TIROCINIO 3.
AREA CLINICA
1) ASSISTENZA PAZIENTE CON DEFICIT DI MOBILITA’
Il paziente può presentare una mobilità ridotta per diversi motivi: emiparesi conseguente a stroke,
malattie progressivamente invalidanti, sottomissione ad un intervento chirurgico importante.
Ad esempio, se ci soffermiamo sullo stroke:
L’ictus cerebrale è la repentina conseguenza di una compromissione del rifornimento di sangue al
cervello che, provocando la morte di cellule neuronali, causa una grande varietà di deficit neurologici
a seconda della localizzazione e dell’ampiezza della lesione. Il disordine cerebrovascolare che porta
all’ictus è principalmente di due tipi: ischemico o emorragico.
L’ictus ischemico copre circa l’80% dei casi e consiste nell’occlusione parziale o completa del lume
vasale dovuta prevalentemente a placche ateromasiche o trombi conseguenti all’aumento cronico della
pressione arteriosa, mentre l’ictus emorragico, che rappresenta il restante 20% dei casi, consiste nello
stravaso di sangue nel cervello come conseguenza della rottura di una parete vasale causata da
aneurisma, ipertensione e/o malformazioni arterovenose.
Tra i fattori di rischio che possono predisporre ad una sofferenza cerebrale di questa natura, si può
operare una distinzione che affianca fattori sui quali si può agire (ipertensione arteriosa, fumo,
consumo di alcolici, vita sedentaria, dieta ipercalorica, uso di sostanze stupefacenti) a fattori che
vanno tenuti in considerazione a seconda dei casi (ad esempio età, sesso, malformazioni arterovenose,
predisposizione genetica, stato di gravidanza, cardiopatie).
L’ictus comporta una serie di deficit che vanno ad incidere in maniera significativa sulla vita della
persona poiché si tratta di danni irreversibili che spaziano da deficit motori come formicolii a volto,
braccio o gamba, riduzione della capacità di movimento di un emisoma (emiparesi) o assenza
completa di movimento di una parte del corpo (emiplegia), mancanza di coordinazione muscolare in
associazione a vertigini e perdita di equilibrio, difficoltà nella deglutizione, confusione mentale,
disturbi motori del linguaggio o perdita della capacità di produrre o comprendere il linguaggio,
disturbi della vista come la perdita di metà del campo visivo o visione sdoppiata. Può accadere che
l’attacco di sofferenza neurologica sia improvviso e breve in seguito ad un’interruzione transitoria del
flusso sanguigno cerebrale; in tal caso si parla di Attacco Ischemico Transitorio (TIA) caratterizzato
dalla transitorietà anche dei sintomi. Essi, infatti, scompaiono entro un’ora o entro un giorno
dall’effettivo verificarsi dell’evento di sofferenza neurologica.
L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica e di fronte ad un paziente colpito
da ictus che dopo la stabilizzazione della sua condizione clinica ad opera dell’unità operativa
d’emergenza viene trasferito nell’Unità Operativa di Geriatria, ha la responsabilità di prendere in
carico l’utente. Dopo aver acquisito i dati anagrafici necessari al ricovero del paziente, l’infermiere
procede ad effettuare l’accertamento infermieristico per delineare le condizioni dello stesso al
momento dell’ingresso in reparto.
L’infermiere rileva i parametri vitali, quali:
1. pressione arteriosa;
2. saturazione;
3. frequenza cardiaca;
4. frequenza respiratoria e qualità del respiro;
5. temperatura corporea.
Con l’utilizzo di scale validate e contestualizzate e, ove possibile, con la collaborazione del paziente,
valuta la presenza di dolore, con relative caratteristiche, localizzazione e intensità, così come accerterà
il livello di ansia che affligge la persona.
In presenza di un paziente con pregresso ictus, l’infermiere valuterà:
lo status neurologico del soggetto avvalendosi, nuovamente, di scale validate; molto utilizzata, ad
esempio, è la Glasgow Coma Scale che, indagando la risposta oculare, verbale e motoria, permette di
sondare le abilità residue del paziente;
il grado di decadimento cognitivo del paziente, utilizzando ad esempio la Mini Mental State
Examination (MMSE);
il rischio di caduta da valutare, ad esempio, con la Scala Conley.
L’infermiere, dunque, accerterà:
1. lo stato degli occhi del paziente, le caratteristiche delle pupille e la loro reattività alla luce;
2. la risposta verbale e/o motoria a semplici comandi verbali;
3. il livello di compromissione della marcia e della mobilità, il deterioramento della capacità di
giudizio, il livello di agitazione, il decadimento dell’acuità visiva.
4. Responsabilità dell’infermiere è anche quella di accertare la presenza di:
5. eventuali patologie già in essere nel paziente;
6. terapie assunte a domicilio;
7. allergie o intolleranze alimentari;
8. l’eventuale presenza di edemi, lesioni, contusioni o arrossamenti della cute (Scala di
Braden).
L’accertamento infermieristico, inoltre, mira ad indagare lo stile di vita del paziente al fine di
conoscere le sue abitudini alimentari (con tanto di misurazione dell’indice di massa corporea – BMI) e
di eliminazione, la sua occupazione e le caratteristiche del nucleo socio-familiare in cui è calato,
l’eventuale utilizzo di ausili oculistici, auricolari, per la deambulazione o per l’incontinenza urinaria
e/o fecale. Tutto questo per accertare i livelli di autonomia nelle attività di vita quotidiana precedenti
all’attacco di sofferenza neurologica (Scala di Barthel).
Occorre ricordarsi anche che è utile stilare una lista degli effetti personali dell’utente.
Quella dell’accertamento è solo la prima fase del processo di assistenza infermieristica che, come
passaggio successivo, prevede un’attenta analisi incrociata dei dati raccolti attraverso l’accertamento,
con la collaborazione del paziente e, se presente, con quella di un caregiver; analisi dei dati che porta
alla formulazione di un piano assistenziale tarato sulla singola persona.
Diagnostica
Il professionista infermiere identifica e conosce il materiale da preparare per effettuare le principali
indagini diagnostiche che il medico potrebbe prescrivere nel caso di un paziente con ictus:

esami ematici (emocromo, PT, PTT, elettroliti, ecc.);

TC; 3 – RM; 4 – RX;

angiografia intracranica;

EEG;

ECG;

ecodoppler tronchi sovraortici.
Un piano assistenziale secondo il modello bifocale Carpenito prevede la formulazione, in completa
autonomia da parte del professionista infermiere, di Diagnosi Infermieristiche con relativi obiettivi,
la pianificazione e attuazione degli interventi volti al raggiungimento degli stessi ed un sistema di
valutazione in itinere per monitorare la risposta del paziente all’erogazione dell’assistenza.
L’altra parte del piano assistenziale è costituita dai Problemi Collaborativi, ovvero complicanze
potenziali che si stanno verificando o potrebbero verificarsi rispetto ad una determinata patologia. In
questo caso l’infermiere ha un ruolo “collaborativo” nei confronti del medico e di altri professionisti
della salute coinvolti nel pieno rispetto delle reciproche competenze, ovvero contribuisce a monitorare
il paziente, ad individuare eventuali segni e sintomi di complicanze e ad attuare gli interventi per
riportare le condizioni cliniche dell’assistito alla stabilità.
Esempio di pianificazione assistenziale
Con un accertamento infermieristico come quello appena esposto e considerando solo la parte del
piano assistenziale di completa autonomia dell’infermiere, un esempio calzante di Diagnosi
Infermieristica che si potrebbe sviluppare è la seguente:
D.I. Rischio di lesione correlato ad alterazioni della mobilità secondarie a Ictus cerebrale.
Obiettivo: La persona non presenterà lesioni durante la degenza.
Pianificazione degli interventi

garantire la privacy;

informare il paziente su ogni manovra che si andrà ad effettuare;

istruire il paziente sull’utilizzo del campanello per richiedere assistenza;

garantire igiene personale e dell’unità di degenza;

cambiare la posizione almeno ogni 2 ore e monitorare lo stato della cute;

portare la persona dalla posizione supina a quella seduta a bordo letto;

incoraggiare il paziente ad utilizzare l’arto sano per supportare la parte controlaterale più
debole;

promuovere esercizi attivi e passivi di escursione articolare di tutte le estremità;

mantenere il letto nella posizione più bassa con le sponde sollevate;

eliminare ostacoli ambientali
Attuazione degli interventi
effettuare igiene delle mani dell’operatore; chiudere la porta della stanza di degenza e posizionare un
paravento a protezione dell’assistito durante le manovre invasive per garantire la privacy;
spiegare al paziente con parole adatte al suo livello di comprensione le fasi e l’utilità della manovra
che si sta per eseguire affinché comprenda pienamente ciò che verrà effettuato e aumenti la sua
collaborazione;
spiegare il funzionamento del sistema di chiamata posizionando il campanello all’interno del campo
visivo del paziente e vicino all’arto funzionante, accertarsi della capacità di utilizzarlo da parte
dell’assistito con delle simulazioni;
effettuare igiene personale almeno una volta al giorno e all’occorrenza mantenendo il paziente in
posizione di sicurezza per evitare l’insorgenza di lesioni da pressione/ulcere da decubito, di infezioni o
di cadute accidentali;
cambiare la posizione della persona con l’utilizzo di presidi adatti per evitare l’insorgenza di lesioni
da pressione, monitorare lo stato della cute in particolare nelle zone delle prominenze ossee dove più
facilmente possono verificarsi lesioni, posizionare un cuscino sotto l’ascella per l’abduzione del
braccio, posizionare bacino e arti inferiori in asse rispetto al resto del corpo per evitare lussazioni o
sublussazioni delle articolazioni, posizionare “in scarico” la mano e il braccio dell’arto colpito per
favorire il ritorno venoso ed evitare l’insorgenza di edemi declivi, posizionare un piccolo presidio di
consistenza rigida nel palmo della mano del soma colpito per contrappore il pollice alle altre dita ed
evitare un posizionamento errato delle dita che potrebbe compromettere la circolazione sanguigna e/o
le articolazioni;
aiutare il paziente, gradualmente e se non controindicato, a stare seduto: rilevare la pressione
arteriosa e monitorare il colorito della cute del viso prima di effettuare la manovra, abbassare il letto
per ridurre la distanza dal pavimento, sollevare la testata del letto, aiutare il paziente a sedersi sul
bordo del letto, fargli indossare calzature comode e chiuse per evitare eventuali contusioni e
posizionarlo con le braccia appoggiate ad un tavolino debitamente frenato, continuare a tener
monitorato il colorito del paziente e il suo stato di coscienza per verificare che non sia in atto un
repentino calo della pressione arteriosa, rilevare nuovamente la pressione arteriosa per valutare la
tolleranza del paziente alla manovra, chiedere ad un caregiver di restare in compagnia del paziente e
ripetere la tecnica di utilizzo del sistema di chiamata in caso di bisogno;
istruire l’assistito ad accompagnare l’arto colpito con l’arto sano per evitare che si provochi lesioni
o lussazioni con movimenti incontrollati;
stimolare l’assistito, anche avvalendosi della collaborazione di un professionista fisioterapista, ad
effettuare esercizi attivi e passivi di mobilizzazione per mantenere il tono muscolare e migliorare la
circolazione sanguigna;
sollevare le sponde del letto nel momento in cui il paziente è allettato per fare in modo che con esse
possa aiutarsi nella mobilità a letto; j
eliminare dal comodino e dall’unità di degenza ostacoli ambientali come tappeti, sedie, oggetti
taglienti, che potrebbero provocare lesioni accidentali durante la mobilizzazione del paziente.
Verifica
La persona non presenta lesioni durante la degenza.
Dopo tutto quanto sopra esposto l’Infermiere deve valutare e comunicare al Medico e all’equipe
assistenziale anche la presenza di:

eventuali altre patologie concomitanti;

eventuali allergie;

eventuali intolleranze alimentari;

eventuale terapia domiciliare;

abitudini alimentari;

incontinenze fecali e urinarie;

presenza di vescica o di sfinteri neurologici;

ultima evacuazione;

presenza di cateteri venosi periferici, cateteri venosi centrali;

presenza di cateteri vescicali;

eventualità di posizionamento del pantalone (compito che attribuisce all’OSS);

necessità di presidi deambulatori o di altra natura;

necessità di utilizzare sollevatori passivi o attivi;

necessità di indicare materasso antidecubito (in presenza di lesioni o di indice di Braden
sfavorevole);

eventuali contenzioni (sempre su prescrizione del Medico, in caso d’urgenza può farlo
l’Infermiere, ma dopo aver informato il Medico, che avrà l’obbligo di riportare il tutto in
cartella clinica il giorno successivo).
Una volta identificato il paziente fragile, è necessario attivare interventi e percorsi assistenziali
specifici per il suo sostegno, con l’obiettivo di ridurre l’incidenza di eventi morbosi.
L'ambiente ospedaliero risulta quello ideale per l'ascolto, l'osservazione e il dialogo, per poter
identificare il soggetto vulnerabile e progettare un percorso idoneo.
Il percorso assistenziale e le opzioni terapeutiche vanno predisposte con la persona stessa,
identificando i rischi e benefici, anche in relazione alla qualità della vita, alle potenzialità assistenziali
attuabili nel territorio e a domicilio e all'aspettativa di vita.
Durante il ricovero è utile analizzare alcuni aspetti fondamentali, come:
Stato nutrizionale
Rischio di caduta
Mobilizzazione e attività fisica
Eventuale riduzione della capacità visiva e uditiva
Piano terapeutico farmacologico
Fattori come la solitudine e fattori socio-ambientali possono determinare di per sé una condizione di
fragilità, indipendentemente che vi siano altre problematiche associate. La gestione ideale prevede di
reinserire la persona nella propria casa, ma per fare ciò è necessaria la presenza di servizi territoriali
in grado di rispondere ai bisogni della persona che invecchia.
Per affrontare i problemi del paziente fragile, l’approccio deve essere multidisciplinare e deve
prevedere un tipo di intervento globale definito bio–psico-sociale, che preveda anche il
coinvolgimento dei familiari e di diverse figure professionali che concorrano in maniera sinergica al
miglioramento della qualità della vita del paziente.
Una buona integrazione sociosanitaria attraverso team interdisciplinari permette vantaggi significativi
in termini di qualità di vita e, nel contempo, una riduzione dei costi ospedalieri grazie alla
diminuzione dei ricoveri impropri per gli ultrasettantacinquenni.
La presa in carico al domicilio deve avvenire ad opera di un team multidisciplinare, che deve
prevedere la presenza di:
Medico di medicina generale (MMG)
Servizi socioassistenziali
Assistenza domiciliare integrata e operatori del territorio: medici, infermieri e personale
amministrativo
La famiglia
Il medico di medicina generale è la figura professionale più idonea in grado di “diagnosticare” una
condizione di fragilità, in quanto ha un quadro globale del paziente, riveste un ruolo nella prevenzione
delle malattie tumorali, cardiovascolari e metaboliche, nella diagnosi e terapia, conosce vantaggi
terapeutici e i potenziali rischi ed effetti collaterali.
I servizi socioassistenziali entrano in gioco su segnalazione diretta della famiglia, o dal MMG o
dall'ospedale, e possono essere fondamentali in caso di problematiche di tipo sociale ed economico, o
qualora non siano presenti caregiver in grado di prendersi cura della persona fuori dall’ambiente
ospedaliero.
L'assistenza domiciliare integrata è diretta all'anziano che ha necessità di supporto, ma nel contempo
deve vivere al domicilio. Questo deve far sì che possa svolgere le sue normali attività quotidiane,
come l'igiene personale.
Per assistenza domiciliare integrata si intende un'assistenza che prevede la collaborazione di
infermieri, medici, operatori sociosanitari, servizi sociali. L’assistenza fornita al domicilio
presuppone preferibilmente che vi sia la presenza di un caregiver costante in grado di seguire la
persona.
2) ASSISTENZA AL PZ IN FASE PRE OPERATORIA
La fase preoperatoria dell’assistenza infermieristica peri operatoria, inizia quando viene presa la
decisione di eseguire un intervento chirurgico e termina quando il paziente viene trasferito sul letto
operatorio.
Lo scopo delle attività infermieristiche in questo periodo include la valutazione di base del paziente
prima dell’intervento chirurgico, eseguita attraverso l’intervista preoperatoria che comprende:

Accertamento fisico ed emotivo previa anamnesi anestesiologica e valutazioni di eventuali
allergie

La conferma che sono stati eseguiti gli esami necessari

La prenotazione di servizi di consulenza

L’attuazione dell’educazione preoperatoria sul recupero dell’anestesia e sulla gestione postoperatoria.
ACCOGLIENZA
L’accoglienza è il momento in cui il degente entra in reparto e nella sua stanza.
Compito dell’infermiere: presentarsi, accompagnarlo in stanza e descriverla, descrivere l’UO ed i suoi
ritmi, consegnare brochure informativa.
VISITA ANESTESIOLOGICA
ANAMNESI (Storia clinica: malattie pregresse, interventi chirurgici pregressi, farmaci, allergie).
ESAME OBIETTIVO (Affezioni respiratorie, epatiche, cardiocircolatorie, etc.).
VALUTAZIONI INDAGINI DIAGNOSTICHE EFFETTUATE (Ecg, Rx torace, esami laboratorio
etc.).
RICHIEDERE ULTERIORI ACCERTAMENTI O CONSULENZE;
VALUTARE IL RISCHIO (ASA)
OTTENERE CONSENSO DEL PAZIENTE ALLE PROCEDURE.
CONSENSO INFORMATO
Per un valido consenso informato prima che venga eseguito un intervento chirurgico è necessario un
consenso scritto e informato da parte del paziente. Tale permesso scritto protegge il paziente da una
chirurgia non soddisfacente e protegge il chirurgo da reclami per operazioni non autorizzate. Nel
migliore interesse da entrambi le parti, vanno seguiti dei solidi principi medico-legali. Inoltre, il
chirurgo deve informare al paziente delle alternative, dei possibili rischi, delle complicanze, delle
disabilità, e delle eventuali rimozioni del corpo.
Il consenso informato è necessario in casi in cui:
1. La procedura è invasiva
2. Si utilizza l’anestesia
3. Si esegue una procedura non chirurgica con un rischio medio per il paziente.
4. Si esegue una procedura che utilizza radiazioni
ACCERTAMENTO
L’accertamento del paziente chirurgico comporta la valutazione di un’ampia serie di fattori fisici e
psicologici. Molti problemi del paziente o diagnosi infermieristiche possono essere previsti o
identificati sulla base dei dati. A questa sezione segue una dettagliata discussione sull’accertamento
psicosociale e sull’esame obiettivo del paziente chirurgico.
DIGIUNO
L’ASA, la società americana di anestesiologia, raccomanda un digiuno dopo un pasto leggero 6 ore
prima e di interrompere l’assunzione di liquidi 2-4 ore prima dell’intervento chirurgico che richiedono
anestesia generale, regionale o sedazione.
Un periodo di digiuno di 8 ore o più è raccomandato per pasti che includono cibi grassi o fritti e carne.
Lo scopo del digiuno è quello di impedire l’aspirazione, che si verifica quando cibi o liquidi vengono
rigurgitati dallo stomaco e inspirati nel sistema respiratorio. Questo materiale inalato agisce come
sostanze estranea, causando irritazione e reazione infiammatoria, ostacolando lo scambio gassoso.
L’aspirazione è un problema grave, con una percentuale di mortalità del 60-70%.
In alcuni pazienti, quando si vieta l’assunzione orale, i liquidi possono essere somministrati per via
endovenosa, per assicurare un adeguato volume di liquidi.
PREPARAZIONE INTESTINALE
i clisteri non sono comunemente prescritti nel preoperatorio, a meno che il paziente deve essere
sottoposto a un intervento di chirurgia addominale. In questo caso, può essere prescritto un clistere
lassativo, la sera prima dell’intervento, e un altro ripetuto nella mattina dell’operazione. Questo
permette di avere una migliore visione del sito chirurgico e previene traumi all’intestino o
contaminazione del peritoneo da parte delle feci.
PREPARAZIONE CUTE
Lo scopo della preparazione cutanea è quello di ridurre le fonti batteriche senza provocare lesione alla
cute. Quando è un intervento non di emergenza, il paziente può detergersi l’aerea interessata con un
sapone germicida per diversi giorni prima dell’operazione, con lo scopo di ridurre la quantità di
organismi presenti sulla cute. Inoltre, vengono rimossi i peli sul sito chirurgico, in modo da ridurre la
presenza di microrganismi e di avere una migliore visione per la zona da operare. L’operazione viene
eseguita prima dell’intervento usando un clipper elettrico.
TRICOTOMIA
La tricotomia preoperatoria è la procedura di rimozione dei peli o capelli presenti nella zona cutanea
da sottoporre a un intervento chirurgico, per minimizzare l'interferenza con l’incisione e il seguente
intervento. La tricotomia fa parte della preparazione preoperatoria del paziente, ed è uno dei fattori più
rilevanti nel controllo delle cosiddette infezioni del sito chirurgico (ISC); una volta ripulita la zona, si
procede a ridurre la flora microbica cutanea con un’adeguata igiene ed un trattamento antisepsi.
Nonostante sia necessaria per ridurre le possibilità di insorgenza di problemi, la tricotomia è a sua
volta un rischio d'infezione, poiché può causare microlesioni della pelle. Dai dati riportati in
letteratura è noto, infatti, che la rasatura preoperatoria del sito chirurgico è associata ad un rischio
significativamente più elevato di infezione rispetto all’uso di creme depilatorie o alla non rasatura.
L’aumentato rischio di ISC associato alla rasatura è stato attribuito a microscopiche lesioni cutanee
che fungono poi da “foci” per la moltiplicazione batterica.
DOCCIA PREOPERATORIA
L’esecuzione di una doccia o di un bagno preoperatorio è utile a diminuire la colonizzazione
microbica della cute, ma non alla riduzione dell’incidenza delle infezioni della ferita chirurgica. Uno
studio con più di 700 pazienti ha evidenziato che due docce preoperatorie antisettiche con clorexidina
riducono la conta delle colonie batteriche di 9 volte, mentre lo iodio-povidone riduce la conta di 1,3
volte. I prodotti a base di clorexidina gluconato richiedono diverse applicazioni per ottenere il
massimo effetto antimicrobico tanto da rendere necessarie, di solito, più docce antisettiche.
INTERVENTI INFERMERISTI NELLA FASE PREOPERATORIA
Al paziente viene fatto indossare un camice lasciato aperto sulla schiena. Se la persona ha i capelli
lunghi, questi vengono raccolti in una treccia, i capelli vanno poi coperti con una cuffia di carta
monouso.
Il paziente viene chiesto di togliere la dentiera o ponti mobili, poiché se lasciati in bocca questi oggetti
possono cadere in gola durante induzione dell’anestesia e causare ostruzione respiratoria.
In sala operatoria, inoltre, il paziente non deve indossare gioielli.
Tutti i pazienti devono urinare prima di recarsi in sala operatoria, in modo da mantenere la continenza
durante l’intervento ed avere un accesso più facile agli organi addominali. La cateterizzazione va
eseguita in sala operatoria se necessario.
TRASFERIMENTO DEL PAZIENTE ALLA SALA OPERATORIA
Il paziente viene trasportato nella stanza preoperatoria 30-60 minuti prima della somministrazione
dell’anestesia su una barella. L’ambiente deve essere silenzioso, per permettere al farmaco anestetico
di avere la massima efficacia. Il paziente sedato non deve udire rumori o conversazioni spiacevoli che
potrebbe mal interpretare.
FASE INTRAOPERATORIA
Una volta giunto in camere operatoria il paziente viene preso in consegna dal personale di sala; in
questa fase è importante sempre mettere in primo piano i bisogni psico-fisici presentati dal paziente.
Il paziente viene posizionato correttamente sul tavolo operatorio e monitorizzato, prima della
somministrazione dell’anestesia.
Durante lo svolgimento dell’intervento l’infermiere collabora assumendo il ruolo o di “strumentista” o
di “sala o fuori campo”:
compiti infermiere di sala o “fuori campo”:
1. Posizionamento del pz sul letto operatorio
2. Collaborazione con l’anestesista durante l’intubazione e l’induzione dell’anestesia
3. Collaborazione con i membri dell’equipe durante la vestizione sterile
4. Preparazione del materiale sterile per l’allestimento dei tavoli a cura dello strumentista
5. Controllo dell’illuminazione del campo operatorio
6. Inoltre, durante l’intervento il materiale occorrente che non è disponibile deve essere passato
all’infermiere strumentista in modo sterile
Compiti infermiere strumentista:

Preparazione igienica personale con vestizione sterile

Allestimento del tavolo madre e servitore

Verifica della funzionalità degli strumenti ed elettromedicali

Assistenza al chirurgo che consiste nel porgere gli strumenti ed i materiali necessari
all’intervento

Verifica il numero di ferri chirurgici utilizzati e procede alla conta delle pezze e degli aghi

Al termine dell’intervento, ed al risveglio dall’anestesia, l’infermiere controlla i parametri
vitali del paziente ed il suo ritorno alle normali funzioni psico-fisiche.
3) ASSISTENZA AL PZ IN SALA RISVEGLIO
Il periodo post-operatorio è la fase che segue immediatamente l'intervento chirurgico; la sua durata e
complessità variano in base alla tipologia di intervento, alle tecniche chirurgica e anestesiologica
utilizzate e alla presenza e gravità di eventuali complicazioni per il paziente.
Quello post-operatorio è senza dubbio uno dei momenti più delicati per la vita del paziente dopo
l'intervento chirurgico; il suo management richiede da parte dell'équipe la considerevole conoscenza
dei possibili eventi avversi e delle procedure che li possono limitare, in relazione alla situazione
clinica dell'operato. Le figure professionali che si interfacciano con il malato nell'immediato postoperatorio sono il medico anestesista, l'infermiere di sala, l'infermiere di anestesia, e gli operatori
di supporto. L’infermiere svolge, in merito, un ruolo tanto fondamentale quanto complesso. Egli
ha il compito di accogliere il paziente nella sala di risveglio, di monitorarne i parametri vitali ed
emodinamici, di applicare le prescrizioni terapeutiche secondo indicazione del medico anestesista e di
intervenire in maniera adeguata in caso di situazioni di criticità in cui il paziente si presenti in pericolo
di vita. Organizza, infine, solo dopo aver stabilizzato le condizioni del paziente, il trasferimento del
paziente nell'unità operativa presso la quale è ricoverato. L'assistenza infermieristica in sala risveglio è
un nursing di area critica e dev'essere, pertanto, continua e minuziosa in quanto anche da essa
dipendono il successo terapeutico e la qualità dell'esperienza del paziente.
La sala risveglio è la struttura facente parte del complesso operatorio all'interno della quale medici e
infermieri esercitano, normalmente, le funzioni di assistenza post-operatoria, quali il monitoraggio
dei parametri e delle funzionalità vitali, la somministrazione dei farmaci e della terapia infusionale, la
sorveglianza dello stato di coscienza e la valutazione clinica globale del paziente neo-operato.
La zona risveglio è realizzata in un locale adibito alle esclusive funzioni previste e dev'essere dotato ai
sensi del Decreto legislativo del 30/12/1992 n. 502 di:
1. prese elettriche, prese per l'ossigenoterapia, per l'aria compressa e l'aspirazione;
2. sistemi monitorizzati per la valutazione dei parametri vitali;
3. defibrillatore, ventilatori automatici e manuali, farmaci e presidi per l'urgenza;
4. filtrazione ad alta efficienza con un minimo di 6 ricambi d'aria per ora;
5. spazi adeguati e illuminazione efficiente.
Successivamente all'intervento chirurgico e al risveglio dallo stato di coma indotto dall'anestesia, il
paziente operato viene accolto dal personale medico e infermieristico all'interno dei locali della sala
risveglio dove seguirà un periodo di sorveglianza e monitoraggio post-operatori.
Il paziente neo-operato, soprattutto se ha subito una anestesia generale, può presentarsi alla visita dei
sanitari della sala risveglio con le attività motorie e psico-sensoriali limitate o particolarmente
alterate, delirante, dolorante e “dotato” di presidi medico chirurgici quali, ad esempio, sondino naso
gastrico, drenaggi chirurgici, cateteri venosi e cateteri vescicali.
All'infermiere spetta la valutazione e il management del paziente con le caratteristiche descritte,
ma anche la valutazione dello stato clinico generale, la prevenzione e la gestione delle possibili
complicanze post-operatorie in collaborazione con il medico anestesista.
La gestione del dolore nel paziente durante il post-operatorio è di considerevole importanza e lo stato
di analgesia rappresenta per l'équipe anestesiologica un obiettivo primario. Il dolore è un'esperienza
individuale, soggettiva e spiacevole e dev'essere valutato e trattato quanto più precocemente possibile.
L'infermiere lo fa utilizzando le competenze tecniche e umane proprie della professione
infermieristica, utilizzando le più aggiornate linee guida in relazione alle risorse a disposizione. Per
l'infermiere che opera nella sala risveglio la conoscenza dei farmaci e dei possibili effetti, in
particolare analgesici e stupefacenti, è di vitale importanza.
Gli eventi avversi più pericolosi

ipotermia

nausea e vomito

complicanze respiratorie

complicanze cardiache

complicanze neurologiche

complicanze chirurgiche.
Oltre alla temperatura ambientale, sia l'anestesia generale che quella loco-regionale, unite a
determinati eventi che possono verificarsi prima e durante l'intervento chirurgico, sono in grado di
scatenare l'ipotermia.
L'ipotermia è la condizione nella quale il corpo umano fa registrare una temperatura inferiore a
quella fisiologica. Nei casi più gravi può portare il paziente a sviluppare delle complicazioni
respiratorie, cardiache e renali.
L'infermiere ha il compito di prevenirla ed eventualmente trattarla, facendo in modo che la
dispersione di calore del paziente sia quanto più bassa possibile e lo fa agendo sulla temperatura
dell'ambiente dove è collocato il paziente, utilizzando termocoperte, riscaldando le soluzioni da
infondere e favorendo un idoneo posizionamento del paziente sul lettino.
Il vomito nel paziente neo-operato può essere scatenato da diversi fattori post-operatori (dolore,
ipotensione, disidratazione, postura, somministrazione di stupefacenti ecc.) ai quali si aggiungono
fattori chirurgici (es. durata intervento, chirurgia laparotomica) e fattori intrinseci del paziente (età,
sesso, peso corporeo, terapia domiciliare, ansia). Esso può determinare soffocamento nel paziente
non ancora del tutto cosciente e necessita di intervento farmacologico con la somministrazione di
farmaci antiemetici.
Le complicazioni respiratorie, cardiache e neurologiche (insufficienza respiratoria, infarto, aritmie,
tromboembolia polmonare, emorragia cerebrale, ischemie ecc.) sono talvolta poco prevedibili e
necessitano di un intervento immediato del personale infermieristico in collaborazione con l'équipe
medica e prevedono un primo trattamento già nella sala risveglio con successivo trasferimento nelle
unità operative specialistiche.
Le complicanze chirurgiche che possono andare dallo shock ad una grave emorragia richiedono
talvolta un immediato trasferimento del paziente sul letto operatorio.
Soltanto quando le condizioni cliniche del paziente vengono stabilizzate dall'équipe medica e
infermieristica e questo risponde correttamente agli stimoli esterni, può essere organizzato il
trasferimento nell'Unità Operativa presso la quale è stato ricoverato in origine o in un centro differente
(es. Terapia Intensiva), qualora vi siano state complicazioni richiedenti una sorveglianza e un
trattamento più specifici.
Negli spostamenti, compreso quello dal letto operatorio alla barella, si deve prestare particolare
attenzione evitando lesioni a carico del sistema nervoso e osteo-articolare, rassicurando il paziente
e informandolo di tutto quello che succederà.
L'ok alla dimissione dalla sala operatoria spetta in ultima analisi al medico.
Un interesse esclusivo lo meritano gli operatori che movimentano il paziente operato; i
trasferimenti, lo ricordiamo, devono essere effettuati in sicurezza, in modo che anche i sanitari
eseguano le manovre assumendo una corretta postura, sia per salvaguardare sé stessi dai traumi che
per tutelare l'incolumità del paziente.
Il tragitto dal blocco operatorio alla stanza del paziente può richiedere la vigilanza del medico
anestesista, di un infermiere di anestesia o di entrambi, in quanto l'insorgenza di aventi avversi
durante il tragitto stesso non dev'essere lasciata al caso.
4) ASSISTENZA AL PZ NEL POST-OPERATORIO
L’intervento chirurgico, a prescindere dalla sua portata, è comunque sempre un evento invasivo e
traumatico per il paziente. Tra le responsabilità dell’infermiere vi è il controllo e la prevenzione dei
rischi postoperatori nei quali l’assistito può incorrere. Ma quali sono questi rischi? Ricordiamone
alcuni insieme.
Il processo chirurgico, definito anche peri operatorio, si articola in tre fasi distinte fra loro, dotate di
procedure specifiche e caratterizzanti:
periodo preoperatorio: comprende tutta la fase che precede l’intervento, a partire dalla decisione
della necessità dell’operazione e dagli accertamenti diagnostici per arrivare al trasferimento e
posizionamento dell’assistito sul tavolo operatorio;
periodo intraoperatorio: comprende tutta la fase durante la quale il paziente si trova sul letto
operatorio e termina con l’esaurirsi dell’operazione chirurgica;
periodo postoperatorio: comprende tutta la fase che va dal termine dell’intervento fino al termine di
tutte le cure strettamente correlate all’intervento stesso.
L’infermiere è protagonista dell’assistenza in tutte le fasi e garantisce prestazioni proporzionate alle
necessità psicosociali e fisiche di ogni singolo assistito, consapevole di quanto il paziente riversi le
proprie personali convinzioni sull’evento “operazione chirurgica” e di quanto questo possa
condizionare l’andamento dell’intero percorso.
Qualità e continuità dell’assistenza sono due dei motivi conduttori che guidano l’agire
infermieristico; è in questa dimensione che si inseriscono consapevolezza e prevenzione dei rischi
nei quali l’assistito può incorrere nel periodo postoperatorio.
L’assistenza infermieristica, sorretta sempre dal rigore scientifico e dalla forza delle evidenze, si
plasma e si modella a seconda del tipo di procedura chirurgica in questione e, non ultimo, a seconda
delle peculiari esigenze dell’operando.
Numerosi e insidiosi sono i rischi che possono concretizzarsi al termine di un intervento chirurgico,
più o meno vicini nel tempo. L’infermiere li conosce e mette in atto pratiche atte a scongiurare il loro
verificarsi.
Tra i rischi postoperatori possibili ricordiamo:

Complicanze respiratorie
Soprattutto nei pazienti sottoposti ad anestesia generale possono verificarsi casi di insufficienza
ventilatoria, aspirazione o inadeguata clearance delle vie respiratorie. Per via di accumulo e di stasi di
secrezioni mucose possono verificarsi fenomeni di atelettasia e di polmonite postoperatoria (o “da
stasi”, appunto), accompagnate da dispnea, febbre, tachipnea, tachicardia e cianosi.
Come misure preventive l’infermiere, tra le altre cose:

stimola l’assistito a compiere periodiche inspirazioni profonde;

stimola l’assistito a tossire (contenendo con le mani la ferita chirurgica);

stimola e aiuta l’assistito a variare la postura (entro i limiti consentiti dalla situazione);

stimola l’assistito a riprendere la deambulazione prima possibile (se non controindicato);

garantisce una corretta gestione della terapia antalgica;

garantisce e promuove una corretta igiene orale.

Disfunzioni neurovascolari periferiche
Trombosi venosa profonda e tromboflebite, che possono evolvere in embolia polmonare, sono
tutt’altro che infrequenti per via dello stress a cui tipicamente un intervento chirurgico espone il fisico
del paziente, dell’immobilità prolungata, delle variazioni pressorie e di eventuali traumatismi.
Complicanze di questa natura possono verificarsi nell’immediato postoperatorio o anche a distanza di
una o due settimane.
Come misure preventive l’infermiere, tra le altre cose:

tiene monitorata la cute dei polpacci per individuare eventuali stati insoliti di rossore, calore o
turgore;

testerà periodicamente il segno di Homans (se il paziente ha dolore alla gamba o al polpaccio
in seguito alla dorsiflessione forzata del piede il segno di Homans si dice positivo e questo può
significare la presenza di tromboflebite);

stimola l’assistito a riprendere la deambulazione prima possibile (se non controindicato);

educa e stimola l’assistito a svolgere esercizi postoperatori attivi e passivi durante
l’allettamento;

garantisce la corretta applicazione di calze elastocompressive e/o di altri sistemi a
compressione graduata;

garantisce la corretta somministrazione della terapia anticoagulante prescritta dal medico.

Infezione, eviscerazione, deiscenza della ferita

Materiale purulento e maleodorante che fuoriesce dalla ferita e/o dal punto di inserzione del
drenaggio, dolore in sede d’intervento, rossore insolito della cute perilesionale e febbre sono i
principali segni e sintomi d’infezione. Inoltre, possono verificarsi riapertura spontanea della
ferita e la fuoriuscita di visceri dalla stessa.
Come misure preventive l’infermiere, tra le altre cose:

monitora la ferita, lo stato della cute perilesionale e il punto di inserzione del drenaggio, ove
presente;

monitora quantità e qualità del materiale nel drenaggio, ove presente;

sostituisce la medicazione con tecnica asettica secondo i protocolli della struttura e al bisogno,
valutando il materiale rilasciato sulla medicazione precedente;

mantiene il circuito chiuso del drenaggio, ove presente;

riduce le possibilità d’ingresso di microrganismi;

istruisce l’assistito a contenere la ferita con le mani in caso di tosse, starnuti, vomito o
singhiozzo;

garantisce una corretta igiene personale del paziente e dell’unità di degenza.
Stati ansiosi o depressivi:
Un intervento chirurgico, dicevamo, si carica inevitabilmente di connotazioni personali appartenenti al
singolo paziente. Ad esso, a seconda della causa, possono associarsi mancata accettazione di una
nuova immagine corporea, disagi relativi a cambiamenti drastici nelle abitudini quotidiane, sconforto
per una prognosi sfavorevole, ecc.
La dimensione psicologica e affettiva non è da trascurare mai, tantomeno nel periodo postoperatorio,
durante il quale anche lo spirito con il quale si affronta la convalescenza è d’aiuto.
Come misure preventive l’infermiere, tra le altre cose:

accoglie i dubbi dell’assistito;

fornisce all’assistito tutte le spiegazioni di cui ha bisogno;

attraverso l’ascolto attivo e un linguaggio assertivo entra in empatia col paziente;

si accerta che l’assistito abbia appreso le pratiche che dovrà attuare durante la convalescenza a
domicilio;

garantisce la continuità assistenziale attivando le pratiche per il follow-up.
Il periodo post-operatorio inizia per convenzione 24h dopo l’intervento e si protrae per il resto della
degenza post-operatoria; se il percorso clinico è regolare, nel periodo post-operatorio intermedio
avviene la stabilizzazione definitiva dei parametri vitali e la fase iniziale della guarigione del trauma
chirurgico, monitoraggio parametri vitali, delle condizioni cliniche, della ferita chirurgica e
determinazione di parametri di laboratorio e di eventuali esami strumentali.
Durante questo periodo è particolarmente importante il monitoraggio e il trattamento della ferita
chirurgica/eventuali drenaggi. Per un adeguato monitoraggio del paziente nel periodo post-operatorio
immediato ed intermedio, si deve valutare la funzionalità di principali organi e apparati:
- parametri e segni vitali;
- funzionalità cardio circolatoria, respiratoria, corporea, renale/vescicale, epatica, gastrointestinale;
- coagulazione del sangue;
- esami di laboratorio generali e particolari.
E’ inoltre necessario curare la posizione a letto e la mobilizzazione del paziente, sorvegliare e trattare
la ferita chirurgica/eventuali drenaggi, bilancio idrico, gestione del dolore post operatorio, terapia
farmacologica, catetere vescicale, medicazione della ferita chirurgica e drenaggi,
alimentazione/ripresa dell’alimentazione, sorveglianza del sito chirurgico.
5) ASSISTENZA AL PZ IN COMA – TIPI DI COMA
Il coma, o stato comatoso, è uno stato di incoscienza, dal quale chi vi cade non può essere risvegliato;
tale condizione - caratterizzata dalla mancata risposta agli stimoli dolorosi, ai cambiamenti di luce e ai
suoni - mina il ciclo sonno-veglia e rende impossibile ogni azione di tipo volontario.
L'entrata in coma può dipendere da: un abuso/overdose di farmaci, alcol, droghe pesanti o sostanze
tossiche; gravi malattie del sistema nervoso centrale; gravi anomalie metaboliche; ictus; ernia
cerebrale; gravi traumi cerebrali; ipoglicemia, ipercapnia ecc.
La gravità di un coma e le sue modalità d'insorgenza dipendono dalle cause scatenanti.
In genere e salvo il paziente non si svegli, lo stato di coma vero e proprio ha una durata limitata nel
tempo, che oscilla tra le 4 e le 8 settimane. Dopodiché, evolve o in stato vegetativo o in stato di
minima coscienza.
Il passaggio dal coma allo stato vegetativo o a quello di minima coscienza può decretare o meno un
miglioramento progressivo delle condizioni di salute del paziente.
I miglioramenti derivanti dall'uscita dallo stato di coma sono imprevedibili, possono essere più o
meno veloci e dipendono dalla gravità del danno encefalico che ha provocato, in origine, lo stato
comatoso.
Nelle sue prime battute, il ricovero ospedaliero di una persona comatosa ha luogo nel reparto di
terapia intensiva; quindi, quando le condizioni del paziente si sono stabilizzate di un certo grado,
avviene in corsia.
Il coma è uno stato di incoscienza, dal quale chi vi cade non può essere risvegliato; tale condizione
comporta la mancata risposta agli stimoli dolorosi, ai cambiamenti di luce e ai suoni, fa saltare il ciclo
sonno-veglia e, infine, rende impossibile ogni azione volontaria.
Un soggetto che cade in stato di coma è detto “soggetto comatoso”. L'aggettivo comatoso è valido
anche associato alla parola “stato”; stato comatoso e coma sono sinonimi.
Coma e coma farmacologico sono due situazioni distinte, che è bene chiarire fin dalle prime battute di
questo articolo.
Mentre il coma è uno stato di incoscienza patologico, non voluto e indicativo di una grave condizione
di salute, il coma farmacologico è uno stato di incoscienza indotto volontariamente dai medici, per
favorire il recupero da situazioni traumatiche, per proteggere l'encefalo da una carenza di ossigeno e
per ridurre la sensibilità al dolore, in occasione di interventi chirurgici molto delicati.
Conosciuto anche come coma indotto o coma artificiale, il coma farmacologico si ottiene con dosi
controllate di barbiturici, benzodiazepine o propofol, in aggiunta ad analgesici oppiacei (es: morfina).
I motivi per cui una persona può entrare in coma sono numerosi.
Tra le possibili cause di coma, rientrano:
Le intossicazioni da abuso/overdose di farmaci, droghe pesanti, sostanze nocive o alcol. Secondo
attendibili indagini mediche, 40 casi di coma su 100 (quindi il 40%) sarebbero dovuti a un
avvelenamento farmacologico.
Le gravi anomalie metaboliche;
Le malattie del sistema nervoso centrale a uno stadio avanzato;
L'ictus e l'ernia cerebrale;
I gravi traumi cerebrali;
L'ipotermia;
L'ipoglicemia;
L'ipercapnia grave;
L'eclampsia.
La gravità del coma e le modalità d'insorgenza dipendono dalle cause scatenanti.
Per esempio, prendendo in considerazione soltanto le modalità d'insorgenza, il coma risultante da
ipoglicemia o ipercapnia comprende una serie di sintomi precedenti, tra cui: agitazione, confusione,
ottundimento progressivo e stupore; al contrario il coma derivante da un trauma cranico o un ictus
emorragico a livello subaracnoideo (emorragia subaracnoidea) è istantaneo.
Esistono varie scale di misura per stimare la gravità di un coma. La scala di misura più famosa e
maggiormente in uso oggi è la cosiddetta Glasgow Coma Scale (scala GCS). La scala GCS comprende
un range di valori che va da un minimo di 3 – valore che rappresenta il coma profondo – a un
massimo di 15 – valore che rappresenta la coscienza massima.
I parametri considerati dalla scala GCS, per valutare la gravità di un coma, sono tre: l'apertura degli
occhi, la risposta motoria a un determinato comando e la risposta verbale a un certo stimolo
vocale. A ciascuno di questi parametri corrisponde un intervallo numerico (in inglese score), che ne
indica la severità.
Per capire:
L'apertura degli occhi presenta uno score che va da 1 a 4. 1 (uno) indica completa assenza di apertura
degli occhi; è il livello più grave. 4 (quattro), invece indica spontanea apertura oculare; equivale alla
normalità.
I valori intermedi corrispondono a situazioni intermedie.
La risposta motoria a un determinato comando presenta uno score che va da 1 a 6. 1 (uno) segnala
completa assenza di risposta motoria a qualsiasi comando; è il livello più severo. 6 (sei), invece,
segnala massima obbedienza motoria a qualsiasi comando; corrisponde alla normalità.
I valori compresi tra 1 e 6 rappresentano situazioni intermedie.
La risposta verbale a un certo stimolo vocale presenta uno score che va da 1 a 5. 1 (uno) indica
completa assenza di risposta a qualsiasi tipo di stimolo verbale; è il livello più grave. 5 (cinque),
invece, indica massima attenzione, normale capacità di linguaggio e capacità di risposta a ogni stimolo
di natura verbale; rappresenta la normalità.
Come nei casi precedenti, i valori inclusi tra 1 e 5 equivalgono a situazioni intermedie.
La stima della severità di un coma è frutto della somma del punteggio assegnato a ciascuno dei
sopraccitati parametri. Per esempio, se a un'indagine medica l'apertura degli occhi, la risposta motoria
a un comando e la risposta verbale a uno stimolo vocale totalizzano il minimo ciascuno (ossia 1), la
valutazione del coma è pari a 3 (la situazione più grave, equivalente al coma profondo).
A questo punto, manca un ultimo aspetto importante da chiarire: nella scala GCS c'è un valore soglia
che rappresenta la linea di confine tra lo stato di coma e lo stato di coscienza. Tale valore è 8.
Quindi, quando la somma dei parametri GCS risulta superiore a 8, l'individuo è più o meno cosciente;
quando invece la somma dei parametri GCS risulta uguale o inferiore a 8, il soggetto è in stato di
coma più o meno profondo.
Salvo che il soggetto interessato non si svegli, lo stato di coma vero e proprio ha una durata canonica
compresa tra le 4 e le 8 settimane. Dopodiché evolve e, in base alla gravità delle cause scatenanti,
può diventare: stato vegetativo oppure stato di minima coscienza.
Una persona in stato vegetativo è un soggetto sveglio inconsapevole di sé e dell'ambiente in cui si
trova; una persona in stato di minima coscienza, invece, è un soggetto sveglio che, a tratti, è anche
consapevole.
L'individuazione delle cause del coma può risultare anche assai complessa, tanto da richiedere il
ricorso a svariati esami diagnostici.
Tra i possibili esami diagnostici utili alla scoperta delle condizioni all'origine di uno stato di coma,
rientrano: l'esame obiettivo, l'anamnesi medica, la TAC, la risonanza magnetica nucleare (RMN),
l'elettroencefalogramma ecc.
PRINCIPALI COMPLICANZE IN STATO DI COMA:
COME PREVENIRE LA POLMONITE DA ASPIRAZIONE
In caso di coma, la polmonite da aspirazione è una complicanza che può dipendere da diversi fattori,
tra cui:

Il reflusso gastroesofageo, derivante dal prolungato mantenimento di una posizione
orizzontale;

L'incapacità di deglutizione corretta;

La nutrizione tramite sondino.

