Etica e Governance - Consiglio Regionale della Campania

Antonino Palumbo
Etica e Governance
L’etica pubblica e applicata
nella filosofia politica contemporanea
Ila Palma/Athena
Ai miei genitori e a Nenè
ii
Indice
Introduzione
FILOSOFIA ANALITICA, ETICA PUBBLICA E GOVERNANCE
Parte Prima
Filosofia analitica ed etica pubblica
Capitolo 1
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
Capitolo 2
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
Capitolo 3
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
Parte Seconda
Etica applicata e governance
Capitolo 4
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
Capitolo 5
ETICA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
Capitolo 6
MAFIA, ANTIMAFIA E CODICI ETICI: UNA PROPOSTA NORMATIVA
Conclusione
LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO: CONTINUITÀ E TENSIONI
BIBLIOGRAFIA
Introduzione
Filosofia analitica, etica pubblica e governance
A partire dalla metà del '900 tre approcci principali hanno dominato la filosofia politica
contemporanea: quello analitico-epistemologico, quello etico-deontologico e quello
deliberativo-repubblicano. Ognuno di questi ha visto il ruolo della riflessione filosofica da punti
di vista diversi. L'approccio analitico emerso a seguito del positivismo logico ha visto la
riflessione normativa come un'analisi metateorica sul linguaggio morale. Ciò ha comportato la
separazione delle assunzioni di fatto da quelle di valore e la valutazione empirica della
praticabilità di progetti di riforma istituzionale alternativi. Per questo tipo di approccio, l'intera
dimensione normativa doveva essere ridotta all'analisi epistemologica delle precondizioni
linguistiche e socio-economiche necessarie per avere un ordine sociale stabile e duraturo. Negli
anni '70 e '80 l'approccio analitico è stato riproposto attraverso le teorie naturalistiche della
morale, le teorie analitiche dello stato e le teorie della scelta pubblica. L'obiettivo congiunto di
queste teorie è stato quello di muovere la riflessione normativa da un livello ideale ad uno
genealogico che fosse in grado di evitare i conflitti tra sostenitori di valori contrapposti e i costi
del riformismo utopico. Nella pratica queste teorie hanno imposto alla riflessione filosofica una
svolta antipolitica, hanno, cioè, cercato di ridimensionare il ruolo e la necessità della
discussione pubblica e delle pratiche democratiche.
A partire dagli anni '70 l'etica normativa ha spostato il dibattito filosofico-politico
dall'ambito metaetico a quello riguardante i principi e le forme di organizzazione politica che
devono caratterizzare le società contemporanee. La discussione ha così cercato di influenzare
direttamente e indirettamente la pratica politica sia parlamentare sia extraparlamentare. Sulla
scia di Rawls e del liberalismo deontologico di derivazione americana, i filosofi politici hanno
dimostrato un crescente interesse verso i valori che debbono ispirare le scelte collettive e le
istituzioni pubbliche. Diversamente dall'approccio metaetico, questo tipo di riflessione
attribuisce alla filosofia politica il compito di definire i principi di giustizia sui quali è possibile
costruire il consenso necessario per arrivare ad una società bene ordinata e promuove lo
sviluppo socio-economico. Coerentemente con l’attitudine antistatalista del pensiero liberale e
cosciente dei limiti intrinseci della legge nel regolamentare le società pluraliste, l’approccio
deontologico ha inoltre elaborato nuovi strumenti di governance basati sulla scelta di valori
comuni e sull’autogoverno. Le etiche applicate sorte negli ultimi tre decenni del '900 hanno
infatti cercato di supplire ai difetti dell’azione statale promuovendo l’elaborazione di contratti
sociali parziali che potessero ridurre i conflitti e dilemmi morali con cui si confrontano gli
individui nell’esercizio delle loro funzioni professionali.
In Europa il liberalismo deontologico proveniente da oltre oceano è stato appropriato da
quelle correnti di pensiero socialdemocratiche che si sono opposte al tentativo neoliberale di
ridefinire i diritti di cittadinanza sociale alla base del Welfare State e che sono sempre state
scettiche dei poteri taumaturgici del mercato. Parte di queste correnti socialdemocratiche hanno
comunque premuto per una revisione che andasse nella direzione di un maggiore
riconoscimento del ruolo della partecipazione politica attiva. Secondo questa prospettiva
deliberativa (la quale si richiama alla tradizione repubblicana di Machiavelli ma anche a
Rousseau e a Kant) la discussione normativa deve essere meno astratta e più direttamente
impegnata nel dibattito politico corrente. La revisione auspica inoltre un uso diverso e più esteso
degli strumenti di autoregolamentazione proposti dalle etiche applicate. L'autoregolamentazione
viene qui vista come uno strumento di principled governance diretta all'effettivo
2
coinvolgimento dei cittadini nei processi deliberativi pubblici che hanno luogo nelle società
pluraliste.
Questo capitolo introduttivo ricostruisce il percorso teorico che ha portato al rifiorire
della filosofia politica come riflessione normativa e che ha accompagnato lo sviluppo dell'etica
applicata quale punto di incontro tra riflessione filosofica e pratica politica. La discussione
prende spunto dalla critica di Peter Laslett alle teorie empiriste e metaetiche promosse
dall’approccio analitico. Segue poi un breve resoconto dei lavori di John Rawls a Robert Nozick
con i quali sono riproposti gli approcci normativi tipici della tradizione liberale: il
contrattualismo kantiano e le teorie dei diritti lockiane. Successivamente sono discusse le teorie
analitiche dello stato e le teorie etiche naturalistiche, le cui preoccupazioni epistemologiche e
l'opposizione a concezioni allargate di cittadinanza sociale rappresentano la reazione del
pensiero filosofico analitico tradizionale alla svolta deontologica di Rawls e Nozick. Il capitolo
si chiude con la presentazione delle etiche applicate quali strumenti di principled governance
per società complesse e pluraliste.
FILOSOFIA ANALITICA E METAETICA
Il punto di partenza della riflessione filosofico-politica del secondo dopoguerra è rappresentato
dal saggio introduttivo di Peter Laslett alla raccolta di articoli con la quale inizia la serie di
volumi in Philosophy, Politics and Society (Laslett, 1956). Nel saggio Laslett lamenta la morte
della filosofia politica come disciplina autonoma e strumento di analisi e critica dei principi di
valore e delle forme di governo delle democrazie liberali occidentali. La morte della filosofia
politica denunciata da Laslett sta ad indicare la morte dell'intellettuale impegnato in prima
persona nella definizione di uno schema generale di pensiero avente un diretto impatto sulla
pratica politica. Per Laslett la responsabilità del decesso si deve attribuire ai positivisti, una
eterogenea confraternita che comprende tutti i deterministi di destra e di sinistra, e ai positivisti
logici in particolare, siano essi razionalisti o empiristi. I primi perché negano all'ambito politico
indipendenza e autonomia da presunte leggi sociali oggettive e universali, gli ultimi per avere
negato dignità filosofica alle analisi concernenti la difesa di valori e principi normativi. La
denuncia di Laslett dà inizio alla riflessione sullo stato della filosofia politica, sui presupposti
metodologici e sulle relazioni fra teoria e pratica che pone le basi per il successivo orientamento
della disciplina.
Malgrado le differenze, il positivismo logico e le scienze empiriche convergevano nel
ridimensionare il ruolo di una genuina analisi normativa. L'approccio analitico avocato dai
positivisti logici concepiva l'analisi filosofica come lo studio dei vari livelli argomentativi, la
separazione delle assunzioni di fatto da quelle di valore e la risoluzione delle incongruenze
logiche e linguistiche. Sottoposti a tale tipo di analisi i sistemi di pensiero di pensatori classici
quali Hobbes, Locke, Rousseau vennero destituiti di ogni fondamento. Questi vennero infatti
tacciati di essere eccessivamente speculativi, basati su assunzioni discutibili, viziati da
confusioni concettuali e sbilanciati verso conclusioni spesso inconsistenti con le premesse.
L'analisi empirica portata avanti dalle scienze sociali era invece vista come in grado di
verificare il realismo delle assunzioni di fatto alla base dei vari sistemi filosofici e di valutare
l'utopismo implicito nelle assunzioni di valore e nelle conclusioni difese da tali sistemi.
L'obiettivo congiunto dell'analisi linguistica e della ricerca empirica era quello di identificare un
livello argomentativo neutrale (o scientifico) dal quale giudicare la validità di posizioni teoriconormative alternative e risolvere conflitti ideologici ritenuti ostici1.
Da un punto di vista metateorico, la filosofia analitica si caratterizza per la ricerca di
fondamenta adeguate alla ricomposizione del conflitto sociale e individua come punto di vista
preferenziale il livello epistemologico. Secondo questa prospettiva l'intera dimensione
normativa deve essere ridotta all'analisi delle precondizioni linguistiche e sociali delle varie
assunzioni di valore. In questo modo è possibile evitare le vacue e arbitrarie referenze a valori
inerentemente soggettivi e gli inevitabili conflitti fra coloro che sottoscrivono posizioni
3
normative diverse. L'approccio epistemologico risulta inoltre compatibile con l'opposizione
liberale alle posizioni teoriche che vedono la politica e le pratiche democratiche come il terreno
adatto a definire sistemi di valore pubblici. Il massiccio sviluppo dell'approccio behaviorista fa
inoltre sì che l'analisi normativa venga sistematicamente subordinata a questioni linguistiche,
epistemologiche e metodologiche ritenute non controverse2.
Analisi linguistica e discussione epistemologica hanno dunque l'obiettivo di distinguere
una volta per tutte il filosofo dal predicatore e dall'ideologo e l'effetto di inibire la produzione di
teorie politiche genuinamente prescrittive. Questo non significa però che l'approccio analitico
sia privo di una dimensione normativa. Il punto di vista archimedeo individuato dagli
epistemologi stranamente coincide con la difesa dei principi liberali classici (nella versione
utilitarista proposta da J.S. Mill), mentre l'analisi concettuale finisce per affermare gli schemi (e
i pregiudizi) linguistici propri di un particolare punto di vista socioculturale: quello che Alisdair
MacIntyre sarcasticamente chiama il sistema di valori del circolo di Bloomsbury. È contro
questa dimensione ideologica nascosta che ben presto si rivoltano, sulla scia di Laslett, i membri
di quella che poi sarà definita come la scuola storica di Cambridge: Quentin Skinner, John Dunn
e Richard Tuck. L'impatto dell'analisi storica portata avanti da questi pensatori è notevole ed
influenzerà profondamente le posizioni teoriche che emergeranno negli anni '90. Infatti, è grazie
alla scuola di Cambridge che viene affermata l'inerente dimensione storica della categorie
concettuali e riscoperta la tradizione civica repubblicana3. In più l'approccio interpretativocontestuale portato avanti da questi autori rappresenterà il più originale contributo
dell'accademia inglese alla riflessione filosofica postanalitica. Resta comunque il fatto che il
contributo della scuola di Cambridge rimarrà metodologico e ristretto all'interpretazione dei
classici. Da questo punto di vista non segna certo una rottura radicale con le preoccupazioni
epistemologiche dei positivisti logici e non contribuisce alla rinascita del dibattito normativo4.
LA SVOLTA DEONTOLOGICA
La ripresa della tradizione di pensiero richiamata da Laslett si deve a John Rawls (1971) e a
Robert Nozick (1974). Nel criticare l'approccio utilitarista dominante la cultura filosofica
anglosassone, Rawls e Nozick propongono un tipo di giustificazione filosofica dove la
legittimità dell'azione politica deriva dal rispetto di vincoli morali indipendenti e prioritari
rispetto all'azione politica stessa. Per Nozick questo significa assumere che, "la filosofia morale
definisce lo sfondo e i confini della filosofia politica" (1974: 6). Naturalmente, i due autori
differiscono sia riguardo alle forme sia alla sostanza della teoria morale proposta. Rimane il
fatto che per entrambi le fondamenta di una società bene ordinata vanno ricercate in un livello
argomentativo morale distinto da quello propriamente politico. L'approccio deontologico difeso
dei due pensatori americani mantiene quindi una struttura concettuale simile a quella della
filosofia analitica dove alla politica è assegnato un ruolo strumentale e non costitutivo. A
differenza di quello analitico, l’approccio deontologico di Rawls e Nozick difende l'autonomia
delle argomentazioni morali da quelle epistemologiche (Rawls, 1999a, cap. 15). Il problema in
cui questo tipo di approccio filosofico incorre è quello di risolversi nella produzione di una
pluralità di teorie morali alternative. Problema questo che è al centro della discussione filosofica
moderna sin dai tempi di Thomas Hobbes. Rawls e Nozick sono appunto casi emblematici
perché finiscono per sostenere due diverse e inconciliabili teorie normative.
Ralws definisce un modello decisionale che formalizza il contrattualismo ideale
kantiano attraverso gli strumenti della teoria della scelta razionale. Nel modello elaborato dal
filosofo americano istituzioni sociali legittime sono quelle che si conformano o perseguono
principi di giustizia universali. Questi principi sono derivati dalla scelta ponderata di soggetti
autointeressati posti dietro un velo di ignoranza che impedisce loro di conoscere sia i loro talenti
naturali sia il posto che occuperanno in società. La rimozione di queste informazioni assicura,
secondo Rawls, la selezione di principi di giustizia che non si basano né sulla massimizzazione
di preferenze individuali contingenti né sul potere contrattuale degli agenti. I principi di
4
giustizia derivati attraverso tale procedura ideale hanno quindi caratteristiche simili agli
imperativi categorici kantiani. Diversamente da quelli suggeriti da Kant, si tratta comunque di
principi con un contenuto sostanziale ben preciso. Secondo Rawls la scelta ponderata porterà
alla selezione di due principi di giustizia profondamente egualitari e che operano una divisione
delle risorse sociali a favore degli individui più svantaggiati.
Il contrattualismo ideale di Rawls finisce però per scontentare sia i pensatori liberali
classici sia i filosofi analitici tradizionali. I primi vedono i due principi di giustizia come un
mezzo per giustificare la violazione delle libertà individuali e civili difese della tradizione
liberale. I secondi puntano invece l'indice sul fatto che l'approccio rawlsiano risulta non solo
controverso, ma anche inconsistente. Sulla scia di Hume, diversi pensatori sottolineano infatti
come gli accordi ipotetici sottoscritti dietro un velo di ignoranza non siano in grado di stabilire
obblighi morali di alcun genere. Mentre altri puntato l'indice sul fatto che nel contesto
decisionale descritto da Rawls la scelta non cadrebbe affatto sui principi di giustizia indicati dal
filosofo americano. Il contrattualismo rawlsiano diverrà infine l'obiettivo critico di quanti,
comunitari e aristotelici, non condividono né le premesse individualistiche su cui si basa, né il
tentativo deontologico di separare il giusto dal buono. Sono queste critiche che hanno portato
Rawls alla revisione del contrattualismo morale kantiano proposto originariamente a favore di
un costruttivismo politico più circoscritto.
Dal canto suo, Nozick elabora una teoria dei diritti che porta alle estreme conseguenze
l'approccio deontologico perseguito da Rawls. Questi ritorce contro Rawls la critica che
quest’ultimo avanza contro le teorie utilitariste: di non prendere sul serio l'idea della separatezza
tra persone. Come alternativa alla teorie della giustizia di Rawls, Nozick propone teoria del
titolo valido che si basa su tre principi:
1. una persona che acquisisce una proprietà secondo il principio di giusta acquisizione ha un
titolo valido su quella proprietà
2. una persona che acquisisce una proprietà secondo il principio del giusto trasferimento, da
qualcuno che possiede un titolo valido sulla stessa, ha un titolo valido su quella proprietà
3. Nessuno possiede un titolo valido su una proprietà se questa non deriva dall'applicazione
(ripetuta) di 1 e 2 (1974: 151)
Una teoria dei dritti simili è per l'autore in grado di stabilire sia quali sono i titoli
individuali validi da garantire sia quali sono i principi di giustizia che una autorità pubblica
legittima deve perseguire. I problemi con cui si confronta l'approccio deontologico di Nozick
sono però non meno gravi di quelli imputati a Rawls. Come l'autore stesso riconosce, il
principio di giusta acquisizione richiede titoli di proprietà che soddisfano le clausole di Locke:
clausole che assicurano una distribuzione della proprietà e dei frutti della terra equa e
riconoscono il valore aggiunto dal lavoro umano alle cose (1690, II, § 27). Diversamente da
Locke, Nozick non ha però una teoria che spiega come tali titoli possano emergere senza
l'intervento di un dio razionale e benevolente. Sulla base di questa constatazione Thomas Nagel
(1975) definisce l'approccio di Nozick un 'liberalismo senza fondamenta': superfluo quando si
rivolge a coloro che già credono in esso e incapace di proporre ragioni valide quando si rivolge
a coloro che lo ritengono inadeguato.
Un ulteriore punto debole riguarda la praticabilità dei principi di giustizia avocati
dall'autore. In contesti dove i diritti di proprietà hanno origini controverse, l'accettazione della
teoria del titolo valido potrebbe richiedere politiche ridistributive la cui portata andrebbe molto
aldilà di quanto richiesto da Rawls. Lo stesso Nozick è cosciente del problema e afferma che: "è
meglio considerare alcuni principi modellati di giustizia distributiva come regole grossolane
intese ad approssimare i risultati generali dell'applicazione del principio di rettificazione
dell'ingiustizia" (1974: 245). Questo spiega l'accoglienza tiepida con cui Nozick è stato ricevuto
in Europa proprio da quegli stessi neo-liberali (o libertari) che negli USA hanno invece
abbracciato l'approccio del filosofo di Harvard in maniera entusiasta. John Gray da fiato a tali
riserve quando afferma che "Nozick va troppo in là nel raccomandare un principio di giustizia
ridistributiva rigorosamente egualitario per la rettificazione delle ingiustizie passate: non esiste
5
giustificazione alcuna per i tentativi di realizzare una ridistribuzione modellata della ricchezza e
dei redditi" (1995: 84).
In molti paesi occidentali il linguaggio dei diritti rimane peraltro patrimonio di
movimenti culturali che vedono l'azione politica e di governo un fattore necessario per il
riconoscimento dei diritti sociali e politici delle minoranze (sociali, razziali, sessuali e culturali)
e per l'allargamento della nozione di cittadinanza morale ai soggetti non umani (animali e
ambiente).
TEORIE ANALITICHE DELLO STATO E DILEMMI DELLA COOPERAZIONE
I lavori di Nozick e Rawls sono stati di stimolo per lo sviluppo di numerose teorie analitiche
dello stato le quali combinano riflessione normativa e teoria della scelta razionale. Il contributo
di queste teorie alla riflessione filosofico-politica è duplice. Per un verso hanno portato alla
formalizzazione delle critiche liberali alla democrazia e alle procedure deliberative. Per altro
verso le teorie analitiche dello stato si sono adoperate per predisporre un paradigma alternativo
a quello statista ed interventista delle democrazie del benessere. La combinazione di questi due
aree di ricerca ha prodotto una vasta letteratura, il cui obiettivo è stato quello di dimostrare
come l'azione politica non è soltanto costosa e potenzialmente oppressiva, ma spesso anche
superflua. In questo senso le teorie analitiche dello stato hanno cercato di confutare la tesi
hobbesiana secondo la quale la sovranità assoluta è la precondizione acché si possa avere una
società civile pacifica e prospera.
Le teorie analitiche dello stato hanno due obiettivi complementari: la risoluzione dei
problemi di azione collettiva che viziano le teorie della scelta razionale e la ridefinizione del
concetto di obbligo politico avanzato da Hobbes. Rispetto al primo problema la sfida lanciata
dai teorici analitici consiste nel dimostrare come la cooperazione possa emergere
spontaneamente anche in contesti quali il dilemma del prigioniero. Questo tipo di soluzione al
dilemma dell'ordine sociale caratterizza un filone letterario riconosciuto come 'anarchismo
hobbesiano'. Il nome si deve al fatto che in questi modelli la soluzione cooperativa si ottiene per
mezzo di strategie individuali che riescono a discriminare tra cooperatori ed opportunisti e
quindi ad eliminare la minaccia del free-riding senza ricorrere a soluzioni esogene quali il
sovrano hobbesiano. Per quanto riguarda la nozione di obbligo politico, l'obiettivo di queste
scuole di pensiero è quello di dimostrare come la soluzione hobbesiana sia del tutto
implausibile. Agenti razionali e autointeressati rifiuterebbero, per questi pensatori, di
sottoscrivere il contratto di alienazione proposto da Hobbes. Oggetto di accordo sarebbero
invece principi di tipo lockeano che garantiscono diritti individuali esclusivi e giustificano solo
una autorità politica limitata.
Tra gli autori che hanno intrapreso il tentativo di tradurre Hobbes nel linguaggio della
teoria dei giochi, le figure più significative sono quelle di David Gauthier (1986) e Jean
Hampton (1986). Gauthier affronta il problema più squisitamente metaetico; sarebbe a dire il
tentativo di spiegare l'emergere della morale a partire dalle azioni autointeressate di agenti
hobbesiani. Tecnicamente questo implica la risoluzione dei problemi di azione collettiva posti
dal dilemma del prigioniero. Se per Hobbes questi problemi richiedono esistenza di un sovrano
in grado di attivare le leggi di natura, Gauthier pensa sia possibile arrivare ad una soluzione
puramente endogena dove gli individui osservano le leggi di natura in modo del tutto volontario.
Secondo il filosofo canadese ciò richiede l'adozione di una strategia condizionale che impegna
gli individui a vincolare le loro tendenze massimizzatrici. Aldilà della sua rilevanza tecnica, il
progetto di Gauthier ha delle implicazioni curiose per quanto riguarda l'interpretazione di
Hobbes. Se, infatti, il tentativo metaetico di riconciliare moralità e autointeresse ha successo,
l'intera teoria politica hobbesiana crolla e risulta affatto dubbio se si possa mai arrivare alla
giustificazione di una autorità qualsivoglia.
La Hampton per canto suo è interessata alla giustificazione di una autorità limitata di
tipo locheano a partire da premesse hobbesiane. Estremamente raffinato è il modo in cui l'autore
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ricostruisce la struttura strategica dello stato di natura e il processo che porta gli agenti
hobbesiani alla elezione del sovrano. A differenza di quanto precedentemente sostenuto, la
Hampton dimostra che la sottoscrizione di un contratto sociale non ha una struttura logica del
tipo descritto dal dilemma del prigioniero. Per la studiosa americana, sottoscrivere un contratto
risulta equivalente ad un gioco di coordinazione ed è quindi meno ostico da risolvere rispetto al
dilemma del prigioniero. Considerazioni simili vengono sviluppate riguardo al processo di
attribuzione dei poteri al sovrano. Per l'autore questo processo risulta equivalente alla
produzione di un bene pubblico a gradini; un problema anche questo diverso e più semplice da
risolvere rispetto al dilemma del prigioniero. Alla rivalutazione epistemologica del contratto
sociale, la Hampton contrappone una critica serrata della versione suggerita da Hobbes: il
contratto di alienazione. L'alternativa contrattualista ricercata da Hampton mira infatti a domare
il Leviatano attraverso la definizione di vincoli costituzionali che giustificano solo una sovranità
limitata.
La natura tecnica dei modelli neo-hobbesiani ha favorito numerose critiche che
contestano le soluzioni avanzate da Gauthier e Hampton. In entrambi i casi ad essere messa in
discussione è la risoluzione dei problemi di azione collettiva che caratterizzano lo stato di
natura. Gauthier è stato accusato di proporre una soluzione del dilemma del prigioniero
incompatibile con gli assiomi della teoria della scelta razionale5. Nel caso della Hampton
sorgono invece diversi dubbi sia sull'analisi del gioco di contrattazione che porta all'attribuzione
di poteri effettivi al sovrano sia sulla critica del contratto di alienazione hobbesiano. Da un
punto di vista filosofico sono invece di particolare interesse le critiche rivolte alla lettura del
contratto sociale quale meccanismo emergenziale proposta dai neo-hobbesiani. Patrick Neal, per
esempio, afferma che: "Il Leviatano è indirizzato a persone civilizzate che usufruiscono dei
benefici dell'ordine politico e sociale [...] l'obiettivo di Hobbes è quello di spiegare loro come
mantenere tale ordine ed evitare di cadere nello stato di natura, non quello di spiegare ad esseri
non ancora civilizzati come fuoriuscire da tale stato" (1988: 643). L'astrazione del contratto ha
cioè un fine prettamente normativo che le preoccupazioni epistemiche dei teorici della scelta
razionale tendono ad oscurare e distorcere6.
Naturalismo etico e ordine liberale
Se John Locke e la tradizione dei diritti naturali rappresentano il riferimento ideale della destra
libertaria americana, in un contesto culturale come quello britannico ad ispirare i filosofi liberali
sono David Hume e la tradizione dell'ordine spontaneo incarnata da F.A. Hayek. Il passaggio da
Locke a Hume è indicativo di un approccio metodologico il cui fine è l'elaborazione di una
teoria fondativa dei diritti di proprietà e delle regole procedurali che eviti le sabbie mobili della
filosofia morale e le diatribe fra teorie dei diritti contrapposte. Così se per Nozick è la filosofia
morale a definire il limite della politica, per i teorici dell'ordine spontaneo la dimensione morale
è a sua volta derivativa e ha come base ultima e non controversa un'epistemologia individualista
ed evolutiva. Il punto è stato chiaramente espresso da Hayek un decennio prima della
pubblicazione dell'influente lavoro di Rawls. "Io non ritengo la libertà individuale un valore
etico supremo" afferma Hayek, "Se vogliamo convincere coloro che non condividono i nostri
stessi criteri morali, allora non dobbiamo considerare questi criteri come dati. Dobbiamo invece
dimostrare che l'idea di libertà individuale non è una nozione di valore, ma il presupposto e la
fondazione di molte delle nostre nozioni di valore" (1960: 6).
Per i pensatori e le scuole di pensiero che sottoscriveranno questa linea di pensiero, la
fondazione dell'ordine risiede in una teoria sociale in grado di dimostrare come norme e
convenzioni sociali possano emergere attraverso meccanismi spontanei, che fanno uso di
modelli a mano invisibile e che non richiedono l'intervento del politico. Rispetto al
contrattualismo neo-hobbesiano la caratteristica distintiva di questa scuola di pensiero è quella
di rifiutare l'approccio eduttivo tipico della tradizione razionalista a favore di un approccio
evolutivo (Binmore, 1990). Questa teoria sociale evolutiva è, secondo i loro proponenti, in grado
di chiarire sia quali sono i diritti individuali legittimi sia quali sono i limiti alla discrezionalità
7
dell'autorità pubblica nel regolamentare i conflitti tra possessori di titoli validi. Tre le aree di
ricerca sulle quale si è indirizzata l'analisi teorica:
(i)
(ii)
(iii)
la derivazione di norme e pratiche morali da convenzioni sociali emerse spontaneamente
ed in maniera non intenzionale
la distinzione tra civile e politico e la definizione delle priorità logiche fra i due
l'elaborazione di standard oggettivi per mezzo dei quali valutare la praticabilità delle
diverse opzioni istituzionali suggerite nei dibattiti normativi.
Gli anni '80 vedono l'esplodere di teorie naturalistiche della morale di derivazione
humeana e darwinista. Questo tipo di naturalismo differisce da quello Aristotelico perché è noncognitivista, parte da premesse individualistiche e considera la dimensione normativa come
strumentale piuttosto che costitutiva7. La versione più genuinamente humeana si deve a John
Mackie il quale distingue tre modi di fare analisi normativa: come analisi genealogica, come
ricerca delle precondizioni linguistiche ed epistemologiche sottostanti i giudizi di valore e come
costruzione di teorie normative ideali alla Rawls. Quest'ultimo tipo è ritenuto inadeguato in
quanto si basa su una concezione oggettiva dei valori che nega sia il dato empirico del
pluralismo culturale sia i limiti intrinseci della natura umana nell'adattarsi a ideali astratti.
Secondo Mackie, la teoria dei giochi e la sociobiologia sono in grado di integrare l'approccio
genealogico-descrittivo di Hume ed "indicare i limiti intrinseci di ogni sistema normativo
praticabile, limiti che debbono essere tenuti in considerazione ogni qualvolta si invocano
principi morali o si propongono riforme delle attitudini morali esistenti" (1982: 153).
La versione più chiaramente darwinista si deve invece a F.A. Hayek. Per Hayek le idee,
gli artefatti culturali e le pratiche sociali si sviluppano e diffondono attraverso processi selettivi
naturali che penalizzano le pratiche maladattive e assicurano la sopravvivenza di quelle
benefiche. Da questa prospettiva, l'ordine liberale (Great Society) rappresenta il precipitato di
continui processi selettivi che hanno eliminato tutti quei principi morali e le regole di
comportamento che si sono dimostrati inadeguati. Come l'autore stesso chiarisce: "le regole che
definiscono i diritti di proprietà individuale e familiare sono i due principi morali sulla cui base
ha operato la selezione tra gruppi sociali. Tali principi sono responsabili per lo sviluppo
economico e culturale dei gruppi che li hanno messi in pratica e osservato. [...] L'analisi
scientifica del processo evolutivo che ha guidato la selezione tra gruppi sociali ci obbliga a
riconoscere che le credenze religiose sono state strumentali nel preservare le regole di condotta
che hanno poi permesso al genere umano di progredire e il cui significato l'approccio scientifico
ed economico in particolare sono in grado di spiegare retrospettivamente" (1987: 230-35)8.
Le analisi epistemologiche di Mackie e Hayek non hanno un fine meramente
descrittivo, ma intendono arrivare a conclusioni normative esplicite che riflettono quelle di
Nozick: stato minimo e diritti di proprietà esclusiva delle cose e della persona. Diversamente da
Nozick comunque, humeani e darwinisti concorrono nel sostenere un approccio che riduce
l'intera dimensione normativa allo studio dei processi sociologici, psicologici ed economici
sottostanti i vari fenomeni normativi. Questo naturalismo di fine secolo sembra però affetto
dagli stessi problemi e incongruenze notate a suo tempo a proposito dei positivisti logici. La
concezione della morale come superveniente e derivativa rispetto a pratiche sociali aventi una
natura convenzionale e strumentale sembra risolversi in un visione esternalista delle regole che
sottovaluta la natura dialettica e simbolico-riflessiva delle relazioni sociali e delle pratiche
comunicative. In secondo luogo l'uso di dinamiche adattive di derivazione darwinista tradisce
una concezione monodirezionale delle relazioni causali che risulta palesemente inadeguata a
dare conto della complessità delle dinamiche sociali e della relativa autonomia delle istituzioni
culturali. Sul piano assiologico la logica sottostante l'approccio evoluzionista sembra invece
giustificare un conservatorismo relativista che rende i principi liberali una mera contingenza
storica. Tale logica risulta inoltre inconsistente con l'idea di una natura umana non plastica e
universale e si dimostra decisamente inadeguato come cornice normativa per le moderne società
pluralistiche9.
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ETICA APPLICATA E GOVERNANCE
Il dibattito aperto da Rawls e Nozick non è stato ristretto agli ambiti filosofici tradizionali ma ha
dato vita ad un nuovo campo di indagine dove si combinano riflessione morale e pratica
politica: l'etica applicata. L'etica applicata si prefigge l'obiettivo di una principled governance;
sarebbe a dire, la regolamentazione delle interazioni sociali in determinati contesti che hanno
rilevanza pubblica sulla base di principi di giustizia accettati o accettabili universalmente. La
nozione di governance differisce da quelle di governo e governabilità utilizzate nelle scienze
politiche perché riguarda non tanto le istituzioni dello stato ma quelle della società civile. Al
tempo stesso l'idea di una principled governance è distinta da quella di governo della legge
perché ha come campo d'azione aree dove il ricorso alla legislazione pubblica e ai tribunali è
percepito o come ineffettivo o come controproducente10.
Esempi tipici di relazioni sociali e istituzioni che ricadono nel campo di indagine
dell'etica applicata sono quelle riguardanti le pratiche medico-scientifiche (bioetica), quelle
economiche (l'etica degli affari), e il trattamento dei soggetti non umani (diritti degli animali e
etica dell'ambiente). Le innovazioni tecnologiche in medicina, in genetica e nell'economia sono
spesso all'origine di conflitti e dilemmi morali che richiedono la valutazione della legittimità
delle azioni degli agenti coinvolti in esse e delle riforme strutturali da questi favorite. Queste
innovazioni hanno inoltre effetti profondi sull'ambiente naturale al punto da potere cambiare in
modo irreversibile gli equilibri ecologici esistenti. L'esprimere giudizi di valore riguardanti la
legittimità o meno di un corso d'azione implica la definizione del punto di vista morale
adeguato; in grado cioè di tenere nella dovuta considerazione le ragioni di tutti coloro che sono,
direttamente o indirettamente, coinvolti nel processo. Problemi simili sorgono in ambiti dove gli
individui sono chiamati ad esercitare potere discrezionale e dove esistono conflitti potenziali fra
i doveri connessi al ruolo, quelli della morale comune e l'interesse personale.
L'etica applicata parte quindi dalla definizione dei diversi livelli di governo che
regolano le istituzioni della società civile, dei problemi di carattere morale che affliggono questi
livelli e degli attori coinvolti a ciascun livello. La definizione del punto di vista morale dal quale
valutare i diversi problemi segue gli approcci metodologici discussi prima. A seconda dei casi,
il punto di vista morale implica l'adozione di una prospettiva imparziale del tipo descritto da
Rawls o di principi prudenziali capaci di riconciliare razionalità e moralità. L'obiettivo che
l'etica applicata si prefigge è, in altre parole, la definizione di 'contratti sociali parziali' che
stabiliscono i principi di giustizia a cui fare appello per risolvere i conflitti e i dilemmi morali
con cui gli individui si confrontano quotidianamente. L'equità e l'imparzialità dei principi di
giustizia sottostanti i contratti sociali parziali sono inoltre visti come elementi indispensabili per
motivare i vari attori sociali ad agire moralmente senza il ricorso al potere coercitivo dello stato.
Da una prospettiva kantiana questo significa concepire l'etica applicata come uno strumento per
l'autolegiferazione e lo sviluppo di personalità morali autonome. Alternativamente, l'etica
applicata può essere intesa come l'ambito dove provare la compatibilità tra razionalità e moralità
e dimostrare come l'agire morale possa rappresentare una strategia atta a ridurre i costi di
governo.
Come per l'etica pubblica, anche quella applicata si è dovuta confrontare con una forte
tradizione positivista scettica verso le analisi genuinamente normative. In campo medicoscientifico la bioetica è stata percepita come un modo per giustificare l'interferenza dei filosofi
nella ricerca e nella deontologia del ricercatore. Particolarmente accesi sono stati i dibattiti
riguardanti aborto, eutanasia, sperimentazione genetica e cibi transgenici. Qui al riconoscimento
della natura genuinamente morale dei dilemmi sollevati si è spesso accompagnata l'idea che non
esistano criteri etici oggettivi a cui rifarsi. In campo economico l'etica applicata si è invece
scontrata con approcci teorici neo-liberali estremamente confidenti nei poteri taumaturgici del
mercato e dell'ingegneria manageriale. In tale ambito le soluzioni etiche sono state viste o come
teoricamente superflue o come semplici opportunità manageriali per incrementare i profitti
aziendali a costo zero. Nei paese dove domina una cultura giuridica formalistica in particolare,
l'etica applicata è stata ritenuta o troppo controversa o troppo flessibile. L'autoregolazione è
9
stata quindi relegata ad ambiti ritenuti di secondaria importanza (come le deontologie
professionali) o ha giocato un ruolo meramente transitorio e second best. Come avremo modo di
vedere nella seconda parte, ciò ha portato all'emergere di un curioso fenomeno: il diffondersi
dell'etica applicata e degli strumenti di autoregolazione contemporaneamente al restringersi
degli spazi di partecipazione democratica e dei diritti di cittadinanza attiva.
SCHEMA DEL LIBRO
Il lavoro si divide in due parti composte di tre capitoli ciascuna. La prima parte discute lo
sviluppo dall’etica pubblica a partire dai primi anni settanta. Il punto di partenza è ovviamente il
lavoro di John Rawls del 1971. Di questo autore vengono presentati i punti più importanti, le
critiche salienti e le risposte dello stesso suoi ai critici contenute nella revisione del 1993. Segue
un capitolo sulle teorie neohobbesiane, quelle teorie cioè che hanno portato alle estreme
conseguenze l’idea che la filosofia morale è parte della teoria delle decisioni avanzata
originariamente dallo stesso Rawls. A differenza del filosofo di Harvard i neo-hobbesiani
finiscono però per riportare la discussione da un livello genuinamente normativo ad uno
epistemologico. In questa direzione si muovono le teorie naturalistiche della morale discusse nel
terzo capitolo le quali riprendono e formalizzano l’approccio genealogico di Hume.
Nella seconda parte sono discusse le etiche applicate ed in particolare l’etica degli affari
(capitolo 4) e l’etica della pubblica amministrazione (capitolo 5). Per ognuna di queste sono
indagati sia i dibattiti teorici che hanno accompagnato la nascita della disciplina sia gli sviluppi
pratici di queste discipline come strumenti di principled governance. Il capitolo 6 rappresenta
invece un tentativo di applicare questi due approcci etici ad un caso concreto: quello della
mafia. La questione a cui il capitolo intende rispondere è se l’etica applicata ha le potenzialità
per rendere più effettive le politiche pubbliche elaborate per combattere il fenomeno mafioso. Il
libro si conclude con una breve disanima delle sfide lanciate dal pensiero repubblicano a quello
liberale e le implicazioni che queste hanno per una riconcettualizzazione dell’etica pubblica e di
quella applicata come strumenti di governance delle società complesse e multiculturali.
Note
1
L'analisi concettuale assume due distinte forme, lo studio critico di pensatori classici (Plamenatz, 1963)
e l'analisi linguistica dei termini morali (Hare, 1952; Macdonald, 1956), politici (Barry, 1965; Berlin,
1958; Weldom, 1956) e di quelli più propriamente giuridici (Hart, 1961). Per quanto riguarda invece
l'influenza delle scienze empiriche si debbono distinguere due diversi approcci. Da un lato abbiamo i
lavori di coloro che mettono in evidenza le implicazioni epistemologiche e metodologiche delle scienze
naturali (Hayek, 1952; Popper, 1945; Runciman, 1962). Dall'altro lato si ha la critica portata avanti
dall'approccio behaviorista e incrementalista di derivazione americana al pensiero riformista (Dahl e
Limdblom, 1953). Fra i lavori di carattere storico che discutono l'impatto negativo che la riflessione
epistemologica e le scienze empiriche hanno avuto sulla filosofia politica va ricordato lo studio raffinato
di Sheldon Wolin (1960, cap. ix e x).
2
Con il termine epistemologia intendiamo riferirci sia alla filosofia della conoscenza in generale sia a
quella morale (metaetica). Nel contesto analitico di inizio secolo, le preoccupazioni metaetiche di G.E.
Moore fanno parte del tentativo di definire i limiti della conoscenza e di arrivare ad una chiara distinzione
tra predicati di fatto e predicati di valore portati avanti da Russell e dal primo Wittgenstein. Ayer (1957)
raccoglie i maggiori saggi che hanno contribuito al successo del positivismo logico e offre una
introduzione della retrospettiva molto ben bilanciata. Per un'analisi storica del positivismo logico e dei
legami fra questo e la filosofia analitica e linguistica vedi i saggi di Kolakowski (1968), Passmore (1966)
e Rorty (1980). Una panoramica di questa letteratura in italiano la si trova in D'Agostini (1997).
3
Sul pensiero repubblicano vedi il capitolo conclusivo.
4
L'enfasi posta sull'analisi contestuale come elemento metodologico primario sembra infatti negare la
10
possibilità stessa di una riflessione normativa che non sia analisi storica. Da questa prospettiva, non
esistono questioni normative aventi rilevanza tale da richiedere un approccio filosofico autonomo. Per
altro verso il contestualismo linguistico difeso da Skinner sembra risolversi o in una impossibilità logica o
risolleva gli stessi dubbi evidenziati a proposito dell'analisi epistemologica nel definire un punto di vista
archimedeo. Sulle critiche al contestualismo e per le risposte di Skinner a queste vedi la raccolta di saggi
edita da James Tully (1988).
5
Particolarmente esaustive sono le due raccolte di saggi critici editi da Gauthier e Sugden (1993) e da
Peter Valentyne (1991).
6
Sul problema della corretta interpretazione del testo hobbesiano è più volte ritornato Quentin Skinner il
quale si preoccupa di sottolineare la struttura retorica dell'opera di hobbes. Vedi a proposito Skinner
(1996). Sulle controversie interpretative vedi inoltre il saggio di Rorty (1988).
7
Darwall, Gibbard e Railton (1992) distinguono almeno tre tipi di teorie naturalistiche: neoaristoteliche,
postpositiviste-antiriduzioniste e riduzioniste. In aggiunta Railton (1989) propone di distinguere tra un
naturalismo metodologico e un naturalismo prescrittivo. La nostra analisi riguarda solo l'approccio
riduzionista. Le teorie che discutiamo intendono inoltre connettere metodo e prescrizione in modo rigido,
anche se, come vedremo nel cap. 3, l'approccio scelto non sempre arriva alle conclusioni volute dagli
autori.
8
Hayek naturalmente si è espresso contro la sociobiologia. L'analisi mimetica suggerita da Dawkins
(1989) segue comunque da vicino il modello culturale suggerito da Hayek soprattutto nell'epilogo a
(1982) e in (1988).
9
Problemi identici affliggono l'interpretazione internalista di Hume proposta da Peter Winch (1962) e
dagli allievi del secondo Wittgenstein. In entrambi i casi il discorso normativo si risolve nella difesa di
una morale di gruppo localistica e relativista che assume come dato di fatto non problematico esistenza di
'tradizioni' culturali omogenee e contigue. Sui limiti di questi due approcci vedi O'Neill (1989; 1992).
10
Sulle relazioni che l'etica applicata intrattiene con tradizioni filosofico-giuridiche alternative vedi i
saggi di Maffettone (1989; 1992; 2001), Pontara (1988) e Singer (1989).
11
Parte Prima
Filosofia analitica ed etica pubblica
I
Contrattualismo kantiano e approccio normativo
L'attuale ripresa di interesse per il contrattualismo si deve principalmente al filosofo americano
John Rawls, autore di A Theory of Justice (1971) e Political Liberalism (1993), due delle più
importanti opere di filosofia politica contemporanea1. L'opera di Rawls si caratterizza per il
tenore marcatamente normativo del ragionamento filosofico sviluppato. L'obiettivo dell'autore è
infatti quello di identificare la base morale comune sulla quale si reggono le società pluraliste
contemporanee e da qui arrivare poi a definire i principi di giustizia ritenuti necessari per
costruire una società bene ordinata. Nel portare avanti questo progetto, il filosofo di Harvard ha
introdotto una serie di novità e spunti teorici che hanno dato impeto non solo all'analisi
normativa, ma promosso lo sviluppo delle varie etiche applicate discusse nella seconda parte del
volume.
La prima delle innovazioni proposte da Rawls è la riproposizione della tradizione
contrattualista classica, così come era stata elaborate da Locke, Rousseau e Kant, in
contrapposizione alla tradizione utilitarista dominante nella filosofia morale di lingua inglese.
Per Rawls l'approccio contrattualista ha una maggiore capacità propositiva e permette di evitare
la debolezza del pensiero utilitarista nel trattare i diritti individuali. Un secondo elemento di
novità è rappresentato dall'introduzione della moderna teoria delle decisioni in filosofia morale.
Il contratto dal quale si ricavano i principi di giustizia viene presentato come una particolare
scelta ponderata operata da individui razionali in situazioni di incertezza. Le controversie
promosse da questo tentativo hanno successivamente portato l'autore ad abbandonare tale
soluzione e a negare utilità alcuna ai modelli di scelta razionale (cfr. 1999a: 401, n. 20). Come
vedremo, all'abbandono della teoria della scelta razionale da parte di Rawls ha fatto da
contraltare lo sviluppo delle teorie analitiche dello stato di derivazione hobbesiana e humeana
che fanno un uso massiccio dei modelli assiomatici sviluppati in teoria dei giochi.
Compito di questo capitolo è quello di dare una presentazione sistematica del modello
contrattualista proposto da Rawls e delle diverse revisioni apportate dall'autore nel corso degli
anni. Vedremo innanzitutto cosa l'autore intende per contrattualismo e i modi in cui questo
viene connesso con la teoria della scelta razionale. Successivamente concentreremo l'attenzione
sugli elementi principali del modello contrattualista proposto da Rawls originariamente; sarebbe
a dire: le assunzioni riguardanti gli individui e le loro caratteristiche, la situazione all'interno
della quale questi sono chiamati a scegliere, il particolare meccanismo decisionale che adottano.
La presentazione si conclude con alcune osservazioni sull'equilibrio riflessivo. Quest'ultimo non
ha un legame diretto col modello di scelta proposto; non rappresenta cioè un elemento interno e
necessario al meccanismo decisionale. Risulta però importante per due ragioni. Primo: perché
permette di operare una verifica dei risultati ottenuti ed è quindi uno strumento di controllo
sull'intero modello. Secondo: perché rappresenta un elemento che sembra essere passato
indenne le revisioni operate dall'autore a partire dagli anni '802.
Nella seconda parte del capitolo sono discusse le maggiori critiche rivolte alla Teoria
che hanno lanciato il dibattito filosofico contemporaneo. Queste sono suddivise in due
categorie: le critiche di tipo interno, relative alla coerenza tra assunzioni iniziali e risultati finali
dell'argomento rawlsiano, e quelle di tipo esterno, che cioè contestano l'intera argomentazione
del filosofo americano. Le prime concentrano l'attenzione sul concetto di stabilità e hanno come
principale obiettivo il criterio di giustizia ridistribuiva difeso da Rawls: il principio di
differenza. Le seconde riguardano il sistema di diritti individuali, la priorità che Rawls
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
attribuisce a questi rispetto al bene, come anche la supposta l'obiettività, neutralità e universalità
del ragionamento rawlsiano.
Nella sezione conclusiva sono discusse le novità introdotte da Rawls con la
pubblicazione di Political Liberalism avvenuta nel 1993. La discussione ha comunque uno
scopo prettamente introduttivo e non dà una panoramica del dibattito suscitato da questa
seconda opera (per la quale si rimanda ai cenni contenuti nel capitolo conclusivo).
IL CONTRATTUALISMO IN RAWLS
Rawls si prefigge di individuate i principi di giustizia sociale che sono in grado di favorire la
nascita di una società bene ordinata; sarebbe a dire, una società che si basa sul consenso di
agenti liberi e razionali. Le istituzioni che compongono una società bene ordinata sono
concepite come uno schema cooperativo in cui gli individui entrano in relazione reciproca al
fine di produrre risorse economiche in grado di soddisfare le esigenze di tutti i membri. Come
ogni schema cooperativo, gli individui impegnati nella costruzione di una società bene ordinata
si confrontano con due elementi contrastanti. Da un lato si ha una identità di vedute, un
sentimento che spinge verso la collaborazione reciproca nella consapevolezza che solo ciò
permette di ottenere più di quanto la limitatezza dei singoli renderebbe possibile. Per altro verso
esiste però un conflitto di interessi, dovuto al fatto che ognuno desidera una quota maggiore dei
prodotti della cooperazione sociale rispetto a quanto è possibile in una società a scarsità
moderata. Compito di istituzioni sociali giuste è allora quello di: (i) assicurare un'equa divisione
dei frutti della cooperazione; (ii) soddisfare le pretese legittime dei singoli; (iii) mantenere il
sostegno quanto più volontario possibile al progetto cooperativo. Una società giusta è infatti per
Rawls una società che si basa su principi regolativi che tutti, o quasi tutti, riconoscono come
validi e degni di essere osservati.
Nel portare avanti l'analisi delle condizioni che rendono possibile una società bene
ordinata Rawls ridiscute la problematica contrattualista dell'accordo fra individui autointeressati
proposta originariamente da Hobbes: un accordo che da vita alla società civile e che assicura la
sopravvivenza e il progresso culturale ed economico. Diversamente da quanto suggerito da
Hobbes, il meccanismo contrattuale al quale fa appello Rawls non serve per scegliere un
sovrano a cui è demandato un potere assoluto, ma per identificare un insieme di principi
normativi validi per individui e istituzioni sociali. Il contrattualismo rawlsiano rappresenta
un'etica pubblica che ricerca criteri di giustificazione aventi un valore universale ed oggettivo.
L'approccio contrattualista serve per stabilire un insieme di regole di convivenza che, come
chiarisce Tim Scanlon, nessuno potrebbe ragionevolmente rifiutare come base per un accordo
equo e duraturo (1982). L'astrazione del contratto ha quindi una doppia funzione: quella di
individuare principi normativi universalmente condivisi e quella di giustificare valori e
istituzioni. La prospettiva metaetica ricercata nel secondo caso vede inoltre l'approccio
contrattualista come uno strumento per discriminare fra le teorie morali che difendono e
promuovono principi di giustizia alternativi (cfr. Maffettone, 1984, cap. 2).
Le ragioni teoriche che portano il filosofo americano a scegliere l'approccio
contrattualista sono connesse con le debolezze che affliggono le maggiori teorie morali
contemporanee. Per Rawls queste ultime si basano su un mix di utilitarismo e intuizionismo.
L'utilitarismo rappresenta una tradizione di pensiero che elegge come principio di azione e di
valutazione la massimizzazione dell'utilità attesa. In quanto tale ha il difetto, dice Rawls, di non
tenere nella dovuta considerazione i diritti individuali, la cui violazione viene ad essere
giustificata ogniqualvolta ciò produce un aumento dell'utilità generale attesa. Per l'utilitarista le
ragioni generali hanno la meglio su quelle 'centrate sull'agente', mentre considerazioni di
efficienza e benessere hanno priorità su quelle riguardanti i diritti dei singoli. L'utilitarismo
rappresenta per Rawls una teoria morale avente una struttura teleologica la quale antepone il
bene al giusto e definisce giuste tutte quelle azioni che massimizzano il bene.
14
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
L'intuizionismo è invece una dottrina alla cui base stanno una serie di principi primi
irriducibili derivati da un appello alle intuizioni morali dei singoli. "Le teorie intuizioniste
hanno quindi due caratteristiche: primo, sono costituite da un insieme di principi primi che
possono entrare in conflitto, fornendo indicazioni contrastanti in casi particolari; e, secondo, non
includono né un metodo esplicito né regole di priorità per valutare questi principi l'uno rispetto
all'altro" (Rawls 1982: 45). Contrariamente all'utilitarismo, l'intuizionismo è una teoria morale
che riconosce una pluralità di principi di giustizia ma difetta di criteri che stabiliscono un ordine
gerarchico fra questi. Risulta quindi scarsamente utile quando è chiamata a risolvere conflitti fra
principi primi. Un esempio di teorie intuizioniste sono le teorie dei diritti di derivazione
giusnaturalistica. Queste teorie si basano sull'idea che gli agenti morali sono portatori di diritti
assoluti e imprescrittibili. Il difetto di tali teorie riguarda appunto l'assenza di criteri oggettivi
che servano per l'identificare i soggetti portatori di diritti, il contenuto dei diritti stessi, i modi in
cui risolvere i conflitti fra titolari di diritti legittimi.
Come si vede siamo in presenza di due approcci i quali finiscono per tenere in
considerazione elementi opposti e per proporre soluzioni normative alternative. L'unione di due
tradizioni filosofiche così diverse è dovuto al fatto che entrambe, prese singolarmente, risultano
insoddisfacenti e non sono in grado di proporre un sistema normativo condivisibile dagli agenti
morali a cui si rivolge. Rawls sostiene che un tentativo di composizione siffatto è però destinato
al fallimento e che un progetto teorico unitario deve sviluppare argomenti diversi da quelli
utilizzati da utilitaristi e intuizionisti. Da qui la preferenza per un progetto di teoria morale di
stampo contrattualista: il contratto sociale rappresenta un modello teorico alternativo in cui
utilità e diritti, ragioni generali e particolari, teleologia e deontologia sono mantenuti in un
equilibrio appropriato.
Significato etico del contrattualismo rawlsiano
Il contrattualismo rawlsiano prende forma all'interno di un contesto argomentativo
particolarmente astratto e complesso. I principi di giustizia sono il frutto di un accordo fra
individui razionali posti in un contesto decisionale, la posizione originaria, dove le informazioni
sono fortemente limitate. L'accordo deve inoltre soddisfare criteri di razionalità strumentale.
Deve essere cioè in grado di tenere nella dovuta considerazione le ragioni autointeressate che
spingono gli individui ad agire e che, si ritiene, influenzano gli uomini in modo oggettivo.
L'idea contrattualista consiste appunto in questo: riuscire a definire un insieme di principi che
verrebbero scelti da agenti perfettamente razionali in condizioni di scelta ideali. In altri termini,
la posizione originaria descrive un contesto decisionale all'interno del quale gli accordi presi
sono equi, giusti e moralmente accettabili. Essa incarna ciò che Rawls definisce un ideale di
giustizia procedurale pura. "La posizione originaria è definita in modo da essere uno status quo
in cui tutti gli accordi raggiunti sono equi. E' uno stato di cose in cui le parti sono rappresentate
in modo eguale come persone morali e in cui il risultato non è condizionato da contingenze
arbitrarie o dall'equilibrio relativo delle forze sociali. La giustizia come equità è in grado di
usare fin dal principio l'idea di giustizia procedurale pura" (Rawls 1982: 113). Il contratto
rappresenta quindi un meccanismo euristico che partendo da un ragionamento controfattuale del
tipo come se permette di identificare i criteri che dovrebbero regolare istituzioni giuste o,
alternativamente, valutare l'equità delle istituzioni sociali esistenti.
Rawls definisce la posizione originaria attraverso una serie di limitazioni sulle
informazioni disponibili agli individui che daranno vita al contratto. Le limitazioni principali
riguardano il grado di conoscenza che questi hanno circa i talenti naturali che possiedono e il
posto che occupano all’interno delle varie gerarchie sociali. Nella terminologia utilizzata da
Rawls ciò equivale a dire che le decisioni avvengono dietro un velo di ignoranza che non
permette la conoscenza dei fatti particolari. Il significato delle limitazioni imposte è connesso
con la concezione di merito morale sostenuta dall'autore. Per Rawls sia i talenti naturali sia i
privilegi sociali sono il risultato di fattori contingenti sui quali gli individui non hanno che un
limitato controllo e su cui non possono avanzare pretese e meriti alcuno. Una teoria normativa
15
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
della giustizia sociale deve quindi procedere in modo da ridurre le influenze di questi fattori
arbitrari e muovere da una base morale neutrale e condivisibile universalmente. I principi di
giustizia cui si arriva mediante l'astrazione della posizione originaria sono equi e razionali
perché frutto di una scelta razionale avvenuta per mezzo di una procedura equa che elimina tutte
le influenze moralmente arbitrarie prodotte dalle lotterie naturali e sociali.
Secondo Rawls, individui razionali posti nella posizione originaria finiranno per
scegliere due principi di giustizia. Il primo stabilisce che ogni persona ha un eguale diritto alla
più estesa libertà fondamentale compatibilmente con una simile libertà per gli altri. Il secondo
afferma che le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere combinate in modo da essere
(a)
(b)
ragionevolmente previste a vantaggio dei meno avvantaggiati;
collegate a cariche e posizioni aperte a tutti3.
Il primo principio assegna i diritti di cittadinanza e garantisce un insieme di libertà quali quelle
politiche, civili, personali, di proprietà, etc. Il secondo traccia invece i criteri per la ripartizione
dei benefici e dei costi della cooperazione sociale: "i principi tracciano una distinzione tra
quegli aspetti del sistema sociale che garantiscono e definiscono eguali libertà di cittadinanza e
quelli che specificano e stabiliscono le ineguaglianze economiche e sociali" (Rawls, 1982: 66). I
due principi sono inoltre ordinati lessicograficamente e questo impedisce di potere scambiare
una minore libertà con un maggior benessere. Secondo Rawls, dei due principi elencati solo il
secondo, chiamato anche 'principio di differenza', risulta controverso e merita una specifica
giustificazione.
Struttura analitica del contratto rawlsiano
La 'giustizia come equità' è, per Rawls, parte della teoria della scelta razionale. Necessita allora
definire su quali assunti razionali si basa il meccanismo di scelta adottato dall’autore. Rawls
opera a questo fine due assunzioni: la prima è che gli agenti chiamati a scegliere nella posizione
originaria sanno di avere degli obiettivi ben determinati che vogliono realizzare; la seconda è
che le parti non sono a conoscenza del proprio bene. Queste assunzioni possono sembrare in
contraddizione dato che correntemente si ritiene una maggiore informazione come necessaria
per scegliere in modo razionale. Nel caso specifico però l'autore sostituisce la definizione
particolare di bene con una generale. Per bene, dice Rawls, si intende l'insieme dei mezzi che
aiutano a realizzare un piano di vita individuale, qualunque esso sia. Il concetto di razionalità
fatto proprio da Rawls è infine quello tradizionalmente usato dagli economisti: la capacità di
ordinare le proprie preferenze e di effettuare scelte coerenti con tale ordinamento. L'unica
assunzione particolare che viene fatta è l'assenza di invidia: "l'assunzione di razionalità
reciprocamente disinteressata si riduce a questo: le persone nella posizione originaria tentano di
riconoscere dei principi che favoriscono il più possibile il loro sistema di fini. Ciò è ottenuto
cercando di assicurare a se stessi il più alto indice di beni sociali principali, poiché ciò li mette
in grado di promuovere la loro concezione del bene, nel modo più efficace [...] Allo stesso
modo, non cercano di avvantaggiarsi rispetto agli altri; non sono ne invidiosi ne presuntuosi"
(1982: 131).
Rawls assume infine che gli agenti sono dotati di un senso di giustizia, cioè, che una
volta accordatesi su dati principi le parti tendano a rispettarli. Ne consegue che ognuno ha
fiducia negli altri e che nessuno aderirà a principi che non possono essere mantenuti, o il cui
rispetto è altamente oneroso. L’azione congiunta del disinteresse reciproco e del velo ignoranza
dovrebbe fare inoltre sì che la scelta sia anche indipendente da considerazioni strategiche, non
viziata cioè dalle scelte o dagli atteggiamenti degli altri. Alla luce di tali assunzioni Rawls
ritiene che la scelta debba cadere su principi equi ed imparziali; una soluzione diversa non
sarebbe infatti soltanto ingiusta ma anche irrazionale.
Il ragionamento che porta alla scelta dei due principi di giustizia, e in modo particolare
al principio di differenza, è un ragionamento prudenziale che Rawls identifica con il criterio del
maximin. Quest'ultimo è una delle regole decisionali utilizzate nei casi di incertezza: per quelle
16
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
situazioni, cioè, in cui non si hanno tutte le informazioni necessarie. II termine maximin
significa massimo dei minimi e rappresenta la regola decisionale che intende garantire
l'individuo dai peggiori risultati possibili. Posti di fronte ad una serie di alternative delle quali si
ha scarsa o nessuna conoscenza della probabilità del loro realizzarsi, il maximin suggerisce di
considerare i risultati minimi garantiti da ogni alternativa e di scegliere quella che garantisce il
minimo più alto. Tramite una lunga e complessa discussione, Rawls cerca quindi di dimostrare
che le condizioni descritte a proposito della posizione originaria sono tali per cui esiste un grado
di incertezza che giustifica l'applicazione del maximin e che a sua volta tale criterio porta alle
scelta dei due principi di giustizia. Nel fare ciò il filosofo americano opera una comparazione
fra maximin e altri criteri decisionali utilizzati in situazione di incertezza: l'utilitarismo classico
(nella versione datane da Henry Sidgwick) e il criterio dell'utilità della media ponderata
elaborato da John Harsanyi. La conclusione alla quale Rawls arriva è, ovviamente, che solo il
maximin porta alla scelta di principi di giustizia che garantirebbero gli individui in modo
effettivo. Nelle pagine successive ritorneremo sulle ragioni tecniche che secondo Rawls
giustificano l'applicazione del maximin piuttosto che un criterio alternativo. Per il momento
completiamo la presentazione della teoria discutendo l'ultimo tassello del modello
contrattualista rawlsiano: l'equilibrio riflessivo.
