 Giuliana Mandich Quale sociologia del futuro… NOTE [1] I contributi qui presentati costituiscono una rielaborazione delle relazioni presentate nella tavola rotonda “Future matters for social theory?” che si è svolta a Cagliari il 29 ottobre 2009 nell’ambito del programma scientifico della sezione Processi e Istituzioni culturali dell’AIS. Si ringraziano i presenti all’iniziativa per i numerosi spunti di riflessione ed in modo particolare i partecipanti al workshop Understanding the Social from a Temporal Perspective che Barbara Adam ha coordinato successivamente: Valentina Cuzzocrea, Aide Esu, Giulio Marini, Guido Nicolosi, Manuela Nicosia, Giuseppina Pellegrino, Giulia Rodeschini, Caterina Satta Le riflessioni emerse dal workshop sono in corso di pubblicazione nel numero speciale di Sociologi@DRES – Quaderni di ricerca. Università di Cagliari curato da Valentina Cuzzocrea [2] B. Adam, C. Groves, Future Matters. Action, Knowledge, Ethics, Leiden & Boston, Brill, 2007, p. XIV [3]Questa consapevolezza ha tra l’altro contribuito allo sviluppo di quello che viene definito “complexity turn in sociology” (Urry 2003, 2005) [4] J. Urry, “Cars, climates and complex futures”, Dept of Sociology, Lancaster University, mimeo (2006) [5] I future studies, che trovano le loro origini, secondo alcuni autori, addirittura nei romanzi di Jules Verne o nella fantascienza di H. G. Wells, si sono ormai istituzionalizzati in quanto campo specifico di studi che propone una riflessione sistematica ed esplicita intorno al futuro (Bell, 2003). I future studies si propongono come vero e proprio campo transdisciplinare che attraversa e integra le diverse discipline. Negli ultimi anni sono forti i segnali di una forte convergenza tra ambito dei future studies e sociologia. Se nel primo periodo di sviluppo dei future studies il fulcro principale della riflessione sono le diverse tecniche di forecasting e la finalità è quella di fare previsioni il più accurate possibile su alcuni aspetti specifici della realtà ( si parla di futurologist o future content experts Van der Duing 2007) successivamente l’intento è più specificamente teorico ed epistemologico, finalizzato alla comprensione di come organizzare processi attraverso i quali il futuro è esplorato (si parla di future process experts). [6] W. Bell, Foundations of future studies. History, purposes and knowledge, Transaction Publishers, New Jersey, 2003, pag. 3 [7] La distinzione è ben conosciuta. Secondo la terminologia di Burawoy la public sociology è quella parte della sociologia che si impegna nel dibattito pubblico (riflessiva e orientata ad un publico extra-accademico) in opposizione alla “professional sociology” intesa come “sapere strumentale” che ha come referenti principalmente gli altri sociologi. Per il dibattito su questo tema nella sociologia italiana si rimanda a sociologica (Sociologica N. 1/2007 http://www.sociologica.mulino.it/doi/10.2383/24188) [8] In un recente volume sulla public sociology, ad esempio, sono presenti ben due saggi che analizzano esplicitamente il legame tra public sociology e sociologia del futuro [9] Z. Bauman, Paura Liquida, Bari, Laterza, 2009, p. 5 [10] La presentificazione può essere analizzata anche a livello del present future, come fa Pellegrino nel suo intervento. [11] A. Appadurai, “Then Capacity to aspire. Culture and the terms of recognition”, in Cultural and Public Action, (Eds: V. Rao, M. Walton), Stanford University Press, 2004, p. 69 [12] Per una discussione più ampia mi permetto di rimandare a Mandich (2009) 45 Giuliana Mandich Quale sociologia del futuro… RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI B. Adam, Timewatch. The social analysis of time, Cambridge, Polity Press, 1995 B. Adam, Timescapes of modernity. The environment and invisible hazards, London/New York, Routledge, 1998 B. Adam, U. Beck, J. van Loon, Risk society and Beyond. Critical issue for social theory, London, Sage, 2000 B. Adam, Time, Cambridge, Polity Press, 2004 B. Adam, C. Groves, Future Matters. Action, Knowledge, Ethics, Leiden & Boston, Brill, 2007 B. Adam, “Future in the making. Sociological practice and challenge” in V. Jeffries a cura di Handbook of Public Sociology, Rowman & Littlefield Publishers, Inc., 2009 A. Appadurai, “Then Capacity to aspire. Culture and the terms of recognition”, in Cultural and Public Action, (Eds: V. Rao, M. Walton). Stanford University Press, 2004 Z. Bauman, Paura Liquida, Bari, Laterza, 2009 W. Bell, Foundations of future studies. History, purposes and knowledge, New Jersey, Transaction Publishers, 2003 W. Bell, "Creativity, skepticism, and visioning the future", Futures 37, 429–432, 2005 W. Bell, “Public sociology and the future: the possibile, the probabile, the preferable” in V. Jeffries a cura di Handbook of Public Sociology, Rowman & Littlefield Publishers, Inc., 2009 M. Burawoy, “Per la sociologia pubblica”, in Sociologica, n° 1, 1-45, 2007 H. J. Sandkühler, Intervista con cura di Silvia Rodeschini 26/05/2008 – Governare la Paura. Periodico elettronico http://www2.spbo.unibo.it /dpis/paura/index.php?id=103) V. Jeffries (a cura di), Handbook of Public Sociology, Lanham MD, Rowman & Littlefield Publishers, Inc., 2009 C. Leccardi, “Facing Uncertainty. Temporality and Biographies in the New Century”, in Young. Nordic Journal of Youth Research, vol. 13, n. 2, 2005 C. Leccardi, Sociologie del tempo, Bari, Laterza, 2009 G. Mandich, Quotidiano flessibile. L’esperienza del tempo nella Sardegna della New Economy, Cagliari, AM&D Edizioni, 2009 W. Privitera, “Incertezza e individualizzazione” in L’incertezza quotidiana. Politica, lavoro, relazioni nella società del rischio a cura di Marita Rampazi, Milano, Guerini, 2002 J. Urry, Global complexities, Cambridge, Polity Press, 2003 J. Urry, “Cars, climates and complex futures, Dept of Sociology, Lancaster University, mimeo, 2006 P. Van der Duing, Knowing tomorrow? How science deals with the future, Eburon Academic Publishers, 2007 46 Giuliana Mandich Quale sociologia del futuro… HIGHLIGHTS Future matters for social theory? Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry Barbara Adam (Cardiff University, UK) Abstract Social action is performed in the temporal domain of open pasts and futures. It is both mindful of the recoverable and lived past and projectively oriented towards an intangible future. It sets processes in motion that ripple through the entire social system, across space and time, to eventually emerge as facts. This futurity of action tends to get lost in analyses that concentrate primarily on empirically accessible, factual outcomes of plans, decisions, hopes and fears. To encompass this “not yet” as central component in the production of social facts requires changes to social theory and the logic of social inquiry. It necessitates an openness to rethink the subject matter of sociology, its epistemology and its methodology. The paper presents a broad-brush socio-historical analysis of changing approaches to the future as foundation to theoretical considerations of necessary conceptual changes to the discipline in order that social futurity may be accorded its appropriate place in the study of social life. 47 Barbara Adam Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry Introduction Contemporary daily life is conducted in the temporal domain of open pasts and futures, mindful of the lived past while projectively oriented towards the “not yet”. We move in this temporal domain with great agility, pirouetting and swivelling to face both past and future, twisting and turning in the knowledge realms of perception, memory and anticipation. We operate with equal confidence in the action domains of choice and planning, where we are engaged in future making and future taking. Without giving much thought to the matter we alternate perspectives between future presents which we anticipate and present futures [1] which we enact. While our practical understanding includes the future orientation as an inescapable feature of social existence, for the study of that life the future poses major challenges because it lacks the tangible materiality needed for empirical study. This difficulty should not be taken as an excuse to place futurity outside the social science frame of reference. Rather, it needs to be acknowledged and understood in order to adapt our modes of inquiry. If the future is an inescapable aspect of human being and social life through action that is purposive, intentional and motivated, as well as goal and value orientated then the future is de facto a subject matter for the study of that life. If some of the key institutions of social life are future orientated, such as religion, education, politics, economics, work, family, science, business and organisations then this future orientation is de facto a subject matter for institutional analysis. Finally, if the production of the future is the purpose of economic, political, scientific, educational, environmental activity, then it is de facto a subject matter of the study of these social activities. Study of this temporal domain may be extremely challenging but the associated difficulties are no adequate reason to bracket social futurity from mainstream social theory and research. For sociology to address the disjuncture between social life and its academic modes of inquiry, I want to suggest, needs a multi-pronged approach to aid understanding, and facilitate a critical theoretical perspective which in turn helps to identify openings for change. It first requires historical understanding of every-day, expert and academic approaches to the future. Four historically distinct understandings and assumptions about the future are identified here together with their associated expertise and modes of inquiry: the future as fate, fortune, fiction and fact. Through this historical understanding theorists can appreciate the depth of the challenge that futurity poses for the discipline and its logic of social inquiry and are able to explore how the gap between social action and empirical study of that action might be narrowed. Clearly, this is a huge programme of work which needs extensive research. In this paper I can do no more than open a window on the issues, map some outlines of key arguments and show their pertinence for the study of contemporary social life. The Future as Fate Some of the earliest approaches to the futures can be gleaned from mythology (Littleton, ed. 2002). In this ancient world gods and ancestors set the world in motion and move it in particular future directions. The myths of ancient and traditional cultures portray a world where people have dominion over space and matter only, while the temporal domain belongs to gods (or to ancestors as is the case in African and Australian myths). Here, the unknowable future is projected onto the sacred realm and has a particular status; it pre-exists as fate. To penetrate this opaque, pre-destined realm requires experts with special access to divine purpose, that is, knowledge about what god(s) and spirits have in store for individuals and collectives. Often, experts on the sacred, pre-existing future are message-bearers through which supernatural beings convey their will. The source of this specialist knowledge is external to the oracles, prophets and mediums that act as mere conduits for the messages of god(s), spirits and souls from the netherworld. Impor48 Barbara Adam Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry tantly, these experts seek answers to specific questions about what is going to happen, in a certain situation, to a particular person or groups of persons. As such, prophecies and divinations are to aid people’s efforts to be prepared and ready for what is to be and come about. This understanding of the future as pre-destined fate has been largely displaced during modernity and substituted with the unquestioned assumption that the future is ours to make, shape and exploit. Modernity has swept away the universe of faith and people have been transmuted from recipients of fate to makers of their own future. As they assumed ownership, they began to approach the future as a source of fortune destined for the present. The Future as Fortune In western cultures this dramatic shift in perspective on the future from fate to resource and source of fortune occurred slowly over a period of some four hundred years. The French Revolution is a key exemplar of this changed futures perspective. During that period key thinkers from Condorcet to Comte saw themselves as moral agents for change. They were concerned not just to “unveil” a pre-existing, pre-destined future but to steer it in a particular direction (Manuel, 1962). This involved a fundamental shift in understanding of and approach to the future. Ownership of the future shifted from gods and ancestors to people. The future has been transmuted from a pre-destined realm of unique individuals and groups, into an abstract, empty and quantifiable entity available for unrestricted use and free exploitation. The future as domain of fate gives way to the future as realm of action potential: the future becomes ours to shape, make and take. This means that individual fate as a future fact is displaced by a domain of probabilities which is subject to calculation on the basis of past facts. Divorced from context the abstract and empty future can be exploited anywhere, at any time and for any circumstance. It is treated as re49 sources to be traded and exchanged for wealth creation. As open realm of potential it practically requires shaping and making. It becomes a task for planning, holding out the promise that it can be what we want it to be. However, the very openness and emptyness of the future of fortune brings with it problems for knowledge and enforces significant changes in expertise. Without predestination the future no longer exists as future fact and knowledge about it has to be achieved from the present as present future. During the early phases of this transition while social change was still slow and overall structures remained stable across the life times of individuals a certain level of predictability could be maintained. However, with the pursuit of progress, the social goal was no longer stability but change. Stability became associated with standing still and being out-moded. Thus, while the quest for progress produced futures that extended into ever more distant times, as well a providing increased wealth and prosperity, it simultaneously reduced the certainty of outcomes. Here we see a scissor movement: with the increase in future making the future becomes ever less knowable. In light of this difficulty, experts on the future had to find new approaches to knowing the‚ not yet. They shifted attention from the future present, which had become unknowable under the modern conditions, to the present future as the outcome of human choice. Prophecy and divination were abandoned in favour of scientific methods. Experts on the future of fortune are no longer forewarning of an impending fate, or concerned with what will be happening in the lives of specific individuals and groups of people. Instead, the focus shifts from individuals to collectives and avarages. Importantly, the source of knowledge for this present future is sought in the past: in past occurrances and patterns of occurances. The future of fortune is calculated on the basis of present and past collective data projected into an empty future as general trend. As such, expert knowledge of this future is no longer intended to assist people to adapt to their fate but to aid intervention and social engineering on the one Barbara Adam Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry hand and the pursuit of progress, innovation and growth on the other. Both science and economics, for example, make extensive use of this method by drawing on accumulated evidence and, on the basis of this, make probability calculations about an avarage future, projected as trend or cycle (Bell 2003, de Jouvenel 1967). This scientific method of knowing the future works, up to a point, as long as change is moderate and sufficient past facts are available from which to calculate a probable future, that is, as long as the past can act as indicator for the present and future. However, as Aurelio Peccei (1982, p. 11) points out, when the future is no longer a continuation of the past, but a consequence of actions and choices in the present, it is no longer knowable on the basis of accumulated facts and lessons of from the past. A number of developments during the 20th century brought with it such significant changes that the belief in a calculable future became delimited and for certain conditions turned out to be a fiction (Colborn et al, 1996). The Future as Fiction The first problem for a future calculated on the basis of the past was the pursuit of progress itself, since it was tied to a commitment, a compulsion even, to innovate and change, with instability rather than stability being the inherent goal (Bury 1955/1932). It meant that the less the present could be expected to be a repetition of the past, the shorter would be the potential horizon of planned action with predictable outcomes. With the persistent and intensified pursuit of progress, therefore, the past lost much of its unquestioned position as knowledge base not only for future presents but also for present futures. In addition, when one change chases the next, the pace of life becomes accelerated. Changes stack up and accumulate. As Karl Marx and Friedrich Engels noted so memorably in their Communist Manifesto: «All fixed, fast-frozen relationships, with their train of venerable ideas and opinions, are swept away, all new-formed ones become obsolete before they can ossify. All that is solid melts into air...» (Marx and Engels, 1967/1848, p. 224) In contexts of such all-encompassing change, moreover, the emptiness of the future is compromised. The abstract, empty future is becoming a crowded space, a territory congested with intended and unintended consequences of our own and predecessors’ dreams and desires. Consequently much of planned future making has to give way to future repair and damage limitation. Even this, however, is beset by problems since, outcomes and products of the abstracting, quantifying mode of knowing sit uneasily in the interconnected, interdependent temporal world of social and ecological processes, with their jarring often producing further unintended, indeterminable consequences. This cluster of interrelated consequences of future making in conditions of modernity is nowhere more apparent than with contemporary information and communication technologies (ICT) where succession and duration have been replaced by seeming instantaneity and simultaneity, which means that both time and space are altered in those relations of communication. Networked information is distributed simultaneously across space and instantaneously across time. With ICT, movement across space has been de-materialised; duration has been compressed to zero and the present extended spatially to encircle the earth. For people with access to ICT, and those implicated in their effects, therefore, the present has been globalised. This electronic present bestows on people powers that had previously been the preserve of gods, that is, it makes us “all-seeing”, and endows us with the capacity of supernatural beings to be everywhere at once and nowhere in particular (Adam 1995, 2004). Importantly, when in principle everyone has access anywhere with the potential to influence anyone, probability of future outcomes, let alone certainty, is no longer attainable. This difficulty is further increased with the 50 Barbara Adam Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry loss of time gaps between before and after, which means that the assumption of causality and sequences, which underpins daily affairs, is no longer workable. Knowledge practices and expertise on the future have to adapt and alter. The fictional status of the future intensified with a wide range of technologies from genetic engineering to nano-technology. Most notably among these is the development of the nuclear bomb which brought to an end the certainty of continuity. Without assurance of continuity, humanity has to learn to live with the potential end in the present. This means that not just our individual but also our collective lives are “lived unto death” in the Heideggerian sense. In a context where we are deprived of the taken-for-granted fundamental assumption that successor generations will carry on where we leave off, faith is required to maintain belief in this particular fiction. In light of such developments Helga Nowotny (1994/1989) suggests that the future is being eliminated and replaced by an extended present. In a present overloaded with choices, she proposes, the future is being determined now. Stumbling from one correcting measure to another, Nowotny (1985) considers us unable to get beyond having to cope with the innovative present. Moreover, an incessant need for innovation creates obsolescence at an ever-increasing rate which poses problems for future absorption. Again these are difficult issues that have to be dealt with in the present, with the effect that the future is incorporated into the present. For Nowotny, therefore, today’s preoccupations with the future signify nostalgia for something that is about to disappear. Experts on this fictional future require new skills to supplement those of evidence-based science and economics where probable futures are calculated on collective data from a known past. These new skills, which experts on the future require in order to grasp the fictional future and the extended present, are tied to knowledge about complexity and interdependence. This means that expertise on the fictional future and extended present has to transcend the binary think51 ing of the past and engage with systems thinking. The systems perspective facilitates an appreciation of how the tiniest change can ripple through the entirety of a system with unintended, unknown and unknowable consequences. Moreover, this understanding needed to be expanded to apply not just to ICT and other contemporary technological future productions but to all of life’s processes, given that from this knowledge perspective it becomes apparent that all creatures produce futures through their mere being in the world. Every breath they take, every blade of grass they eat, impacts on their world and creates chains of effects that ripple out into an open future (Adam 1998). Humans, of course, are not exempt from this inescapable future-producing capacity. They too are tied into a boundless web if interdependent relations of doing and receiving, giving and taking. As Hannah Arendt noted more than half a century ago, […] the smallest act in the most limited circumstances bears the seed of the same boundlessness, because one deed, and sometimes one word, suffices to change every constellation. (Arendt 1998/1958: 190) Cleary, the trusted dualisms of past or present, present or future, local or global, individual or collective can no longer be relied upon to provide appropriate understanding. Only systems thinking can handle these interdependencies and mutual implications and theorize their consequences [2]. However, while systems thinking is clearly an important corrective to the knowledge of possible and probable futures, it is not sufficient to understand contemporary social relations of the future. From a social theory perspective there are still numerous issues that require further exploration and discussion. In particular there is the question about the reality status of the future: is it ideal or real, fiction or fact? How these questions are answered, in turn, has significant consequences for the issue of responsibility for futures of our making. Barbara Adam Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry The Future as Fact Future making may have indeterminate outcomes for us in the present but it has outcomes never-the-less. As such it is real in its consequences, even if these are opaque to the people producing those impacts and effects. Every future making, we need to appreciate, does not only send ripples through the entire system across space and time it also inevitably involves future taking: it prefigures, shapes and forecloses future presents of successors. This important fact is easily forgotten once the idea has been naturalised that the future is empty and ours to make and take to our desire. Despite this collective amnesia, however, the assumption of the future as free resource for present use becomes today difficult to uphold as the empty futures of predecessors begin to impose themselves on our present, restricting our choices and options. Amidst debates about climate change, environmental degradation and pollution, we are beginning to recognise that our own present is our predecessors’ empty and open future: their dreams, desires and discoveries, their imaginations, innovations and impositions, their creations. Our progress as well as our climate change, our colonial and contractual responsibilities as well as our global institutions, markets and corrupt financial systems are their empty, open, commodified futures in progress, are their creative imaginations working themselves out in and as our embodied and embedded present. Our war memorials are their political aspirations, their pursuit of ethnic cleansing. Our present was their uncertain future, where all that was solid melted into air, their discounted future, exploited commercially for the exclusive benefit of their present. We realize that we are the recipients of their empty-future illusion, which is for us inescapably real in its consequences. Claims are being filed today for some of the results of their past pretences of emptiness. Accusations accumulate about past wilful blindness, for example, about asbestos, smoking and Thalidomide. Our predecessors’ glorious creations rebound as nightmares. The costs have to be paid, the disasters rectified, the cancers endured. Successor recipients shoulder the burden, are required to forgive and remedy past follies and pretences. Yet, despite all this, we still hold on to the same illusion, still live the same make-believe: The future is empty and open, we say. Ideal and unreal, the future exists only in our minds. It is ours to forge and shape to will, ours to colonise with treasured belief systems and technoscientific products of the mind, ours for the taking. As social scientists we are charged to address this illusion, take it out of the invisible domain of implicit, naturalised assumptions and raise it to a conscious level of understanding where it becomes available as subject for public debate. Difficulties arise, however, because the established conceptual tools that guide contemporary social science expertise on the future are no longer appropriate to the new task. That is to say, the future as fact does not yet have its accompanying expertise but still relies on theories and modes of inquiry that cannot access it. A distinction which Betrand de Jouvenel (1967, p.3) discussed in his seminal book The Art of Conjecture allows us to see one of the key difficulties. De Jouvenel explains the difference between the Latin terms facta and futura. Facta refer to past events, done, achieved and completed; something that has already taken (unalterable) form. Futura in contrast, refers to that which has not yet come about, someting that is still open to influence and will become a factum only after it has occurred. The distinction entails the recognition that‚ there are no past possibilities and there are no future facts’ (Brumbaugh 1966, p. 649 in Bell and Mau 1971, p. 9). The past is closed to influence and therefore open to factual knowledge while the future is open to choice and efforts to colonize and control, but closed to factual inquiry. De Jouvenel’s dichotomy stands like a motto above social science inquiry and it entails implicit assumptions about the reality status of the future that have become social science common sense. From this perspective, not “the future” but only present possibilities for the future are real. Not fu52 Barbara Adam Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry ture presents but only present futures, therefore, are amenable to contemporary inquiry. Since the future as future present is considered to lack reality status the conclusion is drawn that, therefore, the future present is an aspect of mind, belonging to the world of ideas, thus to the realm of the ideal rather than the real. In ancient times this would obviously have been deemed utter nonsense. With rise of science, however, the assumption that the future is unreal has become naturalised as taken-for-granted fact. Yet, in today’s technologically driven world, impacts of present choices and actions stretch across time and space as futures in progress that may be latent across generations for hundreds, even thousands, of years. In such a context the idea that the future is non-factual, ideal and thus unreal is once more becoming untenable. Today we have to learn to recognize and accept that the latent process world of futures on their way and in the making is real even if it is not tangible or material in the conventional sense of materiality. If we want to encompass this futurity in social theory and the logic of social inquiry, then we need to find ways to accord material (thus factual) status to the intangible effecting world of processes. Furthermore, there is a need to embrace anew the idea of the pre-existing future. Unlike their ancient pre-destined counterpart, however, today’s pre-existing futures are largely the result of human action. They are not tied to single outcomes but dispersed across space time and matter. They are not determined, that is, not fully set in all their details but pre-existing neverthe-less, albeit in fuzzy, undetermined and indeterminable ways [3]. This once more alters the temporal direction of the source of knowledge: in addition to present futures we have to re-engage with future presents. Much more in our conceptual apparatus that we