Per prevenire la complicanza in questione, i rimedi medici più praticati consistono in:

Mantenimento del paziente in posizione laterale;

Aspirazione della saliva a intervalli regolari.
Per prevenire le piaghe da decubito, è essenziale:
Cambiare la posizione del paziente allettato ogni 2-3 ore;
Utilizzare materassi ad acqua, che sono più congeniali a chi è costretto a lunghi periodi di immobilità;
Pianificare una nutrizione adeguata alle esigenze del corpo umano;
Monitorare le condizioni favorenti, come per esempio il diabete.
GUIDA TERAPEUTICA PER LE PERSONE USCITE DAL COMA
Le persone che si risvegliano da uno stato di coma necessitano di alcune cure, che – come anticipato –
favoriscono il ritorno a una vita normale.
Tra le cure in questione, rientrano:
La fisioterapia, fondamentale per rimediare alle contratture muscolari, derivanti dall'immobilità
prolungata;
La terapia occupazionale, il cui campo d'applicazione va dal favorire il reinserimento del paziente, in
un contesto sociale, all'adattare l'ambiente domestico in base alle esigenze della persona appena
risvegliatasi dal coma;
La psicoterapia, il cui obiettivo è aiutare il paziente a superare le prime fasi del risveglio dallo stato
comatoso e ad accettare le incapacità irrecuperabili, che il danno cerebrale e il coma conseguente
possono aver provocato.
6) ASSISTENZA AL PZ CON USTIONI
L’ustione è una lesione traumatica provocata dal trasferimento di energia termica sulla superficie
cutanea da parte di un agente termico, chimico, elettrico o radiante.
Con ustione si intende una lesione traumatica provocata dal trasferimento di energia termica sulla
superficie cutanea da parte di un agente termico, chimico, elettrico o radiante. Le ustioni possono
infatti essere:

termiche/ da calore: contatto con fiamme, liquidi o vapori caldi

chimiche: contatto con acidi, alcali o metalli fusi (ad es. acido cloridrico o solforico, soda
caustica)

elettriche (ad es. folgorazioni)

