Educazione alla paternità spirituale

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CENTRO DI FORMAZIONE SACERDOTALE
IV SETTIMANA DI STUDIO PER FORMATORI DI SEMINARI
La formazione spirituale dei candidati al sacerdozio
Giovedì 4 febbraio 2016
Educazione alla paternità spirituale
S.E.R. Mons Stefano Manetti
Gesù riprese a parlare e disse loro: “In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può
fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso
modo” (Gv 5,19).
Vorrei iniziare la nostra riflessione con un momento contemplativo, ponendoci davanti al
Mistero di Dio Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, (Ef 3,15), per
tenere lo sguardo fisso su di Lui mentre parliamo della paternità spirituale del presbitero. È il
Signore stesso che ci chiede questo, quando ci dice: non chiamate nessuno “padre” sulla terra,
perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9).
La Parola che abbiamo ascoltato dal quarto evangelo orienta il nostro sguardo verso il
mistero trinitario dove il Figlio vede il Padre e ce lo rivela per mezzo della sua esistenza umana
poiché Gesù da se stesso non può far niente se non ciò che vede fare dal Padre. E’ affascinante
l’ipotesi di alcuni secondo i quali ci troveremmo qui di fronte a un residuo di una originaria
parabola che Gesù avrebbe raccontato ricordando la sua esperienza personale di apprendistato nella
bottega del suo padre putativo, Giuseppe, a Nazaret.
Questa Parola apre una finestra sul mistero del Padre, che nessuno ha mai visto ma che il
Figlio Unigenito, che è nel suo seno, ci ha rivelato (cfr Gv 1,18), offrendoci un percorso esplorativo
per cui, assumendo l’affermazione di Gesù tout court ed applicandola rigorosamente, otteniamo
risultati sorprendenti. Se infatti il Figlio non fa niente da sé ma solo ciò che vede fare dal Padre, ne
deriva che quando Gesù si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano, se lo cinse
attorno alla vita… e cominciò a lavare i piedi dei discepoli (Gv 13,4), suscitando la reazione
scandalizzata di Pietro, così ha fatto perché lo ha visto fare dal Padre, (interessante il possibile
accostamento a Lc 12,37: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in
verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli). Non solo,
proseguendo nell’applicazione di questo criterio, si può affermare che anche la croce Gesù l’ha
accolta perché l’ha vista nel Padre. Come è possibile che la croce si trovi nel Padre? Evidentemente
non si tratta della croce cruenta che ha patito Gesù, bisogna piuttosto riferirsi a quella realtà
trinitaria che essa, la croce sul Golgota, esprime e rivela. Nella Trinità il Padre genera il Figlio,
donando a lui tutto se stesso: “tutto quello che è del Padre, infatti, lo stesso Padre lo ha donato al
suo unico Figlio generandolo, a eccezione del suo essere Padre” (Concilio di Firenze), per cui il
Figlio è della stessa sostanza del Padre. Questa generazione eterna avviene per la kenosi
(svuotamento) del Padre, alla quale risponde con lo stesso amore la kenosi del Figlio, che, a causa
della redenzione dal peccato, si è dovuta storicamente manifestare in modo cruento nell’obbedienza
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al Padre fino alla morte di croce, rendendo in qualche modo umanamente “visibile” ciò che da
sempre avviene nella Trinità. L’amore con cui il Padre genera eternamente il Figlio è, per così dire,
della stessa stoffa dell’amore con il quale Gesù si è offerto al Padre sulla croce.
La croce, dunque, è elemento costitutivo della paternità che viene da Dio, che consiste nel
donare se stesso perché il figlio viva, anteponendo il suo bene al proprio. Questa è la dimensione
kenotica della paternità che Gesù ha “copiato” dal Padre per cui in cambio della gioia che gli era
posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia (Eb 12,2).
Il primo dato che ricaviamo dalla contemplazione di Dio Padre, è che ogni paternità ha Lui
come unica fonte nei cieli e sulla terra, è pertanto suo dono e come tale va accolta e custodita. Non
solo: esigendo la kenosi come sua compiuta realizzazione la paternità necessita dell’opera efficace
della grazia in noi, poiché l'uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono
follia per lui, (1Cor 2,14), che è incapace, con le sue sole forze umane, del dono di sé secondo la
misura di Cristo.
La prima preoccupazione pertanto di un padre spirituale è di darsi una regola di vita
spirituale ed osservarla fedelmente. Senza la vita spirituale, ovvero la fatica di custodire e far
crescere in se stessi la grazia di Dio, dedicando abbondanza di tempo alla preghiera, attingendo
frequentemente al sacramento della riconciliazione, esercitandosi nella carità fraterna, non giunge a
maturazione alcuna paternità. Chiunque si incammini verso la formazione della paternità spirituale
bisogna si riferisca sempre alla fonte da cui essa gli è data ed impari ad attingervi quotidianamente.
Se il miglior maestro, secondo il Beato Paolo VI, è colui che insegna con la propria
testimonianza di vita (cfr. EN 41), ciò vale in particolar modo per l’educazione alla paternità
spirituale. Si educa alla paternità spirituale esercitandola e mostrandola in noi stessi. Pertanto ci
concentreremo sulla paternità spirituale del formatore, considerandone gli aspetti critici, là dove è
più esposta al rischio di incompiutezza.