take for granted requires when we take seriously the idea of encompassing futurity in our social theories, frames of reference and logic of social inquiry. Some of this conceptual renewal reaches into the deep structure of modern (western) thought. The way we understand causality can 53 serve as exemplar. The modern (scientific) concept of causality has a specific temporal direction: it works from past to present. As such, however, it is no longer adequate to encompass the temporality of futures in the making, latent and invisible but on their way nevertheless. Older understandings of causality, in contrast, encompassed both past and future. It may be helpful, therefore, to revisit one of these alternative ways of conceptualising causality. Aristotle proposed that causality needs to be understood with reference to four interdependent elements. He called them “material”, “formal”, “effective” and “final” cause respectively [4]. Natural science unified the first three causes into one general physical cause where action causes subsequent effects in a linear fashion from past to present and future, while the idea of a “final cause”, as both for-ness and the goal or end (telos) towards which organisms develop, has been eliminated altogether. Biological scientists had difficulty with this eradication of final causes, given that they were encountering unmistakable forms of goal directedness in their subject matter. Acorns grow into oak trees (and not beech trees or dandelions), the final cause of the oak tree being encoded in the acorn, and vice versa. In order to eliminate all traces of the religious language of creation and predestination, biological scientists replaced‚ final causes’ with the atemporal idea of, function’, that each part has a function within the whole. Thus, the function of a part brings about development, not its encoded pre-existing end. It is the acorn’s function, not its destiny, to become an oak tree. With this simple move the temporal has been reigned in and futurity effectively shielded out from scientific causality in biology. In its place, the past and the atemporal present have been installed as the exclusive sources of scientific meaning. Sociologists and anthropologists will recognise the parallel move in the social sciences. The pertinence of Aristotle’s “final cause”, however, relates to its materiality: final causes permeate the realm of matter. Future-oriented and future-creating knowledge practices have mate- Barbara Adam Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry rial effects that reverberate through the entire system of physical, biological and cultural relations and processes. Aristotle’s four causes, therefore, offer a base on which to start a contemporary conceptual reconstruction that is consistent with today’s impacts of knowledge practices which permeate outwards in space, spread inwards in matter, organisms and bodies and extend temporally into the future: tomorrow, one hundred, even one thousand years hence. The task for social theory, therefore, is to produce conceptualisations that are appropriate to contemporary future making and future taking in general and to the future as fact in particular. This entails, among other things, understanding that transcends the taken-for granted scientific conceptualisation of matter, facts and causes in order to encompass fore-ness and the real futurity of processes. societies’ self understanding and if their investigations are to be appropriate to their contemporary condition, then they do need to engage with this difficult subject matter and get involved in conceptual revision. If we as sociologists and social theorists want to encompass not just present futures but future presents and if we want to acknowledge the reality status of futures in the making, then we need to change our implicit assumptions and our modes of inquiry. To bridge the gap between daily life and the study of that life we need to take futurity seriously and encompass the complexity that such engagement entails. With futurity moved to the heart of the discipline, we can begin to critically support and, where necessary counterbalance, the innovative policies and activities that shape our world for contemporaries and untold generations of successors. Reflections Acknowledgements Fate, fortune, fiction and fact have been identified as historically different approaches to and assumptions about the future. Yet, the different perspectives and attendant knowledge practices did not replace each other but continue to coexist, if in particular hierarchical relations. None of the earlier futures relations, for example, are lost. Thus, the future as fate continues to play a powerful role in understanding and decisions. In many domains of life and situations the future as fortune is still the dominant perspective. The assumption that we make our own futures and fortunes remains prevalent and belief in an empty future that is to be filled with our desires is as strong as ever, tempered only by the awareness that outcomes are not fully amenable to human design. For the social sciences this layeredness of futures relations makes investigation of that domain very complex indeed. Moreover, the changes happened so fast that social theory and our modes of inquiry have not caught up with the mutating knowledge practices. However, if sociologists are to play a central role in contemporary The work presented in this paper draws on recent research on the social future which was funded by the UK’s Economic and Science Research Council (ESRC) under their Professorial Fellowship Scheme (RES-051-27-0049; see www.cardiff.ac.uk/socsi/futures) as well as twenty-five years of research on social time. It was first presented to a Round Table discussion on “Future Matters for Social Theory?” 29 October 2009 at the University of Cagliari, Sardinia and prepared for publication during a Fellowship at the same university during October 2009. 54 Barbara Adam Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry Note [1] The distinction between present future and future present has been introduced to social science by Niklas Luhmann (1982: 281) who suggested that the present future is rooted in a utopian approach which allows for prediction whilst the future present is technologically constituted and as such enables us to transform future presents into present presents. In Adam and Groves (2007) the distinction is expanded and theorized with reference to standpoints that position us differently vis-à-vis our impact on successors [2] See Adam and Groves 2007 for an extended discussion on systems thinking and its limitations for understanding futurity; also Adam 2005, a conference paper on complexity theory, futurity and social theory [3] The studies of Rachel Carson 1965 and Theo Colborn et al. 1996 provide excellent examples of such time-space distantiated futures in progress [4] For a more detailed discussion, see Adam and Groves 2007 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI B. Adam, Timewatch. The social analysis of time, Cambridge, Polity Press, 1995 B. Adam, Timescapes of modernity. The environment and invisible hazards, London, Routledge, 1998 B. Adam, Time, Cambridge, Polity Press, 2004 B. Adam, PDF link to futures web Complexity paper, 2005 B. Adam, C. Groves, Future matters. Action, knowledge, ethic, Leiden, Brill, 2007 H. Arendt ,The human condition, Chicago, Chicago University Press, 1998/1958 W. Bell, Foundations of futures studies. History, purposes, and knowledge. Two volumes, New Brunswick, Transaction Publishers, 2003/1997 W. Bell, J. Mau eds, The Sociology of the future: theory, cases, and annotated bibliography, New York, Russell Sage Foundation, 1971 J. B. Bury, The idea of progress. An inquiry into its growth and origin, New York, Dover Publications Inc, 1955/1932 R. Carson, Silent spring, London, Penguin, 1965 T. Colborn, J. P. Meyers, D. Dumanoski, Our stolen future. How man-made chemicals are threatening our fertility, intelligence and survival, Boston, Brown & Company, 1996 B. de Jouvenel, The art of conjecture, London, Weidenfeld and Nicolson, 1967 S. C. Littleton, Mythology. The illustrated anthology of world myth and storytelling, London, Duncan, 2002 N. Luhmann, The differentiation of society, New York, Columbia University, 1982 F. E. Manuel, The prophets of Paris, Cambridge, Mass, Harvard University Press, 1962 K. Marx, F. Engels, The Communist Manifesto, Harmondsworth, Penguin, 1967/1848 H. Nowotny, From future to extended present: time in social systems, In Time preferences in interdisciplinary, theoretical and empirical approaches, eds. G Kirsch, P. Nijkamp and K. Zimmermann, 1-21, Berlin, Wissenschaftszentrum, 1985 H. Nowotny, Time: the modern and postmodern experience, Trans Plaice, Cambridge and Cambridge, 1994/1989 A. Peccei, One hundred pages for the future, London, Futura, 1982 55 Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis HIGHLIGHTS Future matters for social theory? Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis Rob Stones (University of Essex, UK) Abstract The article sketches a framework for thinking more deeply about how to integrate the theorisation of the future into the detailed analysis of particular cases. Barbara Adam (2009) has argued powerfully that the ideology of modernity envisages an empty future, and that this can be not only misleading but destructive. The development of a theoretically informed case study approach to futures, drawing on Adam’s work and combining it with strong structuration theory’s treatment of the strategic context (Stones, 2005), is intended to increase the resources available for thinking systematically against this ideology. It offers examples of a disciplined series of combined conceptual and methodological steps for addressing conjunctural strategic questions about futures which are grounded or anchored in processes already-in-train, or likely to be in-train, once that future arrives. These are designed to guard against the kind of ungrounded, voluntaristic, wishful ideals as to “what can be” that all too often lead to moral recklessness and irresponsible advocacy. 56 Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis Introduction: Social Theory and the Grounding of Normative Judgement My aim in this article is to sketch in the outline of a framework for thinking more deeply about how to integrate the theorisation of the future into the detailed analysis of particular cases. More specifically, the focus of the case studies will be on how thinking about futures can help to ground political and moral judgements about “what should be done” in the present (or what should be done at a further point in a journey towards a future present) in order to bring about a future that is desired, or to subvert one that isn’t. The framework I propose is one that synthesises aspects of Barbara Adam’s theorisation of the future (cf. Adams, 2009) with strong structuration theory’s treatment of the strategic context of action (Stones, 2005). It will be implicit throughout that this combination of social theoretical approaches is able to begin to systematically acknowledge the complexity of the future. As a result it is better able to “ground” or “anchor” political and moral judgements about what to do. The adjective “voluntaristic” is often used by social theorists to indicate the irresponsibility of political or interventionist initiatives that lack such a sufficient grounding in the realities and dynamics of the strategic terrain. A close parallel within normative theory is Aristotle’s attribution of “rashness” to those whose actions are reckless rather than brave (Aristotle, 1976), or, to be more subtle, and to extend a variation introduced by the Aristotelian scholar J. O. Urmson (1988, pp. 64-5), it is to distinguish between recklessness and appropriate, suitably grounded, caution, the latter being the ability to apply just the right combination of practical knowledge, confidence, caution, and wisdom (also cf. Bernstein, 1986). As soon as one goes beyond the pure deontological normative position, in which one simply acts out of principle irrespective of the consequences, then a judgement about “how to act” must not only involve an assessment of the relevant actor’s character and the influences on its formation, as in the virtue ethics associated with Aristotle, but 57 must also involve an assessment of the potential and likely risks, dangers, and rewards of a particular course of action. In social theoretical terms it must involve an analysis and assessment of the strategic context. An acknowledgement of this, expressed in one language or another, is inherent in teleological or consequentialist theories of moral and political philosophy, and also naturally in theories that combine the deontological with the consequentialist, as in Rawls’s seminal A Theory of Justice (1971). However, judging what the consequences of particular actions will be in any given context is no easy matter, and moral and political philosophy are not particularly well designed to explore such matters. In order to be able to ground moral consequentialist judgements in an adequate grasp of social realities it is therefore necessary to explicitly import concepts of social theory, particularly those focused on issues such as the contextualised actions of social actors (including “characters”), processes and possibilities, structural constraints, sanctions, and intended and unintended consequences. Structuration, Strong Structuration and the Strategic Context It is necessary at this point to say a bit more about strong structuration theory. Structuration theory, as developed by Anthony Giddens and others, is a way of looking at social phenomena as the product of social structures and social action, rather than just one or the other of these. Social structures are understood subtly here as being themselves produced by social actors who, in turn, then engage in practices on the basis of these social structures. Equally, the characteristics of these social actors, who are seen as knowledgeable and reflexive, will have been constituted in significant part through their insertion and socialization into the practices of the past and present social structures that provide the context for their relations and interactions. Moreover, the context of social structures which helps to produce actors, and which provides the Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis context for their actions, is itself conceived as having actors at its heart, not only in the process of their initial production but also in the successive moments of their continuation. Thus, not only are social actors constituted in significant part by structures, but structures are constituted in significant part by social actors. There is a continual cycle or serial process in which actors situated within structures recursively draw upon those structures in their actions, and those actions, in turn, help to constitute – through contributing to their reproduction or through affecting change – the structures. The notion of the duality of structure is the most fundamental conceptual building block for the theory of structuration (Giddens, 1979, p. 5; 1984, p. 25; and see, e.g., McLennan, 1984, p. 126; Sewell Jnr., 1992, pp. 12-13; Sydow and Windeler, 1997, p. 462). Essential to this conception is a “structural-hermeneutic” core in the way structuration theory characterises and understands social processes, practices and relations. Giddens defines this in terms of: «…the essential recursiveness of social life, as constituted in social practices: structure is both medium and outcome of the reproduction of practices. Structure enters simultaneously into the constitution of the agent and social practices, and “exists” in the generating moments of this constitution» (Giddens, 1979, p. 5, my emphasis) In other words, there is a complex and mediated connection between what is out-there in the social world and what enters in-here into the phenomenology of the mind and body of the agent. Structures serve as the “medium” of action as they are the material and social context, grasped through memory and awareness of current circumstances, upon which agents draw, and in relation to which they strategise about the future, when they engage in social practices. Meaningful and ordered social action would be impossible without this “medium”. Structures are also, however, the outcome of these practices of agents. These manifest themselves in a plurality of differ- ent forms. The structuration process places the emphasis on social practices ordered and reordered in institutional clusters and alignments across time and space. Strong structuration theory (SST) was developed as a way of building on and extending Giddens’s more philosophical, generalising, approach to structuration, by retaining its conceptual emphases but developing it in a more in-situ, empirically sensitive and research oriented direction [1] . This version, which emerged from debate, counter-debate, empirical applications and ensuing theoretical synthesis over the last two decades, has produced a more refined conceptualisation of the duality of structure, one that distinguishes between four different aspects involved in any structuration cycle, each of which is attuned to the variability of content at the empirical, in-situ, level. The first dimension singles out external structures as conditions of action. This is a clear statement, pace Margaret Archer (1995), that there is much more to structuration theory than the phenomenology and memory traces of the current agent-in-focus. Nicos Mouzelis has written lucidly on the variable levels of intractability or malleability of these external structures, and this is necessarily related to the specific positioning and power resources available to the agent who confronts them (see Mouzelis, 1991, pp. 379; 1995, p. 156; see also Archer, 1995 and Stones, 2001). The external structures can be thought of as the agent-in-focus’s context of action, and will involve her methodologically in an agent’s strategic context analysis of relevant positionpractice relations. This form of analysis can also be engaged in from an external position which may be more or less well informed than the vantage point of the agent-in-focus [2]. The second aspect of the structuration cycle involves internal structures within the agent, which are the phenomenological preconditions that allow agents to mediate between external structures and their own orientation towards future actions. These internal structures can be divided into: i) general dispositions, akin to Bourdieu’s notion of habitus, which refer to the specific and 58 Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis variable dispositions, cultural and discursive schemas, conventional understandings and typifications, “stocks” of transposable knowledge, principles of action, emotional investments and value-commitments [3], skills, aesthetic tastes, and habits of speech and gesture within the agent-in-focus. These will typically be pluralistic and internally differentiated in character [4]; and ii) conjuncturally-specific knowledge, which refers to the variable knowledge and understanding an agent-in-focus has of the external context of action within a specific conjuncture. This will include knowledge related to the different analytical, but empirically intertwined, domains of power relations, norms and meaning, and also of the combination of material and non-material factors relevant to action and its probable consequences. Again, such knowledge will typically be linked to a plurality of differentiated sets of position-practice relations and their incumbents relevant to the conjuncture and to particular goals and interests. The third aspect is that of active agency, including a range of factors potentially implicated when agents draw upon internal structures in producing practical action [5]. Important amongst these is the agent’s tendency to order or sort their concerns and value commitments into a hierarchy of priorities or purposes. This may involve more or less critical reflection and distance from the events, and the various orderings will be more or less clear cut or blurred and indeterminate. The final dimension of the structuration cycle is that of the intended and unintended outcomes or consequences of actions (which impact upon external and internal structures, as well as on events and the general well being of actors). This quadripartite cycle of structuration is trained on the meso-level of ontological scale [6], that is, on the point at which an agent-in-focus is involved in institutionalised practices, within unfolding time and relational space, and at the junction with other individual and collective actors in a field of socially relational and cross-cutting position-practices. All these relational practices are horizontally and/or hierarchically organised, a point made cogently and at length by both Cohen 59 and Mouzelis in their contributions to the structuration synthesis (Cohen, 1989, pp. 207-213; and Mouzelis, 1991). These “position-practice relations”, to adopt Cohen’s term, provide the strategic context or terrain that provides the range of objective possibilities and limits to the possible for actors-in-focus. The conjunctural-specific knowledge an actor has of this context is a precondition for being able to think about strategic possibilities. This strategic or practical context of action, however, should not be thought of as existing somehow outside time. Its relations with the realities of time need to be strongly theorised as part of the process of avoiding voluntarism, recklessness and irresponsibility. It is equally necessary to be aware of the relations between time and the situated actor or actors who will engage practically and strategically within that context of action, including the question of how to include time, and the future, within the notion of the “conjuncturally-specific”. In looking at this time dimension, aiming to bring out the close relations that will exist in any case study between structuration processes, the strategic context, strategy, and various temporal processes and orientations, I will base my arguments on Barbara Adam’s stimulating paper presented in the Round Table discussion on “Future Matters for Social Theory?” at the University of Cagliari, and reproduced in the present issue. The Future Present as Fact In “Future Matters: Challenges for Social Theory and Social Inquiry”, Adam deftly foregrounds the tension that exists between, on the one hand, the open promise for shaping and making that the future has come to signify in the dominant culture of modernity, and, on the other hand, the ways in which this future has in reality – and increasingly as modernity has given way to radical or post-modernity – already become crowded, constraining and damaging, long before we arrive at the point the future (becomes the) present. I Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis will focus primarily on Adam’s conception of future as fact and the insights it contains on the ways in which a significant set of actions set in train in the present are “future making” in that they “prefigure, shape and foreclose future presents of successors” (Adam, 2009, p. 6). On this basis I will revisit strong structuration’s conception of the strategic context that provides the setting for political and moral action, now configuring it more explicitly and systematically in terms of a future present many of whose constituent elements have already been set in train some time before that present arrives. Adam is concerned in her paper to forge a general sociophilosophical frame which can be used to acknowledge and think about the “reality status of futures in the making” (Adam, 2009, p. 8). By combining her frame with strong structuration and its conception of the strategic context I want to flesh out some of the conceptual and methodological issues involved in applying it to the empirical research of in-situ case studies and to insitu political judgements. Within this overall approach, which takes its core guiding principle from Adam’s enigmatic but compelling proposal that we should respect the future as fact, I hope to indicate that an in-depth emphasis on the detail of what it means for particular futures to be already populated and even crowded, would allow for less voluntaristic and reckless practical orientations towards the future. Such an approach differs from the modernist, social engineering, impulse which conceived of the future as something that was empty, something that could be steered in a particular direction on the basis of generalised knowledge of the past and the present. Rather, the future as fact is understood as full of schemes and actions that are already working themselves out, and that are increasingly more complex and interdependent. Their precise content and character as future social facts, crowding the terrain into which present strategies are launched, needs to be grasped by those who are launching those strategies. Equally, we need to develop sensibilities that understand how our ability to grasp them is, in radical modernity, ever more difficult as we are confronted by an increasingly complex, risk, society in which the future consequences of our present actions are at least as unintended, and indeterminable as they are intended and transparent (Adam, 2009, p.4; cf. Giddens, 1990, Beck, 1992; Urry, 2000; and Bauman, 2000). This is a state of affairs in which the past and the present do continue to matter to the future. They matter now, however, not only as things that can be learnt from, as guides to what can be done in the future, and even the latter must take on the proviso that with the speeding up of innovation, change, and obsolescence, this use of the past is in many ways in decline (Adam, 2009, pp. 4-6). Most centrally, the past and present matter to the future in the ways they become embedded in continuing social processes that stretch into the future, already laying claim to, colonising, what it will be. The normative critique will often focus upon the detrimental effects the aspects-in-train will produce once they reach the destination of the future present. But the practical strategic critique, which can be prompted by that normative critique, can attempt to alter negative aspects of future fact before they arrive in that future present, before they create or consolidate their detrimental consequences. Attempts to alter those aspects can include political advocacy aimed at convincing actors participating and producing the relevant processes, or in the strategic vicinity of those processes, to act to subvert them or alter their course. Responsible advocacy [7] will naturally entail a judgement as to the risks and dangers involved for the lay actors if they respond to these calls, and will need to weigh these against the scale of the calamities that might be avoided. 