da radiazioni.
Gli effetti dell’ustione dipendono da:
1. temperatura dell’agente ustionante
2. durata del contatto
3. natura dell’agente
4. calore specifico del corpo.
Le ustioni vengono classificate in tre gradi:
I gradi: eritema, ustione superficiale con coinvolgimento dell’epidermide
Il grado: flittene, ustione media con coinvolgimento del derma papillare
III grado: escara, ustione profonda del derma fino ai tessuti sottostanti
Per quanto riguarda invece l’estensione del danno in termini di superficie corporea coinvolta, si
utilizza comunemente la regola del 9, riadattata nel caso il paziente da trattare sia un bambino.
Si parla di danno grave da ustione quando la percentuale di interessamento corporeo è >20%
nell’adulto e >10% nel bambino sopra i quattro anni di età, poiché presuppone che non vi sia
solamente un danno locale, ma anche sistemico.
Le tre maggiori complicanze a cui si deve fare attenzione nel paziente ustionato grave sono:
lo shock ipovolemico, secondario alla disidratazione e allo squilibrio idroelettrolitico;
le infezioni, secondarie al danno profondo delle ustioni. Sono la causa principale di morte dei pazienti
che sopravvivono alla fase acuta; provocano un’immunodeficienza secondaria che porta complicanze
infettive, sia a livello locale che sistemico;
il dolore: l’ustione, in particolar modo se profonda, provoca dolore intenso.
La fase della medicazione è sicuramente il momento più traumatico, nel quale è fondamentale
valutare la necessità di somministrare analgesici.
Il paziente ustionato è da considerarsi a tutti gli effetti un paziente traumatizzato. Se ci troviamo in
ambiente extraospedaliero è quindi fondamentale applicare tutte le linee guida IRC sul PTC
(prehospital trauma care).
L’operatore deve valutare innanzitutto la sicurezza dell’ambiente, poiché è possibile siano presenti
fiamme libere, liquidi infiammabili, ecc., ed è quindi prima necessario allertare l’ente preposto per
far sicurezza.
APPLICAZIONE ABCDE
A – Airways: l’ustione, essendo un evento traumatico, richiede la valutazione di eventuali traumi
del rachide cervicale. Se non si possono escludere, occorre posizionare il collare cervicale. Valutare
le vie aeree per evidenziare eventuali lesioni da inalazione, ed escludere un’ostruzione completa o
parziale delle vie aeree, eritema o edema dell’orofaringe.
B – Breathing: valutare il respiro del paziente, se possibile rilevando anche parametri vitali come la
SpO2 e la frequenza respiratoria. Valutare se il paziente ha segni di inalazione: vibrisse nasali
bruciate, sputo carbonaceo, raucedine, tosse stizzosa, stridore inspiratorio, dispnea. Somministrare O2
con una maschera facciale per evitare o limitare danni ipossici. Se il paziente è in insufficienza
respiratoria grave, occorre valutare la necessità di intubazione oro o naso tracheale.
C – Circulation: valutare il cardiocircolo al fine di prevenire o prevedere eventuali situazioni di
shock: rilevare la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. Posizionare un accesso venoso di grosso
calibro e somministrare liquidi.
D – Disability: valutare la funzionalità neurologica e lo stato di coscienza.
E – Exposure: rimuovere gli indumenti, esporre la superficie corporea, eseguire un esame obiettivo.
In un primo approccio sul territorio, è importante raffreddare le aree ustionate con soluzione
fisiologica fredda, ma allo stesso tempo riscaldare il paziente per evitare l’ipotermia da dispersione di
calore.
In pronto soccorso, oltre ad eseguire le stesse manovre che si effettuano sul territorio, è necessario
monitorizzare il paziente, eseguire esami ematochimici, ECG ed emogasanalisi (indispensabile per
valutare la carbossiemoglobina, segno di inalazione da monossido di carbonio).
Somministrare analgesici secondo prescrizione medica, rimuovere tutti gli indumenti al fine di
esporre la superficie corporea ed effettuare un esame obiettivo completo; raffreddare e lavare le
ustioni con soluzione fisiologica ed eseguire medicazioni secondo le procedure ospedaliere.
Il paziente ustionato grave è considerato particolarmente critico ed instabile nelle prime 48-72 ore
dall’incidente.
La qualità della prognosi a breve e lungo termine dipende molto dal trattamento a cui il paziente è
stato sottoposto proprio in questa prima fase.
Se non si interviene tempestivamente con la correzione dell’ipovolemia con la terapia infusionale
reidratante, possono insorgere lesioni agli organi vitali con drastico peggioramento prognostico.
Per contro, la somministrazione eccessiva di liquidi, può aggravare l’edema tissutale aumentando la
pressione interstiziale, riducendo la perfusione dei tessuti e aumentando il rischio di una sindrome
compartimentale e di edema polmonare.
È utile isolare il paziente, se possibile, per prevenire eventuali contaminazioni batteriche delle
superfici ustionate. Deve essere iniziata tempestivamente una terapia antibiotica mirata ed è
raccomandato un costante monitoraggio dell’eventuale infezione con emocolture, urinocolture e
broncoaspirati.
È utile, ove possibile, la balneoterapia, ovvero la terapia che prevede di immergere il paziente, o le
parti ustionate, in una vasca di acqua.
Il danno da ustione può essere trattato chirurgicamente. La terapia consiste nell’escarectomia, ossia
nella rimozione del tessuto necrotico. Esso va rimosso perché rappresenta una sorgente di sostanze
tossiche, una fonte di contaminazione e provoca autolisi dei tessuti sani adiacenti.
Il trattamento chirurgico prevede anche, nei casi di lesioni gravi, l’applicazione di innesti cutanei, la
cui evoluzione va valutata attentamente poiché, essendo un vero e proprio trapianto, può causare
rigetto.
Durante la procedura della medicazione, è necessario mantenere una temperatura ambientale
elevata, al fine di prevenire l’ipotermia e preservare il benessere del paziente. Per effettuare le
medicazioni è necessario seguire la procedura aziendale in uso, di norma condivisa con il centro
grandi ustionati di riferimento.
Gestione del dolore
Somministrare farmaci analgesici per il dolore è fondamentale, poiché il dolore da ustione è spesso
sottostimato.
Nelle ustioni maggiori è talvolta necessaria la somministrazione di oppiodi, il cui farmaco di prima
scelta è la morfina. Il dolore è causato infatti oltre che dalla distruzione dei tessuti, anche
dall’esposizione delle terminazioni nervose (neuropatia) e dal processo di infiammazione.
Alimentazione
Al paziente ustionato deve essere garantito un adeguato apporto nutrizionale, attraverso una
dieta ad alto apporto calorico e proteico. Egli, infatti, presenta un metabolismo superiore del 100150% rispetto al suo metabolismo basale. Per prevenire l’immunodepressione e i ritardi di
guarigione delle lesioni, è raccomandata la nutrizione enterale precoce in associazione ad una
nutrizione parenterale bilanciata.
Qualora il paziente non sia in grado di alimentarsi autonomamente (perché sedato, oppure per le
lesioni interne legate all’ustione) è necessario posizionare un SNG per la nutrizione enterale.
L’impatto psicologico
L’ustione, se grave, è un evento traumatico e stressante per il paziente, in particolar modo se
comporta esiti a livello estetico o lesioni che limitano l’autonomia nella mobilizzazione. Per questo
motivo è fondamentale che tutta l'équipe svolga un ruolo di supporto durante il ricovero e prepari
anche la famiglia alla gestione del paziente quando sarà dimesso. È previsto, in alcuni casi, un
supporto psicologico nelle prime fasi di elaborazione del trauma.
NUTRIZIONE ENTERALE E PARENTERALE
- La Nutrizione Parenterale Totale (NPT) consiste nell'introduzione direttamente nel torrente
circolatorio di substrati nutrizionali in forma sterile. Gli alimenti/substrati, non passando attraverso il
canale gastroenterico, devono essere necessariamente allo stato elementare o semi-elementare, perché
non possono essere "digeriti", cioè sottoposti al complesso sistema enzimatico gastro-enterico.
Benché la nutrizione parenterale (NP) possa essere somministrata anche mediante accessi venosi
periferici, la somministrazione efficace e sicura di una NP richiede frequentemente l’utilizzo di un
accesso venoso centrale, in quanto permette di somministrare nutrienti a concentrazioni più elevate
(ad alta osmolarità), volumi di liquidi inferiori rispetto a quanto sarebbe possibile attraverso un vaso
periferico ed assicura una maggiore stabilità dell’accesso.
L’infusione periferica, infatti, comporta necessariamente il contenimento della osmolarità della
soluzione, con conseguente limitazione degli apporti energetici ed elettrolitici.
La NPT dovrebbe essere presa in considerazione quando la via enterale non è assolutamente
praticabile, quando esistono controindicazioni assolute alla Nutrizione Enterale (NE), quando non ci
sono le condizioni per assicurare una via di accesso sicuro all’apparato gastroenterico.
Questo perché i vantaggi della Nutrizione Enterale (NE) sulla Nutrizione Parenterale (NP) sono ormai
assodati: la NE presenta molti vantaggi per il mantenimento dell’integrità anatomo-funzionale della
mucosa intestinale, per migliorare l’utilizzazione dei substrati nutritivi, per la facilità e sicurezza di
somministrazione ed il minor costo.
Le condizioni cliniche nelle quali la NE è in genere controindicata sono:
•
L’occlusione o la subocclusione cronica intestinale di origine meccanica
•
La grave ischemia intestinale su base non ipovolemica
•
La grave alterazione della funzione intestinale secondaria a enteropatie o insufficienza della
superficie assorbente
Nei pazienti sottoposti a NPT deve essere periodicamente verificato l’eventuale recupero della
funzionalità intestinale per poter ripristinare quando possibile la nutrizione più naturale.
Nutrizione artificiale e competenze infermieristiche
La letteratura nazionale ed internazionale non consente ampia disponibilità in merito alle EvidenceBased Nursing in nutrizione artificiale. Le evidenze prodotte dalle maggiori società o organismi di
carattere medico-scientifico riportano pochi aspetti propriamente infermieristici a favore invece di
quelli medici.
Dalla letteratura si evince che l’ambito infermieristico di pertinenza si articola nelle seguenti
attività:
•
Attuare la terapia nutrizionale prescritta secondo protocolli validati
•
Gestione delle linee di somministrazione in merito all'utilizzo delle pompe infusionali,
sostituzione delle sacche e dei deflussori, regolazione delle velocità di infusione
•
Valutazione e monitoraggio della canalizzazione
•
Mantenimento di attività intestinale, con applicazione di protocolli di stimolazione, là dove
necessario
•
Contenimento di effetti collaterali attraverso la modulazione dei flussi d'erogazione,
sostituzione di nutrienti, applicazione di interventi di sorveglianza infettiva (colture, terapie
mirate)
•
Interventi di educazione sanitaria rivolti al paziente e ai familiari
L’infermiere inoltre può e deve partecipare alla scelta della via di accesso e del dispositivo venoso
centrale da impiantare (catetere monolume vs. lumi multipli; accesso a breve termine vs. a lungo
termine; catetere tunnellizzato vs. sistema totalmente impiantato tipo port).
Il protocollo nutrizionale
Uno stretto e continuo monitoraggio del paziente e l’aderenza ai protocolli di gestione permettono di
prevenire o minimizzare le complicanze metaboliche, disnutrizionali, meccaniche ed infettive.
Un protocollo di gestione della NPT deve prevedere:
Rilevazione del peso corporeo, altezza, Body Mass Index (BMI) e comuni parametri di laboratorio;
valutazione del fabbisogno energetico basale.
La valutazione nutrizionale eseguita prima dell’inizio della terapia nutrizionale, così come il calcolo
dei fabbisogni, devono essere periodicamente ripetuti ad intervalli più ravvicinati se il paziente è
metabolicamente instabile, più distanziati quando il paziente è in una situazione clinica stabile, anche
per poter valutare l’efficacia della terapia nutrizionale.
Lo screening nutrizionale va eseguito da parte del personale sanitario del reparto di degenza entro le
48h dall’accettazione e ripetuto ogni 7 giorni, anche in pazienti che non presentano, al loro ingresso in
ospedale, rischio di malnutrizione.
L’utilizzo di strumenti adottabili in diversi setting (comunità, ospedale, popolazione anziana) e basati
su evidenze validate, sono stati proposti da linee guida in merito e sono:
•
Malnutrition Universal Screening Tool (MUST)
•
Nutritional Risk Screening (NRS)
•
Subjective Global Assessment (SGA)
•
Mini Nutritional Assessment (MNA) nell’anziano
2.Stesura di un piano nutrizionale su apposito modulo in cartella in base al:
•
Fabbisogno calorico glucidico e lipidico
•
Bilancio azotato e fabbisogno proteico
•
Scelta della Nutrizione in base a stato clinico ed eventuali patologie d’organo
3. Monitoraggio parametri fisici/biochimici nutrizionali e conseguenti eventuali modifiche:
•
Bilancio idrico
•
Intolleranze nutrizionali, diarrea, stipsi, nausea/vomito
•
Elettroliti sierici, glicemia, azotemia, creatinina sierica, conta linfocitaria, funzionalità
epatica e funzionalità renale
•
Segnalazione complicanze: infezioni, insufficienze d’organo
Per garantire organizzazione e assistenza di qualità l'infermiere deve pianificare l'assistenza e svolgere
periodici confronti per analizzare e correggere le criticità.
Non esistono studi prospettici randomizzati che valutino l’efficacia del monitoraggio nutrizionale
sull’evoluzione clinica (mortalità, complicanze, qualità di vita), mentre vi sono studi che hanno
dimostrato che i pazienti monitorati sviluppano meno complicazioni e quindi richiedono minor
costi rispetto a pazienti non monitorati, soprattutto se il monitoraggio serve per modificare il
trattamento nutrizionale e adeguarlo all’evoluzione clinica e all’attività del paziente.
NPT, linee guida per l’infermiere
•
L’infermiere può e deve partecipare alla scelta della via di accesso e del dispositivo venoso
centrale da impiantare (catetere monolume vs. lumi multipli; accesso a breve termine vs. a
lungo termine; catetere tunnellizzato vs. sistema totalmente impiantato tipo port)
•
L’istruzione e la formazione del personale sanitario che si occupa della gestione della
Nutrizione Artificiale hanno un ruolo determinante nella qualità dell’assistenza
•
L’impiego di personale specificamente addestrato nella gestione dei CVC riduce
efficacemente il tasso di infezioni da catetere in corso di NP
•
Nelle manovre per la gestione del CVC, il lavaggio delle mani (con soluzione saponosa di
Clorexidina o di Iodio povidone) è la misura più importante nel controllo delle infezioni
•
Tutte le manovre di gestione del CVC vanno eseguite in rigorosa asepsi
•
Gestione della via infusionale
L’utilizzo di una via infusionale dedicata alla NP riduce le complicanze. È stata dimostrata una
maggiore incidenza di complicanze quando la via infusionale per NP viene utilizzata per scopi
multipli (prelievi, infusione di emoderivati, misura della pressione venosa).
Il corretto posizionamento e funzionamento dell’accesso venoso va controllato periodicamente, e –
se discontinuo – va mantenuto irrigato in maniera appropriata:
•
lavato con soluzione fisiologica
•
eparinizzato secondo i protocolli specifici per i differenti tipi di catetere e di patologia di base
•
Preparazione delle soluzioni NPT
La soluzione nutritiva deve essere preparata in locali idonei e specificamente adibiti, da personale
qualificato del servizio centralizzato di farmacia o del servizio di Nutrizione Clinica dell’ospedale, su
prescrizione medica ed in base alle specifiche esigenze del paziente.
La tecnica di preparazione deve essere asettica e mediante l’uso di cappa a flusso laminare di aria
sterile per ridurre sostanzialmente la contaminazione dei liquidi per la NPT.
L’infermiere deve controllare prima dell’inizio dell’infusione della NP l’integrità della sacca e deve
anche provvedere alla conservazione adeguata delle sacche nutrizionali, secondo le modalità e
istruzioni del servizio di farmacia.
Somministrazione della soluzione
Il deflussore e la linea utilizzati per l’infusione della NPT vanno sostituiti entro 24 ore dall’inizio
dell’infusione. Non si è dimostrato utile l’uso routinario di filtri “in linea” per il controllo delle
infezioni.
Il deflussore della sacca deve essere collegato al catetere del paziente, prestando la massima
attenzione ad usare una tecnica strettamente asettica; durante questa manovra può avvenire una
contaminazione del CVC ed il raccordo deve essere protetto con garza sterile.
Le infusioni di preparati per la NP contenenti lipidi e/o lipidi da soli devono essere terminate entro le
24 ore dall’inizio della somministrazione.
Ridurre al minimo le manipolazioni delle sacche nutrizionali e dei dispositivi medici al fine di evitare
possibili contaminazioni esogene.
Sorveglianza e diagnosi
L’infermiere deve registrare nella documentazione infermieristica tutti i dati riferiti alla gestione
dell’accesso e della nutrizione artificiale.
La sorveglianza microbiologica di routine per la prevenzione delle infezioni durante la NPT non è
attualmente consigliata. Esistono comunque situazioni in cui l’infermiere deve intervenire:
Coltura della cute adiacente il sito di inserzione del catetere quando si nota presenza di materiale
sieroso o purulento
Coltura del liquido della sacca nutrizionale in caso di comparsa di ipertermia superiore a 38°C con
brivido
Emocoltura sia periferica che centrale (da ciascuna via, in caso di CVC multilume) in caso di
iperpiressia superiore a 38°C
- La nutrizione enterale (NE) rappresenta una delle due varianti della nutrizione artificiale e consiste
nella somministrazione di una miscela nutritiva direttamente nel tratto digestivo di un paziente
mediante infusione continua, intermittente o in bolo. Obiettivo della NE è quello di contrastare lo stato
di malnutrizione attraverso una somministrazione più fisiologica che riduce il rischio di presentare
squilibri metabolici e condizioni di ipercatabolismo consentendo così un ritorno più facile e veloce
alla normale alimentazione.
La nutrizione artificiale (NA) permette ad un individuo di mantenere o reintegrare il suo stato
nutrizionale qualora questo non fosse possibile fisiologicamente.
La NA può essere somministrata per via enterale (nutrizione enterale) o parenterale (nutrizione
parenterale): nella prima modalità la miscela nutritiva viene infusa direttamente nel tratto digestivo a
vari livelli mentre nella seconda modalità la somministrazione dei nutrienti avviene direttamente nel
circolo ematico per mezzo di un catetere venoso periferico o centrale.
La somministrazione della NE può avvenire in sede prepilorica o post-pilorica. Il piloro è la valvola
situata nella regione terminale dello stomaco che regola il passaggio del contenuto gastrico nel
duodeno.
La scelta della sede deve essere adeguatamente valutata tramite un approccio multidisciplinare e
dovrebbe ricadere su quella in grado di mantenere ed utilizzare tutte le funzioni digestive ed
enzimatiche del tratto gastrointestinale procurando così benefici al paziente e contribuendo al
miglioramento della sua qualità di vita.
Intermittente, in bolo, continua: quale infusione comporta più rischi?
La somministrazione della NE può avvenire tramite Sondino Naso Gastrico (SNG) o Gastrostomia
Endoscopica Percutanea (PEG) ed attraverso tre modalità differenti:
•
in bolo (gavage): attraverso l'infusione di una grande quantità di miscela in modo rapido ad
intervalli temporali ampi
•
intermittente: attraverso l'infusione di una miscela nutritiva ad intervalli regolari più volte
nelle 24 ore
•
continua: attraverso l'infusione di una miscela nutritiva in maniera continuativa e costante
nelle 24 ore mediante nutripompa
Una revisione della letteratura pubblicata sulla rivista ufficiale "Scenario" di Aniarti (Associazione
Nazionale Infermieri di Area Critica) è andata ad indagare quale, fra le modalità di
somministrazione della nutrizione enterale, è quella che genera più complicanze e quale, invece,
apporta un maggiore beneficio al paziente.
La ricerca si è svolta da gennaio a giugno 2018 ed ha portato alla selezione di 10 articoli i quali
confrontano le diverse modalità di somministrazione tra di loro al fine di ricavarne quella che produce
meno rischi per il paziente migliorando, al contempo, la sua compliance.
Inoltre, ha analizzato le complicanze che possono verificarsi nei pazienti adulti, ricoverati in Terapia
Intensiva e che ricevono NE in sede prepilorica. Gli effetti collaterali maggiormente osservati sono:
•
aspirazione polmonare
•
ristagno gastrico
•
diarrea
•
stipsi
•
nausea e vomito
•
scompenso glicemico
Dall'analisi però non sono emersi netti risultati in quanto la criticità di ogni paziente causata dalla
diversa malattia li rende tutti unici e bisognosi di modalità di somministrazioni mirate alla loro
condizione. Una considerazione, però, emersa in diversi articoli è riferita alla migliore tollerabilità per
il paziente dell'infusione continua tramite SNG rispetto a quella in bolo ed intermittente.
A conferma di quanto detto sui risultati, anche le Linee Guida delle società scientifiche ESPEN e
ASPEN non hanno dato chiare linee guida in riferimento alle modalità di somministrazione. La prima
definisce la terapia nutrizionale medica ancora una sfida, ritiene di fondamentale importanza la
valutazione dei bisogni del paziente durante la permanenza in TI, ma spiega che una raccomandazione
unica per ogni paziente e situazione non può essere suggerita.
La seconda ritiene la modalità di infusione continua come quella meno aggressiva e raccomanda di
porre particolare attenzione alla valutazione del volume gastrico residuo al fine di evitare complicanze
gastrointestinali.
In conclusione, possiamo dire che la nutrizione enterale va considerata di prima scelta qualora la
funzione gastrointestinale della persona sia preservata; inoltre, la somministrazione della miscela
nutritiva tramite SNG ad in infusione continua è risultata essere quella più tollerabile per il paziente.
CARRELLO DELLE EMERGENZE
DEFINIZIONE EMERGENZA
È una situazione critica nella quale il paziente vede compromesse una o più funzioni vitali in modo
acuto e deve essere sottoposto a trattamento in modo tempestivo, altrimenti può avere esito infausto.
Importante, quindi, è la tempistica, in quanto il successo delle manovre rianimatoria è inversamente
proporzionale al trascorrere del tempo.
CARRELLO DI EMERGENZA
È un’attrezzatura costituita da apparecchiature vitali e materiale necessario per affrontare le
emergenze critiche, consentendo agli operatori di disporre di tutti gli strumenti idonei.
Deve prevedere:
◦
-Equipaggiamento per assistenza cardiorespiratoria
◦
-Presenza di dispositivi medici e farmaci.
Caratteristiche:
 La dotazione prevista e l’organizzazione dei cassetti deve essere uniforme a livello aziendale;
 Deve essere accessibile;
 Tutti gli operatori devono essere formati per essere in grado di utilizzarlo;
 Deve essere presente almeno 1 carrello per ogni piano.
 Devono trovarsi in un luogo: identificato da cartelli, conosciuto dagli operatori, vicino ad una
presa elettrica per consentire il caricamento del defibrillatore.
Da cosa è composto:
 Piano superiore: defibrillatore, aspiratore, saturimetro;
 Cassetti:
 Farmaci: es. Adrenalina, diazepam, furosemide, midazolam;
 Ancora farmaci;
 Materiale per CVP o prelievo arterioso;
 Presidi di ventilazione: es. ambu, va e vieni, cannula ghedel, maschera facciale...;
 Presidi di intubazione: es. Laringoscopio;
 cassetto laterale sx: materiale defibrillatore es. Piastre;
 Cassetto laterale sx: DPI
 Cassetto laterale sx: liquidi es. Ringer lattato
 Cassetto laterale di dx: pattumiera
 Cassetto posteriore: bombola ossigeno.
 Controllo e checklist
La responsabilità dei controlli e della funzionalità del carrello di emergenza e del suo contenuto in
farmaci, presidi e dotazioni elettromedicali, è dell’infermiere, individuato per ogni turno dal
Coordinatore infermieristico.
Le responsabilità ricadono a:
-
Medico/infermiere per i materiali e farmaci utilizzati;
-
Infermiere per il rifornimento e valutazione del carrello;
-
Coordinatore infermieristico per il controllo e il mantenimento.
Se non vengono rispettate le regole, il responsabile può essere accusato di omicidio colposo.
Controllo successivo all’utilizzo:
Il personale che ha utilizzato il carrello deve reintegrare farmaci e materiale utilizzato, ripulire il
carrello e apporre nuovo sigillo.
Controllo quotidiano:
•
Verificare l’integrità del sigillo;
•
Controllare la presenza/assenza delle dotazioni elettromedicali e presidi;
•
Verificare che le apparecchiature in cariche presentino tutte le spie di connessione e carica
accese;
•
Verificare la pressione della bombola di O2 e richiedere sostituzione se è al di sotto dei 50 atm;
Per il defibrillatore: eseguire il test di funzionalità e la stampa del report che deve essere spillata e
tenuta in archivio per 1 anno;
Per l’aspiratore portatile: eseguire test di funzionamento.
•
Controllo settimanale/mensile:
•
Farmaci e materiali.
•
Controllo annuale:
•
Controllare le scadenze delle verifiche di manutenzione delle varie apparecchiature
elettromedicali.
DEFIBRILLATORE
Collocato sul ripiano del carrello, deve restare costantemente in carica (se con batterie ricaricabili)
FARMACI E PRESIDI
La conservazione dei farmaci all’interno del carrello d’emergenza deve avvenire in modo appropriato
e tenendo conto delle Raccomandazioni del Ministero della Salute.
In particolare:
•
Conservare i farmaci nella loro confezione originale (foglietto illustrativo e data di scadenza
del prodotto);
•
Conservare i farmaci in un luogo lontano da fonti di calore e non esposto direttamente alla
luce;
•
Conservare i farmaci in un luogo asciutto e a temperatura ambiente, a meno che non sia
esplicitamente raccomandata sulla confezione altra forma di conservazione.
ASSISTENZA DOMICILIARE DI II E III LIVELLO
L’assistenza domiciliare integrata (ADI), rappresenta oggi il setting assistenziale che meglio risponde
ai cambiamenti epidemiologici della popolazione (invecchiamento, aumento della comorbilità e delle
patologie croniche) e alle esigenze di sostenibilità economica del Servizio Sanitario Nazionale (. Sono
stati ridefiniti, a livello ministeriale, i nuovi standard per l’ADI. Si parla di cure domiciliari integrate
(CDI) di primo, secondo e terzo livello in
ASSISTENZA DOMICILIARE DI II E III LIVELLO.
L’assistenza domiciliare integrata (ADI), rappresenta oggi il setting assistenziale che meglio risponde
ai cambiamenti epidemiologici della popolazione (invecchiamento, aumento della comorbilità e delle
patologie croniche) e alle esigenze di sostenibilità economica del Servizio Sanitario Nazionale (. Sono
stati ridefiniti, a livello ministeriale, i nuovi standard per l’ADI. Si parla di cure domiciliari integrate
(CDI) di primo, secondo e terzo livello in base all’intensità, crescente, dell’intervento assistenziale. Le
CDI di primo e secondo livello si rivolgono a persone che, pur non presentando criticità specifiche o
sintomi particolarmente invalidanti, hanno bisogno di continuità assistenziale con interventi che si
articolano su 5 giorni (primo livello) o su 6 giorni (secondo livello). Le CDI di terzo livello si
rivolgono a persone che presentano dei bisogni con un grado di complessità assistenziale elevato, in
presenza di criticità specifiche, con instabilità clinica e sintomi di difficile controllo. Gli interventi si
articolano su 7 giorni settimanali. L’erogazione delle CDI avviene tramite l’unità di valutazione
multidimensionale (UVM) del distretto sanitario, che valuta i bisogni sanitari e sociosanitari
dell'utente, definendo il progetto assistenziale individualizzato (PAI), in cui viene esplicitato il piano
di interventi da erogare a domicilio (operatori, prestazioni, frequenza di accesso, durata, ecc.).
Diventa, dunque, cruciale, per la direzione strategica del distretto, avviare azioni di self-audit per
evidenziare criticità e caratteristiche dei servizi erogati e della popolazione assistita. Il picco di
invecchiamento colpirà l'Italia nel 2045-50, quando si riscontrerà una quota di ultrasessantacinquenni
vicina al 34%. Si prevede che anche la sopravvivenza aumenterà. Di conseguenza entro il 2065 la vita
media si aggirerà attorno agli 86,1 anni per gli uomini e ai 90,2 per le donne. In particolare, il
fenomeno cui stiamo assistendo vede un’aumentata sopravvivenza di individui affetti da diverse
condizioni croniche e che necessitano di un’assistenza continuativa per il resto dell’esistenza. In
proposito, si sono sviluppate forme alternative di assistenza di lungo periodo, in grado di fornire una
tipologia di servizi sempre più mirata ai problemi legati alla perdita di autonomia delle persone
anziane e dei disabili. L’offerta dei servizi sanitari e sociosanitari è cambiata con una diminuzione dei
posti letto a livello ospedaliero e una crescita lenta e non uniforme dei servizi territoriali, a livello di
assistenza primaria (sanitaria di base) e di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI).
L’ADI viene introdotta dal Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001,
la si riconosce come uno dei Livelli Essenziali di Assistenza, ovvero i LEA.
I destinatari dell’ADI sono:
•
pazienti impossibilitati a raggiungere lo studio del proprio medico di Medicina Generale
(MMG) per non-autosufficienza e/o barriere architettoniche;
•
pazienti affetti da malattie non invalidanti, malattie invalidanti (stabilizzate o non stabilizzate)
o in fase terminale che necessitano di interventi sanitari diagnostici e/o terapeutici e/o
riabilitativi erogabili a domicilio.
Condizioni necessarie affinché si realizzi un programma di ADI sono:
•
il Piano Assistenziale Individuale (PAI) deve mostrare una reale integrazione degli interventi
attuati dai diversi professionisti coinvolti;
•
essere consenzienti e supportati dalla famiglia;
•
avere una condizione abitativa adeguata allo svolgimento del PAI (le condizioni critiche vanno
immediatamente segnalate).
Generalmente, la gran parte delle richieste di attivazione di questa tipologia di assistenza si riferiscono
a malati terminali, soggetti che hanno avuto patologie vascolari acute o forme psicotiche acute,
anziani con gravi fratture o con malattie acute temporaneamente invalidanti e pazienti che hanno
ricevuto dimissioni protette da strutture ospedaliere.
Gli obiettivi dell’ADI sono:
•
assicurare un’adeguata assistenza sociosanitaria ai pazienti che presentano le caratteristiche già
elencate e chiedono di essere assistiti nel proprio domicilio;
•
evitare i ricoveri ospedalieri non appropriati e la permanenza degli anziani in un luogo di cura
per un lungo periodo;
•
promuovere le dimissioni protette del paziente, ovvero l’insieme delle azioni che costituiscono
il passaggio da un luogo di cura a un altro (ospedale-casa, ospedale- residenza sanitaria
assistenziale...)
L’ADI, quindi, consiste in una forma assistenziale vantaggiosa per la qualità di vita del paziente e
comporta benefici economici rispetto ad altre forme di ricovero extraospedaliero. Inoltre, nella
letteratura scientifica sono presenti evidenze che suggeriscono come l’assistenza sanitaria erogata a
domicilio produca per alcuni pazienti migliori risultati di salute.
In base ai bisogni sanitari del paziente, l’ADI viene distinta in tre livelli. Nei primi due livelli, il
medico di Medicina Generale (MMG) assume un ruolo di riferimento in quanto responsabile dei
processi di cura stabiliti dagli altri operatori, ma condivisi all’interno dell’équipe. I malati coinvolti
pur non presentando condizioni critiche specifiche o sintomi particolarmente complessi hanno bisogno
di continuità assistenziale e interventi programmati che si svolgono in 5 giorni (I livello) o in 6 giorni
(II livello) per ogni settimana. L’ADI ad alta intensità, invece, si rivolge a malati che presentano
bisogni complessi e in presenza di condizioni critiche specifiche. In questo caso, gli interventi sono
programmati ogni giorno della settimana.
ADI a bassa intensità sanitaria (livello 1)
Con assistenza max 5 giorni su 7, per più di un anno.
Rientrano in questo tipo di assistenza tutti i pazienti, impossibilitati ad accedere allo studio del proprio
medico per non autosufficienza e/o barriere architettoniche, che presentano:
•
malattie croniche non invalidanti che necessitano di assistenza sanitaria (ad esempio
ipertensione arteriosa, diabete malattie cardiovascolari in terapia anticoagulante...);
•
malattie croniche invalidanti che necessitano di assistenza sanitaria (ad esempio esiti di ictus
cerebrale con catetere vescicale a permanenza, cirrosi epatica, scompenso cardiaco, anemia
refrattaria, bronco pneumopatia cronica ostruttiva con insufficienza respiratoria in
ossigenoterapia a lungo termine).
Per i pazienti che rientrano in questa tipologia, la necessità di accedere allo studio del medico di
famiglia va da una volta al mese fino a una volta a settimana, e quella di ricevere assistenza
dall’infermiere va da quattro volte all’anno a più volte durante la settimana.
Nell’ADI di primo livello la necessità di integrazione è bassa, qualora siano necessarie si richiedono le
consulenze specialistiche e l’attivazione dell’assistenza sociale.
Si prevede che l’ADI di bassa intensità duri più di dodici mesi. Il responsabile terapeutico è il medico
di Medicina Generale, mentre il responsabile organizzativo è l’infermiere o l’assistente sociale.
ADI a media intensità sanitaria (livello 2)
•
Con assistenza max 6 giorni su 7, fino a un anno.
•
Vi rientrano tutti quei pazienti impossibilitati (anche temporaneamente) ad accedere allo studio
del proprio medico per non autosufficienza, che presentano:
•
malattie croniche invalidanti riacutizzate o complicate come ad esempio anemia refrattaria
riacutizzata che necessita di trasfusione, cirrosi epatica complicata da ascite, demenza
complicata da malnutrizione o disidratazione etc...
•
malattie post-acute invalidanti come, ad esempio, esiti di interventi chirurgici; tumori in
terapia specifica invalidante; tumori in fase preterminale.
In questo tipo di ADI è previsto che: l’assistenza del medico di Medicina Generale e dell’infermiere
sia erogata da una a più volte alla settimana, che le consulenze specialistiche e l’attivazione
dell’assistenza sociale siano richieste al bisogno, e che è possibile eseguire a domicilio determinate
prestazioni di particolare impegno professionale (PPIP). In questo tipo di assistenza la necessità di
integrazione è maggiore rispetto all’assistenza del livello I, tant’è vero che il caso viene attivato in via
congiunta tra medico di Medicina Generale e infermiere.
La durata prevista dell’assistenza domiciliare di media intensità arriva fino a 12 mesi. Il responsabile
organizzativo è l’infermiere, mentre quello terapeutico è il medico di Medicina Generale.
ADI ad alta intensità sanitaria (livello 3)
Con assistenza 7 giorni su 7, fino a 6 mesi, prolungabile.
I pazienti assistiti in regime di terzo livello sono quelli impossibilitati ad accedere allo studio del
proprio medico per non autosufficienza, o che presentano una malattia terminale o malattie
neurologiche degenerative/progressive in fase avanzata (Sclerosi Laterale Amiotrofica - SLA, distrofia
muscolare); e ancora, chi necessita di nutrizione artificiale parenterale o di supporto ventilatorio
invasivo. Con questo tipo di ADI vengono assistiti anche pazienti in stato vegetativo.
Nell’ADI di terzo livello è previsto che il medico presti la sua assistenza da una volta alla settimana a
una volta al giorno, mentre l’infermiere da una a più volte alla settimana. La necessità di integrazione
in questo tipo di ADI è elevata: l’attivazione del caso anche in questo livello avviene in maniera
congiunta tra medico e infermiere che costantemente si tengono in contatto per monitorare le
condizioni del paziente.
La durata dell’assistenza è prevista per un periodo non superiore a 6 mesi, anche se l’équipe può
prolungare tale periodo valutando le necessità del caso.
Anche nell’ADI di terzo livello il responsabile organizzativo è l’infermiere, mentre quello terapeutico
è il medico di medicina generale.
Il modello organizzativo
L’ADI viene gestita da un’equipe multiprofessionale che deve assistere il paziente e la famiglia.
Dell’équipe fanno parte il medico di Medicina Generale, il medico della Continuità Assistenziale, gli
infermieri del Modulo Organizzativo del Dipartimento Cure Primarie e, qualora sia necessario, gli
specialisti, gli operatori sociosanitari (O.S.S.), gli assistenti di base del Servizio Sociale e,
eventualmente, gli operatori tecnici dell’assistenza domiciliare (OTA) e i volontari.
Il medico è il Responsabile Terapeutico mentre il ruolo di Responsabile organizzativo (case manager)
viene svolto dall’infermiere o dall’assistente sociale che hanno il compito di raccordare i servizi
sanitari e quelli sociali.
L’équipe, definita multiprofessionale, è supportata da operatori sanitari che appartengono all’Unità
Operativa Nuclei Cure Primarie (NCP) della ASL e, tra questi, alcuni responsabili
hanno il compito di raccordare tutte le attività utili all’ADI, nonché i vari servizi delle aziende
sanitarie e il volontariato sociosanitario.
L’obiettivo di questo modello organizzativo è ottenere l’integrazione di competenze professionali
diverse, per rispondere ai bisogni di salute di tutti i soggetti che presentano le caratteristiche già
descritte.
L’integrazione fra le professioni costituisce la condizione necessaria a realizzare una valutazione
multidimensionale del paziente, a predisporre il Piano Assistenziale Individuale (PAI), e a erogare
l’assistenza attraverso le figure dell’équipe multiprofessionale o con altri operatori con cui l’équipe
collabora. È effettuata dopo il colloquio con la famiglia da parte delle diverse professionalità
coinvolte. Il fine di questa valutazione multidimensionale è quello di stabilire se e quali interventi
siano necessari per poter predisporre il PAI che avrà una durata complessiva definita, con momenti di
verifica a cadenza periodica tra medico, Centro di assistenza domiciliare e il servizio di assistenza
domiciliare dell’ente erogatore. Il PAI costituisce, pertanto, la formalizzazione dell’impegno di tutti i
livelli coinvolti nell’assistenza. Al momento della scadenza del PAI, o in caso di oggettivi modifiche
dello status clinico - funzionale dell’assistito, e comunque periodicamente, andranno effettuate
nuovamente le procedure di valutazione/verifica così da poter ridefinire eventualmente i piani
assistenziali individuali.
Tutti gli elementi individuati dal singolo piano saranno determinanti nell’attuazione della presa in
carico, in quanto questa viene effettuata da tutti gli attori coinvolti nel PAI, con responsabilità attinenti
al ruolo che ciascuno di essi ha nella rete.
La valutazione multidimensionale e la presa in carico del paziente fanno parte di una serie di attività di
cui si compone l’Assistenza Domiciliare. Le attività che compongono l’ADI sono nell’ordine:
la segnalazione, in favore della persona malata non autosufficiente, perché fruisca dell’assistenza
domiciliare. Tutte le segnalazioni (anche quelle che avvengono in ambito ospedaliero) vengono
effettuate dal medico di Medicina Generale. Alla segnalazione segue una valutazione preliminare del
bisogno;
l’attivazione dell’ADI ad opera del medico di famiglia;
la valutazione multidimensionale e la formulazione del PAI;
la presa in carico;
l’erogazione dell’assistenza sanitaria, assicurata dal medico di medicina generale con le modalità
previste nel piano personalizzato di assistenza;
le verifiche, che avvengono tramite riunioni e incontri tra il medico, il personale di coordinamento del
Centro di assistenza domiciliare e quello del servizio di assistenza domiciliare;
la conclusione dell'attività si compie una volta raggiunti gli obiettivi assistenziali, la conseguente
dimissione del paziente o il suo passaggio a un altro livello assistenziale, o con la morte dell’assistito.
assistenza al paziente Iperteso
ipertensione Arteriosa:
è una sindrome molto diffusa (3/4 della popolazione mondiale), dovuta a un aumento delle resistenze
periferiche che comporta ad un aumento della pressione arteriosa del sangue sulle arterie.
•
Ottimale: sistolica <120mmHg; diastolica <80mmHg
•
Preipertensione: normale: 120-129; 80-84:
•
Borderline: 130-139; 85-89
•
Ipertensione: >o= 140/90
Complicanze: problematiche macro e micro-vascolari, ictus, infarto, problemi renali fino a IR, agli arti
inferiori, problemi micro-circolatori all’occhio con la retinopatia
Problemi collaborativi: insufficienza vascolare:
identificare segni e sintomi in maniera tempestiva e svolgere interventi per stabilizzare le condizioni
cliniche dell’assistito.
Indicatori:
•
Assenza di alterazioni della vista (retinopatia ipertensiva)
•
Orientamento nel tempo, spazio, persone; quando il paziente ha già avuto un accidente Cv
•
Uguale forza in arti superiori e inferiori
•
Livello delle proteine plasmatiche, il problema è che crea un addensamento delle proteine
plasmatiche che fanno un ostacolo
Interventi:
monitorare la comparsa di un’ischemia tissutale (riduzione flusso di sangue e ossigeno) valutando se
vi sono alterazioni della vista, deficit cerebrovascolari (disorientamento, astenia, paralisi, difficoltà
mobilità e nel linguaggio, deficit sensitivi), IR (diminuzione delle proteine plasmatiche, elevato peso
specifico delle urine, elevato livello di sodio urinario, oliguria, aumento di azotemia, creatininemia,
ammonemia, diminuzione CC), IC con fastidio retrosternale.
Interventi su indicazione medica:
Terapia Farmacologica: diuretici, calcio antagonisti, b-bloccanti, vasodilatatori, inibitori adrenergici,
sartani, ace-inibitori
Esami di laboratorio: emocromo, colesterolemia, trigliceride mia, funzionalità tiroidea, esame delle
urine, azotemia, CC, glicemia, potassio, aldosterone.
Indagini Diagnostiche: ecg, radiografia torace, TC renale
INTERVENTI ASSISTENZA INFERMIERISTICA
Dieta iposodica e ipolipidica
Identificare eventuali fattori che possono predire la non adesione dell’assistito (mancanza di
conoscenze e incapacità di percepire la gravità)
Sottolineare che la non adesione può avere conseguenze gravi (è importante di per sé e per le
complicanze)
Sottolineare che l’ipertensione è asintomatica, quindi anche se non ci sono sintomi non si sta bene
Discutere gli effetti di un eventuale ictus cerebrale, IR e malattia coronarica
Quando possibile far partecipare le persone significative alle sedute di insegnamento
Mettere in risalto con l’assistito ch’è sua la scelta di aderire o meno al trattamento
Istruire l’assistito a misurare o farsi misurare la pressione e registrare i valori
Spiegare i possibili effetti collaterali degli antipertensivi (vertigini, ipotensione, astenia)
Se il costo dei farmaci rappresenta un problema per l’assistito consultare il Servizio sociale
Discutere dei concetti relativi alla PA con termini comprensibili
Insegnare all’assistito come misurare la pressione
Discutere le modificazioni dello stile di vita che possono ridurre l’ipertensione arteriosa (mantenere il
peso corporeo entro il 10% del valore ideale, limitare alcool, esercizi fisici crea vasodilatazione,
ridurre sodio, non fumare perché si formano placche, ridurre grassi saturi e colesterolo, apporto giusto
di calcio, potassio e magnesio)
Fornire indicazioni relative ai farmaci (azione, dosaggio, effetti collaterali, precauzioni)
Avvertire ch’è controindicata l’assunzione di alcuni farmaci da banco (alto contenuto di sodio,
decongestionanti e lassativi)
Sottolineare l’importanza dei controlli a distanza
Insegnare a riferire i sintomi quali: cefalea, dolore toracico (infarto), dispnea, edema, epistassi (picco
ipertensivo e valvola di sfogo... evita ictus), modificazioni visive.
Gli Infermieri, come gli altri professionisti della salute, sono anche promotori di stili di vita sani e
devono trasmettere ai cittadini le informazioni necessarie per prevenire e contrastare le diverse
malattie causa di molte inabilità.
Diagnosi e prevenzione dell'ipertensione
Partiamo da alcuni concetti generali che ci indicano che la pressione arteriosa è la forza, ovvero la
pressione che il sangue esercita contro la parete delle arterie. Ad ogni battito, il cuore, principale
organo del sistema circolatorio, si contrae e spinge il sangue ricco di ossigeno e nutrienti in circolo per
tutto il corpo, attraverso i vasi arteriosi.
La forza pressoria dipende dalla quantità di flusso del sangue pompato dal cuore, dalla forza di
contrazione del muscolo cardiaco e dalla resistenza al flusso dei vasi.
Quando il cuore si contrae (sistole ventricolare) e spinge il sangue in circolo, attraverso l’arteria aorta
crea un’onda pressoria e si misura la pressione sistolica o massima. Quando il cuore è a riposo
(diastole ventricolare), tra un battito e l’altro, si misura la pressione diastolica o minima.
Quando ci si misura la pressione arteriosa otteniamo due valori, ad esempio 120/80 di cui 120 è il
valore della pressione sistolica o massima e 80 è il valore della pressione diastolica o minima.
L’ipertensione in sé, di norma, non provoca alcun sintomo specifico, molti italiani ne soffrono anche
per anni senza saperlo. Il problema è che nel tempo la sua presenza può danneggiare il cuore, i vasi
sanguigni, i reni e altri organi.
Seguire sane abitudini di vita può sicuramente aiutare l’organismo a mantenere buoni livelli di
pressione arteriosa oltre che andare a rafforzare il sistema immunitario e agire indirettamente sulla
qualità globale del nostro stato di salute.
È importante, quindi:
ridurre il peso in eccesso; ridurre l'apporto di sale; fare esercizio fisico;
non fumare;
limitare l'assunzione di alcol.
Sarebbe inoltre di buona norma tenere un diario dove periodicamente andiamo a scrivere la data e gli
orari di misurazione della pressione arteriosa.
La pressione varia durante il giorno per tale motivo eventuali valori elevati non sempre ne riflettono
l’andamento abituale; le misurazioni vanno effettuate allo stesso orario in giorni diversi.
Tenere sotto controllo la pressione è semplice, si tratta di un'operazione che può essere svolta in
maniera del tutto autonoma a casa propria. Sono in vendita numerosi apparecchi che ci aiutano a fare
ciò.
Quali scegliere? Bracciale o misuratore da polso? Alcuni esperti consigliano di utilizzare i modelli che
hanno il bracciale. Quelli da polso, pur essendo affidabili, è meglio che vengano utilizzati da una
mano esperta.
Misurate la pressione, mattina e sera, per tre o quattro giorni consecutivi seguendo queste indicazioni:
essere a riposo da almeno cinque minuti;
non avere indumenti stretti alla vita e al braccio;
appoggiare il braccio sul tavolo, circa all’altezza del cuore;
misurare una prima volta la pressione dopo essere seduto col braccio;
effettuare la rilevazione al mattino, prima di colazione e prima di assumere le vostre medicine;
effettuare la rilevazione alla sera, prima di andare a letto;
ripetere, mattina e sera, il procedimento 3 volte di seguito, ad intervalli di 1 o 2 minuti.
Sembra che sia meglio misurare la pressione la sera, perché appena svegli i valori possono risultare
alterati. In ogni caso va misurata con calma, a vescica vuota e, per i fumatori, lontano dal momento
della sigaretta.
Quando NON deve essere misurata la pressione
dopo i pasti principali;
dopo uno sforzo fisico;
dopo aver assunto alcol o caffè;
dopo aver fumato;
dopo forti emozioni o stati di agitazione psicomotoria. I fattori che influiscono sulla pressione
arteriosa
Come abbiamo già detto la pressione arteriosa varia durante il giorno ed è normalmente più alta al
mattino e di sera.
L’innalzamento della temperatura ambientale provoca la dilatazione dei vasi sanguigni superficiali
causando una diminuzione della pressione arteriosa. Oltre a questo, i valori della pressione arteriosa
possono subire variazioni in seguito a molti fattori, sia nell’arco di un singolo giorno sia nell’arco di
più giorni, mesi o stagioni diverse.
Alcune cause di ipertensione possono essere correlate a:
stati emotivi come ansia, paura e/o agitazione;
la presenza di dolore acuto o cronico;
età della persona (con l’avanzare degli anni si verifica una diminuzione dell’elasticità dei vasi,
soprattutto in chi ha patologie aterosclerotiche con un aumento delle resistenze vascolari sistemiche
causate dal restringimento delle arterie; in questo caso la pressione arteriosa tende ad aumentare);
peso corporeo: studi dimostrano che esiste una forte correlazione tra sovrappeso e ipertensione e
quest’associazione può aumentare in maniera significativa il rischio globale cardiovascolare;
assunzione di fumo e alcool;
diminuzione dei liquidi in circolo, per esempio legata a perdite di sangue o liquidi (non sufficiente
assunzione orale di acqua o presenza di diarrea o sudorazione profusa).
Le persone che dopo aver accertato la presenza di una pressione troppo alta, situazione in cui risulta
indispensabile una terapia prescritta dal medico per impedire che gli organi siano danneggiati, devono
tener presente che:
i farmaci vanno assunti regolarmente per mantenere la pressione entro i limiti di normalità;
non va interrotto mai il trattamento di propria iniziativa, ma occorre chiedere sempre allo specialista;
alcuni farmaci per altre patologie possono interferire con i farmaci usati per il trattamento
dell'ipertensione, quindi, in caso di dubbio, è necessario chiedere al medico, al farmacista o
all’infermiere di fiducia.
Le cause dell'ipertensione si possono suddividere in due grandi categorie. Quando si riesce a stabilire
chiaramente l'origine in un organo allora siamo difronte a una causa secondaria.
Anomalie dell'apparato endocrino o malattie renali sono un esempio. Queste cause però rappresentano
solamente il 10% di tutti i casi di ipertensione.
La restante parte è di origine primaria, ovvero senza nessun particolare legame con la disfunzione di
un organo.
I valori compresi tra 110 e 140 di massima e 70 e 90 di minima sono da considerarsi del
tutto normali. Si parla di ipertensione invece quando uno di questi valori è superiore. Mentre
la minima rappresenta un dato per gli “addetti ai lavori”, il valore da tenere sotto controllo è
quello della massima.”
Monitorare la pressione sanguigna costantemente è fondamentale per fare prevenzione. Bisogna
giocare d'anticipo. Se ci si accorge precocemente dell'innalzamento è più facile intervenire ed evitare
quindi di arrecare danno al nostro sistema cardiovascolare.
assistenza al paziente con insufficienza renale acuta (IRA) L'insufficienza renale acuta è una grave
condizione medica, che riguarda i reni e che consiste nel declino rapido e improvviso della
funzionalità renale.
In altre parole, il termine insufficienza renale acuta fa riferimento a una circostanza in cui i reni hanno
perso le proprie capacità funzionali in maniera repentina e imprevista. Se trattata con tempestività e in
maniera adeguata, l'insufficienza renale acuta ha effetti reversibili. La sua presenza, quindi, non
esclude un recupero della funzionalità renale. Con insufficienza renale, i medici intendono
un'incapacità, da parte dei reni, di adempiere correttamente alle proprie funzioni.
L'insufficienza renale può instaurarsi anche in maniera graduale, per effetto di un meccanismo a lenta
evoluzione.
Quando la perdita della funzionalità renale avviene con le suddette modalità, i medici parlano di
insufficienza renale cronica.
Diversamente dall'insufficienza renale acuta, l'insufficienza renale cronica è una condizione i cui
effetti sono irreversibili e per la quale i trattamenti servono soltanto a rallentarne l'inesorabile
peggioramento.
L’assistenza infermieristica ad utenti portatori dell’insufficienza renale acuta si rivela spesso
importante, soprattutto per la prevenzione delle complicanze e per l’individuazione precoce delle
acuzie.
Il ruolo dell’infermiere nell’assistenza al paziente con Insufficienza Renale Acuta L’infermiere è
responsabile dell’assistenza generale infermieristica e di fronte ad un paziente con Ira che, dopo la
stabilizzazione della sua condizione clinica ad opera dell’unità operativa d’emergenza, viene trasferito
nell’Unità Operativa di Medicina Interna, ha la responsabilità di prendere in carico l’utente.
Dopo aver acquisito i dati anagrafici necessari al ricovero del paziente, l’infermiere procede ad
effettuare l’accertamento infermieristico per delineare le condizioni dello stesso al momento
dell’ingresso in reparto.
L’infermiere, in particolare, rileva i parametri vitali quali:
-pressione arteriosa;
-saturazione;
-frequenza cardiaca;
-frequenza respiratoria e qualità del respiro;
-temperatura corporea.
Monitorerà, inoltre:
-il bilancio idrico del paziente (controllando, anche ogni ora, entrate e uscite, comprese sudorazione e
perspiratio);
-il peso corporeo del paziente, effettuando la misurazione sempre con la stessa bilancia e sempre con
la stessa quantità di vestiti;
-l’eventuale presenza di edemi agli arti, misurandone la circonferenza; - lo stato della cute (secchezza,
in primis);
-i rumori polmonari (per rilevare eventuale edema polmonare);
-valori di azotemia, creatininemia, elettroliti e proteine plasmatiche.
Con l’utilizzo di scale validate e contestualizzate e, ove possibile, con la collaborazione del paziente,
valuta la presenza di dolore, con relative caratteristiche, localizzazione e intensità, così come accerterà
il livello di ansia che affligge la persona.
L’infermiere consulterà il dietista per concordare, insieme all’assistito, una dieta opportuna al caso e le
relative restrizioni, dietetiche e di liquidi.
Quella dell’accertamento è solo la prima fase del processo di assistenza infermieristica che, come
passaggio successivo, prevede un’attenta analisi incrociata dei dati raccolti attraverso l’accertamento,
con la collaborazione del paziente e, se presente, con quella di un caregiver; analisi dei dati che porta
alla formulazione di un piano assistenziale tarato sulla singola persona.
Piano assistenziale standard
Un piano assistenziale secondo il modello bifocale Carpenito prevede la formulazione, in completa
autonomia da parte del professionista infermiere, di Diagnosi Infermieristiche con relativi obiettivi, la
pianificazione e attuazione degli interventi volti al raggiungimento degli stessi ed un sistema di
valutazione in itinere per monitorare la risposta del paziente all’erogazione dell’assistenza.
L’altra parte del piano assistenziale è costituita dai Problemi Collaborativi, ovvero complicanze