L'equilibrio riflessivo
Tradizionalmente i ragionamenti ipotetici del tipo sostenuto da Rawls sono stati accusati di non
tenere conto dei limiti della natura umana nell'adattarsi ai requisiti ideali definiti dalla teoria.
Rawls affronta il problema dell'utopismo insito nell'approccio contrattualista discutendo la
stabilità dei principi di giustizia proposti. Principi di giustizia stabili e duraturi sono per l'autore
principi che vengono osservati volontariamente e non richiedono un intervento coercitivo
continuo delle autorità. Le condizioni che rendono possibile la scelta di principi di giustizia
stabili sono di due tipi: interni ed esterni. Le condizioni interne riguardano il meccanismo
decisionale utilizzato nella posizione originaria. Come abbiamo visto la posizione originaria non
consente informazioni che possono portare alla scelta di principi che riflettono il potere
contrattuale delle parti. Allo stesso modo l'applicazione dei criteri di scelta razionale impedisce
la selezione di principi di giustizia la cui applicazione richiederebbe azioni supererogatorie. A
questi meccanismi (che possiamo definire come interni al processo decisionale) Rawls aggiunge
il criterio dell'equilibrio riflessivo, il cui scopo e quello di verificare la consistenza tra i principi
ideali così selezionati e le intuizioni morali degli individui che devono poi metterli in pratica4.
L'equilibrio riflessivo opera a due livelli distinti: a livello individuale rappresenta uno
strumento che permette al singolo individuo di strutturare in un insieme coerente intuizioni
morali e principi d'azione; a livello generale rappresenta invece un criterio per verificare la
congruenza fra teoria e intuizioni morali. Rawls asserisce che non è sempre possibile ottenere
un riconoscimento intuitivo di prescrizioni frutto di una elaborazione astratta che utilizza gli
assiomi della scelta razionale. Questo però può dipende dal fatto che gli individui posseggono
intuizioni morali in conflitto fra di loro, o incongruenze tra giudizi di valore (del tipo buonocattivo, corretto-scorretto, giusto-sbagliato, etc.) e principi morali. L'equilibrio riflessivo inteso
in senso ristretto è dunque un meccanismo che procede per successive revisioni e adattamenti e
riduce le incongruenze fra i principi d'azione che riconosciamo come razionalmente validi e le
nostre intuizioni morali. Un identico procedimento viene proposto per quanto riguarda i rapporti
fra teorie normative generali e le intuizioni morali che caratterizzano una data società. In questo
secondo senso l'equilibrio riflessivo rappresenta uno strumento di verifica semi-empirica delle
teorie morali deduttive, dove le intuizioni rappresentano i fatti con i quali confrontare la teoria.
L'equilibrio riflessivo allargato permette dunque un avvicinamento dell'etica ai modelli positivi,
e impone una verifica della validità dei principi normativi astratti (la teoria) con la realtà del
contesto morale (i fatti)5 .
L'equilibrio riflessivo è un concetto che precede il lavoro del 1971. Già nel 1951 Rawls
avanza uno schema di procedura per convalidare regole morali, vigenti o ipotetiche, e le scelte
17
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
richieste da tali regole. Lo schema, che corrisponde grosso modo a quello che abbiamo
chiamato equilibrio riflessivo allargato, ha come riferimento i criteri di verifica empirica delle
scienze naturali nella versione sottoscritta dagli empiristi logici. "Così come nella logica
induttiva", scrive Rawls, "l'obiettivo è quello di scoprire criteri che ci possano permettere di
decidere se proposizioni, teorie e relative evidenze empiriche a supporto delle stesse possano
essere considerate vere, anche nell'etica siamo interessati a trovare principi che possano
permetterci di determinare se le prescrizioni indicateci sono buone e giuste e debbano essere
portate avanti" (1999a: 2). Con la pubblicazione della Teoria il concetto viene ridefinito con
l'aggiunta del criterio di equilibrio riflessivo ristretto. A partire dal 1975, e come risposta alle
critiche rivolte alla Teoria, Rawls suggerisce invece una lettura quineana dell'equilibrio
riflessivo. Quest'ultimo è visto ora come una procedura diretta a rafforzare la coerenza del
modello normativo proposto e "non presuppone l'esistenza di verità morali oggettive" (1999a:
290). Rimane comunque immutata l'idea che l'equilibrio riflessivo serve non solo come test di
coerenza, ma per aggiudicare fra teorie morali che, a parità di coerenza, prescrivono principi e
corsi d'azione alternativi.
POSIZIONI CRITICHE
Prima di passare in rassegna le critiche rivolte a Rawls occorre fare una precisazione. Esistono
due possibili letture del modello contrattualista rawlsiano e della relazione che questo intrattiene
con la teoria della scelta razionale. Per una di queste i principi di giustizia sono derivati dalla
scelta ponderata di un decisore razionale posto in un contesto idealizzato quale quello della
posizione originaria. Da questa prospettiva una teoria della giustizia del tipo ricercato da Rawls
deve partire da assunzioni semplici e moralmente neutre e, attraverso passaggi deduttivi
rigorosi, derivare conclusioni normative aventi una validità oggettiva ed universale. Questa
lettura trova una sua giustificazione nell'affermazione di Rawls secondo cui la filosofia morale e
parte della teoria della scelta razionale e vede l'approccio rawlsiano come equivalente a quelli di
tipo emergenziale discussi nei prossimi due capitoli. La seconda lettura vede invece la scelta dei
due principi di giustizia come compatibile con il meccanismo di scelta razionale in situazioni di
incertezza descritto sopra. In questo caso le assunzioni iniziali da cui partire non debbono essere
amorali, ma debbono esprimere posizioni di valore universalmente accettate o ritenute tali.
Questa lettura alternativa trova una sua giustificazione non solo nel testo rawlsiano, dove i
principi di giustizia sono illustrati nel capitolo che precede la discussione sulla posizione
originaria, ma anche nelle revisioni apportate dall'autore alla teoria nel corso dei decenni
successivi. Secondo questa interpretazione, il progetto rawlsiano non è di tipo emergenziale ma
esprime e si basa su valori condivisi.
Come accennato precedentemente alla teoria rawlsiana sono state rivolte due tipi di
critiche. Il primo tipo ha avuto come obiettivo la logica interna al meccanismo di scelta, vale a
dire la cogenza della derivazione dei principi di giustizia dal contesto di scelta della posizione
originaria. Ad essere preso di mira è stato soprattutto il principio di differenza. Diversi autori
hanno sottolineato come tale principio, diversamente da quanto asserito da Rawls, sia dovuto
alla particolare concezione dell'eguaglianza morale sostenuta dall'autore. In altre parole, questi
critici affermano che il principio di differenza deriva da ragioni di natura intuitiva piuttosto che
dalla scelta prudenziale di individui razionali. La scelta nella posizione originaria non
giustificherebbe, per questi, l'applicazione del maximin, ma un qualche criterio di
massimizzazione dell'utilità attesa. Al problema deduttivo se ne lega un altro riguardante la
stabilità del contratto. E' stato fatto notare che una volta rimosso il velo di ignoranza, e restituita
agli individui la piena informazione circa se stessi, i più avvantaggiati non avrebbero nessun
motivo per collaborare. Sarebbe a dire, che Il contratto non è in grado di garantire che
l'accettabilità ex ante risulti anche ex post. La critica in questo caso riguarda l'applicabilità dei
principi di giustizia a situazioni concrete, ma ha rilevanza anche sul piano teorico perché le
18
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
parti, come dice Rawls, non possono accordarsi su principi che sanno di non essere in grado di
rispettare.
Di tenore diverso sono invece le obiezioni rivolte a Rawls dai pensatori comunitari. Per
questi oggetto di critica non è la coerenza interna al modello, ma l'intera struttura argomentativa
rawlsiana. Ad essere rifiutata è l'idea di un progetto teorico astratto che possa definire principi
normativi aventi validità universale e, quindi, la possibilità stessa di un'etica razionale del tipo
proposto da Rawls. Un rifiuto categorico viene espresso sia contro la pretesa universalità dei
principi di giustizia, sia contro le assunzioni deontologiche da cui l'autore muove, come anche la
metodologia individualista su cui si basa. In breve, mentre le critiche interne assumono che
l'approccio perseguito da Rawls è di tipo emergenziale e mettono in risalto i difetti del
ragionamento deduttivo proposto dal filosofo americano, quelle dei comunitari mettono in
discussione sia il fatto che esistono valori condivisi del tipo a cui fa appello Rawls, sia l'abilità
dell'approccio razionale prescelto nel generare il consenso necessario per ottenere una società
bene ordinata6.
Il problema deduttivo
Per dare un'idea del tipo di obiezioni che sono rivolte al modello decisionale rawlsiano partiamo
da una raffigurazione grafica del modo in cui i beni primari vengono distribuiti fra i soggetti
rappresentativi della classe dei meno avvantaggiati e di quella di coloro più avvantaggiati. Le
curve di indifferenza riprodotte in figura 1.1 rappresentano le diverse alternative sociali fra cui
un individuo razionale e disinteressato si trova a scegliere. L'assenza di invidia e le altre
assunzioni fatte da Rawls trasformano tali curve in linee parallele che si incontrano ad angolo
retto (cfr. 1982: 78).
Figura 1.1. Distribuzione dei beni primari fra i rappresentanti dei meno avvantaggiati e dei
più avvantaggiati. Tratta da Boudon (1981).
Per Rawls fra due distribuzioni alternative come quelle definite dai punti A e B è razionale
scegliere B. B infatti rappresenta una situazione sociale in cui l'ammontare complessivo delle
risorse e la loro distribuzione è superiore a quanto garantito da A. Nessuno in questo contesto di
scelta può avanzare motivazioni valide per scegliere A piuttosto che B. Nel linguaggio della
19
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
teoria della scelta razionale B viene definito come l'alternativa dominante. Consideriamo ora il
punto C. Dal confronto fra A e C emergono due tipi di preferenze: il rappresentante della classe
più avvantaggiata preferisce A a C in quanto A assicura un maggiore ammontare di risorse
rispetto a C; il rappresentante della classe meno avvantaggiata preferisce invece C ad A per le
ragioni opposte. Fra A e C non esiste dunque una alternativa dominante. Siccome però la scelta
viene operata dietro un velo di ignoranza che impedisce di sapere in anticipo (o di calcolare le
probabilità relative) a quale classe un individuo apparterrà dopo la stipula del contratto,
l'applicazione del criterio del maximin porta alla selezione dell'alternativa C. C infatti
massimizza l'ammontare di risorse minimo al quale si può accedere in caso si finisca nella
classe dei meno avvantaggiati. Come Boudon nota, "i contraenti devono preferire B ad A e, in
funzione di differenti considerazioni, C ad A. [...] mentre la preferenza per B rispetto ad A viene
direttamente dedotta dall'assioma, lo stesso non avviene per la preferenza di C rispetto ad A, che
suppone la proposizione supplementare che, in assenza di una strategia dominante, il maximin
rappresenta la strategia ottimale" (1981: 156).
La differenza fra le due assunzioni è per il sociologo francese indice delle inconsistenze
che viziano la struttura deduttiva di Rawls. Prendiamo infine in considerazione le alternative B e
C. Come si può vedere dalla figura 1.1, B e C si trovano sulla stessa curva e sono quindi
indifferenti. Il risultato sembra però implausibile: per il rappresentante dei più avvantaggiati B
risulta superiore rispetto a C perché assicura maggiori risorse; per il rappresentante dei meno
avvantaggiati fra B e C esiste una relazione di indifferenza perché una delle premesse di Rawls
è l'assenza di invidia. Ne consegue che B deve essere preferita a C anche se posti dietro un velo
di ignoranza e quindi che B e C non possono stare sulla stessa curva di indifferenza come
suggerito da Rawls. In altre parole, non è chiaro perché individui autointeressati debbano
trovare indifferente l'alternativa dominante B a quella più egualitaria C; a meno di non
considerare la maggiore equità di C come qualcosa di preferibile per se. Così facendo però si
finisce per introdurre nel modello elementi estranei a quelli definiti nella posizione originaria.
Come Boudon afferma: "la preminenza accordata al meno favorito nel secondo principio di
giustizia, non solo non viene dedotta dall'assioma della posizione originale; ma sembra
addirittura in contraddizione con esso. Si è obbligati ad ammettere che il secondo principio di
giustizia deriva da una teoria di tipo 'intuizionista' in contraddizione con le stesse ambizioni di
Rawls" (ibid.: 160).
Che l'approccio rawlsiano ha una base intuitiva più che razionale è reso evidente,
secondo i critici, dall'applicazione del criterio del maximin. Il maximin rappresenta un
meccanismo decisionale messo a punto da von Neumann e Morgenstern negli anni '40 quale
soluzione razionale per tutti quei contesti strategici formalizzati come giochi a somma zero.
Quei giochi, cioè, dove i guadagni di uno corrispondono alle perdite dell'altro. In questi casi la
scelta razionale consiste nel selezionare il corso d'azione i cui pay-offs sono i massimi fra i
minimi possibili. Il maximin è un meccanismo prudente, preoccupato più delle perdite che dei
guadagni potenziali e quindi portato a scegliere quelle alternative che assicurano dei pay-offs
che non dipendono dalle scelte della controparte. Tale criterio ha cominciato ad essere oggetto
di critiche prima ancora di essere stato utilizzato da Rawls. A criticarlo sono stati due correnti di
pensiero: coloro che hanno messo in evidenza il ristretto ambito di interesse che hanno i giochi
a somma zero relativamente a quelli a somma positiva; i teorici bayesiani i quali riducono i
problemi strategici a casi equivalenti di scelta parametrica attraverso l'impiego di probabilità
soggettive. Nel caso di Rawls il criterio del maximin risulta problematico per almeno due
ragioni. Innanzitutto perché la posizione originaria non si caratterizza affatto come un contesto
strategico e tantomeno come un gioco a somma zero. In secondo luogo perché, come hanno
evidenziano bayesiani, la posizione originaria descrive una situazione in cui esiste una
distribuzione di rischio equiprobabile e quindi non giustifica la scelta di un criterio prudenziale
che si basa su aspettative estremamente pessimistiche.
Sin dai primi anni '50 John Harsanyi ha sviluppato un programma di ricerca che utilizza
la teoria delle decisioni in modi del tutto simili rispetto a Rawls7. Harsanyi arriva però a
conclusioni che giustificano la scelta del criterio dell'utilità della media ponderata attesa. Nel
20
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
presentare le caratteristiche della situazione di scelta iniziale, Rawls tiene conto delle critiche
bayesiane e di quelle di Harsanyi in particolare, ma non le ritiene sufficienti per giustificare
l'utilizzo di un criterio di scelta utilitarista. Harsanyi dal canto suo è intervenuto diverse volte
sul punto dimostrando come nell'operare concreto il criterio del maximin porti a risultati
paradossali: "e completamente irrazionale far dipendere il proprio comportamento
esclusivamente da qualche eventualità sfavorevole ma altamente improbabile senza considerate
quanto è bassa la probabilità che siete disposti ad assegnarli" (1989: 113). Per Harsanyi il
maximin attribuisce un peso eccessivo ad elementi le cui probabilità sono infinitesimali,
determinando come risultato finale decisioni che sono inammissibili. Secondo l'autore il
principio di differenza giustifica grandi perdite per i più avvantaggiati anche se queste
procurano guadagni infinitesimali ai meno avvantaggiati; oppure impedisce enormi guadagni
che comportano perdite irrisorie per coloro che sono meno avvantaggiati.
Nel discutere il principio dell'utilità della media, Rawls considera le debolezze elencate
da Harsanyi ma ritiene che queste riguardino il maximin come criterio di scelta per decisioni
micro; che cioè non riguardano la società nel suo insieme. Nel caso di decisioni macro,
riguardanti cioè l'assetto delle maggiori istituzioni sociali, il criterio del maximin è immune dai
difetti menzionati da Harsanyi e rappresenta il solo criterio di scelta in grado di riscuotere il
consenso degli agenti razionali posti dietro il velo di ignoranza. La risposta rimane comunque
insoddisfacente, come anche lo stesso Rawls è stato costretto ad ammettere. Nell'introduzione
alla traduzione francese della Teoria avvenuta nel 1987 l'autore afferma infatti quanto segue: "io
continuo a pensare il principio di differenza come importante e sarei ancora disposto ad
argomentare in suo favore [...] Ma riconosco che la sua giustificazione non è così evidente e non
ha certo una portata simile a quella che porta alla scelta dei primi due principi [eguaglianza delle
libertà, primo principio, e delle opportunità, parte B del secondo principio]" (1999a: 418-9).
Un secondo problema deduttivo cui va incontro il modello decisionale rawlsiano è
quello relativo alla stabilità del contratto ex post. Rawls asserisce che esiste in ognuno di noi un
senso di giustizia che porta all'osservanza e al rispetto di istituzioni giuste e che le parti nella
posizione originaria si accorderanno su principi che non richiedono sacrifici troppo alti e/o
duraturi. Queste due assunzioni dovrebbero permettere di riconciliare moralità e razionalità e
assicurare così la stabilità del contratto nel tempo. Che i principi di giustizia scelti da Rawls
siano in grado di garantire un grado soddisfacente di stabilità è stato però messo in dubbio
ripetutamente. Robert Nozick per esempio afferma che "il principio di differenza presenta dei
termini in base ai quali i meno dotati sarebbero desiderosi di cooperare. (Quali termini migliori
potrebbero proporre per se stessi?). Ma è questo accordo in base al quale i peggio dotati possono
aspettarsi la cooperazione spontanea di altri equo? [...] il principio di differenza non è neutrale
tra i meglio e i peggio dotati" (1974: 204-5). La parzialità a favore dei meno avvantaggiati ha
effetti negativi sulla stabilità del contratto rawlsiano perché una volta rimosso il velo di
ignoranza coloro che hanno più talento e contribuiscono maggiormente alla cooperazione
sociale non avrebbero, secondo Nozick, ragioni sufficienti per accettare un criterio distributivo
che li penalizza sistematicamente.
Simile ragionamento è sviluppato da David Gauthier. Per il filosofo canadese "un
principio che stabilisce i termini associativi deve essere razionale non solo prospettivamente ma
anche retrospettivamente" (1974: 156). Sarebbe a dire che "la scelta deve essere razionalmente
accettabile [...] per ciascun rappresentante anche dopo che il velo di ignoranza è stato rimosso"
(Ibid.). I principi di giustizia proposti da Rawls non soddisfano, secondo l'autore, questo criterio
di razionalità. Al contrario, Gauthier asserisce che "il principio di differenza lessicale assicura ai
meno dotati il potere di sfruttare coloro che hanno maggiore talento, imponendo a questi ultimi
di impiegare le loro abilità non per il loro diretto avvantaggio, ma per massimizzare il livello
minimo di benessere" (1986: 252)8. La corretta applicazione dei criteri di razionalità strumentale
nella posizione originaria porterebbe, secondo Gauthier, né al principio di differenza lessicale di
Rawls né al principio dell'utilità media ponderata attesa di Harsanyi, ma ad un principio di
differenza proporzionale che assicura una distribuzione del surplus cooperativo in relazione al
contributo marginale dato alla cooperazione sociale.
21
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
Considerazioni tecniche a parte, la rilevanza delle critiche di Nozick e Gauthier risiede
nel proporre principi morali alternative riguardo alla natura, ruolo e rilevanza del talento
individuale. In entrambi i casi si ritiene inaccettabile l'idea che il talento sia un patrimonio
collettivo piuttosto che una caratteristica individuale sulla quale basare un riconoscimento
morale di merito. Per entrambi gli autori, un principio distributivo che nega legittimità alcuna
alle disuguaglianze dovute alla distribuzione ineguale dei talenti equivale alla giustificazione di
forme di sfruttamento schiavistico. Ciò consente ai due autori di ritorcere contro lo stesso Rawls
le critiche da questi rivolte all'utilitarismo: "nel supporre che una distribuzione giusta dei costi e
benefici della interazione sociale non debba essere connessa con le caratteristiche personali
degli individui che compongono la società Ralws viola l'integrità degli esseri umani, per come
essi sono e per come concepiscono se stessi" (Gauthier, 1986: 254). Questa identità di vedute
non porta comunque gli autori ad elaborare principi di giustizia convergenti. Come accennato,
nel caso di Gauthier il principio di giustizia selezionato porta al riconoscimento dell'obbligo
morale a retribuire in base al contributo marginale di ogni individuo al surplus cooperativo e
quindi indipendentemente dalla prospettiva dei meno avvantaggiati. Nel caso di Nozick, i criteri
distributivi hanno invece una base storica e dipendono dall'esistenza di titoli di proprietà
esclusiva sulle cose e sulle persone il cui possesso è valido9.
Le critiche dei comunitari
Con il termine comunitari intendiamo riferirci ad un gruppo di studiosi contemporanei che negli
ambiti accademici di lingua inglese si oppongono al paradigma liberale. Quello che caratterizza
e che risulta comune a tutti questi autori è l'impostazione critica nei confronti di tutte le filosofie
che pongono al centro della loro speculazione l'individuo: un individuo astratto, slegato da ogni
riferimento storico e contestuale ma ritenuto il riferimento di valore fondamentale per la
giustificazione di principi, istituzioni e pratiche che regolano le società moderne. I rilievi dei
comunitari partono dal fatto che tutti i sistemi morali sono creazioni umane e in quanto tali
dipendono strettamente dal contesto in cui sono nate. I valori ai quali l'etica si riferisce non sono
creazioni fatte a priori, ma dipendono da culture e tradizioni ben definite. Inoltre questi non
sono definibili una volta per tutte ma variano al variare delle epoche e dei contesti sociali e
culturali.
La varietà delle posizioni comunitari e di quelle liberali e l'ampiezza del dibattito fra le
varie parti ha creato non pochi fraintendimenti riguardo sia all'oggetto della disputa sia ai
soggetti a cui è indirizzata. Charles Taylor (1995) ha avanzato uno schema interpretativo che
cerca di fare chiarezza sull'argomento e che riportiamo in forma di matrice.
OLISTI
ATOMISTI
COLLETTIVISTI
INDIVIDUALISTI
Aristotelici e Marxisti
comportamentisti
Mutualisti e pluralisti
Liberali e libertari
Figura 1.2. Schieramenti nel dibattito tra comunitari e liberali
Lo schema separa le questioni normative da quelle epistemiche10. La distinzione fra
olisti e atomisti si riferisce al diverso modo in cui gli epistemologi concepiscono le istituzioni e
i fenomeni sociali: come aventi una natura oggettiva che si impone ai singoli condizionandone i
sistemi di credenze e i comportamenti (olisti), o come il risultato delle azioni e reazioni di
individui autonomi e/o autosufficienti (atomisti). La dimensione prettamente normativa
distingue fra coloro che attribuiscono priorità alle libertà e ai diritti degli singoli (individualisti)
e coloro invece che subordinano questi ultimi alle esigenze della comunità (collettivisti). Fra i
quattro tipi ideali che emergono dall’incrocio di queste due dimensioni il meno rilevante è
quello comportamentista, il cui solo esempio è quello dell'utopia cibernetica di B.F. Skinner. La
tabella mette in evidenza la presenza di due posizioni comunitarie fra le quali Taylor è ansioso
22
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
di distinguere: quella radicale che comprende aristotelici e marxisti e quella moderata che
comprende mutualisti e pluralisti11. Dal punto di vista epistemologico, i comunitari focalizzano
l'attenzione su due temi fondamentali:
•
•
il tipo di relazione che intercorre tra l'io e la comunità di riferimento
il diverso grado di stabilità a cui portano concezioni morali che sposano versioni alternative
del rapporto fra io e comunità
Dal punto di vista più genuinamente normativo il dibattito concerne invece:
• il tipo di relazione che intercorre tra giusto e bene, o tra libertà negative e positive
• la definizione di bene e dei relativi criteri distributivi
Per i comunitari la teoria della giustizia di Rawls rappresenta un condensato di elementi
tipici del pensiero liberale ed è, quindi, un obiettivo critico privilegiato. Contro la pretesa
rawlsiana di derivare principi morali universali dalla scelta libera e razionale di un agente
idealmente situato i comunitari affermano che "non esistono standard di giustificazione
razionale a cui è possibile appellarsi per risolvere questioni che tradizioni diverse giudicano in
modo alternativo" (MacIntyre, 1988: 351). Fanno quindi notare che il gruppo e il contesto
storico-culturale sono elementi basilari per la costruzione dell'identità individuale e lo sviluppo
della personalità morale. Come afferma Sandel, "la comunità non descrive solo quello che [gli
individui] hanno in comune come cittadini, ma anche quello che sono, non una relazione che
essi scelgono [...] ma un legame che essi scoprono, non semplicemente un attributo ma un
elemento costitutivo della loro identità" (1982: 150). Un riferimento agli individui presi
isolatamente dal contesto è quindi privo di senso perché non permette una descrizione
appropriata degli stessi. Conseguentemente viene scartata l'idea di individuo libero ed
autonomo, di biografia che si autocostruisce indipendentemente dalla comunità, o
prioritariamente rispetto alla comunità.
Le conseguenze a cui porta una tale concezione dell'io sono diverse. Innanzitutto
abbiamo il rifiuto del concetto di neutralità e del formalismo liberale da cui questo deriva. I
principi riconosciuti dalle società liberali, dice MacIntyre, "non sono neutrali rispetto a teorie
del bene rivali. Laddove sono applicati questi impongono una concezione particolare della vita
giusta, di razionalità pratica e della giustizia a coloro che volontariamente o involontariamente
accettano le procedure liberali e i termini del dibattito. Il bene principale che il liberalismo
persegue è nient'altro che la difesa dell'ordine politico e sociale liberale" (1988: 345). Inoltre si
ritiene che il riferimento al contesto non consente la separazione fra giusto e bene così come
proposto da Rawls e dalle teorie deontologiche in generale. Il poter separare il giusto dal bene
richiede una priorità del se rispetto ai suoi fini, valori e attaccamenti sociali, afferma Sandel, "se
il se è prioritario rispetto ai suoi fini, allora il giusto deve essere prioritario rispetto al bene"
(1984: 17). Per Sandel questo è però impossibile: "per quanto aperta può essere, la mia vita è
parte integrale della storia delle comunità dalle quali io derivo la mia identità - che siano queste
la famiglia o la città, la tribù o la nazione, il partito o la causa. Per i comunitari queste storie
hanno rilevanza da un punto di vista morale e non solo psicologico. Da esse dipende la nostra
collocazione nel mondo e la specificità morale della nostra esistenza" (ibid.).
Da un punto di vista metateorico il problema con cui si confrontano i liberali risiede sia
nell'abilità di autoriproduzione di una società che si riconosce in valori individualistici, sia nella
possibilità di imporre tali valori a società che non condividono la stessa storia. Come afferma
Charles Taylor: "esistono dubbi circa la capacità di sopravvivenza (viability) di una società che
cerchi di funzionare secondo questi principi, e sorge inoltre il problema se sia possibile
applicare questo modello in società diverse da quella degli Stati Uniti (e forse la Gran Bretagna)
dove è in gran parte originato" (1995: 187). Riguardo alla prima questione, Taylor ritorce contro
gli individualisti le critiche di utopismo che i liberali hanno tradizionalmente rivolto alle
dottrine collettiviste. Per Taylor, "modelli alternativi del rapporto individuo-società -atomismo e
olismo- sono connessi con concezioni diverse della relazione tra io e l'identità; io disincarnato
23
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
contro io contestualizzato. [...] dato che un io totalmente disincarnato risulta umanamente
impossibile, un modello estremo di società atomistica è una chimera" (ibid.: 182). Riguardo al
problema dell'etnocentrismo che affligge le teorie liberali, Taylor mette in evidenza come
"esistono società democratiche moderne la cui unità patriottica si basa su una cultura nazionale
[...] definita attraverso la lingua o la storia. [...] Il modello deontologico-procedurale è
inadeguato per tali società perché per queste non è possibile mantenere una posizione neutrale
fra tutte le definizioni possibili di vita buona" (ibid.: 203).
Le implicazioni normative a cui arrivano i comunitari sono incompatibili con la priorità
che i liberali attribuiscono ai diritti, quali sfere di autonomia individuale, rispetto ad una
concezione condivisa del bene. La conclusione normativa a cui arriva Sandel è, per esempio, un
appello a preservare forme solidaristiche presenti nelle società contemporanee: "se coloro che
credono nel bene comune hanno ragione, il nostro obiettivo morale e politico è quello di
rivitalizzare le istituzioni civiche repubblicane implicite nella nostra tradizione ma che sono
attualmente in fase di deperimento" (1984: 17). L'esistenza di una pluralità tradizioni culturali e
comunità morali ha inoltre dirette conseguenze sul modo di intendere l'uguaglianza. Per i
comunitari un principio distributivo generale del tipo ricercato da Rawls risulta chimerico
perché non tiene conto né del significato sociale del bene né dell'esistena di una pluralità di beni
diversi. La definizione di criteri distributivi validi è per questi possibile solo all'interno di
contesti specifici. Come chiarisce Michael Walzer: "beni sociali differenti devono essere
distribuiti per ragioni differenti secondo procedure differenti da agenti differenti e tutte queste
differenze derivano dai significati differenti degli stessi beni sociali -il prodotto inevitabile della
particolarità storica e culturale" (1983: 6). L'implicazione è duplice: (i) non si ha un singolo
principio distributivo perché beni diversi da distribuire a persone diverse richiedono criteri
diversi; (ii) non è possibile definire uno standard astratto di giustizia, ma si può solo di volta in
volta e per casi concreti stabilire l'equità di istituzioni singole. Per Walzer ciò significa
abbandonare la ricerca di criteri di giustizia semplici del tipo ricercato da Rawls e adottare un
criterio di giustizia complessa per cui "nessun bene sociale X deve essere distribuito a uomini e
donne che possiedono un altro bene Y solo perché possiedono Y e senza considerate il
significato di X" (ibid.: 20).
Le teorie comunitarie hanno evidenziato alcuni elementi deboli del contrattualismo
rawlsiano (ma il discorso vale per l'etica razionale in generate) e stimolato gli approcci
deontologici a prestare maggiore attenzione all'origine storico-sociali dei concetti morali e dei
criteri di giustificazione. Hanno inoltre posto l'accento sui i vincoli sociali all'interno della quale
principi di giustizia astratti devono poi operare e contribuito a bilanciare l'eccessiva astrazione
dei modelli normativi ideali. Alle critiche però non sono seguite proposizioni normative
convincenti. Nessuno dei pensatori comunitari è riuscito a proporre una teoria della giustizia che
sia capace di giudizio critico e in grado di dare delle risposte chiare circa i problemi posti dal
conflitto fra sistemi di valore alternativi. In altre parole, le teorie comunitarie hanno evidenziato
i problemi di natura epistemologica che affliggono le etiche normative, ma non hanno affatto
chiarito le implicazioni sostanziali di questi argomenti. Come lo stesso Taylor velatamente
ammette, "il tenore di queste tesi riguardo l'identità risulta ancora puramente ontologico. Esse
non implicano l'apologia [advocacy] di un qualcosa di definitivo. Quello che si propongono,
come del resto fà ogni tesi ontologica circa il bene, è quello di strutturare il campo delle
possibilità in modo più chiaro. Ma questo ci lascia di fronte a scelte per la cui risoluzione
necessitiamo di ulteriori argomentazioni normative e deliberative" (1995: 183).
Non solo i vari pensatori comunitari finiscono per difendere principi contrapposti, ma, a
loro volta, basano questi principi su nozioni di comunità, identità personale e di psicologia
morale non meno controverse di quelle criticate. Anche per quanto riguarda le obiezioni rivolte
alle dottrine individualiste esistono notevoli ambiguità: hanno come obiettivo Rawls o libertari
come Nozick? Taylor preme perché si faccia una netta distinzione tra comunitari radicali, dai
quali si dissocia, e comunitari moderati ai quali si associa. Non sembra però consistente quando
sottace che lo stesso può dirsi riguardo alle differenze fra liberali come Ralws e libertari come
Nozick. Se la critica delle dottrine atomistiche cattura le debolezze di quanti avanzano teorie dei
24
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
diritti senza dare una adeguata giustificazione dei diritti scelti, la stessa sembra portare fuori
pista quando viene applicata nei confronti di Rawls senza ulteriori qualificazioni. Non solo
Rawls non parte dall'idea che esistano diritti senza ulteriore giustificazione, ma i principi di
giustizia avocati si basano su considerazioni morali circa il merito e la natura sociale del talento
individuale che sono incompatibili con le concezioni atomiste attribuitele. In breve, non è chiaro
se e in che misura una teoria normativa individualista debba dipendere da un'epistemologia
atomista e se nel caso specifico di Rawls ciò accade12.
DAL CONTRATTUALISMO ETICO AL COSTRUTTIVISMO POLITICO
Con Political Liberalism (1993) Rawls opera una radicale revisione della Teoria; un cambio di
direzione che riguarda sia la sostanza delle prescrizioni proposte sia il tipo di argomentazione
utilizzato per giustificare i principi normativi avanzati. Nelle intenzioni dell'autore lo scopo del
nuovo lavoro è comunque quello di chiarire gli obiettivi che l'opera precedente perseguiva.
Obiettivi che, sostiene Rawls, sono stati fraintesi da molti commentatori. Alla chiarificazione
segue però una revisione che mira a risolvere alcune delle debolezze che affliggono la Teoria.
La revisione più evidente riguarda la discussione sulla stabilità dei principi di giustizia e in
particolare l'inconsistenza fra gli argomenti di psicologia morale sviluppati nella parte terza
della Teoria e il modello di scelta razionale proposto all'inizio. Secondo Rawls, "il problema
della stabilità ha giocato un ruolo minimo nella storia della filosofia morale [...] Nonostante ciò
il problema della stabilità è di fondamentale importanza per la filosofia politica e
un'inconsistenza in questo ambito è destinata a premere per revisioni radicali" (1993: xvii).
Rawls chiarisce infine che le revisioni apportate non cercano di rispondere alle critiche avanzate
dai comunitari, i quali sono per l'autore fra coloro che hanno frainteso maggiormente il
significato complessivo della Teoria13.
Nel concludere questo capitolo proponiamo un breve sommario della struttura analitica
di (1993). L'obiettivo della discussione è quello di rendere evidente due cose: a che cosa si
riferisce Rawls con il problema della stabilità e come questo problema viene affrontato e risolto.
Come abbiamo visto nel discutere le critiche avanzate contro la Teoria esistono almeno due
versioni del problema della stabilità. Le critiche interne affermano che l'errore di Rawls è di
natura prettamente deduttiva e che soggetti razionali e autointeressati non avrebbero ragioni
sufficienti per osservare il principio di differenza volontariamente. I comunitari affermano
invece che l'errore risiede nella sottovalutazione del rapporto fra io e comunità e
nell'imposizione di una priorità del giusto sul bene che promuove l'atomizzazione della società.
L'impressione è che nel rivedere la Teoria Rawls consideri solo il secondo tipo di critica. Dal
punto di vista sostantivo la revisione di Rawls porta all'eliminazione del principio di differenza
quale principio costituzionale essenziale. Se questo può apparire come una concessione alle
critiche degli internalisti, l'assenza di salvaguardie costituzionali al diritto di proprietà e la lunga
discussione sulla priorità delle libertà sembra invece confermare come le obiezioni alle quali
Rawls cerca di rispondere vengano proprio dai comunitari.
Etica razionale o politica ragionevole?
"Political Liberalism parte dal presupposto che [...] l'esercizio della ragione promosso dalle
libere istituzioni di un regime democratico-costituzionale giustifica l'esistenza di una pluralità di
tradizioni di pensiero (doctrines) che sono al tempo stesso ragionevoli e incompatibili" (ibid.:
xvi). Una affermazione siffatta contrasta con l'obiettivo razionalista di stabilire una fondazione
oggettiva della morale e, in particolare, col tentativo di derivare i principi morali per una società
bene ordinata dalla scelta ponderata di soggetti razionali. Il pluralismo che caratterizza le
moderne società occidentali è, per Rawls, un fatto reale e non il risultato di errori concettuali,
linguistici o di altra natura. Rawls afferma inoltre che siccome la logica stessa dei sistemi
democratici produce e si basa sull'esistenza di opinioni politiche diverse, il pluralismo è anche
un'assunzione di valore. Come risolvere dunque le inevitabili tensioni che sorgono fra persone e
25
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
gruppi che sottoscrivono tradizioni di pensiero contrapposte? La risposta di Rawls si articola in
tre parti: la prima considera la distinzione tra etica e politica e definisce i limiti della riflessione
filosofica nell'affrontare il tema del conflitto; la seconda considera le basi su cui costruire una
società bene ordinata pluralista; la terza discute il tipo di istituzioni necessarie per garantire un
ordine sociale stabile.
Se l'obiettivo della Teoria era quello di definire i principi di giustizia validi per una
società bene ordinata, "il problema del liberalismo politico è quello di definire una concezione
politica della giustizia valida per un regime democratico-costituzionale nel quale si possano
riconoscere coloro che sottoscrivono tradizioni di pensiero ragionevoli" (ibid.: xviii, corsivo
aggiunto). I termini in corsivo sono cruciali per capire le novità introdotte da Rawls rispetto al
lavoro del 1971. Il problema non è quello di individuare principi morali oggettivi e universali da
cui valutare la giustezza delle maggiori istituzioni sociali. Una teoria politica liberale deve, dice
Rawls, riuscire a definire criteri di giustizia sociale accettabili indipendentemente dal fatto se
questi siano o meno veri. In altre parole, la nozione di verità morale non si applica ad una
concezione politica della giustizia, né questa deve ricercare necessariamente una fondazione
ultima. Per Rawls questo non significa giustificare la scelta di principi arbitrari, ma riconoscere
la diversa natura delle giustificazioni politiche rispetto a quelle filosofiche, etiche e religiose.
Il termine ragionevole serve a qualificare il tipo di argomentazioni sui quali basare la
scelta dei principi di giustizia, come anche le tradizioni di pensiero di cui si deve ricercare il
consenso. L'aggettivo è utilizzato da Rawls in opposizione a due altri termini: razionale e
onnicomprensivo. Una concezione filosofica è ragionevole quando riconosce sia la difficoltà di
arrivare alla scoperta di verità ultime, sia l'esistenza di una varietà di teorie che aspirano ad
essere vere. Le teologie filosofiche prodotte dalle maggiori religioni storiche rappresentano un
esempio di teorie onnicomprensive. Il razionalismo come movimento filosofico impegnato nella
scoperta dei principi primi sui quali si basa la conoscenza umana è un altro esempio di
tradizione di pensiero onnicomprensiva. Onnicomprensivo non è sinonimo di irragionevole, ma
serve per indicare l'esistenza di aspirazioni che vanno aldilà dell'ambito politico. Una tradizione
di pensiero onnicomprensiva risulta irragionevole solo nel caso in cui questa si rifiuti di
riconosce o di prendere sul serio l'esistenza di tradizioni di pensiero alternative. Aldilà delle
definizioni, il nocciolo del ragionamento di Ralws è che, dato il fatto del pluralismo, una
concezione politica della giustizia deve basarsi su argomenti in grado di riscuotere il consenso
di tradizioni di pensiero diverse. Una concezione politica della giustizia che si basi su criteri
giustificativi forti come quelli che ispirano le tradizioni di pensiero onnicomprensive sarebbe
infatti destinata al fallimento14.
Consenso universale e consenso per sovrapposizione
Il modello contrattualista dal quale Rawls deriva i due principi di giustizia discussi nella Teoria
ha come obiettivo un consenso universale. Tale consenso viene raggiunto rimuovendo le
influenze arbitrarie e contingenti che viziano l'imparzialità di giudizio dei vari agenti. La
persistenza del consenso nel tempo attraverso la scelta di principi che non richiedono
all'individuo eccessivi costi e lo sviluppo di sentimenti morali quali il rispetto di se e il senso di
giustizia. Con l'introduzione del pluralismo quale dato di fatto e di valore, lo schema concettuale
contrattualista appena menzionato non è più utilizzabile. Innanzitutto, tale schema sembra
presume l'esistenza di principi di giustizia oggettivi che la posizione originaria può portare alla
luce. In aggiunta, l'accento posto sui meccanismi di scelta razionale non tiene nella dovuta
considerazione il ruolo delle appartenenze sociali e di come queste influenzano le scelte
individuali. Allo scopo di evitare l'accusa di realismo morale, Rawls è ora portato ad enfatizzare
la natura construttivistica dei principi di giustizia15. Lo scopo della posizione originaria non è
quello portare alla scoperta di principi oggettivi, ma quello di definire il contesto appropriato
per scegliere principi sui quali può convergere il consenso delle tradizioni di pensiero
ragionevoli.
26
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
Il costruttivismo avocato ha notevoli implicazioni per quanto riguarda il problema della
stabilità. "La questione della stabilità assume una duplice forma", dice Rawls, "la prima è se le
persone che crescono in un contesto istituzionale giusto [...] finiranno poi per acquisire un senso
di giustizia che li porta ad osservare quelle stesse istituzioni. La seconda questione riguarda
l'abilità di un contesto politico-culturale democratico che riconosce il valore del pluralismo
nell'arrivare ad un consenso per sovrapposizione" (ibid.: 141). La prima questione è quella
trattata nella terza parte della Teoria alla quale l'autore rimanda senza ulteriori discussioni. Il
consenso per sovrapposizione (overlapping consensus) rappresenta invece la novità teorica
principale del libro sulla quale Rawls concentra l'attenzione. Con l'espressione consenso per
sovrapposizione Rawls intende due cose. Primo: che i principi di giustizia individuati hanno una
rilevanza morale, non sono cioè il prodotto di un compromesso fra posizioni contrastanti o il
risultato di un precario equilibrio fra poteri. Secondo: che i principi hanno una fondazione
morale multipla, nel senso che coloro che ne riconoscono il valore morale lo fanno sulla base di
ragioni diverse. Un esempio di principio morale che gode di un consenso per sovrapposizione è
secondo Rawls il principio di tolleranza. Tale principio è infatti non solo riconosciuto da
concezioni filosofiche, politiche e religiose diverse, ma ognuna di queste lo giustifica sulla base
di criteri del tutto indipendenti.
Costruttivismo e consenso per sovrapposizione sono due elementi che danno il senso
del cambio di direzione rispetto al lavoro del 1971. Prima di ogni cosa occorre notare che a
differenza del modello contrattualista, il consenso per sovrapposizione non ricerca l'unanimità
di tutti i cittadini. Ad essere ricercato è l'accordo fra quelle tradizioni di pensiero che
riconoscono il fatto del pluralismo e quindi sottoscrivono visioni del mondo ragionevoli. Nel
caso specifico, i soggetti che secondo Rawls possono dare vita ad un consenso per
sovrapposizione sono quelle concezioni religiose, filosofiche e politiche che si riconoscono nel
principio di tolleranza. Visto da questa prospettiva, il liberalismo politico di Rawls ha un
ristretto campo d'azione. I principi di giustizia sottoscritti non hanno una natura astorica e un
campo d'applicazione universale, ma risultano validi solo per le società liberal-democratiche
americane ed europee che condividono la stessa storia.
Che questa sia una concessione alle critiche avanzate dai comunitari è ulteriormente
confermato dalla discussione sulla stabilità. Non solo non vengono discusse le osservazioni
critiche che i teorici della scelta razionale rivolgono alla posizione originaria, ma il principio di
differenza finisce chiaramente per perdere ogni rilevanza. In merito a quest'ultimo la posizione
di Rawls è che "è lecito aspettarsi un accordo su come realizzare libertà fondamentali, piuttosto
che principi di giustizia sociale ed economica" (ibid.: 229-30). Conseguentemente, ora il
filosofo americano ritiene che "sebbene un minimo sociale garantito per la soddisfazione di
bisogni basilari risulta un requisito [costituzionale] essenziale, quello che ho chiamato il
'principio di differenza' richiede troppo e quindi non lo è" (ibid.: 228-9). In parole povere, se il
libro del 1971 parte dalla premessa che una società che si riconosce in alcuni principi di fondo
(autonomia individuale) deve garantire determinati diritti economici e sociali ai meno
avvantaggiati, l'autore sembra ora impegnato a difendere l'idea stessa che esistano valori di
fondo che caratterizzano le società moderne. Che questi valori comuni giustifichino o meno
principi distributivi forti è una questione troppo controversa per metterla all'ordine del giorno di
una eventuale assemblea costituente.
Constitutional essentials
Quali principi sostantivi portano ad, o possono essere la base per, un consenso per
sovrapposizione? Ralws individua due tipi di principi: quelli che servono a regolare le
istituzioni politiche fondamentali della società e quelli che regolano le libertà degli individui. I
due tipi costituiscono ciò che l'autore chiama gli elementi essenziali della costituzione. Il primo
tipo di principi definisce l'assetto istituzionale necessario per prendere decisioni politiche
legittime. I principi debbono regolare i poteri attribuiti agli organi legislativi, esecutivi e
giudiziari e gli ambiti dove sono ammesse decisioni a maggioranza. Riguardo alle caratteristiche
27
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
della struttura istituzionale, le indicazioni di Rawls sembrano limitarsi a raccomandare gli
elementi tipici del costituzionalismo liberale: divisione dei poteri e sistema di pesi e
contrappesi. Secondo Ralws la varietà di forme istituzionali emerse in occidente non pone
particolari problemi filosofici e ciascuna di queste può essere ritenuta valida. L'unica
raccomandazione sostantiva è che "una volta fatta la scelta è di vitale importanza che riforme
costituzionali riguardanti la forma di governo siano dettate da criteri di giustizia politica e
benessere pubblico, e non certo dal vantaggio politico che un partito o gruppo dominante possa
ricavarne" (ibid.: 228).
Per quanto riguarda il secondo tipo di principi sostantivi, questi riguardano i diritti e le
libertà individuali che stabiliscono limiti invalicabili al potere delle maggioranze politiche. La
lista proposta da Rawls corrisponde in questo caso ai tradizionali diritti liberali: libertà di
pensiero e di coscienza; libertà di associazione e di espressione; libertà dirette a garantire
l'integrità fisica e mentale delle persone; i diritti formali connessi alla nozione di governo della
legge. La novità risiede nel fatto che Rawls, a differenza dei liberali classici (e di quanti come
Dworkin avanzano teorie basate sui diritti) non considera la nozione di diritto come primaria.
Come l'autore esplicitamente afferma: "la costituzione non è fondata su principi di giustizia, o
su diritti fondamentali (o naturali); la sua fondazione si basa sulla concezione della persona e di
cooperazione sociale che sono più congeniali alla cultura pubblica di una moderna società
democratica" (ibid.: 339). Ancora più distante rispetto ai liberali classici è la posizione di Rawls
in merito ai diritti di proprietà: "la natura privata o pubblica della proprietà dei mezzi di
produzione non rientra tra le questioni affrontate dai principi di giustizia, ma dipende dalle
circostanze storiche e dal contesto storico e istituzionale di ciascuna nazione" (ibid.: 338).
La definizione delle libertà individuali e la priorità attribuita loro rispetto la processo
democratico necessita comunque di una fondazione adeguata. A provvedere questa fondazione è
la posizione originaria che Rawls riprende dalla Teoria ma che modifica così da potere
rispondere alle critiche rivolte alla stessa nel corso degli anni. Una differenza cruciale rispetto
alla versione di venti anni prima risiede nel fatto che a scegliere dietro il velo di ignoranza non
sono più individui razionali, ma degli agenti morali ragionevoli. Una ulteriore differenza come
anticipato riguarda il secondo principio di giustizia, il quale non risulta più necessario
incorporare nella costituzione. Particolarmente significativo è infine il fatto che secondo Rawls
anche il principio di equa opportunità risulta troppo controverso per poterlo integrare nella
costituzione. Che ciò risulti sufficiente a riconciliare le diverse anime liberali sembra
improbabile. La revisione ha comunque contribuito ad alienare le simpatie di quanti
sottoscrivono i principi socialdemocratici sviluppati dal pensiero politico continentale.
Significativo al riguardo è il fatto che l'insoddisfazione verso l'analisi etico-normativa rawlsiana
ha portato alla rivalutazione del pensiero repubblicano. Una tradizione filosofico-politica che
concepisce in modo diverso sia l'idea di giustificazione, sia il ruolo da attribuire alle libertà
civili rispetto alla partecipazione democratica (vedi capitolo conclusivo).
Note
1
Recentemente sono usciti altri quattro volumi dell'autore. Il primo (1999a) raccoglie tutti gli articoli
pubblicati dal 1950 al 1998 con la sola esclusione dei saggi che compongono la parte terza di Political
Liberalism e alcune recensioni di minore importanza. Il secondo (1999b) rappresenta l'estensione del
modello contrattualista alle questioni di giustizia internazionale. Il terzo (2000) raccoglie le lezioni di
filosofia morale tenute durante l'insegnamento alla Harvard University. L'ultimo (2001) rappresenta una
revisione di (1971) il cui dattiloscritto era circolato agli inizi degli anni '90 ma era poi stato accantonato
per dare spazio a (1993). A questi va aggiunto il lungo articolo di risposta alle critiche avanzate da
Habermas (1995) il quale è stato però inserito nella versione economica di Political Liberalism.
2
Vale la pena ricordare che l'equilibrio riflessivo è anche il concetto teorico più vecchio, le cui origini
affondano nella tesi di dottorato di Rawls. Un estratto della stessa è ristampato in (1999a, cap. 1).
3
Va comunque notato che a seguito delle critiche avanzate dal filosofo del diritto H.L.A. Hart (1975),
28
COSTRUTTIVISMO KANTIANO E APPROCCIO NORMATIVO
Rawls ha successivamente rivisto l'espressione del primo principio il quale ora recita: "ogni persona ha un
eguale diritto ad un adeguato schema di diritti fondamentali e di libertà, e questo deve essere compatibile
con un simile schema per tutti" (1993: 291).
4
L'autore chiarisce che si tratta di "un equilibrio perché, alla fine, i nostri principi coincidono con nostri
giudizi; è riflessivo poiché sappiamo a quali principi si conformano i nostri giudizi, e conosciamo le
premesse della loro derivazione" (Rawls, 1982: 35). Cfr. inoltre Maffettone (1982: 120, 164).
5
La distinzione fra un equilibrio riflessivo allargato e uno ristretto si deve a Norman Daniels (1979) a cui
rimandiamo per una discussione più approfondita.
6
Dalla discussione rimangono escluse le critiche femministe, le quali hanno avuto poca influenza sulle
revisioni operate da Rawls nel corso degli anni '70 e '80. Per queste vedi i saggi di Galeotti (1996), Held
(1989); Moller Okin (1989); Nussbaum (1998) Pateman (1988).
7
I maggiori saggi di Harsanyi sono ora raccolti in (1989).
8
Un discussione più ampia sul problema della stabilità del contratto sociale ex post è contenuta in
Sacconi (1991).
9
Come accennato nel capitolo introduttivo, Nozick ritiene comunque che nei casi in cui i titoli di
proprietà sono controversi, e non è possibile rettificare le acquisizioni illegittime, un criterio distributivo
astorico del tipo proposto da Rawls potrebbe tornare utile. Cfr. (1974: 244-5).
10
Taylor si riferisce a queste come questioni di natura apologetica (advocacy) e ontologica, ma il
significato che l'autore attribuisce al termine ontologico ha più a che fare con l'epistemologia che con
l'ontologia.
11
Per la posizione aristotelica vedi Macintyre (1984, 1988) mentre per l'approccio marxista vedi Peffer
(1990). Per quanto riguarda i comunitari moderati i maggiori esponenti sono: Sandel (1982), Taylor
(1995), Williams (1985) e Walzer (1983). Il lettore italiano trova i testi più significativi di questi autori
nel volume edito da Alessandro Ferrara (1992).
12
Il modello proposto da Rawls non rientra, secondo noi, fra le teorie atomiste sia per l'enfasi posta sulla
natura sociale dei talenti individuali, sia perché la giustizia come equità tiene conto delle classi sociali e
dei rapporti relativi. Sulla rilevanza degli elementi comunitari contenuti nella Teoria cfr. Alejandro
(1993).
13
Vedi (1993: xvii, nota 6). Una prima risposta ai comunitari era stata comunque avanzata in (1985), ora
in (1999a, cap. 18).
14
Se l'opera del 1971 viene vista come intenta a derivare principi morali oggettivi e universali dalla scelta
ponderata di agenti razionali, anche questa, secondo Rawls, sarebbe da etichettare come
onnicomprensiva.
15
La nozione di costruttivismo è derivata da Kant. Rawls discute il significato che lui attribuisce al
termine e le differenze con la concezione di Kant in un saggio del 1989 ora ripubblicato in (1999a, cap.
23). Vedi in particolare pp. 510-16.
29
II
Razionalismo hobbesiano e progetto di riconciliazione
La riproposizione del contratto sociale da parte di John Rawls (1971) ha richiamato l'attenzione
dei filosofi analitici sull'opera di Hobbes. Come aveva già fatto lo stesso Rawls con Kant, questa
attenzione ha assunto la forma di una riformulazione della struttura analitica della teoria
hobbesiana attraverso l'uso di sofisticati strumenti presi a prestito dalla teoria dei giochi. Tale
riformulazione, vale la pena ricordarlo, non è neutrale rispetto alle posizioni interne al dibattito
storiografico sul filosofo inglese ed ha generato una varietà di modelli neo-hobbesiani a volte
davvero audaci, quando non totalmente estranei al testo hobbesiano. Questi risultano inoltre
molto eterogenei e non sono sempre facilmente inquadrabili all'interno di un progetto di ricerca
unitario1. L'interesse per queste letture modellizzate di Hobbes è dato da almeno tre ragioni.
Prima di tutto l'approccio neo-hobbesiano rappresenta un esempio significativo di come è
evoluta la filosofia analitica nel contesto dell'etica normativa. In secondo luogo i vari modelli
neo-hobbesiani sviluppano in modo sistematico e rigoroso l'ideale moderno di etica razionale,
un'etica, cioè, capace di riconciliare moralità e autointeresse. Infine i vari autori hobbesiani
avanzano la difesa di principi sostantivi alternativi a quelli rawlsiani sulla base di una nozione di
stabilità la cui rilevanza si deve proprio al filosofo di Harvard.
L'oggetto di studio di questo capitolo prende forma con la contemporanea pubblicazione
di tre libri avvenuta nel 1986. Il primo, che è anche il più rispettoso del testo hobbesiano, come
anche il più significativo, elegante ed accurato tentativo di riformulare la teoria politica di
Hobbes, si deve a Jean Hampton. Il secondo è quello di Gregory Kavka: un lavoro che, nelle
intenzioni dello stesso autore, intende elaborare un ibrido tra le teorie di Hobbes e Rawls. Il
terzo libro è quello di David Gauthier, un autore il cui obiettivo è quello di arrivare alla
definizione di una metaetica in grado di derivare principi morali partendo da motivazioni
puramente prudenziali. Aldilà delle differenze più o meno sostanziali fra questi tre esponenti del
revival neo-hobbesiano, simile è l'approccio metodologico da essi seguito. La similarità non
riguarda solo la sensibilità verso le tecniche microeconomiche, ma la preminenza attribuita a
Leviathan e il modo in cui quest'opera è stata dissezionata e ricomposta. La riformulazione della
teoria hobbesiana non rappresenta un esercizio fine a se stesso; lo spirito di fondo che anima
questi studiosi è quello di valutare la consistenza logico-analitica dell'apparato concettuale
hobbesiano e di procedere alla sua ricomposizione dopo averlo purificato da presunte
contraddizioni interne.
Tradizionalmente alla teoria hobbesiana sono state avanzate due principali critiche. La
prima prende le mosse da Hume e mette in dubbio la possibilità stessa di un contratto sociale.
Data la natura volontaristica degli obblighi contrattuali, qualsiasi tipo di accordo fra individui
razionali e autointeressati risulta o impossibile o del tutto vuoto. La critica è stata utilizzata sia
da coloro che, come i comunitari discussi nel precedente capitolo, ritengono impossibile
stabilire un ordine sociale e politico duraturo sulla base di una epistemologia atomistica, sia da
coloro che intendono giustificare l'ordine sociale liberale su basi consuetudinarie piuttosto che
contrattuali (le teorie humeane discusse nel prossimo capitolo). Le due critiche hanno stimolato
due tipi di ricerche alternative. La prima, portata avanti dagli autori menzionati sopra, riguarda
la possibilità di elaborare una base epistemologica solida per il contrattualismo. Nel secondo
caso l'indagine riguarda invece sia la rilevanza stessa delle critiche epistemologiche del
contratto, sia la correttezza dell'interpretazione del progetto hobbesiano avanzata dai neohobbesiani. In questo capitolo ci limitiamo a dare una presentazione delle soluzioni
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
neohobbesiane al problema epistemologico che affligge la teoria contrattualista di Hobbes.
Il secondo tipo di critica considera invece la peculiare soluzione normativa proposta da
Hobbes al problema dell'ordine: la scelta di un sovrano assoluto. Malgrado condivida con
Hobbes le stesse premesse di fondo (individualismo metodologico e soggettivismo morale), la
tradizione liberale ha da sempre ritenuto la soluzione hobbesiana inaccettabile.
Conseguentemente ha cercato di dimostrare l'implausibilità del ragionamento che porta
individui razionali guidati da motivazioni puramente prudenziali ad accordarsi nell'istituire
un'autorità avente poteri illimitati di vita e morte sui propri sudditi. Assunta inizialmente da
Locke, tale posizione teorica ha di recente trovato una riformulazione nel lavoro di Jean
Hampton la quale ha formalizzato le varie argomentazioni liberali nella forma di un paradosso
dell'autorità assoluta. Nel discutere il paradosso proposto da Hampton, proveremo a dimostrare
come non esista una contraddizione di base fra le motivazioni prudenziali che guidano gli agenti
hobbesiani nel sottoscrivere il contratto sociale e la scelta di un'autorità cosiffatta. La tesi può
essere utilizzata come base per riconciliare le preoccupazioni liberali riguardanti i diritti dei
singoli e le esigenze politiche concernenti la produzione di beni pubblici. Alternativamente,
l'analisi può essere vista come una ricostruzione analitica del processo che ha portato
all'evoluzione dei contemporanei stati costituzionali: processo, questo, che può essere descritto
come il simultaneo emergere di autorità politiche assolute e di sistemi di garanzia individuale
per i cittadini.
IL CONTRATTUALISMO HOBBESIANO COME MODELLO EMERGENZIALE
L'approccio neo-hobbesiano parte dal presupposto secondo cui Hobbes sottoscrive una
prospettiva individualista radicale che intende spiegare l'emergere della società civile a partire
dalle azioni e interazioni di agenti razionali e autointeressati. Come afferma Hampton, "Hobbes
credeva che il Leviatano doveva essere un libro il cui obiettivo iniziale era quello di ridurre gli
esseri umani a organismi con una data struttura fisiologica, per poi definire determinati desideri
e passioni che gli uomini possiedono in modo intrinseco e come risultato delle proprie funzioni
fisiologiche, quindi usare questi desideri per spiegare come individui siffatti possono dare vita
alla società" (1986: 13). Gli elementi che compongono la struttura analitica del modello
hobbesiano sono i seguenti: l'esistenza di individui con una struttura di interessi e capacità
razionali presociali; la definizione degli inconvenienti che l'interazione strategica in un contesto
presociale determina; il meccanismo che porta alla sottoscrizione del contratto che dà vita alla
società civile. In questo contesto, il successo del modello hobbesiano dipende dalla correttezza
del processo logico-deduttivo che porta individui separati all'unione sociale quale soluzione ai
problemi di azione collettiva prodotti dall'interazione decentrata.