60 Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis Synthesising Strategic Context Analysis with Respect for the Future Present: Conceptual and Methodological Guidelines for Case Study Analysis In order to genuinely and systematically respect the future present as “fact” from a responsible, critical, normative and political standpoint it is necessary to alter sensibilities towards the future. This is the intended purpose of the framework I propose. An important aspect of SST is its insistence that the precise question or problem-athand is an essential guide to what, exactly, needs to be focused on in substantive and empirical study (see Stones, 2005, pp. 116-27). A number of different problem-foci and methodological steps can be distinguished within a case study approach to the future present as fact: i) The need to consider the likely future consequences (for the well being, gains, sensibilities, interests, objective and perceived harms and sufferings, of others, for social materiality, and for nature) of focused actors’ actions within a given time frame (time 1), and whether these are intended or unintended by those actors. Normatively, these future consequences can be judged, at least provisionally, as positive or negative. These future consequences can be thought of in terms of: • the main consequence or set of consequences directly-in-focus within a particular action domain. This might, for example, be in a formal policy making domain such as foreign or environmental policy, or in the generally more informal domains of home and family, or to within the domain of work, perhaps aimed specifically at the nature of the systemic efficiency of authority relations there [8]; • other indirect consequences within the domain of, and closely linked to the main consequence of, the actions and consequences directly in focus. For example, the effects of actions considered directly in terms of their consequences for the systemic efficiency of authority relations 61 at work may also be seen to give rise indirectly to consequences for other aspects of work experience, such as levels of morale and degrees of social integration; • broader consequences or side-effects outside the domain of the orientation of the actor(s)-in-focus and her/his/its actions (e.g. the implications of US foreign policy commitments, and the time, energy and financial resources expended on these, for US policy orientations and capabilities in the domains of climate change or issue of the supply of food to poor nations) (cf. Stewart, 2009). ii) It is intrinsic to the hermeneutic character of structuration that the nature of the consequences in (i), above, and within the various points below, involve an internal, meaningful, experiential dimension. That is, the future consequences of the actions of actors-in-focus in any of the three areas just outlined (direct, indirect, and broader domains) will include their effects on relevant actors’ internal sense of well-being, respect and satisfaction, or suffering, humiliation and hurt. These resulting consequences would include such negative group and individual states of mind from frustration and bitterness to the harbouring of sentiments of violence and revenge. These internal states could also come to express themselves, at a particular point or period of time, in externally oriented actions, in concerted reformist campaigns of resistance, in more radical actions, or in acts of violence and terrorism. However one wants to judge any of these responses, morally and ethically, and whether they have crystallised gradually over time or have been more swiftly triggered by a single event, the various causes of such topography of resentment, resistance, or violence should be thought about as actors orient themselves to the present future. There will already be certain potential for both negative and positive future hermeneutic states embedded in present internal states. These latent potentials will typically be dependent for their future activation on what actions, processes and attendant Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis experiences are previously put-in-train. Looking at present actions from this perspective foregrounds the responsibility to treat the possibility of certain potentials unfolding as something that is real, and which needs to be carefully considered. That is, we need to treat as real the future that we, or they, may put in-train (cf. Adam, 2009, p. 8). Let me take one broad area as an illustrative example here. The example I will use is that of collective memory and its junction with what Jeffrey Alexander et al have referred to as “cultural trauma” (cf. Margalit, 2002; Alexander et al. 2004). The existence of collective memory is a necessary condition for the entrenchment of collective resentments and sufferings, and a sense of a generalised culture having been traumatised in some way. Having some awareness of the contours and content of such phenomena in the present is a necessary precondition for understanding whether its character is such as to be more or less malleable or intractable at different moments in the journey from the present to the future. This is the emphasis some writers place on the associated ideological and cultural struggles over which constructions of the past and its processes come to be hegemonic. In this, we are dealing with formations in the present of cultural discourses, collective memories and internal hermeneutic processes that are both already-intrain and may be worked upon and affected by current and future cultural and other actions and struggles oriented to a more or less hazy, more or less clearly envisaged, future present. iii) Following directly on from the last sentence, there is the need to identify those structuration processes already-in-train (either routinely reproduced processes or processes that are changing) within the relevant strategic context at time 1 that may significantly affect the likely future consequences set out in (i) and (ii). It may well be the case, for example, that in the domain of collective cultural experience, widespread but muted resentments within a population are already in train. This could be due to certain conjuncturally-specific practices of the past decade which have been, for some time, perceived as unjust or disrespectful. The present future oriented actions of the actor in focus (i above), seeing the future simply as open and malleable, can gauchely and unintentionally transform this collective culture from one of passive or submissive indignation to one of bitter and active resistance. iv) The need to identify structuration processes that are likely to, or could potentially be, put-intrain-after the actions at time 1 of the actors-infocus of (i), and that may significantly affect the likely consequences of (i) within a given future time frame (time 2). Example of this would be those kinds of everyday injustices alluded to in (iii), above, but now having their genesis after the primary actions-in-focus of the case study. It is not hard to think of examples which would apply in their specifically different ways to both (iii) and (iv). That is, of futures already-in-train, and futures put-in-train-after, the actions in focus (i) of the primary actors of a given case study. Variations of the following three illustrations could be formulated for either already-in-train or put-in-train-after scenarios, but for the sake of clarity I will articulate the longer first illustration in relation to an already-in-train process and the second and third to processes that can be put-intrain-after the primary actions in focus in the case study: • the lack of regulation of secondary lending markets by the US Federal Reserve in the early years of the new Millennium, coupled with a policy of maintaining low interest rates on the back of record capital inflows had already begun to sow the seeds of the global financial crisis of 2008 long before the latter future became the present. Even in 2004, before interest rates began to rise, large numbers of subprime borrowers in the housing market were experiencing acute difficulties in keeping up with their interest payments. Much of this was shielded from view by the buoyancy of the housing market, which allowed “borrowers who fell behind on their payments to exit their 62 Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis • 63 mortgages under duress without being foreclosed” (Turner, 2008, pp. 57-9), but the reality of the processes at work meant the future crisis was well and truly already-in-train. On a much smaller scale something similar was already at work in the recent talk about a possible decision by the owners of Manchester United, the American Glazer family, to sell and lease back the club’s training ground and the stadium at Old Trafford. Like most decisions in business, this is not a choice that will be made in the face of an open and unpopulated future. Rather, it needs to be situated in processes that were already set in motion as the family purchased the club in May 2005. The £540 million they borrowed to finance the deal put-in-train a process by which four years later they were paying £42 million net interest on the bulk of that debt, an amount that accounted for more than half the unprecedented fee they were paid that year for Cristiano Ronaldo’s sale to Real Madrid, and which put the £100 million match day revenue for 2009 into the deepest shade. The financial debt processes already-in-train by this time had so crowded and constrained the future of Manchester United Finance plc that the doubling of prices for match day tickets, squeezing out the traditional working class supporter, and other sources of revenue, were nowhere near enough to keep the club solvent and successful in the medium term without more drastic measures being taken. It is at this juncture, in the midst of an already unfolding journey towards a further future, that the Glazer’s decision to publicly broach the issue of selling the grounds needs to situated (Conn, 2010; Herbert, 2010). In the period after primary actors-infocus have jointly initiated a peace process to address the Israeli-Palestinian • issue, they will be looking for ways to induce the various parties to come to and/or stay at the negotiating table. It should be apparent to all (and should be apparent that it is apparent to all) that the consequences for this wished-forfuture of the subsequent setting up of punitive new checkpoints and, even more, the subsequent expansion of settlements in the West Bank or Gaza in contravention of perceived legal and informal norms, would be negative. The very natures of these processes put-intrain after the primary actions-in-focus have been carried out are such as to significantly affect the consequences of those primary actions. That is, identifiable forms of irritation, provocation, and harms suffered by Palestinians at the hands of, for example, the military, Orthodox settlers, and others after the point at which peace overtures has been made will clearly not facilitate the consequences which, at face-value, the actions of the primary actors intended (cf. Shulman, 2007; Elon, 2008). Intended or unintended structuration processes initiated by the relatively powerful actions of landowners, criminal gangs, the police, or local or central government officials often negatively affect the lives of peasantry in rural areas in the less industrialised world (cf. Turton, 1989; Pasuk and Sungsidh, 1994). It is not difficult to envisage the triggering, by the powerful actors, of virtually enforced internal migration by poor farmers and rural workers to the street of major cities, after, and in spite of, processes in which the primary actors-in-focus of the international development agencies of foreign governments or national and international charities have directed support at the rural population with the aim of allowing them to stay on the land. Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis v) The need to identify the temporality of the structuration processes put in train by the actorsin-focus in (i) and of those processes in-train in (ii), (iii) and (iv) including: • the duration required for the individual or collective actions to be enacted, from conception to execution, which may require a good deal of co-ordination with other social actors; • the length of time between the execution of particular actions and identified outcomes; • the key points in time (more or less embedded in institutionalised ritual), key temporal cycles, and the key temporal junctions between the processes put in train by the primary actors-in-focus and those relevant processes already-in- train or subsequently put-in-train; • combining all these above points within (v) with an assessment of the relation between the positive capabilities possessed by primary situated actors with certain structural resources at time 1, and the achievement or otherwise of certain outcomes at time 2. This will entail tracing intended goals or unintended positive or negative outcomes identified by an external observer through the various temporalities just outlined. This entails integrating the stretched temporal dimension into an in-situ appraisal of capabilities stretched over relevant relational position-practice networks of structures and actors. vi) The need to identify the likely degrees of malleability or intractability (Mouzelis, 1991; Stones, 2005) of structural obstacles to: • the intended goals of actors-in-focus and/or • the unintended outcomes and/or • the desired outcomes linked to the political-normative critique. Intrinsic here to the synthesis between SST and a due respect for the future present as fact - a precondition for the exercise of responsible moral judgement - is the need to include in this step a sense of the likely time-frames of specific aspects of malleability and/or intractability (from 5 minutes to forever). Knowing these time-frames, and integrating them into strategy, can mean the difference between advocating a course of action that leads to well-being and the consummation of justifiable interests, and advocating one that leads to defeat, victimization and suffering. vii) The extent to which the outcomes associated with (i), which are understood as more or less determinate, will populate or colonise the future in such a way that they will rule out, or make much more difficult, the pursuit of other identifiable policies or outcomes in the future. That is, attempting to specify in advance the ways in which present action-orientations towards the future are likely to alter future strategic contexts in such a way as to narrow down which outcomes it will then be possible to pursue. There will be certain things that will, at that future point, have been so crystallised by past practices as to be well-nigh intractable. viii) Closely linked to the last two points; the need to have some awareness of the extent to which “likely” future consequences in relation to (i), taking account of (ii)-(vii), are determinate or indeterminate, and to develop a political and moral sensibility (of wisdom and judgement) towards these. It is irresponsible to advocate to actors strategies that have little chance of working and which carry great risks of potential suffering. Actors may still choose to pursue such strategies for deontological normative purposes, but even here there is a responsibility to illuminate and expose those risks, and to attempt to develop the best possible non-voluntaristic policies. Conclusion I hope to have shown that the systematic combination of strong structuration theory with Adam’s insights into futures can provide a powerful basis for case study analysis. The approach draws attention to interrelated aspects of social 64 Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis processes, constraints and possibilities that are otherwise difficult to articulate. It is no doubt often the case with respect to specific tasks and dilemmas in everyday life that the “natural attitude” would not recognise a notion of the future as empty. However, this robust common sense stance is in a good deal of tension with the hubris of the more generalised ideology of modernity sketched out by Adam, and chronically invoked by political, administrative and strategic rhetoric. It is not easy to think systematically against the dominance of this latter ideology, drawing out all the implications of futures-in-train and a grounded imagination of future presents as fact for imminent judgements about capabilities, plural causation, strategy and responsible advo- 65 cacy. It is towards developing the ability to do this that the theoretically informed case study approach of this paper is directed. Acknowledgements This paper was first presented to a Round Table discussion on “Future Matters for Social Theory?” at the University of Cagliari, Sardinia, and I would like to thank the other participants in this event for a stimulating discussion, and particularly the organizers, Giuliana Mandich and Valentina Cuzzocrea. Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis NOTE [1] See Stones, 2005, and subsequent applications, for example, Jack and Kholeif, 2007, Coad and Herbert, 2009; Delormier et al, 2009; and Greenhalgh and Stones, 2010. See Parker, 2006, for a review article on the strong structuration approach [2] For an elaboration of agent’s or strategic context analysis see Stones, 1991, and 2005, 121-25 [3] For a powerful elaboration of the case for a more systematic inclusion of the emotional investments and moral-commitments of actors into social theory see Andrew Sayer’s The Moral Significance of Class, 2005, Cambridge, Cambridge University Press [4] On plurality within the general-dispositional structures see Stones, 2005, pp. 104-7 [5] See Stones, 2005, pp.100-104 [6] See Stones, 2005, pp.76-8, 81-84, 189-90 [7] On the relationship of responsible advocacy to Lukes’s notion of real interests (2005) see Stones, 2009a [8] See Boltanski and Thevenot, 1991/2006, and 1999 for an extended and illuminating account of orientations to different domains that combines a sense of objective settings with the phenomenological tradition. Also see Stones, 2009b RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI B. Adam, “Future Matters: Challenges for Social Theory and Social Inquiry”, paper presented to a Round Table discussion on Future Matters for Social Theory, 29 October, 2009, University of Cagliari J. Alexander, R. Eyerman, B. Giesen, N. Smelser, P. Sztompka, Cultural Trauma and Collective Identity, Berkeley, University of California Press, 2004 M. Archer, Realist Social Theory: The Morphogenetic Approach, Cambridge, Cambridge University Press, 1995 Aristotle, Ethics, J. A. K. Thomson (trans.), Harmondsworth, Penguin, 1976 Z. Bauman, Liquid Modernity, Cambridge, Polity Press, 2000 U. Beck, Risk Society, London, Sage, 1992 R. Bernstein, Philosophical Profiles: Essays in a Pragmatic Mode, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1986 L. Boltanski, L. Thevenot, On Justification: Economies of Worth, Tr. Catherine Worth, Princeton University Press, 1991/2006 L. Boltanski, L. Thévenot, The Sociology of Critical Capacity, European Journal of Social Theory, vol. 2, no.3, August, 1999 A. Coad, I. Herbert, Back to the future: New potential for structuration theory in management accounting research? Management Accounting Research, Volume 20, Issue 3, September, 2009 I.L. Cohen, Structuration Theory: Anthony Giddens and the Constitution of Social Life, London, Macmillan, 1989D. Conn, “As United Drowns in Debt, it is Now Clear the Glazers Have Reaped a Fortune”, The Guardian, Jan 12th, 2010 T. Delormier, K.L. Frohlich, L. Potyin, “Food and Eating as Social Practice – Understanding Eating Patterns as Social Phenomena and Implications for Public Health”, Sociology of Health and Illness, Vol.31, No.2, 2009 A. Elon, “Olmert and Israel: The Change”, New York Review of Books, February 14th, 2007 A. Giddens, Central Problems in Social Theory: Action, Structure and Contradiction in Social Analysis, London, Macmillan, 1979 66 Rob Stones Futures-in-Train, Strategic Contexts, and Political Wisdom: A Framework for Case Study Analysis A. Giddens, The Constitution of Society: Outline of the Theory of Structuration, Cambridge, Polity Press, 1984 A. Giddens, The Consequences of Modernity, Cambridge, Polity Press, 1990 T. Greenhalgh, R.Stones, Theorizing Big IT Programmes in Healthcare: Strong Structuration Theory Meets Actor Network Theory, Social Science and Medicine, forthcoming, 2010 I. Herbert, “Glazers Raise the Spectre of Old Trafford Sale to Cut Debt”, The Independent, 14th January, 2010 L. Jack, A. Kholeif, Introducing Strong Structuration Theory for Informing Qualitative Case Studies in Organization, Management and Accounting Research, Qualitative Research in Organizations and Management: An International Journal. Vol.2, Issue 3, 2007 S. Lukes, Power: A Radical View (expanded second edition), London, Palgrave Macmillan, 2005 A. Margalit, The Ethics of Memory, Cambridge, Harvard University Press, 2002 G. McLennan, “Critical or Positive Theory? 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Stewart, “Afghanistan: What Could Work”, New York Review of Books, January 14th, 2010 R. Stones, “Strategic Context Analysis: a New Research Strategy for Structuration Theory” Sociology, vol. 25, no.3, 1991. Reprinted in C. Bryant, D. Jary (eds.) Anthony Giddens: Critical Assessments, volume IV, London, Routledge, 1997 R. Stones, “Refusing the Realism-Structuration Divide”, European Journal of Social Theory vol.4 no.2 (2001). Reprinted in O’Donnell, M. (ed.) Structure and Agency [Sage Key Debates in Sociology] (London, Sage, May 2010, forthcoming), 2001 R. Stones, Structuration Theory, London, Palgrave Macmillan, 2005 R. Stones, “Power and Structuration Theory”, in Stewart Clegg and Mark Haugaard (eds.), The Sage Handbook of Power, London, Sage, 2009 R. Stones, “Theories of Social Action”, in Bryan Turner (ed.) The New Blackwell Companion to Social Theory, Oxford, Basil Blackwell, 2009b J. Sydow, A. Windeler, Managing inter-firm networks: a structurationist perspective, in C. 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Questa nuova semantica del futuro influenza in modo profondo anche i modi e le forme attraverso le quali i giovani costruiscono le loro biografie. In questo scenario, ad esempio, il “progetto di vita”, cuore della biografia intesa in senso moderno, appare come una dimensione sempre più evanescente. Sarebbe tuttavia fuorviante considerare la relazione fra i giovani e l’avvenire esclusivamente nei termini di una pura e semplice perdita del futuro. In realtà, come viene messo in luce dalle ricerche, una parte del mondo giovanile è oggi impegnata in interessanti sperimentazioni temporali, finalizzate a mantenere il controllo soggettivo sul tempo di vita nonostante il paesaggio sociale nebbioso in cui si trovano a vivere. 68 Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” Introduzione Tradizionalmente il meccanismo denominato “differimento delle gratificazioni” – la repressione degli impulsi edonistici, la determinazione a rinviare in là nel tempo la possibile soddisfazione che il presente può garantire in vista dei benefici che questa procrastinazione rende possibili – è stato alla base dei processi di socializzazione. Se consideriamo quella giovanile una fase biografica di preparazione alla vita adulta, il differimento delle gratificazioni appare come la chiave di volta per garantirne il successo. In questa prospettiva, infatti, è grazie alla capacità di vivere il presente in funzione del futuro, utilizzando il tempo quotidiano come essenziale strumento per la realizzazione dei progetti – dunque sacrificando gli aspetti “espressivi” dell’azione a favore di quelli strumentali [1] – che il processo di transizione può avere esito positivo. Qui il presente non è soltanto un ponte tra il passato e il futuro, ma la dimensione che “prepara” il futuro. Allo stesso modo il tempo di vita giovanile, grazie alla relazione positiva con il presente costruita intorno al divenire che esso prefigura, può essere rappresentato come un tempo di attesa attiva, una fase che deve consentire una transizione a sua volta positiva all’età adulta. Come ha scritto Alessandro Cavalli in riferimento allo stretto nesso tra differimento delle gratificazioni e disciplina temporale: «Se lo scopo è determinato e desiderabile, anche la necessità di sopportare o di imporsi una […] disciplina diventa, soggettivamente, una strategia adeguata» [2]. L’identità personale, come conseguenza, si costruisce intorno ad una proiezione di sé in là nel tempo (Chi voglio diventare?) grazie alla quale non solo il passato ricava luce, ma viene anche tollerata l’eventuale frustrazione che può accompagnare le esperienze nel presente. Se dunque il futuro è considerato come la dimensione depositaria del senso dell’agire [3]; se è rappresentato come il tempo strategico nella definizione di sé, il veicolo attraverso il quale, in diretta congiunzione con il passato, prende forma la narrazione biografica, allora la posticipazione della gratificazione può essere accettata. In que69 sta prospettiva, il futuro è lo spazio per la costruzione di un progetto di vita [4] e, insieme, per la definizione di sé: progettando che cosa si farà in futuro si progetta anche, in parallelo, chi si sarà. In sostanza, la prospettiva biografica cui il differimento delle gratificazioni rinvia implica la presenza di un orizzonte temporale esteso, una forte capacità di autocontrollo, una condotta di vita in cui la programmazione del tempo risulta cruciale. Il tempo quotidiano va accuratamente investito e fatto fruttare in analogia al denaro, va programmato e il suo uso razionalizzato. Max Weber ha scritto pagine memorabili su questo specifico orientamento all'azione ne «L’etica protestante e lo spirito del capitalismo» [5]. Continua ad accadere che questo meccanismo venga dato per scontato e che le nuove condizioni temporali dell’agire, benché evocate sovente nel discorso comune e anche nella comunicazione mediatica, non siano adeguatamente messe a tema nella riflessione sulle costruzioni biografiche giovanili [6]. Occorre chiedersi, ad esempio, se e in che misura la relazione fra progetto, tempo biografico e identità, che il differimento delle gratificazioni presuppone, possa essere ancora considerata valida in un clima sociale, come quello contemporaneo, dove la componente dell’incertezza tende a dominare, e dove i vissuti di contingenza lievitano [7]. Quando infatti l’incertezza aumenta oltre una certa soglia e si associa non solo all’idea del futuro, ma alla stessa realtà quotidiana mettendone in discussione la dimensione data-perscontata, allora al “progetto di vita” viene sottratta la sua propria base. Inoltre, là dove il mutamento, come accade ai nostri giorni, è straordinariamente accelerato e il dinamismo, la capacità di performance sono imperativi; dove l’ immediatezza è un parametro per valutare la qualità di un’azione, investire sul futuro a lungo termine finisce per apparire tanto poco sensato quanto procrastinare la soddisfazione. Più che rinunciare alle gratificazioni che il presente può offrire conviene allora addestrarsi a “cogliere l’attimo”, non chiudere le porte all’imprevisto, disporsi mentalmente in termini positivi nei confronti di un’indeterminatezza che si carica di potenzialità [8]. Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” In questo orizzonte temporale compresso, il significato stesso dell’età giovanile si trasforma. Chi la vive tende ad apprezzarla più per quello che può offrire nel presente piuttosto che per il tempo futuro che essa virtualmente dischiude. Come conseguenza, l’identità si struttura intorno al presente: la “buona vita” non è più basata su impegni di lunga durata, l’idea di stabilità perde di valore [9]. Per comprendere in modo adeguato la profondità di queste trasformazioni, concentrerò qui la mia attenzione in primo luogo sugli accenti e i tratti semantici nuovi che caratterizzano la dimensione del futuro. In un secondo momento, mi soffermerò sulle trasformazioni contemporanee nel modo di concettualizzare il corso di vita giovanile e il progetto biografico. Utilizzando anche i risultati di una recente ricerca condotta in Italia sulla relazione tra giovani e temporalità a cui ho personalmente preso parte [10], prenderò infine in considerazione alcune nuove forme di progettualità giovanile, frutto della crisi della concezione della gioventù come fase di transizione all’età adulta e del meccanismo del differimento delle gratificazioni che ne è alla base. Rischi globali e crisi del futuro: la modernità contemporanea La modernità contemporanea appare governata in modo crescente da processi quali l’intensificarsi della globalizzazione e dei mercati globali, il pluralismo dei valori e delle autorità, l’individualismo istituzionalizzato. Sul piano culturale, vengono favorite le forme di identità composita, in cui tratti globali e locali si mescolano imponendo la convivenza anche conflittuale tra diverse immagini di sé – un processo che tende a produrre “identità cosmopolite” [11]. Come sappiamo dalla nostra esperienza diretta e non solo attraverso riflessioni teoriche, caratterizza questa modernità una dimensione di rischi globali: crisi economica ed ambientale, terrorismo internazionale, minacce (ad esempio, sanitarie) di tipo planetario, nuove modalità di diseguaglianza sociale, a partire dalla povertà crescente di aree sempre più vaste del pianeta e, ad essa intrecciate, nuove forme di sottoccupazione dai riflessi devastanti sul piano esistenziale. In questo scenario, c’è sempre meno spazio per dimensioni come la controllabilità e la certezza, aspetti che hanno contribuito a disegnare il profilo sociale della prima modernità. Mentre quest’ultima può essere dunque considerata espressione del progetto illuminista di superamento dell’idea di limite – di ogni limite, a partire da quelli legati alla conoscenza la modernità contemporanea ci obbliga a confrontarci con l’irrealizzabilità dell’idea di controllo [12]. Se il futuro cui guarda la prima modernità è il futuro aperto, il futuro della modernità contemporanea è il futuro indeterminato e indeterminabile, governato dal rischio – oltre che dall’impossibilità, almeno ad un primo sguardo, di stabilire nessi significativi fra eventi/processi e relative responsabilità [13]. Soffermiamoci brevemente su questa dimensione, che si rivela di importanza strategica per comprendere la portata dei mutamenti intervenuti nell’interpretazione e nel vissuto del futuro e, insieme, nella costruzione delle identità giovanili. Il rischio appare, in questo scenario, più come esito della perdita di relazione fra intenzione e risultato, fra razionalità strumentale e controllo piuttosto che, nell’accezione scientifica comune, come relazione fra un evento e la probabilità che esso si verifichi. Mentre nella prima modernità con il termine rischio veniva sostanzialmente concettualizzata una modalità di calcolo di conseguenze non prevedibili – si trattava, in sostanza, di “rendere prevedibile l’imprevedibile” attraverso il calcolo probabilistico – nella modernità contemporanea la riflessione sui rischi impone strumentazioni concettuali di altro tipo. Questi rischi appaiono scarsamente governabili, sono di portata globale e la loro prevenzione risulta particolarmente impervia. Minacciosi, essi avvolgono il futuro in una cappa di pesante incertezza. L’incertezza peculiare che questi rischi generano è legata soprattutto al loro carattere umanamente prodotto, portato della crescita della conoscenza che caratterizza la nostra epoca: rischi incommensurabili ma umanamente prodotti sono i mutamenti climatici o i rischi legati al nucleare; lo stesso vale per malattie come la BSE o la SARS. In 70 Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” un’epoca di rischi globali qual è la nostra, dunque, si interrompe l’imponente processo di “colonizzazione del futuro” avviato dalla prima modernità. Il futuro si sottrae al nostro controllo, con ripercussioni profonde sul piano politico e sociale. La nuova realtà generata dalla diffusione di rischi globali trasforma l’avvenire da terra promessa a scenario a tinte fosche, quando non apertamente minacciose, per l’esistenza collettiva. E’ importante sottolineare lo stretto legame che intercorre tra questa particolare categoria di rischi e il futuro. Per loro stessa costituzione, infatti, questi rischi sono per così dire, “costruiti” e nutriti in senso proprio dalla relazione con il futuro – sebbene non ci dicano nulla su ciò che, in positivo, nel futuro occorre perseguire. Non ci parlano di “beni”, ma concentrano l’attenzione esclusivamente sui “mali” che il futuro può diffondere. L’idea di futuro cui essi rinviano è, dunque, al tempo stesso non determinata e improntata a un diffuso senso di allarme associato a una sensazione di impotenza. Nuove forme di temporalizzazione Gli scenari di rischi non commensurabili menzionati (e capaci, tra l’altro, di proiettarsi su archi temporali anche molto estesi: il divario temporale tra le azioni e i loro effetti, nell’epoca del rischio, può risultare decisamente consistente [14]) hanno ricadute sui modi di temporalizzare sui quali è opportuno soffermarsi. Se intendiamo, con il termine temporalizzazione, quella prospettiva in base alla quale passato e