Disfunzioni neurologiche e didattica differenziale

Disfunzioni neurologiche e didattica differenziale
Scritto da Annalisa Morganti
E’ quanto mai complesso, per uno studioso di scienze dell’educazione, percorrere le intricate
viscere della mente umana che parallelamente chiamano in causa l’apporto di scienze così
apparentemente distanti come la biologia e la neurologia. Già, proprio apparentemente poiché
tutte le scoperte in questi campi hanno una profonda influenza, non soltanto sul mondo
scientifico, ma anche su quello umanistico, contribuendo a colmare quel gap da sempre esistito
tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito” [Dilthey, 1883].
Questi presupposti chiamano in causa un lavoro di ricerca congiunto che, per la prima volta
vede duettare insieme due grandi scienze come la neurologia e la didattica. Viene spontaneo
chiedersi il perché di questo connubio, in realtà non più insolito di quello che unisce la didattica
alla psicologia, la filosofia, la sociologia, la storia, l’economia e le altre “scienze dell’educazione”
[Mialaret, 1985].
Le neuroscienze rappresentano una componente fondamentale di un’antropologia pedagogica
che cerca di svelare i segreti che si celano dietro la persona da educare, in qualunque periodo
della vita (educazione permanente), non soltanto in quello della scolarizzazione. Uno dei più
grandi segreti non del tutto svelato, risiede proprio nel nostro cervello, in quello che alcuni
hanno descritto come “l’ultima frontiera”, “la più grande sfida della biologia”, “la struttura più
elaborata dell’universo conosciuto” (Marcus, 2004).
Considerata nella sua accezione più diffusa di risposta a bisogni specifici, la pedagogia
speciale, inclusa nella classe della didattica, assume oggi una nuova veste che la conduce ad
affrontare i problemi inerenti deficit e disfunzioni neurologiche. Essendo scienza di ricerca è
impegnata in un lavoro continuo di identificazione di problemi specifici cui cercare di dare
risposte speciali. Nel momento in cui l’intenzione di chi educa, è quella di scommettere sulle
possibilità di un intervento in grado di recuperare le potenzialità creative della persona, si entra
allora nella dimensione della didattica speciale.
Fino ad ora la pedagogia speciale si è occupata di handicap fisico, psichico e sensoriale, come
“condizione di svantaggio vissuta da una persona in conseguenza di una menomazione o di
una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire un ruolo normalmente proprio a
quella persona” (OMS, 1980). L’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della
Disabilità e della Salute), nuovo strumento elaborato nel 2002 dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità, ha sostituito i termini disabilità ed handicap con attività e partecipazione sociale.
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In virtù di ciò, questa scienza, si è sempre diretta verso il raggiungimento di un target specifico,
quello dell’integrazione, tenendo conto sia della dimensione globale della persona che di quella
contestuale in cui questa vive.
La ricerca scientifica di settore, ha finora toccato soltanto in parte il tema della “differenza” che
può derivare da un deficit, focalizzando l’attenzione soltanto su alcune particolari patologie
come l’autismo, la cecità, la sordità, i disturbi dello sviluppo, dell’apprendimento, del
comportamento. Copiosa è la letteratura riferibile a questi temi, limitatissima la ricerca che si
dirige verso la conoscenza e la spiegazione delle disfunzioni neurologiche prodotte da lesioni
ad aree circoscritte del cervello.
Studiare questi disturbi significa riuscire a spiegare in che modo l’attività di miliardi di neuroni
produce l’enorme e complessa varietà delle esperienze umane. Ecco allora che la pedagogia
speciale si spinge oltre l’orizzonte del conosciuto per esplorare mondi finora sconosciuti
percorribili grazie all’aiuto delle neuroscienze.
Negli ultimi secoli, la storia dell’umanità è stata costellata da grandi rivoluzioni scientifiche che
ne hanno cambiato il destino; hanno riguardato il cosmo (rivoluzione copernicana), la specie
(rivoluzione darwiniana), il profondo (rivoluzione freudiana), ora stiamo assistendo a quella più
grande in assoluto, quella della comprensione del cervello umano.