potenziali che si stanno verificando o potrebbero verificarsi rispetto ad una determinata patologia. In
questo caso l’infermiere ha un ruolo “collaborativo” nei confronti
del medico e di altri professionisti della salute coinvolti nel pieno rispetto delle reciproche
competenze, ovvero contribuisce a monitorare il paziente, ad individuare eventuali segni e sintomi di
complicanze e ad attuare gli interventi per riportare le condizioni cliniche dell’assistito alla stabilità.
Un esempio di piano assistenziale per un paziente con Insufficienza Renale Acuta
Il signor Luigi, 71 anni, pensionato, proveniente dal Pronto Soccorso, accede al reparto di Medicina
Interna in seguito alla stabilizzazione di una condizione di Ira.
All’accertamento infermieristico si rilevano i seguenti parametri:
•
P.A. 170/90 mmHg;
•
Sat. O2 92% in aria ambiente (AA);
•
F.C. 78 battiti al minuto (bpm); - F.R. 28 atti al minuto (am) con respiro superficiale.
•
Inoltre, il paziente manifesta: - cefalea di valore 6 sulla scala NRS;
•
oliguria;
•
BMI = 28,50 (sovrappeso);
•
edema generalizzato;
•
secchezza cutanea;
•
irrequietezza;
•
ansia lieve legata alla patologia. Esempio di pianificazione assistenziale
Con un accertamento infermieristico come quello appena esposto e considerando solo la parte del
piano assistenziale di completa autonomia dell’infermiere, un esempio calzante di Diagnosi
Infermieristica che si potrebbe sviluppare è la seguente:
Eccessivo volume di liquidi correlato a compromissione dei meccanismi regolatori secondaria a
insufficienza renale acuta che si manifesta con entrate superiori alle uscite e edema generalizzato.
Obiettivo: La persona ridurrà lo stato di edema generalizzato entro 3 giorni. Pianificazione interventi:
•
garantire la privacy;
•
informare il paziente su ogni manovra che si andrà ad effettuare;
•
monitorare i parametri vitali;
•
monitorare il bilancio idrico;
•
pesare la persona;
•
monitorare lo stato della cute;
•
posizionare gli arti edematosi in scarico;
•
valutare lo stato di coscienza;
•
pianificare l’assunzione dei liquidi per via orale.
Attuazione interventi:
•
effettuare igiene delle mani dell’operatore;
•
chiudere la porta della stanza di degenza e posizionare un paravento a protezione dell’assistito
durante le manovre invasive per garantire la privacy;
•
spiegare al paziente con parole adatte al suo livello di comprensione le fasi e l’utilità della
manovra che si sta per eseguire affinché comprenda pienamente ciò che verrà effettuato e
aumenti la sua collaborazione;
•
tenere monitorati in particolare i valori di P.A. e F.C. per valutare i livelli di sofferenza
cardiaca, e i valori di SatO2, F.R. e qualità del respiro per valutare l’eventuale coinvolgimento
dei polmoni nel processo edematoso;
•
tenere monitorato, nelle 24 ore, il bilancio idrico valutando entrate (bevande, alimenti, acqua
endogena, farmaci in forma liquida o in via infusiva) e uscite (urine, feci, perspiratio,
sudorazione);
•
la persona va pesata tutti i giorni alla stessa ora, con la stessa bilancia e con indosso la stessa
quantità di indumenti;
•
monitorare quotidianamente lo stato della cute per rilevare eventuale insorgenza di lesioni,
soprattutto nelle zone edematose;
•
posizionare, con l’aiuto di presidi idonei, gli arti edematosi sollevati rispetto il livello del
cuore, se non controindicato per insufficienza cardiaca;
•
eventuali alterazioni del sensorio possono essere segno di accumulo di tossine;
•
consultare il dietista per definire la dieta e l’apporto di liquidi; se possibile, somministrare i
farmaci per via orale durante i pasti, in modo da contenere l’assunzione di liquidi. Se i farmaci
devono essere assunti in altri orari, utilizzare la quantità di acqua indispensabile alla sola
deglutizione degli stessi.
PROCESSO DI DISINFEIONE E STERILIZZAZIONE
Il processo di sterilizzazione consiste nella completa distruzione ed eliminazione di tutti i
microrganismi viventi (compreso le spore). Siano essi di qualsiasi natura e sotto qualsiasi forma essi si
presentino su una superficie.
Dunque, la sterilizzazione ha come obiettivo finale non solo l’eliminazione completa di batteri. Bensì
anche la creazione di un ambiente in cui sia impossibile la sopravvivenza di virus e simili.
L’art. 1 del DM 274/97 definisce invece attività di disinfezione. Si tratta di quelle attività che
riguardano il complesso dei procedimenti ed operazioni atti a rendere sani determinati ambienti
confinati ed aree di pertinenza. Ciò avviene mediante la distruzione o inattivazione di microrganismi
patogeni.
La disinfezione deve essere preceduta dalla pulizia per evitare che residui di sporco possano
comprometterne l’efficacia. Essa consente di distruggere i microrganismi patogeni. La disinfezione,
dunque, è un processo che ha come scopo l’eliminazione totale di batteri, virus e funghi di qualsiasi
tipo.
Dunque, sterilizzazione e disinfezione non sono la stessa cosa. Hanno obiettivi diversi e si usano in
ambiti diversi.
Livelli di disinfezione:
In funzione del principio attivo che viene utilizzato e del tempo impiegato per il trattamento delle
superfici, la disinfezione può essere di tre livelli:
-Livello elevato: distrugge tutti i microrganismi salvo le spore batteriche in numero elevato. Si
utilizza quando non è possibile sterilizzare.
-Livello intermedio: distrugge la maggior parte dei virus e dei miceti (funghi), batteri in forma
vegetativa e le spore batteriche. Si utilizza su superfici o oggetti contaminati da sangue o altro
materiale organico.
-Livello basso: distrugge la maggior parte dei batteri in forma vegetativa, solo alcuni virus e solo
alcuni miceti.
Sterilizzato e sterile, la stessa cosa?
Sterilizzato è considerato lo strumento sottoposto a processo di sterilizzazione senza la sua
confezione. Poi riposto per essere pronto all’uso in modo da minimizzare il rischio di contaminazione
ambientale.
Sterile è lo strumento ispezionato, pulito, confezionato e poi sottoposto a sterilizzazione dentro uno
strumento progettato per sterilizzare strumenti confezionati. Per mantenere lo status di sterile uno
strumento deve essere tenuto nella confezione chiusa fino all’attimo prima dell’utilizzo.
Tra i metodi/sistemi comunemente utilizzati per la sterilizzazione in ambito sanitario ricordiamo:
-
Con vapore saturo
-
Con ossido di etilene
-
Con perossido di idrogeno
-
Mediante soluzione di acido peracetico
-
Sterilizzazione con vapore saturo
È una tecnica che sfrutta l'azione del vapore fluente (pentola di Koch) o saturo (autoclave); elimina i
microrganismi mediante denaturazione di loro proteine e altre biomolecole. La sterilizzazione
mediante autoclave è quella più diffusa essendo poco costosa e non tossica e data la sua buona
capacità di penetrazione.
La temperatura (T) di sterilizzazione normalmente impiegata è di 134°C alla P di 2,1 bar. Il tempo,
come esposizione minima dei dispositivi, risulta essere dai 5 ai 7 min.
Oppure 121°C alla P di 1,1 bar. Il tempo, per questo ciclo (definito anche ciclo gomma), è dai 15 ai 20
min.
Sterilizzazione con mezzi chimici
L'unico mezzo chimico ancora in uso per sterilizzare è l'Ossido di etilene o etossido (EtO). È usato
soprattutto in ambito ospedaliero data la sua pericolosità: è infatti un gas esplosivo e infiammabile.
L'ETO è incluso nella Legislazione dei gas tossici; la sua detenzione e il suo utilizzo sono
regolamentati dal RD 147 del 1927 e dalle circolari del Ministero della Sanità del 1981 e del 1983.
L'etossido ha la caratteristica di impregnare a lungo gli oggetti trattati; per evitare danni all'organismo,
dunque, prima di usare questi oggetti è necessario riporli in ambienti aerati o in armadi ventilati fino
alla completa eliminazione dello sterilizzante.
Il meccanismo d'azione è dovuto all'alchilazione, (cioè, alla sostituzione di un atomo di idrogeno con
un gruppo alchilico) di gruppi sulfidrilici, aminici, carbossilici, fenolici ed idrossilici delle spore e
delle cellule vegetative. Tale processo porta alla morte del microorganismo.
Le controindicazioni di questo metodo sono:
-
Limiti legati al costo
-
Alla sua tossicità
-
Tempi lunghi di sterilizzazione e di aerazione
-
Deve essere installata in un locale appropriato
-
Personale dotato di patente per la manipolazione di gas tossici
Deve essere riservata a tutti quei materiali sterilizzabili che rispondono ai requisiti di compatibilità
(modificazione di tipo fisico/ livelli gas residuo). Non è eseguibile la
risterilizzazione dei materiali processati in precedenza con raggi gamma (formazione di etilenclorina).
Tali vincoli hanno indotto le Aziende Ospedaliere ad una gestione esterna della sterilizzazione ad
ETO.
Un altro mezzo chimico usato è l'acido peracetico. La formaldeide è stata utilizzata in passato come
sterilizzante chimico, ma il suo uso è stato fortemente limitato per legge avendo mostrato indizi di
essere cancerogeno.
Sterilizzazione con Perossido di Idrogeno
Lo si può utilizzare sotto forma di gas plasma o vapore. Con questo metodo si possono trattare
materiali plastici, metalli, fibre ottiche, componenti elettroniche e strumenti molto delicati
(microchirurgia).
Non possono essere utilizzati materiali in grado di assorbire il perossido quali ad esempio la cellulosa
(carta e teleria), i liquidi e le polveri.
Rappresenta una delle tecniche più avanzate per la sterilizzazione: consiste nell'applicazione di
perossido di idrogeno allo stato gassoso in presenza di un forte campo elettrico. Questo porta il
perossido allo stato di plasma strappandone gli elettroni e generando radicali liberi. I radicali hanno
un'alta capacità germicida andando a danneggiare notevolmente le membrane cellulari.
Il vantaggio è dovuto al fatto che si può preservare la sterilità fino a 12 mesi. Il gas plasma è molto
promettente in quanto: assolutamente non tossico (genera solo acqua e ossigeno); ha una temperatura
operativa molto bassa, intorno ai 40-45 °C; può essere utilizzato praticamente su ogni materiale,
tranne alcune stoffe e composti in grado di assorbire il perossido.
Sterilizzazione con Acido peracetico
È un potente agente ossidante. Questa caratteristica gli consente di avere proprietà antimicrobiche
anche a minime concentrazioni. I prodotti di degradazione inoltre non sono tossici e si dissolvono
facilmente in acqua.
Questo sistema è elettivo, ad esempio, per tutti gli strumenti utilizzati in campo endoscopico
(endoscopi flessibili) per i quali è richiesta la sterilizzazione tra un utilizzo e l’altro.
Sterilizzazione fasi: Le principali fasi del processo:
ACCETTAZIONE IN CENTRALE DELLO STRUMENTARIO CHIRURGICO
PROVENIENTE DALLE SALE OPERATORIE; Il personale della Centrale ritira e/o riceve il
materiale dai comparti operatori – tramite sistema informatico effettua l’accettazione del materiale e
ne verifica la conformità.
LAVAGGIO – DECONTAMINAZIONE;
Tutti i dispositivi medici riutilizzabili venuti a contatto con materiale biologico devono essere
SEMPRE decontaminati. Gli operatori effettuano il lavaggio-disinfezione dello strumentario
chirurgico, nel rispetto di specifiche procedure e istruzioni operative, in maniera manuale o automatica
in lava strumenti a seconda del tipo di dispositivo.
CONFEZIONAMENTO;
Lo scopo principale del confezionamento è di conservare il prodotto sterile fino al momento del suo
utilizzo. Per il confezionamento vengono utilizzati:
containers con filtri, indicati per kit di strumenti chirurgici numerosi.
carta medigal grade – accoppiato carta/polipropilene – per strumentario singolo o
particolarmente voluminoso
-Appositi indicatori di processo/sterilizzazione vengono inseriti in ogni kit.
4)IDENTIFICAZIONE;
Identificazione dei containers e dei kit tramite apposito codice a barre rilasciato dal sistema
informativo al fine di garantire la rintracciabilità di prodotto.
5)CONFORMITA’;
Controllo del 100% dei kit sterilizzati per integrità e viraggio indicatori di processo/ sterilizzazione.
Identificazione kit con etichetta finale, con parte staccabile da destinare alla cartella clinica del
paziente. Stampa del report di conformità nel rispetto della normativa vigente. Sterilizzazione con
vapore saturo; È una tecnica che sfrutta l'azione del vapore fluente (pentola di Koch) o saturo
(autoclave); elimina i microrganismi mediante denaturazione di loro proteine e altre biomolecole.
La sterilizzazione mediante autoclave è quella più diffusa essendo poco costosa e non tossica e data la
sua buona capacità di penetrazione. Autoclave utilizza il calore umido. Vapore d’acqua saturo.
Il vapore genera la denaturazione delle proteine. Contenitore in acciaio a chiusura ermetica con una
valvola di sicurezza. Manometro e termometro. La temperatura è di 134°C grazie alla pressione che
aumenta il punto di ebollizione dell’acqua e la sterilizzazione dura 4-7 minuti. Pressione 760 mmhg.
Autoclave a due cicli:1 atm e mezzo (121°C materiale delicato) – 2 atm e mezzo (139°C ferri
chirurgici).
Caricamento Autoclave: Deve essere effettuato in modo che il vapore possa circolare liberamente e
penetrare in ogni pacco.
Il carico dell’autoclave deve essere uniformemente distribuito e non deve toccare le pareti interne.
Gli articoli da sterilizzare devono essere disposti in modo tale che ogni superficie sia esposta
all’agente sterilizzante per la temperatura ed il tempo previsti.
Sistemare le buste ed i pacchi di carta nelle apposite griglie in posizione tale da essere paralleli al
fluire del vapore, non pressarli, le superfici in polietilene delle buste devono essere abbinate tra loro, i
pacchi piccoli sopra a quelli più grandi.
Sterrad è una sterilizzazione a gas plasma che utilizza come agente sterilizzate il perossido di
idrogeno vaporizzato ed è una tecnica a bassa temperatura (45-55°C) in tempi poco inferiori ad 1 ora
ed è una tipologia di sterilizzazione sicura perché non lascia residui di sostanze tossiche permettendo
l’uso dei materiali immediatamente dopo la fine del ciclo. È compatibile con materiali plastici, metalli,
fibre ottiche. Non possono essere utilizzati materiali in grado di assorbire il perossido quali ad
esempio la cellulosa (carta e teleria), i liquidi e le polveri. Rappresenta una delle tecniche più avanzate
per la sterilizzazione: consiste nell'applicazione di perossido di idrogeno allo stato gassoso in presenza
di un forte campo elettrico. Questo porta il perossido allo stato di plasma strappandone gli elettroni e
generando radicali liberi. I radicali hanno un'alta capacità germicida andando a danneggiare
notevolmente le membrane cellulari. Il vantaggio è dovuto al fatto che si può preservare la sterilità
fino a 12 mesi.
Responsabilità dell’operatore nel processo di sterilizzazione:
Le norme specifiche di ogni ospedale regolano l’utilizzo e la sicurezza dei presidi di sala operatoria.
Tutti gli operatori dovrebbero essere a conoscenza di ogni presidio, delle sue modalità di utilizzo e dei
potenziali rischi per garantire la sicurezza sia del paziente sia del team operatorio.
-Gli operatori devono controllare il materiale prima che venga utilizzato, valutare il corretto
funzionamento, identificare eventuali problemi ed eseguire le corrette istruzioni per garantire la
manutenzione e provvedere alla riparazione in caso di malfunzionamento.
-È necessario stabilire dei parametri per un sicuro utilizzo dei presidi da parte degli operatori e questi
devono sempre fare riferimento alle linee guida fornite dalla casa produttrice. Le istruzioni per
l’assemblaggio, per l’utilizzo e per la manutenzione dei presidi dovrebbero essere specificate per
iscritto nelle norme interne del dipartimento o riferirsi al manuale d’uso fornito dalla casa produttrice.
Utilizzo delle autoclavi a vapore per la sterilizzazione:
La buona pratica di sterilizzazione dei DMR si inserisce nel governo clinico e nella qualità. All’avvio
dell’attività di sterilizzazione sull’autoclave si prevede l’esecuzione di un ciclo di riscaldamento allo
scopo di ripristinare le condizioni di efficacia sia del vapore sia della temperatura, seguito da vuoto
test e test per la verifica della penetrazione del vapore routinari come ad esempio:
-Vuoto test: serve a verificare la tenuta della camera di sterilizzazione assicurando che non entri aria
durante le fasi di vuoto
-Test per verifica della penetrazione del vapore: dopo il test di verifica del vuoto, bisogna verificare
che il vapore penetri
-Test Bowie & Dick: permette di verificare se la rimozione dell’aria si mantiene efficace e se il
vapore è ancora in grado di penetrare all’interno della confezione di materiale da sterilizzare
-Helix Test: la capacità di rimozione dell’aria dai corpi cavi deve essere determinata utilizzando un
dispositivo di prova per carichi cavi (PCD) più comunemente chiamato Helix test.
-Indicatori chimici e biologici:
Biologici: possono essere sotto forma di striscia o fiale e contengono spore.
Chimici: il viraggio finale dell’indicatore chimico non certifica la sterilità del prodotto, ma indica
soltanto che il DMR è stato sottoposto a sterilizzazione.
Il test Bowie & Dick permette di verificare la corretta evacuazione dell’aria dalla camera di
sterilizzazione e conseguentemente, la completa penetrazione del vapore in carichi porosi (esempio:
bandane o camici).
Il test Bowie & Dick simula le prestazioni dell’apparecchio in riferimento alla sterilizzazione di
carichi porosi, in particolare valuta:
-l’efficacia del vuoto preliminare, e quindi la penetrazione del vapore all’interno delle cavità;
-valori di temperatura e pressione del vapore saturo durante la fase di sterilizzazione. L’indicatore è un
foglio sensibile al calore ed è posto al centro di un pacchetto costituito da vari strati di carta e gommaspugna.
Questo foglio ha la caratteristica di cambiare colore se esposto ad una determinata pressione di vapor
acqueo saturo. Se l’autoclave è efficiente deve essere in grado di sterilizzare in
modo omogeneo il pacco poroso, quindi vi sarà una penetrazione omogenea e il Bowie & Dick test
assumerà una colorazione uniforme, senza macchie di colore diverso. Il tipo di colorazione che deve
raggiungere dipende dalla casa costruttrice ed è reperibile sulle indicazioni dello stesso.
Si prende il test Bowie & Dick, che deve essere collocato in autoclave da solo (senza alcun
strumento), centralmente sul piano inferiore della camera di sterilizzazione (in queste condizioni il
quantitativo di aria da rimuovere è maggiore e la prova risulta più critica.) Il pacco prova contiene
all’interno un foglio di carta specifico sul quale è stato predisposto un inchiostro (indicatore chimico)
che virerà uniformemente e in modo omogeneo dalla periferia al centro.
Si seleziona e avvia sulla propria autoclave l’apposito programma per effettuare il Bowie & Dick Test
(il programma effettua un ciclo di sterilizzazione completo a 134 °C a 2.1 atm. per un tempo di
sterilizzazione di 3’30”).
Si esamina il foglio e si verifica se il viraggio del colore sia avvenuto uniformemente e con la stessa
intensità dal centro alla periferia si confronta la risposta ottenuta con quelle presentate nel supporto
interpretativo.
I Cestelli con Indicatori di Sterilità, Containers ferri chirurgici solitamente raggruppano strumentario
utilizzato per un determinato intervento, ad esempio un cainers ernia, un cainers neurochirurgia, ecc.
all’esterno troviamo la carta di bowie dick. Lo sterilizzante entra nei container tramite dei filtri che
vanno quotidianamente controllati.
Confezionamento con containers:
Il confezionamento con l’utilizzo di containers è il più pratico e veloce; il materiale viene posizionato
all’interno del container su delle griglie di acciaio tenendo presente che lo strumentario più pesante va
posto nella parte inferiore all’interno dello stesso. I containers non devono essere riempiti più dei ¾
della loro capacità in modo da poter agevolare la libera circolazione del vapore e non devono superare
i 5/6 kg per materiale tessile e i 10 kg per strumentario chirurgico. Prima di ogni processo di
sterilizzazione il container deve essere pulito e controllato in ogni sua parte; i filtri monouso devono
essere cambiati, i filtri in tessuto devono essere controllati (seguire le indicazioni del produttore per la
sostituzione) e le guarnizioni devono essere integre ed a tenuta. All’esterno del container, una volta
chiuso, posizionare i ganci di controllo per indicare che il contenuto, una volta processato, non è mai
stato utilizzato.
I containers per strumentario chirurgico in commercio non devono superare le dimensioni di
30x30x30 e di 30x30x60 e sono costruiti in alluminio e non più in acciaio; l’alluminio disperde il
calore molto più velocemente evitando la formazione eccessiva di condensa al suo interno. Posti in
scaffali sollevati da terra lontano da umidità luce e polvere i containers mantengono la sterilità al loro
interno per almeno 60/90 giorni.
La disinfezione Viene eseguita con mezzi fisici, chimici (disinfettanti) e meccanici. Se è
diretta alla distruzione di insetti o di piccoli animali è indicata più propriamente con i termini
di disinfestione o di disinfestazione. La d. delle acque, allo scopo di renderle
potabili, è detta potabilizzazione.
Modalità per eseguire la disinfezione. La d. delle ferite si pratica spargendo i disinfettanti
sulla parte ferita, mediante batuffoli di ovatta o di garza. Le sostanze impiegate sono
comunemente l’alcole puro a 70° o denaturato, l’acqua ossigenata, l’alcole iodato, la tintura
di iodio, ecc. La d. di ambienti o di oggetti ed effetti d’uso, quando sia d’interesse pubblico
(in casi di epidemie, di malattie contagiose, ecc.) è eseguita a cura delle organizzazioni
sanitarie (in Italia dalle unità sanitarie locali).
D. fisica (detta più propriamente sterilizzazione): quella eseguita con mezzi fisici quali: 1)
calore secco o aria calda: nelle stufe a secco, in genere per vetrerie di laboratorio, siringhe di
vetro, ecc.; 2) vapore d’acqua: questo può essere utilizzato fluente (cioè, non compresso) o
sotto pressione (in autoclave), talvolta misto a formaldeide, per la d. di biancheria, materiale
di medicazione, ecc.; 3) acqua in ebollizione: comunem. impiegata per siringhe, ferri
chirurgici, ecc. Allo scopo di distruggere anche le spore batteriche si usa aggiungervi il
D. chimica: quella eseguita per mezzo dei disinfettanti chimici, organici e inorganici.
carbonato sodico nella proporzione del 2%.
D. meccanica: consiste nell’impiego di filtri che trattengono i microbi (per es., in impianti
per la potabilizzazione dell’acqua). In genere essa è completata con mezzi chimici (cloro,
sali d’argento, ecc.).
12) assistenza al paziente con infarto acuto del miocardio
L’infarto del miocardio si verifica quando una parte di muscolo cardiaco rimane isolata dal flusso
sanguigno (evento ischemico) e, quindi, privata di ossigeno e nutrienti. Se l’ischemia è prolungata i
cardiomiociti (cellule cardiache) vanno incontro a necrosi, che è la morte cellulare.
Nella maggior parte dei casi l’infarto avviene in conseguenza della formazione di placche all’interno
delle arterie coronariche, deputate all’irrorazione del tessuto miocardico. La formazione delle placche
avviene nel corso di un periodo molto lungo, attraverso la deposizione di colesterolo e cellule; se la
placca si rompe l’aggregazione piastrinica conseguente può portare a un coagulo di dimensioni tali da
ostruire l’arteria.
Una causa meno frequente di infarto può essere lo spasmo, una costrizione improvvisa di un’arteria
coronarica (National Institutes of Health).
L’infarto miocardico può essere di due diverse tipologie, che presentano sintomi molto simili e si
distinguono nell’analisi dell’elettrocardiogramma (ECG) a dodici derivazioni (ottenuto con 6 elettrodi
posizionati intorno al cuore):
Infarto miocardico:
 STEMI (ST Elevation Myiocardial Infarction), in cui si osserva un sopraslivellamento di
almeno 0,1 mV del tratto ST tra due derivazioni contigue; in genere è causato dall’ostruzione
completa di una coronaria.
 Infarto miocardico NSTEMI (Non ST Elevation Myiocardial Infarction), in cui non vi è il
sopraslivellamento. In genere l’occlusione della coronaria è parziale.
La differenza tra infarto STEMI e NSTEMI è imputabile all’estensione dell’area cardiaca interessata
da ischemia, che può dipendere dal tipo di occlusione, se parziale o totale, ma anche dall’arteria
occlusa: se il danno interessa le arterie coronariche destra o sinistra le conseguenze sull’area cardiaca
possono essere maggiori che non in caso di danno all’arteria circonflessa, che è un’arteria secondaria.
In genere i pazienti colpiti da infarto miocardico STEMI sono più giovani e presentano meno disordini
cardiovascolari correlati, rispetto invece ai pazienti con infarto miocardico NSTEMI, il quale può
essere considerato come il risultato di un processo di una serie di condizioni dannose per la salute
cardiovascolare.
L’infarto è da considerarsi un’emergenza perché, se il flusso sanguigno rimane interrotto troppo a
lungo le cellule cardiache vanno incontro alla morte e il tessuto cicatrizza.
Nell’infarto si ritrova, infatti, il rilascio nel sangue di specifici biomarcatori di necrosi cellulare, che
differenziano questo evento, sia esso STEMI o NSTEMI, dall’angina instabile, altra patologia
cardiaca in cui l’ossigenazione del muscolo cardiaco da parte delle arterie coronariche risulta
difficoltosa.
Le conseguenze di un attacco di infarto cardiaco possono essere molto gravi e portare all’insorgenza
di aritmie, che sono alterazioni del ritmo cardiaco, o insufficienza cardiaca, condizione in cui il cuore
non riesce a pompare abbastanza sangue per sostenere la vitalità dell’organismo in maniera adeguata.
L’infarto rappresenta la prima causa di morte al mondo.
Esistono fattori associati ad un aumento del rischio di infarto miocardico:
 età
 fumo: fumare favorisce la coagulabilità del sangue e l’aterosclerosi;
 pressione alta: la pressione elevata può danneggiare le arterie e aumenta il fabbisogno di
ossigeno del cuore, che deve esercitare una maggiore contrattilità;
 colesterolo o trigliceridi elevati: il colesterolo LDL (low density lipoproteins) e i trigliceridi si
depositano e contribuiscono alla formazione delle placche aterosclerotiche;
 diabete: livelli di glicemia elevati favoriscono l’aterosclerosi;
 familiarità per infarto del miocardio: esistono polimorfismi genetici che predispngono
maggiormente all’infarto del miocardio;
 mancanza di attività fisica: uno stile di vita comprensivo di attività aerobica permette di
mantenere una migliore salute cardiovascolare;
 obesità: l’obesità è associata a glicemia, trigliceridi e colesterolo elevati;
 stress: lo stress può influire sulla salute cardiovascolare;
 sostanze stupefacenti: la cocaina e l’amfetamina possono provocare spasmi costrittivi delle
arterie coronariche;
 preeclampsia: la pressione alta in gravidanza aumenta il rischio di infarto miocardico;
 malattia autoimmunitaria: condizioni come artrite reumatoide o lupus eritrematoso sono
caratterizzate da iperattivazione delle cellule infiammatorie, che favoriscono l’aterosclerosi.
l’IMA è una necrosi del tessuto miocardico dovuta:
ad una severa ipoperfusione, causata da una inadeguata perfusione coronorica, in seguito a
coronaropatie come aterosclerosi, stenosi e/o occlusioni trombotiche.
da una maggiore richiesta di O2 (eccessivo sforzo, tachiaritmie) dal tessuto miocardico non
soddisfatta per varie ragioni, come l’anemia (ima da discrepanza).
Sintomi e segni dell’infarto miocardico acuto
Specifici: dolore retrosternale che può diramarsi a livello gastrointestinale (con nausea e vomito),
sottomandibolare, giugulo, interscapolare e sulle spalle fino alle braccia. La cute appare pallida e
diaforetica (sudore freddo).
Respiratori: tachipnea e dispnea, possibile edema polmonare.
Psico-neurologici: irritabilità, ansia, irrequietezza, senso di morte imminente. Cefalea.
ECG: Alterazioni come ST sopraslivellato, BBSx di nuova insorgenza.
Diagnosi Clinica:
•
Anamnesi,
•
Esame Obiettivo.
•
Esami ematochimici:
•
isoenzimi cardiospecifici:
•
Troponina T e I, CK-Mb, Mioglobina. Ogni 4/6 h per avere una curva di valori tali da
verificare e stimare il danno miocardico.
•
altri esami utili: LDL e HDL, Colesterolemia, Transaminasi.
Strumentali: ECG, EcoCardio, test ergometrico o test da sforzo, ecostress, coronarografia.
Trattamento
I farmaci generalmente usati si possono ricordare con l’acronimo MANO:
Morfina Cloridrato per i casi di concomitante edema polmonare (solo se la pressione arteriosa regge)
ed eventualmente per l’ansia e il dolore del paziente.
Aspirina (e/o altri antiaggreganti come Plavix) come anti aggregante piastrinico
Nitroglicerina inizialmente sublinguale e per le angine semplici, se non efficace o insulto cardiaco è
maggiore si passa alla somministrazione endovena.
O2 Terapia
Il trattamento d’elezione secondo le ultime linee guida è la coronarografia (preferibile rispetto all’uso
dei trombofibrinolitici) con eventuale applicazione di stunt o angioplastica, soprattutto se
dall’insorgenza dell’infarto non si siano superati 90 minuti la cosiddetta golden hour.
Terapia possibile e aggiuntiva: Eparina/Clexane, B-Bloccante, Antiaritmici, ansiolitici ed ipnotici
Nursing nell’IMA STemi: Primo Intervento
L’infermiere di fronte a sintomatologie che facciano sospettare un infarto miocardico in corso dovrà
velocemente effettuare una valutazione dello stato di salute e di coscienza del paziente e:
Avvertire il medico
Posizionare in Semiseduta o Flower alta (aumenta i volumi respiratori e mantiene in sicurezza il
paziente)
Effettuare un Accesso Venoso (20G come minimo)
Posizionare Ossigenoterapia (secondo protocolli aziendali),
Tranquillizzare il paziente.
In seguito, si passa al prelevamento dei dati:
Farsi spiegare bene la posizione e la natura del dolore (“Sento come una puntura qui vicino allo
sterno “) chiedere di oggettivare il dolore con una scala NRS (“Da uno a dieci quanto è forte il dolore
dove 10 è il massimo dolore che ha mai sentito e 0 è non sentire dolore” – “In questo momento…sarà
4 ma all’inizio era 2”).
Prelevare i parametri vitali: Pressione arteriosa, Saturazione Ossigeno, Frequenza cardiaca e
documentarli.
Eseguire un ECG (elettrocardiogramma)
Recuperati i dati clinici mostrate l’ecg e segnalate al medico i p.v. prelevati e il dato oggettivo del
NRS.
Somministrate la terapia come prescritta.
Probabilmente vi si chiederà di eseguire un prelievo per valutare gli indicatori di necrosi miocardica
ed altri valori biochimici.
Se fate parte di reparti della branca cardiologica:
ogni reparto ha i suoi protocolli e le sue linee guida e quelli saranno da seguire ma possiamo
ammettere che grosso modo e in linea generale dovrete, nel caso di imminente esecuzione di
coronarografia:
•
Verificare che il paziente abbia firmato i consensi, compreso e accettato la procedura
•
Verificare la congruità e la pervietà dell’accesso venoso
•
Eseguire Tricotomia (secondo il vostro protocollo) ma generalmente a livello inguinale esteso
e nei polsi radiali fino all’avambraccio.
•
Somministrare eventuale terapia
•
Monitorare parametri vitali e sintomatologia del paziente.
•
Monitorate attraverso ecg o telemetria l’attività elettrica del cuore
•
Verificare il digiuno
•
Se richiesti eseguite il prelievo ematico: la procedura necessità di altri valori biochimici come
la creatinina, l’emoglobina e la coagulazione.
•
Se da protocollo: posizionate un catetere vescicale, in genere non è necessario per tutti. Se il
pz ha formato un globo vescicale (fino a 1000 ml) clampate ogni 300/400 ml questo eviterà
una crisi vagale, non una buona cosa in un pz infartuato.
•
Togliete e conservate protesi e accessori: dentiera, occhiali, collane e anelli, cc...
•
Vestite il paziente con grembiule chirurgico, calzari, mascherina ecc.
•
Spesso se la creatinina è borderline è da somministrare una soluzione fisiologica (il flusso sarà
prescritto secondo la frazione di eiezione del pz)
•
Trasferire il paziente: UTIC o EMODINAMICA.
N.B.: preparare e mantenere vicino subito il carrello d’emergenza, presidi di emergenza sempre a vista
e pronti:
farmaci di emergenza come atropina e adrenalina, per sostenere la respirazione come l’Ambu, il set
per intubazione endotracheale, va e vieni, ecc. e
quelli cardiaci come il defibrillatore manuale o quello semi-automatico.
Diagnosi Infermieristiche al paziente con Infarto Miocardico Acuto
-
Rischio di difficoltà respiratoria secondario a edema polmonare
Alcuni i pazienti durante l’IMA presentano o rischiano un EPA (edema polmonare acuto). Quindi sarà
necessario mantenere un monitoraggio e documentazione costante dei parametri vitali quali PA, FC e
SpO2.
Eseguire al sospetto un esame obiettivo valutando eventuali suoni respiratori anormali come
gorgoglii o fischi,
prelevare se prescritto un Emogasanalisi per valutare i gas respiratori,
compilare un bilancio idroelettrolitico, monitorare la diuresi che non dovrà mai essere inferiore ai
30 ml/h mantenere sotto osservazione.
Preferire una dieta iposodica.
Ansia
L’ansia è un fenomeno percepito dal paziente con risvolti somatici che possono aggravare lo stato
di salute del paziente se eccessivo; quindi, è bene attraverso l’ascolto attivo e l’educazione sanitaria
aiutare il pz a controllarla
Si può richiedere l’intervento di specialisti se disponibili. Favorire le visite di familiari e amici se le
stesse sono armoniose.
Problemi Collaborativi: Dolore
Istruire il paziente a riferire ogni sintomo o evoluzione ed ogni episodio di dolore. Ricordare
dell’importanza del riposo assoluto.
Il paziente in seguito alla fase acuta dovrà essere monitorato, se il pz riferisce dolore l’infermiere
dovrà effettuare un tracciato ECG (se il paziente non è gia monitorato o telemetrato) e valutare
alterazioni del tracciato e riferirle al medico. Prendere i PV, somministrare terapia farmacologica e
O2T secondo prescrizione e terapia.
Mantenere un ambiente tranquillo, e autorizzare le visite solo se armoniose. Complicanze
dell’infarto miocardico acuto
Le maggiori complicanze nel paziente infartuato sono:
-
Aritmie
-
Embolia Polmonare
-
Shock Cardiogeno
-
Monitorare e rilevare possibili stati di ipossia, squilibri acido-base ed elettrolitici, segnalare
al medico alterazioni patologiche (esempio potassio fuori range)
-
Garantire nei casi selezionati dai medici, il monitoraggio ecg continuo e segnalare
alterazioni non fisiologiche
-
Garantire la presenza e la pervietà di un accesso venoso e la disponibilità ai farmaci
antiaritmici di urgenza ed emergenza.
Embolia Polmonare
Monitorare e valutare il dolore toracico e il respiro (anche attraverso auscultazione) per rilevare
eventuali sintomi di difficoltà a respirare e segnalare prontamente al medico
Monitorare la comparsa di sintomi di inadeguata ossigenzione tissutale o di insufficienza
respiratoria: cute fredda, cianosi, pallore, dolore al polpaccio, segno di Holmas (dorsoflessione del
piede dolorosa), confusione, agitazione dello stato mentale, disorientamento, alterazione dello stato
di coscienza.
Shock Cardiogeno
Monitorare e segnalare segni e sintomi di diminuita gittata cardiaca: tachicardia, tachipnea, polso
debole e filiforme, diuresi <30 ml/h, cute pallida, fredda e cianotica, confusione, agitazione dello
stato mentale, disorientamento, alterazione dello stato di coscienza. PA media < 60 mmHG
Monitorare i segni di inadeguata perfusione coronarica: valutare presenza di angor o angina.
Monitorare e segnalare esami della coagulazione
Altre complicazioni principali che l’infermiere dovrà sempre attenzionare e monitorare sono:
Fibrillazione Ventricolare, nella prima ora soprattutto e in maniera lievemente minore nelle
successive, mantenere accessibile il defibrillatore, solo una scarica può elettro convertire una FV in
un ritmo sinusale.
Edema Polmonare, vedi in rischio di difficoltà. Complicanze da cateterismo cardiaco (infezione,
emorragia, aritmie)
ASSISTENZA AL PAZIENTE CON PROBLEMI EPATICI-ASCITE
DEFINIZIONE ASCITE: Per ascite si intende la raccolta di liquido nella cavità addominale. In
condizioni normali, la presenza di liquidi in quantità ridotte (meno di 30 ml) non crea problemi, ma
l'accumulo di quantità maggiori è una spia di differenti patologie in corso e può causare rischi gravi
per la salute. Le patologie collegate all'ascite sono le malattie del fegato, epatiti
virali ed epatopatia alcolica, seguite da cirrosi epatica e ipertensione portale, insufficienza
cardiaca, infarto, sindrome di Budd-Chiari, tubercolosi, pancreatite, carcinoma peritoneale. Le
complicazioni più gravi riguardano la possibilità di infezioni (peritonite batterica spontanea o SBP)
e la temuta sindrome epatorenale, in cui la pressione dei liquidi su fegato e reni ne compromette
gravemente il funzionamento. Questa condizione si verifica nella maggioranza dei casi (fino
all'80%) nei pazienti con malattie del fegato, in particolare la cirrosi. In caso di cirrosi, infatti, il
legame di forte scambio tra il fegato e la vena porta (vena che “porta” il sangue venoso al fegato)
comporta il versamento dei liquidi nella cavità peritoneale causando l'ascite. L'ascite può
essere classificata in gradi: I grado, lieve, si evidenzia solo con l'ecografia; II grado e III grado,
rilevate dal medico tramite una visita medica, si caratterizzano per il gonfiore evidente dell'addome.
La causa più frequente di ascite è la cirrosi epatica. Quando fegato e dotti biliari sono soggetti a
cicatrizzazione (fibrosi), l'alterazione nello scambio di liquidi con la vena porta causa il versamento
di siero all'interno della cavità addominale. L'ascite compare anche nei pazienti con tumori degli
organi addominali, con tubercolosi, pancreatite e con insufficienza cardiaca.
I sintomi dell'ascite variano a seconda della causa. In genere, nella forma lieve non dà sintomi e non
è visibile. Nelle forme più gravi i sintomi possono includere:
-
dolore addominale
-
gonfiore addominale
-
stanchezza intensa
-
perdita di peso
-
perdita di appetito
-
fiato corto (dispnea), per l'interferenza meccanica con i movimenti del diaframma e dei
polmoni
La diagnosi di ascite si può ottenere con una visita medica nelle sue fasi avanzate. Il medico
attraverso l'esame visivo dell'addome e alcune semplici manovre individua i segni tipici dell'ascite.
Per la diagnosi delle cause o per escludere altre condizioni, il medico può richiedere i seguenti
esami:
Esami del sangue, con emocromo, elettroliti (natremia, potassiemia, cloremia, test della funzionalità
renale (creatininemia, azotemia), transaminasi (AST e ALT), glicemia;
Ecografia addominale, per la ricerca di ascite lieve, la stima della quantità di liquido e di altre
condizioni come la sindrome di Budd-Chiari;
In seguito a paracentesi, esame del liquido aspirato per la ricerca di infezioni batteriche o per il
dosaggio delle albumine e delle proteine, per la ricerca di eventuali cellule tumorali.
Il trattamento dell'ascite prevede alcune misure alimentari, come la riduzione del sale (sodio) negli
alimenti per evitare la ritenzione dei liquidi. I farmaci principali sono i diuretici, per l'espulsione
dei liquidi in eccesso. Nel caso in cui l'ascite non migliori con l'uso di diuretici, si interviene con
l'aspirazione dei liquidi. La procedura si chiama paracentesi e viene eseguita in regime
ambulatoriale. Nel caso di peritonite batterica spontanea, l'infezione viene trattata con antibiotici.
IL PAZIENTE EPATICO: Il paziente malato di cirrosi epatica: le patologie epatiche possono essere
di natura cronica ed è irreversibile. Si tratta di un complesso ampio di alterazioni delle cellule del
fegato che sono sottoposte a continue azioni flogistiche che a loro volta danno origine ad esiti
cicatriziali. L’organo diventa più spesso e il tessuto diventa fibroso. La Cirrosi Epatica rappresenta
a tutti gli effetti l’esito finale di una patologia molto grave la cui cura resta il trapianto. Con i
farmaci attuali e con altri rimedi non farmacologici (stile di vita, alimentazione corretta, ecc.) è
possibile solo ridurne la progressione.
La Cirrosi Epatica nello specifico:
Le alterazioni cronico-degenerative delle cellule del fegato, tipiche della condizione di cirrosi
epatica, vanno ad intaccare sensibilmente le funzionalità del fegato stesso e ciò accade per cause
diverse: la maggior parte dei casi di cirrosi epatica è riconducibile all’abuso di alcool e a
malnutrizione (cirrosi portale di Laennec); numerosi anche i casi di cirrosi postnecrotica, secondaria
ad epatiti virali acute (soprattutto di tipo B e C);
frequente anche la cirrosi biliare, conseguenza di ostruzione biliare cronica. Sono anche altre le
cause di cirrosi (ad esempio tumori, patologie ereditarie o l’esposizione ad agenti tossici), ma in
tutti i tipi di cirrosi il tessuto cicatriziale interferisce inevitabilmente con la normale funzionalità
epatica ed essendo il fegato un organo responsabile di molte funzioni, le complicanze di questa
patologia sono ad ampio spettro e possono raggiungere livelli molto gravi.
Fra le complicanze della cirrosi, dunque, individuiamo:
•
malnutrizione: il fegato non è più in grado di assorbire i grassi e le vitamine liposolubili, di
conseguenza si ha affaticamento, consumo di massa muscolare e perdita di peso;
•
ipoglicemia: il fegato non è più in grado di regolare i processi di scissione del glicogeno in
glucosio (glicogenolisi);
•
disfunzioni della coagulazione: il fegato non è più in grado di produrre quantità sufficienti di
protrombina e fibrinogeno;
•
ipertensione portale: il flusso di sangue che attraversa il fegato viene interrotto dal tessuto
cicatriziale e ritorna dunque verso la vena porta, causando ipertensione. L’ipertensione
portale, causando a sua volta la distensione delle vene di esofago, milza e retto, provoca
varici esofagee, splenomegalia ed emorroidi;
•
ascite: l’ipertensione portale può condurre anche ad un accumulo di liquidi nella cavità
peritoneale;
•
encefalopatia epatica: il paziente si mostra disorientato ed ha tremore delle mani, segni di
accumulo di ammoniaca nell’encefalo;
•
sindrome epato-renale: la cirrosi evolve in un’insufficienza renale ed il paziente
manifesta oliguria, inappetenza, astenia, affaticamento ed iperazotemia.
La cirrosi epatica può essere definita una patologia subdola, poiché chi ne è colpito spesso non sa di
avere un problema di fegato fino alla comparsa, talvolta improvvisa, di complicazioni ad esso
correlate. Una serie di segni e sintomi, tuttavia, possono essere notati e possono far sospettare la
presenza di una patologia epatica, quali ad esempio:
•
ittero: colorazione giallastra di cute, mucose e occhi (sclere) dovuta ad un accumulo
di bilirubina, non più escreta in quantità adeguate da parte del fegato;
•
ascite ed edemi agli arti inferiori: per un difetto del ruolo del fegato nell’eliminazione dei
liquidi; - alterazioni dei vasi periferici (spider naevi: piccole macchie circondate da sottili
vasi sanguigni, a forma di “ragno”), ematomi, ecchimosi, petecchie, epistassi;
•
alterazioni delle unghie e delle dita delle mani: bande orizzontali bianche sulle unghie, dita
ippocratiche o “a bacchetta di tamburo”;
•
epato-splenomegalia;
•
febbre, vomito, perdita di peso ed altri.
La diagnosi di cirrosi epatica può essere determinata attraverso:
esami ematici (aminotransferasi, bilirubina, albumina, fattori della coagulazione ecc.)
TAC - Ecografia ed altri.
PROBLEMI COLLABORATIVI DEL PAZIENTE EPATICO: emorragia, tossicità da farmaci,
malattie metaboliche, encefalopatia porto sistemica, insufficienza renale
OBIETTIVI: l’infermiere identificherà segni e sintomi di emorragia, tossicità da farmaci ecc.
INDICATORI:
•
pressione arteriosa maggiore di 90/60 o minore di 140/90
•
Frequenza cardiaca 60-100 bpm
•
Frequenza respiratoria 16-20 atti/min.
•
Vigile, orientato nel tempo, spazio e persone
•
diuresi>5ml/Kg/h
•
Esami: emoglobina, tempo di protrombina, elettroliti plasmatici, sodiemia, creatininemia,
albuminemia, azotemia, assenzadisangueoccultonellefeci
•
PCO2sanguearterioso:35-45mmHg
•
SaturazioneinO2 dell’emoglobina con pulsossimetro>95%
INTERVENTI: Monitorare l’eventuale comparsa di emorragie raccogliendo i seguenti dati:
parametri vitali, ematocrito e emoglobina, presenza di sangue occulto nelle feci, tempo di
protrombina
Monitorare l’eventuale comparsa di sintomi di rottura di varici esofagee: ematemesi, melena
Insegnare a riferire la comparsa di emorragie insolite e aree di ecchimosi
Monitorare l’eventuale comparsa di segni e sintomi quali: ipoglicemia, riduzione di sodio, potassio,
calcio, magnesio, fosfati;
Monitorare l’eventuale comparsa di alterazioni dell’equilibrio acido-base
Monitorare l’eventuale comparsa di encefalopatia portosistemica valutando: comportamento
generale, orientamento nel tempo e nello spazio, linguaggio, ph ematico e ammonemia
Accertare l’eventuale comparsa di effetti collaterali dei farmaci
Evitare la somministrazione di farmaci che possono alterare la funzionalità epatica
Monitorare l’eventuale comparsa di insufficienza renale valutando entrate e uscite, peso specifico
delle urine, sodiemia
Monitorare l’eventuale comparsa di ipertensione arteriosa
Insegnare a riferire ai familiari i seguenti sintomi: aumento della circonferenza addominale, perdita
o aumento del peso corporeo, emorragie, tremori, confusione mentale
Terapia farmacologica.
•
Integratori vitaminici e/o di Sali minerali, lattulosio, enzimi digestivi, vasodilatatori,
diuretici risparmiatori di potassio.
•
Terapia endovenosa.
•
Nutrizione parenterale.
Esami di laboratorio: Azotemia, bilirubina plasmatica, AST, ALT, LDH, glicemia, elettroliti
plasmatici, fosfatasi alcalina, tempo di protrombina, emocromo, immunoglobuline IgA e IgG.
Indagini diagnostiche. Ecografia epatica, colangiografia trans epatica, biopsia epatica,
esofagogastroduodenoscopia, RMN TC, radiografia addome.
Altri trattamenti.
Dieta, restrizione di liquidi, ossigenoterapia, nutrizione per sonda, paracentesi
DOCUMENTAZIONE: Diario giornaliero: peso corporeo, parametri vitali, sangue occulto nelle
feci, circonferenza addominale, peso specifico urine, entrate e uscite.
Note di decorso: segni di emorragia, tremori o confusione mentale
DIAGNOSI INFERMIERISTICHE: Nutrizione inferiore al fabbisogno, correlata a inappetenza,
compromissione del metabolismo proteico, lipidico e glucidico e del deposito di vitamine (A, C, K,
D, E)
NOC: stato nutrizionale, conoscenza della dieta
NIC: gestione della nutrizione
1. Discutere le cause dell’inappetenza, della dispepsia e della nausea e spiegare che la
compromissione della funzionalità epatica è causa di alterazioni metaboliche.
2. Educare l’assistito a riposare prima dei pasti
3. Offrire pasti piccoli e frequenti
4. Ridurre l’assunzione di liquidi ai pasti ed evitare di farlo bere un’ora prima e dopo ogni
pasto
5. Mantenere un’adeguata igiene orale prima e dopo l’assunzione di cibo
6. Fare in modo che gli alimenti a più alto contenuto proteico e calorico vengano serviti nel
momento in cui è più probabile che il paziente li assuma.
7. Insegnare all’assistito le misure idonee a ridurre la nausea (evitare l’odore della
preparazione dei cibi, sostituire i vestiti se pieni di odori, mangiare in posizione seduta in
ambiente arieggiato, riposare in modo che la testa si trovi almeno 10cm più in alto rispetto ai
piedi
8. Limitare l’assunzione di alimenti e bevande ad alto contenuto lipidicoSpiegare il bisogno
di aumentare l’apporto d ivitaminaB12, acido folico, tiamina, ferro, i rischi legati all’alcool
e di assumere le vitamine liposolubili in forma idrosolubile
9. Documentazione Diario giornaliero: peso corporeo, entrate, circonferenza addominale
DIAGNOSI INFERMIERISTICA: Compromissione del benessere, correlata a prurito secondario
ad accumulo di bilirubina e Sali biliari
NOC: controllo dei sintomi
NIC: gestione del prurito, trattamento della febbre, gestione dell’ambiente per il benessere
Interventi: mantenere l’igiene evitando la disidratazione della cuteEvitare l’esposizione a
temperature elevate mantenendo l’ambiente frescoConsigliare di non grattarsi e istruire a applicare
una ferma pressione sulla zona che prudeConsultare medico per la terapia farmacologica se
necessario.
DIAGNOSI INFERMIERISTICHE: Eccesso d volume dei liquidi, correlato a ipertensione
portale, diminuzione della pressione colloidosmotica del plasma e ritenzione di sodio
NOC: bilancio elettrolitico, bilancio idrico, idratazione
NIC: gestione degli elettroliti, gestione dei liquidi, monitoraggio dei liquidi, sorveglianza della cute
INTERVENTI: verificare la dieta dell’assistito per rilevare un inadeguato apporto proteico o un
eccessivo apporto di sodio.
Incoraggiare l’assistito a diminuire l’apporto di sodio;
Accertare insieme al medico se l’assistito può usare i sostitutivi del sale evitando i prodotti che
contengono ammonio
Proteggere la cute edematosa da Lesioni.
Il ruolo dell’infermiere nell’assistenza al paziente con Cirrosi Epatica
L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica e di fronte ad un paziente
con cirrosi epatica che viene ricoverato nell’Unità Operativa di Medicina Interna, ha la
responsabilità di prendere in carico l’utente.
Dopo aver acquisito i dati anagrafici necessari al ricovero del paziente, l’infermiere procede ad
effettuare l’accertamento infermieristico per delineare le condizioni dello stesso al momento
dell’ingresso in reparto.
L’infermiere, in particolare, rileva i parametri vitali, quali:
-
pressione arteriosa
-
saturazione
-
frequenza cardiaca
-
frequenza respiratoria e qualità del respiro
-
temperatura corporea.
Monitorerà, inoltre:
-
il colorito e il livello di idratazione della cute;
-
le condizioni del sensorio;
-
l’eventuale presenza di ascite e/o edemi agli arti, misurandone la circonferenza;
-
i rumori polmonari (per rilevare eventuale edema polmonare);
-
i valori di globuli bianchi, globuli rossi, piastrine, emoglobina, bilirubina e delle
transaminasi.
Con l’utilizzo di scale validate e contestualizzate e, ove possibile, con la collaborazione del
paziente, valuta la presenza di dolore, con relative caratteristiche, localizzazione e intensità, così
come accerterà il livello di ansia che affligge la persona. L’infermiere consulterà il dietista per
concordare, insieme all’assistito, una dieta opportuna al caso e le relative restrizioni, dietetiche e di
liquidi.(pochi liquidi dovrà assumere)Quella dell’accertamento è solo la prima fase del processo di
assistenza infermieristica che, come passaggio successivo, prevede un’attenta analisi incrociata dei
dati raccolti attraverso l’accertamento, con la collaborazione del paziente e, se presente, con quella
di un caregiver; analisi dei dati che porta alla formulazione di un piano assistenziale tarato sulla
singola persona.
Un esempio di piano assistenziale per un paziente con Cirrosi Epatica
La signora Giovanna, 68 anni, pensionata viene ricoverata nel reparto di Medicina Interna con una
diagnosi di cirrosi epatica.
All’accertamento infermieristico si rilevano i seguenti parametri:
-
P.A. 165/90 mmHg;
-
Sat. O2 93% in aria ambiente (AA);
-
F.C. 75 battiti al minuto (bpm);
-
F.R. 26 atti al minuto (am) con respiro superficiale.
-
Inoltre, il paziente manifesta:
-
cefalea di valore 5 sulla scala NRS;
-
oliguria; - ascite; - astenia;
-
nausea e inappetenza;
-
secchezza cutanea, ittero;
-
irrequietezza;
-
ansia lieve legata alla patologia.
Obiettivo: La persona non presenterà segni e sintomi di infezione durante la degenza.
Pianificazione interventi:
-
garantire la privacy;
-
informare il paziente su ogni manovra che si andrà ad effettuare;
-
garantire corretta igiene personale e dell’unità di degenza;
-
monitorare il paziente, i parametri vitali e lo stato della cute per rilevare eventuali segni e
sintomi di infezione;
-
garantire tecnica asettica nella gestione dei presidi invasivi;
-
garantire la corretta somministrazione della terapia prescritta dal medico.
Attuazione interventi:
-
effettuare igiene delle mani dell’operatore; chiudere la porta della stanza di degenza e
posizionare un paravento a protezione dell’assistito durante le manovre invasive per
garantire la privacy;
-
spiegare al paziente con parole adatte al suo livello di comprensione le fasi e l’utilità della
manovra che si sta per eseguire affinché comprenda pienamente ciò che verrà effettuato e
aumenti la sua collaborazione;
-
garantire quotidianamente l’igiene personale e dell’unità di degenza, una biancheria asciutta
e pulita e una giusta areazione dell’ambiente aiuta a ridurre la possibilità d’insorgenza di
infezioni;
-
monitorare il paziente per rilevare eventuali segni e sintomi di infezione, quali: stati insoliti
di dolore, rossore, calore della cute, ematuria, piuria, temperatura corporea superiore ai
38°C, diaforesi profusa, aumento F.C., aumento F.R. ecc.
-
garantire una tecnica asettica nella gestione dei presidi invasivi riduce la possibilità di
invasione da parte di microrganismi patogeni;
-
garantire la corretta somministrazione della terapia prescritta dal medico, ad esempio quella
antibiotica, è fondamentale per debellare eventuali infezioni in atto.
Verifica
La persona non presenta segni e sintomi di infezione.
LA SOMMINISTRAZIONE DEI FARMACI E NORME DI SICUREZZA
La Terapia Farmacologica
La gestione e somministrazione dei farmaci rappresenta uno dei perni centrali della professione
Infermieristica. Centrale perché “è propria dell'infermiere” ed è un'attività delicata che comporta dei
rischi per il paziente sino a metterne in serio pericolo la vita, ma anche per l’operatore. Facendo
gravare su noi infermieri, un altissimo carico di responsabilità (“COLPA PROFESSIONALE”)
Responsabilità etica, civile penale e disciplinare in caso di errore.
Dal punto di vista giuridico, l’atto di somministrare la terapia farmacologica si compone di due
momenti:
-ATTO DI PRESCRIZIONE (COMPETENZA MEDICA)
- ATTO DI SOMMINISTRAZIONE (COMPETENZA INFERMIERISTICA) IN SITUAZIONI DI
EMERGENZA CLINICA E CIRCOSTANZIALE, QUESTA DISTINZIONE VIENE A
MANCARE
La Prescrizione Dev'essere scritta reperibile nella cartella clinica e/o nella cartella infermieristica.
Nella prescrizione di un farmaco devono comparire quegli elementi che garantiscono un’adeguata
completezza di informazioni rispetto a ciò che si sta somministrando e alla persona a cui lo si
somministra “la prescrizione di farmaci sulla base di una prescrizione orale può essere accettata
soltanto in casi di emergenza”. “l’emergenza è una situazione che giustifica la mancanza del
requisito della prescrizione, in quanto il medico è comunque presente, ha visitato il paziente e ha
fatto una diagnosi”. “le istruzioni telefoniche date ad un infermiere per una somministrazione di
farmaci, anche in una situazione di emergenza, non sono accettabili”.