futuro, esperienze e aspettative, debbono essere continuamente rapportate le une alle altre e coordinate sempre di nuovo [15], non è difficile rendersi conto che in un’epoca di rischi diffusi la capacità di temporalizzare tende a frammentarsi. Un orizzonte futuro occupato dalla dimensione del rischio impedisce ad esempio di costruire narrazioni biografiche in cui ciascun evento appaia legato all’altro e capace sensatamente di condizionarlo. Analizzando i riflessi temporali delle condizioni di incertezza contemporanea afferma ad esempio Zygmunt Bauman [16]: «In passato, i periodi di 71 tempo ricevevano il proprio significato dall’anticipazione di nuovi segmenti, ancora a venire, del continuum temporale; ora ci si aspetta che traggano il proprio senso per così dire dall’interno: che si giustifichino senza alcun riferimento al futuro, o con riferimenti soltanto superficiali. Gli intervalli di tempo sono disposti l’uno accanto all’altro piuttosto che in una progressione logica; non c’è una logica preordinata nel loro succedersi; possono cambiare posto facilmente, senza trasgredire alcuna regola ferrea: i settori del continuum temporale sono in teoria intercambiabili. Ogni singolo momento deve autolegittimarsi e deve offrire la massima soddisfazione personale». Questa polverizzazione dell’esperienza del tempo – è quasi inevitabile - porta con sé un’attenzione speciale nei confronti del presente, «l’unica dimensione del tempo che viene frequentata senza disagio e su cui si sofferma senza difficoltà l’attenzione» [17]. Ancora una volta, i giovani sono un termometro particolarmente sensibile di queste trasformazioni. Già negli anni Ottanta del Novecento le ricerche sul tempo dei giovani [18] registrano ad esempio il passaggio dal futuro al presente, in particolare il “presente esteso”, come area di potenziale governo del tempo sociale e individuale. Con il termine “presente esteso” si intende quello spazio temporale che bordeggia il presente, acquistando crescente valore in parallelo all’accelerazione temporale contemporanea, favorita tra l’altro dalla velocità dei tempi tecnologici e dall’esigenza di flessibilità che fa loro da corollario. Secondo Helga Nowotny, che ha approfondito questo concetto [19], abolita la categoria ormai poco funzionale di futuro diventa necessario riformulare il concetto di presente, costituendolo come referente centrale degli orizzonti temporali contemporanei. In questa prospettiva, non più il futuro ma il presente più prossimo – quel lasso temporale sufficientemente breve da non sfuggire al dominio umano e sociale, ma anche sufficientemente ampio da consentire qualche forma di proiezione in là nel tempo – diventerebbe il nuovo tempo dell’azione. Nei quadri temporali di fine Novecento, in sostanza, il presente (o- Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” ra più, ora meno esteso) appare come la sola dimensione temporale disponibile per la definizione delle scelte, un vero e proprio orizzonte esistenziale che, in un certo senso, include e sostituisce futuro e passato [20]. In questo contesto appare chiara la consunzione cui è sottoposta l’idea stessa di progetto – possiamo definire qui il progetto come una forma di selezione, soggettivamente costruita, fra i molteplici “futuri virtuali” disponibili, capace di distillare, dalle fantasie e dai desideri che li sostanziano, obiettivi perseguibili, dotati di una chiara cifra temporale [21]. Ma si può ancora parlare di biografia in senso proprio in assenza di progetto? La prima modernità ha delineato uno scenario in cui non solo i due termini si presuppongono a vicenda, ma progetto collettivo e progetto individuale rappresentano due facce della medesima medaglia. Gli obiettivi del progetto collettivo – libertà, democrazia, uguaglianza, benessere economico – appaiono come le condizioni base per la realizzazione del progetto individuale. Le biografie, a loro volta, si strutturano intorno a questa coincidenza. La seconda modernità tende a cancellare, con l'idea di continuità temporale, anche quella di progetto che lo zenith della modernità ha costruito. Oggi ci troviamo dunque di fronte a costruzioni biografiche di carattere inedito, prive di forme progettuali tradizionalmente intese. Possiamo prendere a prestito da Lévi-Strauss [22] il concetto di bricolage – figura del pensiero magico e arcaico – per mettere a fuoco il particolare stile cognitivo che le guida. Per Lévi-Strass il bricoleur è colui che esegue un lavoro con le proprie mani utilizzando strumenti diversi da quelli usati dalla persona di mestiere. Ciò che colpisce, osservandolo, è la sua capacità di adattarsi ai materiali disponibili, di costruirsi passo passo l’equipaggiamento necessario. Mancando un progetto specifico a monte, l’attrezzatura viene creata al momento. Ciascun elemento dell’insieme sul quale il bricoleur agisce non è vincolato a un impiego pre-determinato; l’esito del lavoro è legato alle condizioni e ai mezzi con cui il soggetto si confronta qui-e-ora. I risultati del lavoro intrapreso sono perciò per definizione contingenti. Non solo. L’intenzione iniziale può facilmente risultare estranea al prodotto finale. In un certo senso, il bricoleur – guidato da una logica essenzialmente “pratica” – personifica la separazione fra razionalità e intenzionalità. Alberto Melucci ha evocato la figura del “nomade” come metafora delle traiettorie biografiche contemporanee [23]. I “nomadi del presente” non perseguono una meta, vagano/esplorano avvolti nella provvisorietà. Non si confrontano con l’idea di frontiera, con un’idea che lega spazio e tempo a qualcosa che “sta di fronte” e, in quanto tale, va “affrontato”. Le frontiere, nell’universo mediatico in cui viviamo, si sono spalancate. I “nomadi del presente” si aggirano, senza una meta precisa, fra luoghi tra loro non collegati, altrettante stazioni della loro biografia le cui connessioni possono eventualmente essere identificate, invece che sulla base di un progetto, come risultato di una riflessione ex post. Il tempo di frammenta in episodi, ciascuno con un proprio sistema temporale di riferimento. Prende piede, in questo contesto, la tendenza alla sperimentazione – non intesa, tuttavia, secondo il consueto riferimento ad un itinerario per prove ed errori, finalizzato ad individuare le vie più idonee per raggiungere un obiettivo dato. Il processo è invertito: si tentano «applicazioni sempre diverse delle capacità, dei talenti e delle altre risorse che abbiamo, crediamo di avere o speriamo di avere – cercando di scoprire – quale risultato ci dia maggiore soddisfazione» [25]. Ne discende un orientamento all’azione in base al quale «il segreto del successo consiste nel non essere troppo conservatori, nell’evitare di abituarsi a un caso particolare, nell’essere mobili e sempre a portata di mano» [26]. Nuove tendenze nella relazione fra i giovani e il futuro I riflessi di questi processi sui modelli di azione, sui modi di interpretare la realtà, sugli stili di vita e i modi di definizione dell’identità possono essere facilmente intuiti. In accordo al tema affrontato in questa sede, vorrei in particolare richiamare l’attenzione sul ruolo che questi mutamenti gio72 Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” cano nel rimettere a tema la stessa concezione della fase di vita giovanile. Per definizione, infatti, quest’ultima ha una doppia connessione con il tempo: da un lato è considerata una condizione temporanea, destinata a venir meno con lo scorrere del tempo; dall’altro, i giovani sono socialmente richiesti di costruire forme di relazione positiva tra il proprio tempo di vita e il tempo sociale. Questa relazione si sostanziava, fino a qualche decennio fa (per i soggetti di sesso maschile), in fasi biografiche lineari e ben riconoscibili: dapprima la preparazione al lavoro attraverso la formazione scolastica; poi l’esercizio del lavoro remunerato, sorgente centrale di identità e contrassegno indiscusso dell’età adulta; infine il ritiro dal lavoro. Oggi questa traiettoria biografica, capace di garantire una traiettoria prevedibile per l’ingresso nella vita adulta, costituisce non più la regola, ma l’eccezione. Per i giovani il processo di deistituzionalizzazione del corso di vita, che trascina con sé anche la fine del concetto di “biografia normale”, comporta il venir meno di un aspetto sin qui determinante nella riflessione sulla condizione giovanile: l’identificazione della gioventù con un insieme di tappe, socialmente normate, che conducono progressivamente verso il mondo adulto [27]. Queste tappe, abitualmente sintetizzate attraverso il termine “transizione” identificavano la fase di vita giovanile con un “attraversamento” guidato di passaggi di status. Come nelle tre fasi biografiche indicate da Kohli, anche qui la relazione tra individuo ed istituzioni era garantita dall’intreccio tra tempo di vita e tempo sociale, sulla base di una sequenza lineare ben riconoscibile. Si diventava adulti in senso pieno una volta coperto quel percorso che prevedeva, in rapida successione, “tappe” quali la conclusione degli studi, l’inserimento nel mondo del lavoro, l’abbandono della casa dei genitori per una soluzione abitativa indipendente, la costruzione di un nucleo familiare autonomo e la nascita dei figli. Oggi, sebbene questi eventi siano destinati prima o poi a verificarsi, è venuto meno tanto il loro ordine e la loro irreversibilità quanto la cornice sociale che ne garantiva il senso complessivo. 73 Prima ancora che dalla sequenzialità, linearità e rapida successione delle singole tappe, questa cornice di senso era frutto del valore simbolico che, nel loro insieme, esse rivestivano nella vita dell’individuo giovane. Per loro tramite, infatti, mentre trovava conferma il carattere “a termine” della fase di vita giovanile, potevano entrare in positiva congiunzione i due poli dell’autonomia (interiore) e dell’indipendenza (sociale). La gioventù concepita come fase di transizione, in una parola, permetteva di pensare il rapporto tra identità individuale e identità sociale come a quello tra due dimensioni non solo complementari, ma sovrapposte in modo praticamente perfetto. La certificazione della raggiunta autonomia interiore era garantita dal progressivo passaggio a gradi sempre maggiori di indipendenza, resi possibili dalla relazione con istituzioni sociali sufficientemente credibili e non frammentate. Lo scenario è ora mutato. Le istituzioni sociali continuano a scandire i tempi del quotidiano, ma è venuta meno la loro capacità di garantire ai soggetti una dimensione fondamentale nella costruzione dell’individualità: il senso di continuità biografica, una traiettoria socialmente normata verso l’età adulta [28]. Il punto di arrivo di questa traiettoria, a sua volta, è incerto non meno degli itinerari per raggiungerlo. La continuità biografica diventa allora frutto della capacità individuale di costruire e ricostruire sempre di nuovo cornici di senso, sempre nuove auto-narrazioni. L’obbligo all’individualizzazione delle biografie – le narrazioni biografiche devono essere rigorosamente auto-organizzate e auto-tematizzate, insieme “veloci” e creative –caratterizza, come conseguenza, la fase storica in cui viviamo [29]. Questo implica una nuova enfasi sull’autodeterminazione, sull’autonomia e sulla scelta (senza per questo cancellare i solchi profondi tracciati dalle differenze di classe, educative, di appartenenza etnica e, su un piano forse meno appariscente ma non meno potente, quelle di genere). Per i giovani, tutto ciò si traduce nella conquista di nuovi percorsi di libertà e spazi di sperimentazione, ma anche nella perdita del carattere dato per scontato di una relazione positiva con il tempo sociale. Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” Se è vero che l’allungamento della fase giovanile di vita ne costituisce certamente oggi l’aspetto più appariscente, la trasformazione decisiva consiste tuttavia nel venir meno della possibilità di ancorare le esperienze che i giovani compiono - in questa fase, come sappiamo, esse si susseguono con un’intensità esistenziale e un ritmo quasi irripetibile – al mondo delle istituzioni sociali e politiche. La crisi del futuro, e del progetto, che abbiamo preso in considerazione in queste pagine è diretta espressione di questa difficoltà. Al suo centro, per i giovani, c’è la deconnessione tra traiettorie di vita, ruoli sociali e legami con l’universo delle istituzioni capaci di dare forma stabile all’identità. Così, ad esempio, si può entrare nel mercato del lavoro, uscirne poco dopo e ancora rientrarvi senza poter identificare in questi ingressi una progressione verso l’assunzione di ruoli lavorativi stabili; o, per quel che riguarda gli studi universitari, interromperli, riprenderli e poi concluderli senza che l’acquisizione di credenziali educative superiori rappresenti una vera e propria “svolta” sul piano biografico, un empowerment capace di aprire la via a situazioni esistenziali di segno nuovo: non solo sotto il profilo della stabilità del lavoro ma anche, ad esempio nell’Europa mediterranea, per quel che riguarda la scelta di vivere soli o con un partner, oppure di costruire un proprio nucleo familiare. In una parola, l’autonomia esistenziale si dissocia dall’acquisizione della indipendenza sociale ed economica. E’ tuttavia essenziale non limitare la riflessione esclusivamente agli aspetti di perdita, di riduzione delle possibilità di azione, associati ai processi di ridefinizione temporale della modernità contemporanea. Esiste infatti anche un diverso versante di questi stessi processi, una faccia in luce che occorre analizzare con altrettanta attenzione. Su di essa sono disegnate le strategie che i soggetti costruiscono per fare fronte a queste trasformazioni e, fin dove possibile, controllarle. Come anche la recente ricerca sui mutamenti dei modi di vivere la relazione con il tempo da parte dei giovani – ricordata in apertura di queste riflessioni – ha messo in luce [30], l’esito di questi importanti processi di ri-strutturazione della rela- zione tra giovani, tempo biografico e tempo sociale non si riduce all’assolutizzazione del presente immediato in congiunzione alla glorificazione del qui-e-ora. Le identità non si declinano esclusivamente al presente. Seppure questa opzione possa apparire relativamente diffusa, essa non esclude altre possibilità. Diversi giovani sembrano ad esempio impegnati nella ricerca di modalità di relazione nuove tra il processo di produzione e creazione personale che al futuro è comunque associato e le condizioni di incertezza specifiche in cui esso è oggi vissuto. Il futuro viene dunque messo in relazione insieme all’apertura potenziale – il futuro costituisce, oggi più che mai, lo spazio del divenire possibile – ma, al contempo, a un’indeterminazione declinata sempre più frequentemente come insicurezza. Dentro la virtualità che, per definizione, caratterizza l’avvenire (ciò che è in potenza, ma non in atto), si delinea, in altre parole, un intreccio peculiare tra l’ “anarchia del futuro”, per utilizzare l’espressione di Elizabeth Grosz [31], e l’esitazione, l’ansia, il desiderio, ora più, ora meno sotterraneo, di sostituire al progetto il sogno. Di fronte alla crescita di questi tratti ambivalenti del futuro, appare fondamentale la capacità di ciascuno/di ciascuna di elaborare strategie cognitive in grado di garantire il controllo sul tempo di vita nonostante l’aumento della contingenza: ad esempio sviluppando l’abilità di mantenere una direzione o una traiettoria nonostante l’ impossibilità di anticipare la destinazione finale. In una recente ricerca condotta tra giovani francesi e spagnoli dove un analogo orientamento biografico è emerso, esso è stato efficacemente definito “strategia dell’ indeterminazione” [32]. Con questo termine si è inteso sottolineare la crescente capacità dei giovani con maggiori risorse riflessive (ad esempio gli studenti) di leggere l’incertezza del futuro come moltiplicazione delle possibilità virtuali, e l’imprevedibilità che all’avvenire si associa come potenzialità aggiuntiva invece che limite dell’azione. In altre parole, di fronte ad un futuro sempre meno ricongiungibile al presente attraverso una linea ideale che li unisce potenziandone reciprocamente il senso, una quota di giovani - forse non maggioritaria, ma 74 Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” certo culturalmente trainante - elabora risposte capaci di neutralizzare il timore paralizzante del’avvenire. In modo analogo, una parte dei nostri intervistati, ragazze e ragazzi nella medesima misura, esprime in modo netto la tendenza ad aprirsi in positivo all’imprevedibilità, mettendo anticipatamente in conto la possibilità di cambiamenti di rotta anche repentini, di risposte da costruire in “tempo reale”, via via che le “occasioni” si presentano. Il training alla velocità che i ritmi sociali impongono viene, in questo caso, “sfruttato” al meglio: essere veloci diventa un atout, permette in positivo di “cogliere l’attimo”, di avviare una sperimentazione che può avere favorevoli ricadute sul tempo di vita nella sua interezza. Per questi giovani, l’incertezza del futuro significa allora disponibilità all’incontro con l’accidentale, con il fortuito – il “caso” di cui molti tra i nostri intervistati e le nostre intervistate appaiono estimatori. Qui il controllo sul tempo biografico non si identifica con la capacità di portare avanti progetti specifici neutralizzando gli eventuali imprevisti che si incontrano sul cammino. Piuttosto, controllo equivale alla volontà di raggiungere gli obiettivi generali che ci si è posti – gran parte dei giovani, pur in assenza di veri e propri progetti esistenziali, possiede uno o più obiettivi di ampio respiro collocati nel futuro: per quel che riguarda il lavoro, la vita privata o, piuttosto, la “cura di sé” à la Foucault. L’aspetto innovativo di questa nuova costruzione biografica – che ha al proprio centro la tensione verso un “futuro senza progetto” – è la capacità di accettare la frammentazione e l’incertezza dell’ambiente come dato non eliminabile, da trasformare in risorsa grazie ad un esercizio costante di consapevolezza e riflessività. Va subito sottolineato che coloro che esprimono questa strategia temporale appaiono specialmente ricchi di risorse – culturali, sociali ed economiche. Se i soggetti dominanti della nostra epoca sono coloro che si differenziano in virtù della capacità di fare buon uso, a fini di potere, della velocità e della mobilità, questi giovani sembrano inserirsi sulla loro scia. Chi invece possiede risorse sociali e culturali scarse sembra soprattutto patire la perdita del futuro progressivo e della pro75 gettualità tradizionale della prima modernità. Per questi giovani, il futuro, fuori controllo, può essere soltanto azzerato, cancellato per far posto a un presente privo di fascino. Nel loro caso, come ha descritto bene Robert Castel riflettendo sull’individualismo contemporaneo, siamo di fronte a una forma di individualismo “per difetto”: qui l’individuo non possiede i supporti necessari per costruire la propria autonomia, ed è schiacciato su un’identità senza spessore temporale [34]. L’accelerazione sociale diventa allora, in modo palese, fonte di esclusione sociale, si traduce in una staticità patita. La maggior parte dei giovani, ragazzi e ragazze, in risposta alle condizioni sociali di forte insicurezza e di rischio trova soprattutto rifugio in progetti a breve e brevissimo termine, che prendono come area temporale di riferimento il “presente esteso”. Essi reagiscono al “tempo corto” della società dell’accelerazione con una progettualità sui generis, che si esprime su archi temporali minimi e, anche per questo, appare decisamente duttile. In alcuni casi essa sembra configurarsi essenzialmente come reazione all’inquietudine che l’idea stessa del futuro evoca; in altri, assume la caratteristica di forme progettuali improntate alla concretezza – per lo più legate al portare positivamente a termine le attività già avviate – capaci di dare risposta sia al bisogno di padronanza sul tempo biografico in un ambiente veloce e incerto, sia alla pressione sociale per risultati a breve termine. In quest’ultimo caso, la tipologia dei “progetti corti” appare come una sorta di “terza via” fra la speciale capacità di gestione della complessità propria del primo tipo di orientamento biografico preso in considerazione, capace di relazionarsi al futuro senza formulare progetti, e il riferimento esclusivo al presente di chi non riesce a costruire reazioni adeguate alla crescita di indeterminazione dell’avvenire. La concentrazione su un’area temporalmente limitata consente infatti la costruzione di un vissuto del tempo come campo unificato e continuo, soggettivamente controllabile; a sua volta, il dominio sui tempi di vita è ricercato non attraverso l’elaborazione di mete temporalmente distanti (obiettivo irrealistico nella società dell’ incertez- Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” za), ma nella loro pratica qui-e-ora. Questa “strategia della via di mezzo” appare specialmente attraente perché, mentre non impedisce del tutto una proiezione nel futuro attraverso il progetto, risulta in sintonia con l’orientamento duttile reso necessario da un’epoca in cui i processi di mutamento sono rapidi e spesso imprevedibili. In conclusione: in un tempo in cui il futuro a medio-lungo termine non può essere messo a tema senza suscitare preoccupazione e spesso un sentimento di vero e proprio timore, un metodo di azione fondato sul “valutare di volta in volta”, sul “quando mi si aprono delle porte cercare di non chiuderle”, sul “cogliere le occasioni appena si presentano”, può rappresentare una strategia razionale per trasformare l’imprevedibilità in una chance di vita, per volgere l’opacità del futuro in un’opportunità per il presente. Per disporsi in positivo verso il divenire. Se, in questo scenario, il meccanismo del differimento delle gratificazioni conferma la propria inadeguatezza come standard di riferimento per l’agire sociale, un numero crescente di giovani appare tuttavia capace di sostituirlo con modelli di azione costruiti intorno a nuove forme di disciplina temporale (ad esempio per periodo brevi, ma intensi, “a termine”), di programmazione e di controllo attento del tempo quotidiano. In un periodo storico di crisi del futuro (e di crisi della concezione della gioventù come transizione alla vita adulta tout-court), si delinea dunque un nuovo “stato d’animo” giovanile nei confronti del tempo. Al suo centro c’è il bisogno di non farsi fagocitare dalla velocità degli eventi, di controllare il mutamento attrezzandosi ad agire in modo pronto, di non sprecare il tempo lasciando che “le cose accadano”, di non farsi mettere alle corde dall’insicurezza diffusa. Anche se il tempo che si vive è oltremodo incerto, ciò che appare importante è soprattutto “mantenere la rotta”, non perdere la direzione interiore. Se queste sperimentazioni biografiche avranno esito positivo, consentendo comunque ai giovani la necessaria integrazione sociale, dipenderà anche dalla capacità del mondo adulto di riconoscerne la legittimità come espressioni di costru- zioni identitarie in sintonia con le rappresentazioni del tempo dominanti nel nuovo secolo. 76 Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” NOTE [1] Si può considerare come “espressiva” quell’azione che non presuppone alcun investimento temporale e considera come proprio fine l’azione in quanto tale. La dimensione temporale con cui l’agire espressivo viene a identificarsi è il presente. Le attività di consumo possono essere considerate, sotto questo profilo, emblema della dimensione espressiva dell’azione. Le azioni strumentali, di contro, sono guidate dalla razionalità di scopo e presuppongono la capacità di collocarsi all’interno di un orizzonte temporale che non coincide con il qui-e-ora [2] A. Cavalli, “La gioventù: condizione o processo?”, Rassegna Italiana di Sociologia, n. 4, 1980, p. 523 [3] A partire dalla Rivoluzione Francese, e per quasi due secoli, nelle società occidentali il senso dell’agire non solo individuale ma anche collettivo - è stato legato al futuro. Vedi, in proposito, le riflessioni di S. Neckel, Entzauberung der Zukunft, in R. Zoll (hrsg.), Zerstörung und Wiederaneignung der Zeit, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1988 [4] “La biografia di un individuo è da lui appresa come […] progetto”, sottolineano ad esempio P. Berger, B. Berger e H. Kellner in The Homeless Mind, New York, Vintage Books–Random House, 1973, p. 71 [5] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965 (ed. or. 1922) [6] Mi permetto di rinviare, a questo riguardo, a C. Leccardi, Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella società dell’accelerazione, Roma-Bari, Laterza, 2009 [7] Cfr. U. Beck, Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2008. World Risk Society, London, Sage, 1999 e Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 2000. Sulla relazione fra “società dell’incertezza” contemporanea e trasformazioni dell’identità vedi la recente riflessione di M. Rampazi, Storie di normale incertezza. Le sfide dell’identità nella società del rischio, Milano, LED, 2009 [8] Per una riflessione su questa prospettiva esistenziale vedi Z. Bauman, Liquid Modernity, Cambridge, Polity Press, 2000. (trad. it., Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002) [9] Cfr. H. Rosa, “Social Acceleration: Ethical and Political Consequences of a Desynchronized High-Speed Society”, in Constellations, vol. 10, n.1, 2003, pp. 3-33 [10] I risultati della ricerca, a carattere nazionale e di tipo qualitativo condotta nel 2002-03, sono in corso di pubblicazione in F. Crespi (a cura di), Tempo vola, Bologna, il Mulino [11] Cfr. U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Roma, Carocci, 2005 [12] C. Leccardi (a cura di), Limiti della modernità. Trasformazioni del mondo e della conoscenza, Roma, Carocci, 1999 [13] Vedi, al riguardo, M. Mason, The New Accountability: Environmental Responsibility Across Borders, London, Earthscan, 2005 [14] Cfr. B. Adam, La responsabilità e la dimensione temporale della scienza, della tecnologia e della natura, in C. Leccardi (a cura di), Limiti della modernità, Roma, Carocci, 1999. Vedi anche B. Adam, Timescapes of Modernity. The Environment and Invisible Hazards, Routledge, London-New York, 1998 [15] Vedi, in proposito, le riflessioni di R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti, 1986 (ed. or. 1979) [16] Z. Bauman, In Search of Politics, Cambridge, Polity Press, 1999 (trad. it, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 83) [17] S. Tabboni, Le radici quotidiane della rappresentazione del tempo storico, in M.C. Belloni ( a cura di), L’aporia del tempo, Milano, Angeli, 1986, p. 123 [18] Vedi, per l’Italia, A. Cavalli (a cura di), Il tempo dei giovani, Bologna, il Mulino, 1985. Anche a questa ricerca, la prima in Italia ad affrontare, agli inizi degli anni Ottanta, questo importante aspetto della condizione giovanile contemporanea, ho avuto la possibilità di partecipare in prima persona 77 Carmen Leccardi I giovani e il futuro nella “società dell’incertezza” [19] H. Nowotny, Tempo privato. Origine e struttura del concetto di tempo, Bologna, il Mulino, 1993 (ed. or. 1989) [20] Secondo il filosofo tedesco Hermann Lübbe, in ragione degli intensi processi di mutamento in cui la velocità dell’innovazione tecnologica si coniuga all’accelerazione dei ritmi di vita in uno spazio globalizzato, ai nostri giorni anche la dimensione del presente finirebbe per contrarsi. Si verificherebbe, in questo caso, una perdita dello stesso presente - oltre che del futuro - come spazio della scelta e dell’elaborazione riflessiva dell’azione. Cfr. H. Lübbe, Die Gegenwartsschrumpfung, in K. Backhaus e H. Bonus (a cura di), Die Beschleunigungsfalle oder der Thriumph der Schildkröte, Stuttgart, Schaeffer/Poeschel, 1998 [21] Ho approfondito il tema del progetto in Futuro breve, dedicato allo studio delle forme progettuali delle giovani donne. C. Leccardi, Futuro breve. Le giovani donne e il futuro, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996 [22] C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano, il Saggiatore, 1964 (ed. or. 1962) [23] A. Melucci, Nomads of the Present, London, Hutchinson Radius, 1998. Sulle nuove traiettorie biografiche vedi anche Z. Bauman, From Pilgrim to Tourist – Or a Short History of Identity, in S. Hall e P. du Gay (eds.), Questions of Cultural Identity, London, Sage, 1996 [24] Vedi, in proposito, F. Cassano, ‘Pensare la frontiera’, Rassegna Italiana di Sociologia, n. 1, 1995, pp. 118-132 [25] Z. Bauman, K. Tester, Conversazioni con Zygmunt Bauman, Milano, Raffaello Cortina, 2002, pp. 36 [26] Ibid., p. 38 [27] Per uno sguardo di sintesi sulle trasformazioni delle costruzioni biografiche giovanili in Europa negli ultimi cinquant’anni, vedi V. Cicchelli e O. Galland, Le trasformazioni della gioventù e dei rapporti tra le generazioni, in L. Sciolla (a cura di), Processi e trasformazioni sociali. La società europea dagli anni Sessanta a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2009 [28] La letteratura su questo aspetto è ormai vastissima. A titolo indicativo, cfr. J. Bynner, L. Chisholm L. e A. Furlong (eds.) Youth, Citizenship and Social Change in a European Context, Aldershot, Ashgate, 1997; A. Cavalli e O. Galland, (a cura di) Senza fretta di crescere, Napoli, Liguori, 1996; Du Bois-Reymond, “I Don’t Want to Commit Myself Yet: Young People’s Life Concepts”, Journal of Youth Studies, 1(1), 1998, 63-79; A. Furlong A. e F. Cartmel, Youth and Social Change. Individualization and Risk in Late Modernity, BuckingamPhiladelphia, Open University Press, 1997; C. Wallace e S. Kovatcheva, Youth in Society. The Construction and Deconstruction of Youth in East and West Europe, Houndmills - Basingstoke, Palgrave, 1998; J. Wyn e R. White, Rethinking Youth, London, Sage, 1997; J.J. Arnett, Emerging Adulthood, New York, Oxford University Press, 2004. Vedi anche, C. Leccardi e E. Ruspini (eds.), A New Youth?, Aldershot, Ashgate, 2006 e C. Leccardi, Sociologie del tempo, Roma-Bari, Laterza, 2009. Per un’analisi dettagliata dei processi di trasformazione della condizione giovanile in Italia vedi i volumi curati dall’Istituto IARD negli ultimi vent’anni, tutti pubblicati dalla casa editrice il Mulino [29] U. Beck e E. Beck-Gernsheim, Individualization. Institutionalized Individualism and its Social and Political Consequences, London, Sage, 2003 [30] Vedi, in particolare, C. Leccardi, I tempi di vita tra accelerazione e lentezza, in F. Crespi (a cura di), Tempo vola, Bologna, il Mulino, 2005 e C. Leccardi, Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella società dell’accelerazione, Roma-Bari, Laterza, 2009, cap. V e VI [31] E. Grosz (ed.), Becomings. Explorations in Time, Memory and Futures, Ithaca and London, Cornell University Press, 1999 [32] A. Lasen, Le temps des jeunes. Rythmes, durée et virtualités, Paris, L’Harmattan, 2001, p. 90. [33] M. Foucault, La cura di sé, Milano, Feltrinelli, 2001 (ed. or. 1984) [34] R. Castel, Les métamorphoses de la question sociale, Paris, Fayard, 1996 78 Giuseppina Pellegrino “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico HIGHLIGHTS Future matters for social theory? “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico Giuseppina Pellegrino (Università della Calabria) Abstract Il futuro può essere (de)costruito, letto e interpretato a partire dall’analisi della progettazione e dell’uso di nuove tecnologie e mezzi di comunicazione, intesi come artefatti sociotecnici emergenti da processi complessi. Assumendo che il futuro a sua volta non sia dato, ma l’esito di una serie di pratiche, rappresentazioni e conoscenze, osservare il modo in cui esso viene immaginato e materializzato attraverso gli artefatti tecnologici significa ripercorrere un complesso paesaggio temporale, in cui tempi e spazi si articolano specificamente. Obiettivo di questo contributo è dunque inquadrare il particolare futuro prefigurato e realizzato dagli immaginari sociotecnici, costruzioni material-discorsive caratterizzate da opposti determinismi, strategie di addomesticamento e controllo, presentificazione e obsolescenza del tempo. 