L’uomo interroga se stesso, la mente s’impegna a studiare il cervello trovando in esso il suo
fondamento, perché soltanto il cervello è in grado di pensare, come sostiene F.Crick scopritore
della struttura del DNA. L’incredibile ricchezza della vita psichica, le sensazioni, le emozioni, i
pensieri, ha origine da un variegato numero di cellule che, dialogando tra loro, creano la
complessità della mente umana.
In Che cosa sappiamo della mente, (2004) V.S.Ramachandran, uno dei massimi esperti
mondiali di neuroscienza, illustra gli ultimi traguardi delle ricerche sul cervello ponendo così
nuovi interrogativi alla ricerca pedagogico-didattica.
Lo studio di disturbi bizzarri come la sinestesia, gli arti fantasmi, la Sindrome di Capgras,
l’eminattenzione spaziale, la visione cieca e altre sindromi, ha condotto noi studiosi a porci degli
interrogativi del tutto innovativi, che aprono la strada a percorsi fino ad ora misconosciuti alla
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pedagogia e alla didattica speciale. A queste persone non può essere negato il diritto
all’educazione, alla salute, al lavoro, alla famiglia, alla socialità, comune a tutti, benché
considerati casi “eccezionali”.
Il problema del “come” assicurare a tutti questi diritti, diventa sicuramente rilevante e prima
preoccupazione di chi si pone vicino all’altro per aiutarlo e promuoverne lo sviluppo intellettuale,
materiale, spirituale, fisico. L’impegno allora si fa didattico.
Singolare, ma molto diffusa (ne soffre una persona su duecento) la sinestesia, si presenta come
confusione dei sensi. Studiata per la prima volta nel XIX secolo da Francis Galton, è un disturbo
che porta il soggetto a “vedere” le note musicali o i numeri associati a colori (il cinque evoca il
rosso, il due il giallo ecc.). Gli studi condotti da Ramachandran hanno dimostrato una
confusione tra l’area dei numeri e quella del colore, tra loro a stretto contatto, nel giro fusiforme
(circoscritta regione cerebrale). Chi ne è affetto è considerato un mattoide con manie di
protagonismo, in realtà è un fenomeno sensoriale autentico ricorrente in intere famiglie.
Più rara e meno nota la Sindrome di Capgras, nella quale il soggetto scambia le figure familiari
e amate per impostori. Significativo è l’esempio del ragazzo che, uscito dal coma dopo un
incidente, non riconosceva la madre affermando che, benché fisicamente identica a lei, era solo
un’impostora. Ramachandran spiega che la visione è un processo complesso e non istantaneo.
Quando guardiamo, all’interno di ciascun bulbo oculare si intravede soltanto una piccola
immagine capovolta e distorta del mondo, l’immagine eccita i fotorecettori della retina e gli
impulsi, attraverso il nervo ottico, arrivano alla parte posteriore del cervello che li analizza. Solo
ora siamo in grado di riconoscere un oggetto (giro fusiforme) ed inviare un messaggio
all’amigdala, nucleo emozionale del cervello. E’ proprio l’amigdala a valutare il significato
emotivo di ciò che guardiamo. Nel paziente studiato, tutte le aree visive ed il giro fusiforme sono
intatte ma il “filo” che va dai centri visivi all’amigdala è stato spezzato dall’incidente. Il paziente
riconosceva, dunque, la figura della madre, ma non provava alcun sentimento per lei.
La risposta emotiva alle immagini visive che ci circondano, è essenziale alla sopravvivenza
dell’uomo e alla possibilità che questi ha di intrecciare relazioni emotive ed affettive con gli altri.
Molti, invece, sono a conoscenza di cosa sono gli arti fantasma che portano le persone a cui
sono stati amputati braccia o gambe ad avvertire la presenza dell’arto asportato anche per
decenni. Arti che per anni ed anni non sono dimenticati dal cervello ma sentiti come normali
esclusi da sensazioni e azioni consuete. Singolare è il caso del paziente con amputazione del
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braccio che provava sensazioni alla stimolazione tattile del viso avendo sul volto la mappa
completa della mano amputata. Quando è amputato un braccio, la parte della corteccia
cerebrale corrispondente alla mano non riceve segnali e diventa “avida” di stimoli sensoriali.