A partire da Hume, la validità della nozione di contratto come base per l'obbligo politico
è stata l'oggetto di feroci critiche. Da un punto di vista storico Hume dimostra come non
esistano dati che possano provare l'esistenza di alcun contratto sulla cui base giustificare o meno
a legittimità di una autorità. Da un punto di vista logico, Hume è il primo a sostenere che la
nozione di contratto comporta una logica argomentativa circolare. Se l'interazione decentrata di
agenti razionali produce problemi di azione collettiva, non esiste per Hume possibilità alcuna di
evitare ciò attraverso la sottoscrizione di un contratto che stabilisce una autorità comune.
L'osservanza del contratto implica infatti la risoluzione di un problema di azione collettiva del
tutto simile a quello che il contratto, e l'autorità che questo istituisce, è chiamato a risolvere. In
parole povere, Hume chiarisce che se per avere un sovrano si deve sottoscrive un contratto,
l'effettività del contratto presuppone l'esistenza di una autorità che faccia rispettare lo stesso. A
questo tipo di critica i contrattualisti hanno spesso replicato affermando che l'atto stesso del
promettere implica l'assunzione di un obbligo ad obbedire. Per Hume questo tipo di risposta
equivale a "ragionare in circolo" (1740, parte II, sez. I). Sarebbe a dire, assumere che un obbligo
possa fungere sia da explanans (la cosa da spiegare) sia da explanandum (l'elemento che
spiega)2.
31
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
L'obiettivo dei neo-hobbesiani è quello di ribaltare la ferrea logica delle argomentazioni
humeane e dimostrare come sia possibile stabilire forme di cooperazione sociale su basi
puramente volontaristiche. Nel caso di Gauthier queste forme di cooperazione spontanea sono
utilizzate come base per lo sviluppo di un'etica razionale, mentre nel caso della Hampton esse
servono per giustificare un obbligo politico limitato. L'obiettivo comune dei tre autori è
comunque quello di elaborare un modello neo-hobbesiano alternativo al modello kantiano
proposto da Rawls. Un modello, cioè, che connette in modo forte analisi epistemologica e
prescrizioni morali e quindi più coerente da un punto di vista deduttivo e meno dipendente dalle
intuizioni morali dei singoli.
Individualismo radicale
Gli individui hobbesiani sono fonti di azione autonoma. Hobbes distingue due tipi di azioni: le
azioni che sono dipendenti dalla volontà del singolo e quelle involontarie. Le prime dipendono
dalla ragione e servono per definire i mezzi più appropriati per raggiungere determinati fini
(razionalità strumentale). Le azioni involontarie dipendono invece da passioni e appetiti di
natura biologica che definiscono i fini dell'individuo stesso. Anticipando Hume di circa un
secolo, Hobbes afferma che la ragione è schiava delle passioni. Le passioni che muovono gli
uomini ad agire sono innumerevoli e spesso in conflitto fra loro; al di sopra di tutte rimane però
l'istinto di sopravvivenza, il fine ultimo di ogni creatura. Quali organismi, gli individui sono
"biologicamente portati a perseguire le loro passioni (cioè i piaceri) in misura crescente. Se
determinati oggetti soddisfano questo impulso emerge allora il desiderio per tali oggetti. [...] il
perseguimento delle passioni è programmato geneticamente ed è questo che produce i desideri,
ma non esiste un desiderio alla soddisfazione delle passioni" (Hampton, 1986: 18).
Per Hobbes i desideri possono essere a loro volta di due tipi: intrinseci ed interattivi. I
desideri intrinseci sono connessi con i bisogni biologici, mentre quelli interattivi sorgono a
causa e come risultato dell'interazione sociale. Entrambi i tipi hanno comunque la stessa natura
egoistica: "ogni individuo ricerca la propria sopravvivenza al di sopra di qualsiasi altra cosa e
non la sopravvivenza di qualsiasi individuo" (ibid.: 15). Nell'opera di Hobbes è comunque
possibile riscontrare almeno tre versioni concorrenti di egoismo che i neo-hobbesiani
distinguono accuratamente. La prima afferma che tutte le azioni degli individui sono causate da
desideri personali; la seconda afferma invece che tutte le azioni individuali sono causate da
desideri personali il cui contenuto è direttamente connesso con l'agente stesso; l'ultimo sostiene
infine che le azioni individuali sono non soltanto connesse con desideri relativi all'agente, ma
hanno un contenuto esclusivamente egoistico determinato da meccanismi fisiologici3. Dei tre
solo l'ultimo attribuisce una relazione causale diretta ai desideri egoistici. I primi due sono
egoistici solo in quanto appartengono all'agente, ma non nel contenuto; è infatti possibile
includere desideri di tipo altruistico fra le cose che un individuo persegue nel soddisfare desideri
personali.
Quale delle tre forme di egoismo è utilizzata da Hobbes nel Leviatano è una questione
ancora controversa. Kavka, per esempio, sostiene che "Hobbes impiega la versione che più gli
torna comodo in merito alle tematiche che tratta nel corso del lavoro" (1986: 45). Dopo una
lunga analisi del testo hobbesiano l'autore infatti conclude che: "in generale il tipo di egoismo
che caratterizza il Leviatano dipende dal peso relativo che attribuiamo a differenti criteri di
classificazione" (ibid.: 51). I vari autori sono comunque d'accordo nel ritenere che la versione
più appropriata è quella che spiega in modo effettivo il conflitto pervasivo e generalizzato
esistente nello stato di natura. A tale fine risulta necessario che Hobbes si limiti a sottoscrivere
un 'egoismo predominante', il quale stabilisce che ogni qual volta motivazioni autointeressate e
disinteressate entrano in conflitto l'individuo attribuisce priorità alle prime sulle seconde. In
breve, gli agenti hobbesiani sono caratterizzati da un generale egoismo che li porta ad agire per
soddisfare le loro passioni, desideri e appetiti; tale natura egoistica ha una base biologica a cui si
sfugge solo con la morte.
Una seconda caratteristica degli agenti hobbesiani riguarda l'assunzione di razionalità.
32
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
La concezione di razionalità attribuita agli agenti è del tipo utilizzato in economia: l'abilità di
scegliere mezzi appropriati per ottenere determinati fini e la tendenza a massimizzare i benefici
attesi. La massimizzazione dei benefici attesi viene calcolata sulla base dell'utilità gli agenti
pensano di potere ottenere per ogni singola azione. Ciò significa che gli individui sono in grado
di utilizzare distribuzioni di probabilità per eventi futuri, siano queste probabilità oggettive o
puramente soggettive. A differenza di quanto stabilito da Rawls, lo stato di natura hobbesiano
non solo non pone limiti sul tipo di informazione disponibile agli agenti, ma richiede una
sofisticata abilità individuale nell'acquisire informazioni e nell'utilizzare il calcolo delle
probabilità. L'uso delle probabilità è inoltre necessario per calcolare il rischio insito nello
scegliere fra corsi d'azione alternative e in particolare fra corsi d'azione di breve e di lungo
periodo. In merito a questo ultimo punto, la Hampton ritiene che i soggetti hobbesiani si
configurino come massimizzatori 'globali' piuttosto che come massimizzatori 'locali': hanno cioè
un orizzonte temporale di lungo periodo. Secondo Kavka, invece, un'assunzione di questo tipo
sarebbe controproduttiva perché non produrrebbe abbastanza conflitto per giustificare la scelta
di un sovrano assoluto. La soluzione proposta da Kavka consiste nell'assumere uno stato di
natura popolato da almeno tre tipi di agenti: i dominatori, che cercano di sfruttare tutto e tutti; i
moderati, che sono disposti a collaborare solo su basi reciproche; i paurosi, che sono disposti a
collaborare incondizionatamente.
Lo stato di natura
Hobbes descrive lo stato di natura come una situazione in cui non esistono né istituzioni
politiche né un'autorità comune: non esiste quindi un potere legislativo centrale, un sistema
giuridico unitario o corpi di polizia che fanno applicare la legge. Le dispute che insorgono in
questo contesto sono lasciate alla discrezionalità dei singoli, al potere cioè di imporre la propria
volontà attraverso la forza fisica o l'astuzia. Hobbes chiarisce che lo stato di natura descritto non
è storico, non si riferisce cioè ad una condizione primordiale dell'umanità, ma rappresenta una
condizione in cui gli individui si trovano spesse volte ad interagire. Gli esempi principali che
l'autore cita sono due: il sistema di relazioni internazionali e le situazioni di guerra civile. A
queste è possibile aggiungere i mercati illegali e tutti quei contesti in cui l'interazione assume la
forma di giochi non-cooperativi. Hobbes spiega inoltre che l'immagine dello stato di natura
popolato da individui isolati è un costrutto analitico atto a semplificare la discussione e che una
rappresentazione più realistica implicherebbe gruppi piuttosto che individui4. Fatte queste
dovute precisazioni, la caratteristica fondamentale dello stato di natura descritto da Hobbes è
l'esistenza di un conflitto permanente e generalizzato. Nelle parole dell'autore: "appare chiaro
che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si
trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni
altro uomo" (Hobbes, 1651, cap. 13: 62)5.
Le ragioni che secondo Hobbes portano al conflitto sono tre: competizione, diffidenza e
gloria. Come lo stesso autore spiega: "la prima porta gli uomini ad aggredire per trarne un
vantaggio; la seconda per la loro sicurezza; la terza per la loro reputazione. Nel primo caso
ricorrono alla violenza per rendersi padroni della persona di altri uomini, delle loro donne, dei
loro figli e del loro bestiame; nel secondo caso per difenderli. Nel terzo caso, per inezie come ad
esempio per una parola, un sorriso, una divergenza di opinioni e qualsiasi segno di disistima,
direttamente rivolto alla loro persona o a questa di riflesso, essendo indirizzato ai loro familiari,
ai loro amici, alla loro nazione, alla loro professione o al loro nome" (ibid.). Uno dei maggiori
contributi dei neo-hobbesiani è stato quello di chiarire la dinamica che porta allo stato di guerra
di tutti contro tutti descritto da Hobbes. Come nel caso dell'egoismo motivazionale discusso
prima, il filosofo inglese sembra infatti avanzare diverse spiegazioni, alcune delle quali sono
inconsistenti con le assunzioni iniziali, mentre altre sono incompatibili con la conclusione a cui
si vuole arrivare. In breve, i neo-hobbesiani sostengono, primo che il conflitto deve emergere da
considerazioni strategiche e, secondo, che l'intensità dello stesso deve potere spiegare la scelta
contrattuale come il risultato di un'analisi costi-benefici.
33
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
Iniziamo con la dinamica che porta al conflitto: quali condizioni spiegano la guerra di
tutti contro tutti? Secondo la Hampton, "nel Leviatano sono presenti due spiegazioni riguardanti
le cause della guerra, e queste sono tra di loro inconsistenti" (1986: 58). La prima spiegazione si
basa sull'esistenza di passioni e desideri intrinseci (l'istinto di sopravvivenza), mentre la seconda
fa appello al ruolo giocato da passioni e desideri interazionali (la sete di gloria e di potere). Nel
primo caso è la struttura biologica stessa degli individui che porta al conflitto. Individui isolati e
acquisitivi cercano di soddisfare i propri bisogni attraverso l'appropriazione di quante più risorse
possibili, nel fare ciò vengono a scontrarsi con altri individui simili e da questo origina il
conflitto. Per i neo-hobbesiani un resoconto simile non è in grado di spiegare il tipo di conflitto
generalizzato e permanente voluto da Hobbes. Nella peggiore delle situazioni si arriva soltanto
ad un conflitto sporadico e di bassa intensità. Lo stato di natura che emerge da questo resoconto
è quello descritto da Rousseau nel discorso sull'ineguaglianza (1755), la cui logica interna è
quella descritta nel gioco della caccia al cervo riportato in figura 2.16.
Agente A
Coopera
1;1
2;4
Coopera
Defeziona
Agente B
Defeziona
4;2
3;3
Figura 2.1. Gioco della caccia al cervo
Nella matrice i numeri rappresentano l'ordine di preferenza degli agenti: 1 sta per la soluzione
maggiormente preferita, 2 per la seconda, 3 per la terza, e così via. La combinazione A cooperaB coopera (CC), per esempio, è la scelta al primo posto nelle preferenze di entrambi gli agenti;
la combinazione A coopera-B defezione (CD) è al secondo posto nelle preferenze di B ma
all'ultimo nelle preferenze di A. Il gioco non descrive particolari problemi di azione collettiva
dato che per entrambi gli agenti la strategia cooperativa rappresenta il corso d'azione favorito.
Nel linguaggio della teoria dei giochi la combinazione CC rappresenta un equilibrio di Nash:
una combinazione strategica che nessuno dei giocatori può cambiare unilateralmente senza
danneggiare la propria situazione. Il gioco si rende interessante quando il comportamento di uno
degli agenti risulta incerto. Supponiamo, con riferimento all'esempio di Rousseau, che A e B si
accordano per dare la caccia al cervo ma A non si fida di B e crede che nel caso B veda una
lepre questi finirà per corrergli dietro e abbandonare la caccia. Nel valutare i vari corsi d'azione
A sceglierà di cooperare con B solo se la probabilità che anche B cooperi è alta; nel caso
opposto A ha convenienza a defezionare per primo. Così facendo A evita di finire nella
situazione che preferisce di meno CD. Nel caso di incertezza defezionare è per A una strategia
di maximin, quale quella discussa da Rawls. Una interazione del tipo descritto non produce però
lo stato di natura descritto da Hobbes e non potrebbe essere utile per spiegare la nascita del
Leviatano.
Secondo i pensatori neo-hobbesiani è a questo punto che Hobbes introduce i desideri
interazionali quali l'orgoglio, la gloria, la sete di potere, etc. Il ricorso a questi desideri è visto
però come del tutto deleterio. Come già aveva notato lo stesso Rousseau (cfr. 1755, nota 15),
questi sono desideri di carattere sociale che non possono esistere nello stato di natura. Inoltre, la
loro introduzione renderebbe il conflitto tendenzialmente irrazionale e renderebbe perciò
impossibile l'analisi costi-benefici necessaria per dare vita al contratto sociale. I neo-hobbesiani
ritengono inoltre tale mossa superflua in quanto pensano che sia possibile produrre il tipo e
grado di conflitto necessario senza fare ricorso alcuno ai desideri interazionali. Per loro esiste
una terza e più sofisticata versione della dinamica che genera il conflitto di tutti contro tutti,
suggerita dallo stesso Hobbes, e che si basa sull'anticipo razionale. Nella prefazione al De Cive,
Hobbes afferma infatti che le cause di conflitto fra gli uomini non sono dovute al fatto "che gli
uomini sono cattivi per natura [...] se è vero che i malvagi sono pochi rispetto ai giusti, il fatto
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RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
stesso che non riusciamo a distinguerli ci impone di essere circospetti, di sospettare, di
anticipare, di soggiogare, di autodifenderci qualsiasi possa essere il danno arrecato al più onesto
e al più giusto" (1647).
Il conflitto che caratterizza lo stato di natura di Hobbes deriva dal fatto che l'interazione
sociale tra dominatori, moderati e paurosi avviene in condizione di anonimato. In un contesto
dove non esiste la possibilità di conoscere l'identità dell'agente con il quale si interagisce colpire
per primo è l'unica strategia ottimale. La logica di anticipazione è catturata dal 'dilemma del
prigioniero' descritto in figura 2.27.
Agente A
Coopera
2;2
1;4
Coopera
Defeziona
Agente B
Defeziona
4;1
3;3
Figura 2.2. Dilemma del prigioniero
Il dilemma del prigioniero è un gioco non cooperativo dove ciò che è ottimo per gli agenti presi
collettivamente non corrisponde a ciò che è ottimo per gli individui presi singolarmente. Come
si vede dalla matrice, la strategia cooperativa C porta ad un equilibrio (CC) che rappresenta solo
una scelta individuale secondaria. Individui mossi da una razionalità strumentale porrebbero al
primo posto la combinazione strategica DC, che corrisponde alla situazione in cui un agente
gode dei frutti della cooperazione senza doverne pagare i costi. L'interesse per il gioco origina
dal fatto che se gli agenti optano per la strategia opportunistica D finiscono immancabilmente
per produrre l'equilibrio strategico DD in cui entrambi defezionano. DD è però un equilibrio
subottimale rispetto a quanto può assicurare l'equilibrio cooperativo CC. Il dilemma è ancora
più grave se si pensa che la strategia D rappresenta inoltre un maximin. Scegliendo di
defezionare un individuo evita infatti di essere sfruttato e ha la possibilità sfruttare coloro che,
per scelta o per sbaglio, cooperano.
Il gioco può essere visto come una rappresentazione adeguata dell'interazione strategica
che ha luogo nello stato di natura hobbesiano. In un contesto dove dominatori, moderati e
paurosi si trovano ad interagire, ma non esiste una autorità centrale in grado di assicurare il
rispetto degli obblighi contrattuali assunti, o certezza circa l'identità e le reali intenzioni degli
agenti con cui si interagisce di volta in volta, l'unica strategia razionale è quella
dell'anticipazione: del colpire prima di essere colpiti8. La questione da indagare a questo punto è
la seguente: hanno agenti razionali del tipo descritto le risorse necessarie per sottoscrivere un
contratto effettivamente vincolante che ponga fine al clima di reciproca sfiducia e al conflitto
che caratterizza lo stato di natura?
Contratto, società civile e sovrano
Nel rispondere alla domanda i pensatori neo-hobbesiani rompono anche i tenui legami con il
testo di Hobbes e si lanciano alla ricerca di soluzioni innovative. Al tempo stesso sviluppano
però percorsi di ricerca tra loro alternativi, se non incompatibili. David Gauthier cerca di
arrivare ad una soluzione endogena al problema cooperativo posto dal dilemma del prigioniero
da potere poi utilizzare come base per una metaetica strumentale pura. Vale la pena ricordare
che la metaetica perseguita da Gauthier è incompatibile con la teoria politica hobbesiana. In
caso di successo, infatti, tale metaetica giustificherebbe un ordine politico libertario. Kavka e
Hampton avanzano una soluzione del dilemma del prigioniero diversa da quella suggerita da
Gauthier e più in linea con la teoria politica di Hobbes. Anche in questo caso però i due autori
seguono percorsi normativi divergenti. Kavka ritiene il contrattualismo hobbesiano interessante
solo come argomento contro la possibilità di un ordine anarchico, e quindi contro i modelli
35
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
libertari alla Gauthier, e ben presto abbandona Hobbes per seguire una teoria normativa di tipo
rawlsiano. La Hampton esplora invece possibili soluzioni al dilemma del prigioniero per
arrivare poi alla giustificazione di una sovranità limitata di stampo liberale, la quale verrà
discussa nella seconda parte del capitolo.
Soluzione di Gauthier. David Gauthier è stato fra i primi ad identificare lo stato di natura
hobbesiano con il dilemma del prigioniero. L'interpretazione del dilemma del prigioniero che
per il filosofo canadese più si adatta al testo hobbesiano è quella di un gioco simmetrico,
anonimo e che si esaurisce in un singolo round. Le tre condizioni impediscono l'attribuzione e il
riconoscimento di identità individuali e rendono quindi impossibile utilizzare strategie
condizionali del tipo 'coopero se cooperi, defeziono se defezioni'. Il risultato è così quello di
rendere la strategia D l'unico corso d'azione razionale. Secondo Gauthier il risultato può essere
evitato se si riconosce che una strategia di 'massimizzazione vincolata' rappresenta
un'alternativa superiore alla defezione. Il ragionamento di Gauthier si divide in due parti: la
prima riguarda la giustificazione della superiore razionalità della massimizzazione vincolata
rispetto a quella diretta; la seconda riguarda invece l'applicabilità della strategia stessa.
La logica sottostante il ragionamento di Gauthier a favore della massimizzazione vincolata
riprende le argomentazioni di Hobbes contro lo stolto9. Applicata al dilemma del prigioniero
tale logica richiede di concentrare l'attenzione non sulla razionalità delle singole strategie ma
sugli equilibri che da queste possono derivare. La combinazione strategica CC è da questa
prospettiva la sola a soddisfare criteri di razionalità strumentale; la strategia D soddisfa criteri di
razionalità strumentale solo nel caso in cui una fetta consistente degli agenti è disposta a farsi
sfruttare. La massimizzazione vincolata evita questo tipo di logica perversa. Massimizzatori
vincolati cooperano con quanti sono disposti a cooperare; defezionano invece quando si trovano
al cospetto di opportunisti. In una popolazione composta da opportunisti (D), massimizzatori
vincolati (M) e cooperatori universali (C), ciò comporta che i primi possono contare solo sullo
sfruttamento di C ma non trovano guadagno alcuno quando si confrontano con altri D o con M.
Giocatori M per altro verso trovano un bacino d'utenza disposto a cooperare che include sia la
popolazione di M sia quella di C. Ciò significa che i pay-offs dei giocatori M sono in media
superiori sia a quelli a cui possono aspirare i giocatori D e C.
Il ragionamento di Gauthier solleva non pochi dubbi. L'idea che agenti razionali debbano
concentrare l'attenzione su combinazioni strategiche piuttosto che su strategie è inconsistente
con l'individualismo metodologico adottato dall'autore. Nel dilemma del prigioniero gli agenti
sono non solo indipendenti, ma ragionano isolatamente l'uno dall'altro. Il valutare la razionalità
di combinazioni strategiche implica l'assumere un punto di vista esterno al gioco stesso: il punto
di vista di un osservatore. Ciò equivale all'uso di un tipo di razionalità collettiva espressamente
proibita dalla teoria dei giochi.
Il secondo problema riguarda la praticabilità della massimizzazione vincolata. In questo
caso il punto debole riguarda l'abilità dei giocatori M nel distinguere fra giocatori dello stesso
tipo e del tipo D e quindi nel riuscire effettivamente a massimizzare le opportunità cooperative
che la strategia garantisce in teoria. L'anonimità che caratterizza il gioco impedisce però di
distinguere tra M e D e rende le interazioni tra giocatori M equivalenti a quelle tra giocatori D.
Se questo è il caso, allora la strategia D torna ad essere l'unico corso d'azione razionale.
Gauthier cerca di evitare il problema introducendo l'idea di 'predisposizione' (derivata da
Aristotele). Siccome le varie strategie rappresentano predisposizioni ad agire in un certo modo,
D, M e C possono essere paragonate a qualità comportamentali che rendono gli agenti
'traslucidi' e quindi identificabili con un certo grado di certezza. Si tratta però di una mossa
estremamente controversa, una sorta di deus ex machina necessaria per fare uscire l'autore da un
vicolo cieco. Per come impostato da Gauthier, il dilemma del prigioniero ha un solo corso
d'azione razionale: la defezione. Ironicamente, le acrobazie logiche escogitate dall'autore per
convincerci del contrario ricordano i tentativi di Hobbes di dimostrare ai matematici dell'epoca
come fosse possibile fare quadrare il cerchio.
Soluzione di Hampton e Kavka. L'approccio seguito dai due autori differisce da quello di
Gauthier in due punti cruciali. Il primo riguarda la scomposizione del contratto in due fasi
36
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
aventi una logica strategica diversa da quella che l'autore canadese attribuisce ad esso: la prima
fase corrisponde all'elezione del sovrano, mentre la seconda riguarda il processo di attribuzione
dei poteri. La prima fase assume la forma di un gioco di coordinazione del tipo riportato in
figura 2.3.
Agente A
Agente B
candidato1
candidato2
1;2
3;3
3;3
2;1
candidato1
candidato2
Figura 2.3: Guerra dei sessi
Nel gioco il problema con cui si confrontano gli agenti è quello di coordinare i propri sforzi.
Entrambi sono d'accordo nel ritenere la società civile superiore allo stato di natura. L'unico
elemento sul quale sono in disaccordo è il candidato alla carica di sovrano: mentre A preferisce
il candidato 1, B è incline verso il candidato 2. E' importante osservare però come tale
divergenza sia di minore importanza rispetto all'eventualità di non riuscire a raggiungere un
qualsiasi tipo di accordo e perpetuare lo stato di natura. In linguaggio tecnico, la caratteristica
saliente del gioco è quella di avere due equilibri di Nash: 1;2 e 2;1. Ciò cambia la natura del
problema che gli agenti devono risolvere. "Nel dilemma del prigioniero il problema è quello di
mantenere un accordo che risolve il dilemma [cooperativo]; nel gioco della guerra dei sessi il
problema consiste nel raggiungere un accordo qualsiasi" (Hampton, 1986: 152). Per gli autori
questo non rappresenta però un problema insolubile. Kavka, per esempio, ritiene che "la
soluzione avanzata da Hobbes circa un criterio selettivo a due turni (l'accordarsi di sostenere
unanimemente colui che riceve la maggioranza dei voti e poi procedere con l'elezione)
rappresenta una strategia estremamente interessante per risolvere problemi di coordinazione
simili" (1986: 185). La Hampton dopo una lunga e laboriosa discussione propone un sistema di
multi-ballottagio sostanzialmente simile a quello proposto inizialmente dallo stesso Hobbes10.
Se l'elezione di un sovrano risulta semplice, lo stesso non si può dire per quanto
riguarda il processo di attribuzione dei poteri. Dato che il processo implica dei costi,
l'interazione torna ad essere conflittuale. Gli autori ritengono comunque che anche in questo
caso la logica sottostante il conflitto non è del tipo descritto dal dilemma del prigioniero, ma
risulta sostanzialmente simile ad un gioco del tipo guerra dei sessi a cui prendono parte un
numero di giocatori superiore a due. Come afferma la Hampton: "commetteremmo un serio
errore se pensassimo che solo perché gli individui si confrontano con un problema di free-rider,
questi si trovano di fronte ad un problema la cui struttura è quella di un dilemma del
prigioniero" (1986: 177). In aggiunta, la Hampton crede che l'obiettivo ricercato dai giocatori,
l'attribuzione di poteri effettivi al sovrano, rappresenta un bene pubblico a gradino; sarebbe a
dire un bene discreto, la cui esistenza richiede una soglia contributiva minima e che non può
essere rappresentato per mezzo di funzioni continue. Per esempio un gruppo composto da 10
persone che si confronta col problema di produrre un bene pubblico X a gradino il cui numero
minimo è quattro necessita di almeno quattro individui disposti a contribuire altrimenti il bene
non può essere prodotto affatto.
In un contesto hobbesiano in cui gli individui vogliono i benefici garantiti dalla società
civile ma sono portati a minimizzare i costi personali necessari a realizzarla il ragionamento
seguito dagli agenti è del seguente tipo:
•
•
•
ogni individuo valuta la probabilità di raggiungere il numero minimo di contribuzioni
se arriva alla conclusione che tale eventualità è altamente probabile, allora avrà un incentivo
a fare l'opportunista e a defezionare
nel caso arriva invece alla conclusione che tale eventualità è altamente improbabile, allora
37
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
avrà un incentivo a cooperare
Il risultato finale è quello di convergere su un equilibrio vicino alla soglia di contribuzione
minima. Al di sopra di questa soglia il bene pubblico assume la forma di un bene incrementale
che giustifica l'uso di strategie opportuniste e quindi impedisce di produrre quantità del bene
superiori a quelle minime. Il risultato è comunque sufficiente a garantire al sovrano le risorse
necessarie per imporre il suo potere effettivamente: stabilire un nuovo sistema di incentivi
individuali e porre fine allo stato di natura. La soluzione proposta è stata criticata da Gauthier.
Per il filosofo canadese, "Il sovrano non è in grado di motivare i membri di un piccolo gruppo a
contribuire volontariamente alla produzione di beni pubblici non esclusivi (sebbene a gradino)
senza dare a questi ulteriori incentivi sostanziali. Inoltre questi beni non sono sufficienti per
garantire pace e sicurezza. Hobbes non ha una soluzione generale per il problema del free-rider
che condiziona l'abilità del sovrano nell'ottenere l'assistenza attiva dei suoi soggetti, se partiamo
dall'assunzione [...] che la decisione di assistere o meno il sovrano si basa su un appello
all'autointeresse" (1988: 76).
Come accennato e come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la critica di Gauthier
riprende le argomentazioni humeane contro il contratto sociale. Quello che vale la pena notare
qui è che se ciò che Gauthier afferma è vero, allora anche il suo progetto metaetico risulta
irrimediabilmente compromesso. L'impossibilità di definire il processo logico-deduttivo che
porta agenti autointeressati ad abbandonare lo stato di natura e a dare vita alla società civile
segna il fallimento del progetto di riconciliazione fra moralità e autointeresse perseguito dagli
neo-hobbesiani. Se questa impossibilità rappresenta anche la prova definitiva dell'incoerenza del
contrattualismo hobbesiano è qualcosa che analizzeremo discutendo l'alternativa
convenzionalista proposta da Hume. Nel resto del capitolo l'obiettivo che ci proponiamo è
invece quello di valutare la critica della Hampton alla nozione di sovranità assoluta.
IL PROBLEMA DELL'AUTORITÀ ASSOLUTA
Hobbes discute dell'autorità assoluta nel capitolo 18 del Leviatano, dove tratta "dei diritti dei
sovrani per istituzione". Qui sono enunciati dodici principi che indicano sia le restrizioni che
vengono imposte ai sudditi, sia i diritti che spettano al sovrano. I sudditi per esempio, non hanno
la possibilità di cambiare la forma di governo stabilita nel contratto sociale, né possono, come
singoli, sottrarsi al contratto stesso. Allo stesso modo, i singoli debbono riconoscere e accettare
un sovrano votato a maggioranza anche quando gli hanno votato contro o si sono pronunciati
per un candidato alternativo. Infine, i sudditi non hanno il potere di mettere sotto accusa il
sovrano. Per parte sua, il sovrano ha completa discrezionalità nel decidere quali mezzi
impiegare per garantire la pace sociale, quali dottrine possono essere insegnate, come vanno
definiti e assegnati i diritti di proprietà. Il sovrano è inoltre l'arbitro di tutte le controversie che
emergono fra sudditi e fra sudditi e autorità. È ancora demandata a lui ogni decisione
concernente la politica estera, così come la scelta dei ministri e del personale amministrativo.
Infine è il sovrano che premia e punisce i propri sudditi, o attribuisce loro onori e doveri.
L'immagine del sovrano che emerge dalla descrizione proposta da Hobbes è duplice: esso
rappresenta tanto la sola fonte legislativa legittima quanto l'arbitro unico ed ultimo. È in questa
duplice veste che risiede il suo potere assoluto.
Ma se il sovrano hobbesiano rappresenta l'essenza della sovranità del corpo politico, ciò
non vuol dire né che non siano riconosciute altre fonti giuridiche diverse da quelle del sovrano,
né che ogni funzione giudiziaria, esecutiva e legislativa è indissolubilmente legata alla figura
del sovrano. Il sovrano è la suprema, ma non l'unica fonte legislativa dello stato. Hobbes infatti
riconosce ed accetta come valide altre fonti legislative quali la common law e le convenzioni
sociali. Le altri fonti legislative sono comunque subordinate alla funzione legislativa del
sovrano. Ogni legge necessita infatti di un sistema giudiziario-militare che la renda effettiva, e
perciò dipende in ultima analisi dalla volontà del sovrano. In secondo luogo, common law e
convenzioni sociali, risultano spesso controverse e richiedono un'interpretazione autorevole.
38
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
Anche in questo caso è solo il sovrano colui che riveste la funzione di arbitro ultimo. Con
questo il sovrano hobbesiano è assoluto, ma non arbitrario. Lo stesso Hobbes distingue
ripetutamente fra la sovranità e il sovrano che la rappresenta. La distinzione non è linguistica
ma sostanziale. La sovranità è l'anima del corpo politico, mentre il sovrano è solo una delle sue
possibili incarnazioni: la morte fisica del sovrano non estingue la sovranità dello stato, mentre
una sovranità può estinguersi malgrado l'attuale esistenza di un sovrano. Inoltre per Hobbes un
governo assembleare potrebbe sostituire il sovrano senza perdita di autorità, a condizione che la
sovranità dell'assemblea sia anch'essa assoluta. Il che equivale a dire che la forma di governo
risulta, per Hobbes, del tutto irrilevante rispetto al principio secondo cui l'autorità deve essere
assoluta.
La conclusione è che il concetto di sovranità proposto da Hobbes né va confuso con il
positivismo giuridico di stampo ottocentesco, né è incompatibile con la divisione dei poteri cara
al pensiero liberale. Nel primo caso risulta infatti del tutto congruente concepire un sovrano la
cui azione legislativa è ex post tale per cui seleziona fra convenzioni sociali alternative o fra
interpretazioni conflittuali della stessa convenzione. Nel secondo caso la divisione delle
funzioni legislative, esecutive e giudiziarie e la loro attribuzione a differenti organi dello stato
rappresenterebbe solo un'articolazione interna all'autorità sovrana, senza ricadute sul principio
dell'autorità assoluta. È del tutto plausibile assumere che per Hobbes la questione di principio
non è data dal chi (o da quale organo) rivesta una particolare funzione, ma dal fatto che le
diverse articolazioni interne al corpo politico producano alla fine decisioni unitarie e coerenti,
cioè espressione di una singola volontà politica. Ciò che Hobbes rifiuterebbe è una divisione dei
poteri che producesse un sistematico conflitto fra i poteri dello stato. Il punto sul quale si
concentra la critica neo-hobbesiana riguarda comunque il fatto che individui razionali
riterrebbero una siffatta autorità incapace di fornire adeguate garanzie individuali. E' a questa
obbiezione che rivolgiamo ora l'attenzione.
Sovrano assoluto e scelta razionale
Il paradosso dell'autorità assoluta trova una sua prima formulazione nel Secondo trattato sul
governo di John Locke. Nel discutere le relazioni fra sovrano e sudditi Locke sottolinea che: "se
si chiede che garanzia, che difesa vi sia in tale stato contro la violenza e l'oppressione del
governante assoluto, neppure la domanda è permessa. Vi si risponderebbe tosto che il solo fatto
di preoccuparsi della sicurezza merita la morte. Tra suddito e suddito si ammetterà che vi
debbano esser misure, leggi e giudici, per loro mutua pace e garanzia, ma il governante, invece,
dev'esser assoluto ed è superiore a tutte le circostanze di tal genere, e, per il fatto ch'egli ha il
potere di fare maggiori danni e torti, se li fa, non fa male. Chiedere come ci si possa garantire
dal danno o dall'offesa da parte del più forte è senz'altro la voce della faziosità e della ribellione,
come se gli uomini abbandonando lo stato di natura ed entrando in società, avessero convenuto
che tutti meno uno sottostessero al limite della legge, e quello continuasse a conservare tutta la
libertà dello stato di natura, accresciuta dal potere e resa arbitraria dall'impunità. Questo è come
credere che gli uomini sono così pazzi da prendersi cura di evitare i danni che possano recare
loro le faine, e le volpi, ed esser contenti, anzi, trovare la salvezza nell'esser divorati dai leoni"
(1690, II, § 93)11.
Questa posizione è stata riaffermata diverse volte nel corso della storia del pensiero
politico. In tempi più recenti John Plamenatz ha posto la questione in questi termini: "cosa
intende dire Hobbes quando afferma che l'autorità deve essere assoluta? Per conto mio, questo
vuole dire che non è nell'interesse di nessuno che vi siano leggi e convenzioni che limitano il
dovere di obbedire al governo, o che la suprema autorità dello stato venga attribuita a diversi
organi istituzionali. [...] La giustificazione dell'autorità assoluta proposta da Hobbes si basa
sull'assunto che solo questo tipo di governo consente un'efficace risoluzione dei conflitti e delle
dispute, comprese quelle concernenti i limiti cui deve sottostare la stessa autorità. Chiaramente
tale assunto è falso. È infatti possibile dividere i poteri in modo tale da definire colui cui spetta
il giudizio finale per ogni tipo di controversia ed evitare conflitti di competenze" (1963: 149,
39
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
150-51).
Per Locke la scelta di un sovrano assoluto rappresenta non solo un caso esemplare di
cura peggiore del male che si intende curare, ma anche una incongruenza logica. A suo parere è
assurdo pensare che agenti razionali e autointeressati possano preferire un sistema oppressivo e
assoluto agli inconvenienti tipici dello stato di natura. Piuttosto che il consegnarsi alla schiavitù
dello stato politico l'analisi costi-benefici giustifica il persistere nello stato di natura. Dal canto
suo, John Plamenatz ritiene implausibile la soluzione proposta da Hobbes perché, date le
possibili alternative politiche, tale forma di governo è quella meno conveniente. Diversamente
da Locke, l'analisi costi-benefici da lui proposta non confronta lo stato di natura e quello
politico, ma diverse alternative politiche, fra le quali figura come preminente quella di un
sovrano costituzionale limitato.
Nel riproporre il problema la Hampton sostiene l'esistenza di una chiara contraddizione
logica fra le motivazioni prudenziali che portano i soggetti hobbesiani alla sottoscrizione del
contratto, e la scelta di un sovrano assoluto ed autointeressato quale quello hobbesiano, che
potrebbe, una volta insediato, fare un uso arbitrario e discriminatorio del potere attribuitogli.
Agenti razionali come quelli descritti da Hobbes sono in grado di anticipare questa eventualità e
si rifiuterebbero di sottoscrivere un contratto di alienazione che conferirebbe al sovrano
un'autorità assoluta. Ad essere prescelta sarebbe invece una forma contrattuale che definisce
precisi limiti costituzionali all'esercizio del potere. La pensatrice americana riconosce che dalla
descrizione di Hobbes viene fuori un sovrano estremamente moderato e paternalista. Malgrado
ciò sottolinea che non è possibile trovare nel testo hobbesiano ragioni che spieghino perché un
sovrano la cui motivazione principale è l'autointeresse dovrebbe scegliere di essere un sovrano
illuminato. La conclusione cui arriva è perciò la seguente: "La giustificazione del contratto di
alienazione elaborata da Hobbes è inconsistente [perché]:
1. Al fine di arrivare alla pace sociale deve essere istituito un sovrano assoluto con poteri
illimitati sui suoi sudditi-schiavi, un sovrano assoluto che rappresenta il supremo tribunale
per tutte le controversie che emergono nello stato
2. L'attribuzione di effettivi poteri al sovrano avviene attraverso la decisione dei sudditi di
obbedire gli ordini del sovrano, e tale decisione di obbedire viene presa solo quando
l'obbedienza è nell'interesse dei sudditi.
3. Da (2) segue che il sovrano non decide tutto; in particolare il sovrano non decide se e quando
i suoi sudditi obbediranno.
4. L'implicazione che si ricava da (3) è che fino a quando il potere del sovrano dipende dalla
reale obbedienza dei sudditi, sono questi ultimi [...] i veri depositari del potere sovrano.
5. Da (3) e (4) si ottiene che gli agenti hobbesiani non sono in grado di istituire un'autorità
sovrana del tipo definito in (1). [...] Il che significa che gli agenti hobbesiani non sono in
grado di mettere fine al conflitto dello stato di natura" (1986: 206).
La Hampton nota da ultimo come, data la debolezza dell'intera giustificazione, Hobbes
(coscientemente o meno) proprio su questo punto imbroglia, ed introduce concetti morali esterni
all'intera discussione e che erano stati precedentemente rifiutati.
Diversamente dalla Hampton, la tesi che sosteniamo è che la giustificazione dell'autorità
assoluta avanzata da Hobbes è tutt'altro che incompatibile con la logica che porta soggetti
razionali a sottoscrivere il contratto sociale. Le stesse ragioni autointeressate che spingono gli
individui hobbesiani alla ricerca di un accordo possono essere utilizzate per giustificare la scelta
di un contratto di alienazione e di un sovrano assoluto che lo faccia valere. La dimostrazione
della tesi prevede l'analisi di due distinti tipi di relazioni strategiche che caratterizzano lo stato
politico. Il primo tipo attiene ai rapporti tra sovrano e sudditi, mentre il secondo considera le
relazioni strategiche che si instaurano fra i sudditi. Dall'articolazione si ricavano due distinti
giochi strategici: un gioco del sovrano e un gioco di coalizione. La combinazione dei due giochi
permette di dimostrare come un comportamento oppressivo e discriminatorio del sovrano renda
possibile il costituirsi di coalizioni difensive fra i sudditi; come la previsione da parte del
sovrano dell'effetto destabilizzante di tali coalizioni lo porti ad autoimporsi dei vincoli all'azione
40
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
politica e quindi alla scelta di comportarsi da sovrano illuminato; come la capacità dei sudditi
nel ripetere il ragionamento del sovrano e di pervenire alle sue stesse conclusioni confermi loro
che il sovrano manterrà un atteggiamento moderato e giustifichi la scelta di un'autorità assoluta.
Il gioco del sovrano
Una volta che le procedure di insediamento del sovrano sono state esaurite e il processo di
attribuzione dei poteri è stato avviato con successo, le relazioni strategiche che si instaurano fra
il sovrano e i suoi sudditi sono del tipo definito nel 'gioco del sovrano' riportato in figura 2.4. Ad
ogni round il sovrano gioca con un suddito tratto a caso dalla popolazione. Il suddito muove
sempre per primo; la sua scelta è tra violare oppure obbedire gli ordini del sovrano. Il sovrano
muove successivamente al suddito e può scegliere fra punire o proteggere. Come già visto, I
numeri in basso alla figura rappresentano l'ordine di preferenza dei due giocatori. Di
conseguenza abbiamo il seguente ordine di preferenze.
Figura 2.4. Gioco del sovrano
Ordine di preferenze del sovrano. La scelta ritenuta dal sovrano come la migliore in assoluto è
quella di proteggere il suddito che obbedisce agli ordini impartiti (2;1). Al secondo posto viene
la scelta di punire il suddito che viola gli ordini del sovrano (3;2). Il sovrano è comunque
indifferente fra punire un suddito che ha violato la legge o punire erroneamente un suddito che
l'ha rispettata (3;2~4;2), in quanto il costo implicito nel punire è lo stesso nei due casi. La
situazione ritenuta peggiore è quella in cui si protegge qualcuno che ha disobbedito (1;3),
perché in questo modo si finisce per fornire il bene protezione gratis, e si incorre in ulteriori
costi reputazionali che aumentano gli incentivi alla disobbedienza.
Ordine di preferenze del suddito. Il suddito, dal canto suo, preferisce disubbidire
quando esiste un'alta probabilità di non essere scoperto (1;3). Nel caso in cui la punizione del
sovrano è certa, il corso d'azione preferito è quello dell'obbedienza (2;1). Infine, il suddito
preferisce essere punito quando disobbedisce (3;2), piuttosto che esserlo erroneamente quando
obbedisce (4;2).
La soluzione ottimale del gioco del sovrano è l'equilibrio strategico in cui il suddito
obbedisce e il sovrano protegge (2;1)12. Naturalmente per ottenere questo risultato debbono
essere soddisfatte le seguenti condizioni:
(i)
deve esistere un sistema giudiziario-militare efficiente che consenta al sovrano di
41
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
(ii)
(iii)
scoprire coloro che violano e di punire con certezza
deve vigere un corpo di leggi universale e pubblico, tale che ogni cittadino possa sapere
quali sono i dettati della legge e come soddisfarli
il sovrano deve condurre la propria azione pubblica nel rispetto delle legge e delle
procedure di implementazione da lui stesso emanate
Come anticipato, la Hampton pensa che l'attribuzione di poteri assoluti al sovrano renda
estremamente probabile un esercizio del potere arbitrario ed oppressivo. Questo porterebbe
individui razionali quali quelli hobbesiani ad anticipare tale eventualità e a rifiutarsi di
sottoscrivere ciò che lei chiama un contratto di alienazione. Al fine di capire se è veramente
nell'autointeresse del sovrano assoluto comportarsi arbitrariamente, occorre quindi dare una
chiara definizione di potere arbitrario. In linea con le tre condizioni elencate sopra definirò un
sovrano assoluto arbitrario come colui che:
(i)
(i)
(ii)
è incapace, o non interessato, a costituire un sistema giudiziario-militare efficiente
emana leggi discriminatorie
si rifiuta di rispettare le sue stessi leggi
Per ragioni analitiche definiamo inoltre tre casi ipotetici di potere arbitrario. Nel primo
caso il sovrano periodicamente incorre in errori giudiziari e finisce per punire degli innocenti.
Nel secondo caso gli errori giudiziari sono così frequenti che esiste almeno il 50% di probabilità
di essere punito malgrado innocente. Il terzo caso è quello in cui il sovrano emana un corpo di
leggi che discrimina sistematicamente contro una parte della popolazione13.
Il risultato più evidente nel primo caso è che coloro che sono stati erroneamente
incarcerati finiscono per pagare l'intero costo dello sbaglio del sovrano. Questo tipo di problema
comunque non è caratteristico dell'azione del sovrano assoluto. Errori giudiziari sono possibili
in qualsiasi tipo di organizzazione politica, assoluta o limitata che sia. Il problema semmai
potrebbe essere (ed è) usato come un argomento in difesa di soluzioni anarchiche. Questo tipo
di critica ha però come obiettivo l'idea stessa di contratto sociale e non il problema della scelta
tra autorità limitata e autorità assoluta posto dalla Hampton e per tale ragione non viene
discusso ulteriormente.
Il secondo caso descrive un sovrano altamente incompetente, il quale non è riuscito a (o
non ha voluto) predisporre un sistema giudiziario-militare efficiente. Il comportamento del
sovrano in questo caso si risolve in un agire capriccioso che condanna e assolve in modo del
tutto arbitrario. La rappresentazione strategica del tipo di interazione prodotta dal sovrano
capriccioso è data dal gioco in figura 2.4 al quale è aggiunto un nodo informativo
(simboleggiato dalla linea tratteggiata che unisce i due nodi decisionali del sovrano). Il nodo
informatico sta ad indicare l'incapacità del sovrano di vedere la scelta del suddito. Assumiamo
che data l'incertezza il sovrano operi una scelta strategica casuale. Il corso d'azione del sovrano
è deciso attraverso il tipico lancio della moneta: testa equivale ad essere protetto, croce equivale
ad essere condannato. Dal punto di vista del suddito, le implicazioni del meccanismo
decisionale utilizzato dal sovrano risultano equivalenti all'attribuzione del 50% di probabilità di
essere punito (o protetto) qualunque sia il corso d'azione scelto. Ne consegue che disobbedire
diventa la strategia dominante del suddito. Infatti solo disobbedendo il suddito è in grado di
evitare la meno preferita delle situazioni (condannato malgrado innocente), e può sperare di
ottenere il migliore risultato possibile (protezione malgrado la disobbedienza).
Il risultato finale cui conduce il comportamento capriccioso del sovrano, è l'instabilità
sociale. Kavka descrive questa instabilità come il prodotto di due paradossi: il paradosso della
tirannia perfetta e il paradosso della rivoluzione (1986, cap. 6). Il primo paradosso consiste nel
fatto che l'uso spregiudicato e arbitrario della forza fisica finisce per rendere la disobbedienza la
strategia dominante dei sudditi. Obbedire è razionale quando esiste la certezza che ogni
violazione comporti la reazione punitiva del sovrano. Nel caso in cui tale reazione sia
imprevedibile e comporti la punizione di persone innocenti, diventa del tutto razionale violare la
legge in qualsiasi evenienza. Da qui la spirale perversa che conduce da un lato alla repressione
42
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
poliziesca esasperata e dall'altro all'endemica violazione della legge.
Il secondo paradosso riguarda l'impossibilità di prevedere uno sbocco rivoluzionario
alla spirale di violenza generato dal comportamento tirannico del sovrano. Iniziare una
rivoluzione rappresenta un tipico problema di azione collettiva e come tale implica costi
organizzativi del tutto simili a quelli necessari a produrre un qualsiasi bene pubblico. Una
rivoluzione risulta imprevedibile per tre ragioni: perché gli agenti stessi cercano di evitare i
costi individuali impliciti nel prendere l'iniziativa rivoluzionaria; perché il comportamento del
tutto imprevedibile del sovrano rende estremamente difficile l'emergere di asimmetrie e di
salienze fra i sudditi su cui si concentri l'attenzione generale e che sono necessarie per
l'emergenza di forme spontanee di cooperazione14; perché le poche organizzazioni collettive che
riescono ad emergere finiscono per attrarre tutta l'attenzione delle strutture repressive del
sovrano. La conclusione è che questa situazione ipotetica da luogo a dinamiche strategiche il cui
risultato finale è indeterminato.
L'emergenza di coalizioni difensive
Rimane da considerare la terza situazione ipotetica, cioè il caso in cui il sovrano discrimina fra
differenti settori della popolazione. Per una maggiore comprensione delle implicazioni
derivabili da questo caso è necessario definire il tipo di relazioni strategiche esistenti fra i
sudditi e come l'azione del sovrano influenzi queste relazioni. La scelta del sovrano e
l'attribuzione allo stesso di poteri effettivi permette il passaggio dallo stato di natura alla società
civile, con tutte le implicazioni in termini di pace sociale e benessere economico che questo
comporta. La società civile rappresenta una possibilità logica solo all'interno di un contesto
politico (il sovrano) che opera l'intermediazione fra i vari soggetti individuali. Al di fuori
dell'intermediazione politica operata dal sovrano lo stato di natura persiste15. Malgrado ciò è del
tutto plausibile che, data la sua natura pubblica, l'azione del sovrano abbia effetti rilevanti anche
sul sistema delle interazioni da lui non mediate. In breve, l'idea che suggeriamo è che l'agire del
sovrano rappresenta una fonte di informazione capace di produrre asimmetrie e salienze che
consentono ai sudditi di dare vita a forme spontanee di cooperazione indipendentemente
dall'azione del sovrano stesso. È questo effetto involontario dell'azione pubblica che rende
possibile l'emergere di coalizioni difensive. Si tratta di vedere se, e come, l'atteggiamento
arbitrario e vessatorio del sovrano conduca alla formazione di coalizioni difensive in grado di
minacciarne la stabilità.
Anche in questo caso individuiamo due situazioni ipotetiche in cui il sovrano discrimina
sottoinsiemi della popolazione. Nel primo caso l'oggetto della discriminazione del sovrano non
è sempre lo stesso, ma muta al variare delle situazioni e delle alleanze. Nel secondo caso il
sovrano stabilisce un accordo stabile con uno specifico settore della popolazione allo scopo di
sfruttarne altri. Si tratta di capire se le strategie relative ai due casi permettano al sovrano
hobbesiano il mantenimento del suo dominio assoluto.
Il mantenimento di un dominio assoluto e stabile sembra alquanto improbabile nel caso
in cui il potere del sovrano si fondi su coalizioni provvisorie e momentanee. Per due ragioni
principali. Prima di tutto queste coalizioni danno vita a continue pressioni interne per la
ricontrattazione dei termini dell'accordo. In secondo luogo è quanto mai probabile il costituirsi
di coalizioni di ex alleati insoddisfatti per il modo in cui sono stati precedentemente trattati dal
sovrano. Ad ogni modo le dinamiche strategiche che questo tipo di politica delle alleanze
sviluppa sono difficili da prevedere. Di conseguenza, un sovrano mosso da motivazioni
prudenziali come quello hobbesiano difficilmente sceglierebbe di basare la sua azione politica
su tale tipo di comportamento strategico.
Più realistica risulta la seconda situazione ipotetica in cui esiste un'alleanza stabile e
permanente fra il sovrano ed un singolo alleato. È questo comportamento strategico in grado di
garantire al sovrano un potere assoluto duraturo e stabile? La risposta è anche qui negativa.
Prima di tutto questo tipo di alleanza richiede l'instaurazione di relazioni cooperative fra i
membri della coalizione dominante. Un sovrano abile a garantirsi l'alleanza di una componente
43
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
sociale tanto potente da permettergli lo sfruttamento sistematico del resto della popolazione
avrebbe un potere assoluto e arbitrario solo nei confronti della parte sfruttata. Nei riguardi
dell'alleato il sovrano è tutto tranne che assoluto. In secondo luogo lo sfruttamento sistematico
di altri settori della popolazione risulta possibile solo sino a quando gli sfruttati non trovano il
modo di organizzarsi e dare vita a coalizioni difensive. Come argomentiamo sotto, la
discriminazione sistematica di ben identificabili settori della popolazione crea le precondizioni
che permettono l'emergere di tali coalizioni.
Vediamo di articolare meglio questo punto. La politica di discriminazione sistematica di
alcuni settori della popolazione da parte del sovrano e della sua coalizione implica l'utilizzo di
risorse e istituzioni pubbliche necessarie a:
•
•
identificare i soggetti e le forme in cui operare lo sfruttamento
procedere al prelievo delle risorse prodotte dallo sfruttamento
Siffatte politiche sono per definizione pubbliche e creano ben definite identità sociali. Nei
termini della teoria dei giochi la creazione di identità collettive è dovuta all'azione congiunta
dell'emergere di asimmetrie informative e di salienze tra i giocatori. In altre parole, la
formazione di identità collettive è il prodotto del venire meno dell'anonimato che caratterizza le
interazioni nello stato di natura; interazioni che ora assumono la forma di un gioco ripetuto, non
anonimo e asimmetrico. Un sovrano razionale è al corrente del fatto che in tali contesti
strategici l'emergere di forme spontanee di cooperazione sociale è molto probabile16.
Nel caso in questione lo svilupparsi di forme di cooperazione spontanea fra sudditi
equivale all'emergenza di coalizioni difensive. Il sovrano verrebbe così a trovarsi nella scomoda
posizione di dovere da un lato soddisfare i crescenti bisogni della coalizione di cui fa parte e
dall'altro di fronteggiare la reazione difensiva degli sfruttati. La conclusione è che un
comportamento arbitrario che mira allo sfruttamento sistematico di sottoinsiemi della
popolazione risulterebbe incongruente con le motivazioni prudenziali che guidano l'azione del
sovrano.
La discussione condotta finora ha presentato diverse definizioni di potere assoluto
arbitrario e ne ha analizzato le implicazioni strategiche. Per ogni situazione ipotetica identificata
si è visto che esistono ragioni prudenziali che sconsigliano al sovrano di adottare quel tipo di
comportamento. Un comportamento arbitrario e capriccioso conduce il sovrano di fronte ad un
dilemma. Il sovrano potrebbe ritrovarsi, o nell'imprevedibile situazione descritta nel doppio
paradosso proposto da Kavka, ovvero in un contesto in cui si determina una spirale di
repressione indiscriminata e disobbedienza generalizzata, nonché nell'impossibilità di prevedere
uno sbocco rivoluzionario a causa dei costi di azione collettiva connessi con l'inizio di una
rivoluzione. Alternativamente il sovrano potrebbe finire con l'essere costretto a dibattersi fra
coalizioni difensive che lo vogliono destituire e alleati interessati a ridimensionare il suo potere.
Resta da domandarsi quale tipo di comportamento strategico possa assicurare al sovrano
un potere assoluto e permanente. La nostra ipotesi è che tale comportamento preveda
necessariamente la definizione di un corpo di leggi pubblico, universale e imparziale cui anche
il sovrano si sottomette. Tre tipi di argomenti giustificano la scelta di questa soluzione. Il primo
è che tale strategia è a prova di coalizione in quanto evita la produzione di asimmetrie e salienze
che i sudditi possono sfruttare contro lo stesso sovrano. Il secondo argomento è che tale
soluzione risulta la più immediata e la più facile da identificare. Il terzo argomento è che questo
tipo di soluzione è semplice e non richiede al sovrano l'uso dei sofisticati ragionamenti necessari
alla comprensione delle complessità strategiche tipiche di qualsiasi teoria delle coalizioni. La
conclusione è dunque che il sovrano riconosce come sia nel suo interesse assumere le vesti di
sovrano illuminato, mentre i sudditi trovano del tutto plausibile credere che un sovrano assoluto
si comporterà in modo illuminato.
Il modello di autorità politica che si ricava dalla discussione fin qui condotta è quello di
un'autorità che riconosce la problematicità dei comportamenti arbitrari e che perciò sceglie di
autovincolarsi. Questa scelta è il prodotto di un'analisi costi-benefici condotta dal sovrano fra
due alternative: abusare liberamente dell'autorità o definire un insieme di regole cui
44
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
sottomettersi. La razionalità del vincolo risulta evidente una volta che si è proceduto all'analisi
delle implicazioni strategiche dei casi ipotetici identificati. Il risultato interessante
dell'esperimento è quello di rendere evidente come strumenti di garanzia individuali possano
emergere direttamente della pratica politica. In questo senso si ribalta l'approccio liberale che
vede i diritti individuali come elementi esterni (o precedenti) al processo politico e necessari al
suo contenimento. Inoltre la possibilità di arrivare alla giustificazione di un sistema di regole
pubblico, universale ed imparziale a partire da considerazioni genuinamente politiche e non
morali rende conto della priorità logica della politica sulla filosofia morale proposta da Hobbes
e avvicina il pensatore inglese alla tradizione politica repubblicana.
L'analisi congetturale proposta rappresenta infine un tentativo di arrivare alla
definizione analitica del processo che ha prodotto la nascita dei moderni stati costituzionali. Lo
sviluppo di forme costituzionali che stabiliscano la divisione dei poteri e sistemi di garanzia
individuale dei cittadini può essere visto come il prodotto di un processo di maturazione interna
allo Stato assoluto. Tale processo sarebbe il risultato del conflitto fra istituzioni politiche
arbitrarie e movimenti collettivi sviluppatesi come coalizioni difensive dei gruppi sociali
oppressi. L'evoluzione dei moderni stati costituzionali rappresenterebbe così un caso empirico
di progressiva definizione endogena di vincoli all'esercizio del potere conseguente
all'emergenza di coalizioni difensive.
Note
1
Un tentativo in questa direzione è quello portato avanti da Kraus (1993). Sul lavoro vedi comunque e
osservazioni critiche della Hampton (1996).
2
Oltre che nel Trattato (1740, parte II, sez. V-X) e le Inchieste (1751, sez. iii-iv), la critica di Hume al
contratto sociale è contenuta nei seguenti saggi: Of the first principles of government (1741), A letter from
a gentleman to his friend in Edinburgh (1745), Of the original contract (1748), Of the origin of
government (1777). Tranne che per (1745), tutti i saggi sono riprodotti in (1886). Per una accurata analisi
della critica di Hume al contratto sociale vedi Brownsey (1978) e Thompson (1977). Per una
riproposizione della critica humeana al contrattualismo contemporaneo cfr. de Jasay (1997).
3
Gauthier e Kavka si riferiscono ai tre come 'egoismo tautologico', 'egoismo psicologico' ed 'egoismo
causale' (Gauthier, 1987: 284-5; Kavka, 1986: 35). La Hampton chiama i tre PE1, PE2 e PE3 (cfr. 1986:
23).
4
Kavka sottolinea che quella di Hobbes "è nella sostanza una teoria ipotetica interessata a definire
(controfattualmente) cosa accadrebbe nell'eventualità in cui i legami politici e sociali fra le persone
venissero a rompersi" (1986: 84) E quindi aggiunge, "'lo stato di natura' è un concetto relazionale. Due
parti si trovano ad interagire in uno stato di natura se nessuno dei due può costringere l'altro a rispettare
gli accordi presi e ad astenersi dall'aggredire l'altro" (1986: 88).
5
I numeri di pagina si riferiscono a quelli dell'edizione originale del 1651 i quali sono riportati in tutte le
maggiori edizioni inglesi contemporanee.
6
Il gioco prende il nome da un esempio contenuto nel saggio di Rousseau (1755, parte II): "Se si tratta di
prendere un cervo, ognuno sentiva di dovere per questo stare fedelmente al suo posto; ma se una lepre
veniva a passare davanti a uno di loro, non c’è dubbio che egli non la inseguisse senza scrupoli e, avendo
presa la sua preda, si preoccupasse pochissimo di far prendere la loro ai suoi compagni". Il gioco è stato
però introdotto nella teoria delle decisioni da Amartya Sen (1967) come Assurance game e solo dopo
sono state notate le affinità con l'esempio di Rousseau.
7
L'idea che lo stato di natura hobbesiano ha una struttura logica del tipo dilemma del prigioniero non è
solo dei neo-hobbesiani ma si ritrova in diversi autori e opere precedenti a quelle discusse qui. Cf. Barry
(1965: 253-4); Gauthier (1968: 76-89); Rawls (1971: 269); Taylor (1976: 6); Ullmann-Margalit (1977:
62-73). Il contributo dei neo-hobbesiani è stato quello di chiarire in che senso queste logiche sono
coincidenti.