79 Giuseppina Pellegrino “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico «Mi metto interamente nelle tue mani», un tempo era una frase che caratterizzava il dialogo con Dio; oggi è una dimensione irriducibile della vita secolare, che esperiamo quotidianamente ogni volta che interagiamo con i prodotti della scienza e con i sistemi di competenze. (Barbara Adam) Oggi dobbiamo vivere con prospettive future molto incerte, e l’incertezza non si fonda sul piano divino di salvezza, bensì nel sistema sociale, che deve rendere conto di se stesso. (Niklas Luhmann) Introduzione Il futuro è il tempo del nuovo, dell’(in)atteso e soprattutto del possibile: oggetto di desiderio quanto di timore, in cui si fondono speranza e paura dell’ignoto, di ciò che potrebbe essere ma ancora non è. Quasi mai, nella storia, si è avuto lo stesso rapporto con ciò che ‘ancora non è’; né, del resto, l’azione umana ha avuto la medesima interpretazione del suo dispiegarsi, a maggior ragione rispetto a quella dimensione del tempo che appare proiettata oltre il presente (cfr. Adam, 2009). Questo contributo intende focalizzare una particolare modalità di produzione e costruzione del futuro, che si realizza nella progettazione e nell’uso di nuove tecnologie e nuovi mezzi di comunicazione, qui definiti, con un termine mutuato dagli approcci di tipo Science and Technology Studies, artefatti tecnologici o artefatti sociotecnici (cfr. Bijker e Law, 1992; Bijker, Hughes e Pinch, 1994; Akrich, 1992 tra gli altri). Gli artefatti sociotecnici, andando oltre l’idea di una tecnologia autonoma e non controllabile (Winner, 1977) appaiono non più dati, ma risultanti di processi articolati. Assumendo che il futuro, a sua volta, non sia dato, ma l’esito di una serie di pratiche, rappresentazioni e conoscenze, e che vi sia una interdipendenza tra spazio, tempo e materialità (cfr. Adam, 2009), osservare il modo in cui esso viene immaginato e materializzato attraverso gli artefatti tecnologici significa ripercorrere un complesso paesaggio temporale (timescape; Adam, 2009a). Tale paesaggio chiama in causa la storia dei media e della tecnica, le retoriche dell’immaginario tecnologico, le dinamiche del discorso pubblico riguardanti il rapporto tra tecnologia e società. Infatti, è attraverso l’uso di una immaginazione proiettiva collettiva (e di un conseguente immaginario) avente ad oggetto le possibilità sociali dischiuse da nuove tecnologie, che queste diventano mezzi di comunicazione conquistati dai rispettivi pubblici, nonché artefatti a disposizione di differenti gruppi sociali, che li interpretano in modo flessibile per i loro scopi nell’ambito delle culture tecniche, dei metodi e delle informazioni che costituiscono il quadro tecnologico (Bijker, 1995). L’unità di analisi sociale del futuro, dunque, diventa il discorso sociotecnico o discorso pubblico sulla tecnologia, ovvero l’insieme dei discorsi e delle forme comunicative (scritte e orali, mediate e non) che riguardano tecnologie nuove o in fieri, e che permettono di interpretarle associandovi, spesso, un ordine sociale ritenuto auspicabile (cfr. Iacono e Kling, 2001). Tale discorso è caratterizzato da alcuni topoi che lo articolano come una narrazione esemplificativa del rapporto che si instaura, in un dato contesto spazio-temporale, tra le tecnologie e gli attori, attraverso alleanze, negoziazioni e conflitti riguardanti gli usi possibili e potenziali delle tecnologie stesse. Obiettivo di questo contributo, dunque, è quello di collocare il problema del futuro rispetto ad artefatti tecnologici che sembrano incorporarlo e materializzarlo (si pensi al valore attribuito nella società contemporanea al telefono cellulare e alla mobilità in generale). Nello stesso tempo, il futuro plasmato attraverso questi artefatti ha durate diversificate, cicli lunghi o brevi a seconda degli attori che veicolano il discorso pubblico, nelle sue sfumature più o meno deterministiche, e degli obiettivi che si intendono conseguire associando a certe tecnologie certi scenari (spesso stereotipati). Qui occorre distinguere gli artefatti oggetto del discorso, dai (mass) media che sono attoriautori di tale discorso, insieme a molti altri gruppi 80 Giuseppina Pellegrino “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico sociali (dalle istituzioni alle comunità professionali, cfr. Iacono e Kling, 2001). Dopo una breve analisi della centralità di scienza e tecnica nella produzione sociale del tempo, si analizzeranno gli immaginari sociotecnici e il modo in cui essi articolano un futuro specifico, caratterizzato da alcune dimensioni fondative: - il perdurare, in forme più o meno forti, di uno schema binario e oppositivo, che confronta un determinismo tecnologico ad uno sociale nella (pre)visione del futuro; - le strategie di addomesticamento (materiali e discorsive) delle tecnologie e del futuro possibile ad esse associato, nonché il tentativo di controllare il futuro attraverso gli artefatti sociotecnici; - l’obsolescenza, la presentificazione e l’attesa di una (presunta) rivoluzione che di fatto deve essere governata, come caratteristiche del futuro nel discorso sociotecnico. Scienza, tecnica e tempo E’ innegabile che la costruzione sociale del tempo e la sua molteplicità abbiano conosciuto una diversificazione attraverso la storia. Rispetto al ‘solo’ futuro, ad esempio, si possono individuare quattro forme culturali, o grandi fasi concettuali: il futuro come destino, come risorsa, come finzione e come fatto (Adam, 2009). Tuttavia, la definizione del tempo è cambiata soprattutto in rapporto ai modi di accumulazione e trasformazione della conoscenza, e alle tecniche sviluppatesi in modo concomitante. Come evidenzia Lewis Mumford nel suo “Tecnica e cultura” (Mumford, 2005), la standardizzazione e meccanizzazione del tempo si deve ad istituzioni che hanno contribuito all’irreggimentazione della vita sociale (dal monastero benedettino all’esercito) attraverso tecniche specifiche e artefatti correlati (l’ora benedettina prepara e precorre, in questo senso, l’orologio meccanico). Il rapporto tra scienza, tecnica e tempo è dunque soggetto a processi di longue durée: «durante i primi sette secoli di esistenza della macchina, i concetti di tempo e spa81 zio furono assoggettati ad uno straordinario cambiamento e nessun aspetto della vita rimase indenne dalla trasformazione. L’applicazione di metodi di pensiero quantitativi allo studio della natura ebbe la sua prima manifestazione nella misurazione regolare del tempo; ed il nuovo concetto meccanico di questo sorse in parte dalle regole di vita del monastero» [1]. D’altro canto, scienza e tecnica sono cruciali nella realizzazione di un mondo moderno in cui un progresso irresistibile ed irreversibile procede in senso non più circolare (moto tipico del corpo, dei corpi celesti e della natura), ma unilineare. Il progetto di un mondo in cui il tempo si meccanicizza e può essere scambiato come merce, rivela l’imperativo economico dell’efficienza e dell’efficacia come diktat per la vita sociale, nonché la crucialità della pratica della misurazione del tempo per l’attribuzione ad esso di un valore condiviso e standardizzato (cfr. Landes, 1984). Del resto, il rapporto che connette il tempo alla scienza e alla tecnica, consolidatosi nel corso della modernità (si pensi a quanto la fisica teorica, relativistica e quantistica, abbia contribuito a modificare le concezioni dello spazio-tempo) prosegue nella globalizzazione contemporanea, con la cruciale ri-articolazione legata alle tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Così, la centralità dell’interazione sociale faccia-a-faccia nella creazione di legami di prossimità (cfr. Berger e Luckmann, 1969) si confronta con l’estensione dell’interazione oltre la compresenza, nella direzione dell’accessibilità spazio-temporale, attraverso l’interazione mediata (Thompson, 1998). Continuare a considerare la comunicazione faccia a faccia il prototipo di riferimento della comunicazione mediata non appare più così ovvio (Fortunati, 2005), poiché «quando le distanze sono state ridotte dalla velocità delle comunicazioni, anche gli orizzonti personali, sociali, religiosi, politici ed economici si sono espansi» [2]. In questa flessibilità degli orizzonti spaziotemporali, la pluralità e l’ambivalenza dei tempi personali, collettivi e sociali si riflette nei ritmi del corpo, sempre più tecnologico (Fortunati et al., 1997), esteso nella sua performatività spazio- Giuseppina Pellegrino “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico temporale dalla scienza, proteso e proiettato verso un futuro rispetto al quale anche l’etica deve confrontarsi con la molteplicità di una corporeità materiale ed immateriale nello stesso tempo (Pellegrino, 2009). Determinismo e discorso pubblico sulle tecnologie Del rapporto tra scienza, tecnica e tempo, il discorso pubblico sulle tecnologie costituisce una manifestazione sincronica e diacronica. Sincronica poiché in un dato momento si può rintracciare un insieme di discorsi associati ad una tecnologia considerata emergente; diacronica in quanto tale discorso perdura ed attraversa le epoche storiche per confermare, in diversi contesti storico-sociali, la rilevanza delle forme di comunicazione che immaginano e plasmano non solo gli usi presenti, ma anche quelli possibili e futuri della tecnica. Attraverso il discorso pubblico tecnologico, si dispiega nel tempo quel determinismo (tecnologico e/o sociale) che sulle tecnologie e i nuovi media proietta speranze e paure, utopie e distopie, alimentando un confine tra coloro che, secondo Eco (1964), possono essere definiti come integrati o apocalittici, di fatto rispetto ad ogni nuova tecnologia. La persistenza di un pensiero deterministico-binario è stata acutamente sottolineata nella definizione dell’approccio “visionario”, proiettato nel futuro, che permea tanta parte del discorso pubblico sulle tecnologie: «Le visioni della tecnologia hanno una lunga storia di un tale pensiero binario. Le visioni delle tecnologie come trasformative della vita, sia in modi trascendenti sia in modi minacciosi, sono state reiterate ed abbracciate molte volte nel corso della storia, dalla stampa al computer [...] con nuove tecnologie che prendono il posto di altre più consolidate, in un ciclo apparentemente infinito […] mentre il cambiamento tecnologico continua ad un passo rapido, le visioni che lo definiscono restano bloccate in un ciclo ripetitivo di strutture binarie oltremodo semplificate» [3]. Queste opposizioni binarie che rinviano ad un determinismo in cui la tecnologia è considerata, unilateralmente ed univocamente, fonte di cambiamento, costituiscono la “retorica del nuovo”, la cui temporalità è quella del progresso irreversibile, una lunga retta in cui al sogno dell’ iperconnettività si alterna la paura di una perdita irrimediabile del legame sociale. Questa retorica del nuovo non costituisce una novità, così come il termine “nuove tecnologie” ha un valore storico solo relativo. Infatti, i nuovi media, incluse le nuove tecnologie di comunicazione, «[…] vengono sempre a inserirsi in un clima di tensione creato dalla coesistenza di vecchio e nuovo, assai più ricco di quanto possa mai essere un singolo mezzo di comunicazione che attiri l’interesse in virtù della sua novità […]. Per quanto possa sembrare saldamente organizzata e racchiusa in usanze e strumenti, la comunicazione reca in sé il germe del suo stesso sovvertimento» [4]. Se le pratiche discorsive focalizzano una tecnologia autonoma ed incontrollabile, che trascende l’umano nel bene e nel male (Winner, 1977), occorre allora ulteriormente indagare le (dis)continuità tra le rappresentazioni dell’immaginario e le pratiche quotidiane di integrazione e appropriazione della tecnologie, badando di non ricadere nella trappola dualistica del discorso pubblico orientato, nella sua componente più visibile ed influente, dal determinismo. Immaginari sociotecnici, addomesticamento e controllo del futuro Il discorso visionario, fondato su speranze e paure, utopie e distopie (cfr. Kling, 1996) è al centro degli immaginari sociali incorporati e suscitati dalle innovazioni tecnoscientifiche, tanto più quando la tecnologia in questione è mediatrice della comunicazione, dell’interazione sociale e della circolazione dell’informazione e delle conoscenze. Le visioni veicolate da questo discorso entrano, in modo più o meno cruciale, nei processi di addomesticamento e controllo attraverso i quali gli u82 Giuseppina Pellegrino “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico tenti “trasportano”, adottano e fanno propri i media nella loro vita quotidiana (cfr. Silverstone, 2000). Nelle più recenti versioni di questa teoria (Berker et al., 2006), il passaggio dallo stato selvaggio a quello di familiarità, intimità e domesticità della tecnologia si realizza oltre le pareti della “casa”, laddove inizialmente questo processo veniva situato. L’addomesticamento del futuro sociotecnico assume una sua contestualizzazione spazio-temporale, essendo definito anche dagli spazi e dagli orizzonti temporali entro cui circolano i molteplici discorsi sulla tecnologia. Possono essere individuate diverse durate temporali del futuro, attraverso le quali si realizza, nei temi e nei tempi tipici dell’immaginario, il raggiungimento della familiarità con le nuove tecnologie, e il tentativo di controllarne gli usi. C’è un futuro di breve termine, obsolescente e presentificato, che però non rinuncia a proiettarsi, attraverso il determinismo binario, in un orizzonte meno immediato, denso di empiti rivoluzionari (vedi oltre). Quale che sia la durata del futuro prefigurato, i discorsi riguardanti una nuova tecnologia assumono un ruolo strategico, divenendo l’arena pubblica in cui diversi gruppi sociali si confrontano e si scontrano sulle rispettive interpretazioni, aspettative e usi potenziali della tecnologia stessa (Bijker, 1995). In gioco, è il potere di definire chi ha voce e chi no, il potere di costruire catene di alleanze e assemblaggi eterogenei che divengano punti di passaggio obbligato per un grande numero di attori (Latour, 1998). La stessa storia dei media mostra come una specifica comunità tecnico-professionale possa utilizzare a suo vantaggio l’immaginario relativo ad una tecnologia emergente, al fine di legittimarsi come depositaria delle competenze e delle future azioni da intraprendere rispetto al suo sviluppo (cfr. Marvin, 1994, sull’elettricità). Le strategie discorsive e materiali che rendono una tecnologia meno estranea e distante dalla vita quotidiana, nello stesso tempo presiedono ad una funzione di controllo e indirizzamento dei suoi usi potenziali e futuri, trasformando in “noto”, “familiare” e “malleabile” ciò che appare come “ignoto”, “distante” e “selvaggio”. 83 Noto ed ignoto sono legati reciprocamente nella dimensione immaginativa (ed immaginifica) del discorso “visionario”, che nominando il nuovo, lo rende possibile. L’immaginazione alimenta l’innovazione, come accade sin dagli albori del laboratorio scientifico, rintracciabili nella contiguità tra magia, scienza e tecnica nel Medioevo (cfr. Mumford, 2005). Questa dimensione creativa e, potremmo dire, performativa, appartiene propriamente alla costruzione del futuro, un processo rispetto al quale si può rintracciare «una storia molto lunga di sforzi […] per conoscere l’ignoto e rendere trasparente ciò che è opaco. I tentativi di conoscere il futuro venivano completati dallo sviluppo di un know-how, di pratiche di conoscenza […]. Molta di questa continuità colloca i creatori degli artefatti nel futuro di lungo termine, sia che i prodotti culturali siano camere tombali, templi o cattedrali […] radiazioni nucleari o inquinamento. Alcuni sono mezzi per colonizzare il futuro; altri hanno il potenziale di eliminare il nostro futuro e quello dei nostri discendenti» [5]. Il paradosso della scienza e della tecnica è che, mentre da un lato vorrebbe migliorare questo processo di conoscenza e di “lettura” del futuro (si pensi alle previsioni scientifiche, all’analisi dei trend etc.), dall’altro lo rende sempre più difficile da controllare, per la complessità legata alla rapidità e alle conseguenze inattese del cambiamento, unita alla percezione che il futuro sia già alle nostre spalle (cfr. Adam, 2004, 2006). Obsolescenza, presentificazione e rivoluzione, le tre caratteristiche che di seguito saranno tracciate, restituiscono le contraddizioni dei presenti futuri: le prospettive future del presente, attraverso quei processi decisionali che portano alla probabilità che tali prospettive si realizzino (cfr. Luhmann, 1982) e che rendono il futuro a portata di mano nel “qui ed ora” esteso di una rivoluzione da governare. Futuro obsolescente L’obsolescenza delle forme (Dorfles, 1987) sembra essere condivisa da quegli oggetti culturali Giuseppina Pellegrino “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico (Griswold, 2005) attraverso i quali si realizza una mediazione delle pratiche quotidiane, della comunicazione e dell’interazione sociale. Nella fase di relativa stabilizzazione (Bijker, 1995), molti artefatti tecnologici assumono lo statuto di oggetti di largo consumo. I cicli dell’innovazione subiscono, al pari del tempo globalizzato, una rapida accelerazione, al punto da obbedire a cicli di vita frammentati da continui “aggiornamenti” o variazioni sul tema, concepite come miglioramenti progressivi dell’artefatto. L’altra faccia dell’aggiornamento è, appunto, l’obsolescenza delle forme, la loro sacralizzazione temporanea, in nome di un valore estetico-simbolico che rende gli artefatti tecnologici “oggetti di culto”, rivestiti di uno status che li investe di valore simbolicoaffettivo oltre che funzionale. Il telefono cellulare è, probabilmente, il più noto e il più contemporaneo di questi “oggetti culturali” continuamente sottoposti alla spinta di un’innovazione incrementale che ne varia le forme e le funzioni. L’equivalente di questa obsolescenza materiale si ritrova nel discorso pubblico orientato a descrivere le nuove tecnologie di un futuro considerato perlomeno prossimo: si tratta di una forma discorsiva in cui vaghezza e ambiguità “approssimano” il ciclo delle mode, obbedendo a fasi di diffusione espansiva a livello retorico-discorsivo, che non sempre si traducono in una realizzazione materiale e concreta (si pensi alla popolarità del telelavoro come prospettiva della riorganizzazione del lavoro negli anni ’80-’90; oggi, a “parole chiave” come cloud computing, ubiquitous computing, nanotecnologie). Futuro presentificato L’obsolescenza del futuro sociotecnico va di pari passo con lo schiacciamento temporale del futuro sul “qui ed ora”, sull’attualità della forma e del contenuto. Nello slogan identificativo di un noto fornitore di comunicazione mobile, “life is now”. Il futuro è già qui, presentificato, a portata di mano. In effetti, è lo stesso determinismo dell’immaginario sociotecnico a privare la tecnologia di un vero e proprio frame temporale, foca- lizzandola in un presente “esteso” (Nowotny, 1994) e “continuo” (Urry, 2002), uno spazio astorico, un “là fuori” privo di connotazioni temporali. A queste caratteristiche enfatizzate dalle visioni tecnologiche (cfr. Winner, 1977), si accompagna l’abbraccio dei tempi globali (Adam, 2005) che è un abbraccio simultaneo e istantaneo, reso possibile dalla temporalità sincrona delle nuove tecnologie, ad un tempo estesa e contratta. Estesa dalla distanziazione spazio-temporale tipica della comunicazione mediata (Thompson, 1998); sempre più contratta (e prossima) alla compresenza virtuale, a forme di prossimità a distanza e di prossimità intermittente legate alle mobilità plurali della società contemporanea (Urry, 2002, 2007). Questo schiacciamento o presentificazione del futuro, che insieme all’obsolescenza ne smorza il respiro di lungo termine, trova una manifestazione ulteriore nella fragilità dei sistemi esperti (Giddens, 1996), a partire dalle istituzioni del nuovo capitalismo (cfr. Sennett, 2006) che mostrano la costruzione di un futuro di breve corso, un orizzonte che trova la sua drammatica definizione nella crisi dei mercati finanziari globali e nella focalizzazione sul “qui ed ora” rispetto a politiche della posterità (Adam, 2006a) quanto mai necessarie. Futuro, tecnologie di libertà e rivoluzione Il potenziale trasformativo associato alle nuove tecnologie appare spesso, nei canoni e nei topoi del discorso sociotecnico deterministico, repentino e talora carico di tonalità violente, improntato ad atmosfere (anti)utopiche capaci di prefigurare gli orrori e le angosce di una tecnologia che va oltre le umane possibilità di controllo, o il paradiso di una originaria libertà di azione, svincolata da norme costrittive. Non si tratta di prefigurare semplici mutamenti, ma trasformazioni totali e radicali che hanno il carattere proprio delle rivoluzioni e interrompono il corso della storia (cfr. Arendt, 1963). 84 Giuseppina Pellegrino “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico L’attesa di una presunta rivoluzione determinata dalle nuove tecnologie della comunicazione, così come dal progresso scientifico e tecnico, costituisce perciò una caratteristica fondativa del discorso sociotecnico sul futuro. Poiché le rivoluzioni coniugano l’idea della libertà con il principio di un nuovo inizio [6], le tecnologie, nella loro carica rivoluzionaria, chiamano in causa e rimettono in gioco l’idea stessa di libertà, contribuendo, negli auspici, al compimento di una liberazione. Gli esiti di questa rivoluzione, tuttavia, possono essere controversi, e non sempre sostitutivi del vecchio ordine (delle vecchie tecnologie) se è vero che in senso etimologico, rivoluzione indica il moto astronomico dei pianeti (della terra intorno al proprio asse): si tratta di un movimento ciclico, ricorrente e soprattutto preordinato. In origine, dunque, rivoluzione in senso politico indicava una “restaurazione” [7]. Questa ambivalenza del termine consente, da un lato, di confermare la prevalenza dell’integrazione vecchio-nuovo, al di là di una aspettativa di cambiamento radicale collocata nel presente, che si ritiene debba essere governata (si pensi alla definizione dei “nativi digitali” come generazione di rottura con il passato, che ci traghetta verso il futuro). Dall’altro, il carattere restaurativo-radicale delle rivoluzioni tecnologiche mette in discussione le libertà fondamentali conquistate attraverso le rivoluzioni classiche (quella francese e quella americana) per cui «mentre la parola passa sempre di più attraverso i media elettronici, viene messo in pericolo il diritto inviolabile dei cittadini, sviluppato in cinquecento anni, a parlare senza controlli» [8]. Parole scritte ben prima che le tecnologie di rete e l’architettura acefala di Internet conquistassero l’attuale centralità. La tutela della libertà, insieme alla liberazione da vecchi ordini, permane come imperativo del discorso e della pratica sociotecnica, a fortiori quando le rivoluzioni rivelano l’ambivalenza dei loro esiti. 85 Riflessioni conclusive Attraverso vecchi e nuovi artefatti tecnologici, seguendo i sentieri e le direzioni del discorso pubblico da essi suscitato e ad essi riferito, è possibile “leggere il futuro”. Non nel senso di quel futuro come destino rivelato soltanto dagli dei e dalla divinità concesso agli umani, ma nel senso del controllo, tutto e soltanto umano, (sociotecnicamente) perseguito a mezzo di artefatti che vanno a mediare la comunicazione, l’interazione e le pratiche sociali. Attraverso il discorso sociotecnico, e le sue estensioni materiali, si possono recuperare i futuri immaginati del presente e del passato, ma soprattutto si può accedere a quella risorsa di immaginazione proiettiva che, pur costretta nei binari di un determinismo riduzionista, sempre associa ad ogni nuovo artefatto tecnologico speranze e timori, orrori e sogni legati ad un’idea di libertà e di nuovo principio. Il discorso sociotecnico come futuro in costruzione e in divenire, appare orientato a confinare gli esiti dell’azione in un presente esteso e continuo, che nella costante obsolescenza delle forme sociotecniche insegue una rivoluzione che si vorrebbe già compiuta, o, nella migliore delle ipotesi, in fieri nelle sue conseguenze. E’ possibile superare il determinismo che orienta il discorso pubblico sulle tecnologie, e in che modo la durata dei futuri costruiti nei processi decisionali attuali può varcare la soglia di un presente che ne mortifica lo slancio e l’assunzione di responsabilità? Disgiungere il nuovo e l’ignoto da antiche, rassicuranti opposizioni, significa affiancare all’ immaginazione un’etica della visione tecnologica; render(si) conto di chi e per chi si definisca la tecnologia, e a quali voci convenga confinare il discorso sociotecnico nei collaudati binari della speranza e della paura. Giuseppina Pellegrino “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico Ringraziamenti Queste riflessioni hanno grandemente beneficiato degli stimoli e delle discussioni intraprese con Barbara Adam a Cagliari nel corso della sua visita, e del confronto con tutti i partecipanti agli eventi organizzati da Giuliana Mandich in quell’ occasione. Ancora prima, ho discusso di questi temi con Peppino Ortoleva, in una comune visita a New York: assieme alla sua poliedricità, ho ritrovato l’urgenza di un’analisi critica e multiprospettica. Resta solo mia la responsabilità di eventuali omissioni, errori, o travisamenti di ciò che il futuro sociotecnico ci obbliga a tenere, prima o poi, in conto. 86 Giuseppina Pellegrino “Leggere il futuro” attraverso gli artefatti tecnologici? Il futuro in fieri del discorso socio tecnico Note [1] L. Mumford, Tecnica e cultura, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 28 [2] B. Adam, Timewatch. Per un’analisi sociale del tempo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005, p. 206 [3] M. Sturken, T. Douglas, “Introduction: Technological Visions and the Rhetoric of the New”, in M. Sturken, T. Douglas, S. Ball-Rokeach (a cura di), Technological Visions. The Hopes and Fears that Shape New Technologies, Philadelphia, Temple University Press, 2004, p. 2, trad. mia [4] C. Marvin, Quando le vecchie tecnologie erano nuove, Torino, Utet, 1994, p. 9 [5] B. Adam, “Futurity from a Complexity Perspective”, http://www.cardiff.ac.uk/socsi/futures/wp_ba_complexity230905.doc, 2005, p. 3 [6] H. Arendt, Sulla rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 25 [7] Ibidem, pp. 41 e seguenti [8] I. De Sola Pool, Tecnologie di Libertà, Torino, Utet, 1995, p. 3 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI B.Adam, “Memory of Futures”, presentazione Conferenza ISST, Cambridge, luglio, http://www.cardiff.ac.uk/socsi/futures/memoryofthefuture.pdf, 2004 B. Adam, Timewatch. Per un’analisi sociale del tempo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005 B. Adam, “Futurity from a Complexity Perspective”, http://www.cardiff.ac.uk/socsi/futures/wp_ba_complexity230905.doc, 2005a B. Adam, “Has the Future already happened?”, presentazione Conferenza Future Matters: Futures Known, Created and Minded, Cardiff, 3-6 settembre, http://www.cardiff.ac.uk/socsi/futures/conf_ba_cardiff201006.pdf, 2006 B. Adam, “The Politics of Posterity. Techno-Futures Made, Mapped and Minded”, presentazione Workshop Shifting Politics, Groningen, 20-22 aprile, http://www.cardiff.ac.uk/socsi/futures/conf_ba_politicstech100506.pdf, 2006a B. Adam, , “Future Matters: Challenge for Social Theory and Social Inquiry”, presentazione Seminario Future Matters for Social Theory?, Cagliari, 30 ottobre, 2009 B. Adam, “Understanding the Social from a Temporal Perspective: Of Timescapes and Futurescapes”, presentazione Workshop, Cagliari, 2-3 novembre, 2009a M. Akrich, “The De scription of Technical Objects”, in W. E. Bijker, J. Law (a cura di), Shaping Technology/Building Society. Studies in Sociotechnical Change, Cambridge, MA, The MIT Press, 1992 H. Arendt, Sulla rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 1963 P.L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, il Mulino, 1969 T. Berker, M. Hartmann, Y. Punie, K. Ward, Domestication of Media and Technologies, London, Open University Press, 2006 W. E. 