Quelli provenienti dalla pelle del viso invadono il territorio corticale lasciato libero dalla mano
mancante. I segnali in arrivo dal volto sono mal interpretati dal cervello che li crede provenienti
dalla mano mancante. Utilizzando una comune scatola munita di specchio, il neurologo indiano
ha scoperto che il paziente migliora se si fa in modo che veda un arto normale al posto di quello
fantasma.
Sindrome singolare è quella dell’eminattenzione spaziale legata ad una lesione al lobo parietale
destro. Il soggetto è praticamente disattento a tutto ciò che accade alla sua sinistra, una specie
di “indifferenza al lato sinistro del mondo”. Generalmente paralizzati nella parte sinistra del
corpo, questi soggetti mangiano solo nel lato destro del piatto, donne che si truccano solo
l’occhio destro o uomini che si rasano soltanto metà del volto.
In conclusione possiamo affermare che la sfida educativa a cui siamo chiamati noi educatori è
di capire dove si annidano le potenzialità di queste persone e lavorare affinché possano riuscire
a svilupparle al meglio. Conoscere i punti di massima flessibilità e plasticità della mente,
permette a che educa di compiere in modo mirato ogni intervento educativo teorico-prassico
traendo il meglio da ciascuno. E’ in questo spirito che dovremmo lavorare e fare ricerca, proprio
perché non possiamo sapere cosa ci nasconde la natura. Benché strani ed in qualche modo
irrazionali, i disturbi a cui abbiamo fatto riferimento non possono essere considerati infondati ed
assurdi, fanno parte della quotidianità, a ciascuno di noi potrebbe succedere di incontrare in
una scuola, in un’azienda, in un’associazione una persona con tali disturbi.
L’attenzione che oggi vogliamo prestare alla pedagogia speciale, lascia da parte qualsiasi
sentimentalismo o pietismo. Attenzione sì per il diversamente abile, ma soprattutto impegno
educativo e didattico rivolto alla persona umana considerata così com’è, nella sua complessità
e nella sua connotazione di essere pensante portatore di diritti e doveri.
Formare un uomo colto è l’ideale a cui mira ogni educazione e ciò significa, in questo contesto,
condurre per mano queste persone affinché possano anch’esse accedere a quel vasto universo
simbolico della cultura umana. La cultura intesa non in senso astratto o enciclopedico, ma
quella che permette ad ognuno di ampliare il propri raggio d’azione sulle cose grazie alla
conoscenza, che è piacere di crescere in intelligenza, volontà, sentimento(Rosati, 2004).
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Al di là delle specificazioni di carattere tecnico, biologico e neurologico, ciò che a noi interessa è
sapere che esistono delle patologie, delle disfunzioni neurologiche degenerative o
post-traumatiche che rendono una persona disabile a tutti gli effetti.
L’espressione “disabilità” sottolinea, infatti, un deficit, una mancanza rispetto ad un’abilità e
rispetto alla normalità, alla “norma”.
Anche se il confronto con la normalità si fa difficile, ogni educatore non deve permettere al
deficit di oscurare il valore della persona nella sua essenziale umanità. Le potenzialità delle
quali dispone il disabile non possono essere sperperate. Per loro è un diritto, per noi un dovere.
Bibliografia
CANEVARO A.-IANES.D., Diversabilità, Erickson, Trento, 2003.
MARCUS G., La nascita della mente, Codice, Torino, 2004.
MIALARET G.,Introduzione alle scienze dell’educazione, Laterza, Bari, 1992.
RAMACHANDRAN V.S.-BLAKESLEE S., La donna che morì dal ridere, Mondadori, Milano,
1999.
RAMACHANDRAN V.S., Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano, 2004.
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ROSATI L., Didattica della cultura e cultura della didattica, Morlacchi, Perugia, 2004.
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