Errore di prescrizione: Per “prescrizione completata” s’intende una prescrizione che prevede
tutti i seguenti elementi: Associazione inequivocabile al paziente, peso del paziente, allergie,
tipo di farmaco (denominazione commerciale), la forma farmaceutica, dose via di
somministrazione, numero di somministrazioni, i tempi/orari, durata, ogni indicazione
necessaria, data, firma

Errore di trascrizione/ interpretazione: Riguarda la errata comprensione di parte o della
totalità della prescrizione medica e/o delle abbreviazioni e/o di scrittura. Tale errore si può
verificare laddove vi è l’abitudine di trascrivere la prescrizione, oppure si tenti di decifrare
una grafia poco chiara, o si somministri anche a fronte di una prescrizione incompleta di uno
dei suoi elementi costitutivi. Oppure possono verificarsi Errori di calcolo.

Errore di somministrazione: Avviene nella fase di somministrazione della terapia, da parte
degli operatori sanitari o di altre persone di assistenza, o quando il farmaco viene assunto
autonomamente dal pz.

Errore di monitoraggio: da riferire al mancato, oppure all’errato monitoraggio degli effetti
del farmaco sul paziente È stato stimato che gli errori di somministrazione rappresentano
circa il 59% degli errori.
Ogni qual volta un infermiere si trova dinanzi a una prescrizione illeggibile, poco chiara o
incompleta è obbligato a chiedere un chiarimento per iscritto dal medico.
CALCOLO DELLE DOSI DEI FARMACI: dose prescritta diviso dose disponibile per volume che
la contiene uguale quantità da somministrare.
La gestione della terapia farmacologica viene messa in atto dall’infermiere attraverso tre azioni:
1.Somministrazione
2. Approvvigionamento
3.Conservazione
L'infermiere deve:
➢ Essere informato rispetto al progetto terapeutico
➢ Garantire la corretta applicazione delle prescrizioni terapeutiche
➢ Garantire l’efficacia e la sicurezza della terapia
➢ Rispettare i diritti del malato, informarlo rispetto alla terapia e ai rischi reali e/o potenziali
(CONSENSO)
➢ Conoscere i farmaci che si somministrano, le modalità di somministrazione ed il monitoraggio
previsto
➢ Saper riconoscere le situazioni in cui è necessario rivalutare la somministrazione della terapia ➢
Agire secondo l’evidenza scientifica
➢ Garantire un uso appropriato delle risorse
➢ Perseguire la beneficialità del paziente e l'astensione da pratiche di accanimento terapeutico
➢ Agire in indipendenza e senza condizionamenti
Principi di approvvigionamento dei farmaci:
•Rispetto dei tempi e dei modi stabiliti dal programma terapeutico
•Economicità
•Continuità terapeutica
La gestione dei farmaci all’interno dell’unità operativa: farmaci personali del paziente farmaci in
prontuario (PTO) farmaci fuori prontuario (FPTO) farmaci campione farmaci stupefacenti e
sostanze psicotrope farmaci pericolosi.
Principi di conservazione dei farmaci
-DMS 06/07/99 “Approvazione delle linee direttici in materia di buona pratica di
distribuzione dei medicinali per uso umano” Gazzetta Ufficiale n° 190 del 14/08/1999 e
Circolare n°2 del 13/01/2000 del Ministero della Sanità: “Informazioni sulla temperatura di
conservazione dei prodotti medicinali” all’interno delle loro confezioni originali secondo la
specificità di ogni singolo farmaco al riparo dalla luce al riparo dell’umidità al riparo dall’ossigeno
alla temperatura indicata nella confezione e separare i farmaci pericolosi dagli altri farmaci
Raccomandazioni del Ministero della Salute 2007/8 controllo periodico delle scadenze
-DPR 9 ottobre 1990, n°309  Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e
sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di Tossicodipendenza”
- Decreto Ministeriale del 3 agosto 2001“Approvazione del registro di carico e scarico delle
sostanze stupefacenti e psicotrope per le unità operative”
La scheda terapeutica unica è un eccellente strumento di comunicazione interna, che integra in un
unico documento tutte le informazioni sul processo terapeutico dei pazienti ricoverati. Consente di
far fronte ai problemi di comunicazione, prima causa degli errori di terapia (Leape et al, 1998). La
STU è parte integrante della cartella clinica e:

Facilita i medici ad effettuare la prescrizione scritta in modo chiaro;

Consente ai farmacisti di identificare correttamente il prescrivente e le caratteristiche del
paziente in modo tale da collaborare con il medico per la sicurezza della prescrizione.

Evita passaggi di trascrizione tra la cartella clinica e la documentazione infermieristica
cosicché gli infermieri impiegano la stessa scheda redatta dal medico per effettuare la
somministrazione, risparmiando tempo ed errori di trascrizione;

Consente di tener traccia su un unico documento di tutte le operazioni effettuate.