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Winner, Autonomous Technology, Cambridge, The MIT Press, 1977 88 Gianna Cappello Media, minori e Media Education Media, minori e Media Education Gianna Cappello (Università degli Studi di Palermo) In un volume del 2000 David Buckingham sintetizzava bene la polarizzazione entro cui spesso si riduce il dibattito sul rapporto tra media e minori, una polarizzazione che a un pubblico italiano richiama la ben nota dicotomia echiana tra apocalittici e integrati (Eco, 1964). I primi, denunciando il potere corruttore dei media, si appellano alla protezione e alla tutela dei minori, mentre i secondi, celebrando l’“attivismo” del pubblico, difendono il “diritto di scelta” dei minori e la loro “naturale” media expertise. Pur diametralmente opposte, queste due posizioni condividono in realtà molte più cose di quanto non sembri a prima vista. Entrambe soffrono dei limiti delle cosiddette posizioni “profetiche” in quanto rispondono più «al criterio di generalità di una grande teoria, non a quello della sua scientificità […], protette dalla loro non verificabilità» [1] e dalle semplicità delle tesi sostenute. I “profeti” (apocalittici o integrati che siano) esprimono valutazioni prima ancora di tentare di conoscere i media, i minori e il rapporto tra i due. Spesso non solo non forniscono una reale e circostanziata evidenza empirica di quanto affermano, ma altrettanto spesso riducono i due termini della questione – i minori e i media – entro una prospettiva essenzialistica e tecnodeterministica. La visione tradizionale dei minori come esseri “naturalmente” vulnerabili e indifesi, bisognosi della protezione degli adulti da media pericolosi e onnipotenti, viene perfettamente controbilanciata da una visione, opposta ma ugualmente romantica, che li vede invece come esseri “naturalmente” esperti di media (specie di 89 Gianna Cappello Media, minori e Media Education nuovi media), capaci di interagire con il mezzo con un’istintiva destrezza sconosciuta alle generazioni precedenti. In entrambi i casi viene meno quello che oggi è diventato un assunto comune nella storia e nella sociologia dell’infanzia, come pure nella psicologia: l’infanzia è un costrutto sociale e non una categoria naturale o universale, determinata soltanto dalla biologia o da una qualche essenza universale [2]. Allo stesso modo, in entrambi i casi, ai media vengono attribuiti poteri e caratteristiche intrinseche che prescindono dagli usi, dai circuiti sociali, dalle condizioni di possibilità entro cui essi operano e vengono adottati (si pensi al digital divide). Pertanto, malgrado innumerevoli ricerche, si sa in fondo ancora poco delle pratiche di consumo mediale dei minori e ancora meno si sa su come esse funzionino come una sorta di identity work tramite il quale i minori definiscono il loro stare al mondo insieme o in opposizione agli altri; o su come varino secondo le dinamiche familiari di “domesticamento” dei media, la classe sociale, i contesti e gli stili di vita, il sesso, l’età; si sa ancora poco su come si formino gusti e mode nei bambini e negli adolescenti; su come i media digitali di ultima generazione rendano possibili inedite forme di globalizzazione/ localizzazione/ personalizzazione dei contenuti. Per colmare questo vuoto, si sta sempre più affermando una corrente di studi che, innestandosi nel solco delle sociologie del quotidiano e degli audience studies, è giunta a una serie di conclusioni che qui brevemente si riassumono: - il consumo dei minori (e in genere) non può essere pensato soltanto come un’esperienza psico-cognitiva mentemedium, ma anche e soprattutto come una pratica sociale in contesto, ovvero come un comportamento da valutare – come detto – a partire da una combinazione micromacro di vettori e campi di forza diversi: le caratteristiche socio-demografiche del soggetto, le relazioni con gli adulti e con il gruppo dei pari, la scolarizzazione, la propria (sub)-cultura di riferimento, lo status sociale, lo sviluppo tecnologico e dei mercati, ecc.; - nei consumi dei minori (ma anche degli adulti), più che una logica omogeneizzante, sembra prevalere una logica “tribale” che coagula la fruizione secondo modalità di nicchia piuttosto che generaliste o massificanti. Per quanto sia sempre possibile ritrovare una molteplicità di elementi socioculturali che sembrano indicare trend omologanti, tuttavia sarebbe poco realistico pensare ai minori come a una categoria sociale omogenea, viste le tante possibilità di differenziazione e l’instabilità di cui si compongono le loro traiettorie di vita e di consumo; - se da un lato la dimensione affettivorituale del consumo – il bisogno di identificazione – sembra prevalere su quella logico-razionale per cui per i minori più che i contenuti sembrano contare le relazioni/situazioni sociali e le pratiche condivise che da tali contenuti possono avere origine, dall’altro il consumo diventa anche una delle tante modalità di individuazione attraverso le quali i minori costruiscono e manifestano le proprie peculiarità soggettive; - il rapporto tra media e minori è in realtà ben più complesso e articolato di quanto le “visioni profetiche” lascino intendere. Esso va definito secondo le categorie concettuali dell’appropriazione, della negoziazione, dell’agire comunicativo, sia pure tenendo sempre conto dei vincoli, dei condizionamenti e delle determinanti macro-sociali del contesto. Ciò comporta la necessità non tanto di “misurare” gli effetti della frequentazione mediale, quanto di individuare gli usi e le interpretazioni che i minori fanno dei media, partendo dai loro stessi discorsi, chiedendosi come la presenza dei media vada a riconfigurarne le pratiche culturali e le socialità del quotidiano, come pure le rappresentazioni attraverso le quali essi danno senso al reale, all’ambiente che li circonda, al rapporto con gli altri. In breve, come il consumo mediale si intreccia con le loro pratiche di vita quotidiana e con 90 Gianna Cappello Media, minori e Media Education i loro processi di formazione delle identità e di socializzazione dando vita a una fitta rete di influenze reciproche difficilmente traducibili in meccanici rapporti causaeffetto. Nel complesso questi studi problematizzano una consolidata tradizione di ricerca di stampo comportamentistico su media e minori, e configurano un approccio di ricerca fortemente contestualizzato e interdisciplinare attraverso il quale l’analista, intrecciando dati di metrica sociale con dati etnografici più soft, apparentemente vaghi e soggettivi, cerca da un lato di comprendere come i minori stessi definiscono le loro relazioni sociali e consumi mediali, e dall’altro di collocare queste definizioni entro cornici più ampie, in un movimento continuo tra interno ed esterno, tra biografie situate e vincoli strutturali, tra significati particolari e condizioni di possibilità più generali. Data la complessità del rapporto tra media e minori e dato un contesto sociale caratterizzato da profondi processi di mutamento globale di cui i media sono insieme causa ed effetto, qual è il ruolo che l’educazione è chiamata a svolgere? Oggi più che mai i concetti di educazione e di comunicazione mediata dimostrano di avere una natura reciprocamente costitutiva: l’educazione è strutturalmente comunicativa poiché fondata su una relazione dialogica; allo stesso modo la comunicazione mediata è strutturalmente educativa dal momento che modifica di fatto idee, visioni del mondo e dimensioni della sfera pubblica come pure comportamenti e vissuti della sfera privata. La Media Education, collocandosi al crocevia epistemologico e metodologico tra le Scienze della comunicazione e le Scienze dell’educazione, coglie bene questa relazione offrendosi come apparato concettuale e operativo entro il quale elaborare interventi educativi con l’obiettivo di contribuire alla formazione di una cittadinanza attiva, di individui cioè in grado di convivere in maniera più riflessiva e responsabile con il mutamento sociale contemporaneo, segnato dalla presenza capillare dei media, intesi come sistema industriale, come apparato tecnologico, come forma culturale. Se informazione e comunicazione sono la cifra caratterizzante della società contemporanea, al91 lora appare del tutto inappropriata la posizione di coloro che pretendono di censurare o limitare drasticamente i media dalla vita quotidiana dei minori poiché sottraendoli ai “pericoli” dei media li si priva al tempo stesso di un’importante risorsa simbolica e materiale. Ma anche posizioni più ragionevoli e frequentemente evocate nel dibattito pubblico – come porre dei filtri nei computer di casa, guardare la televisione con i figli, verificare i siti dove i figli navigano o le chat che frequentano – risultano in ultima analisi insufficienti non fosse altro perché il consumo dei media, soprattutto nella tarda adolescenza, si va collocando sempre più fuori dal contesto domestico (e quindi meno facilmente controllabile dagli adulti) assumendo un ubiquitarismo diffuso grazie a tecnologie che permettono una portabilità, personalizzabilità e multimedialità integrata avanzata (si pensi, per esempio, agli smart phone di ultima generazione). Tutto questo evoca la necessità che l’approccio di tutela/controllo/disciplinamento con cui solitamente si affronta il “problema” del rapporto tra media e minori vada affiancato (se non propriamente sostituito) da un approccio mediaeducativo attraverso il quale i minori, sin dalla più tenera età, vengono messi in condizione di autogovernare (o perlomeno co-governare) il proprio rapporto con i media, di coglierne le infinite opportunità e al tempo stesso i limiti, i vincoli, le sovradeterminazioni. Adottare un approccio mediaeducativo comporta in prima istanza una ridefinizione dell’approccio apocalittico con cui le agenzie educative hanno solitamente guardato al rapporto tra media e minori, e quindi definito il loro ruolo al riguardo: un ruolo non più di protezione, di stigmatizzazione di certi prodotti mediali e pratiche di consumo, ma di preparazione affinché i minori possano continuare a investire nei media le loro passioni, identità e relazioni sociali e al tempo stesso prenderne le distanze crescendo così come cittadini attivamente e criticamente partecipi alla moderna «sfera pubblica mediata» (Thompson, 1995). In questo senso assumere una prospettiva mediaeducativa significa gettare un ponte tra ciò che i minori sanno e fanno già con i media e ciò che essi dovrebbero sapere e fare. È solo attraversando Gianna Cappello Media, minori e Media Education questo ponte che i minori – aiutati dagli educatori – potranno cominciare a capire come certi prodotti mediali che seguono con tanta assiduità e passione sono in effetti il risultato di complessi processi economici, sociali e culturali che si riverberano nel loro vissuto quotidiano definendolo e organizzandolo in un certo modo. Un ulteriore fronte di cambiamento riguarda in particolare la scuola, cui si richiede l’adozione di un pluralismo epistemologico e metodologico tramite il quale superare l’idea della presunta supremazia di un sapere alfabetico e librocentrico, raggiunto mobilitando la dimensione “astrattiva”, logico-razionale del conoscere, a scapito di altre intelligenze (Gardner, 1983), di forme di conoscenza più “leggere” (quelle per l’appunto promosse dai media) che interpellano la dimensione “immersiva”, corporeo-affettiva del conoscere e che spesso risultano per gli allievi più coinvolgenti, motivanti, challenging. Occorre infine che la scuola rifletta bene sulla prospettiva con cui essa si propone di introdurre i media nelle proprie prassi didattiche. Si è infatti verificata ultimamente, anche per effetto di un’interpretazione semplificata di tutta una serie politiche comunitarie che hanno puntato molto sulle nuove tecnologie digitali quale leva principale dell’innovazione nei sistemi scolastici della cosiddetta “società della conoscenza”, una sovraesposizione di tali tecnologie e soprattutto una riduzione della loro introduzione a scuola come semplice dotazione infrastrutturale e alfabetizzazione strumentale. Si è trascurato il fatto che l’accesso e l’uso della “macchina” si deve necessariamente coniugare con la capacità di coglierne le molteplici sfaccettature: strumentali sì, ma anche relazionali, culturali, comunicative, espressive, creative e, se necessario, critiche. I media – intesi come tecnologia e forma culturale al tempo stesso (Williams, 1974) – richiedono approcci educativi che sappiano dotare gli individui (minori e adulti) della capacità tecnica di usare lo “strumento”, ma anche e soprattutto dell’assai più complessa capacità di cogliere i contesti sociali, ideologici, economici e istituzionali entro cui essi operano e vengono adottati, e di sfruttarne appieno le possibilità espressive e comunicative nell’ottica di un’azione sociale configurata come un agire comunicativo riflessivo e responsabile (Cappello, 2009). 92 Gianna Cappello Media, minori e Media Education NOTE [1] J. Bourbon, Introduzione ai media, Bologna, il Mulino, 1997, p.20-21 [2] «L’infanzia – scrive David Buckingham – è una variabile storica, culturale e sociale. I bambini sono stati definiti, e hanno definito se stessi, in modi molto diversi in diversi periodi storici, in diverse culture e in diversi gruppi sociali. Nessuna di queste definizioni è fissa, ma anzi il significato di “infanzia” è stato sempre soggetto a un processo di lotta e negoziazione, sia nei discorsi pubblici (per esempio nei media, nell’università o nelle politiche sociali) sia nelle relazioni interpersonali, tra pari e in famiglia» in D. Buckingham, Né con la tv, né senza la tv. Bambini, media e cittadinanza nel XXI secolo, Milano, FrancoAngeli, 2000, p.38 BIBLIOGRAFIA J. Bourbon, Introduzione ai media, Bologna, il Mulino, 1997 D. Buckingham, Né con la tv, né senza la tv. Bambini, media e cittadinanza nel XXI secolo, Milano, Franco Angeli, 2000 G. Cappello, Nascosti nella luce. Media, minori e Media Education, Milano, FrancoAngeli, 2009 U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964 H. Gardner, Formæ mentis: saggio sulla pluralità dell'intelligenza, Milano, Feltrinelli, 1987 J. B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Bologna, Il Mulino, 1998 R. Williams, Televisione, tecnologia e forma culturale. E altri scritti sulla TV, Roma, Editori Riuniti, 2000 93 David Buckingham Making sense of the “digital generation” MAKING SENSE OF THE “DIGITAL GENERATION” David Buckingham (London University) We are often told that technological changes have created a new “generation gap”. Notions like “the digital generation”, “the internet generation”, and “the playstation generation” frequently recur in the popular debate. These ideas see generations as being defined in and through their experiences of media and technology. In some cases, these changes are seen to be having fundamental and far-reaching psychological and even physiological consequences – and so we have “the thumb generation”, “bionic children” and even “cyborg babies”. Technology is seen here to be precipitating fundamental changes in humanity, and in what it means to be a person. This approach can be contrasted with a more sociological account of generations, for example in the work of Mannheim, which sees generations as being defined through social and historical experience. Popular debates about children and technology are typically quite polarised. On the one hand, we have familiar moral panics, for example about violence and computer games, or pornography on the internet. However, there is also a new utopian discourse – an argument that technology is liberating young people, enabling them to learn, communicate and create in free and unfettered ways. These views embody different social constructions of childhood or youth; and very different constructions of technology. The combination of childhood and technology therefore brings into focus intense hopes and fears about the future; and this is often accompanied by a tendency to “exoticise” or sentimentalise children. 94 David Buckingham Making sense of the “digital generation” Research in this field is obviously at an early stage, but there is much we can learn from looking historically at technological and media change, and at previous work on children’s relationships with “older” technologies such as television and print media. Several general points might be made in this respect. Change in this area is generally incremental rather than revolutionary. Many new media technologies rely heavily on the forms and conventions of old technologies. Technologies are developed, designed and marketed in specific social contexts, that reflect broader economic, cultural and social factors. Technologies possess inherent constraints and possibilities, but they may be used in unexpected ways, and hence have unpredictable consequences – and this is perhaps particularly true in the case of children and young people. Technologies are typically adopted (and indeed adapted) in ways that reflect existing social and individual needs; only rarely do they create needs that did not previously exist. For all these reasons, we should resist generalised assertions about the inherently transformative powers of technology. There are good reasons to question the notion of a distinctive “digital generation”. Research suggests that most young people’s use of new technology is mundane rather than spectacular. Much of it is heavily dependent on well-established routines of everyday life, and on existing relationships within the family and the peer group. The differences between youth and adults are also often overstated. It would be false to assume that children in general are automatically more fluent or competent in their use of technology than adults. For most young people, technology per se is a relatively marginal concern. Very few children are interested in technology in its own right, or believe it has magical powers: they are simply concerned about what they can use it for. At the same time, there are some significant differences here. Today’s childhoods are much more intensively mediated or media-saturated. The range of technologies and the sheer amount of media content available to children have proliferated massively. Most children are growing up in a very different technological environment from the one in which their parents grew up; and this 95 is bound to mean that they regard technology in a different way, and use it for different purposes. In this context, both the risks and the opportunities that are potentially offered by new technologies may not be immediately obvious to adults. Yet in seeking to understand these developments, we need to situate them in the context of wider social forces. There are seven broad issues that are at stake here. Convergence This is partly a technological phenomenon, but also an economic and cultural one. It is made possible by the digitalisation of a range of media or communicative modes; but it is particularly apparent in the rise of lucrative multi-media franchises, particularly in the children’s market. Culturally, this has meant that the boundaries between different technologies and cultural forms have become increasingly blurred. Both as “readers” and as “writers” of media, we are increasingly working across different modes of communication, and often in several modes simultaneously. Multitasking Convergence has particular implications for the experience of media users. The history of technological innovation suggests that new media do not necessarily replace older media, so much as add to the range of options that are available. This is also apparent in practices of children’s media use. Children are increasingly able to combine and shuttle between different activities. While some see this as leading to a form of postmodern distraction, others see it as a manifestation of children’s skill in “multitasking” or parallel processing. It also suggests that contemporary culture is increasingly governed by the laws of the “attention economy”. David Buckingham Making sense of the “digital generation” Individualisation Developments in technology, combined with changes in family life, mean that children’s access to technology in the home is increasingly individualised. Many of these media are also increasingly portable, and capable of being accessed at any time and in any location. In terms of parenting, this is a very ambivalent phenomenon. On one level, individualised access effectively undermines the potential for parental control or mediation of their children’s media use; yet it also seems to increase surveillance. The mobile phone is a particularly ambivalent technology in this respect. Participation These new technologies also offer children far greater opportunities to access the means of creative production, and potentially to communicate with wider audiences. The phenomena collectively known as “Web 2.0” or “social software” are seen to be creating much more interactive and participatory culture, in which the boundaries between the elite of producers and the mass of ordinary consumers seem to be breaking down. However, these possibilities are clearly not yet available to all – and whether they represent meaningful “empowerment” is quite questionable. Identification Taken together, these developments pose new questions about the nature and formation of identity. We know that media play a key role in children’s peer group culture and within the family: struggles over expertise and control in these domains are also struggles over identity. Equally, media are offering new, more diverse and more confusing images of identity, for example through forms of celebrity culture and reality television, and in areas such as sexuality. These questions become more acute as young people are increasingly able to construct their own representations of themselves, and to distribute these online, for example via social networking sites. There are far-reaching questions here about how young people understand the boundaries between the public and the private, and the relationships between on-line and offline identities. Credibility, ethics and trust New media offer the benefit of a much wider range of information sources, but the motivations, identity and quality of those sources are often difficult to ascertain. The demise of the traditional editorial function creates particular difficulties in terms of trust. Communities of users may develop their own standards for judging and maintaining credibility, although this process can be fraught with disputes. The potential of digital technology in terms of copying and circulating content also has significant implications for the notion of copyright and intellectual property. In these respects, the ethical dimensions of these media pose significant educational challenges. Commercialisation Behind many of these developments, and in many cases largely driving them, are economic motivations. They need to be seen in the context of a broader commercialisation of public space and public goods. The individualisation of contemporary media and technologies offers significant new opportunities for targeted or personalised marketing. We have also seen a shift from advertising to less visible forms of marketing and promotion – as well as more “participatory” forms such as viral marketing. The boundaries between promotional and other content may be much harder to identify here. New media also have significant potential in terms of surveillance and intrusion on privacy. My observations here point to a rather more critical response to the phenomenon of “Web 2.0”, and the apparently “participatory” media culture it represents. There are several reasons to be cautious here. There remains a continuing digital divide, in that the 96 David Buckingham Making sense of the “digital generation” most active participants in so-called participatory media are largely those who are already privileged in other respects. These media are also largely driven by commercial marketing – even if many of them have so far failed to generate profit. I would also question the idea that Web 2.0 is a free space for self-expression: there are significant constraints here in terms of how participants can define identities, and in terms of the nature of community. Despite the utopian rhetoric that surrounds these developments, knowledge still matters: the ability to access but also to evaluate and mobilize knowledge is still a key dimension of social power in the digital world. More broadly, I would argue that these developments are not simply a consequence of technological change, but a manifestation of wider social processes. The notion that the contemporary world has been characterised by a growing sense of mobility, fragmentation and individualisation – explored in different ways by authors such as Beck, Giddens and Rose – seems to me to offer a useful reflection on what is taking place here. In particular, I would draw attention to the notion of governmentality, the notion that government is becoming internalised – that it is no longer a matter of obedience to authority but of selfgovernance, self-surveillance, and even selfcontrol. Developments in the media both reflect and contribute to this – for example, through the growth of niche marketing, the promotion of more individuated forms of identity and lifestyle, and the emphasis on customised or personalised uses and interpretations of cultural goods. How much of this is just superficial appearance, and how far it really undermines existing social structures, is of course debatable. Even so, it is clear that these developments are by no means simply to do with technology. To some extent, all the issues I have raised are reflected in developments in media policy. There is a sense here that technology is moving beyond control; but also that the legitimacy of direct governmental intervention in matters to do with private taste or morality is much more questionable and problematic. So we have seen a shift in thinking about media regulation away from centralized control towards a more modern, neo97 liberal form of governance, based on the notion of the self-regulating “citizen-consumer”. This in turn raises interesting issues for education. On one level, education has a great deal to learn from what is going on in young people’s new media cultures – and perhaps particularly from the new styles of informal learning that may be emerging. However, there is some danger of a simplistic celebration here – for example in some of the discussion around learning and computer games. My argument here is that we need to be wary of simply importing new technology into education; rather, we need a strong form of digital media literacy. Young people need practical skills, but they also need critical understanding and knowledge, and they are not going to develop these simply because they have access to technology. The notion of media literacy is increasingly popular in policy debates, in the UK but also across Europe. The UK media regulator Ofcom, for example, defines media literacy in terms of three areas: access, understand, create – although in practice, much of its focus is on access, and there has been less attention to critical understanding. There is also an implicit focus on information here, and a neglect of the cultural dimensions of media use – and this is something that is more strongly emphasized by media educators who have been working in this area for a long time. The more critical question, however, is whether media literacy merely represents a new technique of governmentality – another way of creating well-behaved, self-regulating consumers, or good little citizens; or whether it offers a genuine opportunity for empowerment – a way of increasing democratic control and participation in media, and beyond that, of extending people’s rights to self-expression and self-determination. David Buckingham Making sense of the “digital generation” Sul tema Paolo Jedlowski, Il racconto come dimora. «Heimat» e le memorie d'Europa di Giovanni Ciofalo (Sapienza Università di Roma) Roberta Bartoletti, Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa complessa per le cose del moderno, di Roberta Paltrinieri (Alma Mater Studiorum, Università di Bologna) Su altri temi Chris Anderson, Gratis, di Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini (Università di Verona) Manuel Castells, Comunicazione e potere di Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini (Università di Verona) 98 Giovanni Ciofalo Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa RECENSIONI Sul tema Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa Giovanni Ciofalo (Sapienza Università di Roma) P. Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 158 Seppure una recensione, per logica e per economicità, generalmente dovrebbe analizzare un volume dal suo inizio, nel caso del libro di Paolo Jedlowski, “Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa", preferisco invece cominciare dalla frase conclusiva dell'ultima pagina: «l’esperienza è il processo che ci permette di trarre partito da ciò che abbiamo vissuto: raccontare, se ne siamo capaci, aiuta a elaborarla e a continuare la strada». Il libro di Paolo Jedlowski propone un percorso analitico estremamente interessante, ma anche complesso, e queste parole riescono in maniera molto efficace a coglierne l'essenza, racchiudendo i principali temi che vengono trattati: certamente l'esperienza e il racconto, ma anche, specularmente, la vita e la memoria. Jedlowski, anzitutto, elabora il suo racconto - e utilizzo qui il termine "racconto" appropriandomi del significato attribuitogli dallo stesso autore, ovvero quello di contenuto e resoconto di una propria esperienza prendendo come spunto di riflessione un altro racconto: la trilogia filmica "Heimat" di Edgar Reitz. L’opera di Reitz, che racconta le vicende di una famiglia tedesca dal 1919 fino al 1999, intrecciando dal punto di vista narrativo le piccole storie di alcuni dei protagonisti con la grande storia del Novecento, diviene la base su cui Jedlowski edifica un quadro interpretativo che, non risolvendosi nella sola scomposizione e ricomposizione dei film, utilizza Heimat più puntualmente come testo e come ipertesto. Come testo anzitutto perché, se dal punto di vista cinematografico, con i suoi undici episodi, rappresenta una unitas complex e un esempio paradigmatico di narrazione, in una prospettiva più propriamente sociologica Heimat offre, grazie ad un accurato processo di ricostruzione e messa in scena delle vite dei suoi molti personaggi, un campo lungo sulla storia sociale della Germania e una panoramica su quella dell’Europa. Un testo che per tanto, non solo deve essere fruito, ma anche studiato; scrive, infatti, Jedlowski: «(Heimat) Restituisce il Novecento ai tedeschi e non solo a questi. Permette di ripercorrerlo, gli dà un ordine. Man mano che il racconto si dipana, lo spettatore ha modo di collocarvi a fianco tanto le informazioni storiche di cui è a conoscenza quanto i propri stessi ricordi. Si costituisce una trama, di cui egli stesso scopre di essere parte» (p. 45). Pur non trattandosi affatto di un documentario, nonostante l'attenzione ai più piccoli dettagli sia estrema, lo sguardo in soggettiva che caratterizza Heimat consente allo spettatore sia di ripercorrere i piccoli e grandi avvenimenti che hanno segnato la vita del paesino di Shabbach e l’esperienza dei suoi abitanti, che, in qualche modo, di diventare uno di loro. Questo avviene non soltanto in funzione dell’esperienza diretta – aver vissuto, seppure a latitudini diverse, la seconda guerra mondiale, il boom economico oppure gli anni Ottanta – ma soprattutto attraverso la sovrapposizione e l'ibridazione tra i ricordi che possiede, derivanti 99 Giovanni Ciofalo Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa oltre che dagli avvenimenti della sua vita, dai libri di scuola, da altri film, da romanzi e così via, e l’insieme delle immagini presentate proprio in Heimat. Reitz, di fatto, mette a punto un modello unico di rappresentazione, seppure non sempre caratterizzato dal medesimo livello qualitativo, definendo una sorta di struttura ideale, applicabile, e talvolta in parte applicata, anche in altri contesti. Al di là dell’individuazione di possibili assonanze e rimandi, l’interesse specifico nei confronti di questo particolare prodotto culturale nasce precisamente, sottolinea Jedlowski, dalla sua capacità di porsi nel mezzo dei «due estremi del racconto che testimonia la vita e quello che la moltiplica nell’immaginazione» (p. 34). E del resto, la vita è appunto uno dei temi principali sia di Heimat, che del volume, intesa nelle sue differenti declinazioni: privata e pubblica, soggettiva e collettiva, quotidiana e straordinaria, reale e virtuale, raccontata o indicibile. In tutti questi casi, non esiste un’alternatività, quanto piuttosto una complementarità sistemica, così profonda e inestricabile che la scelta di soffermare l’attenzione su uno specifico attributo (privata, pubblica, soggettiva, etc.) acquisisce significato soltanto in funzione dell’attivazione di una concatenazione semantica con gli altri termini e le altre accezioni. Una concatenazione, possibile secondo Jedlowski soltanto attraverso la narrazione e il racconto, che trova in Heimat un delicato equilibrio di funzionamento, basato su un meccanismo di rimandi e di oscillazioni e capace di fornire una misura della multidimensionalità della vita. In questo senso, allora, il testo Heimat è anzitutto "una storia del quotidiano", ricca di contenuti uniti dal filo della narrazione che ripristina i legami temporali che invece la Storia può aver reciso, mettendoli nuovamente a disposizione di altri. Facendo riferimento al complesso significato etimologico, allora più che la madre patria Heimat diviene il luogo del tempo perduto dove, come scrive Jedlowski, «raccontare significa dunque costruire un intreccio che permette al soggetto di rifigurarsi lo svolgimento della vita nel tempo e così, in una certa misura di padroneggiarlo. Un padroneggiamento che è ancor più manifesto nella possibilità che ha il racconto di venir ripetuto: possibilità che compensa l'irreversibilità del tempo che fugge» (p. 95). Heimat, inoltre, è anche un testo mediale, che sfruttando la sua modularità narrativa e il supporto del medium cinematografico cristallizza uno spazio di rappresentazione, contribuendo, come sempre fanno i media che sono parte attiva della sfera pubblica, alla costruzione di una memoria pubblica e accessibile (cfr. Silverstone, 2005; Rampazi-Tota, 2007). Per riprendere la definizione fornita dall'autore del volume, si tratta di un'esperienza mediata che propone una visione del passato per il presente, che non esaurisce la gamma di tutti i racconti possibili sugli stessi temi che affronta, ma che certamente entra a far parte dell'archivio documentale che il cinema e la televisione, più ancora che gli altri mezzi di comunicazione, sono riusciti gradualmente a edificare, colonizzando il territorio della nostra memoria collettiva. Jedlowski, però, sostenendo efficacemente che la narrazione è interazione, all'interno del suo libro non si limita soltanto all'analisi testuale, ma individua anche una serie di collegamenti che da Heimat, proprio come se si trattasse in un ipertesto, consentono altri approfondimenti concettuali. Tra le dimensioni della storia, che include la memoria, del racconto, che prevede una mediazione, la narrazione si pone come l'azione specifica di uno nei confronti di un altro (o più altri). In generale, ogni forma di narrazione è anzitutto motivata dall’esigenza di attivare un contatto: è un atto comunicativo e, in quanto tale, è uno scambio che presuppone il mettersi in gioco, sia in qualità di emittente che di ricevente. Jedlowski sottolinea questo passaggio fondamentale: l'esperienza diviene narrazione e la narrazione, a sua volta, esperienza. Un'esperienza comunicativa in cui la punteggiatura (il nostro modo di stabilire una progressione lineare) rappresenta soltanto un criterio soggettivo di ordinamento: non è possibile raggiungere la consapevolezza, e di conseguenza la completezza, di un'esperienza personale senza avere la capacità di elaborarla e, dunque, di raccontarla. Soltanto una volta divenuta narrazione e destinata ad un altro, individuo o tempo, essa può venire memorizzata e ripercorsa. La narrazione, inoltre, diviene, nelle moderne società tecnologiche della comunicazione, un bisogno specifico, amplificato e tradotto in una serie di altri bisogni (comprensione, razionalizzazione, evasione): una pratica quotidiana in grado di attivare forme comunitarie ad un diverso livello di concretezza, ma non per que100 Giovanni Ciofalo Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa sto meno presenti e incidenti sulla scena sociale. La nozione di "comunità narrativa", utilizzata da Jedlowski, coincide o può essere fatta coincidere, del resto, con quella di comunità in generale. Sono il tessuto dei racconti, la qualità dei contenuti, la loro capacità di focalizzare dei temi, la loro durata a determinare le caratteristiche della comunità di riferimento e viceversa. Se non la somma aritmetica, certamente l'insieme di tutte le possibili comunità origina la società stessa ed è per questo, allora, che la narrazione deve essere interpretata come «[...] una pratica che si incastona nelle relazioni sociali e con queste intrattiene un rapporto di circolarità» (p. 35). Jedlowski, utilizzando Heimat, lo dimostra e, contestualmente, sottolinea il progressivo cambiamento che ha reso la sfera pubblica sempre più mediata: processi come la costruzione della realtà o la definizione del senso comune hanno luogo all'interno di uno spazio in cui il coinvolgimento dei media rappresenta una variabile determinante. Il cinema, ad esempio, in qualità di sistema di produzione e veicolazione di storie concorre non soltanto a fornire una immagine, più o meno stereotipata, della realtà, ma produce anche una forma di sensibilizzazione, più o meno elevata, nei confronti dei contenuti che trasmette. Così Heimat non è più soltanto l'insieme dei film che compongono la trilogia e neppure la ricostruzione di un arco temporale della storia della Germania e delle storie di alcuni suoi abitanti. Diventa, per usare una suggestione tecnologica, un "portale" tramite cui può essere avviata una o più forme di navigazione all'interno di quello stesso spazio (la sfera pubblica) che contribuisce a comporre. Di questa navigazione, il volume di Paolo Jedlowski rappresenta un validissimo strumento di orientamento multidisciplinare, riuscendo a contenere insieme approfondimenti riguardanti la narrazione e la storia, la memoria e il racconto, la sfera pubblica e l'individuo. Un libro che, estendendo volutamente il suo approccio teorico e interpretativo, approda ad una preziosa dimensione ecologica relativa all'oggetto che problematizza, trasformando davvero Heimat nella dimora del racconto e della narrazione. 101 Roberta Paltrinieri Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa complessa per le cose del moderno RECENSIONI Sul tema Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa complessa per le cose del moderno Roberta Paltrinieri (Alma Mater Studiorum, Università di Bologna) R. Bartoletti, Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa complessa per le cose del moderno, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 192 Nel proporre una teoria comunicativa complessa per le cose del moderno, come cita il sottotitolo del volume di Roberta Bartoletti “Memoria e comunicazione”, l’autrice propone un vero e proprio salto paradigmatico per lo studio del rapporto esistente tra gli individui ed il mondo delle cose, mediato dal sistema del consumo, luogo emblematico in cui si esprime il simbolico, del quale si nutre l’esperienza individuale. Ripercorrendo i passi dei Maestri del pensiero sociologico sui consumi, Veblen e Baudrillard i più illustri, studiare il mondo degli oggetti diviene un pretesto “eccentrico”, questo è l’aggettivo che compare nel testo, per osservare il funzionamento delle società, in questo caso le società complesse. Così facendo ella ci offe un punto di vista estremamente originale, in cui il processo del consumo, gli oggetti del consumo, gli attori ed il mercato possono essere osservati secondo una prospettiva capace di sovvertire il sapere consolidato sul tema. L’ipotesi teorica che viene presupposta è radicale: il rapporto tra comunicazione e memoria sociale è ciò che permette la riproduzione autoreferenziale, in senso luhmanniano, dei sistemi sociali complessi nella ridefinizione delle proprie identità. Questo implica il prodursi e riprodursi di una memoria del sociale che, con le sue caratteristiche di generalizzazione, indifferenza e contingenza genera, a livello del simbolico, forme senza contenuto, senza alcuna referenza a memorie individuali e memorie collettive che, al contrario, si nutrono della specificità fondata sulla differenza, di soggettività viventi e di collettivi concreti. Affermare il primato della memoria del sociale come prodotto della modernità, sostenere che il passato, la storia della società è oggetto di un continuo processo selettivo tra le operazioni del ricordare e del dimenticare, affermare, infine, che l’oblio è l’operazione più vitale per assicurare al sistema il futuro, svela al lettore nuove prospettive per rileggere il processo di individualizzazione che sappiamo essere centrale nel dibattito sociologico attuale. Lo iato si colloca ora tra le memorie individuali e collettive, da una parte, e la memoria del sociale, dall’altra. Il sistema degli oggetti trova in questa prospettiva significati e categorizzazioni teoriche inedite. La nuova classificazione proposta distingue gli oggetti per ricordare, i feticci, dagli oggetti per dimenticare, le merci, che portano in sé la qualità immanente del denaro, passando per le memorie della differenza, che si incarnano negli oggetti di classe, rivisitando così la retorica dello status symbol che ha costituito il perno del discorso sociale sui consumi per quasi 100 anni. 102 Roberta Paltrinieri Memoria e comunicazione. Una teoria comunicativa complessa per le cose del moderno E’ in questo modo che l’analisi del consumo esce dai confini, forse troppo angusti, di un approccio specialistico per inserirsi in una più ampia teoria della società. Se poi è vero che le “cose”, come ci hanno insegnato Mary Douglas e Michel de Certeau, autori che ricorrono nel testo, e recentemente ci ha ricordato il filosofo Remo Bodei, sono il luogo in cui si concretizza la tensione tra struttura ed azione, tra sovradeterminazione e creatività, libertà e coercizione, non dobbiamo pensare che lo iato si risolva solo a favore del sistema. Non si può dare per scontato, afferma Roberta Bartoletti, che le memorie individuali in accoppiamento strutturale con le memorie del sociale finiscano trasformate in forme senza contenuto. L’epilogo della proposta teorica, che qui viene avanzata, non induce verso il pessimismo tipico di quel minimalismo sociologico che non vede alcuna possibilità per il soggetto. La pervasività del sociale incontra resistenza sul piano dei vissuti soggettivi e nei loro consumi. Le memorie individuali e collettive non sono semplicemente lavori di conservazione di ciò che è stato, il passato attraverso la memoria è costruito nel presente, perché è nel presente che è funzionale nel produrre senso e significato alle esistenze individuali e di gruppo. Per questo è fondamentale il rapporto tra consumi, identità e memoria. È in tal senso che la produttività del consumo e le azioni del consumatore-produttore non solo acquisiscono rilevanza nella sfera privata, così come siamo abituati a pensare nel contrapporre le tattiche dei soggetti alle strategie del mercato, ma anche in quella pubblica, laddove si costruiscano narrazioni e discorsi identitari anche alternativi a quelli ufficialmente costruiti dalle istituzioni preposte. Ecco la grande novità: il mercato ed i media della comunicazione non sono esclusivamente luoghi sociali per la riproduzione del consenso attraverso atti persuasivi, così come ci ha insegnato la critica alla società dei consumi. Come dimostrano gli esempi di Heidiland, dell’Ostalgia e le biografie delle bambole islamiche, il mercato e i media della comunicazione, nella distanza e nella indifferenza che contraddistingue il loro atteggiamento blasè, assurgono a spazi pubblici in cui esprimere una creatività diffusa che, incarnando memorie ed identità individuali e collettive, è spesso dissociata dai discorsi ufficiali sulla memoria e sull’identità, creando forme alternative capaci di dare voce alle identità individuali e di gruppo. E se è vero che, come scrive Vincenzo Cesareo nella prefazione al testo, le scienze e la ricerca sociale sono sempre anche una forma di azione, questo libro, ricordandoci che è possibile la presa di parola, diviene imprescindibile per lo studio della dimensione politica del consumo, dimostrandoci quanto la life politics rappresenti la nostra realtà esperienziale nella società globale. 103 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Gratis RECENSIONI Su altri temi Gratis Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini (Università di Verona) C. Anderson, Gratis, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 285 (Ed. orig.: Free. The Past and Future of a Radical Price, New York, Hyperion, 2009) Da Casa “Wired” “Gratis” è il titolo dell’ultimo libro scritto da Chris Anderson, cinquantenne californiano: dal 2001 dirige il mensile “Wired”, la cosiddetta “bibbia” delle news sul mondo di internet e del web. Questo esponente della exCyberpunk Generation, non è nuovo a scrivere libri di divulgazione scientifica che si basano su delle tesi a cui prestano attenzione soprattutto gli scienziati sociali del Web. Infatti, risale a tre anni fa la prima edizione statunitense del saggio “The Long Tail”, opera che è ancora sul tavolo dei manager dell’Ict e delle Tlc di mezzo mondo post-industrializzato, e che molti dottorandi di sociologia, economia, psicologia e antropologia ancora ignorano. Con “Free” il saggista californiano torna a scrivere dell’economia globale by internet. Si tratta di pagine che investono i cosiddetti “servizi gratuiti”. Ne abbiamo tutti esperienza quando facciamo download di un neo-software, un’applicazione o un prodotto di consumo. Non dimentichiamo però che siamo nll’epoca in cui la comunicazione interumana via computer in Rete e via telefonino soggiace ad ogni sorta di costi per l’hardware, prezzi per il software, costi per i servizi che, peraltro, variano da Paese a Paese, anche se le Telco sono multinazionali. Eppure, si enfatizza il gratis on line? Come mai? In che cosa consiste la convenienza del “gratis on line”? Per Anderson la conditio sine qua non dell’ubiquità della Rete è il “mercato libero” in Rete e lo sviluppo del “gratis” è conseguenza dell’abbondanza dell’offerta. Le condizioni sono ormai mature per far sì che la Rete passi da essere una mega-macchina a confondersi con l’ambiente. La transizione non è comunque indolore. Da una parte, lo sviluppo del capitalismo maturo vede prima la drastica riduzione del valore di scambio dei prodotti e poi la facile reperibilità delle risorse. Dall’altra, alla ormai lunga stagione di elevata produttività di beni corrisponde una non decrescente opulenza socio-economica. Nei Paesi economicamente più sviluppati non si può rallentare né il volume né l’accelerazione dello sviluppo dei sistemi produttivi, né far venire meno o ampliare largamente il ciclo dei consumi. Se il crescente accumulo di tecnologie, innovazioni, conoscenza, permette di abbassare il costo dei prodotti, per mantenere entro i limiti accettabili il regime dei consumi si rende necessaria la distribuzione su una vasta e crescente scala dei prodotti a basso costo specifico. Per i produttori, la distribuzione gratuita a determinate 104 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Gratis condizioni ed in alcuni ambiti può essere anche economicamente conveniente. Quando allo spreco produttivo corrisponde un valore incrementale dei consumi generalizzati o dei consumi dei prodotti a pagamento. Come dire che agli ipermercati dell’elettronica e del digitale conviene regalare ai loro clienti delle Key Usb quando questi ultimi effettuano un discreto volume di spesa nelle stagioni di basso profilo dei consumi. Dov’è la convenienza sia dei produttori che dei consumatori? L’Autore, pur dichiarandosi un non-economista, si slancia a parlare di economia della comunicazione digitale. Per lui, l’economia del Gratis è una novità della Rete. Da una parte permette di ‘posizionare’ il prodotto in una sorta di “vetrina universale”. Dall’altra, fa sì che i consumatori su scala globale – quindi da S.Francisco a Goa – più che confrontare il prezzo dei prodotti della stessa gamma, in base ai rapporti qualità-prezzo, preferiscano subito il “gratuito” o il “quasi-gratuito”. Per questo motivo ai produttori conviene azzerare i prezzi: ovviamente, senza s-considerare il recupero della soglia minima di costo produttivo. Contemporaneamente, però, è il caso di varare delle strategie sia di “sovvenzionamento incrociato” dei distributori, sia di fidelizzazione delle associazioni di consumo organizzato. Da entrambi ci si aspetta l’impegno a – secondo gli auspici della comunicazione strategica – garantire dei profitti indiretti allocando sul mercato i prodotti più costosi, quali sono, l’hardware e le applicazioni per l’accesso ai servizi. Perché le neo-tecnologie digitali rendono efficace questa strategia socio-economica? La realtà delle tecnologie informatiche non è paragonabile a quella delle tecnologie mass-mediatiche. Ora, lo sviluppo è basato non sull’originalità del medium o del programma ma sulla combinazione e sull’economicità delle applicazioni. Si basa sull’elevato rapporto tra le idee ed i materiali. Per esempio, per rinnovare la gamma dei semi-conduttori e dei microchip servono più idee che materia prima. In parallelo, più le dimensioni fisiche dell’hardware sono miniaturizzate maggiormente l’utilizzo è favorito e la commercializzazione è facilitata ed allargata. Occorre sempre tener presente che tra atomo e bit sussiste una radicale differenza. Le applicazioni delle tecnologie digitali favoriscono i consumi, ma soprattutto gli investimenti nell’innovazione tecnologica. Da qui la crescente riduzione dei costi dell’hardware. Se ciò favorisce la diffusione dell’hardware informatico, l’incremento del valore del software “schizza verso l’alto”. Con delle conseguenze immediate sulla struttura produttiva: l’aumento degli investimenti nei laboratori dislocati nei Paesi meno industrializzati; il maggior numero di webmaster; la “liberazione” delle risorse intellettuali e creative dei giovani. L’innovazione del software non chiede forse dei grandi investimenti finanziari a rischio? Chi può permetterseli? Per Anderson, il web 2.0 dimostra che, accanto agli ingegneri informatici, scende in campo l’utente collettivo. Quest’ultimo va considerato un nuovo tipo di webmaster. Perché? Gli utenti della Rete che consumano molti applicativi tendono anche a testarli, migliorarli, regalare delle informazioni su di essi. La quota di essi che “mette becco”, accedendo ai blog per informare prima gli amici e poi la Software House, è cooperativa ed interoperativa. I suggerimenti spontanei creano “coordinamento sociale”. 105 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Gratis Non trascuriamo l’importanza degli atti di pirateria informatica. C’è differenza tra hacker e cracker. I primi sono, più o meno indirettamente, degli sviluppatori gratuiti. Forniscono ai professionisti delle informazioni sulla loro esperienza che sono facilmente traducibili in nuove idee per nuovi prodotti. I produttori industriali lo sanno, e se ne avvantaggiano favorendo talvolta il lavoro creativo dei “corsari del Re”. Con una precauzione: procedendo con cautela nella diffusione dell’innovazione, visto che i concorrenti ed i cracker sono sempre davanti al buco della serratura. Nonostante la logica del “gratis” sia sempre più condivisa, la logica del “rilascio lento” delle novità resta dominante. Soprattutto per le multinazionali del software. L’esigenza di creare profitto (non decrementale) imponendo dazi sulle applicazioni e barriere di accesso ai servizi digitali è ancora in primo piano. La storia sociale del software dimostra che la tensione tra la divulgazione dei prodotti innovativi e gli sforzi tesi a mercificare gli applicativi di massa non accenna a diminuire, anche se la neo-cultura del “Gratis” segna una svolta. La disputa tra Microsoft e Linux, Yahoo e Google, per esempio, ci dimostra che la lotta tra la logica della commercializzazione – software su licenza; dati a pagamento, volumi di archiviazione a pagamento – e la logica della distribuzione gratuita – open source, spazio illimitato di archiviazione, ecc. – ha un passato senza risparmio di colpi a ferire. Ora, dal momento che gli utenti-webmaster vogliono andare oltre questa realtà, il mercato ne ascolta i peana offrendo dei modelli ibridi di mercato. Come intervengono i Titani del software? Qualcuno ha già compreso quali possano essere i trend di convenienza. Per esempio, sperimentando l’offerta gratuita dei suoi prodotti meno raffinati. Il “gratis” è compensato da altri profitti di mercato – vendita di software specializzati, assistenza tecnica alle aziende, ecc. Google, in particolare, ormai si presenta con una “anima Geek”. Possedendo dei Data Center grandi come i capannoni della Ford a Detroit, pieni di schede-madre e dischi rigidi connessi a internet, ha facilità ad offrire spazi gratuiti ai suoi utenti. Sempre Google, da una parte investe sulle energie rinnovabili ed il contro-inquinamento ambientale. Dall’altra, però, chiede ai suoi ingegneri di creare dei nuovi prodotti per incantesimare il “popolo del web”. La rinuncia al profitto su una gamma di singoli prodotti è compensata dal controllo del mercato di molte altre gamme di prodotti. Come avviene il controllo? Nei modi più svariati. Il più solvibile riguarda il mercato delle inserzioni pubblicitarie on line che sono associate a questo o quel prodotto in offerta. Quali sono le novità assolute del neo-mercato on line basato sul “gratis”? Anderson presenta tre “formule” di risoluzione del “Gratis” in Rete. Innanzitutto, c’è il cosiddetto “mercato a tre vie”, consistente nel pagamento del prodotto digitale. Questo è acquisito dagli utenti direttamente dagli inserzionisti di pubblicità sul web. Poi, c’è il “Freemium”: la massa dei consumatori che usufruisce di un servizio gratuito. Questo è pagato da pochi, ovvero solo da coloro che finanziano i produttori del servizio stesso. Infine, c’è il mercato dell’open source, basato sulla fornitura gratuita on line dei contenuti che sono auto-prodotti dagli utenti o dalle Software House. Gli esempi associati a queste tre “formule” sono parecchi. Tra i più popolari troviamo: i) il File Sharing musicale; ii) la musica per l’iPod; iii) i videogames gratuiti on line. Il boom di tali settori in questi anni fa da auspicio al secolo XXI, che, secondo l’Autore, vedrà l’economia del Gratis particolarmente fiorente e progressiva. D’altronde, soltanto nell’ultimo decennio ha mosso tra i 260 miliardi ed i 300 miliardi di dollari ad annata. Una bella cifra, vero! 106 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Gratis Allora, torna d’attualità l’economia del dono degli antropologi del primo Novecento? Secondo Chris Anderson parrebbe proprio di sì, anche se i “distinguo” non mancano. Non c’è un ritorno al valore d’uso, ma il suo incorporamento in un valore di scambio più raffinato, invisibile, informazionale. L’economia del Gratis si basa principalmente su due fattori: la reputazione e l’attenzione. Entrambi sono dei fattori non-monetari. Sono, invece, espressione dell’intrusione degli utenti-consumatori di internet nei processi di riproduzione del valore di scambio dei prodotti on line. L’utente, nella veste di corrispondente di blog, webmaster domestico, consumatore personalizzato, assume facilmente la funzione di interprete, ri-produttore, divulgatore dei contenuti che gli interessano. Trasponendoli in Rete, da un lato li pubblicizza, dall’altro lui medesimo si attribuisce il ruolo di “portatore di interessi” di massa. È questa una forma di “interventismo digitale” che, pur essendo di base, avviene spesso con creatività e passione. Spesso, comporta dei quid così alti, circa l’innovazione dei contenuti o della distribuzione dei prodotti, da favorire i competitori industriali che sanno comprenderli per avvantaggiarsene. Anderson spiega il fenomeno ricorrendo alla nota e celebrata teoria della motivazione umana di Abraham Maslow, peraltro formulata alcuni decenni fa. Dopo il soddisfacimento dei bisogni fisiologici di base, gli uomini rincorrono sempre più il soddisfacimento dei bisogni di sicurezza, amore, autorealizzazione. Poi, aspirano a concretizzare i bisogni di stima, riconoscimento sociale, auto-realizzazione. Per quanto possa apparire una “prova di ingenuita”, questo richiamo al “vecchio” psicologo comportamentista non è, almeno qui, totalmente inutile. Per l’Autore, nella comunicazione on line, la reputazione e l’attenzione divengono sempre più dei motivi di gratificazione. Anche di tipo economico. In quali casi? La reputazione – in positivo – matura facilmente se il contatto digitale porta a forme di fidelizzazione che generano una disponibilità quasi-permanente di “capitale sociale”. Parimenti, la concessione di spazi digitali alla pubblicità degli inserzionisti paganti rende il principio di attenzione una fonte di profitto economico. D’altro canto, non è una novità che i data dei consumatori siano sì informazioni ma anche un capitale economico. Con l’economia del Gratis non si specula forse sull’utente on line? Certo è che l’intero web è rappresentato – più volte – come una sorta di “giardino delle delizie” di tutti gli stakeholder. In nome di che cosa? Non certo dello scambio del dono della “rosa aulentissima” di tradizione trobadorica. A nostro parere, lo scambio reale riguarda piuttosto la capitalizzazione socialeconomica delle “risorse umane” che nella comunicazione on line trovano il loro hortus conclusus. Come dire che il “Gratis” è una nuova “ragnatela” per catturare la comunicazione digitale di ciascuno di noi, trasformandoci in stakeholder cooperativi dei “Polifemo della Rete”. Ciò che è gratis in rete è caro per il mercato! “Gratis” è un saggio che consigliamo a tutti coloro che sono interessati alle scienze sociali dell’Ict e delle Tlc. Soprattutto se fino ad oggi si sono preoccupati molto dei contenuti o delle singole tecnologie e poco dei mercati mondiali. L’occasione di scoprire come la convergenza in corso tra i Titani dell’Ict ed i Colossi delle Tlc stia provocando delle faglie e dei sollevamenti dei consumi avanzati di massa è ora a portata di mano. Anderson ci fornisce qualche avviso circa le conseguenze economiche su scala globale di cui l’innovazione tecno-digitale è responsabile. Beninteso nel bene e nel male, secondo lui. Il suo è un libro che, ancora una volta, è portavoce di una “tendenziosità”, visto che abbraccia una tesi e la coltiva dalla prima all’ultima pagina. Non a torto, ma con la verve di chi scrive più un pamphlet colto-divulgativo che un saggio scientifico. Ciò non significa che questo libro non abbia i meriti per entrare di diritto nei seminari universitari, anzi! Uscito in edizione inglese nel maggio del 2009, è stato tradotto in italiano in pochi mesi. Il merito va senz’altro riconosciuto all’Editore. 