8
In un contesto simile anche la semplice disponibilità a non aggredire per primo può essere
controproducente. Come recita il testo della canzone di De Andrè La Guerra di Piero: "quello si volta, ti
vede ha paura e imbracciata l'artiglieria non ti ricambia la cortesia".
45
RAZIONALISMO HOBBESIANO E PROGETTO DI RICONCILIAZIONE
9
Vedi Hobbes (1651, cap. XV: 117).
Un metodo simile è discusso da Hobbes alla fine del capitolo XVI (pp. 134-35).
11
Non è affatto chiaro se la critica di Locke abbia come riferimento Hobbes. Sul punto vedi l'introduzione
di Peter Laslett al testo di Locke (1970, sez. IV).
12
Al momento bisogna non considerare la linea tratteggiata. Nel gioco non ci sono nodi informativi e il
sovrano può chiaramente distinguere il suddito che viola da quello che obbedisce.
13
La ragione di questo comportamento discriminatorio può essere dovuto al fatto che il sovrano si
coalizza con un sottoinsieme della popolazione al fine di sfruttare il resto, oppure perché impegnato nella
pratica del dividi et impera.
14
È da notare che nel contesto hobbesiano le relazioni fra i sudditi sono caratterizzate dall'assenza di
fiducia reciproca. È l'azione del sovrano a garantire il livello di fiducia necessario allo sviluppo di
transazioni socio-economiche. Per il concetto di "salienza" si rinvia al prossimo capitolo.
15
Diversamente da Rousseau (1755), Hobbes non considera la possibilità di una grande trasformazione
come portato del processo di civilizzazione. La struttura motivazionale e l'identità personale degli agenti
hobbesiani rimane immutata nel passaggio dal contesto prepolitico a quello politico. Diversamente
l'analisi costi-benefici che giustifica la sottoscrizione del contratto sociale sarebbe del tutto impossibile.
16
Sull'emergenza della cooperazione nei giochi ripetuti vedi il capitolo successivo.
10
46
III
Empirismo humeano e genealogia della morale
La rilevanza di David Hume per la filosofia contemporanea è difficile da sopravvalutare. Hume
ha ispirato lo sviluppo dell'utilitarismo, del darwinismo sociale, del naturalismo etico,
dell'empirismo logico, dell'emotivismo, della filosofia del linguaggio. Nella seconda parte del
XX secolo Hume è stato, inoltre, il punto di riferimento teorico delle teorie dell'ordine
spontaneo e di una miriade di teorie analitiche dello stato di derivazione economica. Per F.A.
Hayek (1967) l'influenza di Hume (e dell'illuminismo scozzese) si deve al fatto di avere posto le
basi per lo sviluppo di una teoria sociale in grado di supplire una giustificazione epistemologica
dell'ordine liberale: diritti di proprietà esclusivi e stato minimo. Secondo l'autore austriaco, il
tentativo humeano di arrivare ad una spiegazione individualista di fenomeni sociali complessi
quali l'origine del linguaggio, dei diritti di proprietà e dei sentimenti morali opera una rottura
radicale con tradizioni di pensiero che basano i propri assunti su presupposti metafisici
irrefutabili o su metafore antropologiche pseudoscientifiche. In aggiunta, Hayek ritiene che
l'approccio evolutivo e spontaneista che caratterizza la teoria humeana ha preservato la stessa
dalle deleterie influenze dei razionalisti e rappresenta perciò un modello di riferimento ideale
per lo sviluppo di un liberalismo scientifico1.
Malgrado i dubbi che tale lettura solleva, l'interpretazione di Hume proposta da Hayek
ha catturato l'attenzione di una crescente schiera di pensatori interessati a giustificare i principi
liberali su base genealogica piuttosto che contrattualista. Come per le teorie neo-hobbesiane
discusse prima, siffatto approccio ha l'ambizione di combinare analisi epistemologica e analisi
prescrittiva, e di dimostrare come l'agire autointeressato può essere compatibile con la morale.
A differenza dei neo-hobbesiani, coloro che si richiamano a Hume ritengono necessario
abbandonare l'idea stessa di contratto sociale e concentrare l'attenzione sulla nozione di
convenzione sociale. Le convenzioni sono viste come gli elementi non morali della fabbrica
morale: regolarità comportamentali ritenuti alla base delle nostre concezioni di valore e dei
sentimenti di giustizia. Lo studio delle convenzioni rappresenta quindi il campo di indagine per
studiare l'evoluzione della norme sociali e dei sentimenti morali che ne assicurano l'osservanza
in modo scientifico ed oggettivo. Da un punto di vista normativo lo studio delle convenzioni
sociali ha due implicazioni. In primo luogo consente di elaborare una epistemologia negativa in
grado di valutare principi morali ideali alternativi attraverso l'analisi della stabilità evolutiva che
questi possono avere. In secondo luogo la preminenza attribuita alle convenzioni rappresenta un
modo per affermare la natura derivativa delle categorie del politico e identificare i limiti
costituzionali esterni a cui deve sottostare l'azione di governo2.
Come per i neo-hobbesiani, anche i humeani ritengono necessario risolvere le
inconsistenze che affliggono il pensiero del filosofo scozzese attraverso l'uso delle tecniche
messe a disposizione dalla teoria dei giochi. John Mackie per esempio chiarisce come: "quello
che Hume ci offre è un'analisi speculativa brillante. Al suo interno esistono però diversi
problemi e difficoltà latenti. E' Hume in grado di dimostrare che autointeresse e comprensione
sono sufficienti per garantire l'accettazione di regole di giustizia senza l'aiuto del sovrano
hobbesiano? Ha Hume una spiegazione plausibile del modo in cui una convenzione emerge e
finisce poi per affermarsi? O è tale spiegazione valida solo per problemi di coordinazione ma
non adatta per i problemi posti dal dilemma del prigioniero che più di frequente affliggono le
interazioni umane? E ancora: è il resoconto proposto Hume riguardo agli effetti benefici
prodotti da criteri di giustizia generali coerente? Ed è questo in grado di dirci perché dobbiamo
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
comportarci onestamente anche quando ciò ci danneggia personalmente? Inoltre: sono le regole
di proprietà così ovvie e uniformi per come lui le descrive? E devono essere applicate in
maniera inflessibile per come l'autore suppone? Infine: ha Hume ragione nel ritenere la
competizione per il possesso di beni materiali come la causa prima di ogni conflitto e il
problema principale da risolvere per potere vivere in pace?" (1981: 86).
Sono queste le domande su cui si sono concentrati i teorici humeani ed è alle risposte
avanzate da questi che rivolgiamo l'attenzione in questo capitolo. Per prima cosa vedremo come
le teorie humeane spiegano l'emergere delle convenzioni sociali. Sulla scia di David Lewis
(1969) si è assistito all'identificazione del processo che porta all'emergenza di convenzioni
sociali con le soluzioni di equilibrio dei giochi di coordinazione. Rispetto ai modelli neohobbesiani, il tipo di interazione che ha luogo in un contesto humeano non consente però
nessuna forma di comunicazione e richiede quindi una risoluzione tacita dei giochi identificati.
Sono gli agenti humeani in grado convergere sullo stesso equilibrio di coordinazione?
Successivamente consideriamo i meccanismi che spiegano l'osservanza di convenzioni sociali
emerse come soluzioni di equilibrio di giochi di coordinazione in contesti diversi da quelle che
le hanno generate. La risoluzione di questo problema rappresenta il punto di partenza per
l'elaborazione di una teoria naturalistica della morale non cognitivistica e soggettiva del tipo
voluto dai humeani. Si tratta comunque di un problema estremamente complesso da risolvere e
che mette in evidenza le tensioni esistenti fra analisi genealogica e analisi normativa. Tali
tensioni sono l'oggetto della sezione conclusiva dove viene discusso se le teorie humeane
possono supplire la giustificazione epistemologica dell'ordine liberale indicata da Hayek.
SPIEGAZIONI A MANO INVISIBILE E CONVENZIONI SOCIALI
I dilemmi cooperativi evidenziati dal dilemma del prigioniero hanno messo in crisi non solo le
teorie contrattualiste ma tutte quelle spiegazioni che sottoscrivono l'individualismo radicale
discusso nel capitolo precedente3. Se si assume che tutti i fenomeni sociali sono il risultato delle
azioni strategiche di individui autointeressati e debbono quindi essere spiegate a partire da
queste ultime, risulta chiaro che si finisce per incorrere in numerosi paradossi logici. Un mondo
popolato da agenti siffatti non sarebbe infatti in grado di riprodurre gran parte dei fenomeni
sociali che caratterizzano il mondo reale. Come Hobbes nota, in un mondo siffatto, "non vi è
posto per l'operosità ingegnosa, essendone incerto il frutto: e di conseguenza, non vi è né
coltivazione della terra né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare via mare,
né costruzioni adeguate, né strumenti per spostare e rimuovere cose che richiedono molta forza,
né conoscenza della superficie terrestre, né misurazione del tempo, né arti, né lettere, né società"
(1651, cap. 13: 62). Il significato epistemologico di tale dilemma cooperativo è chiaro:
l'individualismo metodologico non può avere un valore fondativo e necessita di un approccio
complementare che possa spiegare l'origine di molti dei fenomeni esistenti4.
I teorici della scelta razionale hanno cercato di evitare i problemi posti dal dilemma del
prigioniero attraverso l'introduzione della nozione di norma. Soggetti razionali interagenti in un
contesto del tipo dilemma del prigioniero possono evitare di finire nell'equilibrio noncooperativo solo se le loro scelte sono consistenti con l'applicazione di una norma che detta loro
di cooperare. Ovviamente questa spiegazione risulta plausibile solo se si chiarisce come sia
possibile generare una norma simile. Se infatti il processo che genera la norma è strutturato
come un dilemma del prigioniero (come nello stato di natura hobbesiano), allora l'intera
spiegazione risulta o circolare o viziata da un regresso infinito. Questo rappresenta infatti il
punto debole delle teorie contrattualiste classiche e contemporanee contro cui si appuntano i
humeani e che l'approccio genealogico-evolutivo intende evitare.
I teorici humeani suggeriscono una alternativa ai dilemmi cooperativi con cui si
confrontano i teorici della scelta razionale che spiega la generazione di norme attraverso un
processo a due fasi. Nella prima si ha lo sviluppo di convenzioni sociali che risolvono i
problemi di coordinazione con cui si confrontano gli agenti nello stato di natura. Nella seconda
48
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
fase si assiste invece allo sviluppo di titoli di proprietà esclusiva e di sentimenti morali che
rendono le convenzioni stabili ed effettive anche in contesti diversi da quelli di coordinazione.
La cooperazione emerge dal fatto che, posti in situazioni tipo dilemma del prigioniero, gli agenti
humeani sono portati ad applicare convenzioni stabilite precedentemente ed evitano di ricorrere
ad azioni dirette alla massimizzazione dell'utilità attesa.
Il primo autore a sviluppare una lettura della teoria delle convenzioni humeane di questo
tipo è stato David Lewis (1969). L'oggetto di indagine di Lewis sono le convenzioni
linguistiche; quelle convenzioni che una lunga tradizione nominalistica che va da Hobbes a
Quine spiega come il prodotto di un contratto sociale. Come Lewis chiarisce, il riferimento ad
un contatto sociale quale base ultima del linguaggio è del tutto implausibile: in che lingua
comunicavano coloro che per primi si sono accordati sul significato da attribuire alle parole?
L'analisi delle convenzioni sviluppata da Hume è per Lewis immune da simili implausibilità e
può servire come il punto di partenza adeguato per lo sviluppo di una teoria generale delle
convenzioni linguistiche e sociali. L'elemento di novità che Lewis introduce consiste
nell'equiparare le convenzioni humeane con gli equilibri strategici dei giochi di coordinazione;
una classe di giochi ai quali i teorici dei giochi avevano dedicato scarsa attenzione perché
considerati del tutto banali. Lewis dimostra invece che quando gli agenti non hanno la
possibilità di comunicare direttamente tale classe di giochi è tutt'altro che banale e cattura la
logica sottostante i problemi relativi alla formazione delle convenzioni linguistiche.
La definizione di convenzione da cui l'autore parte è la seguente: "una regolarità R
stabilita dal comportamento dei membri di una popolazione P quando gli agenti si trovano in
situazioni ricorrenti S si definisce come una convenzione se, e solo se, ogni volta i membri di P
si trovano in S,
1) ciascuno agisce conformemente con R
2) si aspetta che tutti gli altri agiscano conformemente con R
3) preferisce agire in conformità con R a condizione che gli altri facciano lo stesso, dato che S
rappresenta un problema di coordinazione e il conformarsi di tutti con R rappresenta un
equilibrio di coordinazione in S" (1969: 42).
La convenzione descritta da Lewis è una soluzione di equilibrio per giochi che hanno
una molteplicità di equilibri di Nash equivalenti. Il riferimento a giochi con una molteplicità di
equilibri equivalenti è necessaria secondo Lewis perché ritiene il senso di arbitrarietà implicito
nel termine stesso e che è bene mantenere. Per arbitrario l'autore intende l'esistenza di almeno
una scelta alternativa la cui adozione avrebbe portato ad un equilibrio che dal punto di vista
degli agenti è del tutto equivalente a quello scelto. Questo significa escludere tutti quei giochi
dove esiste un solo equilibrio di Nash, o dove esiste un equilibrio di Nash che è Paretodominante rispetto a tutti gli altri. In questi casi infatti si presume che agenti razionali non
avrebbero difficoltà alcuna nello scegliere l'equilibrio sul quale convergere. Da notare infine che
la definizione di Lewis non si applica solo ai giochi di coordinazione pura, ma anche per quelli
misti. Sarebbe a dire, quei giochi (come la battaglia dei sessi e il gioco della caccia al cervo
discussi nel capitolo precedente) in cui esiste un certo grado di conflitto, ma dove le esigenze di
coordinazione hanno la meglio sul conflitto potenziale dovuto a preferenze diverse.
In questa parte del capitolo presentiamo gli elementi principali del modello teorico
utilizzato da Lewis. Per prima cosa chiariremo le assunzioni comportamentali che secondo
l'autore distinguono gli agenti humeani da quelli hobbesiani e che spiegano l'abilità dei primi nel
risolvere i problemi di azione collettiva in cui si dibattono i secondi. In seguito discutiamo la
logica sottostante i giochi di coordinazione e i problemi che questi sollevano. Infine analizziamo
la soluzione proposta da Lewis e il successo di quest'ultima nell'esplicare il processo che porta
all'emergenza di convenzioni sociali.
Convenzioni e razionalità limitata
L'approccio humeano non si limita ad una ridefinizione del contesto strategico che definisce il
49
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
tipo di interazione che ha luogo nello stato di natura, ma suggerisce ulteriori revisioni
riguardanti il modello di agenzia da utilizzare. Come anticipato, i humeani spiegano l'emergere
della cooperazione come il risultato di un comportamento orientato da regole. A differenza di
quelli hobbesiani, gli agenti humeani non applicano strategie di massimizzazione diretta
dell'utilità attesa ma tendono ad applicare regole di comportamento. Questa tendenza è espressa
in tre modi tra loro interrelati:
•
•
•
come dovuta al fatto che gli agenti hanno capacità razionali limitate
come dovuta al fatto che gli agenti sono abitudinari e non amano rischiare
come dovuta al fatto che gli agenti hanno la propensione ad attribuire valore prescrittivo a
corsi d'azione passate che si sono rivelate di successo
La prima ipotesi segue l'idea di Herbert Simon (1978) secondo cui bisogna attribuire
agli agenti capacità computazionali limitate. Per i humeani ciò equivale a rappresentare gli
individui come agenti 'miopi' che reagiscono a situazioni strategiche complesse tramite
l'adozione di regole comportamentali valide per una pluralità di situazioni simili. Queste regole
comportamentali possono essere riviste periodicamente, ma tendono a rimanere immutate nel
corso di uno stesso gioco5. La seconda ipotesi considera invece i costi, in termini di risorse ed
energie, necessari per portare avanti ragionamenti complessi. Secondo questa prospettiva solo di
rado le persone si impegnano per prevedere tutte le eventualità connesse con ogni corso d'azione
possibile. Spesso e volentieri gli individui agiscono in modo abitudinario e si riservano di
impegnarsi in ragionamenti complessi solo nei casi in cui ci si trova di fronte a situazioni non
coperte da esperienze passate o quando si procede alla revisione delle regole di comportamento
che si sono rivelate fallimentari.
La terza ed ultima ipotesi si basa sull'idea che col passare del tempo le abitudini, o le
regole di comportamento, che si sono rivelati proficue acquistano valenza normativa.
L'attribuzione di un valore prescrittivo a regole di comportamento contingenti ma proficue
produce un doppio risultato. Per un verso finisce per rafforzare le credenze individuali riguardo
alla correttezza della regola di comportamento e rende la reazione individuale semiautomatica.
Per altro verso, l'attribuire valore prescrittivo ad una regola di comportamento genera aspettative
che promuovono reazioni negative verso i comportamenti devianti. Tale reazione riguarda non
solo coloro che sono direttamente danneggiati ma è alla base delle forme di biasimo espresse da
soggetti terzi. Per i teorici humeani è l'operare congiunto di sentimenti morali del genere che
spiega perché nella pratica le persone reali solo di rado danno luogo ai comportamenti
autodistruttivi descritti da Hobbes.
Secondo i humeani, quindi, gli agenti che si trovano ad interagire nello stato di natura
sono predisposti a selezionare regole e procedure che li aiutano a superare i problemi di azione
collettiva associati a tale contesto strategico. Le regole e le procedure che risultano più effettive
vengono ad essere osservate, in media, con più frequenza rispetto ad altre ed eventualmente
danno vita a delle vere regolarità comportamentali. A loro volta queste regolarità rafforzano le
aspettative degli individui riguardo a come gli altri si comporteranno in situazioni simili. Il
risultato è un sistema di aspettative interindividuali coincidenti e autorafforzantesi.
L'osservazione di comportamenti passati conformi con tali regolarità rappresenta infatti
evidenza induttiva che garantisce un grado sempre più elevato di coincidenza tra credenze,
aspettative e comportamenti. In aggiunta, la tendenza ad ascrivere a queste regolarità valore
prescrittivo genera sanzioni informali che rendono queste ultime stabili senza il ricorso ad una
autorità esterna. I risultato è uno stato di natura di tipo lockeano dove gli individui cooperano
spontaneamente e dove l'ordine sociale è turbato solo di rado e in modo temporaneo.
Diversamente da Locke, comunque, questo risultato è ottenuto senza richiedere l'intervento di
un dio razionale e benevolente, o il ricorso a contratti sociali implausibili. Nel linguaggio di
Hume la cooperazione emerge come risultato di autointeresse, abitudine e generosità limitata.
50
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
Coordinazione, interdipendenza e indeterminatezza
Una convenzione nasce e persiste perché rappresenta la soluzione di equilibrio di un gioco di
coordinazione. E` quindi necessario chiarire la logica sottostante un gioco di coordinazione e i
problemi che questo pone. Come Lewis chiarisce, "i problemi di coordinazione riguardano
situazioni dove le decisioni di due o più agenti risultano interdipendenti, dove esiste una
coincidenza di interessi e dove sono possibili due o più equilibri di coordinazione" (1969: 24).
Nel capitolo precedente abbiamo incontrato due di questi giochi: la battaglia dei sessi e la caccia
al cervo. Tali giochi sono chiamati ad interessi misti perché esiste un certo grado di conflitto
circa le preferenze che gli individui hanno per gli equilibri da selezionare. Si tratta comunque di
un conflitto potenziale la cui rilevanza è inferiore alle esigenze di coordinazione degli agenti. La
preferenza principale dei giocatori è infatti quella di evitare i costi di un mancato
coordinamento. La logica che sottende questi giochi è quindi equivalente a quella di un gioco di
coordinazione puro del tipo descritto in figura 3.1.
Guidatore A
Guidatore B
Destra
Sinistra
1,1
2,2
2,2
1,1
Destra
Sinistra
Figure 3.1. Gioco dei guidatori
Nel gioco due guidatori hanno il problema di scegliere su che lato della strada guidare. Per
semplicità supponiamo che i guidatori hanno la tendenza a guidare nel mezzo della strada e la
scelta consiste nel decidere su che lato della strada spostarsi quando si incontra un'altra
macchina6. Le preferenze individuali seguono il seguente ordine. Ciascuno dei guidatori ha un
interesse a scegliere la soluzione scelta dal suo opponente; non importa se questa sia la
soluzione Destra (D) oppure Sinistra (S), data l'equivalenza delle due quello che importa è che
entrambi scelgono lo stesso lato della strada. Il gioco possiede infatti due equilibri di Nash (D-D
e S-S) equivalenti.
Il ragionamento sottostante un gioco di coordinazione è di questo tipo:
•
•
•
A preferisce D (S) a condizione che B faccia lo stesso
al fine di vedere che cosa fare, A cerca di prevedere il comportamento di B e tenta di
replicarne il ragionamento
siccome il gioco è simmetrico, una volta che è nei panni di B, A si accorge che B preferisce
D (S) a condizione che A faccia lo stesso
Ovviamente se i due hanno la possibilità di comunicare si possono mettere d'accordo e
risolvere il gioco nel 99.9% dei casi. Questa è la ragione per cui la teoria delle decisioni ha per
lungo tempo ritenuto questi giochi banali. Se ai giocatori viene però impedito di comunicare il
gioco non solo non è più banale, ma definisce un problema di interdipendenza decisionale che
mette letteralmente in ginocchio il potere deduttivo della teoria della scelta razionale. Dato che
le azioni del giocare A dipendono da quelle del giocatore B, le quali a loro volta dipendono da
quelle del giocatore A, un ragionamento deduttivo porta ad una replica infinita di deduzioni.
Agenti razionali finiscono così per rimanere imprigionati in circoli ermeneutici che rendono
impossibile valutare i risultati a cui possono portano le scelte fra corsi d'azione alternativa.
Malgrado ciò, Lewis ritiene di essere in grado di riuscire a risolvere problemi di
interdipendenza simili senza particolari difficoltà. L'autore confida inoltre nel fatto che una
volta risolto il problema della coordinazione iniziale l'interdipendenza opererà un rafforzamento
continuo tra azioni, credenze e aspettative che assicura l'osservanza volontaria delle convenzioni
nel tempo. Lewis discute tre modi in cui si può raggiungere la coordinazione di azioni, credenze
51
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
e aspettative: tramite accordo, sulla base di un precedente e per mezzo della salienza. Il primo
tipo non è evidentemente consistente con la soluzione ricercata dai humeani. Risulta inoltre
inadeguato per l'obiettivo che si prefigge lo stesso Lewis, l'origine delle convenzioni
linguistiche: in che lingua comunicano coloro che stabiliscono il significato da attribuire alle
parole? Il secondo tipo non evita le critiche di circolarità che i humeani e lo stesso Lewis hanno
mosso contro i contrattualisti. Una teoria fondativa delle convenzioni linguistiche e sociali deve
essere in grado di spiegare sia come si raggiunge un equilibrio di coordinazione sia il processo
attraverso il quale un singolo atto di coordinazione arriva a stabilire un precedente valido. È
possibile infatti che la coordinazione sia raggiunta per caso. Ciò non è però sufficiente per
stabilire un precedente a livello di gruppo per almeno due ragioni: primo perché si possono
avere diverse istanze di coordinazione accidentale non coincidenti; secondo perché non esiste
ragione alcuna per supporre che un fatto accidentale del genere possa cambiare la struttura delle
interazioni successive. Solo il terzo tipo sembra consistente con le premesse accettate da Lewis
e dai humeani ed è questo che prendiamo perciò in considerazione.
La salienza: elemento endogeno o esogeno?
La nozione di salienza è stata originariamente proposta da Thomas Schelling in un saggio del
1960 in cui vengono messi in luce i difetti dell'allora nascente teoria dei giochi. Schelling
contrappone i modelli assiomatici utilizzati dai teorici dei giochi con i comportamenti delle
persone reali in situazioni analoghe. Nel capitolo terzo in particolare, Schelling discute i giochi
di coordinazione attraverso una serie di esperimenti condotti dall'autore stesso su campioni di
persone. La conclusione a cui arriva Schelling è che nel mondo reale le persone sono in grado di
evitare i problemi di coordinazione che affliggono gli agenti ideali. Schelling nota come la
percentuale elevata di successi che si riscontra negli esperimenti da lui condotti è dovuta al fatto
che le persone concentrano l'attenzione su caratteristiche contestuali uniche che li portano a
convergere su un singolo equilibrio. Come l'autore stesso spiega: "la caratteristica principale
delle 'soluzioni' ai problemi [di coordinazione], sarebbe a dire le intuizioni, o elementi
coordinatori, o punti focali, è data da un genere di prominenza o alterità (conspicuousness). Ma
si tratta di una prominenza che dipende da tempo, luogo e tipo di persona" (1960: 57). Per
Schelling le persone reali riescono a risolvere i problemi di coordinazione perché attribuiscono
significato ad elementi del contesto che per gli agenti ideali sono irrilevanti. Si tratta inoltre di
un significato che risulta condiviso dai membri del gruppo.
Nel riportare i risultati degli esperimenti discussi da Schelling, Lewis afferma quanto
segue: "in ambiti sperimentali individui sofisticati possono raggiungere buoni risultati superiori a quelli dovuti al caso - nel risolvere problemi di coordinazione nuovi senza
comunicare. Quello che li spinge è la ricerca di un equilibrio che risulta per qualche ragione
saliente: la cui unicità lo mette in evidenza rispetto al resto. Non deve essere unico in senso
positivo, infatti può essere unico in modo affatto negativo. Quello che importa è che sia unico in
modi che i soggetti possono notare, si aspettano che gli altri li notino, e così via. Se equilibri di
coordinazione sono differenti in modi diversi, gli individui debbono essere in grado di definire
criteri di valutazione e comparazione simili; e di solito questi sono abbastanza simili per
risolvere il problema" (1969: 35).
Secondo Lewis agenti razionali che si trovano di fronte ad una pluralità di equilibri
equivalenti sono, al pari di quelli reali, in grado di:
(i)
(ii)
(iii)
identificare piccole differenze che distinguono gli equilibri
stabilire la rilevanza relativa fra queste differenze
scegliere l'equilibrio che risulta più prominente
Siccome il processo di identificazione e classificazione è identico per tutti i giocatori, questi
finiranno per convergere sullo stesso equilibrio. In termini procedurali, agenti con una
razionalità limitata adotteranno quindi la seguente regola decisionale: cerca fra i possibili
equilibri quello più prominente e una volta identificato scegli il corso d'azione connesso con
52
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
questo.
Malgrado l'interesse suscitato dal lavoro di Lewis, la soluzione proposta solleva
notevoli dubbi. Innanzitutto la nozione di salienza non risulta facilmente compatibile con le
premesse epistemologiche sulle quali si basa la teoria dei giochi. Negli esperimenti di Schelling,
la salienza è un elemento del contesto in cui gli individui interagiscono; dipende quindi dalle
caratteristiche delle persone e dei gruppi scelti dall'autore. I punti focali descritti da Schelling
hanno perciò significato solo per coloro che condividono lo stesso contesto e le stesse
caratteristiche: lingua, modi di vedere, cultura, valori, etc. La loro esistenza è connessa cioè con
l'esistenza di identità collettive discrete e durature.
Nella teoria dei giochi tutti questi dettagli contestuali sono rimossi per concentrare
l'attenzione dell'analista sulla struttura formale delle decisioni individuali. Qui le azioni degli
agenti dipendono dall'utilità attesa per ogni corso d'azione (assunzione di razionalità
strumentale) e dal fatto che tale relazione causale è un qualcosa di cui tutti sono coscienti
(assunzione di conoscenza comune). Questo significa che le sole informazioni disponibili agli
agenti sono quelle relative ai pay-offs e all'abilità nel replicare il ragionamento della controparte.
Per potere utilizzare il concetto di salienza in maniera consistente con le assunzioni della teoria
dei giochi, Lewis deve dimostrare due cose: che gli agenti sono in grado di distinguere fra
equilibri che sono salienti ed equilibri che non lo sono in modo univoco e che l'identificazione
dell'equilibrio saliente porta i giocatori ad adottare il corso d'azione connesso con lo stesso.
L'intero processo non deve inoltre portare ad una riscrittura del gioco attraverso la modifica dei
pay-offs o un aumento della complessità descrittiva del gioco stesso.
In merito a questi problemi le risposte avanzate sia da Lewis sia da altri pensatori
humeani impegnati in tale progetto di ricerca si sono dimostrate del tutto insoddisfacenti. Prima
di tutto, Lewis non riesce ad esplicare il processo secondo cui gli agenti arrivano a distinguere
tra equilibri salienti ed equilibri non salienti. Delle volte l'autore da l'impressione che la salienza
sia dovuta a delle caratteristiche ambientali, mentre altre volte sembra propendere per un tipo di
spiegazione che concepisce la salienza come connessa con la struttura psicologica degli agenti.
In entrambi i casi la salienza finisce per dipendere da elementi esterni non derivabili né dalla
struttura dei pay-offs né dall'assunzione di conoscenza comune. Lewis assume inoltre che la
tendenza a scegliere il corso d'azione connesso con gli equilibri salienti è meccanica: la salienza
supplisce ragioni per agire quando non esistono ragioni per agire altrimenti. Anche in questo
caso la derivazione non é connessa in maniera alcuna con i pay-offs o con la nozione di
razionalità, ma sembra un elemento esogeno, una specie di deus ex machina che permette ai
giocatori di uscire dal labirinto epistemico in cui li ha condotti il ragionamento strategico. Come
Marina Bianchi acutamente nota: "per una convenzione potere emergere dobbiamo assumere
l'esistenza di una meta-regola, quale l'abilità dei giocatori nell'apprendere o nell'introdurre
nuove mosse (modelli, routine, simboli). Entro le regole del gioco nessuna soluzione univoca
potrà mai emergere spontaneamente o endogenamente" (1994: 247)7.
Il progetto humeano finisce così per mettere ancora una volta in evidenza le difficoltà
epistemiche in cui incorrono le teorie dell'azione individualistiche. Istruttivo in questo caso è il
fatto che a differenza del dilemma del prigioniero qui il problema non è dovuto all'esistenza di
un conflitto di interessi ma all'inabilità degli agenti a superare i limiti posti dal loro ragionare
isolatamente. Risulta infine chiaro che i difetti delle teorie individualiste non sono dovute alla
struttura deduttiva propria dei modelli razionalistici, come sostenuto dai humeani. Un approccio
di tipo induttivo riproduce infatti problemi identici a quelli imputati alle teorie razionalistiche. Il
risultato sembra quindi deporre contro l'idea stessa che i fenomeni sociali siano il risultato delle
azioni strategiche di individui autointessati, abitudinari e limitatamente generosi.
CONVENZIONI, MOTIVAZIONI E NORME
I humeani concepiscono la morale come un sistema di regole che gli individui appartenenti ad
una data comunità osservano e riconoscono come valide perché ritenute giuste. Il senso di
53
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
giustizia che porta all'osservanza di tali regole rappresenta, a sua volta, il risultato di dinamiche
storiche che possono essere ricostruite genealogicamente. Per Allan Gibbard (1992), l'approccio
genealogico humeano si basa sull'idea che concetti normativi complessi (thick) quali fiducia,
onesta, lealtà e obbligo politico possono essere spiegati per mezzo di concetti avalutativi
semplici: dinamiche adattative di tipo darwinista. In maniera simile, Francis Snare (1991)
afferma che Hume persegue una doppia epistemologia riduzionista la quale prima riduce il
senso di giustizia all'osservanza di convenzioni e poi le convenzioni a semplici regole
comportamentali. Dato l'isomorfismo tra teoria delle convenzioni e teoria dei sentimenti morali,
esiste quindi il sospetto che l'intera impresa humeana sia destinata al fallimento. Se risulta
impossibile spiegare come individui isolati possano dare vita ad una convenzione sociale, non
sorge un problema logico analogo quando cerchiamo di ridurre le regole morali all'accordo
tacito tra portatori di valori etici soggettivi diversi?
Diversi pensatori hanno cercato di evitare l'obiezione attraverso la separazione tra
questioni relative alle origini di regole e convenzioni e questioni relative all'osservanza delle
stesse. Nel caso dei titoli di proprietà individuale discussi da Hume, si può benissimo,
suggeriscono i humeani, assume che questi emergono come appropriazioni di fatto. La
questione da indagare riguarda allora i meccanismi che portano tali appropriazioni a
trasformarsi in titoli de jure: titoli rispettati volontariamente perché ritenuti giusti. Nel
linguaggio della teoria dei giochi ciò equivale e separare l'analisi degli equilibri che porta alla
generazione di convenzioni sociali dall'analisi della stabilità evolutiva degli equilibri stessi.
Secondo questa prospettiva il problema delle origini è di natura storica ed ha quindi scarsa
rilevanza analitica. La teoria può benissimo assumere che i vari equilibri di coordinazione sono
raggiunti per puro caso e concentrare l'attenzione sulla dinamica che porta alcune convenzioni
piuttosto che altre a diffondersi e acquisire validità universale. Anche in questo caso l'egoismo
psicologico sottoscritto dai modelli neo-hobbesiani viene integrato con l'introduzione di ulteriori
elementi motivazionali mirati ad aumentare il realismo della teoria: l'idea di abitudine discussa
prima e la nozione di simpatia8.
L'approccio genealogico humeano si basa su un tipo di struttura argomentativa che nel
linguaggio filosofico corrente viene identificata come 'utilitarismo della regola'. L'utilitarismo
della regola stabilisce che l'oggetto dell'analisi costi-benefici operata dagli agenti non deve
avere come riferimento le singole azioni, ma l'abilità di una regola nel ridurre i costi dovuti al
ragionamento strategico degli agenti e incrementare i benefici della cooperazione sociale. Tale
interpretazione è consistente con l'affermazione di Hume secondo cui non sono i benefici che
possiamo ricavare da un singolo atto di giustizia che rendono questo atto virtuoso, ma l'esistenza
di regole generali che richiedono un'applicazione inflessibile. Ciò, afferma infatti il filosofo
scozzese, "non solo ci familiarizza con tutto ciò che abbiamo goduto a lungo, ma ci comunica
anche un affetto per questo qualcosa, e ce lo fa preferire ad altri oggetti che possono anche avere
un valore maggiore" (1740, parte III, sez. I). In altre parole, l'utilitarismo della regola serve per
spiegare come sia possibile l'evoluzione dei sentimenti morali senza cadere nell'errore di
assumere l'esistenza di una tendenza ad agire giustamente prima dell'instaurazione di regole di
giustizia.
In questa sezione consideriamo tre diversi resoconti del processo che porta
all'osservanza di convenzioni sociali. Ogni resoconto è relativo ai diverse tipi di interazione
strategica che hanno luogo nello stato di natura. Il primo concerne le convenzioni prodotte da
giochi di coordinazione pura; il secondo quelle che emergono nei giochi misti quali il chicken
game; il terzo tratta infine la funzione delle sanzioni informali e degli effetti reputazionali nel
promuovere l'osservanza in contesti dove l'azione collettiva ha una forma conflittuale.
Stare sulla stessa barca e logica canottieri
Hume inizia la discussione sulle convenzioni chiarendo come queste non derivano da promesse
alcune ma dalla consapevolezza generale di un interesse comune. Sarebbe a dire, un interesse
sul quale esiste un accordo intersoggettivo di fondo, sebbene questo sia di natura tacita e
54
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
irriflessiva. L'esempio che il filosofo scozzese utilizza per chiarire il concetto è il seguente: "due
uomini che sospingono una barca a forza di remi lo fanno in virtù di un accordo o di una
convenzione, sebbene essi non si siano dati alcuna promessa reciproca. La regola della stabilità
del possesso non solo deriva dalle convenzioni umane, ma sorge inoltre gradualmente e acquista
forza attraverso un lento progresso, e in virtù di una reiterata esperienza degli inconvenienti che
sorgono dal trasgredirla" (1740, parte II, sez. II). Nell'esempio le regole che definiscono i diritti
di proprietà individuale sorgono in modo naturale e meccanico, come l'abilità degli individui nel
remare in modo sincronico.
Come anticipato, David Lewis equipara l'esempio di Hume ad un gioco di
coordinazione pura del tipo descritto in figura 3.1. Una volta che uno dei due equilibri di
coordinazione viene raggiunto ognuno ha interesse a rispettare i titoli di proprietà e a non
violare i diritti altrui. L'equilibrio, infatti, da luogo a dinamiche autorafforzantesi che assicurano
la stabilità evolutiva dell'intero sistema. L'identificazione del processo che porta
all'instaurazione di titoli di proprietà individuale con l'esempio suggerito da Hume e
l'equiparazione di tale esempio con i giochi di coordinazione pura operato da Lewis non
sembrano però del tutto convincenti.
Iniziamo con il considerare l'equivalenza fra l'esempio suggerito da Hume e i giochi di
coordinazione pura. Come visto, un gioco di coordinazione pura è caratterizzato dal fatto di
avere due equilibri di Nash equivalenti: D-D e S-S. Questo significa che entrambi rappresentano
convenzioni potenzialmente valide, quale lo guidare sul lato destro della strada o su quello
sinistro. Nell'esempio suggerito da Hume non è però chiaro se esistano alternative equivalenti e
quali siano. Supponiamo che i due hanno la possibilità di utilizzare un remo ciascuno. Le
alternative disponibili ai rematori sono allora tre:
(i)
(ii)
(iii)
entrambi remano (assumiamo, per semplicità, nella stessa direzione)
uno rema mentre l'altro riposa (o pretende di remare)
entrambi riposano (o pretendono di remare)
Nel primo caso il gioco porta ad una coordinazione degli sforzi benefica per entrambi. Nella
seconda eventualità il risultato più probabile è quello di sfiancare colui che rema solo per fare
muovere la barca in circolo. La terza alternativa lascia la barca in balia delle correnti.
Una rappresentazione delle alternative in forma di matrice ci darebbe il seguente gioco
dei canottieri.
Agente A
Agente B
Rema
Riposa
1;1
4;2
2;4
3;3
Rema
Riposa
Figura 3.2. Gioco dei canottieri
La matrice è identica al gioco della caccia al cervo discussa nel capitolo precedente. In quanto
tale il gioco ha un equilibrio (Rema-Rema) che non ha equivalenti. Se questo è il caso, i
giocatori non hanno alternative tra le quali scegliere. Esiste solo un corso d'azione razionale:
quello di remare. In una situazione del genere l'autointeresse rappresenta una forza
motivazionale sufficiente per fare convergere i rematori sull'equilibrio paretiano.
L'esempio di Hume non ci dice se un solo rematore può manovrare la barca, o se i due
giocatori hanno la stessa destinazione in mente. Informazioni del genere sono però cruciali per
definire i pay-offs del gioco e quindi le strategie disponibili. Se infatti un solo giocatore può
manovrare la barca e non è possibile osservare il comportamento dell'altro adeguatamente,
esiste la probabilità di comportamenti opportunistici dove uno pretende di remare e sfrutta gli
sforzi dell'altro. Alternativamente, se i due rematori hanno in mente due destinazioni diverse la
55
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
regata nemmeno inizierà. In altre parole, l'esempio implicitamente assume la coincidenza di fini
e mezzi: non solo esiste un solo obiettivo comune ma anche un solo corso d'azione per potere
realizzare tale obiettivo. Nel caso in cui la coincidenza non esiste il coordinamento meccanico
descritto da Hume risulta del tutto improbabile.
Consideriamo per esempio la situazione dove non esiste la possibilità di controllare
l'azione della controparte e non esiste fiducia reciproca. Come nel caso della caccia al cervo
descritto prima, siccome non esiste la possibilità di portare a termine l'impresa da soli,
l'alternativa razionale ci consiglia di minimizzare i costi: nell'esempio di Rousseau ciò comporta
abbandonare la caccia al cervo per cacciare la lepre e assicurasi almeno la cena; nel gioco dei
canottieri l'alternativa sembra invece essere quella pretendere di remare e riposarsi.
Due conclusioni emergono da questa discussione. Primo: giochi di coordinazione pura
non presentano problemi di osservanza solo quando non esiste incertezza epistemica, altrimenti
l'osservanza di una regola diventa molto più complicata di quando suggerito dai humeani. E'
bene notare comunque che nel caso in cui non esiste incertezza epistemica e l'osservanza è
meccanica, la nozione di obbligo diventa del tutto superflua. Secondo: giochi di coordinazione
pura e giochi misti come la caccia al cervo e il gioco dei canottieri non sempre hanno la stessa
struttura logica dato che in un caso esistono equilibri alternativi equivalenti mentre nell'altro si
hanno equilibri che dominano paretaniamente tutti gli altri. Le due logiche non debbono essere
confuse, ne sembra appropriato utilizzare la logica connessa con uno per arrivare alla soluzione
dell'altro.
Diritti di proprietà e ineguaglianze distributive
Esiste un tipo di giochi misti che secondo alcuni teorici cattura la logica dei diritti di proprietà
discussi da Hume in modo più adeguato rispetto sia ai giochi di coordinazione pura sia al gioco
della caccia al cervo o dei canottieri. Il gioco in questione è il chicken game. Le origini del
gioco risalgono alle sfide fra bande giovanili rivali nella California degli anni '50; sfide
immortalate nel film Gioventù Bruciata il cui protagonista è James Dean. Nel gioco due giovani
appartenenti a gruppi rivali si sfidano guidando ad alta velocità l'uno contro l'altro. Il gioco può
concludersi in tre modi: nel primo caso il più coraggioso mantiene la traiettoria mentre colui che
ha paura all'ultimo momento sterza per evitare l'impatto frontale e fa la figura del pollo; nel
secondo caso entrambi sterzano all'ultimo minuto e fanno entrambi la figura dei polli;
nell'ultimo nessuno dei due sterza e si ha un impatto frontale violento. La similitudine con i
diritti di proprietà è dovuta all'idea che nello stato di natura i titoli di proprietà dipendono dalla
forza fisica e dalla disponibilità a combattere per acquisire o difendere le proprietà acquisite. In
questo contesto si parla anche di 'falchi' e 'colombe' e il gioco è spesso identificato con questo
nome. Da un punto di vista formale il gioco ha la struttura riportata in figura 3.3.
Giocatore A
Fugge
Attacca
Giocatore B
Fugge
Attacca
R;R
S;T
T;S
P;P
Figura 3.3. Chicken game
Le caratteristiche del gioco sono le seguenti:
(i) T > R > S > P
(ii) 2R = T + R > 2P
(iii) R − P = S
La prima condizione riguarda i pay-offs e ci dice che le preferenze individuali sono del
56
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
seguente tipo:
•
•
•
•
la situazione preferita al di sopra di tutte è quella relativa alla combinazione strategica AF,
attaccare quando si è certi che la controparte fuggirà
al secondo posto c'è la combinazione strategica FF, fuggire entrambi (o evitare di attaccare)
al terzo posto si ha la combinazione strategica FA, fuggire quando si è certi che l'altro
attaccherà
la situazione che entrambi vorrebbero evitare è AA, l'attacco reciproco
La logica sottostante il gioco è che nel caso ci si confronta con un avversario disposto ad
attaccare ad ogni costo, l'azione razionale consiste nel fuggire ed evitare i costi dello scontro. Il
gioco si differenzia così dal dilemma del prigioniero dove attaccare per primo è l'unica strategia
ottimale. Nel contesto del chicken game è la fuga a rappresentare la soluzione di maximin. Nota
però che nel caso ci si trovi al cospetto di una colomba (o di un pollo), conviene pretendere di
essere un falco disposto ad attaccare. In questo senso il gioco è simile al Poker dove il bluffing
consente di vincere somme notevoli.
Una seconda caratteristica che contraddistingue il gioco riguarda la relazione tra
ottimalità paretiana e razionalità individuale. A differenza del dilemma del prigioniero le due
non risultano irrimediabilmente opposte. Mentre, infatti, nel dilemma del prigioniero 2R > T +
S, nel chicken game 2R = T + S con S > P. Tale condizione è inoltre importante perché serve a
distinguere il chicken game dal gioco della battaglia dei sessi dove 2R < T + S. La struttura dei
pay-offs ci dice inoltre che il chicken game ha tre equilibri di Nash: due corrispondono alle
combinazioni strategiche AF e FA mentre il terzo è un equilibrio di strategie miste dove i
giocatori adottano la strategia A (F) con probabilità p = (S − P)/(T + S − R − P). In uno stato di
natura strutturato come un chicken game, l'utilità attesa relativa alla strategia A è superiore a
quella di F solo quando esiste una probabilità p < (S − P)/(T + S − R − P); quando la probabilità
è p > (S − P)/(T + S − R − P) risulta più conveniente adottare la strategia F; quando p = (S −
P)/(T + S − R − P) l'adozione di A o F è del tutto indifferente. Se il gioco è simmetrico e
anonimo la relazione di indifferenza rende la strategia mista l'unico corso d'azione razionale.
Bisogna notare comunque che le conseguenze a cui porta l'adozione della strategia 'gioca A (F)
con probabilità p = (S − P)/(T + S − R − P)' sono tutt'altro che confortanti. Un equilibrio misto
del genere riproduce infatti lo stato di natura conflittuale descritto da Hobbes.
Consideriamo ora il significato della terza condizione elencata sopra. Questa ci dice che
sebbene la strategia mista rappresenta il corso d'azione razionale, non è però un corso d'azione
dominante. Esistono infatti i due equilibri AF e FA che assicurano ai giocatori benefici
potenziali equivalenti. E' questa opportunità che rende il chicken game meno ostico da risolvere
rispetto al dilemma del prigioniero e ha richiamato l'attenzione di diversi pensatori. Politologi
come Michael Taylor (1987) hanno infatti utilizzato il gioco per dimostrare come sia possibile
produrre beni pubblici malgrado l'esistenza di opportunisti che beneficiano di tali beni senza
pagarne i costi. Zoologi come John Maynard Smith (1982) hanno invece visto il gioco come
adatto a formalizzare la competizione tra animali della stessa specie e quella tra specie diverse.
Mentre economisti come Robert Sugden (1986) hanno cercato di chiarire come le pratiche
adattive che operano nel mondo animale possono essere utilizzate per spiegare perché gli
individui finiscono per osservare appropriazioni di fatto. Come si arriva ad una soluzione del
chicken game che eviti il conflitto hobbesiano?
Sugden (1986) rappresenta il tentativo più significativo di formalizzare il processo che
porta alla creazione di diritti di proprietà secondo una logica humeana. Il punto di partenza
dell'economista inglese è un chicken game ripetuto continuamente. La ripetizione del gioco
porta, secondo l'autore, ad un equilibrio dove i giocatori fanno la parte dei falchi e delle
colombe a turno. Questo non solo finisce per produrre un equilibrio superiore a quello delle
strategie miste, ma sviluppa dinamiche autorafforzantesi che rendono l'equilibrio
evolutivamente stabile.
Il ragionamento di Sugden è il seguente: "se un giocatore ha fiducia nel fatto che la
57
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
strategia adottata dal suo opponente è del tipo 'se giochi come giocatore A scegli "falco", se
giochi come B scegli "colomba"', la cosa più sensata che può fare è quella di adottare la stessa
strategia. Questo equilibrio è equivalente ad un sistema rudimentale di diritti di proprietà de
facto dove i diritti sulle risorse contese sono attribuiti ai giocatori A. Dire che un equilibrio del
genere è stabile significa che questi diritti di proprietà saranno osservati volontariamente. [...]
La ripetizione del gioco falco-colomba porta all'evoluzione di alcune convenzioni di proprietà.
[...] Così se prendiamo il gioco falco-colomba come il modello di riferimento per lo stato di
natura hobbesiano, la conclusione di Hobbes risulta impropriamente pessimistica: se una società
si trova inizialmente in uno stato di guerra di 'tutti contro tutti' e gli individui perseguono il loro
interesse personale un sistema di diritti di proprietà stabili può evolvere spontaneamente" (1986:
70-1).
Come nel caso di Hume, Sugden non rende del tutto esplicite le assunzioni sulle quale si
basa tale argomentazione. Innanzitutto la convenienza ad adottare la strategia 'se giochi come
giocatore A scegli "falco", se giochi come B scegli "colomba"' dipende dalla possibilità che gli
individui hanno di poter assumere i due ruoli con una probabilità di almeno il 50%. In caso
alcuni giocatori hanno una probabilità inferiore al 50% di poter giocare come titolare di diritti,
la strategia mista 'attacca con probabilità p = (S − P)/(T + S − R − P)' risulta più conveniente.
Questo equivale a dire che uno stato di natura caotico alla Hobbes è da preferire ad uno stato
civile in cui alcuni usufruiscono dei benefici garantiti da diritti di proprietà esclusivi, mentre
altri ne sono permanentemente esclusi.
L'isomorfismo tra comportamenti umani e animali invocato da Sugden per giustificare
l'osservanza di regole di proprietà di fatto solleva più problemi di quelli che risolve. Se è lecito
assumere che nei conflitti animali l'alternanza dei ruoli è all'incirca del 50%, e il vincitore di
oggi è il perdente di domani, lo stesso non si può dire per quando riguarda quelli umani. Nelle
società umane le acquisizioni sono di gran lunga superiori a quanto un individuo può consumare
e difendere personalmente. La trasmissione ereditaria dei diritti fa inoltre si che alcune categorie
di persone si trovano in una situazione dove la probabilità di acquisire diritti di proprietà è di
molto inferiore al 50%. Più che refutare Hobbes, l'analisi di Sugden sembra formalizzare una
critica tradizionalmente rivolta allo stesso Hume: quella secondo cui le argomentazioni
humeane hanno forza motivazionale solo per coloro che possiedono quote significative di
proprietà. Per avere forza motivazionale universale il modello humeano deve infatti presupporre
l'esistenza di criteri equivalenti alle clausole di Locke: clausole che assicurano che
l'appropriazione da parte di alcuni lascia abbastanza risorse dello stesso valore a tutti gli altri
(1690, II, § 27). Clausole siffatte non sono però derivabili dalle premesse scelte, e ciò rende il
modello humeano inadatto a giustificare un sistema di diritti di proprietà esclusivi ed
inflessibili.
Reciprocità, costi reputazionali e sanzioni informali
Assumiamo per ragioni teoriche che gli agenti humeani riescano nell'impresa di stabilire una
convenzione del tipo 'se giochi come giocatore A scegli "falco", se giochi come B scegli
"colomba"': è una convenzione di questo tipo stabile da un punto di vista evolutivo? La risposta
è tutt'altro che positiva. Come anticipato, in un chicken game dove è conoscenza comune che un
numero elevato di giocatori è disposto ad adottare una strategia del genere esiste la convenienza
a pretendere di essere un falco e quindi a violare la percentuale relativa necessaria per avere
l'alternanza dei ruoli ottimale (50%). Come è possibile controllare tale comportamento deviante
ed evitare gli effetti distruttivi che ciò comporta nel lungo periodo?
La risposta di Hume è la seguente: "ogni singolo atto di giustizia considerato di per se
stesso [non] conduce all'interesse privato più di quanto conduca all'interesse pubblico; ed è
facile capire come un uomo possa impoverirsi con un solo atto di esemplare integrità, e avere
ragione di desiderare che, per quanto riguarda questo singolo atto, le leggi della giustizia
vengano per un momento sospese in tutto l'universo. Ma sebbene singoli atti di giustizia
possano essere contrari all'interesse pubblico o a quello privato, è certo che il piano e lo schema
58
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
nel suo complesso è estremamente utile, anzi assolutamente necessario, tanto come sostegno per
la società quanto per il benessere di ogni individuo [...] ogni singola persona deve trovarvi un
guadagno, alla resa dei conti; infatti, senza giustizia la società dovrà immediatamente
dissolversi" (1740, parte II, sez. II). In breve, Hume ritiene che gli individui sono in grado di
calcolare i costi e i benefici di lungo periodo relativi alla violazione e concludere che è bene
applicare la convenzione in modo inflessibile.
Il ragionamento di Hume ha dato adito a diverse letture. L'argomento è stato spesso
presentato come un'osservazione empirica che spiega perché le persone solo di rado danno vita
ai paradossi in cui incorrono agenti razionali ideali. Gli individui reali percepiscono chiaramente
i disastri personali e sociali a cui possono portare le strategie opportunistiche ed è per questo
che si astengono dal metterle in atto. La spiegazione si basa però su un utilizzo altamente
selettivo dell'evidenza empirica disponibile. Come infatti lo stesso Hume ci ricorda, esiste
evidenza che suggerisce come "non sia affatto contrario alla ragione preferire la distruzione del
mondo intero al graffio del mio dito. [...] o scegliere la mia completa rovina per prevenire il
minimo disagio ad un Indiano, o ad una persona completamente sconosciuta" (1739, II, parte
III, sez. III).
Analiticamente, l'argomento di Hume fa appello all'abilità individuale nel valutare
l'utilità attesa di lungo periodo per corsi d'azione alternative e nello scegliere l'alternativa che
massimizza gli interessi dell'agente. A parte i problematici calcoli interpersonali delle utilità che
ciò richiede, la validità di un argomento simile dipende dall'esistenza di una chiara relazione
causale tra il violare la convenzione e la disintegrazione della convenzione stessa all'interno
della comunità di riferimento. Una assunzione del genere è però talmente impegnativa che nelle
Inchieste lo stesso Hume è portato a riconoscere come l'argomento non ha alcuna forza
deterrente nei confronti "di un imbroglione scaltro [il quale] capisce che un atto iniquo o sleale
può portare ad un aumento considerevole delle sue fortune senza causare nessuna rottura
dell'unione sociale di rilievo" (1751, sez. IX, part. II).
Più recentemente alcuni pensatori humeani hanno fatto ricorso ad un diverso tipo di
soluzione al problema dell'osservanza: una soluzione che si basa sui costi reputazionali connessi
all'azione fraudolenta. La logica sottostante questa soluzione è espressa in modo esemplare da
Anthony de Jasay: "Se una parte preponderante della società ritiene che mantenere le promesse
sia un dovere morale, il venire meno alla promessa o la violazione dei contratti provocherà la
reazione negativa di un circolo di persone più ampio rispetto a quello della vittima e dei suoi
alleati naturali. Le sanzioni sociali rappresentano forme primitive di applicazione (enforcement)
imparziale di sanzioni da parte di terzi. Si tratta forse di un'applicazione di sanzioni imperfetta,
ma rappresenta non di meno un tipo di applicazione che ha luogo anche nella completa
mancanza di un sistema di giustizia formale creato dal potere sovrano. Colui che riceve una
promessa ed è vittima di violazioni può contare sulla disposizione favorevole di osservatori
neutrali e sul loro aiuto. Colui che viola ha motivo di temere la reazione ostile di questi
osservatori e la loro riluttanza ad avere rapporti con lui in futuro ed eventualmente le loro
pressioni sono sufficienti a garantire forme di compensazione per le vittime" (1991: 65-6).
L'argomento di de Jasay solleva obiezioni simili a quelle espresse prima. Se
l'affermazione è di carattere empirico, non risulta affatto difficile provare come le sole sanzioni
informali risultano spesso del tutto ineffettive ed espongono le comunità che si basano
esclusivamente su di esse alle strategie predatorie di gruppi ed individui. Da una prospettiva
analitica, i meccanismi reputazionali identificati da de Jasay sollevano almeno tre tipi di
obiezioni riguardanti rispettivamente:
•
•
•
la relazione tra simpatia e benevolenza
il legame tra simpatia e imparzialità
le connessioni tra simpatia e ragione pratica
La psicologia morale di Hume concepisce la simpatia come inestricabilmente connessa
con la conoscenza diretta delle persone con le quali si simpatizza o con il tipo di situazione nella
59
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
quale queste sono coinvolte. Tale posizione è coerente con l'affermazione del filosofo scozzese
secondo cui non esiste una passione che porti alla benevolenza universale e con l'idea che gli
individui possono provare simpatia solo con quanto hanno esperito personalmente. Questo
comporta notevoli restrizioni riguardo al pubblico sul quale colui che è stato danneggiato può
contare. Se con l'espressione "un circolo di persone più ampio rispetto a quello della vittima e
dei suoi alleati naturali" de Jasay intende includere persone estranee sia alla vittima sia al tipo di
esperienza vissuta dalla vittima, la spiegazione va oltre i limiti del modello humeano. Il
riferimento ad una 'conoscenza diretta' o 'esperienza in prima persona' solleva inoltre dubbi
sull'imparzialità del giudizio di approvazione o disapprovazione espresso da soggetti terzi. Se
per esprimere simpatia gli agenti humeani debbono avere una certa familiarità con persone e
situazioni in che senso possono questi esprimere un giudizio imparziale? Non saranno le
colombe portate a solidarizzare con le vittime e i falchi con gli assalitori?
L'espressione di simpatia da parte di osservatori neutrali richiede inoltre l'abilità di
distinguere in modo certo tra violatore e vittima, altrimenti ci si può trovare di fronte a conflitti
dovuti a:
(i) punti di vista divergenti riguardo a chi a fatto cosa
(ii) quale convenzione si applica al caso in questione, o anche
(iii) l'esistenza di convenzioni alternative fra le quali scegliere
L'applicazione di una sanzione informale dipende infine non solo dall'abilità di identificare il
responsabile della violazione con certezza, ma anche quella di riconoscere il soggetto in futuro.
In altre parole, le strategie reputazionali funzionano solo quando non esiste incertezza
epistemica e l'interazione non è anonima9.
Supponiamo comunque che la situazione permetta di evitare ambiguità di ogni sorta e
porti osservatori neutrali ad esprimere giudizi imparziali di disapprovazione verso i violatori. E'
questo sufficiente per motivare soggetti terzi ad intervenire a favore della vittima? Quando
prendiamo in considerazione la struttura psicologica degli agenti humeani il problema diventa
tutt'altro che banale. Innanzitutto, Hume afferma in modo esplicito come la ragione e l'analisi
ponderata non sono in grado di motivare ad agire. Se questo è così, l'espressione di un giudizio
imparziale di condanna non determina un impulso ad intervenire in difesa della vittima. In
secondo luogo, agire implica dei costi. Per gli osservatori neutrali ciò significa valutare i costi
impliciti nell''immischiarsi negli affari degli altri' e i benefici indiretti che tale comportamento
può avere nel mantenere in piedi il sistema dei diritti di proprietà. Occorre inoltre considerare
che nel caso la violazione implica soggetti criminali e l'uso della forza fisica i costi di un
intervento possono risultare estremamente elevati; anche perché spesso la reazione verso terzi
che si sono immischiati negli affari altrui assume la forma di vere e proprie convenzioni
retributive.
Non è un caso che lo stesso Hume arriva a riconoscere come "la simpatia che provo per
un altro mi può portare a provare un sentimento di dolore e di disapprovazione ogni volta si è in
presenza di un qualcosa che ha la forza di turbare tale persona, ma al tempo stesso posso non
essere disposto a sacrificare nessun mio interesse, o alterare nessuna mia passione per la sua
soddisfazione" (1740, parte III, sez. I).
GENEALOGIA DELLA MORALE E GIUSTIFICAZIONE DELL'ORDINE LIBERALE
Diversi pensatori hanno visto la genealogia della morale di Hume come un potente strumento
per la giustificazione di valori, principi normativi e istituzioni sociali. John Mackie ritiene che
l'analisi della stabilità relativa di convenzioni alternative possa servire per elaborare una
epistemologia negativa in grado di chiarire i "limiti intrinseci di ogni sistema normativo
praticabile, limiti che debbono essere tenuti in considerazione ogni qualvolta si invocano
principi morali o si propongono riforme delle attitudini morali esistenti" (1982: 153). Per Hayek
l'analisi genealogica è la precondizione per arrivare ad un 'criticismo immanente' delle nostre
60
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
istituzioni sociali: "la sola base per un esame critico delle regole morali e legali" (1982, ii: 24).