Adottare una procedura condivisa a livello aziendale per la conservazione, prescrizione,
preparazione, distribuzione e somministrazione dei farmaci per es.:
-Doppio controllo Alcuni studi evidenziano che dedicare due infermieri alla somministrazione della
terapia che verificano le prescrizioni mediche prima della somministrazione, porta alla probabilità
di ridurre del 30% gli errori farmacologici rispetto all’uso di un solo infermiere.
-Infermieri identificati come “non disturbabili”: Alcuni studi evidenziano che identificare come non
disturbabili gli infermieri responsabili della somministrazione della terapia può ridurre la
distrazione durante la preparazione e somministrazione della terapia.
L’ATTO DI SOMMINISTRAZIONE DELLA TERAPIA È UN ATTO:
•UNITARIO in quanto deve essere compiuto da una sola persona
•SEQUENZIALE in quanto colui che prepara il farmaco è colui che lo somministra
•CRONOLOGICO in quanto deve seguire in modo tassativo una sequenzialità logica
IL PRINCIPIO DELL’UNITARIETA’ DELL’AZIONE RICONOSCE ALCUNE ECCEZIONI:
-SITUAZIONI DI EMERGENZA
-L’ ATTIVITA’ DI INSEGNAMENTO AGLI STUDENTI
-LE SOLUZIONI CON FARMACI IN INFUSIONE CONTINUA
REGOLA DELLE 7G: (aggiornamento 2024, le G sono 8)
1. GIUSTO FARMACO: il farmaco che si sta somministrando deve essere quello
effettivamente prescritto.
2. GIUSTA DOSE: il farmaco deve essere somministrato nella dose prescritta.
3. GIUSTA VIA DI SOMMINISTRAZIONE: il farmaco deve essere somministrato per la
via prescritta
4. GIUSTO ORARIO: il farmaco deve essere somministrato con la frequenza prescritta e
all'ora indicata dai protocolli in uso.
5. GIUSTO PAZIENTE: il farmaco deve essere somministrato alla persona alla quale è stato
prescritto
6. GIUSTA REGISTRAZIONE: si registra nella documentazione clinica dell'avvenuta
somministrazione (o non avvenuta con le relative motivazioni)
7. GIUSTO CONTROLLO: sia su tutte le fasi di gestione della terapia, ovvero dalla lettura
della prescrizione alla somministrazione, sia in merito all'esecuzione di eventuali controlli
successivi (es. la rilevazione della pressione arteriosa nel caso di somministrazione di un
antipertensivo).
L’infermiere si accerta che il paziente abbia ricevuto l'opportuna formazione, deve documentare sia
la somministrazione che l'eventuale rifiuto del paziente e in quest’ultimo caso comunicarlo al
medico e registrarlo
Cos’è UN FARMACO?
Un farmaco è una sostanza o un’associazione di sostanze impiegata per curare o prevenire le
malattie. È composto da un elemento, il principio attivo, da cui dipende l’azione curativa vera e
propria, e da uno o più “materiali” privi di ogni capacità terapeutica (eccipienti)…con la funzione
di:
-
proteggere il principio attivo.
-
facilitarne l’assorbimento.
-
mascherare eventuali odori o sapori.
-
● Il farmaco può essere classificato in vari modi e secondo diverse caratteristiche:
-
● gli organi su cui agisce o il tipo di azione che svolge (in tal caso si parla di classe o
categoria terapeutica);
-
● le modalità di produzione (di origine industriale, preparati in farmacia o galenici) In
alcuni casi, il farmaco può essere anche somministrato allo scopo di stabilire una diagnosi
medica (es. mezzi di contrasto) o per ripristinare, correggere o modificare funzioni
fisiologiche (es. la pillola contraccettiva prescritta per impedire l'ovulazione), senza che vi
sia alcuna malattia da curare. I farmaci possono essere classificati in base all'origine:
•
Animale (sieri, enzimi, ormoni); ormai rari
•
Vegetale (digitale);
•
Minerale (bicarbonato di sodio, sodio cloruro, magnesio, potassio cloruro);
•
Di sintesi. Si classificano inoltre farmaci con funzione: • Sostitutiva (compensano le
carenze, come vitamine, enzimi, ormoni);
•
Eziotropica (agiscono sull’ agente eziologico, come gli antibiotici);
•
Sintomatica (agiscono sui sintomi come analgesici, antinfiammatori);
•
Preventiva (agiscono stimolando o migliorando le difese dell’organismo, come i vaccini).
In relazione alle modalità di preparazione, approvazione, registrazione, controllo e
distribuzione, i farmaci si classificano infine in:
•
Specialità (preparati dalle industrie farmaceutiche, sottoposti ad approvazione, controllo e
registrazione da parte del Ministero della Salute e brevettati);
•
Generici (specialità con brevetto scaduto e che possono quindi essere prodotte da qualsiasi
industria farmaceutica);
•
Galenici (non sono specialità, non sono sottoposti a registrazione da parte del Ministero
della Salute ma necessitano dell’autorizzazione all’immissione in commercio).
La farmacocinetica studia gli effetti che i processi dell'organismo hanno sul farmaco (assorbimento,
distribuzione, metabolismo, eliminazione).
➢ La farmacodinamica è lo studio degli effetti biochimici e fisiologici dei farmaci sull'organismo,
ed il loro meccanismo d’azione. In particolare, studia l'interazione tra farmaci e recettori;
➢ EFFETTI TERAPEUTICO: è la risposta fisiologica, voluta o prevista, prodotta dal farmaco
➢ EFFETTI COLLATERALI: è la possibilità, che un farmaco causi effetti secondari non voluti e
possono essere innocui o dannosi.
➢ EFFETTI TOSSICI: dopo l’assunzione prolungata o quando un farmaco si accumula nel sangue
a seguito di compromissione del metabolismo o dell’eliminazione.
➢ REAZIONI IDIOSINCRASICHE: sono effetti imprevedibili, reazioni eccessive a un farmaco o
reazione diversa da quella normale.
➢ REAZIONI ALLERGICHE: è una risposta imprevedibile al farmaco somministrato, può essere
lieve o grave. L’esposizione alla dose iniziale di un f. può provocare una risposta di
sensibilizzazione immunologica (es. antibiotici). Il f. in questo caso agisce come un antigene e
induce la produzione di risposta allergica verso il farmaco, verso i suoi eccipienti o verso un suo
metabolita sino allo Shock anafilattico (improvvisa costrizione dei muscoli bronchiali da edema
della laringe, da spiccati sibili, dispnea).
La tolleranza ai farmaci si verifica quando il paziente assume lo stesso farmaco per un lungo
periodo di tempo e necessita di dosi più alte per ottenere lo stesso effetto.
La dipendenza da farmaci può essere;
1) psicologica: avviene quando il paziente desidera il farmaco perché pensa di trarne beneficio.
2) fisiologica: invece avviene quando il paziente presenta reazioni negative se non assume il
farmaco (astinenza).
L'interazione fra farmaci si ha quando un farmaco modifica l’azione di un altro farmaco. Un
farmaco può potenziare o diminuire l’azione di un altro farmaco, può alterare le modalità di
metabolizzazione o eliminazione. Due farmaci se somministrati simultaneamente possono avere un
effetto sinergico o additivo (es. alcool più antidepressivi). A volte l’effetto sinergico è voluto (es.
diuretici e vasodilatatori).
L' azione di un farmaco all'interno di un organismo si divide in quattro fasi:
1. Esordio dell’azione: periodo di tempo trascorso dopo la somministrazione del farmaco prima che
questo dia origine a una risposta;
2. Picco dell’azione – tempo che occorre affinché il farmaco raggiunga la sua più alta
concentrazione e quindi la sua massima efficacia.
3.Durata dell’azione – arco temporale durante il quale il farmaco è presente in concentrazione
ancora sufficiente elevata da dare luogo a una risposta;
4.Plateau – concentrazione sierica nel sangue raggiunta e mantenuta dopo dosi ripetute e fisse.
DOMANDE: Quando somministriamo un farmaco dobbiamo chiederci: • A quale categoria
farmaco terapeutica appartiene? • Qual è il suo principio attivo? • Qual è il suo meccanismo
d’azione? • Quali sono le sue indicazioni e controindicazioni? • Quali sono i suoi effetti collaterali?
• Fra quanto tempo avrà effetto questo farmaco? • Lontano o vicino dai pasti? • Può avere
interazioni con gli altri farmaci? • Richiede particolari avvertenze controlli o precauzioni? • Il
paziente ha il SNG? • Il paziente presenta vomito? • In quale forma farmaceutica e contenuto si
presenta • Quale è la dose e il modo e di somministrazione?
REGOLE BASILARI PRIMA DELLA SOMMINISTRAZIONE DEI FARMACI:
-
Controllare l’etichetta del farmaco
-
Riporre la confezione del farmaco nello scaffale o carrello
-
Lavarsi le mani
-
Organizzare il materiale Confermare l’identità del paziente e informarlo
-
Verificare le prescrizioni
-
Assicurarsi che il paziente possa assumere la terapia per la via prescritta ed ottenerne la
collaborazione
-
Fargli assumere la posizione corretta
-
Non somministrare un farmaco: non adeguatamente etichettato, Scaduto o alterato, preparato
da un’altra persona (salvo eccezioni)
ALL’ATTO DELLA SOMMINISTRAZIONE DEL FARMACO: Riordinare il materiale utilizzato
Valutare gli effetti del farmaco somministrato Lavarsi le mani e registrare la procedura
LE VALUTAZIONI INFERMIERISTICHE: Vanno dall’accertamento inf. (valutaz. Iniziale)
all’individuazione delle diagnosi infermieristiche e dei problemi collaborativi che servono per
pianificare la somministrazione (attuazione) della terapia ad un singolo paziente o ad un gruppo ed
infine a stabilire stabilire i criteri di valutazione dell’efficacia della terapia somministrata
• Tener conto di quali sono le abitudini dei pazienti
• Empowerment.
Alcuni esempi di DI e/o Problemi Collaborativi
• Gestione inefficace del regime terapeutico correlato a deficit cognitivi, uditivi e/o visivi
• Rischio di tossicità da farmaci correlata ad insufficienza renale
• Rischio di tossicità da narcotici correlata ad insufficienza epatica
COME SOMMINISTRARE I FARMACI?
Ai fini dell’assistenza infermieristica si dovrà valutare il grado di autonomia del paziente.
• Nel caso in cui risulti assopito in aggiunta ad una valutazione dello stato di coscienza, sarà
necessario stabilire se il paziente presenta un efficace riflesso della deglutizione.
• Per gli anziani è importante andare a ricercare eventuali difficoltà nella manipolazione dei
farmaci, disturbi visivi che possono dare difficoltà nel riconoscere i farmaci che devono assumere.
Valutare la patologia principale e altre eventuali patologie concomitanti quali:
Patologie epatiche: i sistemi enzimatici epatici sono il sito principale del metabolismo dei farmaci.
Patologie renali: i pazienti con IRC possono andare incontro ad un aumento dell’effetto e della
durata dei farmaci somministrati Stato d’idratazione del paziente: poiché questo influenza la
distribuzione e l’eliminazione dei farmaci.
VIE DI SOMMINISTRAZIONE DEI FARMACI
Naturali: la via orale, la via buccale, la via sublinguale, la via rettale, la via inalatoria, la via
transcutanea, la via trans mucosa.
Artificiali: la via intramuscolare, la via sottocutanea, la via intradermica, la via endovenosa
Speciali: la via intrarteriosa* la via intracardiaca* la via endorachidea* la via endocaviatria* la via
epidurale* la via endomidollare ossea*
La via parenterale consente al farmaco di raggiungere direttamente il circolo sanguigno provocando
così un'azione farmacologica +/- rapida. Indicata per quei farmaci poco assorbiti per via enterale o
che vengono degradati dal tratto gastrointestinale. Le tre principali vie di somministrazione sono:
-Endovenosa (EV): per avere un rapido effetto ed un buon controllo dei livelli del farmaco in
circolo. Inoltre, si evitano tutte le cause responsabili dell'inattivazione del farmaco nel tratto
gastrointestinale.
-Intramuscolare (IM): I muscoli sono molto più irrorati di sangue e meno sensibili del tessuto
sottocutaneo, quindi il farmaco è più tollerato. I farmaci somministrati con questa via possono
essere sotto forma di soluzioni acquose con assorbimento rapido oppure preparazioni speciali non
acquose (oleose) con funzione di deposito nel muscolo provocando un rilascio lento del principio
attivo nel sangue ed un'azione prolungata nel tempo.
- Sottocutanea (SC): questa via di somministrazione presenta un assorbimento più lento rispetto e
limita i rischi dovuti all'iniezione IM. È utilizzata per somministrare piccoli volumi di farmaco.
La via enterale si divide in:
-via orale (OS): è la via di somministrazione più comune, che avviene per bocca;
-via sublinguale: che prevede la collocazione del farmaco sotto la lingua, che passa così
direttamente nel circolo sanguigno senza passare per il tratto gastro-intestinale;
-via rettale che, come quella sublinguale, permette al farmaco di non essere distrutto dall'ambiente
acido dello stomaco, o successivamente, da quello basico dell'intestino. (Farmaco somministrato ai
bambini: valium)
Altre vie di somministrazione:
Inalatoria: utilizzata con farmaci allo stato gassoso o per quelli che possono essere dispersi in
aerosol. È efficace nei pazienti con problemi respiratori (asma, bronchite, etc.) poiché il farmaco
agisce direttamente nel sito d'azione (apparato respiratorio) riducendo così gli effetti collaterali.
Topica: il farmaco è applicato sulla pelle o sulle mucose per essere poi assorbito rapidamente o
comunque agendo direttamente sulla lesione esterna; questa via è utilizzata per ottenere un effetto
locale del farmaco (creme, pomate, colliri, gocce auricolari o nasali) riducendo al minimo gli effetti
collaterali riguardanti l'intero organismo (disturbi gastrointestinali, ritenzione idrica, mal di testa...)
Transdermica: si hanno effetti generali attraverso l'applicazione di farmaci sulla cute come, per
esempio, per mezzo di un cerotto. In questo modo si ha un rilascio molto lento del farmaco.
Al variare della via di somministrazione, varia l’assorbimento della sostanza da parte
dell'organismo:
 ORALE: assorbimento variabile, che dipende da molti fattori gli effetti compaiono dopo
almeno 45-60 minuti è la via più economica e più sicura
 RETTALE: assorbimento variabile e incompleto ha una latenza d'azione minore rispetto
alla via per os
 SUBLINGUALE: assorbimento rapido l'effetto compare dopo pochi minuti utilizzata in
emergenza aumentato rischio di effetti collaterali
 ENDOVENA: 100% assorbimento effetti immediati aumentato rischio di effetti collaterali.
 INTRAMUSCOLO: assorbimento rapido per le soluzioni acquose assorbimento lento e
prolungato per le preparazioni a lento rilascio
 SOTTOCUTANEA: assorbimento rapido per le soluzioni acquose assorbimento lento e
prolungato per le preparazioni a lento rilascio
 TRANSDERMICA: assorbimento limitato (basso tasso penetrazione)
La scelta della via di somministrazione deve tenere conto di: caratteristiche fisico-chimiche del
farmaco: un farmaco molto idrofilo, poco assorbito per via enterale, deve essere somministrato per
via parenterale se si desidera un effetto sistemico) un farmaco lipofilo, che attraversa bene le
membrane, anche se somministrato per via topica potrà essere assorbito dando luogo ad effetti
sistemici.
strategia terapeutica: rapidità e durata dell’effetto (es. e.v. e via i.m.; via sublinguale per la NTG)
per terapie croniche si preferisce la via meno traumatica per il paziente, mentre le vie parenterali
sono preferite nei pazienti non collaborativi (es. pz comatosi, neonati, etc.) alcuni regimi terapeutici
sono seguiti con maggiore accuratezza dal paziente se la via di somministrazione è più complessa.
Terapia orale
Si intende l’assunzione per bocca e la successiva deglutizione di un farmaco. Questa modalità di
somministrazione richiede normalmente che il paziente sia cosciente, collaborante e con riflesso
della deglutizione presente. La somministrazione per via orale può avere effetti gastrointestinali
indesiderati come nausea, vomito, distruzione della flora intestinale (antibiotici), irritazione gastrica
sino a causare ulcere. Alcuni farmaci non possono essere somministrati per OS per inattivazione
(insulina e la penicillina G sodica o per metabolizzazione epatica)
Vantaggi: somministrazione semplice, indolore e economica, in base alla forma farmaceutica si può
modulare la velocità di assorbimento.
Le compresse gastroresistenti [es. mesalazina (es. Asacol), esomeprazolo, pantoprazolo (es.
Peptazol)] sono progettate per superare la barriera dello stomaco e sciogliersi nell’intestino,
pertanto non devono essere spezzate, pena la riduzione della biodisponibilità o tollerabilità del
farmaco. Per evitare sgradevoli sorprese, è bene non dividere nemmeno le compresse rivestite: il
film esterno spesso serve per mascherare un cattivo sapore che la rottura paleserebbe al momento
dell’assunzione. La regola di non dividere le compresse a rilascio prolungato non vale invece per
tutte. In alcuni casi (disfagia, sondino nasogastrico ecc.), le compresse divisibili possono essere
polverizzate e somministrate. Analogamente alcune capsule possono essere aperte e può essere
somministrata la polvere insieme al pasto. L’assorbimento di farmaci può essere modificato ad
esempio da antidepressivi triciclici, atropina, ulcera gastrica, che rallentano lo svuotamento
gastrico, mentre la metoclopramide e il digiuno aumentano la motilità gastrica.
Valutazione della capacità del paziente di deglutire.
Può essere utile nei casi dubbi: - Provare a far deglutire - Chiedere al paziente di ripetere alcuni
suoni che richiedono gli stessi movimenti muscolari della deglutizione: “mi-mi-mi- (per le labbra);
“le-le-le” (per la lingua); “ga-ga-ga” (per il palato molle e la faringe). -Valutare il riflesso della
deglutizione inducendo il paziente a far scivolare la lingua all’indietro lungo il palato. - Sistemare
pollice e indice sulla laringe del paziente e chiedergli di deglutire: in condizioni normali la laringe si
eleva. L’assorbimento del farmaco somministrato per via orale è molto variabile principalmente
dipende da:
1) Proprietà fisiche e chimiche del farmaco;
2) Stato funzionale dell’apparato digerente e velocità di svuotamento gastrico
3) Variazioni del ph
4) Irrorazione ematica della superficie d’assorbimento.
5) Eventuale metabolizzazione epatica
6) Attività della flora intestinale
7)Presenza di cibo nello stomaco (migliore quando è vuoto ma più pericoloso per la possibile
irritazione della parete dello stomaco).
Come procedere alla somministrazione Naso Gastrica o attraverso Gastrostomia Endoscopica
Percutanea (PEG):
1. Utilizzare farmaci in forma liquida. In alternativa se possibile polverizzare le compresse e
scioglierle in acqua, thè succhi di frutta o latte (in 30 ml)
2. Far assumere al paziente una posizione seduta o semiseduta
3.
Verificare il corretto posizionamento del SNG e se presenta ipermobilità intestinale
4.
Non mescolare i farmaci alla nutrizione enterale
5.
Svuotare il contenuto gastrico prima di ogni somministrazione
6.
Somministrare i farmaci separatamente l’uno all’ altro irrigando con 5-10 ml d’acqua il
sondino tra un farmaco e l’altro.
7.
Al termine della somministrazione lavare accuratamente con acqua.
VIA DI SOMMINISTRAZIONE SOTTOLINGUALE: Quando si somministra un farmaco per
via sublinguale questo non viene deglutito ma viene assorbito dai vasi sanguigni sotto la lingua. Il
vantaggio di questa somministrazione è che il principio attivo va direttamente in circolo senza
passare dal tratto gastroenterico e senza essere metabolizzato dal fegato. Sono in genere
somministrati per via sublinguale i farmaci che devono avere un effetto rapido, che si sciolgono
immediatamente in bocca e che vengono assorbiti a livello sublinguale (es. farmaci per l'angina).
VIA DI SOMMINISTRAZIONE RETTALE. La maggior parte del farmaco assorbito non passa
attraverso il fegato. Solo la vena emorroidaria superiore si immette nel circolo portale mentre la
vena emorroidaria media e la inferiore si immettono nella vena cava inferiore e poi al cuore. La via
rettale offre buone possibilità alternative; tuttavia, l'assorbimento dei farmaci è spesso troppo
irregolare ed incompleto per garantire una adeguata affidabilità quando la terapia esige regolarità ed
accuratezza nei dosaggi.
La via rettale è da preferire:
- in caso di vomito;
- quando non è possibile somministrare il farmaco per bocca perché il principio attivo si degrada a
contatto dell’ambiente acido dello stomaco;
- se la persona non è collaborante o ha problemi di deglutizione (disfagia). In genere è utilizzata
molto dopo intervento gastrico e in pediatria perché si evita l’assunzione per bocca, poco gradita ai
bambini.
-I farmaci più spesso somministrati per via rettale oltre agli antiemorroidali (az. topica) sono gli
antipiretici, gli antidolorifici e gli antiemetici.
Prima di somministrare una supposta per via rettale è importante:
- controllare che la supposta non sia troppo morbida, nel caso è utile porla in frigorifero per alcuni
minuti o lasciarla in acqua fredda (prima di aprire la confezione);
- lavarsi accuratamente le mani e indossare guanti monouso;
- rimuovere l’involucro di rivestimento;
- lubrificare la parte alta della supposta per facilitare l’inserimento;
- inserire la supposta nel retto, affinché oltrepassi lo sfintere muscolare anale;
- far rimanere fermi qualche minuto per evitare che la supposta venga espulsa;
- lavarsi le mani accuratamente. Somministrare le supposte dopo l’evacuazione, per evitare che la
supposta venga espulsa prima di essere assorbita.
Somministrazione dei farmaci per via inalatoria: Sfrutta la possibilità di distribuire la dose
nebulizzata in particelle di piccole dimensioni dal dispositivo di somministrazione e poi inalata dal
paziente, direttamente a livello della superficie interna delle vie aeree, che sono il bersaglio del
trattamento, su una superficie molto ampia (circa 70 m2) ma con una concentrazione molto bassa, il
che riduce gli effetti tossici a livello locale.
Possono essere somministrati in questa maniera farmaci per:
Uso topico (es. broncodilatatori, mucolitici, cortisonici, antibiotici)
Uso sistemico (es. anestetici generali).
Più fattori possono influenzare la somministrazione e l’assorbimento di un farmaco per via
inalatoria:
abilità individuale, caratteristiche dei dispositivi di erogazione, molti farmaci sono insapori e ciò
non facilita il paziente nel capire se ha assunto la dose prescritta, dimensioni delle particelle del
farmaco più sono piccole, maggiore è la diffusione in profondità fino ai bronchioli e agli alveoli.
Educare il paziente: illustrare e consigliare quelli più adeguati anche in base alle caratteristiche del
paziente (età, ridotta manualità, deficit cognitivi).
Un corretto impiego della via inalatoria prevede che:
- i farmaci vengano somministrati prima dei pasti, per favorire un assorbimento migliore, dal
momento che nei pazienti con problemi respiratori il pasto può rendere più faticosa l’inspirazione
profonda;
- il dispositivo di erogazione sia tenuto lontano dagli occhi;
- i farmaci broncodilatatori vengano somministrati per primi per facilitare l’assorbimento a livello
bronchiale dei farmaci successivi;
- le labbra aderiscano bene intorno al connettore;
- il paziente si sciacqui la bocca dopo ogni somministrazione per eliminare i residui depositati sulle
mucose e l'eventuale gusto sgradevole provocato dal passaggio della soluzione.
SVANTAGGI DELLA VIA INALATORIA: ● Possibili irritazioni locali ● Scarsa possibilità di
regolare la dose di farmaco somministrata ● Assorbimento variabile ● Alcuni pazienti non sono in
grado di usare l'inalatore
SOMMINISTRAZIONE PARENTERALE: immissione del farmaco mediante cpv. o cvc (vena
di grosso o piccolo calibro) in modo che il farmaco venga iniettato direttamente nel circolo
sanguigno. Vengono definite vie artificiali perché necessitano di un mezzo esterno per procedere
alla somministrazione (l’ago).
La via parenterale è indicata per farmaci che:
➔richiedono una precisione della dose
➔necessitano di essere assorbiti rapidamente e completamente
➔se somministrati attraverso altre vie sarebbero disattivati o scarsamente assorbiti
È raccomandato evitare siti che appaiono gonfi, infiammati o infettati.
Preparare i farmaci preservando la STERILITA’ del farmaco, dell’ago e della siringa.
Il farmaco da infondere può essere contenuto in:
1.Fiala
2. Flaconcino monodose (fialoide con farmaco in forma liquida)
3. Flaconcino-farmaco (fialoide con farmaco liofilizzato e fiala solvente)
VIA INTRADERMICA: Consiste nell’iniettare un farmaco o un diagnostico subito sotto
l’epidermide, facendo penetrare l’ago con una angolazione di 10- 15°. È utilizzata soprattutto per
scopi diagnostici (es. test alla tubercolina) o per somministrare di anestetici locali. Caratteristiche
della via Assorbimento molto lento. Effetto locale piuttosto che sistemico.
Caratteristiche della tecnica: Siringa da 1cc max, lunghezza dell’ago 15mm, diametro 25-26 Gauge.
La quantità massima iniettabile 0,1 ml.
Caratteristiche delle sedi d’iniezione: Scegli una zona: priva di peli, non irritata o gonfia non
iperpigmentata, non sottoposta a frizione; i siti adatti per la somministrazione intradermica sono la
faccia interna dell’avambraccio e la scapola a cui si possono aggiungere gli e stessi consigliati per la
somministrazione sottocutanea.
Tecnica:
- Lavarsi le mani e indossare i guanti.
- Preparare la siringa con la quantità di farmaco prescritta.
- Disinfettare la zona scelta.
- Somministrare: infilare la punta dell’ago in modo deciso attraverso l’epidermide nel derma con
un’angolazione del piano della superficie corporea di 15°, con la mano non dominante stirare la
cute in modo da renderla piatta
- iniettare il farmaco con cura, così da produrre una piccola bolla sulla cute
- Estrarre l’ago velocemente e con la stessa angolazione e smaltire in sicurezza.
- Tamponare delicatamente con l'antisettico. Smaltire il materiale, togliere i guanti e lavarsi le
mani. Verificare se vi siano segni di allergia. In caso di uso della tubercolina usare un pennarello
per evidenziare la zona in cui si è somministrato il farmaco per valutazioni future di risposte
allergiche.
VIA INTRAMUSCOLO: È la via parenterale più frequente consente un rapido assorbimento dei
farmaci in soluzione acquosa; se i farmaci sono in soluzione oleosa o in particolari forme deposito
vi saranno assorbimenti lenti ed uniformi. In letteratura sono descritte diverse tecniche di cui è
necessario approfondire la conoscenza, al fine di decidere con piena cognizione come attuare tale
manovra. L'evidenza scientifica dimostra come la conoscenza e l'uso della sede appropriata riduce
le probabilità di danni associabili iniezioni intramuscolari.
L’assorbimento dipende da:
◦
sito dell’iniezione; la velocità di assorbimento è maggiore nel deltoide rispetto al gluteo,
irrorazione del muscolo (es. > con l’attività fisica e massaggio)
◦
CR, volume e osmolarità del farmaco presenza di tessuto adiposo (assorbimento più lento)
Le molecole piccole passano direttamente nel sangue, mentre grosse proteine passano prima
dal circolo linfatico.
◦
Farmaci in soluzione acquosa: assorbimento in 10-30 min
◦
Farmaci insolubili al pH interstiziale o sospesi in soluzione oleosa: assorbimento lento
(preparazioni ritardo, es. il sale di procaina della penicillina G è assorbito in 24 h, mentre il
sale sodico in 2-3 h).
◦
Svantaggi Ansia, Paura Infezione, Emorragia, Dolore, Effetti collaterali rapidi (es reazioni
allergiche)
◦
Danno tessutale (nervoso osseo).
Raccomandazioni:
1. Controllare la prescrizione del farmaco, la scadenza, il dosaggio e la via di
somministrazione.
2. Usare un ago con filtro o un ago di calibro 21 o minore per aspirare il farmaco.
3. Cambiare l’ago dopo la preparazione.
4. Per somministrare l’IM, usare un ago di lunghezza appropriata per assicurare che il farmaco si
depositi all’interno del muscolo.
5. Non adottare la tecnica della bolla d’aria per inoculare tutto il farmaco
6. Usare la sede ventrogluteale come sede di scelta, salvo controindicazioni.
7. Aiutare il paziente ad assumere la posizione idonea per facilitare l’iniezione nella sede scelta.
8. Detergere la parte con soluzione alcolica prima dell’iniezione.
9. Usare la tecnica del tratto zeta per eseguire tutte le iniezioni.
10. Inserire velocemente l’ago nella cute a 90 gradi lasciando un terzo dell’ago esposto.
11. Aspirare se necessario. Se è presente sangue rinunciare e ripetere tutta la procedura.
12. Iniettare senza superare la velocità 1 ml ogni 10 secondi.
13. Estrarre rapidamente, premere se vi è perdita di sangue.
14. Non massaggiare la zona.
15. Riporre i taglienti in modo sicuro e documentare la procedura.
16. Osservare la zona 2-4 ore dopo l’iniezione per identificare e monitorare ogni effetto locale.
Tecnica di iniezione: una volta scelta la sede idonea ed aver informato il paziente si procede alla
disinfezione della zona cutanea, tendere la cute con la mano non dominante ed introdurre l’ago con
una angolazione di 90°, iniettare il liquido quindi ritrarre l’ago detenendo la cute e tamponare col
batuffolo imbevuto di disinfettante, mai massaggiare! (può determinare la risalita del farmaco verso
il tessuto sottocutaneo). Non si usa sempre la manovra di Lesser ma solo in alcuni casi (aspirare per
accertarsi di non essere in vena).
L’iniezione IM deve essere praticata nelle sedi di elezione: deltoidea, Vasto laterale o
ventrogluteale. La sede dorsogluteale non è raccomandata, salvo specifica indicazione per la
tipologia di farmaco.
Non è raccomandato aspirare prima di eseguire l’iniezione IM in sede deltoidea o vastolaterale o
ventrogluteale, salvo specifica indicazione per la tipologia di farmaco (vedi formulazioni “depot”,
antibiotici come la penicillina) Se la sede scelta è la dorsogluteale, è indicato aspirare per 5-10’’
prima di praticare l’iniezione intramuscolare Qualora la si ritenga opportuna, la manovra di
aspirazione deve essere eseguita in modo corretto, aspirando per un tempo non inferiore a 5-10”,
iniettando il farmaco lentamente, per 5-10” ed estraendo dolcemente l’ago, senza sfregamento della
cute La terapia vaccinale IM nei neonati e nei bambini più piccoli deve essere praticata in sede
ventrogluteale senza aspirare, per ridurre il dolore e lo stress correlato alla manovra (Livello di
evidenza A) Al fine di rendere la manovra meno dolorosa, negli adulti, la terapia vaccina le IM
deve essere eseguita senza aspirare e in sede deltoidea. Per le iniezioni sottocutanee di vaccini, di
eparina e di insulina la manovra di aspirazione deve essere evitata. TECNICHE DI INIEZIONE
INTRAMUSCOLARE • Volume del liquido iniettato – Le iniezioni in un grande gruppo muscolare
non dovrebbero eccedere i 5 ml negli adulti. In sede ventrogluteare possono essere iniettati da 2 a 5
ml, in sede dorsogluteale 4 ml, in sede vastofemorale e rettofemorale 5 ml. Nei bambini, nei
giovani, nelle persone con scarso sviluppo o atrofia muscolare da allettamento, la quantità massima
somministrabile è proporzionalmente inferiore. • Velocità di somministrazione – Per ridurre il
dolore durante l’iniezione del, farmaco occorre adottare un tempo minimo di 5 secondi. In
particolare, la somministrazione non deve essere più veloce di 1 ml per 10 secondi. Ciò è utile per
facilitare l’assorbimento e minimizzare il dolore.
METODI DI INIEZIONE Tecnica del tratto Z Utilizzare la mano non dominante per tirare la cute e
il tessuto sottocutaneo circa 3-4 cm da un lato rispetto la sede dell’iniezione, eseguire l’iniezione
introducendo l’ago a 90° con un rapido movimento tipo dardo e conclusa l’introduzione del liquido,
rimuovere l’ago e rilasciare il tessuto scostato con la mano non dominante. In questo modo si crea
un percorso non lineare che impedisce al liquido di risalire verso il tessuto sottocutaneo. La tecnica
del tratto Z può essere utilizzata in qualsiasi gruppo muscolare appropriato che sia dotato di un
tessuto soprastante disolocabile di almeno 2,5 cm.
Lunghezza dell’ago: variabile, circa 3,8 cm Diametro ago: il piu’ piccolo possibile, 21-23 G i più
usati Volume massimo per sede d’iniezione: 5 ml (deltoide 1 ml) La misura della siringa da usare
deve essere definita selezionando quella più piccola possibile per accogliere il volume richiesto. Per
volumi minori di 0,5 ml devono essere usate siringhe molto piccole per assicurare l’esattezza di
Contenitore per aghi
SEDI DI INIEZIONE:
-Sede rettofemorale - è localizzata a metà tra la rotula e la cresta iliaca superiore, sulla zona medio
anteriore della coscia. L'assorbimento del farmaco in questa regione è più lento rispetto al braccio,
ma più rapido che nella natica. Può essere utilizzata quando le altre sono controindicate o quando il
paziente si somministra da solo il farmaco. In questa sede, l’iniezione praticata provoca
considerevole dolore.
- Sede vastolaterale - è rappresentata dal terzo medio della coscia, compreso tra il grande trocantere
del femore e il condilo femorale laterale del ginocchio. È di facile accesso e non sono presenti
grossi vasi sanguigni o strutture nervose.
-Muscolo deltoide - Le iniezioni intramuscolari nel medio muscolo deltoide, come le altre iniezioni
IM, devono essere effettuate nella parte più compatta del muscolo. A causa delle piccole dimensioni
di questa sede, il volume e il numero delle iniezioni che possono esservi somministrate devono
essere limitati.
- Sede dorsogluteale - È la sede più utilizzata, ma la presenza di grossi nervi e vasi sanguigni, la
relativa lentezza di assorbimento rispetto alle altre sedi e il duro strato di tessuto adiposo
comunemente presente, rende questa sede quella maggiormente connessa alle complicanze. Essa
non può essere utilizzata se il paziente è in piedi, ma solo se è prono o in decubito laterale, con il
femore intraruotato, per minimizzare il dolore nel punto di iniezione, permesso dal rilassamento del
gruppo muscolare. La sede dorsogluteale non è raccomandata, salvo specifica indicazione per la
tipologia di farmaco
-Sede ventrogluteale - Questa sede è facilmente accessibile per la maggior parte dei pazienti ed è
localizzabile posando il polso della mano opposta (ad esempio mano destra per il fianco sinistro) sul
grande trocantere del paziente. La sede di iniezione è rappresentata dall’area triangolare delimitata
tra l’indice, posto sulla spina iliaca anterosuperiore e il dito medio, divaricato verso la cresta iliaca
ma al di sotto di essa. Questa sede assicura il massimo spessore del muscolo gluteale (costituito sia
del gluteo medio che del gluteo minore), è libera da nervi penetranti e da vasi sanguigni e ha un più
stretto spessore di grasso che non nella zona dorsogluteale. La ventrogluteale è considerata la sede
di prima scelta. Il muscolo interessato è il medio gluteo. Per localizzare la sede d’iniezione far
assumere al paziente la posizione laterale o supina, e far flettere il ginocchio per aiutare a rilassare il
muscolo interessato. Posizionare il polso della mano controlaterale (es.mano sinistra su gamba
destra) mettendo il palmo della mano sopra il grande trocantere dell’anca del paziente
perpendicolarmente al femore. Puntare il pollice verso l’inguine del paziente e le dita verso la testa
del paziente, puntando l’indice verso la spina iliaca antero-superiore ed estendendo il medio e
l’anulare lungo la cresta iliaca. Si ottiene così un triangolo formato dall’indice, dal medio e dalla
cresta iliaca. Il centro di tale triangolo è la sede d’iniezione.
VIA SOTTOCUTANEA (ipodermica)
Indicazioni: terapia insulinica e ormonale, terapia anticoagulante Capacità siringa 1-2 ml e ago da
25/33G. L’angolazione dell’ago dipende dalla sua lunghezza
ESEMPIO INSULINA
Siringhe  Penne siringa  Microinfusori
● Le confezioni non iniziate conservate max: 2 anni in frigorifero a 2-8°C. ● Non iniettare
l’insulina appena estratta dal frigo. ● Le confezioni in uso: durano circa 28 giorni a temp. ambiente
(leggere bugiardino), evitando di esporli a fonti di calore, fonti dirette di luce ed a sbalzi di
temperatura in genere. Se insulina rapida accertarsi che il paziente effettui il pasto e controllarlo......
i
…....lavarsi le mani ➢accertarsi che il prodotto non sia scaduto e il tappo sia in perfette condizioni
➢ruotare tra i palmi delle mani il flacone per rimettere l ’insulina in sospensione (se lattescente)
➢Rimuovere i cappucci dalla siringa. ➢Tirare indietro il pistone in corrispondenza della dose
desiderata per iniettare nel flacone una quantità d’aria uguale alla dose di insulina da prelevare
➢Capovolgi il flacone con la siringa inserita tira il pistone aspirando la dose di insulina richiesta
aspirare qualche unità in più per facilitare l’eliminazione di bolle d’aria eventualmente presenti.
TECNICA: disinfettare la sede di iniezione e lasciare asciugare ➢si può afferrare la cute formando
una plica d’adipe di circa 2,5 cm ➢posizionare la siringa fra le dita come fosse una matita e l’ago
con la parte smussa verso l’alto ➢inserire l’ago con movimento rapido e rilasciare l'eventuale plica
la plica ➢sfilare l’ago con lo stesso angolo e disinfettare ➢Smaltire correttamente il materiale e
registrare la procedura.
L’ iniezione va effettuata nel tessuto sottocutaneo. L’iniezione sottocutanea garantisce una
diffusione lenta ma costante dell farmaco. Una pizzicatura corretta si effettua utilizzando solo il
pollice e l’indice/medio, sollevando il derma ed il tessuto sottocutaneo ed escludendo il muscolo.
LE SEDI: più appropriate sono: l’addome: iniettare ad un palmo di mano dall’ombelico; iniezioni
più laterali potrebbero andare nel muscolo
Braccia: iniettare nella parte alta o posteriore del bracio dove il tessuto è più spesso
glutei: iniettare nella parte alta ed esterna, dove il tessuto subcutaneo è abbondante anche nei
bambini e nelgi adulti magri
cosce: iniettare nella parte alta e laterale dove il tessuto subcutaneo è più spesso
RUOTARE SEMPRE PER RISCHIO LIPODISTROFIE: Formazioni nodulari di tessuto adiposo
che al tatto appaiono di consistenza e dimensione diversapossono formarsi in qualsiasi sito di
iniezione.
ESECUZIONE DELL’ECG
DEFINIZIONE: L’elettrocardiogramma (ECG) è la registrazione e la riproduzione grafica
dell’attività elettrica del cuore nelle varie fasi dell’attività cardiaca. È uno strumento diagnostico
fondamentale e insostituibile che viene utilizzato per monitorare l’attività elettrica del cuore ed
eventuali anomalie che sono campanello dall’allarme per patologie (dalle meno gravi alle più
pericolose).
L’ECG standard si compone di 12 derivazioni che registrano e forniscono l’immagine dell’attività
elettrica del cuore da 12 punti di vista diversi. Le derivazioni sono:
-6 DERIVAZIONI PRECORDIALI (ossia le toraciche); Per effettuare le registrazioni precordiali
vengono utilizzati degli elettrodi toracici. Analogamente alle derivazioni unipolari degli arti, ogni
elettrodo toracico rappresenta il polo positivo. Sono nominate V1, V2, V3, V4, V5, V6 e
visualizzano l’attività elettrica del cuore sul piano frontale e orizzontale.
È’ necessario, per la corretta lettura, il corretto posizionamento:
VI: quarto spazio intercostale sulla parasternale di destra
V2: quarto spazio intercostale sulla parasternale sinistra
V4: quinto spazio intercostale sulla emiclaveare sinistra
V3: Tra V2 e V4
V5: quinto spazio intercostale sull’ascellare anteriore sinistra
V6: quinto spazio intercostale sull’ascellare anteriore media
6 DERIVAZIONI PERIFERICHE (degli arti) di cui 3 unipolari (esplorano il piano frontale lungo
le bisettrici dell’angolo di Einthoveen
1. AVR: braccio destro,
2. AVL: braccio sinistro
3. AVF: gamba sinistra;
4. infine, l’elettrodo sulla gamba destro è neutro e coincide con la “messa a terra”
e 3 bipolari (necessitano di 2 elettrodi per la registrazione di cui:
1 positivo e 1 negativo: D1, D2, D3
1. D1: posizionato tra braccio destro e braccio sinistro;
2. D2: tra braccio destro e gamba sinistra;
3. D3 tra braccio sinistro e gamba sinistra;
4. SI FORMA IL COSIDDETTO TRIANGOLO DI ENTHOVEEN).
Le derivazioni standard periferiche vengono registrate tramite questi elettrodi che vengono
posizionati alle estremità distali degli arti (caviglie e polsi). Vengono posti in questo modo:
-ROSSO-BRACCIO DESTRO
-NERO: GAMBA DESTRA (NEUTRO-MESSA A TERRA)
-GIALLO: BRACCIO SINISTRO
-VERDE: GAMBA SINISTRA
INDICAZIONI ALL’USO: LA TARATURA
Le registrazioni elettrocardiografiche vengono eseguite su un’apposita carta millimetrata. Ogni
quadratino piccolo misura 1mm x 1mm.Ogni quadrato grande corrisponde a 5 mm. In senso
verticale è rappresentato il voltaggio e ogni quadratino piccolo corrisponde a 0.1 mV (ogni 10
quadratini sono 1mV); In senso orizzontale è rappresentato il tempo e ogni quadratino corrisponde a
0,04 secondi per una velocità di scorrimento di carta pari a 25mm/sec. Ogni quadrato grande invece,
corrisponde a 0,20 secondi.
CICLO CARDIACO: Ogni ciclo cardiaco è costituito da:
-ONDA P: corrisponde alla depolarizzazione atriale (contrazione degli atri)
-complesso QRS: depolarizzazione ventricolare
-Onda T: ripolarizzazione ventricolare (“riposo”)
Il ritmo cardiaco fisiologico è di tipo SINUSALE; un’alterazione di quest’ultimo induce la
possibilità di presentare anomalie cardiache a partire da “piccole aritmie” fino a patologie a
prognosi infausta.
ONDA P: l’impulso elettrico nasce dal nodo seno-atriale e si propaga ad entrambi gli atri,
inducendo la contrazione atriale.
L’INTERVALLO PQ (O PR): Rappresenta il tempo di consuzione atrio ventricolare, cioè il
passaggio dello stimolo dagli atri ai ventricoli.
COMPLESSO QRS: l’impulso arriva al nodo atri-ventricolare, passa al fascio di HIS, alle branche
destra e sinistra e quindi alle fibre di Purkinje.Il sistema nasconde l’onda di ripolarizzazione atriale
(il “riposo” degli atri).
Q: prima deflessione negativa (visualizzando la linea isoelettrica del tracciato tutto ciò che si trova
inferiormente alla linea è negativo, ciò che si trova superiormente è positivo).
R: prima deflessione positiva
S: deflessione positiva che segue l’onda R
SEGMENTO ST: è un segmento normalmente isoelettrico. Fisiologicamente non deve slivellare al
di sopra o al di sotto della linea isoelettrica per più di 1 mm.
INTERVALLO QT: tempo di depolarizzazione (QRS) e ripolarizzazione ventricolare (ONDA T).
La sua durata è inversamente proporzionale alla frequenza cardiaca: tanto più è elevata la
frequenza, tanto minore sarà l’intervallo QT.
ONDA T: ripolarizzazione ventricolare; fisiologicamente appare a forma arrotondata e asimmetrica.
Alterazioni dell’onda T (ad esempio onda T negativa) deve far sospettare qualche anomalia o
disturbi della conduzione ex: blocco di branca sinistra nei portatori di pacemaker).
FREQUENZA CARDIACA: All’ecg si valuta la frequenza ossia il numero di battiti cardiaci che si
registrano in 1 minuto. Fisiologicamente è compresa tra i 60 e gli 80 bpm. Oltre i 100 si parla di
TACHICARDIA, al di sotto dei 60 si parla di BRADICARDIA.All’ecg la frequenza di valuta con il
metodo (semplice e accurato solo per ritmi regolari)
RR Se il sistema QRS successivo cade sulla prima linea scura (cioè, dopo 5 quadratini) la
frequenza sarà di 300bpm;
-se cade sulla seconda: 150bpm;
-sulla terza: 100 bpm;
-sulla quarta: 75 bpm
RITMO: il passo successivo dopo la frequenza è la registrazione della regolarità del ritmo
-l’attività elettrica è ritmica quando l’intervallo tra 2 onde R si mantiene costante
(REGISTRAZIONE DELLA BRADICARDIA SINUSALE O TACHICARDIA SINUSALE). Se lo
spazio tra le due onde R è ampio= bradicardia; viceversa, se le due onde R sono ravvicinate allora si
parla di tachicardia.
ESECUZIONE DELL’ECG: compito infermieristico
L’Infermiere è preparato per eseguire correttamente la procedura ed è in grado di capire
immediatamente se vi è qualche anomalia, segnalando il tutto prontamente al medico.
Procedura standard per eseguire un ECG
L’infermiere, nella fase di preparazione all’indagine:
effettua l’igiene delle mani e garantisce la privacy del paziente;
procede all’identificazione del paziente e alla registrazione dei dati riguardanti il nome, cognome,
sesso e data di nascita dello stesso;
accerta la presenza di disordini cardiaci anche precedenti e identifica l’eventuale regime
terapeutico in corso;
accerta l’eventuale presenza di dispositivi elettronici che potrebbero determinare alterazioni del
tracciato (ad esempio pacemaker);
accerta l’eventuale presenza di allergie del paziente (è possibile che sia allergico alle sostanze
contenute nel gel di conduzione);
spiega al paziente con parole adatte al suo livello di comprensione le fasi e l’utilità della manovra
che si sta per eseguire affinché egli comprenda pienamente ciò che verrà effettuato e aumenti la sua
collaborazione;
rileva i parametri vitali relativi a pressione arteriosa, frequenza cardiaca e caratteristiche del polso;
invita il paziente a scoprirsi torace, caviglie e polsi e ad assumere la posizione supina a letto, ove
possibile;
suggerisce all’assistito di rilassarsi e di astenersi dal parlare per qualche minuto;
controlla lo stato della cute del paziente, l’eventuale necessità di una tricotomia, e che egli non
indossi oggetti metallici che potrebbero creare alterazioni del tracciato;
accerta la corretta predisposizione al funzionamento dell’elettrocardiografo: batteria carica, corretto
assemblaggio dei cavi, presenza di carta millimetrata, data di scadenza di elettrodi e gel di
conduzione.
PREPARAZIONE DEL MATERIALE OCCORRENTE:
1 elettrocardiografo;
cotone imbevuto d’acqua (consigliato) o Gel;
garze non sterili;
rasoi monouso nel caso di tricotomia;
carta millimetrata per Ecg.
L’infermiere, nella fase di esecuzione dell'ECG (nella persona adulta):
La fase successiva consiste nel far assumere al paziente una posizione rilassata, distesa con torace,
polsi e caviglie scoperte rimuovendo scarpe, calze (collant), orologi, bracciali, reggiseno, maglia
intima e peli attraverso rasoi monouso per facilitare l’esecuzione.Subito dopo, bisogna controllare
che l’elettrocardiografo sia funzionante e verificare la presenza di tutto il materiale
occorrente.Infine, occorre posizionare le derivazioni degli arti e torace cercando di evitare che il
paziente abbia contrazioni muscolari involontarie che potrebbero generare degli artefatti.
posiziona le derivazioni precordiali:
V1 nel quarto spazio intercostale parasternale di destra;
V2 nel quarto spazio intercostale parasternale di sinistra;
V4 nel quinto spazio intercostale nell’emiclaveare di sinistra;
V3 nello spazio fra V2 e V4;
V5 nel quinto spazio intercostale nell’ascellare anteriore di sinistra;
V6 nel quinto spazio intercostale nell’ascellare media di sinistra.
(Nel caso di destrocardia le precordiali si posizionano in modo speculare a destra).
Posizionamento classico delle derivazioni precordiali) posiziona le derivazioni periferiche:
ROSSO braccio di destra (lineare)
GIALLO braccio di sinistra (lineare)
NERO gamba di destra (lineare)
VERDE gamba di sinistra (lineare)
L’infermiere, nella fase di esecuzione della procedura (nel paziente affetto da infarto miocardico
acuto):
esegue prima un elettrocardiogramma di base, poi lasciando invariate le posizioni degli elettrodi
periferici scollega V4 V5 e V6. Le posiziona poi a destra:
V1 speculare a V3 (sul tracciato scriverà V3R)
V2 speculare a V4 (sul tracciato scriverà V4R)
V3 speculare a V5 (sul tracciato scriverà V5R)
L’infermiere, nella fase di esecuzione dell’ECG nel bambino fino ad un anno:
posiziona le derivazioni precordiali:
V1 nel quarto spazio intercostale parasternale di destra;
V2 nel quarto spazio intercostale parasternale di sinistra;
V3 tra V2 e V4;
V4 nel quinto spazio intercostale nell’emiclaveare di sinistra;
V5 nel quinto spazio intercostale nell’ascellare media di sinistra;
V6 speculare a V3 posizionata a destra (il cuore è ancora in posizione centrale)
N.B.: Specificare sull’ECG: al posto di V6, V3R.
Non vi è assoluta importanza se gli elettrodi nelle posizioni precordiali non sono millimetricamente
in posizione. Invece è consigliabile rispettare la stessa collocazione degli elettrodi ad ogni
esecuzione in pazienti con infarti o angina instabile che devono eseguire registrazioni ripetute. È
invece, assolutamente necessario non commettere errori nelle periferiche in quanto ciò
modificherebbe la valutazione dell’asse cardiaco; di conseguenza, potrebbero essere mal
interpretate dall’operatore medico.
L’infermiere, nella fase di esecuzione dell’indagine (operazioni valide per tutti i casi):
La sequenza delle operazioni da questo punto in poi è legata alle diverse caratteristiche
dell’apparecchiatura usata. In linea di massima comunque può essere così schematizzata:
Accensione;
inserimento dati pazienti (nome, cognome e possibilmente, data di nascita e codice fiscale);
attesa di pochi secondi per stabilizzazione traccia e verifica dei collegamenti;
premere il pulsante START;
in questo modo si utilizzano le opzioni di stampa già preimpostate;
Dopo l’esame si consiglia di sistemare i fili degli elettrodi e se è possibile, disinfettarli.
Talora può risultare necessario o comodo modificare alcune opzioni riguardanti:
Formato di stampa
Modalità AUTO/MANUALE
Velocità scorrimento carta (standard 25 mm/sec)
Segnale di calibrazione (standard 10 mm=1 mV)
Eventuale inserimento di filtri per avere un tracciato di qualità migliore
verifica la qualità del tracciato, suggerisce al paziente di rilassarsi e chiudere gli occhi;
registra il tracciato su carta millimetrata;
La registrazione in AUTO consente di stampare tutte e 12 le derivazioni e anche la successiva
stampa di una copia. Invece, la registrazione in MANUALE può essere scelta se si vogliono
eseguire registrazioni prolungate (in caso EXITUS o aritmie particolari), registrazioni parziali di
piccoli gruppi di derivazioni (in AUTO non partono se tutti gli elettrodi non sono collegati oppure
se si vogliono aggiungere le precordiali destre o posteriori). Si consiglia prima di staccare gli
elettrodi o, se c’è un monitor prima di stampare le seguenti raccomandazioni:
Presenza (ed esattezza) di data e nome.
Verifica del segnale di calibrazione e della velocità.
Qualità del tracciato.
Presenza di tutte le derivazioni.
Stabilità della linea isoelettrica.
Assenza di artefatti da tremori e corrente alternata.
Ricercare indizi che possano far pensare ad un’errata collocazione degli elettrodi (es. verifica che
l’onda P sia positiva in D1 e aVL).
L’infermiere, nella fase successiva all’esecuzione dell’indagine:
scollega gli elettrodi, elimina residui di gel conducente e aiuta l’assistito a rivestirsi;
effettua l’igiene delle mani;
smaltisce i rifiuti, ripristina il materiale utilizzato e collega l’elettrocardiografo alla rete elettrica;
trasmette la copia dell’ECG al medico e la allega alla cartella clinica del paziente procedendo alla
compilazione della documentazione.
Oltre all’osservazione e alle conoscenze teoriche dell’osservazione dell’ECG è utile che
l’infermiere possa riconoscere anche degli anomali del ritmo che possono comportare gravi
patologie, tra cui:
-fibrillazione atriale: tachicardia sopraventricolare caratterizzata da un’attivazione atriale
incoordinata con conseguente deterioramento della funzione meccanica atriale. Si può osservare
all’ECG con la mancanza dell’onda P.I pazienti con FA hanno: mortalità doppia rispetto a quelli
che presentano ritmo sinusale, incremento rischio stroke, peggioramento della qualità di vita.
-tachicardia parossistica sopraventricolare: una condizione caratterizzata da una frequenza cardiaca
regolare e veloce (160-220 battiti al minuto) che inizia e si arresta improvvisamente e che origina
nel cuore ma non nei ventricoli. All’ecg si evidenziano solo QRS con frequenza maggiore di 150
bpm a volte fino a 250 bpm;
-Ischemia miocardica: si verifica quando il flusso coronarico non è più adeguato a soddisfare le
esigenze miocardiche di 02.È dovuta a un aumento della richiesta di 02 da parte del cuore. All’ecg
si vedrà: sottoslivellamento del tratto ST; inversione dell’onda T
-Infarto del miocardio: All’ecg: sopraslivellamento del tratto ST. (la persistenza di questa
condizione induce la presenza di un aneurisma).
DOMANDA 28: LESIONI DA PRESSIONE
DEFINIZIONE: Le lesioni da pressione, anche chiamate piaghe da decubito, sono lesioni
localizzate alla cute/sottocute ad evoluzione necrotica. Il tessuto è compresso tra due superfici
rigide: la superficie d’appoggio (per esempio del letto) e l’osso sottostante.
CAUSE: Sono causate dalla parziale o totale interruzione della circolazione sanguigna nel tessuto
cutaneo, con conseguente ischemia localizzata. Le cause possono essere:
-esterne: La Pressione, l’attrito e la forza elastica trasversale
-interne: stato nutrizionale e incontinenza
FATTORI DI RISCHIO: generali: ipomobilità
Locali: umidità, scivolamento, frizione
SOGGETTI: i soggetti maggiormente affetti sono i pazienti anziani, gli immunodepressi, pazienti
oncologici, allettati ecc.
STADIAZIONE:
stadio 1) eritema alla pelle che non è reversibile alla digito pressione
stadio 2) ferita a spessore parziale che coinvolge l’epidermide e il derma. L’ulcera è superficiale e si
presenta come abrasione.
Stadio 3) ferita a tutto spessore che implica danno o necrosi del tessuto sottocutaneo e potrebbe
interessare anche la fascia sottostante.
Stadio 4) ferita a tutto spessore con estesa distribuzione dei tessuti, necrosi o danni ai muscoli, ossa
e strutture di supporto.
SINTOMI: malessere, febbre, tachicardia, dolore, rossore, bruciore, gonfiore;
SEDI: Negli adulti i siti più comuni sono il sacro e il tallone; nei bambini e neonati l’area
maggiormente esposta è rappresentata dalla cute che ricopre l’osso occipitale. Altre sedi predisposte
al rischio di insorgenza di LDP sono:
ischio;
caviglia;
gomito;
anca.
Una menzione a parte meritano i dispositivi medici (sondini naso-gastrici, tubi per tracheostomia,
stecche per immobilizzazione, ecc.), che possono causare lesioni da pressione sui tessuti molli,
irritazione o danneggiamento della cute.
LA GESTIONE DELLE PIAGHE
L’infermiere esegue la valutazione della lesione, pianifica il trattamento locale sulla base della
valutazione complessiva dell’individuo e degli obiettivi di trattamento.
Prima di procedere alla valutazione della ferita, evidenziare eventuali fattori che possono ostacolare
il processo di guarigione:
-malnutrizione: una persona malnutrita presenta spesso un’insufficiente quantità di proteine,
vitamine e di altri elementi nutritivi necessari a favorire la guarigione della ferita e a difendersi dalle
infezioni.
-famaci: alcuni farmaci possono ritardare il processo di guarigione. Ad esempio, i corticosteroidi
possono sopprimere il processo infiammatorio; ed inoltre l’uso prolungato di antibiotici possono
aumentare la moltiplicazione batterica.
-fumo: causa vasocostrizione periferica
-patologie concomitanti: ex pazienti affetti da tumori o da diabete mellito hanno maggior rischio di
contrarre infezioni
-immobilità: i pazienti che non possono cambiare posizione non riescono ad alleviare la pressione
che esercitano sulla superficie d’appoggio. In aggiunta i pazienti potrebbero andare incontro a
incontinenza urinaria o fecale.
GESTIONE DELLA CUTE (DETERSIONE), IDRATAZIONE, MOBILIZZAZIONE,
NUTRIZIONE E SUPERFICI ANTIDECUBITO sono i principi da seguire per una corretta
prevenzione dell’insorgenza di piaghe.
LA VALUTAZIONE DELL'INFEZIONE
La lesione da decubito non deve essere considerata come una ferita infetta, perché questo ci
porterebbe a considerare gli antibiotici ed i disinfettanti, prodotti primari per il suo trattamento ma
come una lesione che può infettarsi. La contaminazione batterica deve essere evitata. Quindi la
prima valutazione da effettuare è quella del controllo:
-dell’aspetto: ispezionare i bordi, se sono presenti corpi estranei; verificare se ci sono secrezioni:
secrezione giallastra, color miele, indice di contaminazione da batteri gram+;
secrezione verdastra e maleodorante indice di infezione da pseudomonas;
ipertermia
sì sospetterà l'infezione della lesione, che dovrà essere confermata attraverso un esame colturale
che non deve essere effettuato sulle secrezioni presenti sulla lesione.Poi si analizza la
localizzazione,il colore,la consistenza,l’odore,il grado di saturazione,verificare i tipi di drenaggi
presenti sui tipi differenti di medicazioni.Valutare le dimensioni :perimetro (rimarcare i margini
della lesione),lunghezza,larghezza e circonferenza utilizzando uno strumento monouso.Valutare la
profondità utlizzando un tampone sterile.Per ultimo,e non meno importante è la valutazione del
dolore:il dolore può essere severo,lieve ,moderato.
SCALE DI VALUTAZIONI UTILI: sono la SCALA DI BRADEN e di NORTON, NORTON
PLUS E KNOLL.
COMPLICANZE DELLE ULCERE:
-L’INFEZIONE;
-ASCESSI STACCATI: sono dovuti alla proliferazione batterica nei tessuti profondi che generano
colliquazione (fluidificazione di parti solide in seguito a processi degenerativi), con raccolta di
materiale purolento.
PREVENZIONE: tutti quegli interventi infermieristici dedicati a ridurre i fattori di insorgenza
(rischio)
-ridurre la pressione a livello delle superfici d’appoggio con il movimento: i pazienti a basso
rischio mobilitazione devono cambiare posizione ogni 2h; pazienti ad alto rischio: ogni 30
minuti i pazienti vanno sempre sollevati e ruotati, MAI trascinati.
-prevenire le forze di stiramento  evitare posizioni proclive e semisedute;
-prevenire l’attrito apporre un accurato rifacimento dei letti e telini; utlizzare presidi
antidecubito: letti con materassi ad aria, ad acqua, a “bassa memoria” (capacità di non
adattamento alla superficie di appoggio);
-prevenire la macerazione: non utilizzare pomate a base alcolica ma sempre emollienti;
-migliorare le condizioni generali del paziente: correzione dei fattori ematici e dell’equilibrio idro
elettrolitico.
OBIETTIVI DEL TRATTAMENTO: (debridment chirurgico, meccanico, enzimatico e autolitico)
-eliminazione della compressione locale: ripristino della circolazione cutanea e ricircolazione
-rimozione del tessuto necrotico: rimozione dell’escara necrotica che ripristina lo stato di sepsi che
si era creato a seguito della distruzione del tessuto. Utilizzo della TOILETTA CHIRURGICA:
asportazione graduale del tessuto
-disinfezione dell’ulcera: non si effettua la sterilizzazione ma disinfezione per ridurre la carica
batterica e la ritardata cicatrizzazione; Solitamente viene utilizzata l’irrigazione a bassa pressione
con la soluzione fisiologica.
I disinfettanti da utilizzare sono: derivati del cloro, clorexidina, spray a base di argento catadinico,
iodio povidone e zucchero in pasta.
-stimolazione del processo cicatriziale;
PROCEDURA: La procedura ottimale è quello di sviluppare la coltura su prelievo bioptico.
Questo tipo di procedura non è sempre disponibile soprattutto se il paziente è trattato presso il suo
domicilio. Risulta attendibile un esame colturale con la seguente procedura:
1. pulire la lesione;
2. infiltrare soluzione fisiologica nei tessuti perilesionali;
3. applicare il tampone sul liquido che fuoriesce dai tessuti. Le lesioni da decubito vengono
contaminate più frequentemente da:
Pseudomonas Aeuriginosa,
Stafiloccocco Aureus
Proteus Mirabilis.
Nei pazienti con ipertermia serotina e condizioni generali scadenti, vi è la necessità di ricorrere
all'uso di antibiotici per via parenterale. L’operatore può trovarsi generalmente, in due situazioni:
la prima è che il paziente che presenta la lesione da decubito infetta, giunge per la prima volta alla
sua osservazione. La seconda che l'infezione complica la lesione nel corso del trattamento. Nel
primo caso bisogna immediatamente valutare se l'infezione è sostenuta da una cattiva pulizia della
lesione. In questo caso bisogna provvedere al suo debridiment. Questo non deve essere effettuato
mediante detersione autolitica in quanto gli idrogeli sono controindicati in presenza di abbondante
essudato ed inoltre la necessaria copertura con placche (idrocolloidi, poliuretani) aumenterebbe la
carica batterica presente sulla lesione. La detersione và effettuata mediante debridment chirurgico,
questo consente un'immediata pulizia della lesione. Immediatamente dopo questo trattamento, si
effettua un esame colturale , con le modalità sopra descritte. Sulla scorta del risultato
dell'antibiogramma si effettua antibioticoterapia per via parenterale. A questa è possibile
associare una terapia topica, avendo cura di utilizzare solo antibiotici con una chiara e precisa
indicazione a tale uso, evitando di adattare a tale scopo antibiotici che hanno un esclusivo utilizzo
per via parenterale.
Nel secondo caso (contaminazione batterica in corso di trattamento) bisogna valutare se vi è un
peggioramento delle condizioni generali dei pazienti che rendono la lesione più aggredibile dai
batteri o una modifica del suo stato. Nel caso in cui la piaga è trattata con medicazioni avanzate
(idrocolloide in pasta, placca, idrofibra, alginati) queste devono essere immediatamente sospese
per evitare che l’occlusione della piaga determini un aumento della contaminazione batterica.
Procedura: fase “sporca”
Preparare materiale occorrente e raggiungere il paziente.
Spiegare la procedura al paziente e garantire la privacy (chiudere la porta, allontanare i visitatori,
ecc..).
Per quanto possibile: posizionare il paziente, assicurandone comunque il comfort, in modo da
raggiungere agevolmente la medicazione (ad. esempio in caso di ulcera sacrale, posizionate in
decubito laterale). Esponete all’ambiente esclusivamente l’area da medicare.
Consigliato: posizionate un telino monouso appena sotto la medicazione.
Posizionare il materiale e il sacco dei rifiuti sanitari in modo da avere tutto accessibile.
Lavarsi le mani.
Indossare i guanti.
Rimuovere la vecchia medicazione, se si dimostra asciutta e comporta dolori al pz, si possono
inumidire i bordi del cerotto con fisiologica o con clorexidina (la base alcoolica scoglie il
collante).
Valutate i residui riscontrati sulle garze delle medicazioni: se notate delle striature o macchie verdi
alternate a gialle, insieme a drenaggi maleodoranti, valutate se vi sono ulteriori segni di infezioni.
Notate le possibili allergie del paziente al cerotto sul tessuto perilesionale. Memorizzate bene
queste informazioni perché le riporterete tutto nella documentazione.
Irrigate l’ulcera con soluzione fisiologica, le siringhe vi saranno utili per creare
sufficiente pressione di getto e allontanare i residui grossolani. Attenzione agli schizzi di ritorno,
usate DPI idonei (occhiali, visiera, grembiule, ecc…).
Se prescritto eseguite un tampone della ferita, creando una certa pressione altrimenti svilupperete
in laboratorio soltanto le eventuali popolazioni batteriche superficiali e non quelle presenti sull
fondo del letto dell’ulcera.
Smaltire nei rifiuti sanitari, insieme ai guanti usati. Infine, lavarsi le mani.
Valutazione:
Valutate la localizzazione, stimate la dimensione,
Osservate il possibile drenaggio: abbondante, medio, o secco?
Individuare processi di infiammazione, infezione, macerazione, escara/necrosi o di guarigione
(tessuto di granulazione: su un tessuto rosso vivo apparentemente sano si possono formare delle
isole di tessuto bianco-rosa). In seguito, documenterete il tutto.
Trattamento:
Se disponibile usate la soluzione alcoolica per disinfettare ulteriormente le vostre mani.
Preparare il campo sterile con il materiale occorrente.
Indossare i guanti sterili.
Trattare e medicare l’ulcera. In questa fase, in base alla prescrizione medica, lo stadio della
lesione e le risorse disponibili si effettueranno trattamenti specifici. Secondo il grado di
essudazione si opterà per un diverso tipo di medicazione: in caso di necrosi si useranno enzimi
autolitici o debridment chirurgico (il medico) o tradizionale zaffatura.
Se la medicazione necessita di medicazioni particolari o diversi dalla semplice garza sterile: a