Una prima attenzione riguarda il campo dell’affettività dove possono annidarsi alcune
criticità. Se l’essenza della paternità è la kenosi, per cui il padre pone il bene del figlio avanti al
proprio, occorre un occhio vigile e attento sulle le gratificazioni affettive. Queste fanno
naturalmente parte del rapporto padre-figlio: la stima e il rispetto che il figlio manifesta nei
confronti del suo padre spirituale, la fiducia che ripone in lui e la gratitudine che gli mostra per il
bene ricevuto dalla sua cura, sono gratificazioni che, accolte con cuore libero, servono a dare
profondità al senso di paternità, necessario per una feconda opera formativa. L’insidia sta nel
mettersi intenzionalmente a ricercare tali gratificazioni, ponendo in atto atteggiamenti che mirano
più ad accrescere tali sentimenti nel figlio che al suo vero bene. Un ambito in cui si può riconoscere
facilmente questo pericolo è quello della correzione, quando la si omette per paura di perdere
l’affetto del figlio (è, questo, un problema ricorrente nei genitori del nostro tempo in Italia), o
quando la si usa per ottenerne la sua docile sottomissione. In entrambi i casi il padre mette al centro
se stesso anziché il figlio. L’affettività richiede comunque una costante purificazione attraverso
l’accettazione della piena autonomia del figlio, del suo essere “inafferrabile”, “altro” dal padre.
Quando il padre dimentica la propria kenosi, si possono creare condizioni negative anche per
la vita comunitaria. L’affettività del padre non distribuita equamente tra i figli ma accentuata verso
alcuni, fa perdere la sua credibilità di padre, è può essere dannosa al processo di formazione di
futuri “padri” a causa del disagio patito per questa disuguaglianza. In tal caso il compito educativo
del padre spirituale è già fallito: l’affettività per alcuni non può danneggiare il senso di paternità
negli altri.
Una seconda area critica può essere individuata nel rapporto con la verità. Nel padre si deve
trovare la fedeltà alla verità. Anch’egli può essere tentato di optare, nei casi concreti, per una verità
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soggettiva, per cui scelgo ciò che è vantaggioso per me, a scapito della verità oggettiva, di cui egli
non è padrone ma servo e che è raggiunta attraverso la dimenticanza di sè. E’ l’onestà nei confronti
della verità che assicura al padre un cuore libero, che sa godere delle gratificazioni affettive senza
dipendere da esse, diventando capace di correggere senza umiliare. La correzione che serve al bene
di chi è corretto è quella che non muove da passioni, per cui o è troppo dura o troppo dolce, ma che
procede dalla testimonianza della verità. Lo stile della testimonianza protegge l’educatore
dall’essere succube delle proprie passioni. Il testimone infatti è il terzo in campo, si tiene distante
dal rapporto fra educato e il suo problema, egli guarda, osserva, racconta e spiega, senza dover
difendere se stesso.
La correzione ha come suo contesto la benevolenza: il servizio della verità non può essere
mai disgiunto dalla carità. La verità senza carità può distruggere, la carità senza verità non edifica.
Farle vivere assieme è l’arte delle arti di ogni educatore.
Il rapporto padre figlio è un rapporto di fiducia reciproca. Una caratteristica dei giovani del
nostro tempo è la difficoltà nel concedere la propria fiducia all’adulto. Generalmente ciò richiede
tempi lunghi forse perché la figura dell’adulto è stata menomata dal tradimento del suo ruolo
specialmente nell’ambito familiare, perdendo di credibilità. Nei seminari lo si vede: personalmente
ci impiegavo non meno di due anni prima di guadagnare un po’ di fiducia dal seminarista. Questo
impegna l’educatore a uno stile di semplicità: l’autorità se la deve conquistare sul campo attraverso
la sincerità. Questo implica che egli abbia almeno in parte risolto il problema del suo rapporto con i
propri limiti: è fondamentale che si sia riconciliato con essi e li viva con serenità. Non tenti, cioè, di
camuffarli (uso la parola “tentare” perché è risaputo che ogni tentativo da parte dell’adulto di
nascondere i limiti che lo affliggono ai propri figli è perfettamente inutile). La sua autorità
educativa non ne viene danneggiata: questa si decide non sull’esistenza dei limiti (chi è l’uomo che
ne è privo?) ma su come egli si rapporta con essi.
Infine la gioia: essa si trova sempre nel padre. Mi diceva un vecchio parroco indicando un
tramonto: ”vedi, nonostante tutti i problemi che anche oggi ci sono stati nel mondo, Dio non ha
perso la gioia. Altrimenti come potrebbe fare una cosa così bella?”. I figli guardano il padre per
trovare nel suo volto la prova che la vita vale la pena di essere vissuta, che c’è un motivo valido per
stare al mondo. E’ il compito fondamentale dell’educatore. In un volto cupo o triste sarebbe difficile
decifrare la speranza.
Dice Papa Francesco: Tutti noi, per essere, per diventare pieni, per essere maturi, dobbiamo
sentire la gioia della paternità: anche noi celibi. La paternità è dare vita agli altri, dare vita, dare
vita… Per noi, sarà la paternità pastorale, la paternità spirituale: ma è dare vita, diventare padri”.
(Santa Marta ,13.06.2013).
In conclusione: la kenosi può dirsi compiuta quando il Padre abbandona ogni tentativo di
“appropiarsi” del figlio, lo lascia partire da casa (cfr. Lc 15,12), accetta di perderlo. A gloria di Dio
Padre.
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