L'autore austriaco ritiene infatti che "Hume vide con chiarezza la connessione fra queste analisi
[genealogiche] e la libertà e come la maggiore libertà di tutti richiede limiti alla libertà di
ciascuno attraverso l'imposizione di ciò che lui chiama le tre 'fondamentali leggi di natura': 'la
stabilità del possesso, la sua trasmissibilità per consenso e il rispetto delle promesse'" (1988:
34). L'analisi genealogica assolve quindi sia una funzione scientifico-esplicativa sia una eticoprescrittiva. Il suo scopo non è solo quello di chiarire come emergono i sentimenti morali ma
anche come questi limitano la possibilità di riformare le regole morali e legali ereditate.
Sulla forza giustificativa dell'analisi genealogica di Hume si è espresso anche Hans
Lottenbach in un istruttivo saggio del 1996. L'autore confronta gli approcci di Hume e
Nietzsche e nota come in entrambi i casi l'analisi genealogica ha un chiaro obiettivo prescrittivo.
Nel caso di Hume questo consiste nel dimostrare come sebbene le regole morali abbiano una
natura convenzionale esse non sono affatto arbitrarie ma sono indispensabili per il benessere
collettivo. Nietzsche, dal canto suo, vede l'analisi genealogica come un strumento per
dimostrare come le regole morali non siano altro che la reificazione di relazioni di potere e
sentimenti di risentimento. Queste affermazioni sollevano due problemi. Il primo riguarda la
reale portata delle giustificazioni supplite dall'analisi genealogica humeana: sono queste relative
all'obbligo politico in società avanzate o riguarda i sentimenti di lealtà che emergono in gruppi
sociali ristretti? Il secondo problema è invece relativo al contenuto della giustificazione: è la
genealogia della morale humeana in grado di giustificare l'ordine liberale? Entrambe le
domande hanno un aspetto pratico ed uno teorico. L'aspetto pratico è dato dalla possibilità di
potere utilizzare l'analisi genealogica come una alternativa plausibile alle teorie della giustizia di
derivazione kantiana e neo-hobbesiana. L'aspetto teorico riguarda invece la consistenza interna
del progetto di ricerca humeano.
Partiamo dal primo problema. Hume sostiene che non è possibile ridurre le questioni
riguardanti l'obbligo politico a quelle relative la lealtà individuale. Proprio su questa fallacia
l'autore scozzese basa la sua critica del contratto sociale e di Locke in particolare. Un punto di
vista simile viene espresso da Hayek. Nel criticare le teorie egalitarie (socialiste o liberali che
siano), Hayek afferma che queste si rifanno a concezioni solidaristiche valide per gruppi tribali
primitivi. La cornice normativa adeguata allo sviluppo e mantenimento di una società aperta
(Great Society) richiede invece il riconoscimento di libertà negative. In entrambi i casi l'idea
sottostante è che i sentimenti di lealtà e solidarietà validi in gruppi ristretti non sono appropriati
per società complesse con una sofisticata divisione del lavoro e dei ruoli. L'analisi dei modelli
humeani portata avanti nella sezione precedente arriva a conclusioni che sono però in
contraddizione con queste affermazioni. Nei vari casi da noi analizzati sia l'osservanza delle
convenzioni sia l'enforcement operato da terzi avviene solo in contesti dove non esiste
complessità epistemica e dove l'interazione non assume forme anonime. Contesti in cui
l'interazione è anonima e dove la violazione di una convenzione non porta al crollo della stessa
sollevano problemi di free-riding che riproducono lo stato di natura hobbesiano. Le
formalizzazioni operate dai humeani sembrano quindi mettere in evidenza che le genealogie
della morale proposte hanno un ristretto campo di applicazione.
Il secondo problema riguarda l'interpretazione di Hume suggerita da Hayek. L'autore
attribuisce a Hume una teoria evolutiva che risulta più corretto attribuire a Darwin. In Hume
l'idea di selezione naturale è del tutto assente e solo con Darwin questa prende forma e acquista
la rilevanza teorica che ha ora. L'assenza di un meccanismo simile ha importanti implicazioni
per la struttura analitica dell'approccio humeano. Senza la nozione di selezione naturale, la
teoria di Hume finisce per affermare la razionalità del seguire una regola senza avanzare
argomento alcuno circa la razionalità della regola stessa. Come era già stato notata a suo tempo
da Sheldon Wolin (1954), l'approccio humeano si basa su una psicologia morale conservatrice
in grado di avanzare solo una giustificazione contingente dell'ordine liberale. Secondo questa
psicologia morale qualsiasi ordine che riesce ad imporre regole stabili relative al possesso, e
trasmissione di beni e al mantenimento delle promesse finirà per sviluppare sentimenti che ne
assicurano l'osservanza. Significativa al proposito è la discussione dello stesso Hume riguardo
61
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
alla Gloriosa Rivoluzione. In un saggio del 1742 Hume afferma che la rivoluzione del 1688 era
illegittima ma che siccome è stata in grado di assicurare un nuovo ordine sociale stabile non
poteva essere più condannata. La conclusione è dunque che l'approccio genealogico humeano ha
non solo un campo di applicazione ristretto, ma risulta possedere un dubbio valore sostantivo.
Perry Anderson cattura i limiti delle analisi genealogiche humeane in modo esemplare
quando afferma che: "i confini del politico racchiudono solo una massa di convenzioni sociali
arbitrarie. Per ognuna di queste il linguaggio morale è tanto contingente quanto il passato di
coloro che lo parlano e il mondo non è altro che un insieme di dialetti non connessi fra di loro.
Non solo, siccome non esiste una comunità moderna con una sola 'sensibilità educata' emerge il
pericolo della disintegrazione sociale. La ragione della politica risiede nel conflitto fra codici
morali interni allo stesso Stato. E' un fatto questo che il sogno di una società civile non riesce ad
offuscare" (1992: 10).
Note
1
Non è nostra intenzione discutere la correttezza di tale interpretazione. Occorre comunque notare che a
partire da G.E. Moore (1903) i positivisti logici hanno attribuito a Hume la paternità dell'idea secondo cui
ogni tentativo di derivare giudizi di valore da preposizioni di fatto incorre in una fallacia naturalistica.
Come discusso nell'introduzione, ciò ha portato all'abbandono dell'etica normativa a favore della
metaetica. La lettura di Hume proposta dai positivisti logici risulta però altrettanto controversa. Moore,
per esempio, non cita il filosofo scozzese nemmeno una volta. L'evidenza testuale è inoltre estremamente
ambigua. Hume discute qualcosa vagamente simile alla fallacia naturalistica mooriana solo in un breve
passaggio (1740, parte I, sez. I). Qui l'autore afferma che sono i razionalisti a commettere suddetta
fallacia ma non che ogni derivazione di un dovere essere da un essere implica una fallacia. Sembra anzi
che l'obiettivo di Hume sia appunto quello di dimostrare come tale derivazione sia possibile senza
incorrere negli errori dei razionalisti. Se le conclusioni normativi a cui conduce l'approccio humeano
coincidono con quelle dichiarate da Hayek è una questione separata che discutiamo alla fine del capitolo.
2
Sulle differenze tra l'approccio contrattualista hobbesiano e quello convenzionale humeano si rimanda ai
lavori di Eugenio Lecaldano (1991) e Tito Magri (1995).
3
Cfr. Cristina Bicchieri (1993) la quale chiarisce le difficoltà che ciò comporta per tutti gli approcci
microeconomici e la teoria dei giochi in particolare e Victor Vanberg (1986) il quale usa il dilemma del
prigioniero per evidenziare le debolezza della teoria della selezione culturale di Hayek.
4
Qui bisogna sottolineare come il problema non risiede nell'utilizzo di una metodologica individualista,
ma nel tentativo di attribuire a tale metodologia valore fondativo. Sul punto vedi Galeotti (1988).
5
Lewis suggerisce un esempio che chiarisce la differenza fra seguire una regola e agire strategicamente.
Nell'esempio due persone sono al telefono quando la linea improvvisamente si interrompe. Agenti miopi
si autodescrivono il problema del come ristabilire la comunicazione come la scelta tra due regole di
comportamento da utilizzare in questi casi: (i) è sempre colui che ha chiamato per primo a dover
richiamare; (ii) è sempre colui che ha chiamato per primo a dover aspettare di essere richiamato. Ogni
altra considerazione o corso d'azione non entra a fare parte del ragionamento degli agenti. Le varie
versioni della nozione di razionalità limitata e le implicazioni che queste hanno per la teoria delle
decisioni sono discusse da John Conlisk (1996).
6
La supposizione ha un certa plausibilità, dato che spesso in strade secondarie o in cattivo stato si assiste
a comportamenti del genere. Sappiamo comunque che storicamente è la convenzione 'a sinistra' quella
che si è affermata per prima. Le ragioni che spiegano questa soluzione sono connesse al fatto che i soldati
usavano cavalcare sulla sinistra per essere pronti a sguainare la spada in caso di attacco. La convenzione
'a destra' è un fatto relativamente recente e si deve ad un decreto legistativo del governo rivoluzionario
francese, il quale fu approvato per segnare il cambio di direzione storica apportato dalla rivoluzione. La
diffusione di tale convenzione si deve poi all'opera di Napoleone e all'influenza demografica e culturale
della Francia.
7
In Palumbo (2000) discutiamo diversi tentativi di razionalizzare la nozione di salienza. La conclusione a
cui arriviamo è che nessuno dei tentativi ha finora portato ad una soluzione plausibile. Una conferma
indiretta di tale conclusione è inoltre data dallo sviluppo della teoria dei giochi evolutiva la quale nega la
62
EMPIRISMO HUMEANO E GENEALOGIA DELLA MORALE
rilevanza stessa dell'approccio perseguito da Lewis. Sui problemi posti da questa svolta cfr. Palumbo
(2001).
8
Le varie discussioni hanno come riferimento l'analisi portata avanti da Hume nel terzo libro del Trattato.
E' necessario però notare due cose. Primo: nel secondo volume delle Inchieste (1751) Hume propone una
revisione radicale dell'analisi contenuta nel Trattato. Secondo: i vari autori humeani discussi qui
malgrado prestano un'attenzione pressoché esclusiva al Trattato, si basano in realtà su un'interpretazione
del concetto di simpatia come passione naturale che si trova solo nelle Inchieste.
9
de Jasay considera l'assunzione di anonimato del tutto irrealistica. Secondo l'autore nei moderni stati
nazionali l'interazione prende forma solo entro e tramite "reti comunicative dove risulta sia semplice sia
conveniente accedere a informazioni riguardanti i giocatori con cui si interagirà" (1997: 204). Un
argomento del genere confonde l'interazione che ha luogo nello stato di natura con quella che ha luogo
nello stato civile. Assume inoltre l'assenza di incertezza epistemica, esternalità, investimenti specifici e di
tutte quelle fonti di rischio che gli economisti identificano come costi di transazione.
63
Parte Seconda
Etica applicata e governance
IV
Etica degli affari e teoria dell'impresa
Come disciplina autonoma e originale, l'etica degli affari (EDA) nasce negli USA e rappresenta
una delle tappe più significative dello sviluppo dell'etica applicata. L'EDA è in questo senso il
frutto del dibattito culturale portato avanti dalla filosofia pubblica di lingua inglese nel corso
degli anni '70. Dibattito che come anticipato prende le mosse dalla pubblicazione dell'opera di
John Rawls (1971), alla quale sono poi seguiti i contributi degli studiosi discussi nei capitoli
precedenti. L'EDA cerca di comprendere e di valutare le attività e le azioni degli individui e
delle istituzioni operanti nel settore economico alla luce di alcune categorie etiche fondamentali.
Oggetto di indagine sono quindi: il mercato e le istituzioni che operano nel mercato con
funzioni di produzione, transazione e distribuzione di beni e servizi. Per convenzione si usa
distinguere tre livelli attorno a cui si è articolato il dibattito accademico. Un livello generale,
definito come metaetica degli affari, tratta la giustificazione delle principali istituzioni
economiche come il mercato attraverso la discussione delle principali teorie filosofiche
normative contemporanee: teoria dei diritti, utilitarismo, contrattualismo, convenzionalismo e
comunitarismo. Le questioni discusse a questo livello riguardano la giustificazione del mercato
e dell'organizzazione capitalistica della produzione rispetto a soluzioni alternative come quella
pianificata o mista. A differenza dei dibattiti economici sul tema, l'analisi etica non ha come
obiettivo l'efficienza relativa di forme produttive diverse, ma la relazione tra efficienza e
giustizia, libertà ed equità, diritti e benessere, etc. L'ampiezza delle questioni etiche sollevate a
questo livello rende la discussione indistinguibile da quelle affrontate nella prima parte e non
verranno perciò riprese nel presente capitolo.
Un secondo livello, meso-etica degli affari, si occupa delle imprese e delle altre
istituzioni intermedie che operano nel mercato. A questo livello l'oggetto privilegiato di analisi è
il sistema di relazioni, esterne ed interne, che l'impresa pone in essere. Naturalmente una
discussione etica generale non considera i comportamenti delle diverse tipologie di impresa che
popolano il mercato, ma si confronta con le teorie economiche dell'impresa. Ad essere discussi
sono temi paralleli a quelli relativi alla giustificazione delle istituzioni politiche esterne al
mercato: il problema della responsabilità sociale dell'impresa; la giustificazione dei diritti di
proprietà; la legittimità della autorità, sia come derivazione dai diritti di proprietà sia come
autorità delegata al management nei casi di separazione fra proprietà e controllo. Un terzo
livello, micro-etica degli affari, considera infine la validità etica delle scelte quotidiane poste in
essere dagli individui quando operano nel ruolo di capitalista, imprenditore, lavoratore,
consumatore, etc. I problemi trattati a questo livello riguardano il modo di valutare e risolvere
conflitti e dilemmi che sorgono tra le indicazioni normative della morale comune e le
responsabilità connesse con i ruoli ricoperti. Di particolare importanza sono anche i problemi
relativi all'effettività dei codici e dei comitati etici nell'integrare la formazione manageriale e
motivare istituzioni e individui ad agire in modi moralmente adeguati.
Dal punto di vista storico la nascita dell'EDA risale al novembre del 1974, data nella
quale si tiene la prima conferenza di Business Ethics presso la Kansas University (cfr.
DeGeorge, 1987). Da allora lo sviluppo della riflessione teorica e della disciplina ad essa legata
è andato aumentando sempre più sino ad arrivare, nel corso degli anni '80, alla sua
istituzionalizzazione come materia di insegnamento nelle business schools e nelle università
americane. In Europa lo sviluppo è stato più lento e la nascita dell'Associazione Europea di
Business Ethics (EBEN), avviene solo nel 1988. Negli ultimi anni l'interesse è notevolmente
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
cresciuto fino al punto da fuoriuscire dai ristretti circoli accademici e porsi all'attenzione del
mondo imprenditoriale quale strumento essenziale del management aziendale. In questo
capitolo discutiamo l'EDA sia come disciplina filosofica autonoma sia come strumento
manageriale. La trattazione si divide perciò in due parti.
Nella prima parte sono discusse le ragioni teoriche che giustificano lo sviluppo dell'etica
degli affari come disciplina autonoma rispetto all'economia e alla filosofia morale. Qui
l'attenzione si concentra sulle implicazioni che l'analisi filosofica portata avanti
precedentemente ha per la teoria economica, e in particolare per quella neo-istituzionale, la
quale nega valore alcuno all'approccio etico-filosofico. I temi trattati sono due: il rapporto fra
efficienza del business e comportamento morale e i problemi relativi all'attribuzione di
responsabilità morale all'impresa. La sezione si chiude con alcune riflessioni riguardanti le
potenzialità dell'EDA come strumento di autogoverno. Nella seconda parte trattiamo l'impatto
che l'EDA ha avuto in campo manageriale e nel settore aziendale. Anche qui due i temi di
maggiore interesse. Il primo riguarda lo sviluppo dell'EDA come disciplina d'insegnamento
autonoma, mentre la seconda ha come oggetto la diffusione dell'EDA nella pratica manageriale.
In entrambi i casi sono analizzati i rischi connessi con l'istituzionalizzazione dell'EDA e la sua
trasformazione in strumento di relazione pubbliche acritico e funzionale al mantenimento di
forme di potere consolidate.
L'ETICA DEGLI AFFARI: DISCIPLINA AUTONOMA O OSSIMORO?
Etica ed affari sono comunemente visti come due estremi non conciliabili. Nella letteratura
economica corrente il mondo degli affari viene spesso rappresentato come un'arena in cui
individui ed imprese si confrontano senza esclusione di colpi. Il resoconto dei rapporti fra etica
e affari proposto dai pensatori economici neoclassici attribuisce alla morale il compito di
definire i fini socialmente utili da perseguire e all'economia la scelta dei mezzi appropriati per il
loro raggiungimento. L'etica, in questa visione, si pone o a monte o a valle dell'economia, ma
non entra nella definizione dei meccanismi interni dove opera una mera razionalità strumentale.
Nell'economia neo-classica la soddisfazione dei requisiti morali dell'azione economica si
realizza attraverso l'operato del mercato concorrenziale perfetto, ritenuto una 'zona moralmente
neutra' (Gauthier, 1986: 84). Tale idea trova la sua prima e più genuina espressione nella
metafora della mano invisibile elaborata da Mandeville (1714). Il mercato, secondo il medico
anglo-olandese, rappresenta lo strumento che trasforma i vizi privati in virtù pubbliche, intese
queste come una maggiore ricchezza aggregata. Sulla scia di Adam Smith (1776), gli
economisti neoclassici si sono poi sforzati di dimostrare come le dinamiche di mercato
soddisfano inoltre criteri di giustizia sociale oggettive1.
La fede nella mano invisibile non è stata inclinata né dall'esplicitazione delle condizioni
logiche necessarie affinché si abbia un mercato concorrenziale perfetto né dall'esistenza
dell'impresa moderna quale organizzazione gerarchica con ben definite relazioni di potere.
L'economia neo-istituzionale sviluppata da Oliver Williamson (1975) pur riconoscendo le
difficoltà in cui incorre l'analisi economica neo-classica, finisce per riproporre una divisione
delle sfere di intervento fra etica ed economia sorprendentemente simile a quella neo-classica.
Per questa le istituzioni economiche sono risposte razionali alle imperfezioni del mercato
concorrenziale, tale per cui ogni particolare assetto proprietario e divisione interna dei poteri
rappresenta una soluzione ottimale ai problemi di market failures. La conclusione è, anche in
questo caso, la superfluità di qualsiasi discorso etico, dato che è sempre possibile arrivare ad
una risoluzione dei problemi posti dalla concorrenza imperfetta attraverso una corretta
ingegneria manageriale e/o revisione degli assetti proprietari. La tesi della superfluità del
ragionamento etico in economia non è, comunque, soddisfacente. Come chiariscono Daniel
Hausman e Michael McPherson: "i principi morali non hanno solo rilevanza per le questioni
riguardanti valutazioni e politiche, ma influenzano le questioni che gli economisti empirici si
pongono come anche le risposte che questi ritengono plausibili" (1993: 671).
66
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
L'analisi delle debolezze metodologiche dell'economia neo-classica e neo-istituzionale
rappresenta perciò il punto di partenza per la giustificazione dell'EDA come disciplina
autonoma. Da un punto di vista descrittivo, l'EDA permette di chiarire sia fenomeni cooperativi
che secondo la teoria economica sono 'irrazionali' sia la razionalità di forme di dissenso diffuse
che la stessa non è in grado di anticipare. Il crescente interesse per le analisi di laboratorio che
replicano le situazioni strategiche studiate dalla teoria dei giochi ha reso evidente che gli
individui tendono a comportarsi in modi del tutto inconsistenti con quelli prescritti dalla teoria.
Nei contesti strutturati a dilemma del prigioniero, per esempio, la percentuale di defezioni è
sistematicamente di molto inferiore a quella che si riscontra nei tornei tra computers (cfr.
Hargreaves-Heap e Varufakis, 1995). Per altro verso, nei giochi di contrattazione le persone
reali si ostinano a perseguire strategie distributive inconsistenti con i principi di
massimizzazione dell'utilità attesa (cfr. Roth, 1995). E' chiaro che inconsistenze
comportamentali di questo genere sono generati dall'appello che i valori morali esercitano sulle
persone reali. Una teoria economica empiricamente orientata deve tenere conto del ruolo dei
valori morali, altrimenti rischia di produrre spiegazioni vacue e previsioni inattendibili.
Da un punto di vista normativo, il riferimento a valori condivisi o condivisibili è
cruciale per arrivare all'elaborazione di riforme strutturali e manageriali effettive.
Tradizionalmente l'economia politica e aziendale è stata in grado di suggerire solo riforme
basate su schemi di incentivo monetari. Prescrizioni derivate dalla rozza psicologia
comportamentista che ispira la disciplina eloquentemente espressa da George Stigler: "una
persona razionale deve essere guidata dal sistema di incentivi entro cui opera. Deve essere
scoraggiato dall'intraprendere alcune attività alle quale sono connesse sanzioni e diretto verso
altre alle quali sono connesse notevoli benefici senza riguardo alcuno per quelli che sono i suoi
desideri personali. La carota e il bastone stimolano lo scienziato e il politico allo stesso modo di
come stimolano gli asini" (1975: 171). Nella pratica l'applicazione di politiche monetarie simili
ha finito però col deprimere l'efficienza produttiva delle imprese e dei mercati. A livello
macroeconomico le masse lavoratrici che sono riuscite ad organizzarsi sindacalmente hanno
cercato di imporre termini contrattuali a loro favorevoli e reagito alle politiche classiste dello
stato liberale promuovendo azioni legislative che hanno portato alla regolamentazione del
mercato del lavoro. All'interno dell'impresa invece, le innovazioni tecnologiche introdotte al
fine di ridurre il ruolo e la forza delle organizzazioni sindacali hanno favorito la separazione tra
proprietà, controllo e produzione e promosso la giuridificazione delle relazioni industriali.
Le diverse attitudini relative ai rapporti fra etica ed economia sono riassunti nella tabella
riportata sotto.
COOPERATIVO
COMPETITIVO
ESTERNO
Legislazione
Mano invisibile
INTERNO
Contrattualismo kantiano
Contrattualismo hobbesiano
Figura 4.1. Relazioni tra etica ed economia
La matrice individua due dimensioni: la prima è quella relativa alla natura delle restrizioni
morali mentre la seconda riguarda i modi in cui le restrizioni sono definite. I vincoli morali
possono essere interni o esterni. Sono interni quando a definirli sono gli agenti stessi a cui è
demandato l'obbligo di osservarli. Sono invece esterni quando si impongono agli agenti senza
che questi abbiano avuto modo di contribuire alla loro definizione. Kantiani ed hobbesiani
sottoscrivono approcci internalisti che derivano le norme da osservare dall'accordo ipotetico di
agenti razionali idealmente situati. L'economia neo-classica e quella neo-istituzionale difendono
una posizione esternalista che concepisce le regole morali come un sottoprodotto del mercato. A
sua volta, il processo che porta alla definizione dei vincoli può essere cooperativo, quando
rappresenta la conclusione di un processo deliberativo intenzionale, o competitivo, se dipende
67
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
dall'azione decentrata degli agenti. Coloro che fanno appello alla legge (neo-istituzionalismo) o
al consenso universale degli agenti (kantiani) avocano una procedura cooperativa. All'opposto,
neo-classici e hobbesiani invocano gli effetti benefici della competizione. L'EDA persegue un
l'approccio internalista del tipo sottoscritto da kantiani e hobbesiani. Secondo questo approccio i
problemi etici connessi con l'operare del mercato e dell'impresa devono essere risolti su base
consensuale. Gli strumenti normativi individuati non fanno riferimento né all'operare di mani
invisibili benefiche né all'intervento di autorità statali benevolenti ma vedono l'autolegislazione
come il corso d'azione privilegiato. Il compito dell'EDA consiste quindi nel definire e
implementare contratti sociali parziali che integrano il contratto sociale generale sottostante una
società bene ordinata (cfr. Maffettone, 2001a).
L'EDA propone due strumenti normativi principali: i codici e i comitati etici d'impresa.
Il codice etico è un documento dove sono esposti i principi nei quali l'impresa si riconosce e le
norme comportamentali che i vari soggetti interni sono chiamati ad osservare. L'adozione di un
codice etico ha diversi scopi:
•
•
•
•
rendere evidenti le implicazioni morali relative a scelte individuali complesse
indicare la prospettiva che il management deve adottare per valutare corsi d'azione
alternativi
stabilire i limiti della responsabilità sociale dell'impresa
fungere da strumento di garanzia cui richiamarsi per resistere a comandi ingiusti
I comitati etici rappresentano invece la corte d'appello ultima a cui rivolgersi per le violazioni,
vere o presunte, del codice stesso. La funzione dei comitati consiste nell'accertare le violazioni
del codice e nel rendere queste di dominio pubblico. Kantiani e hobbesiani vedono l'azione
giudicante e quella esecutiva come separate. Il compito di applicare le sanzioni ricade
sull'apparato gerarchico interno piuttosto che sui comitati. A questi non spetta il compito di
sostituirsi alle attuali linee di comando interne all'impresa, ma di esprimere giudizi imparziali e
garantire un uso pubblico delle informazioni. L'effettività dei codici dipende infatti non dalla
capacità di sanzione dei comitati, ma dall'azione di due elementi: i costi reputazionali che le
violazioni producono e la forza motivazionale dei codici stessi.
EDA e teoria dell'impresa I: la responsabilità sociale dell'impresa
Un problema con cui l'EDA si è confrontata sin dall'inizio riguarda la possibilità di attribuire
responsabilità morale alle imprese2. La risposta al quesito è di notevole importanza perché le
attività delle imprese hanno una ricaduta sull'ambiente nel quale operano; intendendo
quest'ultimo sia come l'insieme delle persone che hanno relazione con l'azienda, sia le altre
aziende, sia i terzi (persone e ambiente naturale) sottoposti alle esternalità dell'impresa.
L'attribuzione di responsabilità morale è diversa da quella di responsabilità giuridica. Quello che
ci interessa determinare non è solo come la responsabilità per un danno arrecato si trasferisce su
determinati individui, ma se è possibile attribuire una responsabilità morale precisa all'impresa
per sé. La discussione in materia ha preso due direzioni. La prima si pone la questione se sia
possibile attribuire personalità morale all'impresa e quindi responsabilità morali dirette. La
seconda considera invece la possibilità di attribuire responsabilità morale indipendentemente dal
fatto che l'impresa abbia o meno personalità morale.
Iniziamo con il discutere le teorie che hanno negato che possa esistere qualcosa come
una responsabilità morale dell'impresa. In un saggio pubblicato agli inizi degli anni '70 il
filosofo John Ladd sostiene che non è possibile attribuire alle imprese alcun tipo di
responsabilità morale. La tesi di Ladd è che le imprese sono delle organizzazioni burocratiche le
quali operano sulla base di una mera razionalità strumentale. Per l'autore ciò significa che è del
tutto improprio attribuire diritti e doveri ad una impresa, o cercare di identificare supposti
obblighi morali che i dipendenti hanno verso l'impresa e, tanto meno, limiti e divieti alla
possibilità di interferenza dello stato negli affari aziendali. In aggiunta a questa tesi che
possiamo chiamare ontologica, Ladd fa anche notare come l'accettazione unilaterale di vincoli
68
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
morali all'agire economico da parte di un'impresa sarebbe autodistruttivo. In un'economia di
mercato l'accettazione di una logica diversa da quella della massimizzazione dei profitti
porterebbe, per Ladd, all'inevitabile riduzione delle quote di mercato dell'azienda con gravi
conseguenze per la capacità di sopravvivenza della stessa (cfr. Ladd, 1970; 1984). Secondo
questo punto di vista, all'interno di un mercato competitivo non opera la mano invisibile
benefica invocata dagli economisti classici, ma una versione darwinista della Gresham's Law, la
quale fa sì che l'impresa cattiva scacci quella buona3. In questo contesto l'intervento legislativo
pubblico rappresenta il solo mezzo per imporre alle imprese l'osservanza di comportamenti
moralmente accettabili.
Fra coloro che contrariamente a Ladd sostengono la possibilità di attribuire
responsabilità morale alle imprese abbiamo il filosofo Peter French (1979). Anche per French la
moderna società per azioni è una organizzazione burocratica che opera per mezzo di una
razionalità strumentale. Diversamente da Ladd, French vede però l'agire burocratico-razionale
come la condizione necessaria per perseguire fini che sono indipendenti dalle volontà dei
singoli. L'impresa ha quindi una personalità autonoma rispetto a quella dei membri e
responsabilità morali chiaramente identificabili. Per Ken Goodpaster (1983), l'attribuzione di
responsabilità morale non deriva dall'essere l'impresa una persona morale, ma dall'identità fra
processo deliberativo dell'individuo e processo deliberativo dell'organizzazione. Secondo
Goodpaster gli elementi che caratterizzano un processo deliberativo responsabile sono quattro:
1) percezione; 2) ragionamento; 3) coordinazione; 4) attuazione. Questi elementi sono necessari
per la realizzazione di qualsiasi azione moralmente responsabile. Ciò consente a Goodpaster di
definire un 'principio di proiezione' il quale afferma che: "non solo è appropriato descrivere
l'organizzazione in analogia con l'individuo, ma è anche appropriato normativamente rafforzare
le attitudini morali nell'organizzazione in analogia con l'individuo" (citato in Sacconi, 1991:
126).
Le tesi di French e di Goodpaster hanno sollevato non pochi dubbi. Una prima serie di
obiezioni ha avuto come obiettivo le assunzioni oliste che caratterizzano le teorie dei due autori.
Nel modello di French, per esempio, risulta estremamente problematico attribuire
'intenzionalità' alle azioni e ai comportamenti dell'impresa. Contro Goodpaster viene spesso
fatto notare come il riferimento alla sola struttura formale delle decisioni non tiene nel dovuto
conto le relazioni informali esistenti all'interno dell'organizzazione e l'influenza che queste
hanno nel determinare i corsi d'azione dell'impresa. La conclusione è che in assenza di una
chiara 'intenzionalità' del processo decisionale l'attribuzione di responsabilità risulta
problematica. Una replica plausibile a queste obiezioni consiste nel connettere l'eventuale
responsabilità morale delle imprese con una presunta libertà di scelta. Se le imprese hanno la
libertà di determinare gli obiettivi da perseguire, ne consegue che le stesse possono essere
ritenute responsabili per il modo in cui tale libertà viene esercitata. Una libertà di scelta simile
rappresenta però solo una condizione necessaria ma non sufficiente per potere attribuire
personalità morale. Come osserva Rita Manning (1984), la condizione di sufficienza
richiederebbe l'abilità di provare piacere e pene; un'abilità che nel caso delle imprese è del tutto
metaforica. Il tenore delle obiezioni ha spinto diversi autori ad abbandonare l'idea che per
attribuire responsabilità morale alle imprese necessita una previa attribuzione di personalità
morale.
Per Lorenzo Sacconi (1991) un approccio che meglio riesce ad evitare le critiche rivolte
alle teorie precedenti è quello contrattualista. La prospettiva contrattualista sottoscritta da
Sacconi è derivata da quella neo-hobbesiana di David Gauthier. Secondo questa prospettiva
l'impresa economica rappresenta un'istituzione cooperativa tramite cui gli individui perseguono
piani di vita personali. La giustificazione morale dell'impresa dipende quindi dall'essere
mutuamente vantaggiosa. In questo schema concettuale, il problema della responsabilità risulta
equivalente a quello della giustificazione dell'autorità e si riconnette alle discussioni relative al
problema della giustizia sociale analizzate nella prima parte. L'obiettivo del contrattualismo
neo-hobbesiano di Sacconi è duplice: il primo consiste nell'indicare il punto di vista archimedeo
dal quale valutare il comportamento dell'impresa, mentre il secondo si impegna a dimostrare
69
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
come l'analisi morale sia conciliabile con l'efficienza economica. Per Sacconi il punto di vista
archimedeo non può coincidere con quello degli azionisti ma deve riflettere criteri di giustizia
alla cui definizione concorrono in modo equo tutti gli stakeholders; cioè a dire, i gruppi e gli
individui che influenzano o sono influenzati dall'agire dell'impresa4. L'adozione da parte delle
imprese di un punto di vista simile equivale per Sacconi all'adozione di una strategia di
massimizzazione vincolata che premia la reputazione dell'impresa e assicura benefici di lungo
periodo superiori a quelli garantiti da una massimizzazione diretta dell'utilità attesa.
Una prospettiva contrattualista ispira anche l'approccio di Christopher McMahon
(1995). Per McMahon il problema morale dell'impresa consiste nella giustificazione dell'autorità
manageriale come potere delegato. "La giustificazione dell'autorità manageriale", afferma
l'autore britannico, "deve derivare dallo stesso elemento normativo che giustifica l'autorità degli
stati a governare: il principio di razionalità collettiva" (1995: 297). Il principio avocato
stabilisce che è contrario alla ragione non partecipare ad imprese cooperative che sono
mutuamente benefiche e attribuisce alle aziende l'obbligo di perseguire valori sociali che hanno
un'importante rilevanza morale. Per McMahon il conflitto tra profitto e valori sociali
moralmente rilevanti rappresenta un falso problema. Qualora un conflitto simile emerge ad
avere priorità devono essere sempre i secondi. Esiste invece un reale conflitto etico quando il
management deve scegliere tra corsi d'azione che perseguono valori sociali alternativi. In questi
casi il management è chiamato ad operare una valutazione morale ponderata dei vari corsi
d'azione da un particolare punto di vista. A differenza di Sacconi, questo punto di vista non
coincide con la prospettiva degli stakeholders presi nella loro totalità. Per l'autore britannico il
punto di vista morale imparziale è connesso al rapporto fiduciario che il management ha con un
sottoinsieme di stakeholders. Siccome per McMahon il management è l'agente fiduciario dei
lavoratori, questo è il punto di vista da adottare. Tutti gli altri stakeholders la cui prospettiva
non è tenuta in considerazione hanno in questo contesto solo un diritto ad essere trattati
equamente5.
L'approccio contrattualista risulta superiore a quello proposto da coloro che vogliono
attribuire in precisa personalità morale all'impresa per almeno due ragioni. La prima si
riconnette alle critiche sviluppate nella prima parte contro comunitari e humeani. Le varie
discussioni epistemologiche su io e identità personale non solo risultano refrattarie a soluzioni
univoche, ma sollevano notevoli dispute riguardo alle implicazioni normative che da queste si
possono derivare. Il tentativo di dare fondazione sicura a principi normativi di carattere intuitivo
attraverso l'appello a teorie epistemiche avalutative risulta particolarmente controverso nel caso
dell'impresa dove non è nemmeno chiaro la natura dell'identità attribuibile a questa. La seconda
ragione ha valenza pratica e riguarda l'obiettivo di sviluppare una principled governance
effettiva. L'approccio contrattualista è, secondo il nostro punto di vista, in grado di connettere i
vari problemi sollevati dall'esercizio dell'autorità entro uno schema interpretativo unitario. Ciò
consente l'elaborazione di un quadro normativo coerente all'interno del quale sistematizzare le
diverse forme in cui l'autorità viene esercitata a livello sociale e la definizione dei doveri a
questa connesse. L'approccio contrattualista può essere quindi esteso a tutte le istituzioni
intermedie (quali l'impresa, le associazioni professionali e quelle di categoria) le quali
esercitano notevoli poteri di fatto, ma mancano di una adeguata esplicitazione dei principi su cui
tale esercizio si basa. La definizione del contratto sociale parziale che lega le varie istituzioni
intermedie all'autorità statale avrebbe quindi il compito di colmare la lacuna e chiarire i vincoli
entro cui l'esercizio di tale autorità è legittimo.
EDA e teoria dell'impresa II: l'autorità manageriale
Connesso al problema della responsabilità sociale è la questione relativa all'esercizio
dell'autorità manageriale all'interno dell'impresa stessa. Rispetto al caso precedente, qui al
problema morale si affianca quello dell'efficienza produttiva. La discussione si articola quindi
su due livelli: quello riguardante la legittimità del potere delegato del manager e quello
riguardante gli effetti motivazionali che diverse forme di delega hanno sugli agenti che
70
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
occupano i vari ruoli interni all'impresa. L'obiettivo dell'EDA è quello di dimostrare come sia
possibile colmare i limiti teorici in cui si dibattono le teorie economiche dell'impresa e
sviluppare migliori relazioni fiduciarie tra i vari agenti economici operanti nell'impresa. Anche
in questo caso l'approccio contrattualista ha l'ambizione di combinare questioni riguardanti
legittimità ed efficienza in uno schema normativo unitario e proporre soluzioni innovative.
Per la teoria economica la nascita della moderna impresa capitalista rappresenta una
soluzione razionale ai fallimenti del mercato6. L'impresa integra al suo interno una pluralità di
unità produttive che in un mercato competitivo perfetto avrebbero vita indipendente attraverso
linee di comando che convergono nel 'boss'. La figura del boss rappresenta l'autorità sovrana
che detiene il potere di decidere i modi e le forme in cui l'attività produttiva deve essere portata
avanti. Le relazioni fra il boss e gli agenti che occupano i vari ruoli interni all'impresa sono
definiti attraverso contratti incompleti che attribuiscono potere decisionale solo al primo. A sua
volta il potere del boss deriva dalla relazione più o meno diretta che questi ha con la proprietà;
tale per cui la figura del boss o coincide con quella del padrone, o con l'agente fiduciario del
padrone: il management. L'analisi del processo che porta all'emergenza dei diritti di proprietà e
dei rapporti di autorità gerarchica è quindi di notevole interesse per comprendere potenzialità e
limiti delle giustificazioni avanzate dalla teoria neo-classica e di quella neo-istituzionale.
La teoria economica neo-classica spiega l'emergere dell'autorità e del diritto di proprietà
come dovuta all'esigenza di salvaguardare i soggetti economici esposti allo sfruttamento della
controparte. La teoria dell'agenzia descrive le relazioni di mercato per mezzo delle interazioni
strategiche che hanno luogo tra un principale ed un agente. La caratteristica più importante della
relazione principale-agente è data dall'asimmetria informativa a favore dell'agente. Quest'ultimo
possiede infatti informazioni precise sia sul tipo di abilità professionale sul quale può contare
sia sul processo produttivo e può utilizzare tale conoscenza per sfruttare la controparte.
L'attribuzione del titolo di proprietà (e del potere a questo connesso) al principale viene quindi
spiegato come avente la funzione di proteggere quest'ultimo dall'opportunismo dell'agente. In
questo modo ogni assetto proprietario deriva la propria giustificazione dal fatto che risulta una
risposta efficiente ai limiti del mercato competitivo.
L'analisi neo-istituzionale ha ulteriormente sviluppato questo modello interpretativo per
esplicare il processo che ha portato all'evoluzione dell'impresa capitalistica. Come per le teorie
humeane, l'analisi neo-istituzionale parte dall'assunto che gli agenti economici hanno una
limitata capacità di acquisire e gestire informazioni rilevanti. L'assunzione di razionalità limitata
fa sì che i contratti di lungo periodo siano incompleti. A determinare l'incompletezza
concorrono diverse cause:
(a) l'impossibilità di prevedere tutti gli eventi futuri e di stabilire una clausola per ogni evento
(b) l'impossibilità di osservare ogni prestazione stabilita
(c) l'impossibilità di verificare tutte le prestazioni e di procedere alla sanzione penale nel caso di
violazione delle nome contrattuali
La contrattazione riguarda presso investimenti specifici che legano uno dei contraenti all'altro in
modo che una risoluzione non prevista del contratto risulta estremamente costosa per chi ha
effettuato l'investimento. Gli agenti economici sono ovviamente soggetti autointeressati e ciò
conduce ad una interazione strategica del tipo dilemma del prigioniero con relativi problemi di
subottimalità.
In questo contesto l'attribuzione di titoli di proprietà al principale ha effetti trascurabili.
L'esistenza di contratti incompleti, investimenti specifici e asimmetrie informative rende il
monitoraggio e l'implementazione dei diritti di proprietà da parte di una autorità esterna
estremamente difficile. Ogni tentativo di rendere un contratto quanto più completo possibile
comporta, per altro verso, costi addizionali. Questi sono di due tipi:
1) costi di contrattazione ex ante, che riguardano la possibilità di prevedere tutti gli eventi futuri
(punto (a) sopra) e quelli relativi alla scrittura del contratto
2) costi di contrattazione ex post riguardanti l'osservazione del servizio ricevuto, la valutazione
71
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
dello stesso, la possibilità di stabilire e applicare le sanzioni previste (punti (b) e (c))
Il risultato complessivo è quindi quello di rendere la strategia non-cooperativa la strategia
dominante. In contesti siffatti l'unico corso d'azione razionale consiste infatti nel rifiutarsi di
sottoscrivere un contratto che espone colui che lo sottoscrive all'opportunismo della
controparte7.
La soluzione economica per questi fallimenti del mercato consiste nell'integrazione
verticale delle singole unità produttive. Siffatta integrazione implica due cose. La prima consiste
nel sostituire la rete di relazioni contrattuali tra produttori indipendenti in una struttura
gerarchica dove il titolare dei diritti di proprietà ha l'autorità legale di stabilire termini e modi in
cui gli agenti devono operare. La seconda novità introdotta dall'integrazione verticale consiste
appunto nel trasformare il contratto di lavoro in una relazione di autorità tra principale e agente
dove al primo è dato potere di comando. Nei casi dove esiste una separazione tra proprietà e
gestione il governo dell'impresa passa al supervisore, il quale rappresenta l'agente fiduciario del
principale. In questo resoconto situazioni di monopolio o di oligopolio rappresentano risposte
alle particolari asimmetrie informative presenti nel mercato e al conseguente rischio di
opportunismo. Il modello neo-istituzionale richiamato ha inoltre implicazioni normative di
estrema importanza. Se l'integrazione verticale è in grado di risolvere i problemi creati dalle
varie forme di opportunismo, è chiaro che le soluzioni avocate dall'EDA risultano superflue. Per
altro verso, se le soluzioni istituzionali sono insufficienti o hanno costi elevati, l'EDA finisce per
assumere un ruolo di primaria importanza per un effettivo governo dell'impresa.
Consideriamo per prima cosa l'analisi dei diritti di proprietà proposta dalla teoria
dell'agenzia. Da un punto di vista esplicativo tale analisi è affetta da vizi metodologici simili a
quelli notati a proposito delle spiegazioni funzionali. L'idea che i diritti di proprietà emergono
perché sono in grado di promuovere una maggiore efficienza sociale confonde le ragioni
relative alle origini di una istituzione con la funzione svolta dall'istituzione stessa. Il dilemma
del prigioniero discusso nella prima parte rappresenta un esempio paradigmatico di come le due
logiche possono divergere. Nel gioco la soluzione cooperativa massimizza l'utilità collettiva a
cui i giocatori possono aspirare. Sfortunatamente però il ragionamento strategico degli agenti
porta gli stessi verso la strategia non-cooperativa: la sola strategia dominante del gioco. Da un
punto normativo l'analisi dei diritti portata avanti dalla teoria dell'agenzia incorre nei difetti
notati da Rawls a proposito dell'utilitarismo classico e quelli discussi in merito all'utilitarismo
della regola di Hume. Schemi di giustificazione del genere hanno il difetto di non prendere sul
serio né la separatezza delle persone né la legittimità delle questioni di giustizia che una
distribuzione iniqua dei diritti di proprietà solleva. Nel contesto dell'impresa ciò ha inoltre
notevoli implicazioni per quanto riguarda l'effettività dell'azione manageriale. Un management
che agisce solo per conto e nell'interesse della proprietà risulterebbe del tutto ineffettivo a
motivare i lavoratori all'osservanza volontaria degli accordi contrattuali. Sarebbe infatti
percepito come parziale e avrebbe una ridotta legittimità morale.
Per l'EDA l'esercizio legittimo dell'autorità manageriale richiede di individuare il punto
di vista morale dal quale valutare la scelta fra corsi d'azione alternativi. L'approccio
contrattualista nega che tale punto di vista morale possa semplicemente coincidere con quello
della proprietà e suggerisce di assumere una prospettiva che tenga nel dovuto rispetto gli
interessi (e i diritti) di tutti gli agenti coinvolti nelle decisioni manageriali. Occorre comunque
notare che a differenza del contrattualismo filosofico discusso prima, quello avocato dall'EDA è
un contrattualismo parziale integrativo (cfr. Donaldson e Dunfee, 1995). L'ambito normativo nel
quale opera l'impresa è parte integrante dello spazio morale definito dal contratto sociale
generale. Nel procedere alla definizione del punto di vista morale adeguato, il management deve
quindi tenere conto dei principi normativi sottoscritti dalla comunità morale dalla quale deriva
l'autorità ultima. Questo riferimento al contratto sociale generale ha un duplice significato. Da
una parte serve per dare consistenza alle richieste normative connesse con i diversi ruoli che gli
individui occupano in società. Dall'altra si rende necessario per evitare due opposte obiezioni in
cui può incorrere l'EDA: quella di imperialismo culturale e quella di relativismo morale8.
72
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
La teoria neo-istituzionale ha inoltre stimolato l'analisi comparata dell'efficienza relativa
tra soluzioni istituzionali e soluzioni etiche. Da un punto di vista prettamente economico
soluzioni efficienti sono quelle che riescono a ridurre i costi di transazione con cui si confronta
l'impresa9. La questione riguarda quindi quale fra queste due soluzioni è quella che implica
minori costi di transazione. Per Lorenzo Sacconi (1991) l'integrazione verticale e il governo
manageriale dell'impresa rappresentano una soluzione istituzionale inferiore rispetto a quella
etica. Per prima cosa Sacconi nota come l'istituzione di un manager che supervisiona il processo
produttivo ha un costo economico non irrilevante e rappresenta perciò una soluzione
essenzialmente second best. In aggiunta l'autore mette in evidenza come in un contesto dove
esiste una separazione tra proprietà e controllo sia possibile assistere l'emergere di coalizioni
collusive tra supervisore e sottoinsiemi degli agenti. Ciò comporta una distorsione del sistema
degli incentivi e quindi perdite di efficienza allocativa e produttiva.
Secondo Sacconi un sistema di vincoli morali razionali è immune da questi problemi e
può favorire l'efficienza dell'impresa. L'operare sulla base di principi etici imparziali che
proteggono sia i titolari di diritti di proprietà sia coloro che ne subiscono l'autorità rappresenta
per Sacconi una strategia condizionale in grado di promuovere una effettiva cooperazione intra
e interaziendale. La razionalità di un comportamento simile è data dal fatto che il decisore
accetta di cooperare con quanti scelgono una strategia simile, ma defeziona in presenza di
massimizzatori diretti. La novità rispetto al modello di Gauthier da cui l'idea è derivata risiede
nel fatto che in questo ambito l'adozione di una strategia condizionale simile equivale a
sottoscrivere un codici etico: è cioè il frutto di un atto deliberativo pubblico che rende l'impresa
trasparente. Il risultato è quindi quello di favorire l'interazione fra imprese e agenti che adottano
strategie condizionali e l'emergere di ciò che i teorici dei giochi chiamano equilibri correlati.
Exit, voice ed autoregolazione
Concludiamo l'analisi teorica discutendo il significato e la rilevanza dell'autoregolazione
rispetto all'azione sindacale e politica tradizionali. E' l'EDA uno strumento alternativo o
complementare rispetto all'azione sindacale? E' l'EDA meno esposta ai problemi di azione
collettiva che affliggono i movimenti politici tradizionali? Fatto ciò analizziamo le potenzialità
dell'autoregolazione aziendale come strumento di principled governance rispetto all'intervento
legislativo dello stato. Quando l'autoregolazione risulta più effettiva della legge? Come
combinare azione legislativa e autoregolazione in un quadro normativo coerente?
L'approccio etico è distinto da quello sindacale per almeno due ragioni. Mentre l'azione
sindacale ha come obiettivo il rafforzamento e lo sfruttamento del potere contrattuale dei
lavoratori, l'EDA ricerca criteri morali universali sui quali basare le scelte individuali.
Un'impresa le cui politiche riflettono il potere contrattuale di uno degli agenti è, per l'EDA,
incapace di sviluppare il sostegno volontario di coloro che ne sono sistematicamente penalizzati.
Politiche siffatte sarebbero non solo parziali, ma anche instabili. Come visto nel discutere
McMahon, anche nel caso in cui l'approccio normativo sottoscritto prescrive al management di
assumere il punto di vista dei lavoratori, le ragioni che giustificano ciò hanno una natura morale
e non derivano dal potere contrattuale posseduto da questi ultimi. La seconda ragione ha a che
fare con la definizione del punto di vista morale appropriato. Le istituzioni sindacali
rappresentano uno dei soggetti coinvolti nell'impresa e hanno responsabilità dirette solo nei
confronti dei loro rappresentati. In società con un'estesa divisione del lavoro e dove esiste un
genuino pluralismo di opinioni, è implausibile assumere che il punto di vista morale possa
coincidere con quello di una classe sociale o di una categoria professionale. Approccio sindacale
e approccio morale fanno appello a principi d'azione distinti e sono quindi alternativi. Esiste
però un punto di convergenza significativo. In entrambi i casi si ritiene che mercato e aziende
necessitino di regole e che l'elaborazione di regole giuste richieda la partecipazione attiva anche
dei lavoratori. Per l'EDA questo equivale ad attribuire ai lavoratori un diritto di voice nella
gestione dell'impresa. Come sottolineato da Albert Hirshmann (1970), appropriate forme di
voice possono contribuire al governo dell'impresa in modi più effettivi rispetto a quelle di exit10.
73
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
L'utilizzo di strumenti di voice può inoltre contribuire a ridurre i costi d'azione collettiva
che affliggono i movimenti politico-sindacali tradizionali. Come evidenziato da Emile
Durkheim (1950) un maggiore bilanciamento tra forme di partecipazione diretta e indiretta nei
corpi intermediari (tra i quali rientrano anche le organizzazioni sindacali e partitiche) avrebbe
un effetto positivo duplice: ridurrebbe le strozzature burocratiche che si oppongono alla
comunicazione tra centro e periferia e rafforzerebbe i legami solidaristici fra i vari attori sociali.
Gli strumenti di voice rappresenterebbero quindi una alternativa alla giuridificazione delle
relazioni industriali promossa dai meccanismi consociativi e un antidoto contro la
burocratizzazione delle organizzazioni politico-sindacali11.
L'autoregolazione rappresenta inoltre uno strumento che garantisce una maggiore libertà
dell'impresa dall'intervento normativo dello stato. L'azione dello stato non solo manca delle
informazioni e della tempestività necessaria per regolamentare settori in continua
trasformazione, ma produce la giuridificazione dei rapporti economici. Gli effetti perversi
dell'azione statale risultano ancora più gravi nei regimi democratici dove, come affermano i
liberali, il potere dei numeri si sostituisce a quello della ragione. Come vedremo nel prossimo
capitolo, le teorie politiche liberali insistono nell'affermare che le istituzioni democratiche non
rappresentino un soggetto neutrale impegnato a dirimere le controversie fra privati in modo
imparziale. Al contrario, le politiche pubbliche sono viste comeil risultato di equilibri strategici
fra coalizioni di individui e gruppi sociali autointeressati. Da ciò la conclusione che le politiche
pubbliche rappresentano l'imposizione della volontà della coalizione vincente su quella
minoritaria. L'EDA sottoscrive la sostanza delle critiche liberali all'intervento pubblico, ritiene
comunque illusorio affidarsi al libero mercato e preme per l'elaborazione di forme di
regolamentazione flessibile. I codici etici hanno così il compito di predisporre una cornice
normativa che permetta lo sviluppo di un governo dell'impresa effettivo entro un quadro
legislativo nazionale e trasnazionale unitario. Quali contratti sociali parziali i codici assicurano
aLl'autorità manageriale la legittimità necessaria per ridurre i costi di monitoraggio e il ricorso a
sanzioni esterne. Quale parte integrante del contratto sociale generale i codici sollevano lo stato
da un intervento diretto nella regolamentazione delle relazioni economiche e riducono i costi di
governo a questi associati.
L'autoregolazione pone però due ulteriori problemi. Il primo riguarda l'identificazione
dei soggetti a cui è demandata l'elaborazione dei codici. Come per il contrattualismo filosofico
discusso nella prima parte, l'EDA ritiene che un contratto ipotetico sia superiore ad un contratto
reale. La scelta di un codice etico d'impresa non richiede dunque un atto deliberativo pubblico a
cui partecipano tutti gli stakeholders, ma l'adozione di procedure che tengono nella dovuta
considerazione gli interessi di tutti gli stakeholders. Da questo prospettiva la definizione e
promulgazione dei codici etici può essere demandata al solo management senza per questo
inficiarne la legittimità. Due altre ragioni sono spesso addotte per giustificare il codice quale
atto unilaterale del management. La prima considera i costi connessi col processo deliberativo:
la consultazione di tutti gli stakeholders richiederebbe tempi e costi eccessivi per piccole e
medie imprese. La delega assegnata al management avrebbe quindi lo scopo di ridurre i costi
connessi con l'istituzione di assemblee costituzionali e pratiche referendarie. La seconda ragione
fa riferimento alla storia costituzionale. Come per le costituzioni novecentesche, un codice
'concesso' non sarebbe affatto inutile ma avrebbe il potere di definire i limiti entro cui la
discrezionalità del management può essere esercitata. Un codice octoyée, per esempio, può
risultare un ottimo strumento di garanzia per resistere comandi ingiusti e smascherare abusi di
potere.
Un secondo tipo di problema riguarda la forza motivazionale che può avere uno
strumento normativo autoimposto. La questione ha notevole rilevanza sia dal punto di vista
teorico sia empirico. Sulla scia di Hume, la domanda a cui l'EDA deve rispondere è: quali sono
le ragioni che garantiscono l'osservanza del codice quando una violazione procura notevoli
benefici? Le risposte avanzate sono di due tipi. La prima segue il modello contrattualista
hobbesiano proposto da Gauthier e considera le ricadute che le violazioni del codice hanno sulla
reputazione dell'impresa. Il codice rappresenta un vincolo morale razionale, uno strumento che
74
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
rende pubblico l'impegno dell'impresa a perseguire una strategia di 'massimizzazione vincolata'
e da ai massimizzatori vincolati la possibilità di riconoscersi ed evitare problemi di
coordinazione. Un'azienda che viola sistematicamente le regole che lei stessa si è data proietta
un'immagine di inaffidabilità che può risultare estremamente deleteria. In un contesto
economico dove l'autorità pubblica stabilisce incentivi che premiano la correttezza e dove
imprese e associazioni professionali e di categoria accettano l'autoregolazione, gli effetti
reputazionali garantiti dall'osservanza/violazione del codice porterebbero quindi ad un sistema
di self-enforcement. Il secondo tipo di risposta è più in linea con la psicologia morale humeana
adottata da Rawls. Principi giusti ed equi hanno per Rawls la forza di sviluppare il senso di
giustizia di coloro a cui si applicano. I codici etici, se adeguatamente strutturati, potrebbero
perciò favorire lo sviluppo di forme di lealtà che gli incentivi monetari e l'appello
all'autointeresse non riescono ad attivare o a sostenere.
La lettura liberale dell'EDA appena esposta è stata oggetto di diverse obiezioni. La
maggiore parte di queste ripetono le critiche avanzate contro le teorie liberali dal movimento
repubblicano discusse nel capitolo conclusivo. Alla base di queste obiezioni c'è ciò che i
repubblicani percepiscono come il pregiudizio liberale contro la politica. Il pensiero liberale
vede l'ambito politico come geneticamente incapace a generare un ordine sociale che non sia un
mero modus vivendi. Le prescrizioni prodotte attraverso procedure politico-deliberative sono
quindi sentite come moralmente arbitrarie e/o oppressive. Nel campo dell'etica pubblica ciò ha
prodotto un risultato potenzialmente paradossale: l'esaltazione della nozione di autonomia
individuale e del principio di autodeterminazione contemporaneamente al rifiuto a concedere
valore normativo alcuno dalla partecipazione democratica e all'azione politica.
Nelle etiche applicate un atteggiamento simile ha portato all'esaltazione dei comitati di
esperti rispetto al diretto coinvolgimento dei soggetti interessati dall'autoregolamentazione. Il
sospetto che questo sia dovuto ad un pregiudizio nasce dal fatto che il coinvolgimento diretto
degli agenti viene negato anche quando questo è fattibile e può risultare benefico. Come
argomentato nella conclusione, la partecipazione dei 'clienti' al processo deliberativo ha non
solo effetti educativi notevoli, ma è un elemento motivazionale di primaria importanza. Canali
di voice sono inoltre indispensabili per accedere a informazioni che altrimenti resterebbero
private e, quindi, del tutto inutilizzabili. Come vedremo sotto, il coinvolgimento diretto dei
'clienti' rappresenta infine un mezzo per resistere il tentativo di trasformare l'autoregolazione
etica in uno strumento acritico funzionale al mantenimento di forme di potere consolidato.
L'EDA COME DISCIPLINA ACCADEMICA E PRATICA AZIENDALE
All'inizio degli anni '90 Richard DeGeorge introduce la discussione sullo sviluppo dell'EDA
come disciplina d'insegnamento con la seguente metafora: "Come nel matrimonio tra Giulietta e
Romeo, nessuna delle discipline madri [filosofia morale ed economia] era favorevole all'unione.
Diversamente da quanto accaduto a Giulietta e Romeo la relazione ha prosperato e dato i suoi
frutti, e i bambini sono ora tollerati -- se non adorati -- da entrambi i nonni" (1991: 42). Nel
corso degli anni '80 l'EDA non solo ha finito per essere istituzionalizzata nelle business school
dell'America del Nord, ma ha rappresentato il fiore all'occhiello della rivoluzione manageriale
occorsa in quegli stessi anni. Un indice del successo è dato dal fatto che la disciplina è
fuoriuscita dall'ambito strettamente accademico e viene ora promossa nei vari corsi di
formazione aziendale e professionale operati dalle imprese stesse. Allo stesso tempo
corporations e fondazioni hanno messo a disposizioni ingenti somme destinate alla ricerca e
istituito centri di eccellenza all'interno delle università più prestigiose (cfr. D'Orazio, 2001).
Siffatto sviluppo ha determinato, tra le altre cose, la trasformazione del corpo docente, il quale
tende ora a essere composto da persone la cui formazione è in EDA, piuttosto che in economia o
in filosofia. DeGeorge rimane comunque guardingo riguardo alla meteorica ascesa della
disciplina e mette in guardia verso possibili trappole in cui la stessa può cadere.
Per l'autore americano il passaggio generazionale che si osserva nel corpo docente non
75
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
ha portato ad un innalzamento della qualità della ricerca, ma ha anzi favorito un certo
dilettantismo. Coloro i quali hanno lanciato l'EDA negli anni '70 condividevano due
caratteristiche principali. In primis, si trattava di persone con un profilo accademico tradizionale
ma che avevano interessi decisamente interdisciplinari che li portavano ad un confronto serrato
con le ricerche sviluppate nelle discipline affini. In secondo luogo, si trattava di persone che
sottoscrivevano un approccio critico e che erano interessate ad esplorare le implicazioni pratiche
delle teorie normative emerse a seguito del lavoro di Rawls (1971). La nuova generazione di
docenti, secondo DeGeorge, tende invece a concentrarsi su tematiche ristrette e non è interessata
a portare avanti ricerche aventi un genuino approccio interdisciplinare. Coloro che provengono
da strutture formative aziendali (o non accademiche) sono inoltre interessati solo
all'elaborazione di programmi di ricerca e pedagogici spendibili nel mercato della formazione.
Hanno quindi un orientamento e una predisposizione per la consulenza piuttosto che per l'analisi
critica. Si tratta in definitiva di una generazione che predilige l'approccio manageriale a quello
accademico e non è culturalmente in grado di resistere ai tentativi di cooptazione posti in essere
dalle imprese.