questo link maggiori informazioni sulle medicazioni e i razionali scientifici per decidere che
medicazioni usare per curare le ulcere. Ad esempio, se notaste infezione potrebbero essere usate
garze imbevute di betadine gel, ecc.
Altrimenti inumidire le garze sterili all’interno della vaschetta pre-riempita di fisiologica o
preparate delle garze grasse. Il principio è quello di adagiare sulla lesione una medicazione che
permetta di mantenere umida la zona ma di non farla macerare.
Se disponibili e se formati a farlo, preferite sempre medicazioni avanzate come le medicazioni
antibatteriche agli ioni d’argento
Usare altra garza sterile fino ad appianare al livello della cute.
Fissare con cerotti e bendaggio e stabilizzare la medicazione.
Smaltire il tutto, togliere i guanti e lavarsi le mani.
Riposizionare il paziente, verificare ulteriori bisogni assistenziali.
Congedarsi dal paziente.
Documentazione del trattamento: Documentate tutto. Parte fondamentale del processo di
guarigione di un’ulcera è una valutazione completa e coerente rispetto alle precedenti. Senza
un’adeguata documentazione difficilmente riuscirete a fare delle buone considerazioni sul
miglioramento o peggioramento dell’ulcera da pressione.
MEDICAZIONE: è un materiale che viene posto a diretto contatto con una lesione (medicazione
primaria) che può necessitare di un supporto di fissaggio. L’obiettivo della medicazione è di
creare l’ambiente ottimale per il processo di guarigione.
TRATTAMENTO DELLE PIAGHE DA DECUBITO AL 1 STADIO: eliminazione della
compressione locale, evitare il massaggio, detergere e medicare
Utilizzati: film semipermeabili: pellicole trasparenti di poliuretano adesive; sono permeabili all’02
esogeno e al vapore acqueo e impermeabili all’acqua.
TRATTAMENTO DELLE PIAGHE DA DECUBITO AL 2 STADIO: eliminare la compressione
locale, detergere, medicare
Utilizzati: idrocolloidi:medicazioni semioccludenti costituite da sostanze come
gelatina,pectina.Formati:paste,adesivi,polveri.A contatto con la ferita assorbe inmaniera lenta e
controllata l’essudato formando un soffice gel.Schiume di poliuretano: medicazione sterile
composta da schiuma assorbente e un film copertura in poliuretano che assicura l’isolamento.Sono
antiaderenti.Assorbono e trattengono grandi quantità di essudato agendo in modo
controllato.Proteolitici: sono enzimi deputati alla lisi del materiale proteico o nucleare.
TRATTAMENTO DELLE PIAGHE DA DECUBITO AL 3 STADIO: asportare chirurgicamente
il tessuto, uso di antibiotici locali, medicare
Utilizzati: Collagene, idrogeli: gel trasparenti a base di acqua, rimuovono il tessuto necrotico
promuovendo il processo autolitico naturale; alginati: medicazioni sterili composte da Sali di Ca e
Na; assorbono grandi quantità di essudato in tempi brevi formando un soffice gel. Riducono il
processo di macerazione.
TRATTAMENTO DELLE PIAGHE DA DECUBITO AL 4 STADIO: approccio
multidisciplinare, rimozione tessuto necrotico, detergere e disinfettare e medicare.
Utilizzo di Chirurgia e laserterapia.
13)Termoregolazione, il paziente con la febbre
Con termoregolazione si definisce una complessa funzione, propria degli animali omeotermi
(Uccelli e Mammiferi), che consente all'organismo di mantenere la temperatura corporea ad un
livello costante conservando l'equilibrio tra i processi di termogenesi e quelli di termodispersione
(o termolisi).
La principale fonte di calore dell'organismo è costituita dai processi metabolici, che perlopiù sono
rappresentati da reazioni chimiche esotermiche.
L'organismo può assumere calore dall'esterno se la temperatura dell'ambiente è superiore a quella
del corpo. Tale evenienza, però, è del tutto estranea alla termogenesi vera e propria che è un
processo di natura biochimica. Per realizzare un equilibrio tra termogenesi e termolisi, e
mantenere costante la temperatura corporea con il variare di quella ambientale, intervengono
meccanismi regolatori riconducibili a un modello cibernetico di feedback negativo: se l'organismo
è esposto al freddo, e quindi ad aumentata termolisi, la perdita di calore viene contenuta con una
vasocostrizione cutanea e controbilanciata, entro certi limiti, con un aumento della termogenesi
(aumento del metabolismo basale e, in particolare, del tono muscolare, con eventuale comparsa di
brividi, aumento dell'attività funzionale dei surreni ecc.). Nella condizione opposta, ossia quella di
aumentata termogenesi (come si verifica nel lavoro muscolare, nella febbre o per l'ingestione di
alimenti a rapida combustione, come gli alcolici), o in caso di elevate temperature ambientali, si
verifica un aumento della termolisi. In particolare, cresce la quantità di calore disperso con
l'evaporazione del sudore. Una reazione a più lungo termine è correlata con la sintesi di ormoni
tiroidei (tiroxina). Questo ormone agisce su vari tessuti corporei e induce un'elevazione del
metabolismo basale. Le reazioni termoregolatrici sono controllate dall'ipotalamo (v.) mediante due
centri antagonisti che sono informati delle variazioni della temperatura ambiente e di quella
interna da termocettori cutanei e viscerali. Nell'ipotalamo è configurata la temperatura di
riferimento essenziale per difendere i tessuti da modificazioni termiche pericolose per la loro
funzione e sopravvivenza: il centro anteriore regola la dissipazione di calore e quello posteriore
favorisce la produzione di calore e la sua conservazione. In tale contesto anatomico hanno un
ruolo importante alcuni neurotrasmettitori la cui azione si svolge nell'ambito dei diversi circuiti
della termoregolazione.
Termoregolazione: consente all’organismo di conservare la temperatura corporea a un livello
costante mantenendo l’equilibrio tra i processi di termogenesi e quelli di termodispersione (o
termolisi). La termogenesi è un processo di natura biochimica; al contrario, la termolisi si realizza
attraverso processi fisici.
Termogenesi: In biologia, la produzione di calore negli organismi viventi; è generalmente in
rapporto con le reazioni chimiche del metabolismo.
termolisi: la dispersione del calore dagli organismi viventi durante il processo di
termoregolazione.
ipertermia: il corpo guadagna più calore di quello che perde. Il calore corporeo è strettamente
regolato. provocato da cause esterne, sia fisiche (surriscaldamento dovuto a colpo di sole o di
calore), sia chimiche (inoculazione di sostanze piretogene), o da intensa fatica muscolare.
ipotermia: condizione in cui la temperatura interna del corpo scende al di sotto della temperatura
minima richiesta per mantenere la base funzioni metaboliche del corpo.
La temperatura corporea minima è considerata di 35 gradi Celsius.
Esistono quattro livelli di ipotermia:
1. lieve ipotermia (temperatura corporea 32-35 gradi Celsius).
2. moderata ipotermia (temperatura corporea 28-32 gradi Celsius),
3. grave ipotermia (temperatura corporea 20-28 gradi Celsius) e
4. profonda ipotermia (temperatura corporea inferiore a 20 gradi Celsius).
Il corpo reagisce all'ipotermia provocando brividi, ipertensione, battito cardiaco accelerato, respiro
accelerato e costrizione dei vasi sanguigni periferici per generare / conservare calore. Il livello di
glucosio nel sangue aumenta perché il fegato rilascia glucosio e la secrezione di insulina
diminuisce e l'ingresso di glucosio nelle cellule diminuisce.
La temperatura corporea assume valori diversi in base a dove viene rilevata.
La rilevazione della temperatura può avvenire all’esterno per via cutanea:
Cavo ascellare, Cavo inguinale o a livello di mucose: rettale, cavo orale, timpanica
Nella normale fisiologia la Tc ha valore di 36,5°, per la misurazione interna e un grado in più per
la misurazione a livello di mucose.
Ha una certa variabilità individuale di circa 0,4°. Oltre alla variabilità individuale bisogna tenere
conto che la temperatura corporea fluttua normalmente durate l’arco della giornata, con livelli più
bassi al primo mattino e più alte la sera. Inoltre, intervengono altri fattori come la digestione, l’età,
l’attività fisica e nelle donne il ciclo mestruale.
Un aumento della TC > 37°C è definito PIRESSIA, IPERTERMIA o FEBBRE.
Una TC>40°C è definita IPERPIRESSIA. La febbre è accompagnata da intenso calore e rossore
al volto, occhi lucidi, cefalea, malessere generale, dolori muscolari, tachicardia, tachipnea,
anoressia, stipsi, nausea, confusione, delirio convulsioni.
La febbre ha un decorso che si articola in 3 fasi:
•FASE 1- Fase del rialzo termico o fase prodromica
•FASE 2- Fase del fastigio o massima intensità
•FASE 3- Fase della defervescenza
La Tc è un parametro vitale. I parametri vitali sono quei valori che nell’individuo rappresentano la
funzionalità dell’organismo. La misurazione di quest’ultimi è un’abilità indispensabile che
l’infermiere deve possedere, al fine di individuare ed evitare situazioni a rischio.
I parametri vitali sono:
•Pressione Arteriosa
•Frequenza cardiaca
•Frequenza respiratoria
•Temperatura corporea
•dolore, di recente introduzione tra i parametri vitali.
La temperatura solitamente è più bassa negli anziani. I bambini e gli anziani hanno una instabilità
a sostenere le temperature ambientali. Anche lo stress o l’ansia può elevare la temperatura.
La T.C. presenta delle piccole oscillazioni giornaliere, essendo correlata all’attività fisica ed al
sonno. Si dice che esiste una curva termica circadiana, cioè che avviene nell’arco delle 24 ore. Si
determina effettuando la misurazione più volte al giorno, metodo detto rilevazione termica
nicterale (cioè, del giorno e della notte) questa è minima nelle prime ore del mattino, ed è massima
a metà pomeriggio nel soggetto sano; in caso di malattia si sommano gli effetti della malattia
stessa.
Nel voler comprendere quali siano i fattori che influenzano la T.C. l’infermiere nell’accertamento
deve saper interpretare il significato delle principali variazioni che possono influenzare la
temperatura corporea e principalmente:
Età: i neonati hanno una T.C. instabile, perché i loro meccanismi di termoregolazione sono
immaturi. Non è insolito che le persone anziane abbiano una T.C. ascellare inferiore ai 36°C.
Ambiente: in genere i cambiamenti della temperatura ambientale non influenzano la T.C. interna,
ma l’esposizione prolungata a temperature estremamente calde o fredde può causare delle
alterazioni. Se la temperatura interna scende sotto i 25°C si può verificare la morte
(assideramento). Se sale oltre i 43/44°C si può verificare uno stato di coma e morte (colpo di
calore o colpo di sole).
Ora del giorno: la T.C. è più bassa verso le 4/5 del mattino e più alta verso le 17/18 del
pomeriggio. Può variare anche di 2°C, soprattutto nei neonati. Probabilmente per il variare
dell’attività muscolare e digestiva.
Esercizio fisico: la T.C. aumenta con l’attività muscolare attraverso il metabolismo dei grassi e
carboidrati che vengono utilizzati per produrre energia.
Stress: lo stress stimola il sistema nervoso simpatico (o sistema nervoso vegetativo o autonomo)
con aumento dei livelli di adrenalina e noradrenalina (ormoni della midollare dei surreni) i quali
stimolano un aumento del metabolismo, incrementando così la produzione di calore.
Ormoni: il progesterone secreto durante l’ovulazione aumenta la temperatura di circa 0,5°C sopra
i valori di base. Misurando la T.C. quotidianamente le donne possono determinare quando hanno
l’ovulazione e quindi il periodo fertile. Dopo la menopausa la T.C. è la stessa per uomini e donne.
Gli ormoni tiroidei (tiroxina) e surrenalici (adrenalina e noradrenalina) aumentano la produzione
di calore
La misurazione avviene usualmente con termometri elettronici compatibili alla sede di
misurazione prescelta e in alcuni casi con strisce termometriche.
In Italia la sede più utilizzata è il cavo ascellare anche se rileva la temperatura esterna; quindi, più
suscettibile a variazioni dell’ambiente e necessita accuratezza nella rilevazione (asciugatura
dell’ascella, corretta posizione del termometro a stretto contatto con la cute).
Vengono utilizzati termometri elettronici con unità display e sensore (20-50 secondi) oppure, nei
reparti di isolamento, strisce/cerotti termometrici monouso (60 secondi). Il range di normalità per
questa zona di rilevamento si intende compreso fra i 36,5°C e i 36,8 °C.
La misurazione nel cavo inguinale avviene nelle stesse modalità e il range di normalità per questa
sede si intende compreso fra i 37°C e i 37,5°C.
Attraverso l’utilizzo di un termometro elettronico dotato di sensore ad infrarossi sulla punta e
guaina monouso, si può misurare la temperatura timpanica (2-5 secondi) che riflette la
temperatura interna; questa sede, di facile e veloce accesso, viene utilizzata principalmente con i
bambini, anziani o pazienti critici, ma è controindicata in caso di secrezioni abbondanti e/o di
lesione del canale uditivo.
Anche la temperatura orale, rilevata da termometri digitali (20-50 secondi), riflette la temperatura
interna, ma può essere alterata dall’ingestione di cibi o bevande particolarmente fredde o calde,
dall’aver fumato e dall’ossigenoterapia.
Una delle sedi più affidabili per ottenere la temperatura interna è l’ampolla rettale, sempre
attraverso l’utilizzo di termometri digitali (20-50 secondi); la rilevazione in questa zona è
controindicata in pazienti con patologie rettali o con materiale fecale residuo nell’ampolla, in casi
di diarrea conclamata e nelle fasi postoperatorie.
Il range di normalità per queste tre aree è compreso tra i 36,8°C e i 37,5 °C.
I diversi tipi di Febbre:
Vari tipi di febbre :
-Febbre continua: (frequente nelle polmoniti) durante la fase dell’acme febbrile la TC raggiunge i
40 °C e si mantiene costante, le oscillazioni giornaliere sono sempre inferiori a 1°C senza mai
raggiungere la defervescenza per circa 7gg dopo i quali, solitamente, si ha risoluzione per crisi con
sudorazione profusa;
-Febbre remittente o discontinua: è frequente nelle setticemie, nelle malattie virali e nella
tubercolosi; il rialzo termico, durante il periodo del fastigio, subisce oscillazioni giornaliere di 23°C, senza che mai si raggiunga la defervescenza per 5-6gg;
-Febbre intermittente: è frequente in sepsi, malattie da farmaci, neoplasie; vede l’alternarsi di
periodi di ipertermia e periodi di apiressia.
-Febbre ondulante: la TC aumenta nel giro di vari giorni, raggiunge un picco e poi decresce
lentamente in più giorni successivi (per lisi) della durata di 1-2 settimane e dopo uguale periodo di
apiressia riprende con le stesse modalità;
-Febbre ricorrente e familiare: il periodo febbrile oscilla dai 3 ai 5 giorni, alternandosi a periodi di
apiressia;
-Febbre settica: frequente in infezioni delle vie biliari e urinarie; l’andamento intermittente, con
puntate di 1 o 2 volte al giorno, con un incremento rapido con brivido, acme breve e rapida
defervescenza per crisi;
-Febbricola: non sono mai raggiunti i 38°C, profilassi anticoncezionali, tubercolosi, una neoplasia
oppure un’infezione cronica.
Assistenza paziente con febbre :
L’impostazione degli interventi terapeutici e assistenziali nei confronti di un soggetto in stato
febbrile segue due direttrici :
-Interventi volti ad agire sulle cause che hanno determinato l’insorgenza della febbre e sul quadro
sintomatologico ( essenzialmente di ordine diagnostico e terapeutico e quindi di competenza
medica e infermieristica),prestazioni di natura assistenziale volte a favorire l’abbassamento della
temperatura compito dell’O.S.S. Persona con brividi.
- Mantenere il comfort e la sicurezza del paziente
- Fornire coperte o abiti supplementari per aiutare la persona a sentirsi calda.
- Rilevare i parametri vitali P.A. , F.C , F.R , (effetti della febbre sugli altri sistemi corporei).
Mantenere l’idratazione, favorendola.
- Ridurre la produzione di calore.
- Invitare la persona a ridurre l’attività fisica e favorire il riposo a letto in ambiente tranquillo,
diminuire gli stimoli ambientali (rumore, luce).
- Promuovere la dispersione di calore; La perdita di calore dal corpo del soggetto all’ambiente
circostante va favorita togliendo gli abiti o coperte troppo pesanti: l’esposizione della superficie
della cute all’aria aumenta la dispersione di calore.
- Eseguire spugnature tiepide, su indicazione medica applicare la borsa del ghiaccio o criogel su
decorso dei grossi vasi. (femorale – carotideo – temporale – ascellare per favorire il
raffreddamento attraverso l’evaporazione e la conduzione.
-Mantenere fresca e la temperatura della stanza (17 – 19°C) , e ben areata
-Mantenere l’idratazione; osservare lo stato di idratazione delle mucose ( attuare le necessarie cure
per prevenire il disagio provocato dalla disidratazione e le lesioni dalla mucosa con insorgenza di
infezioni, mantenere le labbra morbide ).
-Controllare la diuresi quantità e caratteristiche.
-Stimolare l’assunzione orale di liquidi preferibilmente ad alto contenuto di carboidrati: succhi di
frutta, tè, camomilla.
-Mantenere la nutrizione; favorire l’assunzione di alimenti ricchi di carboidrati e proteine per
contrastare l’elevato metabolismo, preferendo una dieta semi-liquida e facilmente digeribile.
-Garantire l’igiene totale e il cambio della biancheria personale e del letto per effetto della
sudorazione.
- La luce eccessiva e i rumori sono fonte di disturbo per l’assistito, per cui entrambi vanno evitai
accuratamente.
Procedura Rilevazione temperatura corporea dal libro p.565
14) Assistenza al paziente anemico
L'anemia è una condizione in cui il numero di globuli rossi non è sufficiente a trasportare
abbastanza ossigeno da soddisfare i bisogni dei diversi tessuti e organi del corpo. In realtà esistono
diverse forme di questo disturbo, ciascuna causata da fattori diversi. Anche la sua gravità può
variare molto, passando dai casi di lieve entità a quelli molto gravi.
Che cos’è l’anemia?
In genere si parla di anemia quando i livelli di emoglobina nel sangue sono inferiori a 13 g/dl nel
caso dell'uomo o 12 g/dl nel caso della donna. Esistono però anche altri modi per definire la
malattia, fra cui valori di ematocrito inferiori al 40% nel caso degli uomini o al 37% nel caso delle
donne. La riduzione dell'emoglobina può essere un problema temporaneo o cronico. In generale è
più esposto al rischio di anemia chi soffre di carenze vitaminiche (in particolare di vitamina B12,
C o di acido folico) o di ferro, di disturbi intestinali (celiachia inclusa), di mestruazioni troppo
abbondanti, di malattie croniche come l'insufficienza epatica o renale e chi ha familiari che
soffrono dello stesso problema. Inoltre, durante la gravidanza è più facile andare incontro a
un'anemia da carenza di ferro.
Quali sono le cause dell’anemia?
Livelli bassi di globuli rossi possono essere associati a problemi nella loro produzione (come nel
caso dell'anemia aplastica) o nella loro degradazione (anemie emolitiche), a emorragie, a difetti
genetici (come l'anemia falciforme e le talassemie) o ad altre malattie (dall'artrite reumatoide alla
leucemia). Inoltre, alcune forme di anemia sono associate a carenze di ferro o di vitamine.
Quali sono i sintomi dell’anemia?
L'anemia può essere inizialmente asintomatica, ma l'aggravarsi del problema porta alla comparsa
di sintomi come stanchezza, pallore, battiti cardiaci irregolari o accelerati, affanno respiratorio,
dolori al petto, vertigini, problemi cognitivi, mani e piedi freddi e mal di testa.
Come si previene l’anemia?
Molti tipi di anemia non sono prevenibili con lo stile di vita. In alcuni casi è invece possibile
ridurre la probabilità di sviluppare la malattia seguendo un'alimentazione ricca di vitamine e di
ferro.
-Di acido folico sono ricchi gli agrumi, le banane, le verdure a foglia verde scuro, i legumi e i
prodotti a base di cereali fortificati.
-La vitamina B12 è presente nella carne e nei latticini e si trova in alcuni derivati dei cereali e
della soia fortificati.
-La vitamina C, utile perché aiuta ad assorbire il ferro, si trova negli agrumi, nel melone e nei
frutti di bosco.
-Il ferro può essere assunto con la carne, i legumi, i cereali fortificati, i vegetali a foglia verde
scura e la frutta essiccata.
Anemia Mediterranea o Talassemia: L'anemia mediterranea, anche nota come beta-talassemia
major o anemia di Cooley, è una malattia del sangue ereditaria molto grave causata da un difetto
genetico che provoca la distruzione dei globuli rossi. La mutazione genetica causa una distruzione
precoce dei globuli rossi, una minore presenza di emoglobina e quindi una scarsa ossigenazione di
tessuti, organi e muscoli che porta stanchezza e scarsa crescita. Chi soffre di beta-talassemia deve
sottoporsi a frequenti trasfusioni di sangue.
Anemia da carenza di vitamine: Le anemie da carenza di vitamine sono caratterizzate da una
ridotta produzione di globuli rossi a causa di una deficienza vitaminica. Le vitamine coinvolte
sono la vitamina B12, l’acido folico (folati) e la vitamina C, acido ascorbico.
Anemia sideropenica o da carenza di ferro: L’anemia da carenza di ferro è il tipo più comune di
anemia. Viene anche chiamata anemia sideropenica (dal latino sìderos = ferro e penìa = povertà) o
anemia marziale. Si tratta di una condizione in cui nell'organismo non vi sono adeguati livelli di
ferro e questo compromette il trasporto di ossigeno attraverso il sangue provocando, tra l'altro,
stanchezza e fiato corto. Il ferro è un minerale fondamentale per alcune funzioni biologiche, tra le
quali la formazione dell'emoglobina. Quando c'è una mancanza di ferro, provocata da uno scarso
apporto con l'alimentazione, da problemi nell'assorbimento, da perdite ematiche, la produzione di
emoglobina è insufficiente e questo determina una scarsa circolazione di ossigeno attraverso
l'organismo. Interessa tutte le fasce di età, in prevalenza i bambini, gli adolescenti, le donne in età
fertile, in gravidanza e allattamento.
-Anemia falciforme: L’anemia falciforme è una malattia genetica ed ereditaria del sangue. Il nome
si deve alla caratteristica forma a falce o mezzaluna che viene assunta dai globuli rossi che
diventano anche rigidi, viscosi e facilmente aggregabili. La forma irregolare ne ostacola il
movimento attraverso i vasi sanguigni, rallentando o bloccando il flusso del sangue. Normalmente
i globuli rossi hanno una forma simile a due piatti sovrapposti, sono elastici, deformabili e
scivolano nei vasi sanguigni facilmente. Nell'anemia falciforme un gene mutato ne determina la
forma irregolare: i globuli rossi assomigliano quindi a una falce, sono viscosi e si aggregano
formando degli ostacoli al normale flusso sanguigno, con il rischio che i tessuti non vengano
irrorati a sufficienza e le cellule muoiano (ischemia). Le cellule falciformi sono più fragili di
quelle normali e ciò determina questa grave forma di anemia.
L'anemia può essere scaturita da emorragie, secondarie a patologie croniche, Anemia aplastica
(non vengono prodotte le cellule del sangue dal midollo osseo).
Inoltre, le anemie possono essere classificate anche in base al valore di Volume Corpuscolare
Medio (MCV):
Macrocitiche: MCV > 100
Microcitiche: MCV < 80
Normocitiche: MCV 80-100
Segni e sintomi :
L’anemia è riferibile a differenti condizioni patologiche molto diverse fra loro; si rileva tramite
valori riscontrati nelle analisi del sangue, per la quale è sufficiente eseguire un emocromo che
conta la parte corpuscolata del sangue.
Il paziente affetto da anemia presenta sintomi che possono essere più o meno marcati; si può
manifestare con senso di debolezza, difficoltà nella concentrazione, malessere diffuso, cefalea,
crampi agli arti inferiori, caratteristico colorito pallido della cute e delle mucose, dispnea.
In alcuni casi si può verificare anche un lieve calo ponderale, splenomegalia con dolore. Nei casi
più gravi possiamo avere anche una compromissione del sistema cardiaco dettata dalla necessità
del corpo di compensare la mancanza di capacità di trasporto dell’ossigeno; il paziente può quindi
avvertire dolore al petto, tachicardia e ipotensione.
Come si trattano le anemie?
Il trattamento delle anemie dipende dalla causa che ha scatenato la patologia. Le strategie di
trattamento possono essere distinte in quattro gruppi:
-Correzione del deficit tramite terapia farmacologica con assunzione di farmaci per via orale,
iniezioni sottocutanee/iniezioni intramuscolari oppure per via endovenosa (Ferro in
compresse/fiale; integratori di ferro e vitamina b-12)
-Correzione del deficit tramite dieta includendo consumo di: verdure (ad esempio: carote,
pomodori, broccoli, patate), legumi, carne rossa, molluschi, agrumi e frutta secca
-Correzione del deficit tramite emotrasfusione con la somministrazione in ambiente ospedaliero di
emazie concentrate secondo protocolli aziendali (procedura che prevede il monitoraggio del
paziente, il prelievo di campioni ematici e l’invio al reparto di medicina trasfusionale che tramite
vari e scrupolosi controlli identifica il gruppo sanguigno del paziente e fornisce emazie
concentrate compatibili, la somministrazione secondo attento riconoscimento del paziente e
controllo ulteriore delle sacche di emazie da parte di medico e infermiere e la registrazione in
apposito “diario trasfusionale” dei parametri vitali del paziente – procedura che varia a seconda
dell’azienda ospedaliera). A seconda del grado di severità dell’anemia sarà il medico a valutare
quante sacche di emazie dovrà ricevere il paziente. In caso di emergenza con paziente gravemente
anemico (emorragia massiva) può essere somministrato immediatamente sangue disponibile nei
reparti di Emergenza-Urgenza di gruppo “0 Rh Negativo” che è compatibile con tutti i tipi di
gruppi sanguigni (0 NEG: Donatore Universale)
-Correzione del deficit tramite intervento chirurgico/endoscopico nel caso l’emorragia sia causata
da una perdita di cui si è scoperta la natura e quindi si possa intervenire per risolverne la causa (ad
esempio: emorragia digestiva, varici esofagee).
Indicatori assistenziali: segni vitali stabili, assenza di febbre, Hb e Ht entro parametri accettabili,
EGA entro parametri normali, assenza di complicazioni cardiovascolari e polmonari (dispnea e
angina), capacità di tollerare adeguata assunzione alimentare, peso stabilizzato, capacità di
procurarsi la dieta raccomandata, capacità di deambulare e svolgere le attività di vita quotidiana,
adeguato sistema di sostegno dopo la dimissione.
Promemoria per l'educazione di pz e familiari: documentare che abbiano compreso il tipo di
anemia e le sue implicazioni, scopo, dosaggio e modalità di somministrazione dei farmaci da
assumere, le particolari esigenze dietetiche, risorse disponibili sul territorio, riconoscere segni e
sintomi che indicano la necessità di ricorrere al medico, data, ora e sede degli appuntamenti
medici, quando e come mettersi in contatto col medico.
Promemoria per la documentazione: bisogna documentare lo stato clinico al momento
dell'ingresso, le modificazioni significative, i risultati dei test diagnostici e di lab pertinenti,
assunzione di alimenti, tolleranza ad attività fisica, insegnamento al pz e ai familiari, piano di
dimissione.
*Quindi possono esserci tante diagnosi infermieristiche in base al tipo di anemia e ai sintomi
riferiti dal paziente, di conseguenza ci saranno vari interventi infermieristici.
15)Assistenza al paziente diabetico
Il diabete mellito è una sindrome cronica caratterizzata dall’alterato metabolismo dei glucidi
causato dalla carenza o totale assenza di insulina.
Una concentrazione di glucosio nel sangue (glicemia) mantenuta fra i 90 mg/100 ml è condizione
indispensabile per il normale funzionamento dei vari tessuti, in particolare di quello nervoso per il
quale il glucosio è un’indispensabile fonte di energia.
Il glucosio presente nel sangue deriva da:
-alimentazione;
-scorte immagazzinate dal fegato sotto forma di glicogeno;
-scorte di glucosio sintetizzato dal fegato a partire da composti di natura diversa (ad esempio,
aminoacidi).
Il mantenimento di un livello ottimale di glicemia (omeostasi) è garantito dall’azione organizzata
di ormoni secreti da ghiandole endocrine che si coordinano con l’apporto incostante di glucosio
introdotto con la dieta.
In particolare, l’insulina, ormone secreto dalle cellule beta delle isole di Langerhans pancreatiche,
stimola le cellule del fegato, del tessuto muscolare e di quello adiposo a prelevare dal sangue il
glucosio necessario e ad immagazzinare al loro interno quello di non immediato utilizzo sotto
forma di glicogeno, una riserva per i casi di emergenza (digiuno prolungato, attività fisica, stress).
Casi di ridotta secrezione di insulina, ai quali possono aggiungersi condizioni di resistenza a tale
ormone da parte dei tessuti periferici, provocano una grave alterazione nei meccanismi
omeostatici della glicemia che si traduce nella possibilità di gravi danni a tutti i tessuti.
Un elevato livello di glucosio, infatti:
-favorisce la crescita batterica, predisponendo allo sviluppo di infezioni;
-aumenta la viscosità del sangue;
-riduce la capacità dell’emoglobina di trasportare ossigeno ai tessuti.
Il diabete mellito rappresenta una grave compromissione della regolazione dell’omeostasi
glicemica; si conoscono diversi tipi di diabete, con diverse eziologie, decorsi clinici e trattamenti,
ma l’intolleranza al glucosio rappresenta un fattore comune e trasversale ad essi.
Secondo la Carpenito, una diagnosi di diabete mellito può essere stabilita sulla base di uno dei
seguenti tre parametri:
1.glicemia a >= digiuno:126 mg/dL;
2.glicemia a 2 ore durante il test di tolleranza al glucosio somministrato per via orale >200 mg/dL;
3.sintomi di diabete mellito (poliuria, polidipsia, calo ponderale) associati ad un valore di glicemia
casuale >200 mg/dL.
Sono riconosciute tre sottocategorie di diabete mellito:
il diabete mellito di tipo 1 (conosciuto anche come diabete giovanile):
-insorge in età giovanile (entro i 30 anni);
-la produzione di insulina è insufficiente, perciò la terapia consiste nella somministrazione di
insulina;
-il glucosio non viene utilizzato dalle cellule e si accumula nel sangue (iperglicemia);
-l’alta concentrazione di glucosio nel sangue impedisce ai tubuli renali di riassorbirlo, con
conseguente presenza di glucosio nelle urine;
-il riassorbimento renale dell’acqua e del sodio è compromesso per ragioni osmotiche dettate
dall’elevata quantità di glucosio e corpi chetonici nell’ultrafiltrato, con conseguente produzione di
grandi quantità di urina (poliuria);
-alla poliuria consegue una forte disidratazione che, stimolando il centro della sete, induce il
diabetico a bere continuamente (polidipsia);
-il deficit d’insulina provoca un alterato metabolismo anche di grassi e proteine, al quale si
aggiunge l’incapacità di immagazzinare il glucosio e si traduce in frequente perdita di peso e
aumento dell’appetito del soggetto (polifagia);
-nel lungo termine si verificano gravi complicanze relative soprattutto all’alterazione strutturale e
funzionale dei vasi sanguigni (ispessimento e indurimento delle pareti arteriose, alterazioni dei
capillari a carico della retina e dei reni, sofferenze del sistema nervoso periferico).
Inoltre, il diabete di tipo 1 si suddivide ulteriormente in:
1)immuno-mediato: è il sistema immunitario del diabetico a distruggere le cellule beta, le uniche
preposte alla produzione di insulina e alla regolazione dei livelli di glucosio. Questo processo di
distruzione è tanto più rapido quanto più il soggetto è giovane (bambini e adolescenti, infatti,
possono sviluppare molto rapidamente chetoacidosi);
2) idiopatico: l’individuo non produce insulina ed è soggetto a chetoacidosi, ma non vi sono
coinvolti fattori autoimmuni.
Il diabete mellito di tipo 2:
-insorge in età adulta;
-insorge per l’incapacità delle cellule di utilizzare correttamente l’insulina (resistenza) e
progredisce con la graduale perdita, da parte del pancreas, della capacità di produrre insulina in
quantità adeguate;
-l’iperglicemia si genera quando il pancreas non è più in grado di soddisfare il fabbisogno
organico e/o quando sono compromessi i recettori periferici per l’insulina;
-la somministrazione di insulina come regime terapeutico spesso non è sufficiente e/o indicata,
mentre fondamentale è il controllo della dieta;
-la maggior parte dei soggetti affetti da questo tipo di diabete è obesa;
-la resistenza all’insulina diminuisce con la perdita di peso, ma torna a salire non appena si
riacquista peso; è soggetto a forte familiarità.
Fra gli altri tipi di diabete, citiamo:
-diabete mellito gestazionale: tipo di intolleranza al glucosio che si manifesta durante la
gravidanza e che, generalmente, scompare dopo il parto e riporta la paziente alla normalità. Può
essere gestito con o senza insulina;
-diabete secondario: insorge in seguito ad altre patologie (es. difetti genetici delle cellule beta,
endocrinopatie, pancreatiti, tumori) o a terapie mediche particolari (es. corticosteroidi);
-diabete insipido: patologia caratterizzata da poliuria importante e sete insaziabile dovute ad
un’alterazione della produzione, della secrezione o del funzionamento dell’ormone vasopressina
(ormone antidiuretico) a livello di ipotalamo e ipofisi o dalla sua mancata attività a livello renale.
Tra i fattori di rischio per lo sviluppo del diabete si può operare una distinzione che affianca fattori
sui quali si può agire (obesità, mancanza di esercizio fisico) a fattori che vanno tenuti in
considerazione a seconda dei casi (familiarità per il diabete, età, etnia, altre patologie, trattamenti
terapeutici potenzialmente iatrogeni).
Le complicanze acute e croniche del diabete vanno ad incidere significativamente sulla vita della
persona:
-complicanze acute: ipoglicemia, iperglicemia;
-complicanze croniche: aterosclerosi, retinopatie, nefropatie, neuropatie, ulcere diabetiche,
aumentata suscettibilità alle infezioni (piede diabetico, flemmoni, cellulite, fascite necrotizzante,
infezioni dell’apparato urinario, ecc.).
Il ruolo dell’infermiere nell’assistenza al paziente con diabete mellito di tipo 2
L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica, che è di natura tecnica,
relazionale e educativa; di fronte ad un paziente al quale viene fatta una diagnosi medica di
diabete mellito di tipo 2, infatti, l’infermiere ha anche la responsabilità di educare l’utente alla
gestione della propria situazione clinica prima della dimissione, fornendogli gli strumenti per
garantirsi una condizione di sicurezza a domicilio. La natura educativa dell’assistenza
infermieristica prevede che l’infermiere accerti il livello di comprensione dell’utente e lo educhi
ad effettuare le attività di gestione quotidiana della patologia in maniera autonoma.
L’accertamento infermieristico, inoltre, mira ad indagare lo stile di vita del paziente al fine di
conoscere le sue abitudini alimentari (con tanto di misurazione dell’indice di massa corporea –
BMI) e di eliminazione, la sua occupazione e le caratteristiche del nucleo socio-familiare in cui è
calato, l’eventuale utilizzo di ausili oculistici, auricolari, per la deambulazione o per
l’incontinenza urinaria e/o fecale. Tutto questo per effettuare un’attenta analisi incrociata dei dati
raccolti attraverso l’accertamento, con la collaborazione del paziente e, se presente, con quella di
un caregiver; analisi dei dati che porta alla formulazione di un piano assistenziale tarato sulla
singola persona.
Per la persona affetta da diabete è fondamentale raggiungere l’autonomia necessaria a gestire la
propria condizione, con particolare riferimento alla terapia farmacologica con insulina.
la componente educativa dell’assistenza infermieristica:
-Addestrare alla rilevazione glicemica (o verifica della corretta esecuzione: tempi, modi, ecc.)
-Addestrare all'utilizzo della penna per insulina (o verificarne l’uso e la corretta tecnica iniettiva)
-Addestrare a riconoscere e trattare le ipoglicemie (o verifica delle capacità apprese)
-Addestrare alla compilazione del diario delle glicemie (o verifica)
L’obiettivo principale del trattamento è di mantenere la glicemia entro valori normali e prevenire
le complicanze. Le condizioni ottimali per raggiungere quest’obiettivo sono:
-Un indice di massa corporea tra 18.5 e 25
-Un’alimentazione varia ed equilibrata
-Attività fisica regolare
-Affinché si riesca a seguire il trattamento adeguatamente, il paziente deve imparare a gestire le
modalità di utilizzo dell’insulina. Per questo motivo si raccomanda che le persone vengano
formate in un centro di diabetologia.
Nella formazione è compreso un programma di educazione terapeutica del paziente, che
comprende:
-L’apprendimento e la valutazione delle conoscenze della patologia
-La consapevolezza di sé e della patologia
-Un insieme di capacità tecniche per il controllo e il trattamento
-La capacità di fare auto-diagnosi
-La gestione di crisi ipoglicemiche ed iperglicemiche
-L’adattamento del proprio stile di vita alla patologia e l’adattamento dell’insulina all’evoluzione
della patologia
-La prevenzione delle complicanze
L’educazione terapeutica deve essere fatta continuamente nel corso della vita del paziente. Le
sedute di educazione terapeutica devono essere personalizzate e permettere di identificare e
correggere le lacune di conoscenze che potrebbero avere un impatto negativo nel trattamento e
nell’evoluzione della patologia.
L'automonitoraggio glicemico è fondamentale per il paziente che si trova a dover convivere con
una patologia cronica, che va curata per tutta la vita. Educare la persona ad effettuare
l'automonitoraggio glicemico al proprio domicilio è parte integrante del percorso di educazione
terapeutica del quale l'infermiere, che lavora in sinergia con il medico, il dietologo ed altri
professionisti della salute, è responsabile.
Il monitoraggio glicemico domiciliare è reso agevole dalla disponibilità di vari tipi di glucometro
che si adattano alle varie esigenze dei pazienti. Quasi tutti gli strumenti per la misurazione della
glicemia tramite prelievo capillare tengono in memoria un buon numero dei valori glicemici
misurati e la maggior parte hanno la possibilità di scaricare i dati sul PC per elaborazioni
statistiche (es. media della glicemia nei vari momenti della giornata, andamento nel tempo, ecc.) o
inviare i dati in un archivio remoto accessibile sia al paziente che al medico curante.
PROCEDURA STICK GLICEMICO:
-Lavarsi le mani accuratamente con acqua e sapone; assicurandosi al termine di asciugarle per
bene;
-Prelevare una striscia reattiva dal contenitore;
-Inserire la striscia reattiva nel glucometro. In genere, quando il dispositivo è pronto a rilevare la
glicemia, compare sullo schermo il simbolo di una goccia;
-Apporre all’interno del pungidito l’ago.
-Informare il paziente della procedura, portando a letto tutto l’occorrente;
-Indossare i guanti monouso ed effettuare una valutazione del dito da pungere;
-Effettuare la disinfezione cutanea del polpastrello;
-Pungere un polpastrello;
-Mettere in contatto la striscia reattiva con la goccia di sangue ed osservare il risultato, avendo
cura di posizionare un batuffolo di cotone non inumidito e bagnato con disinfettante;
-Riporre l’attrezzatura utilizzata nel suo posto, eliminare i dispositivi di protezione utilizzati ed
effettuare l’igiene delle mani;
-Si consiglia di annotare, ogni qualvolta si effettui la misurazione, il valore rilevato, così da
registrare eventuali sbalzi glicemici (si ricorda però che molti glucometri permettono di
conservare nella memoria interna al dispositivo stesso i valori di svariate decine di misurazioni
glicemiche).
Gli orari appropriati per le misurazioni glicemiche domiciliari sono poco prima della colazione,
del pranzo e della cena e circa due ore dopo l’inizio della colazione, del pranzo e della cena.
-Diabete e dieta : La dieta è essenziale, perché: il livello glicemico dipende anche, ma non solo,
dai carboidrati (zuccheri) che vengono assunti con la dieta; l’introito di grassi va controllato per
correggere la dislipidemia spesso frequente nel diabete tipo 2; l’eccesso di peso corporeo, che
contribuisce allo sviluppo del diabete tipo 2, va corretto con un introito di calorie inferiore alle
calorie consumate.
-Diabete e attività fisica : L’attività fisica è importante in quanto:contribuisce al calo di peso; fa
consumare glucosio nei muscoli e, quindi, riduce la glicemia; aumenta la sensibilità insulinica,
correggendo quindi una delle cause del diabete; aumenta il colesterolo HDL (“buono”) e riduce la
pressione arteriosa, migliorando fattori di rischio di complicanze croniche.
Trattamento farmacologico: l’insulina
L’insulina è un ormone peptidico ipoglicemizzante indispensabile per l’assorbimento del glucosio
da parte delle cellule dell’organismo. Viene secreto dalle cellule beta delle isole del Langerhans,
che ne costituiscono la parte endocrina. Viene somministrata per via sottocutanea mediante una
siringa, una penna o una pompa di insulina esterna.
Le diverse tipologie di insulina; Le insuline disponibili sono di due tipi:
1)Le insuline umane, che sono una riproduzione esatta dell’insulina umana
2) analoghe dell’insulina umana
Le insuline possono essere classificate in grandi famiglie.
Insuline basali
Le insuline basali: sono insuline lente e intermedie o semi lente, agiscono nel giro di qualche ora e
per un lungo periodo. Questo tipo di insulina può essere miscelata con l’insulina rapida ed essere
diluita in penne pre-riempite.
L’azione delle insuline intermedie o semi lente inizia circa dopo un’ora dall’iniezione e la loro
durata di azione va dalle 16 alle 20 ore. Sono insuline efficaci se vengono iniettate prima di andare
a dormire, per mantenere un tasso di glicemia corretto fino al mattino. L’insulina intermedia viene
di solito alternata a quella ad azione rapida per regolare la glicemia post-prandiale.
Insuline rapide
Le insuline rapide: sono delle preparazioni semplici e pure. Devono essere somministrate più volte
al giorno e la loro durata d’azione non supera le 6-8 ore:
Inizio effetto: 20-40 minuti
Picco: 90 minuti
Picco massimo atteso: 70 minuti
Risalita della glicemia: 4 ore
Fine totale dell’azione: 6- 8 ore
Somministrazione dell’insulina; L’insulina può essere utilizzata in diversi modi:
-Per via endovenosa (EV) l’azione dell’insulina è praticamente immediata e dura circa un’ora. È
utilizzata in casi di urgenza
-Per via intramuscolare (IM) l’azione è molto rapida - circa 10 minuti - e dura circa 2 ore
-Per via sottocutanea (SC) ha le caratteristiche ben note
PEOCEDURA SOMMINISTRAZIONE INSULINA P629
PROCEDURA APPROFONDIMENTI N.12 FILE ESAME DI STATO
66. PREVENZIONE E TRATTAMENTO DEL PIEDE DIABETICO E DELLE ULCERE
CRONICHE
Il piede diabetico costituisce la complicanza più invalidante dell'iperglicemia cronica trascurata: si
tratta di uno stato patologico che condiziona negativamente la qualità di vita del paziente, tanto da
richiedere una valutazione e gestione multidisciplinare che comprenda un team composto da
diabetologi, podologi, chirurghi, infermieri.
Obiettivo principale del trattamento del piede diabetico è senza dubbio prevenire l'ulcera plantare
e, nel caso d'infezione in corso, arginare l'insulto patogeno entro il più breve tempo possibile.
La gestione ed il monitoraggio frequente del paziente diabetico si rivelano indispensabili per
minimizzare il rischio di complicanze croniche, incluso il piede neuropatico (La neuropatia
diabetica colpisce sia i nervi sensitivi (neuropatia sensitiva) sia i nervi motori (neuropatia motoria)
sia i nervi vegetativi (neuropatia autonomica).
Il piede neuropatico pertanto è un piede in cui la neuropatia diabetica ha modificato l'equilibrio
muscolare, la percezione degli stimoli, l'autoregolazione vegetativa, cioè tutte e tre le componenti
nervose.).
La mancata medicazione della lesione ulcerosa nel piede diabetico riduce drasticamente le
possibilità di guarigione, esponendo il malato al rischio di cancrena, dunque di amputazione del
piede.
Una complicazione frequente e pericolosa di un’ulcera è l’infezione. Un’ulcera infetta può
provocare fenomeni sistemici che possono mettere a repentaglio non solo il salvataggio d’arto ma
la vita stessa del paziente. Il primo passo è distinguere se un’ulcera infetta necessita di
provvedimenti immediati al di là della medicazione o se è sufficiente un intervento medicativo. Le
infezioni compartimentali (ascesso) o le infezioni da anaerobi (gangrena gassosa) o da germi misti
(cellulite o fascite necrotizzante) richiedono provvedimenti terapeutici generali e chirurgici, che,
se non intrapresi con urgenza possono avere conseguenze molto gravi per il paziente. L’infezione
si instaura nella maggior parte dei casi su un’ulcera aperta da molto tempo e non adeguatamente
curata. L’infezione spesse volte è la causa che da sola determina la necessità di un’amputazione
maggiore, effettuata a livello di gamba o coscia.
La cura dell’ulcera plantare
La cura dell’ulcera neuropatica plantare si basa fondamentalmente su tre momenti:
•
la cura locale della lesione
•
il trattamento di eventuali infezioni
•
lo scarico della lesione ulcerativa
Il primo passo sarà il cosiddetto "debridement" dell’ulcera che consiste nell’eliminare tutti i tessuti
non vitali fino ad arrivare a tessuti ben sanguinanti Sovente questo approccio è mal compreso e
quindi mal accettato dal paziente che, prima del debridement, presenta una lesione non
sanguinante e di ridotte dimensioni. Il debridement, infatti, rimuovendo il tessuto non vitale,
evidenzia l’ulcera sottostante, nascosta dall’ipercheratosi, che presenta una dimensione
sensibilmente maggiore. Questo momento terapeutico è tuttavia indispensabile: l’ipercheratosi
non è un tessuto capace di rigenerare cellule viventi ma tende anzi a "soffocare" il tessuto vitale
sottostante necessario per la guarigione; se non si elimina l’ipercheratosi non si otterrà mai la
guarigione dell’ulcera. Ma il debridement è solo il primo passo nella cura dell’ulcera: se anche
abbiamo fatto un preciso debridement e applicato una medicazione "avanzata" di ultima
generazione ma rimettiamo il piede medicato in una scarpa qualsiasi non avremo eliminato la
causa che ha prodotto l’ulcera, cioè l’iperpressione e la frizione. I fibroblasti, cellule necessarie
per la guarigione dell’ulcera, se traumatizzati dal carico non possono adempiere correttamente alle
funzioni rigenerative, al contrario di quelli protetti da uno scarico adeguato. Un passo
indispensabile sarà quindi lo scarico della lesione ulcerativa; questo può essere ottenuto
banalmente col riposo a letto o con l’utilizzo della carrozzella. Tuttavia, un’ulcera impiega molto
tempo per guarire e rimanere a letto per 2-3 mesi non è solo difficile da attuare ma potrebbe
rivelarsi dannoso per l’organismo (si pensi, ad esempio, alla possibile formazione di nuove ulcere
da decubito al tallone o alle regioni sacrali). La terapia ottimale è uno "stivaletto" che permetta di
scaricare completamente il piede pur permettendo una relativa mobilità. Apparecchi di scarico
realizzati con materiali leggeri come la vetroresina, vengono utilizzati nei centri specializzati nella
cura del piede diabetico, consentendo una guarigione dell’ulcera plantare in percentuale molto
elevata e in tempi relativamente brevi. Oggi giorno ci sono in commercio svariati tipi di
medicazioni avanzate che assicurano permanenze in situ di più giorni.
Prevenzione
In generale si può affermare che la miglior difesa nei confronti di una malattia è la conoscenza
delle cause che possono determinarla; individuate tali cause è possibile scegliere le terapie più
idonee a prevenirla. In presenza di neuropatia sensitiva si provvederà a visionare con frequenza il
piede, a valutare l’idoneità delle scarpe, la temperatura dell’acqua del pediluvio col gomito, a non
camminare a piedi nudi sulla sabbia. Qui di seguito si riportano le regole fondamentali per la
prevenzione:
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Ispezionare e lavare ogni giorno i piedi
Controllare la temperatura dell’acqua col gomito o col termometro
Asciugare bene ma delicatamente, eventualmente con phon
Usare calze che non stringano e cambiarle ogni giorno
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Idratare il piede se secco con creme specifiche
Non usare callifughi o strumenti taglienti per le callosità
Tagliare le unghie con forbice a punte smusse, arrotondare con lima di cartone
Non camminare a piedi scalzi
Non usare fonti di calore dirette (borse d’acqua calda, calorifero, camino, etc)
Usare scarpe comode con punta rotonda e tacco non superiore a 4 cm
Quando si calzano scarpe nuove, controllare il piede dopo pochi minuti di cammino.
16)Disturbi di eliminazione urinaria (incontinenza/ritenzione)
Che cos'è la Minzione?
In termini generali, la minzione può essere definita come l'atto di espellere le urine, quindi come
l'atto di urinare.
Entrando più nel dettaglio, tuttavia, è possibile descrivere la minzione come l'insieme dei processi
fisiologici - di natura sia volontaria che involontaria - che porta allo svuotamento del contenuto
della vescica, quindi all'eliminazione delle urine, attraverso l'uretra.
La ritenzione urinaria è definita come l’incapacità a svuotare completamente la vescica a causa di
alterazioni a carico dello sfintere uretrale o del muscolo detrusore con la conseguente formazione
del cosiddetto globo vescicale per accumulo dell’urina normalmente prodotta dai reni fino a
trattenere volumi di urina molto elevati (>2000ml). Si parla di ritenzione urinaria acuta quando si
presenta improvvisamente ed è accompagnata da dolore e dalla incapacità di svuotare la vescica
anche se piena, mentre si parla di ritenzione urinaria cronica quando il fenomeno è quasi sempre
indolore in presenza di ristagno vescicale. La ritenzione urinaria è una complicanza che si verifica
in diverse condizioni patologiche, le quali sono comunemente classificate in:
ostruttive, infettive, infiammatorie, farmacologiche, neurologiche, complicanze post-operatorie,
gravidanza, traumi.
Indipendentemente dalla causa sottostante, la ritenzione urinaria si verifica quando il paziente non
è in grado di urinare e il ristagno vescicale supera i 400ml.
In letteratura il volume del ristagno vescicale varia da 150 a 600ml. In questo caso è opportuno il
cateterismo vescicale seguito dal trattamento della causa.
Il posizionamento del catetere vescicale è indicato per:
-monitoraggio della diuresi delle 24 ore
-interventi chirurgici complessi
-interventi chirurgici urologici
-ritenzione urinaria con ristagno >1000ml
Una volta posizionato, il catetere vescicale dovrebbe essere rimosso prima possibile, perché
l’incidenza di infezioni urinarie correlate al catetere è molto elevata e grava pesantemente
sull’ospedalizzazione, sulla qualità della vita della persona e sui costi sanitari.
PROCEDURA CATETERISMO VESCICALE P458 , 465
Nel momento in cui viene raccomandato l’uso del catetere l’infermiere deve indicare sulla scheda
infermieristica:
-le indicazioni relative al cateterismo (data, orario di cateterizzazione e di rimozione, quantità di
urina presente nella sacca)
-i segni e i sintomi del soggetto al momento della cateterizzazione (agitazione, presenza di globo
palpabile);
-i dati relativi alla ripresa della diuresi spontanea (prima minzione, quantità, orario).
Ritenzione urinaria: Accertamento ed interventi infermieristici
-Accertare la quantità, la frequenza e l’aspetto delle urine
-Accertare il modello di eliminazione del soggetto, storia di precedenti problemi urinari
-Monitorare i parametri vitali e il bilancio idrico
-Verificare la presenza di edemi periferici
-Registrare gli intervalli tra le minzioni e misurare il volume urinario
-Eseguire la palpazione e la percussione della zona sovra pubica
-Chiedere al paziente se avverte dolore, senso di pienezza, difficoltà ad urinare
_Valutare attraverso l’ecografia pelvica il volume residuo di urina nella vescica ed eseguire il
cateterismo (se indicato) rispettando la tecnica asettica
-Decomprimere la vescica moderatamente
-Controllare il peso corporeo ogni giorno
-Se possibile far urinare il paziente in posizione eretta
-Garantire il più possibile la privacy
-Effettuare manovre che possono facilitare la minzione
-Educare il paziente a riconoscere segni e sintomi di distensione della vescica e riduzione della
diuresi
-Educare il paziente a riconoscere segni e sintomi di infezione del tratto urinario.
La ritenzione urinaria si diagnostica prevalentemente con l’esame obiettivo e con la valutazione
del residuo vescicale. Il soggetto con ritenzione acuta ha di solito un intenso desiderio di urinare e
un dolore pressorio soprapubico. Alcuni soggetti riferiscono disfunzioni (nicturia, flusso urinario
debole, perdite post svuotamento, iscuria paradossa) che peggiorano gradualmente dopo giorni o
settimane, mentre altri avvertono una perdita improvvisa della capacità di urinare senza sintomi
associati. Il segno oggettivo di ritenzione è la variazione del residuo post minzionale o la presenza
di distensione vescicale (globo) palpabile. Il residuo post minzionale può essere valutato o con
l’uso del catetere o con una ultrasonografia.
L’incontinenza urinaria è caratterizzata dal rilascio involontario di urina.
L’incontinenza può colpire sia gli uomini sia le donne di qualsiasi età, ma è più diffusa fra le
donne e gli anziani, interessando il 30% circa delle donne anziane e il 15% degli uomini anziani.
Sebbene l’incontinenza sia un disturbo più diffuso fra gli anziani, non è una normale conseguenza
del processo di invecchiamento. Può essere un disturbo improvviso e temporaneo, ad esempio
concomitante all’assunzione di un farmaco con effetti diuretici oppure può durare a lungo
(cronica). Anche l’incontinenza cronica può, talvolta, essere guarita.
Esistono diversi tipi di incontinenza:
-L’incontinenza da urgenza è una perdita non controllata di urina (di volume da moderato ad
ampio) che si verifica immediatamente dopo un bisogno urgente e irrefrenabile di urinare.
Svegliarsi durante la notte per urinare (nicturia) e l’incontinenza notturna sono fenomeni comuni.
-L’incontinenza da stress è una perdita di urina dovuta ad aumenti repentini della pressione
intraddominale (ad esempio, durante un colpo di tosse, uno starnuto, una risata, un piegamento o
un sollevamento di pesi). Il volume della perdita è normalmente da basso a moderato.
-L’incontinenza da rigurgito è una perdita di urina che fuoriesce da una vescica troppo piena. Il
volume è generalmente esiguo, ma la perdita può essere costante, causando una perdita totale
consistente.
-L’incontinenza funzionale è una perdita di urina causata da un disturbo cognitivo o fisico non
associato al controllo della minzione. Ad esempio, una persona affetta da demenza dovuta a
morbo di Alzheimer potrebbe non riconoscere l’urgenza di urinare o potrebbe non sapere dove si
trova la toilette. Le persone costrette a letto potrebbero non essere in grado di recarsi alla toilette o
di raggiungere la padella.
Sono diversi i meccanismi che possono portare all’incontinenza urinaria. Spesso si tratta di una
combinazione di meccanismi: Debolezza dello sfintere urinario o della muscolatura pelvica (detta
incompetenza del collo vescicale), Presenza di un’ostruzione sul percorso dell’urina in uscita dalla
vescica (ostruzione del collo vescicale). Spasmo o iperattività della muscolatura delle pareti
vescicali (vescica iperattiva), Debolezza o deficit della muscolatura delle pareti vescicali, scarsa
coordinazione tra muscolatura della parete vescicale e sfintere urinario, Un aumento del volume
urinario, Problemi funzionali
La debolezza o il deficit della muscolatura della parete vescicale, l’ostruzione del collo vescicale o
in particolare entrambe queste condizioni possono causare incapacità di urinare (ritenzione
urinaria). La ritenzione urinaria, paradossalmente, può causare incontinenza da rigurgito a causa di
perdite determinate dalla vescica stracolma.
Misure generali: Indipendentemente dal tipo e dalla causa dell’incontinenza è utile adottare alcune
misure generiche.
-Modificare l’apporto di liquidi
-Allenamento della vescica
-Esercizi per il pavimento pelvico
Il consumo di liquidi può essere limitato in determinati orari (ad esempio, prima di uscire o 3-4
ore prima di coricarsi). Il medico potrebbe suggerire al paziente di evitare bevande che irritano la
vescica (come bevande contenenti caffeina). È tuttavia necessario consumare da 1500 a 2000 ml
di liquidi al giorno per evitare di concentrare l’urina, causa di irritazione vescicale.
L’allenamento della vescica è una tecnica per cui la persona è tenuta a seguire un programma fisso
di minzione durante la veglia. Il medico collabora con il paziente per la creazione di un
programma in cui sia prevista una minzione ogni 2-3 ore ed eliminando l’urgenza di urinare
durante i restanti orari (ad esempio con il rilassamento e la respirazione profonda). Man mano che
il paziente progredisce nella capacità di eliminare l’urgenza di urinare, l’intervallo si allunga
gradualmente. Una tecnica simile, la minzione sollecitata, può essere usata da chi si prende cura di
un soggetto affetto da demenza o altri problemi cognitivi. Questa tecnica prevede che, a intervalli
specifici, si domandi al paziente se deve urinare e se si sente bagnato o asciutto.
Gli esercizi per la muscolatura del pavimento pelvico (esercizi di Kegel) sono spesso efficaci,
specialmente per l’incontinenza da stress. È necessario assicurarsi di allenare i muscoli giusti, cioè
quelli attorno all’uretra e al retto che interrompono il flusso di urina. Questi muscoli vengono
contratti per circa 1-2 secondi, quindi rilassati per circa 10 secondi. Gli esercizi vengono ripetuti
circa 10 volte per tre volte al giorno. Sarà poi possibile aumentare gradatamente il tempo di
contrazione ferma dei muscoli fino a mantenerla per circa 10 secondi a volta. Poiché può essere
difficile imparare a controllare i muscoli corretti, il medico potrebbe dover fornire delle istruzioni
o raccomandare l’uso di biofeedback o elettrostimolazione (una versione elettronica degli esercizi
per la muscolatura del pavimento pelvico in cui si usa la corrente elettrica per stimolare i muscoli
corretti).
Incontinenza urinaria ed interventi infermieristici:
-Valutare la durata, la frequenza e le caratteristiche dell’incontinenza
-Valutare storia di interventi di chirurgia pelvica
-Terapia farmacologica
-Valutare se l’incontinenza si verifica durante lo sforzo fisico. Eseguire il “test della tosse”
-Accertare gravidanze pregresse
-Accertare presenza di prolasso uterino
-Palpare l’addome per rilevare masse o globo vescicale
-Accertare la presenza di malattie neurologiche, ictus, malattie cronico-degenerative, diabete
mellito, obesità
-Valutare il grado di autonomia e lo stato cognitivo utilizzando scale di valutazione
scientificamente validate
-Chiedere al paziente di tenere un diario minzionale per valutare il modello urinario
-Incoraggiare il paziente ad assumere un adeguato volume di liquidi per la tendenza a ridurre
l’introito di liquidi e limitare gli episodi di incontinenza
-Ai pazienti obesi consigliare di perdere peso avvalendosi del supporto di un nutrizionista
-Favorire l’aderenza alla terapia farmacologica prescritta
-Insegnare al paziente gli esercizi di Kegel (contrazioni volontarie dei muscoli del pavimento
pelvico che sostengono utero, uretra, vescica e retto utili a migliorarne il tono muscolare) per
rafforzare i muscoli del pavimento pelvico
-Informare il paziente sui possibili presidi per l’incontinenza come pannolini assorbenti o slip
assorbenti progettati per assorbire l’urina
-Favorire l’accesso alla toilette e consigliare le minzioni programmate
-Educare il paziente a ridurre il consumo di caffeina e alcol
-Pianificare interventi educativi per la ginnastica vescicale e gli esercizi di Kegel
-Valutare la disponibilità di servizi igienici o presidi che possano facilitare la minzione
-Valutare il grado di autonomia del paziente nel raggiungere il bagno
-Accertare la disponibilità di servizi igienici al domicilio del paziente: distanza dalla camera al
bagno, ostacoli lungo il percorso, illuminazione adeguata, presenza di tappeti, presenza o meno di
presidi per disabili
-Valutare il bisogno del paziente di dispositivi di assistenza come deambulatori, sedie a rotelle,
comode, ecc.
-Consigliare l’uso di indumenti facili da rimuovere, larghi, con elastici piuttosto che bottoni
-Garantire la privacy
-Educare i familiari sull’importanza di rispondere alle richieste dell’assistito di urinare
-Negli uomini applicare il condom che consente al paziente di restare asciutto, soprattutto nelle
ore notturne
-Eseguire il cateterismo ad intervalli regolari
-Prevenire l’irritazione della cute ed eventuali lesioni correlate alla presenza di urina
-Pianificare interventi educativi per l’auto-cateterismo.
Esercizi dei muscoli pelvici: gli esercizi della muscolatura pelvica o esercizi di Kegel sono
un’ulteriore alternativa che prevede una serie di esercizi utilizzati per rinforzare i muscoli
volontari che aiutino la continenza sia negli uomini che nelle donne.
Questo tipo di esercizi ai muscoli pelvici consiste in un programma di contrazioni ripetute
insegnate da un infermiere. La formazione include almeno 24 contrazioni al giorno per un periodo
iniziale di 6 settimane.
La corretta tecnica di esecuzione degli esercizi di Kegel prevede:
Lo svuotamento iniziale della vescica;
Stringere i muscoli del pavimento pelvico e mantenerli contratti contando fino a 5;
Rilassare i muscoli completamente contando fino a 10 (il tempo di rilascio dovrebbe essere circa il
doppio quello di contrazione);
Fare una serie di 10 esercizi, 3 volte al giorno (mattina, pomeriggio e notte).
-Svuotamento programmato o a tempo della vescica. Lo svuotamento programmato prevede la
minzione esortata dal caregiver o dall’infermiere. Questo tipo di intervento fa diminuire gli
episodi di incontinenza. Viene utilizzata in pazienti anziani fragili che hanno < 4 episodi di
incontinenza urinaria al giorno. La persona dovrebbe continuare con questa tecnica solo se c’è una
riduzione del 20% di episodi d’incontinenza.
-Diario della vescica. Il “diario della vescica” permette di porre diagnosi d’incontinenza urinaria.
L’anziano su questo diario deve registrare giornalmente quanti liquidi ha assunto, i tempi di
minzione e quanti episodi di incontinenza urinaria si sono manifestati. Questo può essere fatto sia
dal paziente che dal caregiver ed è utile per identificare le cause di incontinenza urinaria ma non è
sempre attuabile per i fragili.
38. PROCEDURE DI MEDICAZIONI SEMPLICI E AVANZATE.
La ferita è un’interruzione della continuità della cute, che può interessare anche la mucosa
sottostante ed i tessuti profondi. Le ferite chirurgiche sono soluzioni di continuo della cute a
comparsa programmata, condotte secondo le più rigorose norme di asepsi, che dovrebbero andare
incontro a guarigione senza complicazioni per prima intenzione.
Possiamo distinguere le ferite in:
Superficiali: se interessano solo i primi strati della cute.
Profonde: se interessano muscoli, ossa od organi interni.
Penetranti: se l’azione traumatica raggiunge cavità anatomiche come l’addome ed il torace.
Inoltre, una ferita può essere:
pulita: non infetta e senza segni di infiammazione, guarisce per 1^ intenzione.
Pulita-contaminata: ferita chirurgica relativa ad interventi del tratto respiratorio, digerente,