107 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Comunicazione e Potere RECENSIONI Su altri temi Comunicazione e Potere Matteo Bertaiola e Bruno Sanguanini (Università di Verona) M. Castells, Comunicazione e Potere, Milano, Università Bocconi Editore, 2009, pp. 665. (Ed. orig.: Communication Power, Oxford, Oxford University Press, 2009.) Un libro che lancia un segnale Con 550 pagine di testo e 115 pagine di apparato documentale, “Communication Power” – titolo originale – è un saggio che, con ogni probabilità, avrà una non breve popolarità. La tematica porterà inevitabilmente ad una cascata di citazioni soprattutto in area europea ed asiatica. Dove la consuetudine nord-americana di guardare sia verso l’alto che verso il basso della spirale dei fenomeni socio-culturali non è (ancora) un fatto globale. Tanto in Asia quanto nell’Europa continentale, la tradizione degli scienziati sociali di volgersi soprattutto verso il basso, cioè verso i consumatori, gli utenti, le audience, è ancora prevalente. Lo rimarchiamo subito dal momento che l’opera del sociologo catalan-franco-californiano fornisce non un cannocchiale ma sia un binocolo che un micro-telescopio su diversi fenomeni della comunicazione mediata a distanza. Come farne uso? Nella decina di pagine di Ouverture (Apertura), Manuel Castells presenta il repertorio delle espressioni-chiave che rappresentano le sue idee. Così facendo, da un lato fornisce al lettore una mappa cognitiva, dall’altro avvisa tutti che lo scavo dei cinque capitoli che seguono richiede pazienza e sagacia. D’altro canto, non si tratta di né di un volume tascabile né di un’opera di facile consumo. L’Indice offre dei titoli di capitolo abbastanza comprensibili, ma presenta anche dei paragrafi i cui titoli sono, spesso, almeno a prima vista, un’incognita. Tra i tanti paragrafi, ne ricordo subito uno esemplare: “The message is the medium”. Ricorda da vicino “The Network is the Message” – titolo attribuito da Castells all’Opening del suo saggio “The Internet Galaxy” del 2001. E’ un tributo a Marshall McLuhan? Sì, ma al quadrato. Circa il “potere” della comunicazione? Che tipo di potere è? A pagina XX, l’autore scrive: “Il potere è più che comunicazione, e la comunicazione eccede il potere. Ma il potere si fonda sul controllo della comunicazione, come il contropotere dipende dall’infrangere quel controllo.” Ed a pagina XXI prosegue così: “Per spiegare però in che modo il potere è costruito nelle nostre menti mediante processi di comunicazione, dobbiamo andare al di là del come e da chi i messaggi sono originati nel processo di formazione del potere e trasmessi/formattati nelle reti elettroniche di comunicazione.” 108 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Comunicazione e Potere “Comunicazione e potere” è uno studio sui poteri sociali della comunicazione più che sui rapporti tra la comunicazione e le forme di potere, da un lato, i poteri ed i mezzi di comunicazione, dall’altro. Si riferisce alla struttura sociale della nostra epoca: la società in rete. Di questa considera cinque o sei tipi di realtà: le istituzioni; le corporation; il mercato globale di massa; i movimenti sociali; i soggetti autonomi comunicanti; la rete emozioni-mente dell’uomo contemporaneo. Si tratta di tipi su cui l’autore non “fa storie”, concentrato come è a costruire il suo “caso di studio”. Probabilmente è questa la causa che lo spinge a non citare né il canadese Harold Innis né il bordolese Jacques Ellul, ma neppure l’europeo Denis McQuail, tutti studiosi che hanno già battuto la massicciata delle tematiche di cui si sta parlando. Su quali “forme di potere” si sofferma? Castells si occupa molto dei fenomeni della “comunicazione mediata”. Solo in via derivata presta riguardo alle forme di potere che scaturiscono dalle pratiche della comunicazione con: i) Alter a distanza; ii) i mezzi culturali; iii) i media – massivi o digitali. In parallelo, l’attenzione per i mondi ed i modi d’essere dell’audience non è sempre in primo piano. Viceversa, il rapporto tra le forme di comunicazione mediata ed i poteri che quest’ultima è in grado di accendere è illuminato a giorno. Il sociologo fa riferimento soprattutto allo scenario internazionale del primo decennio del XXI secolo. Egli afferma, a più riprese, che le pratiche del potere cambiano continuamente, assumendo forme e dimensioni differenti, in conformità alle modalità che lo rendono qualcosa di concreto, cioè, un “meccanismo sociale”. Esso non è né una caratteristica pre-costituita di un qualche attore né l’attributo situazionale di un agente, bensì uno “stato di relazioni”, ovvero, una modalità di tipo relazionale. Si manifesta in tanti modi, ma particolarmente con l’a-simmetria dei ruoli sociali delle parti in causa. Tra due parti, l’una esercita il potere sull’altra comunicando i propri valori e significati. La seconda, invece, si limita a recepire consumando: e condividendo – più o meno forzatamente o liberamente – ciò che è comunicato. La novità è che, in questi anni, il fenomeno del “potere comunicativo” è sempre più globale, rispetto alla sfera pubblica dai confini nazionali, e pervasivo della sfera privata, tanto da risultare una sorta di “canone” della nostra vita quotidiana. Se così non fosse ci sottrarremmo facilmente dal rispondere immediatamente alle e-mail ed agli sms in arrivo, o no! “Il potere è relazionale, il dominio è istituzionale”, scrive Castells. Vuol dire che, anche nella sfera politica, il potere non è un dato di fatto; però, impera in maniera un po’ speciale. Come? Cristallizzandosi nelle istituzioni che si riproducono basandosi sul dominio sociale. Non dimentichiamo, però, che attualmente il potere fa seguito al consenso popolare, cioè, alla legittimazione pubblica del suo esercizio che è basata sul voto democraticamente espresso. Come si “fa consenso”? Notiamo, per inciso, che il significato del “making” anglosassone è simile al “fare” all’italiana, ma non è la stessa cosa. Castells lo sa e ci spiega che nel mondo il ricorso ai media per “making power” è da tempo più che esiziale. I media, e particolarmente i network media, sono i mezzi e le reti pressoché insostituibili per la divulgazione di massa di significati condivisibili. Anche quando essi perorano, come accade con social network, la retro-comunicazione dell’utente della chat, del blog, della newsletter. Da qui il presupposto sociologico che la sfera politica dei “sistemi sociali nazionali” non possa più fare più a meno di misurarsi con i poteri sia dei network system (Microsoft, Google, ecc.) che del mercato mediale globale. Per l’autore, stiamo accelerando verso una svolta epocale. I sistemi mediali sono divenuti i regolatori della sfera pubblica. Con buona pace di Jurgen Habermas, che ne ha sempre perorato la funzione di ’mezzi’ dell’opinione pubblica! Oggi, invece, i media assurgono al ruolo sia di arena-principe della sfera pubblica che di fine dell’opinione pubblica. Ciò comporta che la politica globalizzata non ne possa più fare a meno: anzi, coincida con le pratiche comunicativo-mediatiche. L’indipendenza dei media (pubblici e privati) sia 109 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Comunicazione e Potere dalla sfera politica che dalla sfera economico-industriale che la tradizione sociologica ha attribuito al mondo anglo-sassone non è che un pio rammarico. La classica inter-dipendenza che contraddistingue l’area europeo-continentale ed il mondo asiatico – ad esclusione del Giappone – è divenuto un canone mondiale. Se da un lato i media dipendono dal sistema economico e dalle istituzioni politiche, dall’altro la politica è assurta a programma-contenuto dei media, divenendo dipendente da essi. Non di meno, ciò accade anche con la sfera economica. La mediatizzazione della finanza e dei regimi di consumo-produzione economica è oramai un condizionatore mainstream dei mercati. In che maniera? Consideriamo subito il rapporto media-politica. Ai programmatori dei media la politica “costa poco”. È già predisposta dai politici e dalle istituzioni. Quando i media fanno della politica un contenuto mediatico spesso la trasformano non in edutainment. Come è noto, la street performance del politico al talk show docet! La stessa cosa accade con industriali, economisti, opinion leader. Al punto che non c’è iniziativa industriale che, se da un lato soggiace alla “speculazione” delle parti in causa, dall’altro è calata nell’arena mediatica mentre diviene un affare di mercato, tanto che gli effetti comunicativi dell’una sono complementari agli effetti economico-finanziari dell’altro. Si tratta di una trasmutazione che è sociologicamente molto rilevante in quanto è trasversale alle scale globale e locale, ma anche per la disattenzione prestata dall’opinione pubblica globale. La comunicazione nella società-rete cambia le istituzioni La realtà è un complesso di “realtà sociali” – sostiene il sociologo. Tale consistenza “al plurale” deriva dalla governance esercitata da un potere politico-istituzionale che ha anch’esso una natura composita, visto che scaturisce dalla relazionalità di diversi “portatori di interessi” che, in ogni occasione, rivendicano contemporaneamente, la propria eteronomia ed autonomia, quindi l’auto-governance del potere relazionale. Chi sono gli stakeholder in questione? Le istituzioni nazionali, le multinazionali economicofinanziarie, le organizzazioni umanitarie, i movimenti sociali, e soprattutto i network mediatici. La realtà non è più fotocopia della rappresentazione dello Stato-nazione, frutto novecentesco delle élites e delle burocrazie locali. Allo Stato-rete dei “portatori di interesse” corrisponde, ormai da tempo, una “società-rete”. Castells fa il suo gioco (teorico) sostenendo che le istituzioni dello Stato-rete, operando a-traverso i confini ed i suoi stessi apparati, si avvalgono sempre più dei sistemi mediali. Per comunicare ad ampio spettro, si dice; in realtà, è conquistare legittimazione (consenso popolare) ed efficienza (servizi informativi, pubblicità, ecc.). In che maniera? Via media, ovviamente! Così facendo, però, lo Stato-rete si reticola, fors’anche ignorando che la reticolazione porta all’enfasi del controllo, ma, anche, a cedere quote di potere reale, che, dal centro passano alle periferie. Su che cosa hanno rilevanza? In primis, riguardano la responsabilità sociale, la sovranità sulla sfera pubblica da parte delle istituzioni. Si tratta di un processo che non è nato ieri. Tanto Daniel Bell che Alain Touraine – maestro francese di Castells – direbbero, seppure in maniera diversa, che esso ha delle radici che risalgono agli anni Settanta. L’avvento di internet – già rimarcato da David Lyon, Barry Wellman, Armand Mattelart – ha reso evidente che il campo di gioco non è solo bianco-rosso – i colori delle autonomie locali fondate sulla tradizione cultural-politica – ma è anche giallo e verde-celeste – i colori classici delle lobby sovra-locali. L’avvento del web è tutt’uno con i fenomeni della globalizzazione. Si constata così che il rischio che internet divenisse il “tappeto volante” di un qualche potere specializzato è stato esorcizzato. Tuttavia, non dobbiamo trascurare di interrogare “come” la globalizzazione delle tecnologie digitali sia divenuto il contenuto per eccellenza del tecno-capitalismo finanziario – chioserebbe Henry Schiller. 110 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Comunicazione e Potere Il posto di internet e delle reti digitali Manuel Castells non si presenta né come un apocalittico né come un integrato della Web Age. Ciò nonostante, qualche pericolo lo paventa. Sostiene, infatti, che la fortuna di cui i quasi-monopoli delle Tlc o delle Ict attualmente godono comporta più di un effetto negativo. In primo luogo, la privatizzazione (capitalistica) degli impianti e della programmazione di una “rete” (networking-making power) non è stata scalfita né dallo sboom del 1999 né dalla crisi attuale (p. 535). Poi, la dipendenza delle istituzioni pubbliche dalle aziende creatrici di reti è in crescendo. Inoltre, l’ambizione da parte di qualche governo politicostatale di “controllare internet” almeno su scala nazionale, offrendo ai network media lo svincolo locale dalla soggezione alle norme sovra-nazionali, è sempre all’ordine del giorno. Le aziende soggiacciono al richiamo dello Stato nazional-autocratico circa le libertà comunicative by internet? Castells non ne fa un mistero. Però, bolla tali strategie come una scappatoia di breve respiro. Il suo focus è ben altro! Punta lo sguardo sociologico contro i creatori di “reti creative di reti”. Infatti, afferma che i Titans dei social network ed i Tycoon dei media vanno incontro ad un facile matrimonio in quanto entrambi perseguono la “moltiplicazione delle reti”. A che scopo? Per reticolare i mercati, la sfera pubblica nazionale, la vita quotidiana, ciascuno di noi. A che cosa sta portando? È presto detto: «Massimizzazione dei profitti sui mercati finanziari globali”; incremento del potere politico per le aziende di comunicazione di proprietà statale; e l’attrazione, la creazione e l’intrattenimento del pubblico come mezzo per accumulare capitale finanziario e capitale culturale» (p. 536). La causa di tutto questo non è certo la crescente popolarizzazione del web: però, la globalizzazione delle reti crea sia un’arena di libero accesso che un mercato che suscita interessi e allarmi di ogni genere. Non si paventa che un “bit in più” possa affogarci nella comunicazione pervasiva: piuttosto, che la “società-rete” maturi dei regimi più anarchici di digitalizzazione dell’informazione. Con quali esiti? Tanto da spingere i regimi politico-statali più severi a pretendere sia di apporre dei “cancelli” alla comunicazione digitale – come peraltro insegna il caso China-Google –, sia di essere mercantilisti ‘fuori’ ed ‘autarchici’ dentro – come dimostra la pirateria digitale tra Est ed Ovest. Il sociologo afferma comunque di essere convinto che gli “utenti del web” dimostrino di essersene già avveduti dando vita a espressioni varie di “contro-società-rete”. Da questa sortisce una “voce digitale globale” che, pur non disponendo di alcuna bandiera istituzionale, sa farsi sentire. Quando? Saltuariamente. Da qui a sviluppare la capacità di sostenere che “il Re è nudo”, tanto da spingerlo a riliberalizzare, il passo è, in ogni caso, tutt’altro che breve – almeno per chi scrive. Secondo Castells, invece, è più che breve. In più di un paragrafo, infatti, lui “celebra” la vocazione del cosiddetto “popolo della Rete” a trasformarsi in “movimento sociale” – con funzioni di advocacy. Con quali esempi empirici? Lui non si pronuncia: chiede a noi di farlo. Una delle questioni-chiave dell’opera è senz’altro la pervasività del potere della comunicazione. Essa si dispiega tramite la persuasione, che, colpisce sia la mente che i cuori. Come? Promuovendo non più “una” narrazione ma “delle” narrazioni della realtà che generano condivisione di significato. Definendo i contesti specifica anche la divisione dei ruoli. Per sviluppare quest’argomento, a cui peraltro dedica non poche pagine, il sociologo mutua dichiaratamente dalla psicologia neuro-biologica di Antonio Damasio lo sviluppo analitico che deriva dall’assunto che “noi” siamo delle “reti connesse”. Si dà così rilevanza prima alla connettività “cuore-mente” e poi al ruolo-chiave delle emozioni, trampolino bio-cognitivo del processo tra empatia e decisionalità. 111 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Comunicazione e Potere A che cosa porta questa escursione del sociologo in campo psicologico? Per Castells è una novità, almeno rispetto alle antecedenti opere. Eppure, non è una “deriva”. Lo sforzo – volto ad acquisire un neo-concetto di Self, confacente al suo discorso, è apprezzabile. Il lettore coglie l’avvertenza – non granché dichiarata dall’autore– che si tratta di un passaggio obbligato. Perché? (Non trascuriamo che, tra gli anni ’30 e gli anni ’60, non pochi classici della sociologia e della psicologia sociale si sono sbracciati in ponderosi studi sui rapporti tra “comunicazione” e “forme di potere”). Non di meno, il nostro sociologo, ora, avverte un obbligo: dimostrare a che cosa porta la network society. Castells è attratto dai fuochi del rapporto “media-mente”. Sostiene che le informazioni diffuse dai media colpiscono gli “stati di coscienza”, provocando delle emozioni che trascinano il comportamento umano a compiere le scelte che sono conformi al significato introiettato. Come? È recepito in maniera non dissonante dall’emittente. Da qui la prima concettualizzazione del senso del potere in ambiente comunicativo: si tratta del framing della “mente pubblica”. Le virgolette sono nostre, qui apposte per rimarcare che, secondo il sociologo, i media hanno “un” potere più che evidente: confezionare e trasmettere “il” messaggio alla società-rete nel suo complesso. A che scopo? Per modellare un “immaginario pubblico” – ma come non ricordare qui le pagine di Edgar Morin sull’industria cinematografica degli anni ’50? Ritornando a Castells, l’analisi si inoltra sul crinale più affilato. Presenta l’incontro fra le quattro determinanti degli effetti persuasori: l’agenda setting, il priming, il framing, l’indicizzazione. Pur usufruendo di passaggi non particolarmente brillanti, l’argomentazione non è fragile. Peraltro, si appoggia non poco su una letteratura scientifica di tipo psicologico ed economico-cognitivista, prevalentemente di area nordamericana, che, in massima parte, non ha più di un decennio. Secondo il sociologo, le quattro determinanti poc’anzi richiamate sono gli “assi nella manica” dei network mediatici. Da una parte, avendone già vantaggiosamente sperimentato l’impatto sull’opinione pubblica, i politici di professione non mancano di farne crescentemente ricorso. Tanto da chiedere continua ospitalità nell’arena mediatica. Dall’altra, la gestione dell’arena da parte dei Media Mogul specula sulle conseguenze socio-economiche del proprio ruolo strategico. Al punto che tali arene non sono né una tribuna né un altoparlante, ma assurgono a vero e proprio “centro di potere comunicativo”. Indipendentemente dal fatto di essere localmente di seconda importanza, più è globalmente radicato – come è il caso dell’impero editoriale e mediatico di Ruperth Murdoch – maggiormente detiene le facoltà di sostenere che “rien ne va plus”. Chi matura un potere comunicativo “dal basso” contrapponendosi ai poteri comunicativi “dall’alto”? I soggetti del contro-potere non mancano – sostiene Castells – e sono espressi, in massima parte, dai movimenti sociali global-locali. Ad essi il sociologo attribuisce la vocazione a rappresentare la contro-prova della cosiddetta “politica sociale globale”. Le prove empiriche sono rintracciate in diverse direzioni: per esempio, nelle lotte degli ambientalisti. Queste sono sociologicamente spiegate riconducendone i motivi sia al sentimento di paura che scaturisce a seguito delle trasformazioni dell’ambiente globale, sia al coinvolgimento entusiasta di rock star e divi del cinema. I movimenti No Global che contrastano tanto i summit della politica internazionale quanto le campagne pubblicitarie delle Corporation si manifestano con delle espressioni pubbliche che hanno carattere di “evento”: sono le cosiddette “Comunità di pratica”. Contrastando gli illeciti politici che avvengono nelle società autocratiche (Birmania, Nepal, nord-Corea, ecc.) o non democratiche (Filippine, Ucraina, ecc.), attuano delle forme di resistenza che hanno una forte risonanza globale, ma debole incisività locale. Un altro esempio è fornito dalla campagna di Barak Obama per le Presidenziali Usa, caratterizzata dalla 112 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Comunicazione e Potere coltivazione di sentimenti positivi, speranze di cambiamento, dalla comunicazione personalizzante via internet. In altri termini, per i movimenti collettivi della “società-rete” internet è un vero e proprio “specchio di Archimede”: più il focus è lontano dalla sorgente maggiormente è efficace. I movimenti sociali più incisivi sono quelli che lottano affinché internet resti “Out of Control” – scriverebbe Kevin Kelly. Per Castells, allora, la rete digitale globale è una “libera creazione di amanti della libertà”. Ecco, allora, la risoluzione-clou: il controllo istituzionale di internet significherebbe la perdita della libertà di autocomunicazione globale. Verrebbe così meno lo “spazio pubblico” che è necessario sia al cambiamento locale, sia alle pratiche del contropotere auto-diretto. Per il sociologo, infatti, il “potere della comunicazione” nelle società civili a livello planetario risiede nella libertà alla “auto-comunicazione di massa” (mass self-communication). Soltanto i movimenti sanno come “opporre resistenza” ai poteri sociali globali. Come? Ricorrendo alle tecnologie digitali – leggi: mail, chat, blog, Twitter, Messenger, ecc. – che rendono possibile l’auto-comunicazione di massa. Così comunicando i movimenti auto-producono delle “neo-narrazioni di realtà”, consistenti in immagini e categorie valoriali. Con queste agiscono sui frame mentali degli utenti dei network mediatici, provocando un retroorientamento degli stati di coscienza ed orientamenti ideali. Torna qui in auge l’idea della controcultura così cara ai Liberal d’altri tempi. Sì, dal momento che la “società-rete” tanto la provoca quanto la ospita facilmente, soprattutto se può trasformarla in un suo “contenuto”, predisposto gratuitamente dagli appassionati – più o meno come capita con i blog o i video in YouTube? Quali sono i concetti-chiave che Castells offre alla sociologia? In primis, il concetto di “mass self-communication”. La traduzione italiana in “auto-comunicazione di massa” è immediata e pratica, ma sbrigativa. Essa riguarda tutte le singolarità, tra cui annoveriamo anche le individualità umane e ogni soggetto sociale. D’altronde, c’è un dato di fatto che non si può ignorare. Il primo lustro del secolo XXI ha visto maturare la convergenza tra i Titan di internet, del web, dei social network, ed i Mogul delle telecomunicazioni e della telefonia mobile. Rispetto alle arene sia della politica che dei consumatori, entrambe le parti hanno scoperto degli interessi convergenti di potere comunicativo. Con il secondo lustro, è esplosa un’altra tendenza: la convergenza con i Tycoon delle comunicazioni di massa (televisioni, radio, giornali, cinema). Ciò comporta una novità sociale: l’auto-comunicazione dei movimenti sociali. Essa, davanti a eventi politico-culturali come quelli sopra menzionati, “fiorisce dalle reti” e si trasforma in comunicazione globale. Non “fa massa”, ma diviene massive, cioè massiccia e potente, quindi influente, se non proprio quasipervasiva. All’auto-comunicazione di massa Castells attribuisce la rappresentanza della ‘differenza’ tra i media digitali e la comunicazione (mono-direzionale) dei mass-media. L’accesso al w.w.w. (world wide web) è celebrato quasi come un “movimento di liberazione”. A che cosa porta la pubblicazione di contenuti auto-prodotti in formato di iper-testo e multimedia? A far sì che milioni di utenti, interessati a tali contenuti, siano “catturati dal web”. Ma si tratta veramente di diffusione gratuita e di libero accesso? In che cosa consiste il ‘valore’ del contenuto? Per il sociologo, il ‘valore’ non è che l’espressione del potere comunicato che si sedimenta nell’utente. Intanto, quest’ultimo si trasforma prima in consumatore e poi in retro-comunicante. Divenendo una sorta di prometeo fai-da-te o un dwarf myself? 113 Mattero Bertaiola e Bruno Sanguanini Comunicazione e Potere Dall’ipotesi alla teoria Confrontiamo ora l’ipotesi con gli esiti teorici. La “società delle reti” comporta una neo-cultura. Scrive Castells: «La cultura globale è una cultura della comunicazione per la comunicazione (il corsivo è nostro). È una rete aperta di significati culturali che possono non solo coesistere, ma anche interagire e modificarsi a vicenda sulla base di questo scambio. La cultura della società in rete è una cultura di protocolli di comunicazione tra tutte le culture del mondo, sviluppata sulla base del comune convincimento nel potere del networking e delle sinergie ottenute dando ad altri e ricevendo da altri» (p. 37). Occorre distinguere – spiega il sociologo – tra potere reticolare (networked power), potere in rete (network power) e potere del networking (networking power). Ora, non si tratta di “poteri divisi”, ma di “poteri convergenti” che vedono i programmatori di rete costituire essi stessi una rete di governance, cioè, “costituire i programmati”. Ne consegue che il potere-chiave è “Il potere della creazione di reti” (p. 535). Però, accanto alla prima c’è anche una seconda configurazione del “potere delle reti”. Mogul, Titan e Tycoon delle “reti” confliggono continuamente tra di loro per poi allearsi quando si presentano degli interessi particolari. Quando? Ogni qualvolta si rende necessario “cambiare tutto per non cambiare niente”. Ciò comporta, per esempio, trasformare gli utenti in audience “vendendo l’immagine della vita” (p. 538) che essi vivono comunicando via media. Oppure, creando la “meta-rete delle reti”. In altri termini, offrono come “contenuto della cultura” le interfacce di rete, gestite dai “commutatori di rete” (switchers). Insorge così un secondo tipo di potere, il potere di commutazione, che secondo il sociologo è il “potere fondamentale nella società in rete” (p. 545). Dentro e fuori la biblioteca sociologica In fine, crediamo che anche il prodotto-libro meriti una chiosa. Le grandi dimensioni del volume, simili a quelle di un best-seller della letteratura di consumo, sono poco usuali all’editoria sociologica: eppure sono apprezzabili. L’ampia pagina e la stampa nitida permettono l’agevole lettura con ogni tipo di illuminazione. La mole, però, mal si presta allo studio mobile da parte dello studente pendolare. La traduzione inglese-italiano è avvenuta a pochi mesi dalla stampa dell’edizione inglese. Ne rendiamo merito all’editore. La riconosciuta notorietà dell’autore giustifica le copiose recensioni dei principali quotidiani nazionali, ma non la disinvoltura con cui i contenuti sociologici sono stati ricordati. Lo sottolineamo dal momento che si tratta di un’opera che presenta una tematica-chiave che, oltre ad essere d’attualità, interessa varie categorie di studiosi: sociologi, politologi, psicologi, ma anche economisti dei media, urbanisti, management dei sistemi dei media. 114 News Verso l’internazionalizzazione: il convegno “ESA-Lisbona 2009” Roberta Bartoletti (Università degli Studi di Urbino, “Carlo Bo”) Dal 2 al 5 settembre 2009 a Lisbona si è tenuta la 9 Conferenza Internazionale dell’European Sociological Association (ESA), nel cui ambito il Research Network 7 di Sociologia della cultura ha organizzato 24 sessioni che hanno visto la presentazione di ben 110 contributi, a conferma dell’importanza del gruppo di sociologi della cultura all’interno dell’Associazione. Le aree tematiche principali su cui i partecipanti si sono confrontati a Lisbona sono le culture europee, heritage culturale e identità nazionali, globalizzazione, vecchi e nuovi individualismi, le mediazioni culturali, il rapporto tra cultura e potere, le culture performative, l’innovazione in campo metodologico e la riflessività. Parallelamente il RN Sociology of Culture ha organizzato anche 8 sessioni dedicate al tema specifico “Memory, Culture, and Public Discorse”, a cui hanno partecipato 48 presenters. Il programma complessivo delle sessioni del Research Network organizzate a Lisbona sono disponibili al sito http://www.europeansociology.org/index.php?o ption=com_content&task=view&id=190&Itemid= 131. In occasione della Conferenza di Lisbona è stato rinnovato il board del Research Network Sociology of Culture, e il nuovo coordinatore è la collega italiana Anna Lisa Tota (Università di Roma Tre), che nell’ambito del suo nuovo ruolo ha annunciato un particolare impegno a collaborare con la Sezione Pic dell’Ais, in quanto interlocutore privilegiato a livello nazionale. 115 News La conferenza intermedia del RN 7, in vista della prossima conferenza ESA (Ginevra 2011) si terrà nell’ottobre 2010 presso l’Università Bocconi di Milano; in quella sede la sezione Pic-Ais organizzerà tre sessioni su temi di rilievo per lo studio della cultura e della comunicazione su cui la sociologia italiana ha prodotto significativi risultati, che vogliamo condividere e discutere con i colleghi del resto d’Europa. “Culture and the Making of Worlds” Anna Lisa Tota (Università degli Studi Roma Tre) Dal 7 al 9 ottobre 2010 si terrà a Milano presso l’Università Bocconi il convegno di metà mandato del Research Network on “Sociology of Culture” della European Sociological Association. Il titolo del convegno è “Culture and the Making of Worlds”, con una citazione non casuale dell’ultima biennale di Venezia. E’ sempre difficile lavorare sui grandi temi e con concetti ampi, come quello di cultura. In questo convegno - che è frutto di un intenso scambio intellettuale tra l’intero Board del Network e il Local Organizer in Bocconi - abbiamo provato a declinare il tema della cultura in modo interdisciplinare, facendo dialogare la sociologia culturale, con l’analisi economica, politica, antropologica e con tutto il filone dei cultural studies. La nozione di cultura, che abbiamo in mente, si riferisce a quella pluralità di universi simbolici in cui scelte e azioni acquisiscono significati condivisi. Pensiamo alla cultura come medium per “costruire mondi” e per delineare corsi di azione. La cultura, o meglio le culture, sono analizzate in quanto capaci di mettere in scena nel discorso pubblico nazionale ed internazionale i passati scomodi e controversi che preferiremmo dimenticare, sono considerate come risorse per dare forma alle identità individuali e collettive, e ai futuri possibili. Parlare della complessità come caratteristica cruciale della contemporaneità sembra essere uno slogan quasi scontato, tuttavia questo rimane un dato imprescindibile da cui partire. E allora le culture diventano risorse cruciali per l’articolazione delle issues legate alla giustizia e ai diritti civili, per la ricomposizione dei conflitti e per la comprensione delle controversie. D’altra parte le culture creano anche costantemente nuovi confini e nuove forme di inclusione ed esclusione sociale. In tale prospettiva un tratto caratterizzante le culture appare essere la loro ambiguità e ambivalenza. Le culture in definitiva conservano pur sempre una loro opacità, come gran parte del discorso antropologico ci ha insegnato. Vi alleghiamo di seguito il call for papers nella speranza che questa sia un’occasione ulteriore per fare dialogare la sociologia italiana con quella europea. Desidero ringraziare la coordinatrice Franca Faccioli e il Comitato scientifico di PIC per l’organizzazione di alcune sessioni congiunte nel convegno. 116 News PICALL FOR PAPERS Per condividere riflessioni e integrare i temi della Rivista Da questo numero, i soci del Pic-Ais potranno partecipare attivamente alla redazione della loro rivista, rispetto ai temi principali affrontati nelle sezioni: Highlights Focus Recensioni Tutti gli interessati potranno inviare i loro contributi ai seguenti indirizzi di posta: [email protected] [email protected] 117