Un secondo nodo critico individuato da DeGeorge riguarda l'influenza del mondo
dell'impresa sul modo d'intendere la disciplina stessa. A differenza di quanto occorso nel recente
passato, l'EDA degli anni '90 dimostra una spiccata tendenza per la ricerca empirica piuttosto
che per l'analisi normativa (cfr. Rossouw, 2001). A premere per una revisione in senso empirico
della disciplina hanno contribuito due fattori. Il primo riguarda il pregiudizio positivistico
dominante le business schools e l'ambiente manageriale americano. Le difficoltà con le quali si
confronta l'EDA sono state spesso imputate al fatto che la disciplina viene percepita come
scarsamente scientifica. Un'accentuazione della componente empirica rispetto a quella
speculativa sarebbe così necessaria per rendere l'EDA più scientifica e appetibile. Il secondo
fattore che preme per una revisione in senso empirico della disciplina è l'influenza esercitata
dalle corporations e dalle fondazioni private. I fondi messi a disposizioni dal settore privato
sono stati indirizzati esclusivamente verso approcci micro riguardanti le responsabilità che i
singoli hanno verso l'impresa. Esclusi dai fondi sono invece gli approcci meso e macro che si
confrontano con questioni quali: E' il capitalismo moralmente giustificabile? Sono le
corporations moralmente giustificabili? E' chiaro che le imprese non hanno un diretto interesse
verso queste tematiche e tendono ad escluderle per dare spazio ad altre che hanno una ricaduta
manageriale diretta.
Le distorsioni provocate dalle corporations sono state messe in luce dall'intervento della
Arthur Andersen a favore del metodo dei casi avvenuto nel 1988. Nel mettere a disposizione di
coloro interessati a produrre materiale didattico basato sullo studio dei casi ben $5 milioni di
dollari, la Arthur Andersen ha in effetti posto fine ad un ricco dibattito interno sulla validità del
metodo dei casi rispetto ai metodi accademici tradizionali. Come DeGeorge acutamente nota:
"l'enfasi esclusiva sul metodo dei casi pone un pericolo per l'EDA come disciplina. Tipicamente
i casi implicano la discussione di azioni a livello individuale. Ciò solleva la seguente domanda:
se il solo metodo di studio si basa sui casi, e se le questioni etiche sollevate nei corsi dipendono
dal tipo di materiale utilizzato, in che contesto verranno ad essere discussi gli altri due livelli
[meso e macro] dell'EDA? Dove saranno trattati i problemi che non sono risolti e non possono
essere risolti attraverso il semplice uso dei casi?" Ciò porta l'autore a concludere che "il pericolo
reale per l'EDA non è la mancanza di rispetto per le sue qualità umanistiche ma dal fatto che sta
per essere conquistata, che alcuni degli operatori stanno per essere cooptati e che la disciplina
stessa sta per essere cambiata (alcuni direbbero corrotta) dall'interno" (1991: 55).
Trends simili a quelli descritti da DeGeorge si possono notare anche all'interno del
panorama europeo. In Europa l'EDA rappresenta ancora un fenomeno ristretto all'ambito
accademico; ha inoltre un carattere prevalentemente teorico e persegue un approccio culturale
più in linea con le tradizionali scienze sociali che con la filosofia normativa (cfr. Spence, 2000).
E' significativo però il fatto che anche qui esiste la tendenza a spiegare la relativa debolezza
della disciplina in termini del tutto simili a quelli utilizzati una decade prima oltre oceano e a
premere per una revisione in senso empirico della stessa. Risulta inoltre evidente che il metodo
76
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
dei casi ha anche qui acquisito una egemonia pressoché totale. Il modello americano rappresenta
inoltre il punto di riferimento nel settore della consulenza, anche se questa è ancora nella sua
infanzia e non esistono al momento dati che possano supportare previsione alcuna circa i
possibili sviluppi futuri.
Etica e imprese
Lo stato di salute dell'EDA come strumento manageriale è fonte di preoccupazioni simili a
quelle elencate sopra. A ciò che negli anni '80 sembrava uno sviluppo inarrestabile è subentrato
un progressivo scetticismo circa le potenzialità dell'investimento etico. Lo scetticismo pervade
in misura equivalente sia il mondo delle imprese, il quale aveva inizialmente adottato gli
strumenti etici in modo entusiastico, sia il pubblico in generale. Le ragioni di ciò vanno ricercate
nella superficialità (se non disonestà) con cui diverse imprese hanno utilizzato la bandiera etica
per pubblicizzare operazioni e marchi la cui natura morale era a dir poco controversa.
Responsabilità non meno gravi hanno anche gli operatori del settore i quali hanno utilizzato gli
strumenti etici per sostenere pratiche manageriali inaccettabili e per essersi resi complici
nell'opera di distorsione promossa dalle imprese.
A partire dalla metà degli anni '90 la stampa ha iniziato a porre sotto un crescente
scrutinio l'operato di numerose imprese che avevano adottato l'EDA come simbolo per un
nuovo modo di fare affari. Le conclusioni sono state più che sconfortanti e hanno finito per
danneggiare la reputazione delle aziende in questione in modo grave. Le prime vittime sono
state multinazionali quali Ben & Gerry (alimentari) e Body Shop (cosmetici) accusate entrambi
di utilizzare l'EDA come un sofisticato strumento di pubbliche relazioni per promuovere il
proprio marchio. Come è stato infatti appurato, nessuna delle due aveva dato luogo al tipo di
investimenti etici annunciati e commercializzava prodotti il cui valore etico non corrispondeva a
quello pubblicizzato. Successivamente è stato inoltre messo in luce come imprese che hanno
sposato cause sociali e caritatevoli (Esprit, Levi Strass, The Gap, Co-Op Bank, Starbucks, Stride
Rite Shoes e Reebok per fare alcuni nomi) operavano in paesi e secondo modalità che violavano
in modo sistematico diritti umani basilari (cfr. Entine, 1996). Risulta anche chiaro che un
elevato numero di imprese che hanno adottato codici etici intendeva questi come strumenti per
manipolare le relazioni industriali e opporsi alle forze sindacali. Solo di rado i codici sono stati
accompagnati da forme di consultazione o anche dal supporto di comitati etici indipendenti che
possono implementarli in modo imparziale (cfr. Entine e Nichols, 1996). Il caso più eclatante di
tutti è forse quello della Enron la cui bancarotta fraudolenta ha non solo distrutto i fondi
pensionistici dei dipendenti, ma ha portato al fallimento della Arthur Andersen, l'audit
incaricata di verificarne la contabilità e la compagnia che tanto aveva fatto per influenzare lo
sviluppo dell'EDA negli USA12.
Un secondo elemento che ha contribuito ad inclinare la fiducia del mondo delle imprese
nei confronti dell'EDA è la mutata atmosfera culturale prevalente negli anni '90. L'egemonia del
pensiero neoliberale ha riportato alla ribalta la fede panglossiana nel mercato e rilegittimato la
metafora della mano invisibile. In un clima culturale del genere le strategie di exit, quelle cioè
basate sulla fuoriuscita dalle relazioni contrattuali insoddisfacenti, tendono ad essere privilegiate
rispetto a quelle basate sulla consultazione e sulla partecipazione. Le politiche di privatizzazione
e di deregulation del mercato del lavoro hanno inoltre favorito il prevalere di un capitalismo
predatorio meno interessato ai guadagni di lungo periodo ottenibili attraverso la creazione di
lealtà diffuse. L'effetto congiunto dei due fenomeni (egemonia neoliberale e rischio insito
nell'investimento etico) hanno di fatto alterato l'analisi costi-benefici che aveva favorito l'EDA
nel decennio scorso. Come riportato nella relazione di apertura della Business Ethics 2000
Conference il risultato è al momento disarmante: "il movimento di etica degli affari manca in
questa nazione [USA] della vitalità necessaria e sembra che abbia tristemente perso
l'opportunità giusta [...] il mondo imprenditoriale americano nel suo complesso serve i suoi
utenti meno effettivamente di come dovrebbe perché l'EDA non riceve l'attenzione che gli spetta
in troppe organizzazioni" (Yuspeh, 2000)13.
77
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
Per quanto riguarda i cittadini, la disillusione con le tematiche etiche è andata crescendo
di pari passo con le inchieste che rivelano le strategie opportunistiche sottostanti molti degli
sbandierati impegni etici assunti dalle imprese. Particolarmente sospetti sono stati inoltre viste
le adozioni di codici etici i cui principi ispiratori non riflettono le esigenze dei vari stakeholders
ma solo gli interessi di coloro che li pongono in essere. Infine, l'assenza di strumenti imparziali
di monitoraggio e sanzione (i comitati etici d'impresa) ha rafforzato la percezione che l'EDA
non sia altro che una forma sofisticata di autopromozione. Sarebbe a dire, uno strumento
retorico diretto a migliorare le relazioni pubbliche delle imprese che lo adottano ma che non ha
influenza reale alcuna sulla performance dell'impresa stessa (cfr. Doig e Wilson, 1998).
L'analisi teorica portata avanti nella prima parte del capitolo intende dimostrare che
l'EDA e i meccanismi di autoregolazione non possano essere etichettati come semplici strumenti
acritici. L'EDA rappresenta uno strumento di principled governance le cui potenzialità sono
lontane dall'essere state esplorate. Un approccio contrattualista del tipo descritto nelle pagine
precedenti porta alla definizione di vincoli morali all'agire delle imprese e del management
incompatibili con le strategie opportunistiche perseguite dalle corporations elencate sopra.
Anche nei casi in cui si cerca di dimostrate che esiste una certa coincidenza tra comportamento
morale e autointeresse, questa non porta alla giustificazione della 'get rich quickly' filosofia
promossa dal pensiero neoliberale. La distinzione fra massimizzazione vincolata e
massimizzazione diretta sostenuta da pensatori neo-hobbesiani come Gauthier e Sacconi non ha
solo valore linguistico ma è di cruciale importanza. L'idea di codice etico come contratto sociale
parziale integrativo se presa sul serio sarebbe quindi in grado di proteggere i soggetti deboli dal
potere di contrattazione delle corporations. E' chiaro però che una delega assoluta e priva di
qualsiasi controllo da parte delle istituzioni pubbliche rende l'idea di autoregolazione
completamente vuota. I contratti sociali parziali descritti dai codici debbono essere parte
integrante del contratto sociale generale. Debbono quindi incorporare i valori di base necessari
per lo sviluppo di una società bene ordinata e definire gli obblighi a questa connessi.
Note
1
Per Smith la divisione sociale del lavoro assicura infatti non solo una remunerazione dei fattori della
produzione giusta, ma garantisce inoltre che "il benessere di un principe europeo non è sempre troppo al
di sopra di quello di un contadino industrioso e frugale, il cui benessere risulta più elevato di quello di
molti re africani, signori assoluti delle vite e delle libertà di migliaia di selvaggi nudi" (1776, libro I, cap.
I). Per la teoria neo-classica questo duplice obiettivo viene raggiunto per l'operare congiunto di forze di
mercato che connettono le retribuzioni al contributo marginale che ogni individuo apporta al processo
produttivo e di legge psicologiche che assicurano una soddisfazione marginale decrescente dell'utilità.
Cfr. Buchanan (1985).
2
Con questo termine si intende la moderna impresa economica con una divisione interna del lavoro e
separazione tra proprietà, controllo e produzione più o meno estesa. L'impresa individuale, quella cioè in
cui tutte le funzioni interne sono portate avanti dal proprietario stesso, non pone problemi etici diversi da
quelli riguardanti la morale personale. Le imprese a responsabilità limitata rientrano nella prima
categoria.
3
Due teorie che anticipano quella di Ladd nell'identificare il mercato come un ambiente darwinista che
seleziona solo le aziende che massimizzano i profitti sono quelle di Alchian (1950) e Friedman (1953). A
differenza di Ladd i due autori non ritengono necessario alcun intervento legislativo mirato alla
regolamentazione del mercato dato che i meccanismi selettivi identificati operano come se guidati da una
mano invisibile benefica.
4
Il termine stakeholder deriva da un gioco di parole col termine stockholder, azionista. Gli stakeholders
sono tutti coloro i quali hanno degli interessi coinvolti (stakes) nell'azione dell'impresa. Il riferimento agli
stakeholders è utilizzato in opposizione a quanti come Milton Friedman (1971) ritengono che l'impresa
abbia solo responsabilità morale verso gli azionisti.
5
Va notata la similarità tra le conclusioni di McMahon e il principio di differenza di Rawls. In entrambi i
78
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
casi il punto di vista morale coincide con quello del soggetto più svantaggiato. Ciò porta però McMahon a
confrontarsi con la revisione operata da Rawls in (1993). In Political Liberalism il punto di vista morale
deve riflettere i principi stabiliti a livello costituzionale e quindi imporrebbe al management di assumere
la prospettiva del legislatore. McMahon non risolve la divergenza con Rawls ma individua tre alternative
compatibili col modello contrattualista proposto. La prima è quella che lega il giudizio manageriale al
punto di vista dei lavoratori (bottom up), la seconda è quella che sostituisce i lavoratori con il legislatore
(top bottom) mentre la terza è il risultato di un equilibrio riflessivo tra i due punti di vista.
6
La tesi trova la sua prima sistematizzazione teorica nel saggio di Ronald Coase del 1937. Il saggio è poi
stato da stimolo per lo sviluppo di due percorsi di ricerca: uno di carattere teorico portato avanti da Oliver
Williamson (1985) e l'altro di carattere storico perseguito da Stephen Marglin (1974). Per uno studio del
saggio di Coase e della sua rilevanza per la teoria economica vedi il volume curato da Williamson e
Winter (1993). Il lettore italiano è inoltre rinviato ai volumi di Brosio (1989) e Landes (1987) dove sono
proposte le traduzioni dei contributi più significativi.
7
Nella letteratura economica le forme di opportunismo identificate sono due: la 'soluzione avversa'
(adverse selection) e 'l'azzardo morale' (moral hazard). Queste dipendono dal tipo di asimmetria
informativa che caratterizza l'interazione. Nel caso di soluzione avversa l'asimmetria precede la relazione
contrattuale, mentre nell'azzardo morale è successiva, dovuta al fatto che l'agente ha maggiori fonti di
informazione sul processo produttivo rispetto al principale. Per una più estesa analisi dei modelli
microeconomici e della teoria dell'agenzia vedi Grillo e Silva (1989), Kreps (1991) e Tirole (1988).
8
Questi problemi ricorrono spesso in connessione con l'operato delle imprese multinazionali. L'accusa di
imperialismo culturale riguarda la leggerezza (se non disprezzo) con cui sono trattati le tradizioni e i
valori delle comunità indigene nei paesi in via di sviluppo. L'accusa di relativismo morale riguarda invece
il tentativo delle imprese multinazionali di giustificare pratiche che violano il rispetto dei diritti umani
facendo appello all'alterità dei valori culturali indigeni. Cfr. Donaldson (1991) e Mayer (2001).
9
Con il termine costi di transazione comunemente si intende "i costi degli scambi, inclusi i costi della
formulazione di accordi e contratti, e i costi, in termini di ritardi e perdite di opportunità per scambi
reciprocamente vantaggiosi, dovuti a comportamenti strategici (bluff, resistenza per spuntare prezzi più
alti o più bassi, minaccia di interrompere la trattativa, e così via)" (Buchanan, 1985: 163-4). Per una
panoramica del dibattito accademico sul ruolo e rilevanza della teoria dei costi di transazione vedi i saggi
contenuti nel volume curato da Christos Pitelis (1993).
10
Le strategie di exit sono nel linguaggio di Hirshmann quelle dove il soggetto insoddisfatto termina la
relazione contrattuale unilateralmente e senza spiegazione. Come Hirshmann acutamente osserva, l'exit
funziona efficientemente in situazioni dove l'uscita non comporta nessun costo. Nel modo reale tali ambiti
sono ristretti a transazioni riguardanti beni standard per cui esistono una miriade di fornitori alternativi e
sostituti perfetti o ad ambiti dove non sono necessari investimenti specifici. Questo spiega l'emergere
dell'opportunismo come espressione di dissenso, rivincita, etc. Hirshmann nota anche come le imprese
che si basano solo sull'exit sono caratterizzate da una forte mobilità del personale che non permette lo
sviluppo di forme di lealtà aziendale e hanno una vita media inferiore rispetto alle imprese che utilizzano
forme di voice. Nei mercati con un azionariato diffuso le strategie di exit possono generare dinamiche
incontrollabili e portare alla bancarotta aziende anche prestigiose la cui reputazione è stata danneggiata da
pratiche manageriali discutibili ancor prima che le autorità investigative abbiano portato a termine le
inchieste.
11
Una lettura alternativa (e conflittuale) delle relazioni tra EDA e azione sindacale è portata avanti da
Salvatore (2001). Secondo Salvatore l'EDA nel porre al centro dell'attenzione la dimensione individuale
sottovaluta quella politica e istituzionale del sindacato. Da un punto di vista pratico la critica coglie il
segno. In effetti per come si è sviluppata prima negli USA e poi in Europa l'EDA ha prestato scarsa
attenzione al ruolo del sindacato. Da un punto di vista teorico non esiste però una incompatibilità di
principio. L'approccio di McMahon per esempio può servire per sviluppare un'analisi più sofisticata delle
relazioni tra l'EDA e l'azione sindacale. Lo stesso si potrebbe dire a proposito di un approccio
durkheimiano all'EDA dove i codici e i comitati etici d'impresa rappresentano pratiche di sussidiarità
dirette allo sviluppo di una principled governance a più livelli.
12
Per un’accurata analisi critica del fallimento della Enron e della Arthur Andersen vedi Blackburn
(2002).
13
A conclusioni simili arriva anche il Department of Trade and Industry della Gran Bretagna. Nella
sezione riguardante la corporate social responsibility, il rapporto del 2002 afferma che: "Sebbene ci sia
stato un buon progresso, rimane ancora molto da fare. Ci sono ancora molte organizzazioni che non si
79
ETICA DEGLI AFFARI E TEORIA DELL'IMPRESA
assumono responsabilità sociali e ambientali" (citato in Cowe, 2002).
80
V
Etica della pubblica amministrazione e teorie della burocrazia
Lo sviluppo dell'etica della pubblica amministrazione (EPA) segue un percorso parallelo a
quello dell'EDA. La data di nascita della disciplina risale anche essa alla metà degli anni '70,
avviene negli USA e fu stimolata proprio dalla pubblicazione del lavoro di Rawls (1971).
L'evento che da vita alla disciplina è la pubblicazione, avvenuta nel 1974, di un numero
monografico della Public Administration Review il cui obiettivo era quello di sviluppare le
implicazioni della teoria della giustizia di Rawls per la pubblica amministrazione (cfr. Sacconi,
1998). L'interesse degli officiali pubblici per l'opera di Rawls era dovuto alla critica
dell'approccio utilitarista portata avanti dal filosofo americano. Sin dal New Deal di Roosevelt i
principi utilitaristi erano stati il punto di riferimento per l'azione amministrativa. Per
l'utilitarismo il compito delle istituzioni pubbliche è quello di definire la funzione di utilità
sociale aggregata e le politiche dirette alla massimizzazione di tale funzione sociale. Si tratta di
un compito percepito come tecnico e neutrale rispetto ai conflitti ideologici che caratterizzano la
politica: è tecnico in quanto utilizza le sofisticate modellizzazioni predisposte dai teorici della
scelta collettiva, è neutrale perché adotta meccanismi aggregativi che tengono nella stessa
considerazione le preferenze di ciascun individuo1.
Come visto, il filosofo di Harvard mette in evidenza la tendenza dell'utilitarismo a
sottovalutare i diritti individuali e la separatezza fra le persone. In secondo luogo, Rawls
afferma la necessita di subordinare le questioni pertinenti l'efficienza economica a quelle
relative la giustizia sociale. L'importanza della critica rawlsiana per gli ufficiali pubblici si può
apprezzare maggiormente se si tiene conto di alcuni elementi aggiuntivi. L'adozione dei principi
utilitaristi da parte delle burocrazie pubbliche aveva comportato il rifiuto della separazione tra
amministrazione e politica e favorito lo sviluppo dell'idea secondo cui l'ufficiale pubblico è
l'agente fiduciario (trustee) dei cittadini. In un sistema democratico e pluralista ciò significa
attribuire all'amministrazione pubblica una triplice responsabilità: verso i cittadini, verso il
legislativo e verso l'esecutivo. Conseguentemente prende piede la convinzione che la PA non
può essere subordinata all'esecutivo ma deve svolgere una funzione di coordinazione e
bilanciamento fra le richieste provenienti dal sociale e dal politico. Le politiche di welfare
resero inoltre evidente come la complessità dell'azione di governo richiede all'ufficiale pubblico
un continuo esercizio del proprio potere discrezionale. L'azione amministrativa non può quindi
essere puramente strumentale ma richiede l'adozione di un punto di vista impersonale dal quale
valutare le alternative rilevanti con le quali si confrontava l'amministrazione.
L'approccio rawlsiano risulta rilevante per due ragioni: primo perché permette una
valutazione deontologica delle politiche pubbliche; secondo perché indica il punto di vista etico
da adottare quando si esercita potere discrezionale. Nel definire il punto di vista etico dal quale
valutare la legittimità delle istituzioni sociali fondamentali Rawls individua limiti costituzionali
all'esercizio del potere politico esogeni rispetto a quest'ultimo. Tale approccio verrà a
caratterizzare il costituzionalismo di James Buchanan (1977), David Gauthier (1986) e del
pensiero neoliberale in generale. I vincoli etico-costituzionali derivati attraverso tale approccio
non sono puramente formali, ma hanno delle implicazioni sostanziali significative. Nel caso di
Rawls i principi di giustizia individuati dall'autore subordinano le politiche welfariste al
soddisfacimento di forti diritti di cittadinanza sociale. Nel caso dei neo-liberali queste politiche
sono invece subordinate al rispetto dei diritti di proprietà individuale. Con Rawls assume inoltre
preminenza la nozione di stabilità. Per Rawls tale nozione assume la forma di un criterio
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
psicologico per distinguere fra richieste etiche ragionevoli e supererogatorie e per valutare i
costi morali che ogni principio, politica o istituzione impone agli individui. Le teorie neoliberali, dal canto loro, adoperano l'idea di stabilità per definire un criterio di demarcazione in
grado di distinguere politiche ragionevoli e riforme utopiche e per riaffermare la priorità degli
giudizi tecnico-avalutativi su quelli puramente etico-prescrittivi.
Il capitolo si articola in due parti. La prima è dedicata all'analisi teorica. Qui sono
discusse le varie prospettive dalle quali è stata tradizionalmente analizzata la PA: sociologia,
politologia ed economia. Queste prospettive sono richiamate al fine di presentare uno schema
riassuntivo che individua il ruolo che secondo ciascuna deve essere riservato all'autoregolazione
etica. Successivamente l'attenzione viene concentrata sull'approccio economico e in particolare
sul modello elaborato da William Niskanen (1971). L'enfasi posta sulle teorie economiche della
burocrazia è dovuto alla rilevanza che queste hanno assunto sia da un punto di vista esplicativo
sia prescrittivo. Anche in questo caso l'approccio economico sembra avanzare una 'tesi della
superfluità dell'EPA'. Lo studio delle debolezze teoriche che viziano l'approccio economico
rappresenta dunque il primo passo per chiarire le potenzialità dell'autoregolazione etica. Nella
seconda parte sono proposti invece alcuni cenni sullo sviluppo dell'EPA come strumento di
governo manageriale della PA. Lo studio riguarda tre contesti nazionali particolarmente
significativi. Il primo è ovviamente quello americano dove è nata l'EPA. Gli altri due sono
invece l'esempio inglese, che continua ad ispirare le riforme neo-liberali attualmente in corso in
Europa, e quello italiano. L'obiettivo che ci proponiamo con lo studio di questi casi è quello di
analizzare sia il tipo di strumenti etici utilizzati sia come questi possono incidere sulla
performance della PA in due aree di primaria importanza: l'efficienza dell'azione amministrativa
e la corruzione degli ufficiali pubblici.
PROSPETTIVE TEORICHE NELL'ANALISI DELLA BUROCRAZIA
La burocrazia e i fenomeni burocratici sono stata analizzati da tre prospettive teoriche
principali: quella sociologica, quella politologica e quella economica. Queste prospettive si
distinguono per il fatto di basarsi su letture alternative del fenomeno burocratico, dei
meccanismi che ne spiegano l'emergere e lo sviluppo e, infine, dei criteri utilizzati per valutarne
l'operato.
La prima e più importante prospettiva è quella sociologica, la cui sintesi più esaustiva si
trova nell'opera di Max Weber (1922). Per il sociologo tedesco il termine burocrazia individua
una forma organizzativa tipicamente moderna, connessa cioè con l'emergere dello stato
nazionale e dell'organizzazione capitalistica della produzione. Secondo la narrativa weberiana,
lo sviluppo dello stato nazionale si rese possibile proprio grazie all'azione di potenti strutture
burocratiche al servizio dei sovrani. Queste strutture hanno avuto la funzione di mobilitare le
risorse necessarie all'azione di governo dei sovrani senza dovere passare attraverso
l'intermediazione della nobiltà feudale. Le file di queste strutture di governo erano infatti
occupate da personale amministrativo salariato dipendente direttamente dall'autorità centrale. In
aggiunta, Weber descrive la burocrazia come il modello organizzativo tipico delle società
capitalistiche dove la produzione e gli scambi sono dominate da imprese operanti secondo una
rigida logica razional-strumentale. Un'organizzazione burocratica ha, per Weber, una struttura
gerarchica che opera per mezzo di una divisione razionale del lavoro e routinizzazione di ruoli e
funzioni. Più che l'assetto proprietario, o il settore di attività, la caratteristica fondamentale della
burocrazia come tipo ideale è per Weber l'articolazione interna e la relazione funzionale fra
uffici e ruoli. I presupposti metodologici che guidano l'analisi sociologica sottoscrivono un
modello di agenzia che attribuisce agli individui l'abilità di identificarsi con gli obiettivi e i
valori legati ai ruoli occupati. Di conseguenza l'analisi e la valutazione di forme di
organizzazione burocratica diverse sono portate avanti attraverso l'analisi dei processi dialettici
(o multicausali) che hanno accompagnato l'emergere di un particolare tipo ideale e l'analisi
comparata tra tipi ideali e tipi storici.
82
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
La seconda prospettiva teorica è quella sviluppata dalla scienza politica a partire al
contributo seminale di Gaetano Mosca (1895). La burocrazia in questa ottica viene studiata non
come la manifestazione di un fenomeno sociale quale la modernità, ma, più prosaicamente,
quale insieme di istituzioni incaricate di implementare le decisioni dell'autorità sovrana. Il
termine burocrazia è quindi utilizzato come sinonimo di quelli di governo e pubblica
amministrazione. Ciò che distingue l'amministrazione pubblica da quella privata sono i seguenti
elementi:
(i) l'avere una natura obbligatoria
(ii) l'essere stabilite per legge
(iii) avere come obiettivo il bene collettivo
(iv) l'operare sotto un sistema di vincoli che combinano responsabilità giuridica e politica
La scienza politica non ha elaborato una metodologia distinta rispetto alla sociologia e
all'economia. La differenza significativa rispetto a queste due discipline riguarda l'idea che
l'ambito politico non è una categoria residuale del sociale o dell'economico. Al contrario, quello
politico è visto come un ambito autonomo dove hanno luogo tutte le attività aventi rilevanza per
la comunità nel suo insieme: il forum (cfr. Elster, 1997). In contrapposizione con la prospettiva
economica la scienza politica contesta inoltre sia la tesi secondo cui il bene collettivo
rappresenta il sottoprodotto dell'azione massimizzatrice di soggetti autointeressati, sia
l'ingiunzione che il ruolo della politica è quello di aggregare preferenze individuali prepolitiche. L'autonomia della politica dipende dal fatto che il bene comune è il prodotto di azioni
collettive intenzionali a cui si arriva attraverso forme di deliberazione pubblica.
Conseguentemente, l'analisi e la valutazione di varie forme organizzative burocratiche deve
essere portata avanti attraverso lo studio delle relazioni che queste intrattengono con i principi
costituzionali riconosciuti e la comparazione con forme istituzionali e costituzionali alternative.
La prospettiva economica infine definisce la burocrazia come una forma di
organizzazione produttiva che può essere o alternativa o complementare a quella di mercato.
Nel primo caso la burocrazia rappresenta una forma istituzionale in competizione con il
mercato; una forma di produzione basata su strutture gerarchie e relazioni di autorità. Nel
secondo caso la burocrazia identifica una entità economica sui generis che si occupa di produrre
beni che non possono essere prodotti dal mercato. In entrambi i casi l'ambito di studio è
l'equilibrio tra la domanda e l'offerta di beni e servizi pubblici; uno studio portato avanti
attraverso l'analisi del tipo di interazione istituzionale che ha luogo nel settore pubblico.
L'approccio economico allo studio della burocrazia persegue una alternativa epistemologica
radicale rispetto alle prospettive sociologica e politica. Sottostante questo approccio c'è un
modello di agenzia, derivato dall'individualismo metodologico, che vede gli individui come
'creatori' di ruoli, piuttosto che 'assuntori' di ruoli. Gli individui sono descritti come portatori di
desideri e preferenze fisse ed esogene, mentre i ruoli e le funzioni sociali sono visti come il
risultato di equilibri di contrattazione fra soggetti autointeressati. Di conseguenza, l'analisi e la
valutazione delle varie forme di produzione burocratica sono portate avanti attraverso lo studio
degli schemi di incentivo esistenti entro le varie gerarchie e la comparazione di questi schemi
con quelli operanti nel mercato.
Le prospettive individuate sopra non si sono limitate ad analisi meramente esplicative
ma sono state ricche di suggestioni normative. Primo: ognuna ha cercato di identificare le
ragioni che giustificano o meno l'esistenza e l'operato delle istituzioni burocratiche rispetto a
forme organizzative alternative. Dal punto di vista sociologico queste ragioni sono connesse con
lo sviluppo e il rafforzamento di identità collettive nazionali. A queste la scienza politica ha
aggiunto il problema della governance; sarebbe a dire, la risoluzione dei conflitti di interesse e
dei problemi di coordinazione che affliggono le comunità politiche nazionali. In entrambi i casi
l'azione pubblica è stata connessa con la cura di ciò che Emile Durkheim (1893) chiama gli
elementi non contrattuali del contratto. Una giustificazione questa che ricompare anche nella
teoria economica in connessione con la nozione di beni pubblici.
Secondo: significativa è anche stata l'analisi delle patologie prodotte dalla burocrazia e
83
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
le soluzioni avanzate per attenuarle. Weber e Durkheim per esempio hanno enfatizzato la
tendenza delle società moderne alla sclerosi burocratica e l'emergenza di forme diffuse di
disincanto e di anomia (cfr. Palumbo e Scott, 2003). A partire dagli anni '70 la scienza politica
ha invece concentrato l'attenzione sulle contraddizioni prodotte dalle politiche di welfare e
inaugurato il tema della crisi di legittimità (cfr. Offe, 1984). Va notato comunque che a partire
dalla meta del novecento sia la sociologia sia la scienza politica hanno progressivamente
abbandonato le grandi narrative della modernità per limitarsi a studi empirici di fenomeni più
ristretti e settoriali. Una dinamica opposta ha invece caratterizzato l'approccio economico. Al
crescente interesse ad investigare l'interno della 'scatola nera' con cui i neo-classici
identificavano il governo ha fatto da contraltare l'assenza pressoché completa di studi empirici.
A tutt'oggi, infatti, l'intera letteratura economica sulla burocrazia rimane prettamente teoretica e
ancorata al modello analitico elaborato dalla teoria della scelta razionale.
Le indicazioni normative che si ricavano dalle prospettive teoriche esaminate sono
riassunti in figura 5.1. Le dimensioni cooperativo/competitivo e interno/esterno sono utilizzate
nell'accezione già vista nel capitolo precedente (vedi p. 115).
COOPERATIVO
COMPETITIVO
ESTERNO
Legislazione
Mercato
INTERNO
Codici/Voice
Managers
Figura 5.1. Prospettive normative sulla burocrazia
Tradizionalmente gli approcci sociologici e politologici hanno sottoscritto un approccio
esternalista e visto nello strumento legislativo il solo mezzo per regolare la PA. La teoria
economica dal canto suo ha consistentemente ritenuto che solo la disciplina del mercato potesse
contenere l'influenza perversa del settore pubblico e richiesto estese privatizzazioni. Nelle
occasioni in cui l’oggetto di interesse è stata l'organizzazione interna, si è assistito in generale
alla convergenza delle tre prospettive teoriche verso soluzioni di tipo manageriale che intendono
introdurre forme di mercato all'interno della PA. Unica eccezione di rilievo è quella di Emile
Durkheim (1957), il quale ha proposto soluzioni di tipo partecipativo che anticipano quelle
suggerite dai movimenti etici attuali. A seguito dello sviluppo dell'EPA si è infatti assistito al
crescente interesse da parte dei sociologi verso l'autoregolazione etica, recuperando così
suggestioni avanzate dalla tradizione durkheimiana. Come per l'EDA, anche l'EPA sottoscrive
un approccio internalista imperniato nell'adozione di strumenti quali i codici etici, i comitati che
sovrintendono la loro implementazione e forme di voice che danno all'utente potere di influenza
sulle decisioni amministrative.
Teoria economica della burocrazia e superfluità dell'epa
Delle tre prospettive teoriche discusse sopra quella economica ha finito per acquisire una
sorprendente preminenza sia a livello accademico sia a livello politico. L'approccio economico
ha prodotto una vasta letteratura che ha finito per oscurare le ricerche e i contributi apportati
dalle altre due discipline. Questa letteratura è stata inoltre determinante nell'influenzare le
riforme amministrative portate avanti nei paesi occidentali a partire dagli anni '80. Le soluzioni
avanzate dall'approccio economico si basano, come visto, o su politiche di privatizzazione o su
strategie manageriali che intendono introdurre la disciplina del mercato nella PA. Il compito di
questa sezione è dunque quello di riassumere le argomentazioni economiche, evidenziarne i
difetti esplicativi e le inconsistenze normative e chiarire come l'EPA possa colmare tali lacune.
Facendo nostra una suggestione avanzata da Keith Dowding (1995), distinguiamo due
aspetti dell'approccio economico all'analisi della burocrazia: le assunzioni metodologiche che la
indirizzano e la modellistica che questa ha prodotto. Coerentemente con la teoria neo-classica,
84
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
l'approccio economico identifica ogni istituzione che opera nella sfera pubblica come un
giocatore con una chiara funzione di utilità ed un obiettivo semplice e preciso: la
massimizzazione dell'utilità attesa. In aggiunta, lo schema di incentivi che caratterizza il
contesto nel quale ha luogo l'interazione con altre istituzioni pubbliche è concepito come il
risultato di un equilibrio strategico tra i vari giocatori. Se questi sono gli elementi concettuali e
metodologici che accomunano le analisi economiche, le varie scuole di pensiero emerse a
partire dagli anni '50 si distinguono per avere focalizzato l'attenzione sull'interazione strategica
tra i diversi giocatori che operano nella sfera pubblica: gli elettori, i gruppi di interesse, i
politici, il governo, la PA, etc. Si possono così individuare almeno quattro giochi di
contrattazione:
•
•
•
•
il gioco democratico fra cittadini e i loro rappresentanti per la produzione di beni pubblici
e per la ridistribuzione del surplus cooperativo
il gioco di governo tra il parlamento e l'esecutivo per la definizione delle politiche
legittimate dal gioco precedente
il gioco burocratico tra rappresentanti eletti e ufficiali di carriera per la produzione dei
beni e dei servizi pubblici richiesti dal governo
il gioco di implementazione tra ufficiali pubblici a cui e demandato il compito di
applicare la legge e i cittadini e i gruppi sociali a cui la legge si applica2
La nostra discussione considera solo il gioco burocratico e tralascia tutti gli altri. La scelta è
dettata dall'esigenza di concentrare l'attenzione sulla PA. L'identità tra le strutture analitiche dei
vari giochi di contrattazione rende inoltre questa omissione innocua. L'analisi critica che
sviluppiamo può essere infatti estesa a tutti gli altri giochi.
Storicamente i contributi che hanno aperto la strada alla teoria economica della
burocrazia sono stati i saggi di Gordon Tullock (1965), Anthony Downs (1967) e William
Niskanen (1971). Di questi solo l'ultimo ha avuto un'influenza significativa e duratura. Niskanen
avanza la seguente definizione di burocrazia: "le burocrazie sono delle organizzazioni nonprofit
finanziate, anche se solo in parte, attraverso sovvenzioni periodiche o contributi" (1971: 15). Gli
uffici pubblici (bureaus) sono inoltre descritti come unità produttive specializzate "nel fornire
beni e servizi che alcune persone desiderano in quantità maggiori rispetto a quanto sarebbe
possibile finanziare attraverso la vendita al minuto per unità singole" (ibid.: 18)3. A capo di ogni
ufficio c'è un ufficiale di carriera il quale indirizza la produzione in modi consistenti con il suo
autointeresse. Ciò equivale a dire che il burocrate ha "una funzione di utilità positiva e
monotonica rispetto al budget totale dell'ufficio durante la sua permanenza in carica" (ibid.: 38).
Il budget dell'ufficio è "finanziato da una organizzazione collettiva singola (o dominante) la
quale si procura i soldi attraverso la raccolta di imposte o altri tipi di contribuzioni più o meno
obbligatorie" (ibid.: 24). In un sistema bipartitico quale quello statunitense studiato da
Niskanen, l'ammontare di beni e servizi finanziato in questo modo è definito dal 'teorema del
voto-mediano' elaborato da Downs (1957).
Niskanen descrive infine la relazione tra l'ufficio e lo sponsor come un gioco di
contrattazione suscettibile di produrre due diversi equilibri. Nell'eventualità in cui la domanda di
beni e servizi è bassa, l'ufficio tenderà a produrre il doppio della quantità domandata. Se la
domanda è invece alta l'ufficio produrrà l'esatta quantità richiesta dallo sponsor ma a prezzo
doppio. Nel primo caso l'ufficio determina un'allocazione inefficiente delle risorse sociali,
mentre nel secondo caso è responsabile per un'elevata inefficienza produttiva.
Il modello di Niskanen combina e formalizza due vecchie concezioni della burocrazia:
l'idea di burocrazia come organizzazione inefficiente e l'idea della burocrazia come sistema di
governo fine a se stesso4. Risulta perciò semplice comprendere l'interesse suscitato dal lavoro e
il successo acquisito dallo stesso in un periodo caratterizzato dalla fine del consenso
keynesiano. Da un punto analitico il modello di Niskanen risulta però semplicistico ed
estremamente difettoso. Il risultato del gioco di contrattazione descritto da Niskanen dipende da
un elevato numero di variabili ambientali che rendono impossibile la conclusione netta avanzata
85
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
dall'economista americano. In aggiunta, molte di queste variabili dipendono dai risultati degli
altri giochi elencati sopra e dal possibile sviluppo di coalizioni fra sottoinsiemi degli agenti che
prendono parte a giochi diversi. La contrapposizione netta tra un settore pubblico inefficiente e
un settore privato efficiente ha infine portato all'individuazione di soluzioni normative tanto
semplicistiche quanto radicali5.
In primo luogo il gioco di contrattazione descritto da Niskanen si sviluppa come se
avesse luogo nel vuoto istituzionale. Ufficio e sponsor rassomigliano ad agenti hobbesiani
impegnati in un gioco non-cooperativo piuttosto che agenti istituzionali connessi da precise
relazioni di autorità stabilite a livello legislativo e suscettibili di essere imposte
autoritativamente. In questo senso, l'approccio economico cade nell'errore opposto a quello dei
positivisti giuridici e finisce per svalutare il ruolo della legge in modo del tutto inaccettabile. In
secondo luogo il modello di Niskanen descrive una relazione strategica tra due agenti
istituzionali a cui viene attribuita una funzione di utilità singola. Una procedura simile risulta
inconsistente con la metodologia individualista propria dell'approccio economico e non tiene
conto delle relazioni strategiche interne a ufficio e sponsor, come anche le possibili coalizioni
tra sottoinsiemi dell'uno e dell'altro agente. Il difetto risulta particolarmente evidente perché i
risultati a cui arriva Niskanen sono il prodotto del modo arbitrario con cui l'autore evidenzia
l'esistenza di un conflitto interno allo sponsor che deve operare il controllo, ma sottace quello
interno all'ufficio. Vale la pena infine sottolineare che il modello di Niskanen non è mai stato
corroborato empiricamente. Nei pochi casi in cui si è tentato una verifica empirica o le
predizioni avanzate sono state refutate o si è arrivati a risultati inconcludenti.
Nel rispondere alle critiche elencate sopra Niskanen ha proceduto ad una
riqualificazione del modello. L’autore ora riconosce che "gli uffici producono servizi in modo
inefficiente solo se misurati in relazione agli interessi generali della popolazione ma non se
misurati in relazione agli interessi dei politici. In questo senso [...] molti dei difetti attribuiti agli
uffici dipendono dalle regole decisionali prodotte dagli organi legislativi di cui gli uffici
rappresentano semplici appendici (1993: 278). Ciò significa ammettere che il cattivo della storia
non è il burocrate ma il politico, e che forse il gioco burocratico non ha l'importanza che gli si
era attribuito. Critiche simili possono essere però rivolte anche al gioco democratico e a quello
di governo studiati dalla teoria della scelta collettiva e delle decisioni pubbliche. La conclusione
a cui si arriva è dunque che l'asserzione aprioristica dell'inefficienza del pubblico rispetto al
privato è teoricamente ingiustificata.
Limiti delle soluzioni economiche
L'approccio economico individua due fonti di inefficienza burocratica fondamentali. La prima
riguarda il processo di crescita delle strutture amministrative pubbliche e l'inefficienza
allocativa che questo processo comporta. La seconda ha come punto di riferimento il potere
monopolistico della PA nel fornire beni e servizi pubblici e i modi in cui questo monopolio
conduce all'inefficienza produttiva. Sulla base di questa diagnosi sono stati individuali le
seguenti contromisure: (i) la riduzione del potere d'influenza dello stato nell'economia attraverso
precise regole costituzionali; (ii) una chiara distinzione tra pubblico e privato così da proteggere
le libertà dei cittadini dalle tentazioni socialiste a cui conduce l'economia di welfare; (iii) la
depoliticizzazione di numerose decisioni pubbliche (specialmente in campo economico); (iv) la
prevenzione di future espansioni del settore pubblico attraverso il rafforzamento del settore
privato; (v) il trasferimento di tecniche manageriali dal settore privato alla PA al fine di
aumentarne l'efficienza produttiva. Tralasciando le considerazioni riguardanti l'equità e la
giustezza dei principi costituzionali invocati dai neo-liberali (per le quali rimandiamo ai capitoli
precedenti), le politiche di privatizzazione, deregolamentazione e riforma manageriale sollevano
grossi dubbi anche e soprattutto di carattere economico. Nella seconda parte accenneremo ai
risultati pratici conseguiti dalle riforme amministrative che si sono ispirate a tali soluzioni. Qui
ci interessa evidenziare i limiti teorici delle prescrizioni avanzate.
Le politiche di privatizzazione si basano su una resoconto ambiguo del ruolo della PA e
86
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
della natura del potere monopolistico a questa attribuito. Se il ruolo della PA è quello di
produrre beni e servizi che, nelle parole di Niskanen, "alcune persone desiderano in quantità
maggiori rispetto a quanto sarebbe possibile finanziare attraverso la vendita al minuto per unità
singole" (1971: 18), non è affatto chiaro se un ritorno al mercato sia possibile. Niskanen sembra
infatti asserire due tesi contrastanti: che la PA produca beni pubblici e che esiste una alternativa
di mercato per gli stessi. Queste due asserzioni sono però inconsistenti, dato che l'esistenza di un
bene pubblico è logicamente connessa con l'assenza di soluzioni di mercato. Alternativamente,
se accettiamo l’idea che l'esistenza di una produzione pubblica di tipo monopolistico è dovuto
alla presenza di beni pubblici, allora risulta chiaro che le politiche di privatizzazione avrebbero
effetti deleteri. Infatti, ferma restando la necessità di avere quel dato bene o servizio pubblico, la
privatizzazione della produzione comporterebbe la creazione di un monopolio privato libero
dalla relazione di autorità che lo lega allo sponsor e ancora più difficile da controllare.
Ipotizziamo comunque che esistano soluzioni di mercato alternative. Se questo è vero esiste un
punto di riferimento disponibile allo sponsor per controbilanciare l'asimmetria informativa
dell'ufficio. Lo sponsor sarebbe quindi in grado di verificare se i costi di produzione dichiarati
dall'ufficio sono gonfiati e optare per forniture alternative.
Un'ulteriore debolezza concettuale notata più volte a proposito di Niskanen riguarda
l'identificazione tra ufficio e capo ufficio. Se è vero che la PA opera spesso come monopolista
lo stesso non può dirsi del burocrate. Il capo ufficio non solo non è un monopolista ma non ha
nemmeno il potere di appropriarsi il surplus monopolistico prodotto dall'ufficio. Fare ciò
sarebbe del tutto illegale e provocherebbe l'intervento dell'azione giudiziaria.
In un saggio del 1975 Niskanen ha proposto una revisione del modello dove riconosce
che ad influire sulle decisioni pubbliche che distorcono il modo in cui le risorse sociali sono
allocate non è la PA ma le istituzioni rappresentative. L'economista americano rimane però
dell'opinione che le imprese operanti nel settore pubblico sono inefficienti in quanto producono
a costi superiori a quelli delle imprese presenti sul mercato. Le ragioni che spiegano
l'inefficienza produttiva sono quelle già viste:
(a) la tendenza dei burocrati a massimizzare la loro funzione di utilità attraverso la
massimizzazione del budget dell'ufficio
(b) esistenza di una asimmetria informativa a favore dei burocrati riguardo i costi di produzione
(c) l'emergenza di un problema di free-riding tra coloro che devono controllare la PA
(legislativo ed esecutivo)
Come risolvere l'inefficienza produttiva della PA? A parte le strategie di privatizzazione già
discusse, l'indicazione di Niskanen è quella del decentramento amministrativo e di forme di
concorrenza interna. Il decentramento amministrativo implica la frammentazione dei
dipartimenti in una miriade di agenzie esecutive le quali producono i beni e servizi richiesti
sulla base di contratti bilaterali con la direzione del dipartimento (o il ministero). Le agenzie, a
loro volta, dovrebbero essere organizzate su base privatistica e competere fra di loro per i vari
contratti.
I dubbi che una soluzione manageriale del genere solleva sono ironicamente simili a
quelli avanzati da Hayek e altri economisti liberali contro i modelli di mercato socialista
proposti dall'economista polacco Oskar Lange (cfr. Buchanan, 1985, cap. 6). Primo: esiste un
incentivo da parte delle agenzie a distorcere le informazioni di cui sono in possesso e rendere
impossibile la determinazione di un sistema di prezzi effettivo. Il problema potrebbe essere
ridimensionato se si crea un numero rilevante di agenzie chiamate a competere per lo stesso
contratto. I difetti in cui incorre tale soluzione sono però notevoli. Se l'oggetto del rapporto
contrattuale sono beni standard (cancelleria e pulizie per esempio), la soluzione più economica
sarebbe quella di acquistare questi beni direttamente sul mercato. Nel caso in cui questi beni non
sono disponibili sul mercato, la creazione di diverse agenzie dipartimentali che possano
produrre lo stesso bene comporterebbe duplicazioni il cui costo sarebbe superiore ai benefici
potenziali della competizione. Esiste quindi il rischio che politiche di decentramento simili si
risolvano nella creazione agenzie monopolistiche le quali operano sulla base di contratti
87
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
bilaterali privati. Nel quale caso ci troveremmo di fronte ad un tipo di relazione che riproduce il
gioco burocratico discusso originariamente da Niskanen. Occorre comunque notare che data la
natura privatistica del contratto e l'assenza di alcun vincolo legislativo che si oppone
all'appropriazione del surplus, il manager che dirige l'agenzia ha ora un incentivo a sfruttare
l'asimmetria informativa.
L'esistenza di diverse agenzie indipendenti favorisce inoltre la frammentazione e
l'emergere dei problemi di coordinazione. La teoria dei giochi ha messo in evidenza come
questo tipo di problemi siano tutt'altro che irrilevanti e richiedano notevoli sforzi e risorse per la
loro risoluzione. Nei casi in cui la direzione dipartimentale è connessa con le singole agenzie da
contratti privati e non più da una relazione di autorità, la sua funzione di coordinazione risulta
ridotta e può essere anche fonte di ulteriori ambiguità. Problemi molto più complessi ed ostici
possono sorgere infine quando alla coordinazione pura si aggiungono conflitti sul tipo di
equilibrio favorito dalle varie agenzie. Come visto nei giochi della caccia al cervo o in quello
della battaglia dei sessi discussi nella prima parte, i costi sociali connessi al mancato
coordinamento possono risultare tanto elevati da rappresentare la giustificazione economica
principale per l'integrazione verticale e la creazione di relazioni d'autorità. Ancora una volta
occorre notare che l'attenzione pressoché esclusiva attribuita ai meccanismi di incentivo
monetario è destinata ad aggravare questi problemi in quanto finisce per premiare i
comportamenti opportunistici. In determinati ambiti dove l'esistenza di asimmetrie informative è
un fatto strutturale ineliminabile, il premere solo sulle motivazioni economiche degli agenti può
portare alla selezione avversa di tratti caratteriali che rendono l'opportunismo una condizione
generalizzata e pervasiva. I benefici conseguibili con l'azione opportunistica possono inoltre
essere utilizzate per 'catturare' i watchdogs e dare così vita a relazioni collusive tra controllori e
controllati (cfr, Sacconi, 1994a). Il risultato a cui porta la soluzione è dunque quello di
accentuare i comportamenti strategici e le inefficienze produttive.
Managerialismo e autoregolazione etica: confronto fra soluzioni interne
Vediamo ora come l'EPA affronta il problema dell'inefficienza produttiva che affligge l'azione
burocratica. La discussione riprende le prospettive contrattualiste analizzate a proposito
dell'EDA e le adatta al contesto della PA. Iniziamo con la stakeholder analysis la quale utilizza
un approccio più direttamente influenzato dalla logica economica.
Secondo questa prospettiva teorica le varie forme di opportunismo che originano
dall'uso strategico delle asimmetrie informative (selezione avversa e azzardo morale) possono
essere attenuate attraverso l'osservanza di vincoli sul comportamento da tenere. L'indicazione è
quindi quella di sottoscrivere codici di comportamento i quali stabiliscono i principi a cui
conformarsi in situazioni ideal-tipiche. La sottoscrizione e corretta osservanza del codice
equivale all'adozione di una strategia di cooperazione condizionale del tipo descritto da
Gauthier (1986). La giustificazione economica per questo tipo di soluzione è duplice. Ex ante la
razionalità del codice è data al fatto che un'applicazione generalizzata dello stesso consente
incrementi paretiani dell'utilità sociale aggregata che altrimenti non sarebbero possibili. Ex post
i singoli agenti sono invece motivati ad osservare il codice a causa degli effetti reputazionali che
questo comporta. La natura pubblica dell'obbligo assunto nel sottoscrivere il codice e la
pubblicità data alle violazioni esposte dai comitati etici rende infatti possibile premiare la buona
reputazione e penalizzare i soggetti che hanno una cattiva reputazione (cfr. Sacconi, 1989).
L'attribuzione di forme di voice all'utenza (da operarsi attraverso l'istituzione di carte di servizi
varie) consente infine un migliore controllo del management e del personale esecutivo e rende
l'opera dei comitati etici più effettiva. La stakeholder analysis vede quindi l'autoregolazione
etica come uno strumento per ridurre i costi di governo in modi comparativamente più efficienti
rispetto a quelli di mercato.
Un approccio alternativo alla stakeholder analysis è derivabile dalla teoria politica delle
organizzazioni di McMahon (1995). Come visto, per l'autore inglese il problema morale con cui
si devono confrontare le organizzazioni è quello relativo alla giustificazione dei modi in cui
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ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
queste esercitano il potere loro delegato. Da questa prospettiva l'oggetto di analisi dell'EPA è la
legittimità dei principi che guidano l'azione burocratica e la corretta osservanza di tali principi
da parte degli ufficiali pubblici. Nel contesto pubblico non emergono le problematiche relative a
quale soggetto fra cittadini, governo e burocrati ha maggiore rilevanza etica. Dato che la
sorgente ultima del potere risiede nel popolo, il personale politico elettivo e gli ufficiali di
carriera sono entrambi agenti fiduciari del cittadino. Per McMahon il risultato del processo
deliberativo democratico definisce inoltre i termini di una cooperazione mutuamente
vantaggiosa ed è quindi il punto di riferimento per valutare la razionalità di scelte collettive
alternative. I codice etici devono perciò assumere che quello del cittadino rappresenta il punto di
vista morale che gli ufficiali pubblici devono adottare nel valutare corsi d'azione alternative. Un
codice siffatto ha potere motivazionale non in quanto compatibile con l'autointeresse dei
soggetti a cui si rivolge, ma perché riflette il sistema di valori in cui gli ufficiali pubblici si
riconoscono come cittadini. Ciò implica due cose. Primo: il codice deve riconoscere forme di
dissenso morale genuino, che non possono cioè essere inquadrate come autointeresse
economico, e predisporre strumenti adeguati per regolare l'obiezione di coscienza. Secondo: il
codice deve stabilire un sistema di incentivi più ampio di quelli monetari suggeriti dalla teoria
economica e tale che premi il talento e l'impegno sociale6.
In entrambi i casi il codice funge da contratto parziale integrativo del contratto sociale
generale espresso a livello costituzionale. In quanto tale il codice serve per specificare il tipo,
l'ammontare e la qualità delle prestazioni che la PA deve fornire per soddisfare i diritti di
cittadinanza riconosciuti a livello costituzionale e per predisporre un quadro normativo unitario
all'interno del quale inquadrare le varie patologie dell'azione burocratica. Il codice serve inoltre
per definire i parametri per mezzo dei quali il politico (e per estensione l'esecutivo o il suo
management) valuta le prestazioni della PA. Tra questi parametri rientra anche la definizione di
cosa rappresenta un abuso di potere: sia quello degli ufficiali pubblici nei confronti degli utenti
sia quello del dicastero (il ministro o il direttore del dipartimento nominato dal ministro) nei
confronti del personale amministrativo. L'istituzione di forme di voice rappresenta infine un
mezzo per ridurre il deficit informazionale delle strutture di controllo attraverso il
coinvolgimento dell'utenza e la creazione di canali informativi alternativi a quelli gerarchici
interni. Il coinvolgimento degli agenti operanti nelle varie istituzioni politiche, amministrative e
sociali all'elaborazione e implementazione dei codici etici ha una duplice funzione. Una tecnicostrumentale che consiste nel ridurre le asimmetrie informative tra gli agenti e, per questa via, le
inefficienze dovute all'opportunismo. Una seconda più filosofica consiste invece nello stabilire
meccanismi di governance che cercano di realizzare sia l'ideale kantiano di autonomia sia il
principio democratico di autogoverno. Nella misura in cui questi ideali filosofici hanno effetti
motivazionali significativi, l'EPA rappresenta una valida alternativa alle soluzioni manageriali
difese dalle teorie economiche.
IL MOVIMENTO ETICO E LE RIFORME AMMINISTRATIVE NEO-LIBERALI
A partire dagli anni '80 il settore pubblico e la PA in particolare sono state l'oggetto di una
offensiva neoliberale che ha pochi precedenti nella storia recente del mondo occidentale. Prese
nel loro insieme le varie riforme amministrative hanno dato vita ad estesi esperimenti sociali il
cui obiettivo è stato quello di, per dirla con le parole di Margaret Thatcher, riportare indietro le
frontiere dello stato. Come anticipato, i principi che hanno guidato queste riforme si basano
sulle analisi di Niskanen e di altri teorici delle decisioni pubbliche. Gli effetti perversi generati
da molte di queste riforme hanno finito per riaccendere l'interesse verso l'autoregolazione etica
vista come uno strumento alternativo alle politiche neo-liberali. In questa parte proponiamo
l'analisi di tre contesti nazionali dove entrambi i fenomeni, riforme neo-liberali e ripresa del
movimento etico, hanno assunto una rilevanza paradigmatica. I primi due riguardano gli Stati
Uniti e la Gran Bretagna per l'ovvia influenza e guida che questi paesi hanno avuto (e
continuano ad avere) sia nel campo delle riforme neo-liberali sia per lo sviluppo dell'EPA.
89
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
L'ultimo caso è quello italiano dove a partire dal 1992 il sistema politico e la PA sono state
l'oggetto di attenzione della magistratura prima e di riforme strutturali profonde
successivamente7.
Il movimento etico negli Stati Uniti
L'Ethics in Government Act approvato nel 1978 segna uno dei punti più alti del movimento etico
statunitense. La legge origina dall'impegno assunto da Jimmy Carter durante le elezioni
presidenziali del 1976 di porre fine alle pratiche di malcostume politico emerse durante lo
scandalo del Watergate. La legge si rivolge quindi all'esecutivo piuttosto che alla PA e ha il
compito di integrare il sistema dei checks and balances stabilito dalla costituzione regolando
quelle aree grigie che la costituzione non riesce a coprire. L'avvento della presidenza Reagan e
l'adozione di un programma di governo neoliberale spostano in seguito l'enfasi dall'esecutivo
sulla PA. Gli emendamenti apportati dall'Ethics Reform Act nel 1989 e dagli Executive Orders
(12674/12731) nel 1992 hanno come oggetto la regolamentazione del conflitto di interessi e
della discrezionalità del funzionario pubblico e riflettono i sentimenti anti-burocratici della
destra libertaria americana.
Se negli anni '70 l'etica pubblica aveva rappresentato un punto di riferimento per la
promozione di politiche sociali dirette alla riduzione delle discriminazioni e delle ingiustizie
sociali, la fine del decennio coincide con un cambio nella direzione opposta. L'egemonia
politica e culturale acquisita dalla destra libertaria negli anni '80 ha promosso una opposizione
ideologica al big government diretta a restringere il campo d'azione del settore pubblico e
dell'amministrazione federale. Al crescente disprezzo per le posizioni liberal e per gli
intellettuali in generale si accompagna inoltre un ridimensionamento delle politiche di
discriminazione positiva dirette verso le minoranze etniche e culturali e del ruolo del
funzionario pubblico nell'elaborazione delle politiche sociali. Le politiche di discriminazione
positiva sono state accusate di essere incostituzionali e progressivamente ridotte anche grazie
all'azione di una corte suprema orientata sempre più a destra. Per altro verso, alla figura del
funzionario pubblico impegnato nella realizzazione di una società più giusta si è sovrapposta
quella del colletto bianco corrotto.
In campo accademico, come visto, si assiste all'ascesa dell'approccio economico negli
studi sulla burocrazia che proprio sull'agente opportunista e collusivo basano le proprie
premesse comportamentali. Come nota Lorenzo Sacconi, ciò ha comportato un cambio di enfasi
sul ruolo dell'EPA: "l'approccio di politica economica costituzionale disenfatizza l'attenzione
per le regole morali interiorizzate nel comportamento individuale dei singoli, e consiglia di
guardare alle regole istituzionali entro le quali essi scelgono e partecipano al gioco delle
decisioni pubbliche: è all'etica delle regole che si deve guardare e alla loro influenza, attraverso
il calcolo del migliore interesse personale, sul comportamento e sul risultato" (1998: 130). Si è
affermato cioè un approccio normativo esternalista basato su un ristretto modello
comportamentale e sistemi di incentivo puramente monetari.
Da un punto di vista sostanziale, il codice etico della PA stabilisce che il funzionario è
un fiduciario pubblico e definisce una serie di principi finalizzati a garantire l'imparzialità e la
correttezza dell'azione amministrativa. Il documento elenca inoltre quattordici principi generali
che devono regolare la condotta dei funzionari. I principi identificano i criteri da utilizzare in
situazioni in cui può emergere un conflitto tra azione pubblica e interesse privato. Gli elementi
sui quali vale la pena soffermarsi sono due. Il primo riguarda l'obbligo di denunciare la
corruzione di cui si viene a conoscenza. Il principio è stato introdotto per proteggere coloro che
divulgano violazioni che altrimenti sarebbero rimaste nascoste. Le 'soffiate' rappresentano uno
degli strumenti più effettivi che il politico ha per controbilanciare l'asimmetria informativa a
favore dei funzionari; rappresenta inoltre l'unica forme di voice disponibile agli ufficiali
pubblici per esprimere il loro dissenso e resistere all'abuso di potere dei loro dirigenti. La
protezione accordata alle soffiate attraverso il Whisteblower Protection Act ha quindi non solo
una funzione teorica di primaria importanza ma rappresenta l'unico esempio disponibile fra i
90
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
casi qui analizzati.
Il secondo elemento di novità riguarda l'ingiunzione a preservare l'apparenza di
correttezza ed evitare azioni e comportamenti che possano sembrare in conflitto con i criteri
etici stabiliti. Il principio è importante a causa della difficoltà implicita nell'osservare presunte
violazioni da parte di un giudice imparziale. Il suo inserimento nel codice ha quindi l'obiettivo
di avviare le procedure di inchiesta senza aspettare di avere a disposizione prove giudiziarie
certe, così da prevenire ricadute negative sulla reputazione dell'amministrazione. Bisogna infine
sottolineare che l'amministrazione americana è anche fra le poche che ha dato vita a istituzioni
incaricate di implementare e visionare l'osservanza del codice. A questo proposito bisogna
ricordare l'istituzione dell'Office of Government Ethics (OGE), che ha responsabilità per l'intera
amministrazione federale, e dei Designated Agency Ethics Officials (DAEOs), incaricati di
sovrintendere al funzionamento del codice a livello dipartimentale.
L'impulso dato dall'Ethics in Government Act del 1978 ha portato allo sviluppo
dell'EPA a livello statale, di contea e municipale dove sono ben presto sorti istituti che riflettono
quelli federali. A questi si è inoltre aggiunta l'emissione di numerose carte dei servizi e la
creazione di varie agenzie che a cui è stata demandata la promozione, la consulenza e il compito
di rispondere alle proteste di cittadini ed utenti. Alla regolamentazione disciplinare minuziosa
del funzionario ha fatto però da contraltare il restringimento dell'autonomia e dell'influenza
politica della PA rispetto alle lobby private. Così al declino delle politiche di discriminazione
positiva e del big government ha corrisposto un aumento del potere delle corporations nel
determinare gli orientamenti dell'esecutivo e del legislativo.
Il movimento etico in Gran Bretagna
Con l'ascesa al potere del partito conservatore della signora Thatcher inizia una lunga serie di
riforme mirate all'annullamento del potere di autogoverno della PA. Le varie politiche
perseguite dai conservatori britannici a partire dal 1979 (e dal 1997 in poi anche dai governi
laburisti) hanno avuto come obiettivo il passaggio da un modello organizzativo basato sulla
correttezza (procedurale) dei processi amministrativi ad un modello attento ai risultati prodotti
da questi processi. Il tenore delle riforme e la loro incidenza sul lungo periodo hanno però
suscitato notevoli perplessità e critiche. La nuova macchina amministrativa sembra non essere
molto più efficiente della vecchia; in più si ha l'impressione che abbia perso l'affidabilità che
contraddistingueva la struttura amministrativa precedente.
Due fasi caratterizzano il processo di riforma amministrativa portato avanti dai
conservatori. Nella prima (che va all'incirca dal 1979 al 1987) l'obiettivo del governo è stato
quello di restringere il settore pubblico attraverso politiche di privatizzazione. Si è inoltre
cercato di ridurre i costi amministrativi attraverso l'imposizione di stretti limiti alle capacità
finanziarie dei dipartimenti: sono state applicate restrizioni finanziarie, ridotte le libertà di spesa
e resi effettivi strumenti di monitoraggio finanziario. Nella seconda fase (dal 1988 al 2000) i
vari governi che si sono succeduti hanno rivolto la loro attenzione alla riforma della struttura
organizzativa dipartimentale. Attraverso i progetti Next Steps prima e la Public Private
Partnership (PPP) successivamente è iniziato un ampio processo di decentramento
amministrativo e di gestione manageriale. Allo stesso tempo sono stati introdotti strumenti
legislativi che ambiscono a sviluppare logiche di mercato all'interno della PA e forme di
competizione tra settore pubblico e privato. Infine, è stato ricercato un maggiore coinvolgimento
dell'utenza e si è cercato di migliorare la qualità dei servizi pubblici con l'introduzione di carte
di servizi.
Con l'avvio delle riforme Next Steps e PPP è riesploso il dibattito riguardante il ruolo e
la funzione della PA nel contesto di uno stato democratico. Ancora più acutamente si è
riproposto il problema degli standard etici che devono guidare l'azione pubblica, il personale
amministrativo e il governo stesso. Come nelle precedenti occasioni anche questo dibattito ha
preso le mosse dall'emergere di scandali e disfunzioni. Il processo di riforma in corso solleva tre
tipi di critiche. Il primo riguarda l'incremento dei casi di cattiva amministrazione dovuti
91
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
all'operare delle nuove agenzie amministrative. Il secondo ha come oggetto la spregiudicatezza
delle politiche governative e i modi in cui il governo cerca di sfuggire l'opposizione attraverso
pratiche che sistematicamente eludono il controllo del parlamento8. Per ultimo solleva
perplessità anche il modo in cui parlamentari, ministri e alti dirigenti amministrativi confondono
interessi pubblici e privati nel portare avanti il processo di privatizzazione o nello stabilire le
partnerships tra pubblico e privato. In parole povere le riforme sono accusate di reintrodurre il
sistema clientelare precedente la riforma Northcote-Trevelyan del 1854 con la quale nasce la
moderna PA britannica.
I critici delle politiche neo-liberali mettono in evidenza come l'effetto congiunto delle
politiche di privatizzazione e di decentramento amministrativo è stato quello di attirare persone
poco sensibili all'ideale di un Civil Service come impegno al servizio del pubblico, ma
estremamente interessate ai ritorni economici ricavabili dal processo di ristrutturazione in corso
(selezione avversa). Questo ha poi determinato un incremento dei casi di cattiva
amministrazione e delle ingerenze politiche improprie sul Civil Service (azzardo morale e
concussione). Tali preoccupazioni hanno ricevuto una qualificata conferma dalle inchieste
portate avanti dal Public Account Committee (cfr. PAC, 1994) il quale ha sollevato critiche non
solo riguardo alle qualità morali, ma anche alle reali capacità manageriali dei responsabili delle
nuove agenzie.
Le risposte a queste critiche hanno dato vita ad un'impressionante produzione di
rapporti investigativi e di proposte normative. Nel 1994 il primo ministro John Major diede vita
ad una commissione d'inchiesta governativa, The Nolan Committee, il cui mandato era quello di
definire gli standards etici che devono guidare la condotta degli ufficiali pubblici. La
commissione, tuttora attiva sotto la direzione di Lord Wicks, ha pubblicato diversi rapporti,
stabilito i principi generali a cui si deve ispirare la PA e favorito la nascita di codici etici
dipartimentali e carte di servizi. La riformulazione dei principi etici che debbono ispirare tutte le
attività di governo ha portato all'individuazione di Seven Principles of Public Life: Imparzialità;
Integrità; Obiettività; Responsabilità; Pubblicità; Onestà; Direzione. Gli strumenti identificati
per l'implementazione di questi principi e per la loro interiorizzazione nella coscienza degli
ufficiali pubblici sono tre: l'elaborazione di codici di condotta; la definizione di procedure
d'appello indipendenti; l'individuazione di meccanismi per l'educazione e l'assistenza del
personale stesso. Rispetto al passato le novità introdotte dalla commissione sono due. Prima di
tutto lo strumento dei codici viene allargato a tutto il settore pubblico e non solo
all'amministrazione centrale dello stato9. In secondo luogo viene posta molta enfasi sui processi
educativi e sui meccanismi di assistenza e coinvolgimento del personale. Quest'ultimo fatto, più
che le specifiche proposte legislative, è il punto di maggiore interesse. Finita l'era in cui si
riponeva fiducia nei meccanismi di selezione informale ed elitarie, il mantenimento di alti
standard etici viene affidato a chiari codici di condotta e a processi educativi e a meccanismi di
socializzazione aperti e trasparenti.
I risultati concreti a cui la commissione potrà arrivare sono comunque difficili da
prevedere. Gli impegni presi dal partito laburista prima delle elezioni politiche del 1997 sono
state infatti successivamente o rinnegati o rinviati indefinitamente. Fra le marce indietro più
significative è da ricordare quella relativa al piano di 'politica estera etica' lanciato nel 1997 dal
Ministro degli esteri di allora Robin Cook. Il piano prevedeva di rifiutare la vendita di armi e
materiale militare ai paesi che violavano i diritti umani e il diritto internazionale. Gli
atteggiamenti del governo sono ben presto risultati in contraddizione con tale impegno e hanno
portato sia alla sostituzione di Cook sia all'abbandono di ogni impegno etico in materia. I
governi laburisti non hanno inoltre mostrato interesse alcuno per l'approvazione del Civil Sevice
Act per il quale si erano impegnati alla vigilia delle elezioni del 1997 (a tutt'oggi non esiste una
legge parlamentare che regola la PA). I principi che ispirano l'azione del governo Blair sono del
resto indistinguibili da quelli che hanno ispirato i governi precedenti e continuano ad attribuire
priorità alle logiche di mercato e alle politiche di privatizzazione.
92
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
Il movimento etico in Italia
La PA italiana nasce come estensione dell'amministrazione sabauda al resto della penisola
secondo un periodare che segue il processo di unità nazionale. Il modello amministrativo riflette
dunque quello dell'assolutismo piemontese, il quale sarà poi accentuato dal regime fascista e
riconfermato dal regime repubblicano instaurato nel 1948. Le caratteristiche di questo modello
sono quelle di un sistema fortemente accentrato, operante attraverso un'organizzazione
dipartimentale strutturata secondo linee gerarchiche che riflettono quelle militari e preoccupata
più della correttezza formale del processo che del conseguimento di obiettivi specifici. tale
modello di PA venne sancito con l'approvazione della legge di unificazione amministrativa
approvata il 22 marzo 1865 (n. 2248), la quale segna la sconfitta dell'ipotesi regionalista
propugnata dal Minghetti. Alla omogeneizzazione e accentramento del potere amministrativo
centrale seguì inoltre un riordino del potere locale che impose la dipendenza degli enti locali
dallo stato attraverso le prefetture. Le varie riforme apportate nel corso dei decenni, come anche
nel periodo repubblicano, più che ribaltare tale modello organizzativo hanno accentuato la
farraginosità e le inconsistenze dell'azione amministrativa. Il regime fascista oltre a rafforzare la
centralizzazione dei poteri introdusse la figura degli enti pubblici quali istituzioni parallele
all'amministrazione centrale dello stato.
Al termine della guerra la costituente si impegnò per "ripristinare il modello statale e di
organizzazione amministrativa tipico della tradizione giuridico liberale, scisso e quasi
contrapposto alla società civile seppure concepito a sua garanzia" (Zoppi, 1992: 21). Come per
il passato "al centro della riflessione campeggiano l'atto amministrativo e i connessi profili del
procedimento e della giustizia come garanzia del cittadino nei confronti dell'atto
amministrativo" (Ibid.: 23). L'unica differenza rispetto al modello liberale riguarda il massiccio
sviluppo degli enti pubblici secondo la logica tipica del periodo fascista; un processo questo che
segue le trasformazioni intervenute con il boom economico degli anni '60 e che continuerà sino
agli anni '90. In questo stesso periodo le politiche del personale promossero il progressivo
ingrossamento degli organici; processo questo che è continuato sino ai nostri giorni e che ha
contribuito a svalutare la professionalità del ceto burocratico e a promuoverne la
deresponsabilizzazione. "L'unico aspetto innovativo che si riscontra sul piano delle funzioni
svolte dalla PA", osserva ancora Zoppi, "è conseguenza proprio dell'incremento notevole nel
numero degli addetti. Si assiste in effetti all'assunzione, da parte della PA, di un ruolo di
salvaguardia [...] dei livelli occupazionali complessivi. Funzione questa destinata a svilupparsi
[...] tanto da trovarne una teorizzazione" (Ibid.: 35). Il risultato è stato un meccanismo di
selezione avversa che ha innalzato i costi di governo in misura crescente e depresso lo sviluppo
economico di intere regioni del paese.
Il decentramento regionale e la contrattazione collettiva intervenuti a partire dagli anni
settanta più che opporsi a questo trend lo hanno accentuato sino al punto da dargli un aspetto
patologico sconosciuto nel resto degli altri paesi occidentali. L'effetto di selezione avversa che
queste politiche hanno avuto sul personale amministrativo è stato fenomenale. La PA ha finito
per intasarsi di personale dalle dubbie qualità, sia professionali sia etiche, mentre la
contrattazione collettiva e gli istituti di diritto pubblico hanno reso tale ceto burocratico
parassitario e irremovibile. L'inefficienza della PA ha inoltre favorito l'emergere di strutture
amministrative parallele gestite direttamente dai politici e trasformato i diritti di cittadinanza
garantiti a livello costituzionale nell'oggetto di uno scambio politico di natura collusiva. In
questo panorama desolato l'unico atto amministrativo in controtendenza è stata la legge di
riforma del procedimento amministrativo approvata nel 1990 (n. 241), la quale riafferma il ruolo
di servizio pubblico della PA e istituisce limitate forme di voice per l'utenza. Il processo di
implementazione della legge è stato comunque estremamente tortuoso ed è, a più di un decennio
dalla sua approvazione, ancora lontano dall'essere concluso.
A partire dai primi anni '90 sulla scia delle esperienze straniere sopra ricordate hanno
fatto la loro comparsa gli strumenti di autoregolazione etica dirette alla riduzione delle forme
più patologiche di cattiva amministrazione. Anche in questo caso, comunque, si è assistito al
prevalere del formalismo giuridico e dell'imposizione gerarchica rispetto all'enunciazione di
93
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
principi normativi generali e al coinvolgimento dei vari stakeholders. A seguito delle inchieste
iniziate con l'operazione 'mani pulite' del 1992, una commissione guidata dal giurista Sabino
Cassese ha prodotto un codice di condotta. Col decreto legislativo n. 29 del 1993 il codice è
stato allegato al contratto di lavoro dei dipendenti pubblici. Nel novembre del 2000 il Consiglio
dei Ministri ha infine approvato un nuovo decreto legislativo che aggiorna il codice di
comportamento e ne rafforza l'efficacia giuridica10.
Conformandosi ai modelli stranieri analizzati, il codice inizia con l'affermazione dei
valori che debbono ispirare i funzionari pubblici. Anche in questo caso si afferma il ruolo del
funzionario come fiduciario del pubblico e si ricordano a quest'ultimo i doveri verso la
Costituzione e la legge in generale. A tale preambolo segue l'elenco dei principi fondamentali
dell'azione amministrativa a cui tutti si devono conformare: correttezza, efficienza e
imparzialità. Seguono quindi articoli riguardanti: regali e altre utilità (art. 3), cosa rappresenta
un comportamento non corretto e come evitare di dare anche solo l'impressione di improprietà;
conflitto di interessi (art. 4, 5, 6, 7 e 12); imparzialità e rapporti col pubblico (art. 8, 9 10, 11);
valutazione dei risultati (art. 13). Il codice differisce dal modello americano e britannico in due
punti. Primo: i principi a cui ci si richiama sono puramente formali ed evitano ogni riferimento a
principi etici sostanziali. Secondo: il codice non prevede l'istituzione di organi specifici diretti
all'implementazione e supervisione del codice. A differenza del codice americano quello
italiano non accorda inoltre nessuna protezione a coloro che denunciano violazioni (soffiate), ne
sono previsti programmi di educazione etica per i dipendenti. Come chiarito originariamente
dalla commissione Cassese, il codice ha una natura più di carattere disciplinare che etico;
l'obiettivo che si propone è infatti quello di colmare le lacune della normativa nel settore
dell'impiego pubblico11.
Limiti delle esperienze attuali
Esistono dei limiti comuni alle esperienze discusse sopra. Il primo e più evidente di questi è
dovuto al fatto che l'approccio etico continua a essere percepito come second best rispetto alle
soluzioni neo-liberali. L'autoregolazione etica viene spesso vista come una soluzione obbligata,
dovuta cioè all'impossibilità di procedere ad ulteriori privatizzazioni e/o riforme manageriali che
introducono il mercato nella PA. Altre volte l'EPA rappresenta invece una soluzione intermedia,
da adottare cioè fino a quando non è possibile passare a riforme più sostanziali. Come per
l'EDA, anche in questo caso l'influenza del positivismo ha favorito il pregiudizio diffuso verso
strumenti di tipo culturali ritenuti soft. L'analisi teorica sviluppata sopra ha cercato di sfatare il
mito positivista secondo cui solo riforme strutturali esternaliste possono conseguire benefici. In
particolare, il confronto con le teorie economiche della burocrazia, che riflettono questo
pregiudizio positivista in modo paradigmatico, ci ha consentito di evidenziare come le riforme
di mercato auspicate siano potenzialmente meno efficaci di quelle soft difese dall'EPA. In
presenza di fallimenti di mercato genuini, le soluzioni di mercato risultano o impossibili o del
tutto ineffettive. Considerazioni simili possono essere sviluppate nei confronti del positivismo
giuridico la cui influenza, soprattutto in Italia, è stata cruciale nel promuovere la
giuridificazione del settore pubblico e la sclerosi burocratica che affligge la PA.
Un secondo difetto che emerge da queste esperienze riguarda la natura stessa degli
strumenti di autoregolazione adottati. Primo: i codici etici non solo sono elaborati senza un reale
processo consultivo dei vari stakeholders della PA, ma riconoscono a questi forme di voice
estremamente limitate. Come visto, solo nel caso americano si stabilisce la protezione di coloro
che rivelano violazioni dei codici. Anche qui si tratta comunque di una protezione molto
ristretta che non garantisce i funzionari dei livelli inferiori dell'abuso di potere da parte dei
dirigenti o dell'esecutivo. Del tutto assente risulta infine un riconoscimento dell'obiezione di
coscienza per gli ufficiali pubblici, anche quando questa è riconosciuta a livello costituzionale o
in ambiti quali quello militare e sanitario (come avviene in Italia). Secondo: la struttura dei
codici risulta più simile a quelli di disciplina che a strumenti per la risoluzione di conflitti e
dilemmi etici. Sia nel caso britannico sia in quello italiano si manifesta esplicitamente una
94
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
posizione scettica nei confronti dell'etica e si preferisce la qualificazione più neutrale di codici
di condotta. La distinzione non è solo di carattere linguistico ma sostanziale. In entrambi i casi
si è in presenza di veri e propri codici disciplinari le cui intenzioni sono quelli di rafforzare il
controllo gerarchico sui funzionari dei livelli inferiori. Questi codici impongono inoltre una
morale supererogatoria che contrasta con l'obiettivo principale dell'etica applicata: quello cioè di
dare vita ad una principled governance non utopica e dunque self-enforcing.
In ultimo risulta evidente come anche nei confronti dei cittadini i vari codici offrono
garanzie limitate. Per un verso i codici evitano di assumere impegni etici sostanziali e si
limitano all'enunciazione di meri principi formali. I codici non riconoscono diritti di
cittadinanza alcuna né servono per garantire ai cittadini servizi sociali necessari per l'esercizio
dei diritti riconosciuti a livello costituzionale. Per altro verso le forme di voice attribuite ai
cittadini quando non sono del tutto irrilevanti hanno una valenza contrattuale che mimica le
relazioni commerciali di mercato. Ai cittadini viene riconosciuta voce in capitolo solo in quanto
clienti della PA a cui è dovuta una qualche forma di compensazione per danni subito
nell'erogazione di un servizio. A questi rimane però preclusa la possibilità di influire sulla
determinazione dei criteri da utilizzare per valutare sia la qualità dei servizi forniti sia le forme
di compensazione adeguata. Le carte dei servizi risultano inoltre del tutto superflue nei casi in
cui il servizio non è attivato affatto o quando si procede alla sua disattivazione. In entrambi i
casi l'unica forma di voice rimane infatti quella della rappresentanza politica. Ciò spiega come, a
partire dagli anni '80, sia stato possibile assistere al proliferare dei codici e delle carte dei servizi
simultaneamente alla riduzione dei diritti di cittadinanza attiva e al restringimento degli spazi di
partecipazione democratica.
Note
1
Sul ruolo e rilevanza dell'utilitarismo per le politiche pubbliche vedi Viano (2002, cap. 4) e le raccolte di
saggi a cura di Lecaldano e Veca (1986) e Sen e Williams (1982).
2
Il primo e secondo gioco sono gli ambiti di analisi della teoria della scelta collettiva (social choice
theory). Il secondo e il terzo caratterizzano invece le aree di ricerca della teoria della scelta pubblica
(public choice). Il terzo e il quarto corrispondono invece al campo d'azione delle teorie della burocrazia in
senso stretto. In letteratura non esiste una distinzione netta fra questi approcci. Per la teoria della scelta
collettiva vedi Martelli (1983) e Rusconi (1989). Per la teoria della scelta pubblica vedi McLean (1987) e
Mueller (1989). Per la teoria della burocrazia vedi Niskanen (1994), Peacock (1992) e i saggi contenuti
nella terza parte del volume curato da Brosio (1989).
3
Sarebbe a dire la produzione di mercato dove il prezzo è stabilito dall'incrocio tra domanda e offerta.
Ciò implica il riconoscimento della natura pubblica dei beni e servizi prodotti dalla burocrazia.
4
Questi due significati si ritrovano anche nell'opera dell'economista francese Vincent de Gournay che
coniò il termine burocrazia verso la metà del diciottesimo secolo. L'autore francese è conosciuto anche
per avere coniato lo slogan liberista laissez faire, laissez passer (cfr. Albrow, 1970).
5
Onde evitare fraintendimenti è bene notare che l'obiettivo di questa critica non è quello di negare che la
PA sia inefficiente. Al contrario, la critica intende sottolineare come l'approccio economico non sia
riuscito ad elaborare un modello esplicativo generale delle cause di tale inefficienza.
6
Rispetto all'approccio di Sacconi la teoria politica delle organizzazioni di McMahon risulta più
consistente sia da un punto di vista analitico sia motivazionale. Il primo tipo di coerenza è dovuto al fatto
che nel caso della PA non risulta affatto chiaro se esista un incentivo ex ante da parte dello stato a
vincolarsi. Il modello neo-hobbesiano a cui fa riferimento Sacconi sarebbe valido se applicato al contesto
delle relazioni internazionali ma risulta meno convincente quando utilizzato per le relazioni interne.
Un'alternativa hobbesiana più adatta sarebbe quella sviluppata nel secondo capitolo dove l'azione del
sovrano è connessa con il tentativo di prevenire l'emergenza di coalizioni difensive. Esistono inoltre
dubbi sull'abilità della reputazione nel motivare i funzionari pubblici ex post. Primo: il modello di Sacconi
richiede la modifica dell'intera struttura interna della PA in senso manageriale così da connettere
reputazione e carriera. Secondo: il sistema degli incentivi descritto da Sacconi è puramente monetario. La
95
ETICA DELLA PA E TEORIE DELLA BUROCRAZIA
combinazione di riforma manageriale e manipolazione dei soli incentivi monetari potrebbe aggravare le
forme di opportunismo che affliggono la PA, come d'altronde avviene nelle imprese private.
7
Per un maggiore approfondimento dei casi trattati rimandiamo il lettore ai contributi contenuti in
Sacconi (1998). Mentre per seguire gli sviluppi più recenti si consiglia di visionare le pagine internet
dell'OGE (www.usoge.gov) e del Committee on Standards in Public Life (www.public-standards.gov.uk).
Purtroppo al momento il sito del Ministero della funzione pubblica non dedica spazio alcuno alle
tematiche etiche.
8
Sui governi della Thatcher e di Major vedi Stott (1995), mentre su quelli laburisti vedi Monbiot (2001).
9
La commissione ha inoltre elaborato un codice etico per i ministri e sta discutendo il progetto di codice
etico per i parlamentari.
10
Il codice è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 84 del 10/05/2001 e diffuso nella PA attraverso
una circolare del 12/07/2001 (n. 2198/M1/1D/MZ) emessa dal ministro Frattini. Rispetto agli 88 articoli
del codice Cassese il nuovo codice ne conta solo 14, ma rinvia alla regolamentazione precedente per la
copertura delle aree non trattate da questo. Da un punto di vista sostanziale non si riscontrano innovazioni
significative; la revisione sembra sia stata infatti puramente stilistica.
11
Un'analisi critica dettagliata del codice Cassese si trova in Sacconi (1994b), a cui si rimanda anche per
la visione dei testi predisposti dalla commissione Cassese riportati in allegato.
96
VI
Mafia, antimafia e autoregolazione: una proposta normativa
Il racket rappresenta una delle forme più antiche e persistenti di attività mafiosa. In particolari
contesti del meridione il fenomeno risulta largamente diffuso e ha una natura pervasiva. La
ragione che spiega il motivo del suo sviluppo e della sua persistenza è data dal ritorno
economico che questa attività procura a coloro che la praticano. Ai benefici economici si
associa inoltre l'immunità acconsentita dalle autorità giudiziarie, le quali hanno per lungo tempo
manifestato la tendenza a sottovalutare l'importanza del fenomeno. Un atteggiamento questo
largamente condiviso anche dalle forze politiche ed economiche più direttamente interessate dal
problema. Una consolidata opinione comune ha infatti ritenuto l'estorsione una forma di attività
criminale minore; cioè a dire, non particolarmente cruenta e pericolosa dal punto di vista
dell'ordine pubblico. A confermare tale opinione ha contribuito l'apparente blandezza delle
azioni ritorsive. Pochi sono stati i fatti eclatanti che hanno attirato l'attenzione dell'opinione
pubblica e il racket si è prevalentemente limitato a colpire la proprietà piuttosto che le persone.
Ne è scaturito un giudizio di non pericolosità sociale che tanto ha impedito l'elaborazione di
efficienti politiche repressive.
La revisione di una così consolidata opinione si è avuta solo a partire dagli anni '90. A
determinarla hanno contribuito diversi elementi: una maggiore sensibilità seguita ad alcuni
violenti fatti di cronaca (quali l'omicidio di Libero Grassi); l'organizzazione spontanea degli
imprenditori economici ricattati in funzione difensiva; una maggiore collaborazione fra estorti e
forze dell'ordine; una più precisa conoscenza del fenomeno. Alla maggiore sensibilità pubblica
si è accompagnato, in campo scientifico, un rinnovato impegno nello studio del problema. Sono
state così messi appunto nuovi e più raffinati modelli interpretativi che proprio dall'analisi del
racket hanno ricavato elementi interessanti per spiegare la peculiarità dell'agire mafioso. Le
diverse ipotesi interpretative hanno concentrato l'attenzione sulla specifica relazione che lega
l'agire mafioso alla particolare struttura dei mercati economici. In primo luogo si è cercato di
chiarire se esiste una specificità mafiosa rispetto ad altre forme di criminalità organizzata, in
cosa consiste, quali motivi ne sono la causa. Ciò ha portato ad una ridefinizione, in senso
restrittivo, del concetto di criminalità mafiosa rispetto quella comune con la quale intrattiene
complesse relazioni fino al punto da confondervisi. Le analisi descrittivo-interpretative hanno
reso possibile elaborare nuove ipotesi sul modo di ridurre le diseconomie ambientali che
rafforzano il predominio criminale. E' questo tipo di problematiche che il presente capitolo
affronta e discute.
La tesi che sosteniamo è che le organizzazioni criminali mafiose rappresentano delle
strutture di protezione privata che operano in contesti sociali in cui non si ha un'adeguata
protezione pubblica. Rientrano in questi ambiti i mercati illegali, dove quest'ultima è
naturalmente esclusa, ma anche i mercati legali dove l'azione giudiziaria assicurata dallo stato è
fortemente deficitaria. Questa tesi si basa su un'interpretazione del fenomeno mafioso già
rilevata da Max Weber (1922) e sviluppata in modo rigoroso da Diego Gambetta (1989; 1992)1.
Secondo questa ipotesi, i gruppi mafiosi rappresentano agenzie di protezione privata che
assicurano copertura e garanzia (nonché investimento finanziario) alle attività e ai soggetti
operanti in contesti non-cooperativi. La Mafia, in quanto organizzazione, sviluppa così due
funzioni: una di enforcement di accordi e contratti e una di coordinamento fra i vari soggetti
operanti nei mercati (legali e illegali). I gruppi mafiosi soddisfano quindi un'esigenza di
sicurezza che possiamo definire pubblica e questo assicura loro un insediamento stabile
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
all'interno di vari mercati e settori economici.
Va però notato che a differenza della protezione garantita dallo stato quella mafiosa non
rappresenta un bene pubblico. L'opera di enforcement e di coordinamento garantita dalla Mafia
assicura solo forme di cooperazione collusiva le quali operano un rafforzamento delle
diseconomie ambientali che impediscono un sano sviluppo economico. I modelli analitici che
spiegano la persistenza del fenomeno mafioso attraverso il riferimento alla funzione economica
svolta dai gruppi mafiosi non avanzano certo una giustificazione del fenomeno2. Al contrario
l'intento che si propongono è quello di rendere evidenti le ragioni che spingono i singoli agenti
economici a scegliere la strada collusiva. In questo modo si cerca di spiegare la forza
dell'insediamento mafioso e l'inefficienza delle politiche che non incidono sulla funzione
protettiva delle organizzazioni mafiose. Risulta chiaro infatti che l'azione giudiziaria anche nei
casi in cui è riuscita a scompaginare le strutture verticistiche si è poi dimostrata incapace di
impedire la loro ricomposizione. Difetti non meno problematici hanno avuto le politiche di
sviluppo le quali hanno finito per rappresentare una fonte di finanziamento privilegiato dei
gruppi mafiosi e il punto di congiunzione con il sistema delle imprese e quello politico.
Le indicazioni normative che presentiamo in questo capitolo sostengono la necessità di
sviluppare delle reti cooperative di natura solidaristica e non collusiva: una cooperazione 'buona'
contrapposta a quella 'cattiva' prodotta dalla Mafia (Sacconi, 1994c). Lo sviluppo di queste reti
cooperative viene realizzato attraverso la diffusione di strumenti di autoregolazione etica, quali i
codici etici d'impresa e delle professioni. L'idea che cercheremo di argomentare è che i codici
etici, intesi come contratti sociali parziali integrativi, potrebbero far emergere convenzioni
economiche moralmente giustificate; tali da rappresentare una alternativa efficiente alle reti
collusive presenti nei mercati protetti. Il lavoro si articola nel seguente modo. Nella prossima
sezione presentiamo un approccio al fenomeno mafioso che utilizza i modelli analitici
dell'economia neo-istituzionale. Successivamente discutiamo il concetto di estorsione e
chiariamo come l'azione mafiosa non è sempre definibile come tale ma ha presso una natura
genuinamente protettiva. Nell'ultima sezione viene chiarito come meccanismi di
autoregolazione possono essere utilizzati per sviluppare reti cooperative morali alternative a
quelle collusivo-mafiose. Il capitolo si conclude con la disamina della stabilità evolutiva delle
reti cooperative solidaristiche, intese come sviluppo intenzionale di convenzioni economiche dal
chiaro contenuto morale.
INEFFICIENZA STRUTTURALE DEI MERCATI MERIDIONALI E RUOLO DELLA MAFIA
Come visto nel capitolo quarto, l'economia neo-istituzionale sostiene che le particolari forme
organizzative presenti in un mercato, settore economico o area geografica, hanno una relazione
diretta con la struttura dei costi di transazione. Le varie delle forme istituzionali esistenti sui
mercati reali rappresentano cioè soluzioni razionali agli alti costi di transazione che affliggono
le imprese (cfr. Williamson, 1985). La questione da investigare è allora la seguente: è possibile
leggere lo specifico caso del Mezzogiorno d'Italia attraverso questo schema concettuale? E'
questa cornice teorica in grado di dirci qualcosa di nuovo, e di significativo, circa i problemi del
sottosviluppo economico? E ancora più specificamente, è l'analisi neo-istituzionale in grado di
spiegare problemi quale quello della persistenza e della pervasività delle organizzazioni
mafiose?
Gli studi sulle interrelazioni tra sottosviluppo e criminalità portati avanti nel secondo
dopoguerra hanno seguito due linee di analisi distinte: una di carattere storico-economico, l'altra
socio-antropologico3. In entrambi i casi emergono elementi comuni che possono essere integrati
in un modello teorico unitario. Secondo questo modello il sottosviluppo del meridione si deve ai
problemi di azione collettiva che affliggono queste regioni; problemi che determinano costi di
transazione in media più elevati rispetto a quelli presenti nei contesti economici del CentroNord (cfr. Putnam, 1993). Due le sorgenti di inefficienza sociale:
•
il contesto strategico a dilemma del prigioniero in cui operano gli agenti economici
98
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
•
l'esistenza di convenzioni ed istituzioni economiche le quali rappresentano soluzioni
inefficienti ai problemi strategici posti dal dilemma del prigioniero
In merito al primo punto si fa notare come una delle caratteristiche macroscopiche dei
mercati meridionali sia l'assenza di fiducia e di un'etica pubblica. La peculiarità del carattere
meridionale è quello di non fidarsi mai di nessuno, di considerare con scetticismo la capacità
degli altri individui di mantenere la parola data, o di rispettare gli impegni presi, in tutti quei
casi in cui risulta economicamente conveniente non mantenerla affatto4. Non si tratta comunque
di un dato antropologico originario, ma il risultato di politiche sviluppate da dominazioni
passate e rafforzate dalle esperienze quotidiane negative degli individui (cfr. Banfield, 1958 e
Padgen, 1989). La sfiducia rappresenta sia la causa sia l'esito dell'emergere in modo
generalizzato di comportamenti opportunistici che mirano allo sfruttamento esasperato delle
asimmetrie informative. Ciò ha impedito lo svilupparsi nel tempo di convenzioni morali
favorevoli alla reciprocità degli scambi e, quindi, di forme di cooperazione allargata (cfr. Banti,
1989; Del Monte, 1992). Le aspettative negative circa il comportamento degli agenti si sono
talmente consolidate nel tempo che risulta razionale assumere comportamenti opportunistici
ogni qual volta si entra in relazione con nuovi soggetti. Solo così si evita di cadere preda
dell'opportunismo degli altri. Nei termini della teoria dei giochi il contesto meridionale si
presenta quindi come un dilemma del prigioniero; sarebbe a dire un gioco dove l'unica strategia
razionale è quella della defezione preventiva.
Assenza di fiducia, forti asimmetrie informative, mancanza di convenzioni morali e di
forme allargate di cooperazione, aspettative razionali di defezione: tutti questi elementi
concorrono a mantenere il sistema economico all'interno della frontiera paretiana (cfr. Dasgupta,
1989). L'inefficienza generale del sistema è data dal fatto che numerosi tipi di transazioni non si
realizzano a causa dei costi proibitivi. Se l'agente B ritiene altamente probabile che l'agente S si
comporterà in modo opportunistico, questi sarà disposto ad entrare in una relazione contrattuale
con l'agente S se, e solo se: (i) esiste la possibilità di stipulare un contratto completo, in grado,
cioè, di prevenire tutte le possibili azioni opportunistiche, per tutti gli eventi stocastici possibili;
(ii) esiste un apparato giudiziario che rende conveniente all'agente B ricorrervi per far valere i
propri diritti legittimi in caso di violazione delle clausole contrattuali. La letteratura neoistituzionale a cui abbiamo accennato precedentemente ha reso esplicite le difficoltà a che
queste due condizioni si realizzino. Prima di tutto risulta estremamente improbabile che si possa
arrivare a definire dei contratti di lungo periodo completi, o anche a prevedere gli eventi future
da regolare. Per quanto riguarda il ricorso all'apparato giudiziario, si fa notare come esistano
inefficienze difficilmente eliminabili. In primis esiste una difficoltà teorica riguardo
all'osservazione diretta di particolari stati del mondo da parte di un giudice imparziale. Ciò
significa che è spesso difficile esprimere un giudizio obiettivo su determinate controversie. Una
seconda causa riguarda l'inefficienza relativa dell'apparato burocratico a cui è affidato il
compito di amministrare la giustizia. Inefficienza che determina allungamenti dei tempi per
ottenere il giudizio. In assenza di questi elementi (contratti di lungo periodo completi, efficienza
dell'azione giudiziaria) è razionale per B non entrare in relazione con S. Ciò spiega la tendenza
dei singoli a mantenere comportamenti strategici opportunistici che determinano un'allocazione
subottimale delle risorse economiche.
Da un punto di vista teorico risulta ancora aperto il dibattito sul perché non siano emerse
nel Meridione le soluzioni istituzionali del tipo descritti dalla teoria neo-istituzionale: la
sostituzione del mercato e delle libere transazioni con forme di pianificazione istituzionale e
transazioni gerarchiche. La ricerca storica ha avanzato l'ipotesi che i meccanismi di integrazione
verticale descritti da Williamson (1985) hanno trovato una parziale realizzazione a causa della
tendenza degli operatori economici a diversificare gli investimenti in modo da suddividere i
rischi. Per altro verso, la presenza di alti livelli di turbolenza sociale ha impedito l'emergere di
soluzioni alternative quali i distretti industriali, le cooperative economiche, etc5. Particolarmente
complesso è lo studio del tipo di relazioni causali che esiste tra fenomeno mafioso e
sottosviluppo economico: è la Mafia un prodotto del sottosviluppo o la sua causa? Come il ruolo
99
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
svolto dai gruppi mafiosi continua a retroagire sul contesto?
Diego Gambetta ha sistematizzato e reso particolarmente interessante una tesi cui anche
Max Weber (e Franchetti prima ancora) aveva dedicato alcune osservazioni. Secondo Gambetta
le organizzazioni mafiose assolvono una funzione di intermediazione fiduciaria. Il meccanismo
teorico che spiega il fenomeno prende le mosse da quanto abbiamo in parte già esposto. Un
soggetto economico che opera su un mercato altamente turbolento e con forti asimmetrie
informative si trova costantemente sottoposto al rischio dell'opportunismo della controparte. E'
quindi portato a ricercare forme di assicurazione adeguate che gli permettano di evitare il
'bidone', come convenzionalmente viene chiamata la truffa6. In questo ambito trova terreno
fertile l'emergere di agenzie private di protezione che garantiscono il soggetto economico
esposto all'asimmetria informativa dall'opportunismo della controparte. Naturalmente questa
protezione richiede un costo, il quale è proporzionale all'incertezza presente nel mercato. Nello
specifico meridionale lo sviluppo delle agenzie di protezione è stato favorito e a preso la
particolare configurazione che ha in ragione dell'esistenza di risorse specifiche liberate dallo
smantellamento del sistema feudale e del latifondo avvenuto nella prima metà del 1800. Come
lo stesso Franchetti nota "La differenza portata dalla abolizione della feudalità nelle relazioni
sociali si ridusse dunque a questo: che come la ricchezza, così la prepotenza diventò accessibile
ad un maggior numero, e che quella popolazione di facinorosi che prima era al servizio dei
baroni diventò indipendente; sicché, per ottenere i suoi servizi bisognò trattare con essa da pari a
pari. L'astuzia entrò in maggior proporzione a costituire la forza privata. Ma la forza rimase
sempre il mezzo di ottenere in ogni disputa o gara, la vittoria definitiva" (1876: 76)7.
Quello che ha reso e rende peculiare l'attività dei mafiosi non è, comunque, la funzione di
intermediazione economica da questa acquisita. L'attività di raccolta e vendita delle
informazioni necessarie ai soggetti economici è solo un aspetto della funzione di patronage
svolta dalla Mafia. Funzione che certamente ne spiega la persistenza nel tempo e il forte
insediamento nelle comunità locali, ma che non esplica pienamente la differenza rispetto alle
figure economiche di intermediazione legale emersa in altri contesti sociali che condividono una
storia simile. La peculiarità dell'azione mafiosa è data dal fatto che essa non si limita a vendere
informazioni, ma assicura garanzie ben precise sulle informazioni in suo possesso. Come
Gambetta chiarisce: "che [l'intermediatore] sviluppi o meno caratteristiche mafiose dipende
principalmente dal fatto che produca e venda informazioni oppure garanzie" (1992: 9). Questo
spiega perché l'intermediazione fiduciaria si sia sviluppata in modo pervasivo, ma anche, perché
in altri contesti, diversi da quello meridionale, ha avuto e tende a mantenere una funzione
economica e sociale del tutto legittima. Nella seconda metà del XX secolo lo sviluppo di ricchi
mercati illegali ha poi rappresentato un'area di intervento che si è aggiunta all'intermediazione
mafiosa tradizionale ed ha accentuato l'anomalia con le forme di intermediazione istituzionali
legali8.
L'analisi del ruolo economico della Mafia non costituisce, come abbiamo anticipato, una
giustificazione morale del fenomeno criminale per almeno due ragioni. In primo luogo le
agenzie private di protezione finiscono col ricoprire un ruolo che negli stati moderni ha
rilevanza pubblica ed è appannaggio dello stato. La Mafia cerca di sovrapporsi allo stato, con la
significativa differenza che l'intermediazione offerta dalla prima non rappresenta mai un bene
pubblico. La protezione mafiosa rimane sempre un bene posizionale il cui costo è crescente. In
secondo luogo, essendo la retribuzione dei mafiosi proporzionale all'incertezza presente sul
mercato, questi hanno la convenienza a che la turbolenza sociale e le diseconomie ambientali
permangano. Ciò determina e promuove l'immissione volontaria di dosi di sfiducia nei mercati.
L'esempio paradigmatico è dato dall'enforcement dei diritti di proprietà. Questi ultimi non sono
mai assicurati in modo stabile ed esclusivo, ma messi perennemente all'asta. Ogni agente ha
quindi la necessità di rilanciare la propria offerta su quella dei concorrenti se vuole evitare di
essere espropriato ad opera della stessa agenzia di protezione. La possibilità di contrattare in
qualsiasi momento l'assegnazione dei diritti rende imprecisa la distinzione fra legale e illegale e
impedisce di attribuire ai gruppi mafiosi una qualsivoglia funzione statuale. La conclusione è
che, da un punto di vista generale, l'intermediazione mafiosa rappresenta una soluzione
100
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
decisamente subottimale dei problemi di azione collettiva con cui si confrontano i soggetti
economici nel meridione.
PROTEZIONE O ESTORSIONE?
Estorsione e protezione rappresentano due modalità d'azione delle organizzazioni mafiose che
nella pratica comune si tende a confondere sovrapponendole. Argomentiamo a favore di una
distinzione perché riteniamo che gli effetti economici a cui entrambe danno vita siano
estremamente diversi; come diverse sono le soluzioni normative che queste richiedono. La
distinzione è inoltre importante perché rende esplicita la complessità strutturale dei legami che
intercorrono fra agenti economici e agenzie di protezione privata nei mercati protetti; nonché gli
effetti perversi che questi hanno sul sistema economico generale in termini di mancato sviluppo.
Un rapporto di protezione può definirsi tale se la garanzia assicurata è relativa a minacce di
natura prettamente endogena. In altre parole, la protezione mafiosa ha una sua validità solo se
aiuta gli operatori economici a difendersi da rischi ambientali non imputabili agli stessi gruppi
mafiosi. Nel caso di azioni protettive che hanno come oggetto la difesa di proprietà, la violenza
deve essere una caratteristica propria del sistema, dovuta cioè alla presenza di una criminalità
comune non mafiosa. Qualora la minaccia fosse data dalle azioni volontarie dei gruppi mafiosi,
si avrebbe invece una relazione estorsiva.
La distinzione proposta è importante per chiarire se esistono ragioni valide che spingono
gli agenti economici a rivolgersi a strutture di protezione extra-istituzionale. E' chiaro infatti che
se l'azione mafiosa ha una valenza puramente estorsiva non esiste convenienza alcuna da parte
degli operatori economici ad usufruire di tale servizio. Il pagamento del 'pizzo' rappresenta
allora solo un modo per evitare i danni che seguirebbero ad un rifiuto a pagare. Da una
prospettiva normativa, gli strumenti da utilizzare in contesti simili sono quelli tradizionali:
politiche repressive dirette allo smantellamento delle organizzazioni criminali; politiche di
sviluppo dirette alla riduzione delle condizioni sociali che producono alti livelli di criminalità.
Dinamiche ben diverse sono prodotte nei casi in cui l'azioni mafiosa non ha una valenza
estorsiva (o solo estorsiva) ma soddisfa un bisogno di protezione genuino. In questi casi
l'implementazione di politiche dirette a combattere il fenomeno estorsivo sarebbe non solo
ineffettiva ma anche controproducente. Lo smantellamento dei gruppi mafiosi che assicurano
protezione esporrebbe gli operatori economici agli effetti della turbolenza sociale e renderebbe
le transazioni economiche estremamente costose. Le politiche di welfare potrebbero inoltre
rappresentare risorse a cui i gruppi mafiosi possono accedere attraverso lo sviluppo di reti
collusive appropriate.
Molte volte la difficoltà ad intendere la funzione economica della Mafia è dovuta alla
tendenza diffusa a considerare le azioni mafiose come puramente estorsive. Si tratta di una
convinzione parzialmente errata, che può essere spiegata, come sostiene Gambetta, dai
meccanismi di autoselezione delle informazioni. Le azioni eclatanti, quelle che attirano
l'attenzione della stampa, dell'opinione pubblica e delle forze di polizia riguardano situazioni di
conflitto, casi in cui il rapporto protettivo non funziona o è meramente estorsivo. Il rapporto di
protezione difficilmente viene alla ribalta perché non esiste nessuna convenienza a denunciarlo.
Per Gambetta esiste nelle regioni meridionali una domanda di protezione diffusa che i gruppi
mafiosi si preoccupano di soddisfare9. Le ragioni che spiegano la convenienza economica degli
agenti ad instaurare delle relazioni di carattere protettivo con i gruppi mafiosi rimandano al
modello che abbiamo presentato nella sezione precedente. In un contesto sociale dove
l'interazione è non-cooperativa, dove esistono livelli elevati di criminalità comune e dove i vari
titoli di proprietà sono controversi o percepiti come tali, avere la protezione mafiosa rappresenta
una scelta ottimale. L'operatore che può contare sulla protezione mafiosa è in grado di ridurre i
rischi dovuti sia all'azione della criminalità comune sia a quella dei diretti concorrenti. Che
l'intermediazione mafiosa implica costi sociali tali da impedire un sano sviluppo socioeconomico ha scarsa importanza per il singolo operatore. Come nel dilemma del prigioniero
101
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
razionalità collettiva e razionalità individuale risultano divergenti.
Da un punto di vista analitico l'opera di intermediazione che Gambetta attribuisce ai
gruppi mafiosi può essere disaggregata in tre tipi distinti. La prima forma di protezione è quella
contro la violenza fisica sulle cose e sulle persone. Questo tipo di violenza ha, a sua volta, tre
cause:
(i)
(ii)
(iii)
l'ambiguità e il senso di illegittimità che caratterizza molti diritti di proprietà esistenti
l'esistenza di alti tassi di criminalità comune
l'incapacità delle autorità statali nell'imporre il rispetto della legge
Il secondo tipo di protezione assicurato dalla Mafia è diretto contro l'opportunismo degli
agenti economici e combina funzioni di intermediazione con quelli di assicurazione. Data la
natura incerta delle relazioni contrattuali e la difficoltà a distinguere tra operatori onesti e
disonesti, esiste un incentivo a ricorrere al mafioso per ottenere informazioni affidabili o per
avere la mediazione dello stesso. In questo caso è l'azione del mafioso che permette la
realizzazione di transazioni che altrimenti non avrebbero luogo. L'intervento del mafioso può
inoltre essere richiesto ex-post-factum per recuperare le perdite incorse in una precedente
transazione andata a male o per punire un operatore disonesto.
Il terzo ed ultimo tipo di protezione riguarda la creazione di reti collusive che restringono
il mercato e/o l'accesso alle risorse pubbliche. In alcuni ambiti la protezione mafiosa assicura il
mantenimento di oligopoli competitivi attraverso la prevenzione di ogni forma di competizione
tra gli oligopolisti. In questi casi i mafiosi assolvono il compito di enforcers di accordi collusivi.
Alternativamente, l'azione mafiosa è utilizzata per creare oligopoli ex novo imponendo barriere
all'entrata che prevengono lo sviluppo di mercati competitivi. L'azione mafiosa si è rivelata
particolarmente effettiva nel controllare l'accesso agli appalti pubblici. Qui i gruppi mafiosi
sono riusciti ad assicurarsi il controllo delle aste e hanno quindi impedito l’emergere di una
genuina concorrenza fra imprenditori indipendenti e imprenditori collusi.
Occorre comunque precisare che l'intermediazione mafiosa non risulta sempre
conveniente. Secondo Gambetta l'accordo protettivo è conveniente solo nei casi in cui esiste un
equilibrio stabile fra i vari gruppi mafiosi, o quando queste organizzazioni prestano attenzione ai
profitti di lungo periodo rispetto a quelli realizzabili a breve. Nel caso contrario il contratto
assume un carattere esclusivamente predatorio e la protezione si trasforma in semplice
estorsione. Quando l'azione mafiosa riesce ad imporre un controllo oligopolistico sui mercati e
sugli appalti, i guadagni ottenuti dalle imprese coinvolte sono più che compensati dai costi
sociali generali supportati dai cittadini. La protezione mafiosa risulta quindi altamente
subottimale anche quando non è estorsiva nei confronti delle imprese.
Le diseconomie prodotte dall'intermediazione mafiosa sono così riassumibili. Primo, il
contratto di protezione determina una relazione di mutuo benessere fra organizzazioni mafiose
ed imprese economiche i cui costi sono scaricati su tutti gli agenti non protetti, o la cui
protezione non è efficiente, presenti sul mercato. Secondo, i costi individuali in cui incorrono
coloro che non sono protetti rafforzano la razionalità del sottoscrivere un contratto di protezione
e forza gli operatori indipendenti a stabilire relazioni con i vari gruppi presenti sul territorio.
Terzo, il meccanismo protettivo una volta inseritosi nel mercato crea le ragioni del proprio
rafforzamento e diventa così self-enforcing. Quarto, le politiche repressive che riescono ad
eliminare le 'cosche' operanti sul territorio eliminano anche le tenue forme di protezione
esistenti e riportano l'interazione sociale entro un nuovo dilemma del prigioniero.
La protezione come bene indivisibile: un'eccezione
La protezione, essendo un bene economico ha, alla stregua di tutti gli altri, un suo mercato, la
cui caratteristica è quella di avere una natura monopolistica. La presenza di più agenzie
protettive per uno stesso territorio determina infatti alti livelli di conflittualità la cui soluzione è,
necessariamente, o una guerra con un solo vincitore, o una fusione fra le diverse agenzie, o un
accordo sulle zone di influenza. In questo mercato il capitale aziendale è dato dalla reputazione
102
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
dell'agenzia: è tale reputazione che assicura l'osservanza degli accordi collusivi attraverso un
limitato ricorso alla violenza. Il ruolo giocato dalla reputazione giustifica però forti obiezioni
circa la possibilità di distinguere tra protezione ed estorsione. Nei mercati fortemente protetti, o
in contesti sociali ad alta densità mafiosa, un atteggiamento di rifiuto a comprare protezione
potrebbe avere ricadute sulla reputazione dell'agenzia di protezione; potrebbe essere letto come
un atto di indipendenza o di spavalderia e ridurre, per questa via, la credibilità del mafioso.
Sorge così un'esigenza di controllo totale del territorio; esigenza che rende vuota la distinzione
avanzata. Gambetta risponde all'obiezione in un duplice modo: facendo riferimento ad alcuni
dati empirici; sollevando un'accezione all'idea che la protezione mafiosa abbia sempre una
natura posizionale.
La letteratura giornalistica e giuridica sorta negli ultimi anni permette di notare come le
ritorsioni del racket verso i clienti riluttanti solo in pochi casi assumono forme violente quali
l'omicidio. "Contrariamente a quanto si crede", scrive Gambetta, "il rifiuto di comprare
protezione in quanto tale non va incontro il più delle volte a una risposta violenta. [...] i mafiosi
non uccidono i clienti recalcitranti; al peggio li infastidiscono, e causano danni alle loro
proprietà. Gli imprenditori che vengono assassinati sono quelli che hanno violato patti presi con
i mafiosi in precedenza o che hanno denunciato i mafiosi alle autorità" (1992: 64)10. Si ricorre
all'omicidio solo in casi di denuncia alle forze dell'ordine, come è avvenuto per Libero Grassi,
l'imprenditore tessile palermitano ucciso nell'agosto del 1991. Per il resto le ritorsioni
riguardano le proprietà e hanno delle motivazioni particolari: hanno cioè a che fare con
l'applicazione degli accordi collusivi che limitano le entrate e la concorrenza nei mercati. Il
secondo tipo di ragione che spiega il ricorso alla violenza per imporre forzosamente il 'pizzo'
riguarda ambiti in cui la protezione perde la sua caratteristica di bene posizionale e assume la
forma di bene indivisibile. Risulta abbastanza frequente riscontrare situazioni in cui il contratto
di protezione sottoscritto da alcuni operatori finisce per agevolare tutti gli imprenditori che
operano su quel dato territorio. In questi casi la richiesta estorsiva può essere vista come
l'imposizione di forme di tassazione generalizzata per un servizio di cui tutti usufruiscono, ma
che solo alcuni pagano. La ritorsione verso coloro che si rifiutano di pagare rappresenta quindi
una risposta violenta verso i comportamenti opportunistici di alcuni agenti, il cui fine è la
divisione equa dei costi di protezione.
Concludiamo con una breve osservazione. Come abbiamo detto sopra, spesso relazioni di
protezione si trasformano in estorsione, ma può anche darsi il caso che relazioni estorsive
divengano protettive. Il passaggio può essere imposto dal sopraggiungere di eventi o minacce
nuove ed improvvise, come ad esempio il formarsi di una nuova banda criminale o lo
sconfinamento di un'altra. In queste situazioni la protezione fittizia del rapporto estorsivo ha
buone probabilità di divenire effettiva. Come osserva Gambetta, non sempre l'imposizione è
indice di inutilità11.
AUTOREGOLAZIONE E SVILUPPO DI RETI COOPERATIVE MORALIZZATE
Secondo l'ipotesi suggerita da Gambetta, la Mafia non genera il problema della subottimalità
evidenziato dal dilemma del prigioniero ma è da questo stesso generata. In quanto agenzia di
protezione privata, la Mafia rappresenta una convenzione sociale emersa spontaneamente al fine
di risolvere problemi di azione collettiva strutturali. Solo che come soluzione si è dimostra
parziale, inefficiente e fonte di ulteriori costi sociali, in termini di mancato sviluppo economico
e alti tassi di criminalità. La 'soluzione mafiosa' assicura quindi nicchie cooperative a discapito
di forme più ampie ed estese. Se questa ipotesi è valida la soluzione del problema richiede
politiche che spezzino le reti collusive e favoriscano lo sviluppo di reti cooperative alternative
dove il ruolo della Mafia è irrilevante. Si tratta cioè di sviluppare convenzioni sociali che
risolvano in modo efficiente e moralmente accettabile il problema delle diseconomie ambientali
che si oppongono allo sviluppo. Risulta evidente infatti che in ambiti dove l'azione mafiosa non
ha un mero carattere predatorio, ma da anzi vita a relazioni mutuamente vantaggiose, esiste una
103
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
vera e propria impasse giudiziaria. Il problema che si pone è, allora, quello di definire strategie
normative non giudiziarie che possono risultare efficaci ed efficienti in contesti dove prevalgono
le logiche protettive.
Da una prospettiva etica l'emergere di comportamenti opportunistici su larga scala non
rappresenta né un dato naturale, né l'espressione di una predisposizione genetica
all'acquisizione. Al contrario, i comportamenti opportunistici sono visti come l'espressione di un
malessere di fondo per il modo in cui le istituzioni fondamentali della società distribuiscono
beni e risorse, diritti e doveri. L'economia neo-istituzionale ha implicitamente riconosciuto la
validità di questo argomento etico nella trattazione delle due forme di opportunismo
responsabili per l'evoluzione della moderna impresa economica: selezione avversa e azzardo
morale. In entrambi i casi viene infatti sottolineato come sia il cattivo disegno degli incentivi a
favorire lo sfruttamento esasperato delle asimmetrie informative. Le imprese il cui ethos
aziendale premia la competizione darwinista finiranno per attirare solo persone disposte ad
operare senza scrupoli. Similmente, le imprese che si basano su schemi di incentivi puramente
monetari finiranno per promuovere comportamenti egoistici diretti alla massimizzazione dei
benefici attesi. A differenza della teoria neo-istituzionale, l'approccio etico ritiene che
l'opportunismo vada combattuto non per mezzo di interventi ingegneristici, ma attraverso lo
sviluppo di strategie culturali dirette allo sviluppo di forme di voice e di lealtà diffuse.
Considerazioni simili possono essere sviluppate quando passiamo dal livello
microeconomico a quello macroeconomico. La soluzione del deficit fiduciario che affligge le
regioni meridionali e che è alla base del sottosviluppo e della criminalità mafiosa richiede la
riformulazione del contratto sociale fra i soggetti che partecipano alle varie istituzioni
intermedie e fra lo stato e le istituzioni intermedie stesse. Tale riformulazione implica lo
sviluppo di un movimento etico che coinvolga i vari attori che compongono la società civile
attraverso un diffusa implementazione di strumenti di autoregolazione. In questo quadro i codici
etici rappresentano contratti sociali parziali che redigono la mappa completa dei diritti e doveri
spettanti ai vari stakeholders. La definizione dei principi sottostanti i vari contratti sociali
parziali ha, a sua volta, una duplice funzione: quella di rompere con il sistema di ingiustizie e
discriminazioni sociali alla base del deficit fiduciario e quella di indicare il corso d'azione
saliente per tutti coloro che sono intenzionati a rompere con le reti collusive mafiose. Un
movimento etico di questo tipo potrebbe, dal nostro punto di vista, mettere in moto dinamiche
che porterebbero all'emergere di 'convenzioni sociali' dalla forte valenza morale. Soluzioni che
sottostimano la forza motivazionale che principi di giustizia condivisi possono avere per lo
sviluppo di una sana cooperazione sociale sono parziali e destinate al fallimento.
Nei paragrafi che seguono cercheremo di chiarire come l'approccio etico appena delineato
possa favorire la nascita di un movimento etico antimafia. Prima di tutto verranno chiariti gli
effetti benefici che l'autoregolazione etica è in grado di procurare nello specifico contesto
meridionale. Successivamente viene esplicitato come sia possibile implementare uno schema di
principled governance simile senza incorrere in costi di governo eccessivi. Infine viene discussa
la stabilità evolutiva che tale movimento può acquisire nel competere con strutture collusivocriminali disposte a ricorrere alla violenza.
L'autoregolazione nel contesto strategico meridionale
Vediamo di analizzare quali effetti possono avere i codici etici nel particolare contesto
meridionale. Abbiamo visto che il contratto di protezione offerto dai mafiosi si caratterizza
come un marchio di qualità che rafforza la posizione di mercato delle imprese che lo
sottoscrivono. Nel caso dei commercianti gli effetti dell'intermediazione mafiosa sono, per
esempio, non solo di garanzia dalla criminalità diffusa, ma permettono la salvaguardia/aumento
della clientela. Questo si ottiene in diversi modi: attraverso la garanzia della sicurezza (nessuno
a paura di essere coinvolto in furti o attentati all'interno del negozio); per mezzo delle relazioni
particolari che i mafiosi mettono a disposizione dei propri protetti (fornitori che praticano prezzi
più bassi, o forme di pagamento dilazionate, maggiori possibilità di accedere al credito bancario
104
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
e non, garanzia da comportamenti opportunistici, da ricontrattazioni successive, etc.); regolando
l'entrata di nuovi concorrenti nel mercato. Si tratta di agevolazioni che rappresentano delle
economie positive importanti da un punto di vista competitivo e che sono in grado di
determinare il successo o il fallimento delle imprese. Una strategia di principled governance che
sia evolutivamente stabile deve quindi essere in grado di offrire incentivi che siano grosso modo
equivalenti a quelli ottenibili attraverso la sottoscrizione del contratto protettivo. Solo in questo
modo può una coalizione antimafiosa attrarre un numero significativo di soggetti economici e
competere con quella mafiosa.
Come l'autoregolazione etica può contribuire allo sviluppo di reti fiduciarie alternative a
quelle protezionistiche offerte dalla Mafia? Dare vita ad una rete fiduciaria significa assumere
degli impegni pubblici che limitano l'azione discrezionale degli agenti in tutti i casi in cui si può
ricavare un vantaggio economico dalla violazione degli accordi stabiliti. L'effettività di un
sistema di vincoli simili dipende dell'essere una strategia condizionale la quale richiede di
cooperazione solo con quanti assumono un impegno simile. Una struttura a rete richiede quindi
due cose: la sottoscrizione di codici etici che vincolano gli agenti e l'istituzione di comitati etici
che monitorano l'osservanza degli accordi sottoscritti. Un corretto funzionamento della rete
dovrebbe permettere una riduzione dei costi di transazione a causa di un ridotto opportunismo
che l'osservanza dei codici comporta. Il monitoraggio e la sanzione delle violazioni dovrebbe
inoltre garantire una selezione degli agenti economici che porta all'esclusione dei free-riders
dalla rete stessa. Una volta che la rete è resa operativa meccanismi reputazionali dovrebbero poi
essere in grado di attirare nuovi soggetti economici verso le reti rafforzandole ulteriormente.
Posti di fronte al scelta tra una rete cooperativa etica che riconosce e assicura il rispetto di
principi universali e una rete collusiva dove è lasciato ai gruppi mafiosi decidere di volta in
volta chi ha un titolo legittimo che va protetto, è plausibile assumere che un numero crescente di
operatori economici troverebbe conveniente scegliere la prima sulla seconda.
L'argomento può essere formalizzato nel seguente modo. Abbiamo due coalizioni, una di
carattere mafioso M che attraverso contratti protettivi assicura determinati benefici economici,
un'altra antimafiosa A che intende assicurarsi dei benefici, quantomeno uguali alla prima, senza
stabilire relazioni collusive. Occorre allora dimostrare che entrare nella coalizione A sia più
conveniente che entrare in M. A rispetto ad M si affida ai codici e non all'uso della violenza,
riconosce validità universale ai diritti di proprietà legittimi indipendentemente dalla
disponibilità a pagare dei titolari, ha uno schema istituzionale di riferimento (sistema delle
imprese, associazioni professioni, stato) più stabile di quello di M dove l'equilibrio fra le varie
agenzie di protezione è pur sempre un equilibrio turbolento. La conclusione è che esiste una
convenienza ex ante ad entrare nella coalizione antimafia in quanto la garanzia assicurata dai
codici etici è potenzialmente più sicura di quella garantita dai contratti di protezione mafiosi. Il
problema consiste allora nel dimostrare che esiste anche una razionalità ex post a mantenere la
coalizione A, cioè ad osservare gli accordi sottoscritti volontariamente.
Una risposta positiva richiede che i guadagni della coalizione A siano nettamente
superiori a quelli della coalizione M. Ciò è possibile solo se:
(i) la coalizione è tanto estesa da determinare un alto numero di transazioni cooperative
(ii) esistono particolari agevolazioni per coloro che scelgono di entrarvi (cfr. Lorenz, 1989)
Nelle fasi iniziali la prima condizione sembra alquanto difficile da soddisfare. Se l'analisi svolta
circa gli effetti pervasivi e diffusi dell'intermediazione mafiosa è corretta, all'inizio la coalizione
A sarà sicuramente minoritaria rispetto ad M. Il difetto numerico può essere compensato
attraverso la manipolazione dei pay-offs fra le due coalizioni. Si dovrebbero predisporre
particolari schemi di incentivo che spingano gli operatori verso la coalizione A piuttosto che
quella M. Ad esempio si dovrebbe fare in modo che sia le associazioni di categoria sia la
pubblica amministrazione stabiliscano criteri preferenziali che, a parità di condizioni, premiano
i soggetti economici che sottoscrivono e osservano i principi stabiliti dalla coalizione A. Nel
caso delle associazioni di categoria ciò equivale all'imposizione dell'obbligo di sottoscrivere il
codice etico come precondizione per l'accettazione presso l'associazione stessa. Nel caso della
105
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
pubblica amministrazione si dovrebbe stabilire che l'assegnazione degli appalti di fornitura e i
vari sussidi economici a cui si può accedere dipendono dall'accettazione e osservanza di codici
etici adeguati. In questo modo risulterebbe rafforzata anche la convenienza a rimanere nella
coalizione A, e quindi la stabilità della rete ex post.
Vediamo di chiarire come è possibile coinvolgere la pubblica amministrazione e le
associazioni di categoria. Entrambe queste istituzioni operano per mezzo di prerogative delegate
loro dal potere sovrano dello stato. Nel caso delle associazioni di categoria, l'iscrizione alle
varie camere di commercio e albi professionali rappresenta una condizione indispensabile per
potere operare nel mercato e per accedere alle agevolazioni che lo stato riconosce a favore dei
vari soggetti economici. In un sistema democratico l'esercizio di poteri delegati simili richiede
una precisa esplicitazione delle ragioni che giustificano le restrizioni che queste organizzazioni
impongono ai soggetti economici e i benefici sociali che tali istituzioni procurano ai cittadini in
generale. Questo equivale a definire le responsabilità sociali che le associazioni di categoria
hanno quale contropartita per l'esercizio dei poteri loro delegati. A ciò va inoltre associato un
sistema di monitoraggio che verifichi l'effettivo svolgimento delle funzioni sociali attribuite loro
e limiti l'abuso di potere da parte di queste organizzazioni. Nel contesto meridionale le
associazioni di categoria hanno fallito in modo sistematico nel compito di proteggere le imprese
e gli operatori onesti dalla competizione dei collusi. Spesso anzi il loro operato ha portato
all'aumento dei costi burocratici che le imprese non protette hanno dovuto affrontare. Lo
sviluppo di forme adeguate di autoregolazione etica avrebbe quindi una triplice funzione:
(i)
(ii)
(iii)
ristabilire le responsabilità sociali associate all'esercizio del potere delegato;
proteggere gli operatori economici onesti dall'abuso di potere di queste organizzazioni;
stabilire forme di controllo effettive che penalizzino gli operatori collusi.
L'effettività di una principled governance da parte delle imprese e delle associazioni di
categoria dipende in larga misura dal modo di operare della pubblica amministrazione e degli
organi di governo. Ovviamente se le istituzioni dello stato non migliorano l'efficienza dei servizi
pubblici risulta estremamente difficile ridurre le diseconomie ambientali che sono all'origine
della domanda di protezione mafiosa. Allo stesso modo, se le istituzioni pubbliche non si
autovincolano attraverso la sottoscrizione di codici etici, non solo risulta difficile smantellare i
networks mafiosi, ma si finisce per favorire le relazioni collusive tra politici, burocrati e mafiosi.
Nel capitolo precedente abbiamo visto come strumenti di autoregolazione possono modificare i
comportamenti della pubblica amministrazione e ridurre le inefficienze dell'azione burocratica.
Primo: attraverso l'istituzionalizzazione di forme di voice adeguate è possibile ridurre sia
l'asimmetria informativa a favore dei burocrati sia gli abusi di potere a danno dell'utenza.
Secondo: il riconoscimento dello spazio discrezionale lasciato agli ufficiali pubblici e la
definizione dei principi che devono ispirare l'esercizio di tale discrezionalità possono aprire la
pubblica amministrazione allo scrutinio dei cittadini e prevenire forme estese di corruzione.
L'azione congiunta di queste prescrizioni avrebbe due ulteriori implicazioni: quello di rendere
evidenti le aree che richiedono interventi strutturali di carattere legislativo dirette ad eliminare la
farraginosità delle procedure burocratiche; quello di rendere la pubblica amministrazione meno
permeabile alle pressioni concussive di politici, imprese e gruppi criminali.
In conclusione la razionalità ex post di una rete può ottenersi attraverso
l'implementazione di un meccanismo che possiamo chiamare 'effetto domino della sanzione'.
Secondo questo meccanismo le imprese osservano gli impegni etici per evitare di incorrere nelle
sanzioni delle associazioni di categoria. A loro volta le associazioni di categoria devono dare
corso alle sanzioni se no incorrono nelle sanzioni degli organi pubblici da cui derivano il potere
delegato. In questo modo si riduce il rischio di un accordo collusivo fra imprese e associazioni
che blocca l'effettività dell'autoregolazione. Ovviamente se si forma una coalizione collusiva fra
tutti i soggetti a cui è demandato comminare sanzioni allora l'intera struttura a rete crolla. In un
contesto in cui il pubblico ha però voce in capitolo e le informazioni possono circolare
pubblicamente la possibilità di una coalizione collusiva di queste dimensioni sembra alquanto
remota. Da un punto di vista evolutivo una rete cooperativa simile dovrebbe essere in grado di
106
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
sviluppare sentimenti di giustizia corrispondenti e una selezione dei tratti caratteriali della
popolazione che promuovono la fiducia.
Autoregolazione e segmentazione dei mercati
Gambetta (1992) ritiene che il grosso ostacolo all'emergere di forme di cooperazione allargata
nel meridione è dovuto alla strutturale ristrettezza dei mercati meridionali. Nei mercati
meridionali il numero dei clienti indipendenti, che cioè possono mettere in atto meccanismi
punitivi verso i collusi risulta fortemente ridotto. Questo ha decretato l'insuccesso dei vari
movimenti antimafia sorti in passato e continua a ridurre l'impatto degli effetti reputazionali
negativi per coloro che sottoscrivono accordi collusivi. Esiste allora un limite allo sviluppo di
convenzioni sociali del tipo da noi suggerito, dovuto al fatto che un movimento etico A non
riuscirebbe ad attirare la massa critica necessaria per spostare l'equilibrio sociale da M ad A.
L'obiezione coglie un elemento importante che spiega il motivo che ha impedito l'evoluzione
spontanea di reti cooperative alternative a quelle mafiose. Non risulta pienamente valida se
riferita a modelli di principled governance che vogliono sviluppare reti solidaristiche in modo
intenzionale. Risponderemo all'obiezione considerando i diversi elementi che determinano la
segmentazione dei mercati. La tesi che sosteniamo è che esistano indicazioni che fanno ben
sperare circa l'abilità dell'autoregolazione di incidere profondamente sullo sviluppo futuro di
almeno uno degli elementi più significativi: quello culturale.
Il carattere ristretto dei mercati meridionali dipende da tre fattori: tecnologici, giuridici e
culturali. L'estensione di ogni mercato è connessa con le variabili tecnologiche che influenzano
la produzione in ogni determinata fase storica. La teoria economica descrive il rapporto come
una relazione di dipendenza causale, nel senso che solo innovazioni che modificano le tecniche
di produzione e/o di distribuzione possono portare ad una espansione dei mercati (cfr. Nelson,
1995). L'autoregolazione ha effetti trascurabili in questo ambito. Le innovazioni tecniche sono
una variabile esogena che non dipende dal modello normativo presentato e che pertanto non
riteniamo necessario discutere approfonditamente. Gli unici elementi che vale la pena ricordare
sono i processi tecnologici dovuti alla rivoluzione informatica e quelli portati dal processo di
unificazione europea. Entrambi concorrono nel rendere meno obbligate le soluzioni produttive
da impiegare e meno angusti i mercati su cui operare. Tra i fattori giuridici che influenzano i
mercati vanno ricordati quelli relativi al produzione e commercio delle droghe. La legislazione
in materia ha creato mercati illegali che assicurano ai gruppi mafiosi fonti di reddito enormi.
Redditi che possono poi essere reinvestiti per lubrificare i circuiti collusivi col mondo delle
imprese e della politica. Ridurre gli effetti negativi prodotti da questi mercati implica la
revisione delle politiche responsabili per la creazione degli stessi; vanno quindi anche questi
aldilà dell'ambito d'azione dell'autoregolazione etica.
Diverso è il caso dei fattori culturali. In quest'ambito una migliore comprensione dei
problemi che hanno afflitto i movimenti antimafia passati è di estrema importanza per
individuare strategie atte a promuovere incrementi paretiani. Che cosa spiega il fallimento dei
movimenti antimafia sorti in passato? Una possibile spiegazione riguarda la natura
frammentaria di questi movimenti e i problemi di azione collettiva con cui i vari gruppi si sono
a loro volta confrontati. La varietà e diversità dei gruppi che hanno storicamente dato vita a
movimenti antimafia è naturalmente un segno di vitalità sociale che refuta lo stereotipo
dell'inerente passività dei meridionali. Sfortunatamente questo è anche un indice della litigiosità
e del settarismo che ha caratterizzato tali movimenti. Una ragione che spiega la frammentarietà
del movimento antimafia è, in parte, connessa con il fatto che i vari gruppi sono spesso sorti
come il prodotto dell'azione di leaders più o meno carismatici. Conseguentemente, le attività dei
vari gruppi sono risultate troppo personalizzate per riscuotere i favori di un pubblico ampio, o si
sono risolti in manifestazioni tanto atomistiche quanto impressionistiche. La natura
personalistica dei vari gruppi ha poi reso i leaders obiettivo privilegiato della ritorsione mafiosa.
Da qui l'esigenza di provvedere alla loro sicurezza attraverso un rafforzamento della coesione
interna, forme di permanente vigilanza, un coltivato isolazionismo e un profondo scetticismo
107
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
riguardo alle genuine motivazioni degli altri gruppi. Strategie simili hanno però finito per
rafforzare i problemi di azione collettiva che affliggono i movimenti e ridotto l'abilità delle
coalizioni antimafia di promuovere forme allargate di cooperazione.
Un'altra ragione che spiega la debolezza dei movimenti antimafia è eminentemente
politica. In un contesto sociale dove esistono profonde ineguaglianze economiche e un diffuso
senso di ingiustizia, l'azione collettiva richiede l'individuazione di criteri di giustizia che, nelle
parole di Tim Scanlon, nessuno potrebbe ragionevolmente rifiutare come base per un accordo
equo e duraturo (1982). L'azione politica tradizionale è stata non solo incapace nell’individuare
principi simili, ma ha finito per accentuare i conflitti fra le diversi componenti della società
civile stessa. I regimi post-unitari sono intervenuti nel mezzogiorno con un misto di politiche
repressive indiscriminate e accordi collusivi con élite locali che hanno minato la legittimità del
governo centrale. Al deficit di sostegno diffuso si è quindi cercato di supplire con meccanismi
di scambio politico diretti ad aumentare il sostegno specifico (cfr. Mastropaolo, 1998). Questo
ha però portato allo sviluppo di logiche clientelari che hanno distorto la competizione politica,
aumentato i costi di governo e reso intermediazione mafiosa ancora più effettiva.
Una rappresentazione del tipo di interazione che si ha in ambiti dove esiste una pluralità
di gruppi che perseguono strategie antimafia alternative è data nella matrice riportata in figura
6.1.
Giocatore X
M
A1
A2
A3
C
D
M
3;3
5;2
5;2
5;2
5;2
5;3
Giocatore Y
A1
A2
A3
2;5
2;5
2;5
1;1
4;4
4;4
4;4
1;1
4;4
4;4
4;4
1;1
5;1
5;1
5;1
4;4
4;4
4;4
C
2;5
2;5
2;5
2;5
1;1
1;5
D
3;5
4;4
4;4
4;4
5;1
4;4
Figura 6.1: Interazione in ambiti dove il movimento antimafia è frammentato
Nella matrice M sono le strategie che implicano la protezione mafiosa, C e D si riferiscono a
strategie di cooperazione e defezione libera, mentre le strategie A1, A2 e A3 sono quelle
connesse con strategie cooperative condizionali connesse con l'appartenenza ai diversi gruppi
antimafia. I numeri si riferiscono come al solito all'ordine delle preferenze individuali, dove 1
indica la scelta preferita al di sopra di tutte le altre e 5 quella meno preferita. I giocatori protetti
dalla Mafia non sono mai in grado di realizzare la scelta 1 perché incorrono nel costo necessario
per avere la protezione. Assumiamo inoltre che nel caso in cui interagiscono con altri agenti
protetti o con opportunisti incalliti i benefici che ricavano sono ulteriormente ridotti: nel primo
caso perché i mafiosi evitano di farsi sgarbi fra di loro; nel secondo caso perché gli opportunisti
possono intervenire sul mafioso attraverso pagamenti diretti. Assumiamo infine che coloro i
quali aderiscono ai gruppi antimafia cooperano solo con i membri dello stesso gruppo ma
defezionano con tutti gli altri. L'unica eccezione riguarda le interazioni con i protetti da cui
accettano di farsi sfruttare per non incorrere nella ritorsione dei mafiosi.
In un contesto strategico del genere la strategia M risulta decisamente superiore a quella
A. Dato che esistono diverse strategie condizionali, gli agenti si trovano a confrontarsi con il
rischi connessi alla mancata coordinazione. A questi si aggiungono poi i costi di assicurazione
impliciti nel passare da una strategia di maximin ad una cooperativa. Le conclusioni a cui porta
l'analisi costi-benefici sono così quelle di rafforzare la convenienza a sottoscrivere contratti di
protezione e di rendere estremamente penalizzante la scelta cooperativa C12.
Vediamo ora in che modo l'implementazione di una struttura a rete basata sui codici
etici cambia le relazione strategiche tra le parti. La sottoscrizione di codici etici implica
108
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
l'accettazione di principi morali che vincolano il soggetto a non comportarsi
opportunisticamente. Come ci siamo sforzati di chiarire nei capitoli precedenti, i codici devono
fare riferimento al contratto sociale generale; devono cioè richiamarsi a principi di giustizia
sociale sui quali esiste un accordo generale e definire un quadro normativo unitario e coerente.
Le organizzazioni che prendono parte alla rete si devono inoltre impegnare a garantire forme di
monitoraggio e accettare i giudizi espressi dai comitati etici indipendenti. Ciò comporta due
cose: (i) la creazione di una rete cooperativa antimafiosa singola dove esiste (ii) un uso pubblico
delle informazioni. La matrice che descrive l'interazione sociale in ambiti simili è riportata in
figura 6.2.
Giocatore X
M
A
C
D
M
3;3
5;2
5;2
5;3
Giocatore Y
C
A
2;5
2;5
2;5
1;1
5;1
1;1
4;4
1;5
D
3;5
4;4
5;1
4;4
Figura 6.2: Interazione in ambiti dove il movimento antimafia è unitario
Rispetto alla situazione precedente qui esiste una sola strategia antimafia A sulla quale
convergere. Questo significa rendere la coalizione antimafiosa saliente (graficamente data dal
grassetto) per quanti intendono rompere con le logiche collusive ed evitare i problemi di
coordinazione che emergono in contesti dove esiste frammentazione. In termini evolutivi
possiamo pensare alla strategia A come caratterizzata da un bacino d'attrazione più ampio
rispetto a quello di M e quindi in grado crescere a scapito di quest'ultima. L'obbligo a
sottoscrivere i codici e un'effettiva imposizione degli stessi sono condizioni indispensabili per
prevenire l'invasione di strategie opportunistiche mutanti. Sarebbe a dire, quelle strategie
opportunistichee che mimano i modi d'agire cooperativi antimafiosi.
L'esistenza di una coalizione antimafiosa avente le caratteristiche descritte sopra non
avrebbe solo la funzione di connettere le organizzazioni produttive. La coalizione ha infatti una
salienza sociale che può risultare attraente pure per coloro che operano su mercati meno affetti
dai rischi di sfruttamento opportunistico ma che tendono a rispondere positivamente alle
tematiche etiche e per i consumatori etici. La somma di questi benefici dovrebbe garantire alla
coalizione A un avvantaggio competitivo superiore a quella M. La competizione tra le due
colazioni dovrebbe quindi essere in grado di sviluppare dinamiche evolutive capaci di
restringere le strategie M ai mercati illegali e alle transazioni collusive a cavallo tra legale e
illegale. Per ridurre il ruolo dell'intermediazione mafiosa anche in queste aree sono necessarie,
come detto, interventi legislativi esogeni rispetto alla autoregolazione etica.
Coalizione antimafiosa e reazione mafiosa violenta
Esiste un'ultima obiezione a cui necessita dare una risposta prima di concludere. L'obiezione
riguarda la reazione dei gruppi mafiosi verso le strutture di aggregazione promosse dalla
coalizione A. Sarebbe del tutto plausibile assistere ad una risposta militare dei gruppi mafiosi
contro coloro che rompono con le logiche collusive con costi elevatissimi per gli agenti colpiti
dalla ritorsione. Ciò determinerebbe uno svantaggio concorrenziale della coalizione A nei
confronti di M difficilmente eliminabile attraverso l'uso degli incentivi richiamati sopra.
Rispondere a questa obiezione non è semplice. Certamente la nascita di un movimento etico che
tende a minare il dominio e l'egemonia dei gruppi criminali susciterebbe ritorsioni gravi. I
mafiosi cercherebbero di difendere la propria reputazione e il proprio dominio sul territorio
utilizzando la forza e l'intimidazione. Resta comunque da vedere che effetto avrebbe questo
comportamento all'interno delle relazioni estorsivo-protettive descritte sopra.
109
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
Come abbiamo detto prima, la forza delle diverse agenzie di protezione privata è
assicurata dal tacito accordo degli agenti economici, i quali trovano conveniente (rispetto alla
diverse alternative possibili nel contesto) l'accordo di protezione. In questi ambiti le azioni
violente si manifestano solo per situazioni particolari: rifiuto di pagare una protezione di cui
godono i benefici; violazioni di accordi collusivi; denunce alle forze dell'ordine. Quando questo
non avviene si risponde al rifiuto di protezione senza un ricorso ad azioni violente: si lascia cioè
l'imprenditore in balia dell'ambiente e lo si espone agli effetti della mancata protezione. La
violenza endogena e la sfiducia pubblica vengono così utilizzate per rafforzare la convenienza a
sottoscrizione il contratto protettivo. Nel caso in cui la convenienza a partecipare alla coalizione
M abbia però solo 'ragioni militari' (perché esiste una rete cooperativa antimafiosa efficiente nel
ridurre l'incertezza ambientale) è lecito supporre che l'imposizione violenta degli accordi
mafiosi comporti uno slittamento progressivo delle relazioni protettive verso relazioni di
carattere estorsivo del tipo di quelle riscontrate per esempio a Capo d'Orlando (cfr. Palumbo,
1993). Il che avrebbe come probabile esito il moltiplicarsi dei tentativi di defezione dalla
coalizione M, anche e soprattutto attraverso l'azione di denuncia.
Dare vita ad una rete fiduciaria moralmente vincolante e antimafiosa ha degli effetti che
possono essere così riassunti. Primo: l'esistenza di una coalizione antimafiosa fa sì che l'accordo
protettivo non rappresenti più il solo 'marchio' di garanzia operante nel mercato. Secondo:
questo determina lo sviluppo di meccanismi concorrenziali fra i due 'marchi' di cui uno ha
caratteristiche morali nettamente superiori. Terzo: la reazione violenta contro entrata del nuovo
'marchio' nel mercato, trasforma il rapporto di protezione (volontario) in rapporto di estorsione,
con effetti di lungo periodo deleteri (aumento delle denunce di estorsione alle forze dell'ordine).
Quarto: l'azione di repressione delle forze dell'ordine ne risulta rafforzata e moltiplica le
difficoltà dei gruppi mafiosi nel controllare le attività economiche presenti sul territorio. Quinto:
a queste difficoltà si aggiungono le possibili tensioni all'interno degli equilibri mafiosi e
l'accentuazione delle azioni di spoliazione dei clienti che rendono i contratti di protezione
sempre meno appetibili. Il risultato finale dovrebbe essere il ridimensionamento (se non
l'esclusione) dei mafiosi sui mercati legali e un ripiegamento su quelli illegali, dove,
evidentemente, i meccanismi autoregolativi descritti hanno scarso effetto.
CONCLUSIONI
Nel presente capitolo ci siamo preoccupati di analizzare alcune ragioni che rendono peculiare
l'azione e la funzione della criminalità mafiosa. Un'ipotesi interessante che abbiamo cercato di
seguire vede la Mafia come insieme di agenzie di protezione privata la cui funzione è quella di
soddisfare le esigenze di sicurezza in contesti dove la fiducia è un bene scarso e l'azione
pubblica largamente inefficiente. In quest'ottica il ricorso all'intermediazione mafiosa assume la
forma di una convenzione sociale in grado di risolvere dilemmi cooperativi pervasivi e
generalizzati. Si tratta comunque di una soluzione inefficiente sia dal punto di vista economico
sia sociale. L'azione protettiva tende, infatti, ad assumere la caratteristica di bene posizionale
che contribuisce ad aumentare la sfiducia e i costi di transazione esistenti sui mercati. L'impasse
cooperativa è inoltre risolta solo all'interno di reti collusive che annullano i meccanismi
concorrenziali. Si sviluppa così una cooperazione perversa che premia le transazioni cattive in
luogo di altre moralmente preferibili. Gli effetti più evidenti sono l'impossibilità di un sano
sviluppo economico-sociale, alti tassi di criminalità, distorsione nella valorizzazione dei talenti.
A poco servono, in questo contesto, le soluzioni giudiziarie ed economiche tradizionali.
Essendo l'azione mafiosa una soluzione di equilibrio ai problemi di azione collettiva che
affliggono la società meridionale, la repressione giudiziaria finisce col distruggere le uniche reti
protettive esistenti e ricrea le condizioni per la loro ricomparsa. Essendo fortemente sviluppate,
le reti collusive sono inoltre in grado di distorcere i meccanismi di allocazione autoritativa delle
risorse in modi a loro favorevoli. I modelli analitici utilizzati hanno inoltre evidenziato come la
stabilità e l'efficienza delle reti collusive rende estremamente difficoltoso lo sviluppo di un
110
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
senso generale di rivolta. Malgrado questo rappresenti il desiderio di ampi settori della società
civile, la rivolta richiede infatti comportamenti supererogatori. L'idea che abbiamo cercato di
argomentare è che occorre sviluppare politiche di intervento che, in aggiunta all'azione
repressiva dello stato, riducano le diseconomie ambientali responsabili per la domanda di
protezione extra-istituzionale. Il confronto analitico fra le soluzioni suggerite dalla teoria neoistituzionale e quelle dell'autoregolazione etica ha messo in evidenza le potenzialità di queste
ultime quali veicoli per lo sviluppo una rete cooperativa antimafiosa. Si è cercato infine di
chiarire come una strategia di intervento decentrata basata sulla sottoscrizione e osservanza di
codici etici implichi costi di governo ridotti rispetto alle politiche pubbliche tradizionali.
I codici sono stati intesi in una particolare accezione contrattualista, e cioè come
esplicitazione di contratti sociali parziali ipotetici fra stakeholders che partecipano alle
istituzioni intermedie della società civile e dello stato. L'effettività dei codici è stata indagata
attraverso l'analisi della stabilità evolutiva che una struttura a rete basata sull'autoregolazione
etica potrebbe avere. In merito ai problemi di efficienza sociale e di stabilità evolutiva, l'opzione
rilevante che abbiamo cercato di giustificare rimane la necessità di attribuire una natura
contrattualista ai codici, i quali devono incorporare criteri di giustizia sociale capaci di ottenere
il sostegno di tutti coloro che sono interessati al progetto cooperativo etico. Solo in questo modo
potrebbe l'accordo rappresentare un vincolo efficace contro le tentazioni collusive garantite dai
circuiti mafiosi.
Note
1
In Economia e società Weber afferma: "Quest'ultimo tipo [prestazioni estorte] è rappresentato dalla
Camorra nell'Italia meridionale e dalla Mafia in Sicilia [...] Queste prestazioni sono intermittenti soltanto
all'inizio, in quanto formalmente 'illegali'; ma in pratica assumono spesso il carattere di 'versamento
periodico' in cambio di determinate prestazioni, e specialmente di una garanzia di sicurezza. Ecco
l'osservazione di un fabbricante napoletano, fattami circa vent'anni fa: 'Signore, la Camorra mi prende x
lire al mese, ma garantisce la sicurezza - lo stato me ne prende dieci volte tanto, e garantisce niente' (tr. it.
1986: 195)". La citazione weberiana è simile a quanto riportato da Gambetta in (1989) a proposito del
'bidone equino'.
2
Un'eccezione di rilievo è la sentenza del giudice Luigi Russo del tribunale di Catania. Vedi Russo
(1991) e le considerazioni critiche di Fiandaca (1991) alla sentenza.
3
Tra le opere storiche vale la pena ricordare Lupo (1996), Pezzino (1987), Renda (1997) e Spampinato
(1987). Per quanto riguarda le letture economiche contrapposte del fenomeno vedi Catanzaro (1991),
Centorrino (1994), Gambetta (1992) e Santino e La Fiura (1990). Classici dell'analisi socio-antropologica
sono Banfield (1958), Blok (1974), Hess (1970) e Schneider(s ) (1976). A queste andrebbe aggiunto il
saggio di Franchetti (1876) le cui osservazioni continuano ad essere di particolare interesse.
4
Secondo una definizione tecnica la fiducia rappresenta una particolare distribuzione probabilistica
bayesiana compresa fra 0,5 e 1. Le distribuzioni che sono comprese fra 0 e 0,5 rappresentano, all'opposto
la sfiducia. Per una discussione generale sul concetto di fiducia vedi Lane e Bachman (1998), Mutti
(1987), Roniger (1988) e Sacconi (1990).
5
Per coloro interessati alla letteratura sull'argomento segnaliamo Trigilia (1988) e Del Monte e Giannola
(1992).
6
Akerlof (1970) e Schelling (1978) per l'analisi teorica dei problemi che ciò crea per il mercato.
7
Gambetta (1992) suggerisce una lettura del processo emergenziale che ha portato allo sviluppo dei
gruppi mafiosi simile a quello proposto da Nozick (1974). Riteniamo comunque che un modello più
congruente sia quello elaborato da Hayek (1982, I). In Nozick l'ambiente sociale all'interno del quale
prendono forma le agenzie private di protezione è moralizzato in senso lockiano. Ed è proprio questo
carattere che spiega i limiti strutturali all'espansione delle agenzie sul territorio. In Hayek non esiste
questa caratterizzazione morale e la spiegazione fa solo riferimento ai problemi di coordinazione esistenti
in contesti dove l'interazione è decentrata. Per un'analisi più approfondita del modello hayekiano e delle
difficoltà che questo incontra nel dare conto del fenomeno mafioso vedi Palumbo (2000, cap. 5).
111
MAFIA, ANTIMAFIA E AUTOREGOLAZIONE
8
I mercati illegali rappresentano infatti contesti economici dove l'interazione è giocoforza noncooperativa e richiede delle forme di enforcement extra-statale. In questo capitolo non trattiamo
comunque le problematiche sollevate dall'esistenza di mercati illegali e restringiamo la nostra attenzione
all'intermediazione mafiosa nei mercati legali. Per una disamina delle interazioni che occorrono nei
mercati illegali rimandiamo ai saggi contenuti nel volume curato da Zamagni (1993).
9
L'ipotesi di Gambetta è stata oggetto di numerose obiezioni. Catanzaro (1994) e Santino (1994)
ritengono che la protezione mafiosa sia solo fittizia e che la tesi di Gambetta manca di supporto empirico
adeguato. Le ipotesi di Catanzaro e Santino restano comunque su interpretazioni alternative dell'evidenza
empirica disponibile piuttosto che su dati empirici diversi da quelli utilizzati da Gambetta. Santino ritiene
inoltre che la riproduzione del sistema Mafia si deve al controllo istituzionale operato da un blocco
sociale borghese sul resto della società civile. L'ipotesi solleva il dubbio popperiano riguardo alla
possibilità di una falsificazione empirica di tale enunciato. Se è vero che esistono relazioni di natura
collusiva anche sviluppate e durature fra mafia e istituzioni, è altrettanto vero che l'esistenza di un blocco
sociale simile è difficile non solo da provare ma anche da refutare. Un importante contributo alla
comprensione degli effetti perversi della mediazione politica nel Mezzogiorno è quello di Trigilia (1992).
10
Queste considerazioni sono contenute in diverse inchieste empiriche. Anche nei colloqui che abbiamo
avuto con alcuni rappresentanti delle associazioni anti-racket questo elemento è stato più volte
sottolineato.
11
Un supporto empirico alla tesi di Gambetta è dato dal lavoro di Block (1980) sulle organizzazioni
criminali operanti nell'area di New York. Anche qui si assiste al passaggio da relazioni estorsive e
relazioni protettive.
12
Questa lettura del dilemma del prigioniero come composto da tre distinti problemi (ragionamento
isolato, coordinazione e assicurazione) si deve a Baier (1977).
112
Conclusione
Liberalismo e repubblicanesimo: continuità e tensioni
I temi che caratterizzano il dibattito filosofico-politico attuale sono connessi ai conflitti
promossi dai processi di globalizzazione. Questi processi sollevano due tipi di questioni: il
primo tipo riguarda le dinamiche democratiche interne agli stati nazionali, mentre il secondo ha
come oggetto la giustizia tra nazioni. A partire dalla fine degli anni '70 nei paesi occidentali ha
avuto luogo una progressiva riduzione degli spazi di partecipazione democratica. L'attività
politica è stata sempre più relegata alla periodica selezione di un personale politico sul quale,
una volta eletto, i cittadini hanno scarso potere di controllo. Allo stesso tempo si è assistito al
trasferimento del potere decisionale verso strutture burocratiche trasnazionali non elettive e
inaccessibili ai singoli individui e agli interessi deboli. Le politiche di libero mercato adottate
negli ultimi vent'anni hanno infine subordinato le esigenze delle varie comunità locali agli
interessi di un numero ristretto di multinazionali e istituzioni finanziarie. Tali politiche hanno
comportato la radicale riforma delle istituzioni di welfare e sottoposto i paesi in via di sviluppo
alla crescente dipendenza politica e finanziaria dai paesi industrializzati. In questo contesto
particolarmente influente è stato il pensiero neoliberale, il quale ha supplito la legittimazione
culturale necessaria al successo dell'impresa1.
Siffatti cambiamenti hanno favorito lo sviluppo di movimenti di pensiero che premono
per regole costituzionali in grado di proteggere individui, comunità locali e paesi poveri dagli
interessi predatori dei soggetti che operano sui mercati globali. In contrapposizione all’etica
pubblica liberale, questi movimenti non concepiscono la costituzione come un insieme di
vincoli esterni all'azione politica, ma come uno strumento di autogoverno atto a garantire le
comunità locali e nazionali dagli effetti disgreganti del libero mercato. In aggiunta, le regole
costituzionali sono viste non come connesse a principi etici astorici e universali, ma come il
risultato di processi deliberativi concreti che coinvolgono le persone reali. Ad un approccio
'esternalista' che ricerca i vincoli a cui deve sottostare l'azione politico-deliberativa nell’etica si
contrappone un approccio 'internalista' il quale elegge l'ambito politico e la deliberazione
democratica come la base sulla quale costruire una società bene ordinata.
Da un punto di vista filosofico ciò comporta la ridefinizione della nozione stessa di
giustificazione e l'abbandono delle aspirazioni fondative di positivisti logici e deontologici.
Oggetto di critica è anche il principio di unanimità utilizzato dai contrattualisti al quale si
contrappone un meno esigente principio di deliberazione democratica. Nell'elaborare una
struttura giustificatoria non fondativa il riferimento teorico dei protagonisti del nuovo dibattito
filosofico è stato il repubblicanesimo civico: un movimento di pensiero che interpreta la
costituzione come il risultato di un processo deliberativo costituente avente una innegabile
dimensione politica2.
Le ragioni che spiegano l'attrazione del pensiero repubblicano hanno a che fare con il
pregiudizio liberale verso la politica, oltre che con le difficoltà implicite nel definire principi
morali universali e oggettivi. Chantal Mouffe, per esempio, sottolinea come "ciò che è stato
celebrato come la rinascita della filosofia politica non è altro che una mera estensione della
filosofia morale; è ragionamento morale applicato all'analisi delle istituzioni politiche. Questo è
reso manifesto dall'assenza, nel pensiero liberale corrente, di un’accurata distinzione teoretica
tra argomentazione morale e politica" (1993: 147). Un'obiezione questa la cui validità viene
riconosciuta anche da Rawls. In Political Liberalism l'autore ammette infatti che "qui bisogna
distinguere, come d'altronde avrei dovuto fare nell'originale articolo del 1980, tra costruttivismo
CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO
morale e politico" (1993: 90). La revisione proposta da Rawls non soddisfa comunque le
esigenze partecipative dei repubblicani, come dimostra la dura accoglienza riservata al lavoro
del 1993 da pensatori come Sheldon Wolin. Per quest'ultimo Rawls continua infatti ad avocare
una platonica guardian democracy che "privilegia la struttura costituzionale rispetto alla politica
democratica e culmina con l'esaltazione della corte suprema, l'istituzione perennemente favorita
da coloro la cui preoccupazione principale è quella di controllare il demos" (1996: 101).
Nel concludere questo saggio è nostra intenzione chiarire il tipo di relazioni che
intercorrono tra pensiero liberale e repubblicano. Nel fare ciò focalizzeremo l'attenzione su tre
temi principali: il primo riguarda la relazione tra universalismo etico e deliberazione
democratica; il secondo quella tra diritti individuali e giustizia sociale; il terzo considera infine
le implicazioni dell'approccio repubblicano/deliberativo per l'etica applicata. Per ognuna di
queste tematiche i pensatori repubblicani propongono soluzioni che si distaccano da quelle
liberali alle volte in modo radicale. E' comunque nostra opinione che le divergenze tra i due
approcci non sono poi così profonde come da entrambi le parti si tende a sostenere.
DALL'UNIVERSALISMO ETICO AL COSTRUTTIVISMO POLITICO
Come anticipato, la tradizione di pensiero repubblicana era stata riscoperta e portata
all'attenzione dei filosofi politici dalla scuola storica di Cambridge. Diversamente dagli storici
di Cambridge la generazione di pensatori repubblicani emersa negli anni '90 si serve del
riferimento alla tradizione di pensiero iniziata da Machiavelli per avanzare valori sostantivi che
sono in stridente contrasto sia con quelli dell'umanesimo civico, sia con la lettura essenzialista
(e non deliberativa) della volontà generale di Rousseau. La ripresa delle tematiche repubblicane
in questo periodo si lega inoltre alle teorie comunitarie e a quelle postmoderne nel criticare il
pensiero liberale nelle sue varie forme. Anche in questo caso è necessario comunque non
confondere la prospettiva repubblicana con questi altri movimenti di pensiero. L'approccio
repubblicano non si limita alla critica delle concezioni strumentali e individualistiche dei valori
tipiche di comunitari e postmoderni. Al contrario, si impegna per costruire una teoria della
cittadinanza slegata dal pensiero aristotelico e adatta alle esigenze delle moderne società
pluralistiche e multiculturali. I principi del repubblicanesimo civico invocati hanno una struttura
decisamente costruttivistica e kantiana, ma si tratta del Kant politico proposto da Onora O'Neill
(1989) piuttosto che quello etico di Rawls.
Nel discutere le critiche avanzate contro Rawls e, per estensione, contro il
costruttivismo da lui proposto, la O'Neill nota che spesso queste obiezioni confondono problemi
legati alla definizione di modelli astratti con quelli pertinenti alla costruzione di modelli ideali.
Il fatto che l'approccio costruttivista suggerito da Rawls intenda ridurre l'effetto delle
contingenze storico-sociali e proporre procedure decisionali astratte non depone contro la
praticabilità dei principi scelti. L'astrazione da contingenze fattuali è spesso inevitabile e
condiziona la riflessione normativa per sé. Altra cosa è, per O'Neill, il riferimento a
caratteristiche e condizioni ideali. Modelli normativi ideali sollevano il problema della
praticabilità evidenziato prima da Mackie. Come la O'Neill afferma "se le idealizzazioni non
'semplificano' descrizioni dell'agente che sono vere, allora queste non rappresentano modi
innocui di estendere il ragionamento. Tali idealizzazioni assumono e difendono di nascosto
versioni 'reificate' (enhanced) di specifiche caratteristiche e capacità. [...] Esse finiscono per
privilegiare alcuni tipi di agenzia umana e forme di vita le cui caratteristiche peculiari sono
presentate come ideali universali" (1989: 210).
Per O'Neill Rawls difende una versione ideale dell'agente morale che necessita di una
giustificazione di tipo oggettivo, quella sulla quale si sono concentrate le critiche comunitarie.
La ridefinizione del modello costruttivistico portata avanti da Rawls negli anni '80 non ha
intaccato questa dimensione ideale e proposto un liberalismo politico dove gli agenti morali
ideali sono "i cittadini di una moderna polis democratica, i quali accettano la posizione
originaria come uno 'strumento di rappresentazione' che cattura con precisione un ideale
114
CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO
condiviso di ciò che per loro rappresenta un sistema equo di cooperazione sociale tra cittadini
con diverse concezioni del bene" (ibid.: 211).
Secondo O'Neill questo tipo di consenso presuppone l'esistenza di valori condivisi che
però risultano essere tali solo localmente e che di conseguenza espongono la teoria alle accuse
di relativismo. Inoltre le procedure ipotetico-deliberative sottostanti l'idea di ragione pubblica
risultano troppo astratte per dare una guida pratica effettiva alle persone impegnate nella pratica
politica e non attribuiscono valore alla partecipazione politica attiva per sé. Come alternativa
O'Neill suggerisce un approccio che rinuncia al consenso ipotetico di agenti razionali
idealmente situati. Quello che si richiede è "il consenso possibile degli agenti reali. Il cui
criterio non resta sul consenso fattuale (il quale può riflettere falsa coscienza o costrizione) ma
sul fatto che ogni tipo di accordo raggiunto o in offerta possa essere rifiutato e rinegoziato. Se
vogliamo essere sicuri che un principio possa essere condiviso anche da coloro che ne risultano
svantaggiati, dobbiamo accertarci che questi ultimi abbiano avuto la possibilità di rifiutare e
rinegoziare i ruoli e i compiti imposti su di loro dai principi prescelti" (ibid.: 217).
La critica di O'Neill è ripresa da coloro per i quali il consenso ipotetico di Rawls resta
sull'esistenza di principi morali basilari la cui universale accettazione non è solo dubbia, ma
sottovaluta la forza del pluralismo nell'erodere le forme di consenso sociale esistenti nel passato.
Inoltre questi pensatori vedono l'affermarsi del valore della tolleranza religiosa prima e di quella
politica poi come il frutto di modus vivendi raggiunti attraverso l'azione politica e che hanno poi
finito per creare le basi morali del consenso per sovrapposizione ricercato da Rawls. In questo
senso lo scetticismo mostrato da Rawls verso i modus vivendi riflette una preconcezione tipica
del liberalismo filosofico contro la politica come attività pratica. Preconcezione che, a sua volta
"minaccia di rendere i principi di giustizia troppo astratti e lontani dalle circostanze reali in cui
le persone vivono e quindi incapaci di supplire regole pratiche ai soggetti impegnati a definire i
criteri di giustizia cooperativa validi in particolari condizioni politiche" (Bellamy e Hollis, 1996:
4).
Malgrado queste innegabili differenze risulta chiaro che alla base della concezione
politica difesa dai repubblicani rimane necessariamente un appello a valori condivisi tipico
dell'approccio ralwsiano. Nel caso della O'Neill questi sono descritti come i principi di
vittimizzazione: frode, coercizione e violenza. Nel caso di autori come Bellamy e Hollis è
l'impegno ad accettare le conclusioni dei processi deliberativi come vincolanti e a mantenere la
discussione pubblica e la partecipazione a tale discussione aperta a tutti. Di conseguenza, più
che un punto di vista incompatibile con quello rawlsiano, l'approccio repubblicano sembra
richiedere un indebolimento delle condizioni di ragionevolezza imposte dal primo.
Cittadinanza, diritti e stato sociale
Le politiche neo-liberali promosse a partire dalla fine degli anni ‘70, il cui obiettivo era quello
di liberare la società civile dal gioco delle potenti burocrazie pubbliche, si sono ben presto
scontrate con gli interessi di larghi settori della società civile stessa. Sull’esempio della
Thatcher, la reazione dei vari governi neo-liberali è stata quella di:
•
•
•
rafforzare i poteri dell'esecutivo rispetto al legislativo
restringere i diritti sociali ed economici delle classi meno avvantaggiate
delegittimare l'opposizione extraparlamentare promossa dai movimenti sindacali e
noglobal
La violazione delle libertà civili e sociali che ciò ha comportato ha finito perciò per accentuare il
dibattito sui diritti di cittadinanza, sul loro contenuto e sul modo di garantirli. Da un punto di
vista teorico la discussione ha seguito due direzioni: quella giuridico-deontologica suggerita da
Ralws (1971) e Dworkin (1978) e quella repubblicana che, sulle orme della O'Neill, antepone i
doveri ai diritti. La proliferazione di numerose e controverse teorie dei diritti avvenuta nel corso
degli anni '80 ha posto all'ordine del giorno tre problemi:
(i) distinguere tra pretese legittime e richieste implausibili
115
CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO
(ii) dirimere i conflitti tra titolari di diritti contrapposti
(iii) definire come soddisfare adeguatamente questi diritti
La risoluzione di questi problemi ha fatto emergere dubbi non solo in merito a specifiche teorie
dei diritti, ma sulla appropriatezza del linguaggio stesso dei diritti.
Per Alan Ryan (1990), per esempio, il linguaggio dei diritti conserva la carica
assolutistica che caratterizzava le vecchie teorie dei diritti naturali e ha favorito la crescente
segmentazione e litigiosità della società americana. In più, l'autore vede il linguaggio dei diritti
come responsabile per avere contribuito alla giuridificazione delle relazioni sociali e per avere
promosso il trasferimento del potere decisionale nelle mani di avvocati, giuristi e burocrati
indipendenti dal processo democratico e difficilmente controllabili. Da parte sua Chantal
Mouffe (1988) evidenzia come il linguaggio dei diritti abbia favorito non solo la lotta
democratica (democratic struggle), ma anche e soprattutto l'antagonismo democratico tra le
varie minoranze sociali e culturali impegnate nella costruzione delle proprie identità collettive.
Un antagonismo che è alla base delle emergenti forme di razzismo e xenofobia e che non
intacca le forme istituzionalizzate di sfruttamento sociale.
L'ultimo punto è ripreso da Onora O'Neill, la quale si sofferma sulla tendenza delle
istituzioni politiche a sottoscrivere manifesti che riconoscono diritti radicali, salvo poi a
dimostrarsi riluttanti nel supplire le risorse necessarie affinché i titolari legittimi possano farne
un uso effettivo. Secondo il filosofo di Cambridge il linguaggio dei diritti risulta inappropriato
per le moderne società pluralistiche e democratiche dove alle forti pressioni per il
riconoscimento di diritti disparati fa da contraltare la carenza delle risorse necessarie alla loro
implementazione. Particolarmente limitante è poi, per O'Neill, l'interpretazione topografica
(spatial) dei diritti quali sfere di libertà che circoscrivono gli ambiti di autonomia degli
individui. Tale interpretazione solleva problemi teorici refrattari a soluzioni semplici e di facile
applicazione.
Prima di tutto, risulta problematica l'identificazione degli insiemi di libertà che
compongono ogni sfera individuale. L’indeterminatezza impedisce la costruzione di sfere di
diritti compossibili uguali e la selezione di quella che massimizza le opportunità degli agenti. A
sua volta, l'interpretazione topografica stabilisce una correlazione perfetta tra diritti e
obbligazioni che nega l'esistenza delle obbligazioni imperfette. Sarebbe a dire, l'esistenza di
obbligazioni per le quali non è possibile individuare un titolare di diritti a priori. La conclusione
a cui arriva la O'Neill è che il linguaggio dei diritti risulta troppo rigido nel suddividere il
mondo in sfere di libertà individuale, ma incapace di definire i modi in cui "coordinare gli usi di
un mondo che condividiamo e che non può essere diviso in domini esclusivi" (1989: 195).
La soluzione avanzata dalla O'Neill è quella di un costruttivismo modale delle
obbligazioni che "non si basi su massimizzazioni e che quindi non richieda una metrica
plausibile delle obbligazioni stesse. Se una pluralità di esseri razionali distinti deve avere le
stesse obbligazioni, iniziamo costruendo il contenuto di tali obbligazioni attraverso
l'identificazione e la messa da parte di tutti i principi d'azione che non possono guidare le azioni
dei membri di codesta pluralità di esseri razionali pressappoco uguali [...] Il vantaggio offerto da
questo criterio di costruzione è quello di permetterci l'identificazione progressiva delle
obbligazioni" (ibid.: 197). In questo modo la O'Neill pensa sia possibile arrivare alla definizione
di principi di azione di carattere universale che coprano sia le tradizionali categorie dei diritti
individuali, sia le obbligazioni imperfette. L'identificazione seriale delle obbligazioni lascia
inoltre un ampio spazio alla deliberazione democratica e assegna alla politica una funzione di
primaria importanza nell'integrare e adattare la costruzione alle esigenze specifiche a cui si
applica. In questo senso l'approccio costruttivista cerca di connettere la riflessione filosofica sui
principi astratti di azione da utilizzare nella sfera pubblica alla pratica politica quale strumento
di partecipazione, educazione ed emancipazione.
Anche qui le similarità con il costruttivismo etico di Rawls sono più delle differenze.
Entrambi gli autori sono infatti alla ricerca di una ridefinizione della teoria morale kantiana che
vada oltre il mero proceduralismo e arrivi a principi di azione che sebbene astratti non risultino
116
CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO
vuoti di contenuto. Nel caso della O'Neill, la ridefinizione di Kant segue un percorso che vede
l'azione politica non solo come terreno di scontro tra individui con visioni del mondo e
preferenze (morali) fisse e immutabili, ma anche come strumento di confronto, crescita e
costruzione di punti di vista comuni.3 Da notare infine che l'assumere le obbligazioni come
primarie rispetto ai diritti ha la funzione di integrare l'approccio deontologico liberale e di
ricoprire gli interstizi fra sfere di libertà. L'attenzione data alle obbligazioni imperfette intende
infatti proteggere i bambini, i disabili e gli agenti deboli i quali non sono in grado di riconoscere
o di premere per un riconoscimento dei loro diritti. Si preoccupa cioè di quanti necessitano di
una speciale attenzione e cura piuttosto che un diritto alla non interferenza. Sarebbe a dire,
quegli stessi soggetti sociali svantaggiati a cui si rivolge il principio di differenza di Rawls.
ETICA APPLICATA E DELIBERAZIONE DEMOCRATICA
Nel campo dell'etica applicata le critiche dei pensatori repubblicani si concentrano su due
elementi principali: il ruolo dell'esperto etico e la natura degli strumenti da utilizzare per una
effettiva principled governance. Nel primo caso ad essere contestata è l'idea che il ragionamento
filosofico e i dibattiti che questo promuove rappresentino strumenti deliberativi ideali da
preferire a quelli reali. Nel secondo caso l'obiettivo critico sono invece i codici 'concessi' e i
comitati di 'esperti', e l'idea che questi possano sostituire la partecipazione attiva di cittadini e
stakeholders alla deliberazione pubblica. Il principio filosofico che connette le due critiche è
dato dall'idea che i dibattiti ideali non solo non sono in grado di replicare le deliberazioni reali,
ma tradiscono l'ideale stesso di autonomia che li ispira. Da un punto di vista pratico l'approccio
repubblicano ritiene inoltre che l'adozione di procedure deliberative ideali ha scarso effetto
educativo e un valore motivazionale trascurabile.
A mettere in luce le debolezze di un approccio che privilegia le deliberazioni ideali
rispetto a quelle reali è il filosofo Fred D'Agostino. Nel discutere se le conferenze fra esperti
possano incarnare l'ideale di autodeterminazione, la sua risposta è che "la competenza
professionale (expertise) è compatibile con l'autogoverno quando, e solo quando, 'traccia' un
corso ipotetico di ragionamento che 'noi, i cittadini' potremmo avere perseguito noi stessi, sia
individualmente sia collettivamente" (1998: 50). D'Agostino crede che in società genuinamente
pluralistiche tale tracking condition può essere soddisfatta solo in casi banali. Il test fallisce
invece quando si affrontano i conflitti e i dilemmi morali di cui si occupa l'etica applicata:
aborto, eutanasia, pornografia, etc. Il fatto del pluralismo stabilisce infatti che esistono "(a)
dimensioni multiple indipendenti per valutare se la soluzione proposta da un esperto ad un
problema del cliente è adeguata, le quali (b) sono (parzialmente) incommensurabili; nel senso
che (i) la superiorità in una dimensione non varia in modo diretto con la superiorità di un'altra
dimensione, mentre (ii) non esiste un valore dato per compensare la superiorità lungo una
dimensione contro la superiorità lungo le altre" (ibid.).
La tracking condition di D'Agostino ripropone le considerazioni ontologiche ed
epistemologiche che hanno portato Rawls a passare dalla nozione di razionalità a quella di
ragionevolezza. Se la ragione non è in grado di indicare un corso d'azione unico, la risoluzione
dei conflitti etici rinvia a regole e procedure decisionali che hanno una base convenzionale. In
questo contesto la relazione tra esperti e cittadini assume la forma di un confronto fra le
convenzioni prodotte democraticamente e quelle definite dalle istituzioni professionali a cui gli
esperti afferiscono. Ciò permette di definire le varie tipologie ipotetiche in cui esiste
un'incongruenza fra le due e le priorità da seguire in ogni caso. D'Agostino ritiene che "in una
società democratica non esiste ragione alcuna per fare prevalere il giudizio dell'esperto. [...] Se
l'opinione di 'noi, i cittadini' è differente da quella degli esperti, e se l'opinione pubblica è in
accordo con la ragione, questa deve prevalere perché rappresenta la 'nostra' (non irragionevole)
opinione in materia" (ibid.). In altre parole, il fatto del pluralismo non consente agli esperti di
far prevalere la loro opinione su quella espressa democraticamente perché in ultima analisi resta
su una base convenzionale del tutto simile a quest'ultima: il consenso attuale dei propri membri.
117
CONCLUSIONE: LIBERALISMO E REPUBBLICANESIMO
Rispetto a Rawls il fatto del pluralismo richiamato da D'Agostino serve per mettere in
evidenza la rilevanza della partecipazione democratica sia per esprimere giudizi valutativi
appropriati sia per la crescita morale dei cittadini. Secondo D'Agostino "tracciare il
ragionamento (ipotetico) del cliente richiede molto di più che una buona condotta etica e
professionale. Come minimo richiede il conoscere come il cliente risolverebbe le
incommensurabilità e arriva ad uno schema di valutazione generale. Comunque, dato che il
cliente può risolvere le incommensurabilità solo quando si confronta col problema direttamente
[...] l'idea stessa che un esperto possa tracciare il ragionamento del cliente è priva di senso"
(ibid.). In altre parole il giudizio dell'esperto non può essere un perfetto sostituto di quello
dell'agente proprio perché richiede elementi valutativi che solo il diretto coinvolgimento
dell'agente può provvedere. Gli effetti educativi prodotti dalla partecipazione volontaria sono
simili a quelli discussi sopra a proposito del modus vivendi. Per D'Agostino il prendere parte
attiva ad una discussione libera ci può insegnare che questa "può non portare a nessun consenso
sostanziale e quindi che gli individui che dissentono possono avere ragioni per persistere nel
loro disaccordo che la ragione non può disputare" (ibid.: 52). In questi casi per stabilire una
qualche forma di cooperazione è necessario ricercare soluzioni politiche che si basano sul
riconoscimento reciproco e sul compromesso.
In definitiva D'Agostino, come la O'Neill precedentemente, mette in evidenza la
debolezza delle teorie etiche universalistiche e sottolinea la necessità di strumenti deliberativi
che complementino il ragionamento filosofico. Nel campo dell'etica applicata ciò ha due
implicazioni. La prima riguarda la ricerca di criteri di giudizio morale oggettivi e universali.
D'Agostino afferma che in un mondo che riconosce il valore del pluralismo una ricerca simile
non è solo destinata al fallimento, ma può risultare anche controproducente. Un chiaro esempio
in tal senso è il tentativo di risolvere conflitti etici quali quelli posti dall'aborto attraverso la
risoluzione di questioni relative all'identità del feto e dei diritti a questo relativi. La seconda
implicazione riguarda invece l'utilizzo di strumenti di autoregolazione che fanno a meno del
coinvolgimento attivo degli agenti che devono osservarli. Se i ragionamenti degli esperti non
sono in grado di riprodurre quelli dei cittadini, gli strumenti normativi elaborati su tale base
risultano incompatibili con l'idea di autogoverno. Nel migliore dei casi questi strumenti non
fanno altro che riflettere il sistema di valori degli esperti, mentre nel peggiore riflettono gli
interessi di coloro che li hanno commissionati. E' chiaro in ogni caso che strumenti simili hanno
scarsa probabilità di motivare gli individui ad agire moralmente e di promuovere la principled
governance delle società pluralistiche e democratiche.
Note
1
Cockett (1995), Smith (1987) and Stiglitz (2000) discutono l'influenza pratica che il pensiero neoliberale
ha avuto sulle politiche economiche a livello nazionale e internazionale. Una pungente analisi
dell'influenza culturale del pensiero neoliberale si trova invece in Frank (2002).
2
Sul pensiero repubblicano e sul suo revival attuale si vedano i saggi contenuti nei numeri monografici di
Filosofia politica (12, 1, 1998) e di Filosofia e questioni pubbliche (5, 2, 2000) e il volume di Viroli
(1999).
3
L'approccio deontologico di derivazione americana per certi versi sembra infatti replicare i modelli della
scelta pubblica dove le preferenze (morali) degli agenti sono assunte come date, mentre le sole procedure
decisionali valide sono quelle aggregative. In questo senso la discussione deontologica ripropone i
dilemmi paretiani relativi alla definizione di una 'funzione morale' che massimizzi il consenso sociale del
tipo discusso dal teorema di Arrow.
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La filosofia politica contemporanea nasce come riflessione normativa sui principi di giustizia
che debbono caratterizzare una società bene ordinata. L’identificazione di tali principi ideali
rappresenta il primo passo per l’analisi critica delle istituzioni esistenti e per la loro eventuale
riforma. Un approccio di questo genere ha non solo aspirazioni genuinamente normative, ma
una innegabile valenza pratica; vede la riflessione filosofica non solo come una attività
speculativa, ma anche e soprattutto come uno strumento di governance delle moderne società
pluraliste e multiculturali.
Il saggio ricostruisce il processo evolutivo che ha portato all’emergere dell’etica
pubblica e di quelle applicate. La prima parte discute il contributo seminale di John Rawls, i
modelli neo-hobbesiani che hanno perseguito l’ideale rawlsiano della filosofia morale come
teoria della scelta razionale e gli approcci genealogici humeani che hanno invece tentato di
riportare la riflessione filosofica in un ambito eminentemente epistemologico. Nella seconda
parte sono ricostruiti i dibatti filosofici che hanno accompagnato la nascita dell’etica degli affari
e dell’etica della pubblica amministrazione. Queste etiche sono quindi discusse in relazione ad
un caso concreto, la mafia, per vedere se e in che modo possono servire come strumenti di
governance.
Antonino Palumbo è ricercatore di filosofia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università degli Studi di Palermo. Pubblicazioni recenti: «Weber, Durkheim and the
Sociology of the Modern State», in collaborazione con Alan Scott, in Cambridge History of
Twentieth Century Political Thought, R. Bellamy e T. Ball (eds.), Cambridge University Press,
Cambridge 2003; «Liberalism», in Understanding Democratic Politics, R. Axmann (ed.), Sage,
London 2003; Il dibattito filosofico-politico in Gran Bretagna, «Filosofia e questioni
pubbliche» 6, n. 2, 2001; «Administration, Civil Service and Bureaucracy», in Blackwell
Companion to Political Sociology, K. Nash e A. Scott (eds.), Blackwell, Oxford 2001; «Processi
di riforma e codici etici della pubblica amministrazione in Gran Bretagna», in Etica della
pubblica amministrazione, L. Sacconi (a cura di), Guerini, Milano 1998.