genitale, in condizioni controllate.
Contaminata: aperta, in cui si evidenzia un processo infiammatorio non purulento, con
interruzione delle procedure asettiche.
Sporca: ferita traumatica non recente con ritenzione di tessuto devitalizzato.
La guarigione può avvenire:
PER PRIMA INTENZIONE: i bordi della ferita sono ben appaiati, tenuti da suture, graffe
metalliche, cerotti adesivi, ecc., i margini sono quindi regolari e ciò permette una buona
guarigione favorendo il processo di granulazione. Per queste ferite si raccomandano buona
detersione con acqua sterile e copertura con garze sterili; non sono indicati antisettici, né
particolari medicazioni. La medicazione va sostituita se bagnata o sporca e non è necessaria
cambiarla tutti i giorni. Da tenere sotto controllo eventuali segni e sintomi di infezione.
PER SECONDA INTENZIONE: i bordi della ferita non sono appaiati e la continuità dei tessuti è
compromessa, con perdita di sostanza; quindi, i margini non possono essere suturati. Vanno
trattate come normali ferite, coperte da garze sterili e protette da traumi. Controllare segni e
sintomi di infezioni od emorragie. Si può accelerare il processo di riparazione tessutale con l’uso
di idrocolloidi, film o schiume di poliuretano, idrofibre, medicazioni non aderenti paraffinate.
PER TERZA INTENZIONE: per ferite chirurgiche infettatesi o andate incontro a complicanze (ad
es. deiscenza, ovvero riapertura della ferita) nel decorso post-operatorio. In caso di deiscenza la
ferita viene riaperta, detersa e vengono asportate le aree mortificate e fatto un adeguato zaffaggio.
In seguito, si può procedere con una nuova sutura dei lembi.
Fattori che influenzano il processo di guarigione delle ferite:
Intrinseci (correlati al pz): età, stato nutrizionale, diabete, tabagismo, obesità, infezioni pregresse.
Estrinseci: lavaggio delle mani degli operatori, tricotomia, procedure asettiche, inadeguata
sterilizzazione degli strumenti chirurgici.
Complicanze delle ferite
◦
Emorragia
◦
Ematoma
◦
Deiscenza
◦
Eviscerazione
◦
Fistole
◦
Infezioni
MEDICAZIONE DELLE FERITE
Tecnica atta a verificare, curare e proteggere una ferita al fine di favorire la rigenerazione e la
guarigione del tessuto.
La scelta della medicazione deve tenere conto della sede, dell’estensione, del tipo e della
condizione della ferita.
In generale, i requisiti di una medicazione ideale sono: impermeabilità, buon isolamento termico,
promozione di un ambiente umido del letto della ferita, atraumatiche alla rimozione.
Medicazioni semplici ed avanzate
Le medicazioni possono essere semplici o avanzate, la scelta varia in base al tipo di ferita.
I presupposti della medicazione semplice sono l’assorbimento dei liquidi fino all’essiccamento,
l’emostasi, l’antisepsi, la protezione dalle infezioni e l’occultamento della ferita. Le medicazioni
semplici sono quindi atte a proteggere e curare una ferita non complicata da drenaggi, con
secrezione minima, senza perdita di sostanza e che guariscono di prima intenzione.
Quelli della medicazione avanzata sono il mantenimento di un ambiente umido, la rimozione degli
essudati e del materiale necrotico, il mantenimento di una temperatura costante, la permeabilità
all’ossigeno, la protezione da infezioni esogene e l atraumaticità durante il cambio della
medicazione.
La medicazione prevede 4 fasi:
◦
Detersione;
◦
Antisepsi;
◦
Sbrigliamento;
◦
Medicazione avanzata;
Detersione
Consiste nell’irrigare la ferita con soluzione fisiologica o Ringer lattato (magari preriscaldato). Per
detergere le ferite contaminate è preferibile lo iodopovidone.
La finalità di questa manovra è la rimozione del materiale necrotico e della carica batterica.
Antisepsi
Gli antisettici possono essere utilizzati per l’irrigazione, la pulizia e lo sbrigliamento delle ferite.
Per le ferite infette sono disponibili vari tipi di antisettici, che dopo l’applicazione di questi ultimi,
vanno lavate con ulteriore detersione.
Gli antisettici più utilizzati sono la clorexidina allo 0,05% e lo iodopovidone all’1% (attenzione
perché provoca citotossicità a livello sistemico se uso prolungato).
È consolidato l’uso di antisettici a base di argento in forma ionica per la medicazione delle ferite
per le loro attività ad ampio spettro contro batteri, virus, miceti e protozoi.
Sbrigliamento
Ha lo scopo di rimuovere il materiale necrotico, la carica batterica, l’eccesso di essudato e di
proteggere i bordi. Lo sbrigliamento può essere:
meccanico: favorisce l’idratazione dell’escara che può essere rimossa più facilmente con le pinze
o attuando uno sfregamento con garza.
Enzimatico: si attua con prodotti a base di enzimi proteolitici. Per questo metodo vengono
impiegati agenti enzimatici: le proteasi. Si trovano sotto forma di liquidi o pomate ed hanno
origine batterica, animale o vegetale ed agiscono rompendo i ponti di collagene denaturato della
necrosi
Autolitico: è un metodo che utilizza l'autodigestione dell'escara attraverso l'utilizzo di enzimi
proteolitici che sono già presenti nel liquido di ferita. Es. idrocolloidi (idrogel), ottimi appunto per
lesioni con escara perché ne consentono la rimozione più facile, agiscono permeando i tessuti
necrotici favorendone così l'autolisi.
Chirurgico: consigliato quando la rimozione dell’escara è urgente per la presenza di infezioni, con
l’utilizzo di strumenti chirurgici.
Medicazioni avanzate
Sono in grado di promuovere la guarigione della ferita in ambiente umido, al contrario di quelle
tradizionali (come le garze) che tendono ad essiccarla. Le medicazioni avanzate assorbono una
buona quantità di essudato, proteggono la cute peri lesionale sana, hanno un’azione battericida.
Come sistemi di fissaggio delle medicazioni possono essere utilizzati:
-placche idrocolloidi auto fissanti; cerotti in tessuto non tessuto;
-pellicole semipermeabili.
-cerotti di carta, da utilizzare in caso di allergie.
TIPI DI MEDICAZIONE
Medicazioni a piatto
Medicazioni semplici. Di solito utilizzate per ferite in fase di cicatrizzazione con assenza di segni
e sintomi di flogosi, che guariscono per prima intenzione. Come già detto in precedenza, per
questo tipo di ferite, basta la detersione con fisiologica e utilizzo di garze sterili.
I movimenti durante la detersione vanno effettuati dall’interno verso l’esterno.
Medicazioni asciutte
Utilizzate primariamente per ferite chiuse che guariscono per prima intenzione. Offrono una
buona protezione della ferita, assorbono secrezioni e favoriscono la compressione, se necessario,
per l’emostasi.
Svantaggi: aderiscono alla superficie della ferita quando le secrezioni si asciugano e la rimozione
può causare dolore e rottura del tessuto di granulazione, per questo bisogna inumidire la ferita con
soluzione fisiologica, prima di staccare la medicazione.
Medicazioni bagnate
Utilizzate per detergere ferite aperte o superfici granuleggianti. Per saturare la medicazione può
essere utilizzata solo soluzione fisiologica, o se necessario, anche una soluzione antisettica adatta.
Forniscono un ambiente più fisiologico (calore, umidità), che può potenziare i processi di
guarigione locali. L’essudato denso è rimosso più facilmente.
Svantaggi: i tessuti circostanti possono macerarsi, il rischio di infezioni può aumentare e la
biancheria bagnarsi.
Medicazioni bagnate-asciutte
Sono particolarmente utili per le ferite irregolari o infette che devono essere sbrigliate e che
guariscono per seconda intenzione.
La garza saturata con soluzione fisiologica (preferibilmente) o con una soluzione antimicrobica,
viene zaffata nella ferita, eliminando lo spazio morto. Queste medicazioni bagnate vengono poi
coperte con altre asciutte (garze, tamponi).
Man mano che la medicazione si asciuga, i frammenti solidi ed il tessuto necrotico sono assorbiti
nella garza per azione capillare.
Zaffatura: riempimento di una cavità con garze sterili assorbenti o medicazioni di idrocolloidi,
schiume di poliuretano, alginati (questi prodotti creano un ambiente umido e favoriscono la
granulazione).
18)PROTOCOLLO BLS-D
In un’emergenza l’infortunato si può ritrovare in molte condizioni, tra le quali:
•
persona priva di sensi (persona svenuta);
•
persona con un blocco meccanico delle vie aeree (oggetti nella gola dei bambini, acqua)
•
persona sottoposta a folgorazione elettrica;
•
paziente in totale arresto cardiaco con temporaneo stato di coma.
In questi casi, interventi tempestivi basati sulla valutazione dei PV sono indispensabili per salvare
la vita della persona.
Il bls è l’ACRONIMO di Basic Life Support (in italiano sostegno di base alle funzioni vitali) è
una tecnica di primo soccorso che può essere determinante.
La tecnica BLS, che comprende la rianimazione cardiopolmonare (RCP) è compresa nella
sequenza di supporto di base alle funzioni vitali.
La definizione BLS/D si riferisce al protocollo BLS con l'aggiunta della procedura di
defibrillazione (che è lo standard progressivo nei corsi di formazione per soccorritori laici).
FUNZIONE
Lo scopo di tale manovra è quello di mantenere ossigenati il cervello e il muscolo cardiaco,
insufflando artificialmente aria nei polmoni e provocando, per mezzo di spinte compressive sul
torace, un minimo di circolazione del sangue.
LA CATENA DELLA SOPRAVVIVENZA
La sopravvivenza è strettamente dipendente dalla realizzazione ordinata di una serie di interventi;
la metafora della "catena" sta a simboleggiare da un lato l'importanza della sequenza, e il fatto
che, se una delle fasi di soccorso è mancante, le possibilità di sopravvivenza sono ridottissime.
La catena è formata da quattro anelli, che sono nell'ordine:
1.Accesso precoce al sistema di emergenza (118 Numero nazionale per le emergenze sanitarie).
2.Inizio precoce delle procedure di BLS.
3.Defibrillazione precoce, cioè l'arrivo precoce sul posto di un'équipe in grado di praticare la
defibrillazione.
4.Inizio precoce del trattamento intensivo (da parte di personale medico e infermieristico
adeguatamente formato).
VALUTAZIONE DELLA SCENA
All'arrivo sulla scena, prima di effettuare qualsiasi azione sul soggetto, il soccorritore deve
accertarsi che la zona in cui agisce sia priva di pericoli che potrebbero pregiudicare la salute del
soccorritore e dell'assistito. Nel caso in un cui la zona non sia sicura è necessario avvertite le
autorità competenti, ad esempio i Vigili del fuoco. Se la zona è sicura, allora è possibile procedere
con le manovre del BLS. La rianimazione viene praticata esclusivamente su un soggetto
incosciente, che non risponde al richiamo verbale e agli stimoli tattili (per esempio, se scosso).
Valutare se il soggetto è vittima di un malore oppure di un trauma; nel secondo caso non muovere
il paziente e contattare immediatamente il 118.
LINEE GUIDA 2010 DELL’AMERICAN HEART ASSOCIATION PER RCP E ECC
A CHI PRATICARE IL RCP?
Soggetto che:
•È incosciente
•Non respira
•Non ha segni di circolazione
Verificare e se necessario sostenere le funzioni vitali di base allo scopo di PREVENIRE I DANNI
ANOSSICI CEREBRALI NEL SOGGETTO ADULTO IN CUI RISULTANO COMPROMESSE
UNA O PIU’ FUNZIONI VITALI:
•NON È COSCIENTE
•NON RESPIRA
•NON HA ATTIVITA’ CARDIACA
SECONDO LE NUOVE LINEE GUIDA 2010:
Valutazione parametri vitali:
1.Capacità respiratoria: Veloce riconoscimento delle seguenti situazioni: Assenza di respiro e
Difficoltà di respiro (boccheggia).
2.Polso carotideo: se c’è difficoltà oggettiva di rilevamento del polso carotideo.
La vittima respira?
SI: Mettere in posizione laterale di sicurezza (non nel trauma!!!)
•Osservare
NO, OPPURE RESPIRA MALE: PCR
NEL 2005 SI SEGUIVA LO SCHEMA “ABC”:
Airways
VIE AEREE
Breathing
RESPIRAZIONE
Circulation
CIRCOLAZIONE
ADESSO 2010: COMPRESSIONI TORACHICHE PRIMA DELLE VENTILAZIONI
Con le linee guida del 2010 c’è stata una semplificazione della procedura di compressione:
2005: Scorri lungo il margine costale. fino allo sterno. Posiziona l’altra mano sullo sterno.
sovrapponi le mani.
2010:
•Inginocchiarsi a fianco della vittima.
•Porre il palmo di una mano al centro del torace della vittima.
•Incrociare le dita dell’altra mano ed assicurarsi che la pressione non venga impressa sulle coste.
Ed anche un’ottimizzazione della procedura di compressione:
•
2005: Frequenza compressioni: circa 100/min. Profondità compressioni: 4 cm.
•
•2010: Comprimere il torace 5 centimetri. Mantenere una frequenza di >100 compressioni
Ottimizzazione del ritorno venoso). Ridurre al minimo i tempi di assenza di compressione
(Riduzione dei tempi di assenza di compressione.
•
Ottimizzazione della perfusione)
FASE A: AIRWAY
Apertura delle vie aeree:
•iperestendi il capo
•solleva il mento
Una volta iperesteso il capo, la bocca si apre, per cui si può valutare la presenza di corpi estranei,
che vanno RIMOSSI.
N.B. Le protesi dentarie ben posizionate e stabili non devono essere rimosse.
SOSPETTO DI UN TRAUMA CERVICALE: Se esiste il sospetto di un trauma cervicale la
manovra di iperestensione dovrebbe essere sostituita dalla manovra di sublussazione della
mandibola.
SUBLUSSAZIONE DELLA MANDIBOLA: Questa viene eseguita sollevando la mandibola con
entrambe le mani mentre i pollici spingono avanti il mento.
Se disponibile, in questa fase va usata la CANNULA FARINGEA che facilita il mantenimento
della pervietà delle vie aeree durante la RCP. Il dispositivo è utilizzato mantenendo l'iperstensione
del capo; la cannula va inserita nella bocca con la concavità rivolta verso il naso e poi a metà del
percorso ruotata di 180° ed introdotta fino a che l'anello esterno si sovrappone all'arcata dentale.
FASE B: BREATHING: Ventilazioni bocca-bocca
•2 insufflazioni ogni 30 compressioni
•Ogni ventilazione deve durare 1 s
•La ventilazione non dovrebbe eccedere 5 s
•Ridurre il tempo di assenza di compressione
QUESTE PROCEDURE SOPRA DESCRITTE SONO RIFERITE AD UN SOLO OPERATORE
ADDESTRATO.
NEL CASO CI SIANO DUE OPERATORI ADDESTRATI SULLA SCENA:
1.1 operatore comprime il torace (C)
2.1 operatore libera le vie aeree (A) in attesa che vengano praticate le 30 compressioni per
praticare le 2 insufflazioni.
CAMBIO DEL RUOLO DEI DUE SOCCORRITORI:
VA EFFETTUATO OGNI 5 CICLI (CIRCA 2 MINUTI)
- deve avvenire durante l’esecuzione delle 2 ventilazioni
-il leader (chi è alla testa) effettua le ultime 2 insufflazioni,
-poi si sposta al fianco della persona e inizia le 30
-compressioni
-colui che massaggiava si sposta alla testa per ventilare
Continua le manovre di rianimazione fino a che: La vittima mostra la ricomparsa di segni vitali.
VENTILAZIONI CON MEZZIA AGGIUNTIVI: Ventilazione pallone-maschera.
•
Praticare respirazione di soccorso con una frequenza di circa 1 insufflazione ogni 6-8
secondi (da 8 a 10 insufflazioni al minuto).
•
Evitare una ventilazione eccessiva.
CERCARE UN DEFIBRILLATORE
PERCHE’ RUOLO CENTRALE DEL DEFIBBRILLATORE?
•
FIBRILLAZIONE VENTRICOLARE FV
•
TACHICARDIA VENTRICOLARE SENZA POLSO TV.
•
Sono e cause più frequenti di arresto cardiaco
•
L’unico trattamento salvavita è la DEFIBRILLAZIONE, che consiste nel far attraversare il
cuore da una scarica di corrente elettrica sufficiente a depolarizzare una massa critica di miocardio
al fine di ottenere un’attività elettrica organizzata.
Il soccorritore smetterà il massaggio cardiaco esclusivamente se:
•
si modificano le condizioni del luogo, che non diventa più sicuro. In caso di grave pericolo
il soccorritore ha il dovere di mettersi in salvo.
•
arriva l'ambulanza con medico a bordo o l'auto medica inviata dal 118.
•
arriva soccorso qualificato con una più efficace attrezzatura
•
è sfinito e non ha più forze (anche se in questo caso in genere si chiedono i cambi, in
maniera tale da non interrompere il ciclo compressioni-insufflazioni).
•
il soggetto riprende le funzioni vitali.
ASSISTENZA AL PZ. CON AVVELENAMENTO
L’intossicazione è dovuta all’esposizione a una sostanza che determina effetti tossici. I sintomi
sono variabili, ma alcune sindromi tipiche suggeriscono l’esposizione a particolari classi di
sostanza tossiche.
La maggior parte delle intossicazioni è dose-correlata. La dose è determinata dalla
concentrazione nel tempo. L'intossicazione può derivare dall'esposizione a quantità eccessive di
sostanze normalmente non tossiche. In alcuni casi, le intossicazioni sono causate dall'esposizione
a sostanze che sono tossiche anche a dosi minimali. L'intossicazione viene distinta
dall'ipersensibilità e dalle reazioni idiosincrasiche, imprevedibili e non dose-correlate, e
dall'intolleranza, reazione a una sostanza utilizzata a un dosaggio normalmente non tossico.
L'intossicazione è comunemente dovuta ad ingestione, ma si può manifestare anche per
iniezione, inalazione o esposizione delle superfici corporee (p. es., cute, occhi, mucose). Molte
sostanze non alimentari comunemente ingerite generalmente non sono tossiche; tuttavia, quasi
tutte le sostanze possono determinare tossicità se ingerite in quantità eccessive.
L'intossicazione accidentale è frequente tra i bambini, che, essendo curiosi, ingeriscono
indiscriminatamente oggetti nonostante sapori e odori fastidiosi; generalmente, è coinvolta una
singola sostanza. L'intossicazione è frequente anche tra bambini più grandi, adolescenti e adulti
che tentano il suicidio; possono essere coinvolte diverse sostanze, compresi alcol, acetaminofene
(paracetamolo) e altri farmaci da banco. L'intossicazione accidentale può manifestarsi in soggetti
anziani per confusione, presbiopia, alterazione dello stato mentale o prescrizioni multiple di uno
stesso farmaco da parte di differenti medici.
Talvolta, l'intossicazione avviene a scopo criminale da parte di qualcuno che intende uccidere o
debilitare le sue vittime (p. es., violenza sessuale o furto). Le sostanze usate per debilitare un
individuo (p. es., scopolamina, benzodiazepine, gamma-idrossibutirrato) possiedono proprietà
sedative o amnesiche o entrambe. Raramente, genitori con conoscenze mediche avvelenano i
propri figli per provocare una malattia per motivi psichiatrici poco chiari oppure per attirare
l'attenzione del medico (un disturbo chiamato disturbo fittizio imposto su un altro
[precedentemente nota come sindrome di Munchausen per procura]).
Dopo l'esposizione o l'ingestione e l'assunzione, la maggior parte delle sostanze tossiche viene
metabolizzata, attraversa il tratto gastrointestinale e viene escreta. Occasionalmente, le
compresse (p. es., aspirina, ferro o farmaci gastroresistenti) formano grosse concrezioni (bezoari)
nel tratto gastrointestinale, dove tendono a rimanere, determinando tossicità dovuta al continuo
e prolungato assorbimento.
SINTOMATOLOGIA
La sintomatologia dell'avvelenamento varia in base al tipo di sostanza. Inoltre, i pazienti
intossicati da una stessa sostanza possono presentarsi con sintomi molto differenti tra loro.
Tuttavia, in genere, si manifestano comunemente 6 gruppi di sintomi (o sindromi tossicologiche
tipiche, tossidromi) che orientano verso un'intossicazione causata da specifiche classi di
sostanze. I pazienti che ingeriscono più sostanze presenteranno con minori probabilità i sintomi
caratteristici dell'intossicazione tipica di una singola sostanza.
a sintomatologia tipicamente inizia subito dopo l'esposizione alla sostanza tossica, ma in alcuni
casi può essere ritardata. L'insorgenza ritardata dei sintomi si manifesta quando la tossicità è
dovuta al metabolita e non alla sostanza originaria (p. es., metanolo, glicole etilenico,
epatotossine). L'ingestione di epatotossine (p. es., acetaminofene [paracetamolo], ferro , funghi
della specie Amanita phalloides ) causa un'insufficienza epatica acuta da uno o pochi giorni dopo
l'esposizione. Nel caso di esposizione a metalli o solventi idrocarburici, i sintomi generalmente
compaiono solo dopo esposizione cronica.
Solitamente le tossine ingerite o assorbite causano sintomi sistemici. Le sostanze caustiche e
corrosive in forma liquida provocano lesioni principalmente a carico delle mucose del tratto
gastrointestinale (stomatiti, enteriti o perforazioni). Alcune sostanze tossiche (p. es., alcol,
idrocarburi) provocano un'alitosi caratteristica. L'esposizione cutanea a sostanze tossiche causa
numerosi sintomi acuti (p. es., eritema, dolore, vesciche); l'esposizione cronica determina
dermatiti.
Solitamente l'inalazione di sostanze tossiche idrosolubili (p. es., cloro, ammoniaca) provoca
sintomi a livello delle vie aeree superiori, invece l'inalazione di sostanze tossiche poco idrosolubili
(p. es., fosgene) determina lesioni a livello delle vie aeree inferiori e edema polmonare non
cardiogeno. L'inalazione di monossido di carbonio, cianuro, o idrogeno solforato può causare
danni d'organo di natura ischemica, arresto cardiaco o arresto respiratorio. L'esposizione oculare
a sostanze tossiche (solide, liquide o sotto forma di vapori) determina lesioni a livello della
cornea, della sclera e del cristallino, con dolore oculare, arrossamento e perdita della vista.
Alcune sostanze (p. es., cocaina, fenciclidina, anfetamine) possono provocare intensa agitazione,
che a sua volta può indurre ipertermia, acidosi e rabdomiolisi.
-Sospettare un'intossicazione in pazienti con alterazione dello stato di coscienza o sintomi non
altrimenti spiegabili
-Anamnesi raccolta da tutte le fonti disponibili
-Esami di laboratorio specifici
Primo passo per la diagnosi di avvelenamento è la valutazione delle condizioni generali del
paziente. Gravi intossicazioni richiedono un intervento d'urgenza per insorgenza di
compromissione delle vie aeree o di arresto cardiorespiratorio.
L'intossicazione può essere già diagnosticata in base alla presentazione clinica. Deve essere
sospettata in presenza di sintomi non spiegabili, in particolare in caso di alterazione dello stato di
coscienza (che può variare da irritazioni alla sonnolenza al coma). Nel caso di intossicazione
intenzionale in un soggetto adulto, si deve sospettare il coinvolgimento di più sostanze.
L'anamnesi è spesso lo strumento più utile. Poichéé molti pazienti (p. es., bambini che ancora
non parlano, adulti suicidi o psicotici, soggetti con uno stato di coscienza alterato) non possono
fornire informazioni attendibili, devono essere interrogati amici, parenti e personale di soccorso.
Anche pazienti apparentemente attendibili possono riferire in modo non corretto il dosaggio o
l'epoca dell'ingestione. Se possibile, devono essere ispezionati i luoghi in cui il paziente vive al
fine di reperire indizi (p. es., contenitori di pillole parzialmente vuoti, messaggi correlati al
suicidio, evidenza di abuso di droghe). Importanti informazioni sono ricavate dalle prescrizioni
farmaceutiche e dalle cartelle cliniche. Nelle potenziali intossicazioni sul luogo di lavoro, devono
essere accuratamente interrogati i collaboratori e i supervisori. Tutte le sostanze chimiche
industriali hanno una scheda di dati di sicurezza della sostanza facilmente reperibile sul posto di
lavoro; la scheda di sicurezza fornisce informazioni dettagliate sulla tossicità e su ogni specifico
trattamento.
L'esame obiettivo a volte rivela segni che suggeriscono l'esposizione a particolari tipi di sostanze
(p. es., tossidromi), alitosi, presenza di farmaci topici, segni di puntura di aghi che fanno
presupporre l'utilizzo di droghe, segni di abuso di alcol).
Anche in presenza di un paziente sicuramente intossicato, l'alterazione dello stato di coscienza
può derivare da altre cause (p. es., infezioni del sistema nervoso centrale, trauma cranico,
ipoglicemia, ictus, encefalopatia epatica, encefalopatia di Wernicke), le quali devono essere
prese in considerazione. Nei bambini più grandi, negli adolescenti e negli adulti che hanno
ingerito un farmaco deve sempre essere considerato il tentativo di suicidio. Inoltre, i bambini
condividono spesso pillole e sostanze trovate; deve essere condotta un'indagine accurata per
identificare ulteriori pazienti potenzialmente avvelenati tra compagni di gioco e fratelli.
Esami
Nella maggior parte dei casi, gli esami di laboratorio sono di limitato aiuto. Gli esami standard,
disponibili in urgenza per l'identificazione delle sostanze di più comune abuso (screening
tossicologici) sono qualitativi e non quantitativi. Tali esami possono esitare falsi positivi o falsi
negativi e dosano solo un numero limitato di sostanze. Inoltre, la positività per una sostanza
d'abuso non implica necessariamente che la causa della sintomatologia del paziente sia da
ascrivere a quella sostanza (ossia, un paziente che ha recentemente assunto un oppioide può
infatti essere obnubilato a causa dell'encefalite piuttosto che della sostanza). Il più delle volte
viene utilizzato lo screening urinario di farmaci, che ha un valore limitato e di solito identifica
classi di farmaci o loro metaboliti, piuttosto che farmaci specifici. Per esempio, il test
immunologico urinario per la ricerca di oppiacei non rileva metadone o fentanil ma reagisce con
quantità molto piccole di analoghi di morfina o di codeina. Il test utilizzato per identificare la
cocaina rileva un suo metabolita piuttosto che la cocaina stessa.
Per la maggior parte delle sostanze, le concentrazioni plasmatiche non possono essere
facilmente determinate oppure non sono di aiuto nella scelta della terapia. Per alcune sostanze
(p. es., acetaminofene [paracetamolo], aspirina, monossido di carbonio, digossina, etilene
glicole, ferro, litio, metanolo, fenobarbital, fenitoina, teofillina), le concentrazioni plasmatiche
possono aiutare nella scelta della terapia. Molti esperti raccomandano il dosaggio della
concentrazione plasmatica di acetaminofene (paracetamolo) in tutti i pazienti con ingestioni
miste in quanto l'assunzione di acetaminofene (paracetamolo) è frequente, spesso asintomatica
durante le prime fasi ma con gravi effetti tossici tardivi che possono essere prevenuti mediante
somministrazione di un antidoto. Nel caso di alcune sostanze, determinati esami di laboratorio
(p. es., tempo di protrombina per un'intossicazione da warfarin, livelli di metaemoglobina per
alcune sostanze tossiche) aiutano nella scelta del trattamento. Nei pazienti con alterazione dello
stato di coscienza o parametri vitali anormali o che hanno ingerito specifiche sostanze tossiche,
gli esami di laboratorio devono includere la valutazione degli elettroliti sierici, dell'azotemia,
della creatinina sierica, dell'osmolarità sierica, della glicemia, degli studi di coagulazione e
dell'emogasanalisi. Altri test (p. es., il livello di metaemoglobina, livello di monossido di carbonio,
TC cervello) possono essere indicati per determinate veleni sospetti o in determinate situazioni
cliniche.
In alcune intossicazioni (p. es., da ferro, piombo, arsenico, altri metalli, ovuli di cocaina o altre
droghe illecite ingerite dai cosiddetti body packers), l'esame RX addominale diretto può mostrare
la presenza e localizzare le sostanze ingerite.
Nelle intossicazioni da farmaci con attività cardiovascolare o da sostanze sconosciute, sono
indicati l'EEG e il monitoraggio cardiaco.
Se i livelli ematici di una sostanza o i sintomi di tossicità aumentano dopo un'iniziale riduzione o
persistono per un tempo insolitamente lungo, si deve sospettare la presenza di bezoari,
preparazioni a rilascio prolungato o una riesposizione (ossia, esposizione ripetuta e occulta a
droghe d’abuso).
TERAPIA
-Terapia di supporto
-Carbone attivato in caso di gravi intossicazioni per ingestione
-Uso di antidoti specifici o dialisi, se necessari
-Svuotamento gastrico, solo in specifici casi
I pazienti con una grave intossicazione richiedono ventilazione assistita o terapia per arresto
cardiovascolare. I pazienti con stato di coscienza alterato richiedono monitoraggio continuo o
misure contenitive. La trattazione della terapia delle intossicazioni specifiche è generale e non
comprende le complessità e i dettagli specifici. La consulenza specialistica con un centro
antiveleni è raccomandata per ogni intossicazione eccetto quelle più lievi e comuni.
Stabilizzazione iniziale
Mantenimento delle vie aeree, della respirazione e della circolazione
Naloxone EV
Glucosio e tiamina EV
Liquidi EV, a volte vasopressori
Le vie respiratorie, la respirazione e la circolazione devono essere mantenute nei pazienti con
sospetto avvelenamento sistemico. I pazienti senza pulsazioni o pressione arteriosa richiedono
rianimazione cardiopolmonare in emergenza.
Se i pazienti presentano apnea oppure ostruzione delle vie aeree (p. es., corpi estranei
nell'orofaringe, alterato riflesso faringeo), si pratica l'intubazione endotracheale. Se i pazienti
presentano depressione respiratoria o ipossia, si somministra ossigeno supplementare o si
esegue una ventilazione meccanica a seconda delle necessità.
Il naloxone EV (2 mg negli adulti; 0,1 mg/kg nei bambini; in alcuni casi possono essere necessarie
dosi fino a 10 mg) deve essere somministrato nei pazienti con apnea o grave depressione
respiratoria, pur mantenendo un'assistenza respiratoria. Nei tossicodipendenti che fanno uso di
oppiacei, il naloxone può scatenare astinenza, condizione in ogni caso preferibile rispetto alla
depressione respiratoria grave. Se persiste la depressione respiratoria, nonostante l'uso del
naloxone, sono necessarie l'intubazione endotracheale e la ventilazione meccanica. Se il
naloxone risolve la depressione respiratoria, i pazienti devono essere monitorati; se la
depressione respiratoria si ripresenta, i pazienti devono essere trattati con un altro bolo di
naloxone EV o con intubazione endotracheale e ventilazione meccanica. È stato proposto
l'utilizzo di un'infusione continua di naloxone a basso dosaggio per mantenere la frequenza
respiratoria senza far precipitare l'astinenza, ma in realtà può essere una pratica molto difficile
da realizzare.
Il glucosio EV (50 ml di una soluzione al 50% per gli adulti; 2 a 4 ml/kg di una soluzione al 25% per
i bambini) deve essere somministrato a pazienti con coscienza alterata o depressione del sistema
nervoso centrale, a meno che un'ipoglicemia sia stata esclusa dalla determinazione immediata
della glicemia.
La tiamina (100 mg EV) è somministrata con o prima del glucosio negli adulti con sospetta
carenza di tiamina (p. es., alcolisti, i pazienti denutriti).
I liquidi EV vengono somministrati per l'ipotensione. Se i liquidi sono inefficaci, può essere
necessario un monitoraggio emodinamico invasivo per guidare la terapia con liquidi e farmaci
vasopressori. Nella maggior parte dei casi di ipotensione indotta da sostanze tossiche, il
vasopressore di prima scelta è la noradrenalina in infusione 0,5-1 mg/min EV, in ogni caso il
trattamento non deve essere ritardato anche nel caso di immediata disponibilità di altri
vasopressori.
Decontaminazione topica
Qualsiasi parte di superficie corporea (occhi compresi) esposta a una sostanza tossica deve
essere abbondantemente lavata con acqua o soluzione fisiologica. Gli indumenti contaminati
devono essere rimossi, inclusi calze, scarpe e gioielli. I patch topici e i sistemi di somministrazione
transdermica vengono rimossi.
Carbone attivato
Il carbone attivato viene abitualmente somministrato, soprattutto in caso di ingestioni multiple o
di sostanze non note. L'uso del carbone attivato espone il paziente a un rischio minimo (eccetto
nel caso di vomito e inalazione) ma non è stato dimostrato che il suo impiego riduce la morbilità
o la mortalità complessive. Il carbone attivato deve essere somministrato precocemente. Grazie
alla sua configurazione molecolare e all'ampia superficie, assorbe la maggior parte delle sostanze
tossiche. Dosi multiple di carbone attivato possono essere efficaci nel caso di intossicazioni
causate da sostanze con ricircolo enteroepatico (p. es., fenobarbital, teofillina) e nel caso di
preparazioni a rilascio prolungato. Il carbone attivato può essere somministrato a intervalli di 4-6
h in caso di intossicazioni gravi con alcune sostanze tossiche, tranne in caso di ridotta peristalsi. Il
carbone attivato è inefficace nel caso di intossicazioni da sostanze caustiche, da alcol e da ioni (p.
es., cianuro, ferro, altri metalli, litio).
La dose raccomandata è pari a 5-10 volte la dose della sostanza tossica ingerita. Tuttavia,
poichéé solitamente la dose della sostanza tossica ingerita non è nota, il carbone attivato si
somministra con dosi pari a 1-2 g/kg, ossia tra 10-25 g nei bambini con età < 5 anni e tra i 50-100
g nei bambini più grandi e negli adulti. Il carbone attivato viene somministrato disciolto in acqua
o in una bibita. La somministrazione può risultare sgradevole e induce il vomito in circa il 30% dei
pazienti. Il carbone attivato può essere somministrato mediante sondino gastrico, ma deve
essere usata cautela onde evitare complicanze causate dall'inserimento del sondino o da
inalazione del carbone; i benefici potenziali devono essere superiori ai rischi. Il carbone attivato
deve essere somministrato senza sorbitolo o altri lassativi, i quali non hanno alcun chiaro
beneficio e possono causare disidratazione e alterazioni elettrolitiche.
Svuotamento gastrico
Lo svuotamento gastrico, che era bene accettato e sembrava efficace, non deve essere
effettuato di routine. Non riduce la morbilità o la mortalità globali ed espone il paziente a rischi.
Lo svuotamento gastrico deve essere preso in considerazione se può essere eseguito entro 1 h
dall'ingestione di una sostanza che mette in pericolo la vita del paziente. Tuttavia, molte
intossicazioni si manifestano troppo tardi e non sempre è chiaro se un'intossicazione è
potenzialmente letale. Perciò, lo svuotamento gastrico è consigliato raramente ed è
controindicato nel caso di ingestione di sostanze caustiche.
La metodica preferita per lo svuotamento gastrico è rappresentata dalla lavanda gastrica. La
lavanda gastrica può comportare delle complicanze, quali epistassi, inalazione, o, raramente,
lesioni orofaringee o esofagee. Lo sciroppo di ipecacuana ha effetti imprevedibili, spesso causa
vomito prolungato e potrebbe non rimuovere sufficienti quantità di sostanza tossica dallo
stomaco. L'uso dello sciroppo di ipecacuana potrebbe essere giustificato nel caso di ingestione di
una sostanza altamente tossica e se il tempo di trasporto al pronto soccorso è lungo, ma questa
situazione è infrequente negli Stati Uniti e anche in Europa.
La lavanda gastrica viene eseguita mediante instillazione di acqua nello stomaco tramite sondino
e poi aspirata. Viene impiegato il sondino con sezione più larga tra quelli idonei (di solito > 36
French per gli adulti o 24 French per i bambini) in modo che possano essere recuperati
frammenti di compresse. Se i pazienti presentano alterazione dello stato di coscienza o scarso
riflesso faringeo, si esegue l'intubazione endotracheale prima della lavanda per prevenire
l'inalazione. Ai pazienti, posizionati in decubito laterale sinistro, viene inserito il sondino
attraverso la cavità orale, per prevenire l'inalazione. Poichéé il lavaggio talvolta spinge più
distalmente le sostanze nel tratto gastrointestinale, i contenuti dello stomaco devono essere
aspirati e deve essere instillata attraverso il sondino una dose da 25 g di carbone attivato
immediatamente dopo l'inserzione. In seguito, vengono instillati boli (circa 3 ml/kg) di acqua di
rubinetto e il contenuto gastrico viene recuperato per gravità o mediante una siringa. Il lavaggio
deve continuare fino a che il liquido aspirato appare privo di sostanze; di solito devono essere
instillati da 500 a 3000 mL di liquido. Dopo la lavanda, deve essere somministrata una seconda
dose di 25 g di carbone attivato.
Irrigazione intestinale
Questa procedura determina il lavaggio del tratto gastrointestinale e teoricamente riduce il
tempo di transito delle compresse. Non è dimostrato che l'irrigazione riduca la morbilità o la
mortalità. L'irrigazione è indicata per una delle seguenti condizioni:
-Alcune intossicazioni gravi dovute a farmaci a rilascio prolungato o sostanze che non sono
assorbite dal carbone (p. es., metalli pesanti)
-Ovuli di sostanze stupefacenti (p. es., pacchetti di eroina o cocaina rivestiti di lattice ingeriti da
body-packer)
-Sospetti benzoati
Viene somministrata una soluzione di glicole polietilenico (non assorbibile) ed elettroliti, usata
talvolta per pulire l'intestino per la colonscopia, a una velocità di 1-2 L/h negli adulti o di 25-40
mL/kg/h nei bambini fino a quando l'effluente rettale diviene limpido; questa procedura può
richiedere molte ore o persino giorni. La soluzione solitamente viene somministrata mediante
sondino gastrico, anche se alcuni pazienti, se motivati, possono bere spontaneamente grandi
volumi.
Diuresi alcalina
La diuresi alcalina incrementa l'eliminazione degli acidi deboli (p. es., salicilati, fenobarbitale).
Una soluzione che associa 1 L di soluzione glucosata al 5% con tre fiale da 50 mEq (50 mmol/L) di
bicarbonato di sodio e 20-40 mEq (20-40 mmol/L) di potassio può essere somministrata a una
velocità di 250 mL/h negli adulti e di 2-3 mL/kg/h nei bambini. Il pH urinario deve essere
mantenuto > 8 e deve essere ripristinato il K. Si possono manifestare ipernatriemia, alcalemia e
sovraccarico idrico, ma di solito non sono gravi. Tuttavia, la diuresi alcalina è controindicata nei
pazienti con insufficienza renale.
Dialisi
•
Sostanze tossiche comuni che possono richiedere la dialisi o l'emoperfusione
comprendono:
Glicole etilenico
Litio
Metanolo
Salicilati
Teofillina
Queste terapie sono di minore utilità se la sostanza tossica è rappresentata da una molecola di
grosse dimensioni o elettricamente carica (polare), se ha un grande volume di distribuzione
(ossia, accumulata nel tessuto adiposo) o se è ampiamente legata alle proteine tissutali (come
nel caso di digossina, fenciclidina, fenotiazina o antidepressivi triciclici). La necessità di ricorrere
alla dialisi di solito è determinata sia dagli esami di laboratorio sia dalle condizioni cliniche del
paziente. La dialisi comprende l'emodialisi, la dialisi peritoneale, e la dialisi lipidica (che rimuove
le sostanze liposolubili dal sangue), l'emoperfusione (che rimuove più rapidamente ed
efficacemente alcuni tossici).
Antidoti specifici
Per gli antidoti più comunemente utilizzati. I farmaci chelanti vengono usati in caso di
intossicazione da metalli pesanti e occasionalmente da altri farmaci. Le emulsioni lipidiche EV a
concentrazioni del 10% e del 20% e un'alta dose di insulinoterapia sono state usate per trattare
con successo differenti sostanze tossiche a livello cardiaco (p. es., bupivacaina, verapamil).
Misure di supporto
La maggior parte dei sintomi (p. es., agitazione, sedazione, coma, edema cerebrale, ipertensione,
aritmie, insufficienza renale, ipoglicemia) viene trattata con misure di supporto (vedi altrove nel
MANUALE).
L'ipotensione e le aritmie indotte da farmaci possono non rispondere ai consueti trattamenti
farmacologici. Nel caso di ipotensione refrattaria sono necessari dopamina, adrenalina, altri
farmaci vasopressori, contropulsazione aortica, circolazione extracorporea.
Nel caso di aritmie refrattarie, è necessaria la stimolazione cardiaca con un pacemaker. In
genere, la torsione di punta viene trattata con 2-4 g di solfato di magnesio EV, overdrive pacing o
infusione titolata di isoproterenolo.
Le convulsioni sono trattate di prima scelta con le benzodiazepine. Possono essere utilizzati
anche il fenobarbitale o la fenitoina. La grave agitazione deve essere tenuta sotto controllo;
possono essere necessarie benzodiazepine a dosi elevate, altri potenti sedativi (p. es., propofol),
o, in casi estremi, anestetici generali, curarizzazione e ventilazione meccanica.
L'ipertermia viene trattata con la sedazione e misure di raffreddamento fisico piuttosto che con
gli antipiretici. L'insufficienza d'organo può richiedere come ultimo approccio il trapianto renale
o il trapianto epatico.
Ricovero ospedaliero
Le indicazioni generali per il ricovero ospedaliero comprendono alterazione dello stato di
coscienza, alterazione persistente dei segni vitali e tossicità tardiva prevedibile. Per esempio, il
ricovero viene preso in considerazione se i pazienti hanno ingerito farmaci a rilascio prolungato,
in particolare in caso di farmaci con effetti potenzialmente gravi (p. es., farmaci cardiovascolari).
In assenza di altri motivi per il ricovero, se i test di laboratorio indicati sono nella norma e i
sintomi regrediscono dopo un'osservazione di 4-6 h, la maggior parte dei pazienti può essere
dimessa. Tuttavia, in caso di ingestione intenzionale, è necessaria una valutazione psichiatrica.
TRACHEOSTOMIA
La tracheostomia è il confezionamento di uno stoma che permette la comunicazione fra la parte
superiore della trachea e l’ambiente esterno, dove viene posizionata una cannula che possiamo
avere di diversi modelli e dimensioni in base alle esigenze del paziente. La gestione
infermieristica della tracheostomia parte dalla conoscenza del presidio stesso: sapere se
abbiamo a che fare con cannula cuffiata, non cuffiata o fenestrata, permette all’operatore di
poter lavorare in sicurezza e consapevolmente.
La stomia, quando viene confezionata, risulta essere una vera e propria “ferita” chirurgica e
come tale va trattata; infatti, nelle prime 24-48 ore dall’intervento lo stoma va medicato con
garze sterili che non vanno rimosse se non in caso di presenza di perdite di pus, muco, sangue.
Dopo le prime 48 ore la medicazione va controllata ogni giorno rimuovendo la medicazione in
sede:
•
verificando se ci sono segni di flogosi (rubor, tumor, dolor, calor, functio lesa) associati a
perdite ematiche/sieroematiche, muco, pus
•
ripulendo con soluzione fisiologica e garze sterili la cute peristomale e solo in caso di
infezione disinfettare con soluzione (es. iodopovidone)
•
posizionando la nuova medicazione in sede
Esistono medicazioni avanzate, preformate appositamente per la tracheostomia, in TNT
impregnata all'argento, per una maggiore antisepsi.
Durante la procedura di medicazione della tracheostomia va prestata attenzione alla cannula,
tenendola ferma dalla flangia esterna, evitando eccessive sollecitazioni della stessa per evitare di
irritare e/o lesionare le pareti interne.
La gestione della medicazione comprende anche la cannula stessa, che - come anticipato - può
essere di diverso tipo per modello, dimensioni e caratteristiche.
Tipologie di cannula trachestomica.
Le cannule possono essere:
•
Cuffiate
•
Non cuffiate
•
e possono o meno essere: fenestrate e dotate di controcannula.
Per le cannule cuffiate, dove il pallone si trova al terzo distale con sistema di gonfiaggio
unidirezionale luer, è necessario conoscere la pressione di gonfiaggio della cuffia, solitamente
compresa fra 18/25 mmHg; la cuffia presente nella cannula non va confusa come un pallone di
ancoraggio, poichéé il suo scopo è quello di isolare completamente la parte inferiore e superiore
della trachea.
Ideale nei pazienti in ventilazione meccanica, così da non avere dispersioni durante la
ventilazione, la quale non sarebbe altrimenti efficace, pazienti con alto rischio di ab-ingestis, così
da evitare che il cibo raggiunga le basse vie aeree qualora invece dell’esofago dovesse imboccare
la via respiratoria. La pressione deve essere controllata con manometro ad ogni medicazione per
evitare che sia troppo sgonfia e quindi scongiurare quanto appena descritto; al contrario, che
non sia troppo gonfia per evitare decubiti delle pareti tracheali.
La controcannula, che si trova internamente alla cannula, ancorata ad essa con un sistema di
fissaggio avvitabile, deve essere rimossa e lavata sotto acqua corrente, pulita con scovolini
appositi per rimuovere le secrezioni interne e farla asciugare all’aria o utilizzando garze sterili, in
modo da non lasciare residui di acqua che potrebbero, una volta ri-posizionata la controcannula,
stimolare la tosse al paziente (se sono presenti due controcannule, queste possono essere
conservate per 24 ore in soluzione fisiologica, all’interno di un contenitore, così da alternarle
giornalmente).
Un altro presidio presente e di assoluta importanza è il laccio di fissaggio; per mantenere la
tracheostomia in sede è necessario che ci sia un sistema di fissaggio al collo del paziente, questo
viene fatto utilizzando una fascetta apposita di materiale morbido e confortevole, che presenta
due porzioni di velcro nella parte finale che servono per fissarlo in base alla dimensione del collo.
Questo per evitare che la cannula si sposizioni, specialmente durante le medicazioni, durante
l’atto della tosse, durante la ventilazione meccanica in cui i tubi di raccordo al ventilatore pesano
e possono portare in avanti la cannula.
Altri presidi annessi alla tracheostomia, da gestire e mantenere puliti sono:
•
Valvola fonatoria
•
Filtro scambiatore di umidità e calore con o senza raccordo per l’ossigenoterapia
Umidificazione
Pazienti portatori di tracheostomia sono soggetti a secchezza delle vie aeree considerando che
durante la respirazione viene bypassata la via aerea superiore (mucosa del naso e della bocca) e
l’aria o il gas medicale arriva direttamente alle basse vie aeree.
Per ovviare a questo problema - che causa ai pazienti secchezza, cheratinizzazione, ostruzioni
della cannula, infezioni - si utilizzano dei filtri scambiatori di umidità e calore (in gergo chiamati:
“naso artificiale”), che a loro volta possono diventare un habitat ideale per i microrganismi,
motivo per cui è importante che siano monitorati e sostituiti secondo le indicazioni della casa
produttrice.
Procedura di aspirazione
L’aspirazione delle secrezioni bronchiali in pazienti portatori di cannula tracheostomica è una
procedura che va eseguita quando necessario, poichéé invasiva e irritante per la mucosa,
nonchéé quando si rilevano segni di ingorgo bronchiale: tosse eccessiva, fuoriuscita di muco dalla
cannula, sospetto di ostruzione della cannula e conseguente difficoltà respiratoria tramite la
valutazione di parametri vitali e segni, quali: tachipnea, alterazioni della meccanica respiratoria,
colorito cutaneo, auscultazione dei campi polmonari, percezione tattile al torace di fremiti dovuti
al passaggio di aria tra le secrezioni.
La procedura deve essere fatta in modo asettico (guanti o guanto singolo sterile) con sondini da
aspirazione sterili e monouso, del calibro adeguato al tipo di secrezioni che si devono aspirare,
preparando un piccolo campo sterile al letto del paziente.
Si inizia iper-ossigenando il paziente per 1 minuto prima e dopo per evitare ipossiemia
procedurale, successivamente si procede lungo la cannula con il sondino “libero”, cioè non in
aspirazione, si raggiunge la zona interessata e con movimenti rotatori, in aspirazione, si torna
fuori aspirando le secrezioni. Al termine valutare sempre la quantità e la qualità di quanto
drenato all’interno del contenitore dell’aspiratore, segnalando in cartella variazioni.
Con la procedura di aspirazione, utilizzando circuiti idonei di raccolta, si possono prelevare
campioni sterili di secreto per analisi laboratoristiche, specialmente in casi di sospetta infezione
delle vie aeree.
Tutto il materiale va smaltito secondo procedura aziendale, prestando particolare attenzione ai
rifiuti infetti.
TRACHEOTMIA
La tracheotomia è una manovra di tipo chirurgico che consente una comunicazione diretta tra la
trachea e l’ambiente esterno, escludendo in questo modo la zona più alta delle vie respiratorie
(bocca, naso, faringe e laringe). È bene precisare che questa procedura si differenzia dalla
tracheostomia in quanto, in quest’ultima, si opera una modificazione del tratto tracheale che
non ne permette la chiusura spontanea nel giro di poco tempo.
La tracheotomia chirurgica prevede che si pratichi un’incisione verticale o trasversale della cute e
del connettivo sottocutaneo a livello dei primi anelli tracheali. Successivamente, si separano i
muscoli sterno-ioidei e sternotiroidei incidendo il connettivo aponeurotico che li unisce sulla
linea mediana e si pratica quindi una piccola soluzione di continuo sulla parete anteriore della
trachea al di sopra (tracheotomia sopraistmica), al di sotto (tracheotomia sottoistmica), o
attraverso (tracheotomia transistmica) l’istmo della ghiandola tiroide.
Tracheotomia percutanea
Per quanto concerne la tecnica percutanea, esistono attualmente due approcci differenti: quello
anteriore e quello translaringeo.
Tracheotomia percutanea anteriore
Nel primo caso è prevista una puntura percutanea tra il secondo ed il terzo anello tracheale con
un ago 18 G e l’avanzamento di una guida metallica attraverso il lume dell’ago.
Successivamente sulla guida viene effettuata o una dilatazione con apposita pinza curva (tecnica
Griggs) fino all’ottenimento di un tramite sufficiente per l’inserimento della cannula
tracheotomica oppure vengono inseriti dei dilatatori di calibro crescente (tecnica Ciaglia) fino a
quello corrispondente alla cannula che si vuole posizionare.
Tracheotomia percutanea translaringea
L’approccio translaringeo, invece, comporta sempre il posizionamento per via anteriore di una
guida metallica che viene però fatta procedere all’interno del lume delle vie aeree per via
retrograda fino all’orofaringe; sul capo prossimale di questa guida viene ancorata un’apposita
cannula tracheotomica con l’estremità affilata che, tramite una trazione sul capo distale della
guida metallica, viene fatta avanzare dilatando la parete anteriore della trachea nel punto di
inserimento della guida stessa.
Una volta che la maggior parte del corpo della cannula è stato esteriorizzato, la cannula viene
fissata nella sua posizione finale.
Indicazioni alla tracheotomia
Le principali indicazioni alla tracheotomia possono attualmente essere raggruppate nelle
seguenti categorie:
•
Ripristino della pervietà dello spazio respiratorio nei casi di ostruzione delle alte vie aeree
•
Necessità di ventilazione artificiale meccanica a lungo termine impraticabile in modalità non
invasiva
•
Incapacità di mantenere il controllo delle prime vie aeree grazie ai riflessi protettivi (ad es.
nei pazienti con gravi patologie neurologiche)
•
Mantenimento di una adeguata toelette delle vie aeree nei pazienti con inefficacia del
meccanismo della tosse (patologie neuromuscolari e del midollo spinale).
Tracheotomia, possibili complicanze
La tracheotomia, come tutte le procedure invasive, comporta un rischio di potenziali
complicanze, differenziabili in precoci, quindi insorte nel corso o subito dopo la procedura stessa
e tardive, quindi verificatesi ad una certa distanza di tempo:
•
Complicanze precoci: emorragia, pneumotorace, enfisema sottocutaneo, ipossia e
lacerazione della parete tracheale, decannulazione accidentale
•
Complicanze tardive: granulomi, stenosi tracheali, tracheomalacia, infezioni dello stoma,
fistole tracheo-esofacee e tracheo-innominate (tra trachea e arteria anonima),
decanullazione accidentale.
Gestione della cannula tracheostomica e prevenzione delle complicanze
Al fine di prevenire le infezioni e ridurre le complicanze tardive è importante che l’infermiere che
assiste un paziente portatore di tracheotomia tenga costantemente monitorata la quantità di
secrezioni prodotte, in quanto sarà proprio sua responsabilità valutare quante volte sostituire la
controcannula e la metallina con taglio ad Y (ovvero la medicazione che evita il contatto tra
cannula e le secrezioni da essa prodotta e la pelle del paziente) rispetto alla quantità di
secrezioni prodotte (da due a più volte al giorno).
È dunque auspicabile che siano sempre ben conservate nella stanza del paziente alcune
controcannule pulite in un contenitore nominale.
Pulizia della cannula
Quando sostituita, le linee guida indicano come la cannula sporca debba essere immersa in
acqua tiepida contenente un detergente enzimatico diluito secondo le indicazioni di ciascun
prodotto per 5 minuti.
La cannula viene quindi sciacquata (anche con l’aiuto di uno scovolino, se molto incrostata) e
riposta in un contenitore a bagno con detergente disinfettante per almeno 30 minuti. Al termine
di questo procedimento la cannula deve essere sciacquata con bidistillata sterile, asciugata e
riposta dunque nel contenitore personalizzato.
Tracheoaspirazione
Un’ulteriore procedura che consente di prevenire le complicanze è quella della
Tracheoaspirazione, la quale permette la rimozione delle secrezioni tracheali qualora queste
siano abbondanti e possano costituire un rischio per il paziente.
È importante sottolineare come questa delicata manovra non debba essere eseguita di routine
ma solamente quando clinicamente necessaria. Per questo motivo le indicazioni sono molto
strette e sono le seguenti:
•
Presenza di secrezioni visibili
•
Presenza di rumori respiratori all’auscultazione toracica
•
Sospetta inalazione di materiale gastrico
•
Incremento obiettivo del lavoro respiratorio
•
Peggioramento dei valori arteriosi dei gas nel sangue
•
Picchi di pressione inspiratoria durante la ventilazione con volume controllato o riduzione
di volume corrente durante la ventilazione a pressione controllata
•
Cambiamenti nei grafici di pressioni e di flusso.
La procedura di Tracheoaspirazione
Nei pazienti ventilati meccanicamente è importante sottolineare come la sospensione della
ventilazione per l’aspirazione causi un aumento dell’anidride carbonica disciolta nel sangue non
rilevabile in tempo reale così come avviene per la saturazione periferica di ossigeno.
Quindi è sempre consigliato eseguire un’aspirazione di breve durata, in quanto anche se non
diminuisce in maniera importante la saturazione periferica di ossigeno, si determina un aumento
significativo dell’anidride carbonica nel sangue.
È inoltre sconsigliata la disconnessione del paziente dal ventilatore, così come anche la perdita di
PEEP con il ritorno dei polmoni a pressione atmosferica è scoraggiata.
ASSISTENZA ILEO E COLO-STOMIA
La persona portatrice di stomia ha bisogno di un’assistenza infermieristica che abbracci a 360° la
sua situazione, a partire dai momenti che precedono il confezionamento chirurgico dello stoma,
per arrivare al periodo post-operatorio, passando per il supporto emotivo che l’aiuti a capire che
è possibile avere una vita pressochéé normale anche da stomizzati. In questo processo risalta, fra
le altre comunque imprescindibili, la componente educativa dell’assistenza infermieristica.
Con il termine stomia è indicato il risultato di un intervento chirurgico per mezzo del quale viene
creata un’apertura a livello addominale in grado di mettere in comunicazione l'apparato
intestinale (stomie intestinali) o quello urinario (stomie urinarie) con l'esterno.
Grazie a questo varco riprodotto chirurgicamente, feci o urine sono espulse al di fuori
dall'organismo, nel caso in cui le vie naturali siano state compromesse per via di una severa
patologia.
Per quanto il confezionamento chirurgico di una stomia e la sua prima apparecchiatura
rappresenti un trauma fisico e psicologico per via del mutamento dell'anatomia e delle abitudini
quotidiane dello stomizzato, essa rappresenta in certi casi un'ancora di salvezza e l'unica
soluzione per il miglioramento della qualità di vita di queste persone.
Il processo di cura necessita di cure specialistiche multidisciplinari che prevedono, tra gli altri, la
presa in carico del paziente da parte dell'infermiere stoma terapista, figura di recente
formazione che ha rivoluzionato gli ambiti di cura dei pazienti stomizzati.
In Italia si contano oltre 70 mila pazienti portatori di stomia. Il numero più alto di stomie
confezionate è rappresentato dalle colostomie (55%), seguito da ileostomie (31%) e urostomie
(14%).
Tali procedure sono eseguite successivamente a operazioni chirurgiche demolitive per la cura di:
•
cancro del colon-retto
•
malattie infiammatorie dell'intestino
•
tumore della vescica
•
diverticoliti
•
megacolon
•
colite necrotizzante
•
anomalie congenite
•
occlusioni e perforazioni
I pazienti stomizzati non sono pazienti invalidi, sono uomini e donne con una anatomia e dei
comportamenti fisiologici differenti dal resto della comunità, ma tutto sommato gestibili e
talvolta completamente indipendenti.
Questa tipologia di utenti affronta, nel corso della vita, un percorso tortuoso che può portarli allo
sconforto e al rifiuto della propria condizione di vita, soltanto una corretta educazione sanitaria
ed un supporto psicologico continui da parte dei professionisti della salute e degli affetti possono
condurli alla consapevolezza che nessuno stomizzato è un malato cronico, rendendo “la nuova
vita” un'esistenza fiera e dignitosa.
Educazione al paziente nel preoperatorio
L'educazione al paziente che si appresta ad un intervento chirurgico che preveda il
confezionamento di una stomia è un atto sanitario di fondamentale importanza.
Con esso si avranno maggiori possibilità di compliance e adattamento alla nuova condizione
fisica del paziente nel post-operatorio ed ha una certa rilevanza anche dal punto di vista medicolegale.
I professionisti sanitari - medici, infermieri, psicologi - che si interfacciano con l'operando
eseguiranno una valutazione anamnestica e fisica per ottenere il maggior numero di informazioni
possibili, utili allo sviluppo di un piano di cura specifico che prenda in considerazione le sue
esigenze e quelle dei caregivers.
Il piano terapeutico deve essere incentrato appunto sul paziente e non esclusivamente sulle
necessità dei sanitari.
L'utente dev'essere informato su tutti gli aspetti clinici e supportato psicologicamente per tutta
la durata del ricovero sino ad ottenere una aderenza totale anche in seguito alla dimissione
ospedaliera, al fine di garantire la continuità assistenziale.
In sede di colloquio preoperatorio devono essere valutati e messi in discussione col paziente
stesso, elementi cardine quali:
•
diagnosi e prognosi
•
piano chirurgico
•
storia clinica
•
storia sociale (occupazione, relazioni interpersonali, sessualità, pratiche culturali, ecc.)
•
abilità cognitive e psicomotorie
•
ambiente fisico, familiare e sociale
•
valutazione del grado di autogestione della stomia
•
individuazione della sede e della tipologia di stomia (disegno preoperatorio)
Le cure specialistiche iniziano proprio nella fase del preoperatorio. Gli infermieri hanno il dovere
di iniziare a educare i pazienti sulla varietà dei presidi necessari per la gestione della stomia e
sulle procedure di svuotamento della sacca di raccolta.
Per quanto questi interventi educativi siano incentrati con maggiore specificità nel postoperatorio, il processo educazionale deve coinvolgere fin da subito anche le famiglie, che hanno
statisticamente un ruolo centrale nel processo di cura.
Gli interventi educativi possono essere eseguiti anche attraverso la somministrazione di
questionari, brochure e manuali.
La curiosità del paziente dev'essere costantemente sollecitata; può essere utile fornire
informazioni generali sull'anatomia del tratto digerente/urinario e sulla natura delle feci, in
modo che l'utente abbia un quadro più chiaro della problematica. Egli, inoltre, dev'essere messo
al corrente, già dal preoperatorio, sulle possibili complicanze, sui fattori di rischio e sulle figure
professionali di riferimento.
Educazione al paziente nel post-operatorio
Il periodo post-operatorio è sicuramente il momento più difficile per un paziente stomizzato: il
dolore in sede d'intervento e il malessere generale per l'insieme delle procedure terapeutiche, si
uniscono alle alterazioni fisiche dovute al confezionamento della stomia, ponendo il malato in
una condizione di disagio fisico e psichico che può sfociare nella depressione e
nell'autosvalutazione, presupposti per un rallentamento del processo di cura.
Le attività di supporto emotivo e psicologico e l'individuazione dei bisogni dell'utente continuano
senza sosta nel post-operatorio.
L'infermiere agisce sulla base della pianificazione preoperatoria e delle condizioni generali del
paziente, identificando i fattori di rischio a seconda dei risultati dell'intervento chirurgico e
predisponendo nuovi piani assistenziali individuando e contrastando i fattori di rischio.
È utile ricordare come obesità, età avanzata, età neonatale, disturbi gastro-intestinali cronici e
diabete mellito siano tra i principali elementi clinici predisponenti alle complicazioni per stomie,
cute peristomale e gestione generale dello stoma.
Il piano educativo nel post-operatorio ha lo scopo di formare il paziente ad una sana auto-cura
dello stoma in modo da ridurre gli eventi avversi, tenendo presente che l'équipe ospedaliera e
domiciliare rappresenta un saldo punto di riferimento.
Il paziente alla dimissione deve essere in grado, per quanto possibile, di:
•
conoscere i dispositivi per la cura dello stoma
•
adattare i presidi in base alle esigenze, limitando il disagio dovuto ad odori e perdite
incontrollate
•
saper sostituire le sacche di raccolta
•
avere consapevolezza della propria condizione fisica ed accettarla
•
modulare e adattare i nuovi comportamenti alla vita quotidiana prima del ricovero
•
riconoscere le modificazioni anomale della stomia e riferirle
•
seguire una dieta congrua ed equilibrata
•
gestire correttamente la terapia farmacologica
Educazione terapeutica al paziente stomizzato
Il piano terapeutico di un paziente stomizzato dev'essere individualizzato in base ai propri bisogni
e a quelli della famiglia, oltre che all'eventuale comorbilità.
Tutti gli interventi di educazione terapeutica sono mirati ad ottenere una complicance totale, a
partire dalla predisposizione di un regime alimentare che prenda in considerazione età, peso,
alterazioni del tratto digestivo e gusti personali.
Il peso corporeo
Il peso influisce negativamente sulla gestione delle stomie: raggiungere un peso forma ideale
aiuta tantissimo a prevenire le complicanze, ma non sempre è una meta facile da raggiungere. La
corretta masticazione dev'essere incoraggiata per evitare casi di malassorbimento e disagi
nell'eliminazione. Alcuni cibi possono aiutare ad addensare o sfaldare le feci per prevenire
problemi dovuti a diarrea, stipsi e occlusioni.
L'eliminazione di feci può essere controllata e favorita dall'irrigazione della stomia attraverso
precisi dispositivi, questa pratica ha riscosso una buona adesione fra gli utenti stomizzati,
migliorando determinati aspetti quotidiani.
Non è inusuale la prescrizione di integratori per migliorare l'assorbimento di elementi
indispensabili come, ad esempio, il potassio.
Cute peristomale
La valutazione della cute peristomale dev'essere quotidiana e il paziente deve saper riconoscere
la differenza tra una cute sana e una cute irritata. Qualora si presentino delle alterazioni quali
sanguinamento, modificazioni dello stoma, arrossamenti è fondamentale la consulenza con un
infermiere enterostomia.
Una cute irritata, oltre a provocare dolore, può determinare il distacco delle sacche di raccolta,
con la conseguente fuoriuscita di feci o urine che, alla lunga, possono causare ulteriori danni alla
cute addominale circostante.
Igiene quotidiana
La stomia non è una ferita. Il paziente deve trattarla con cura, ma senza troppe paure.
L'igiene quotidiana deve essere eseguita con sapone neutro a pH 5.5 e acqua tiepida, devono
essere evitate manovre di sfregamento durante l'asciugatura e in caso di ileostomia è bene
applicare una corretta quantità di pasta protettiva per via del pH decisamente acido del
materiale effluente.
La terapia farmacologica
Anche la terapia farmacologica può necessitare di modificazioni. I pazienti con ileostomia o
colostomia possono manifestare alterazioni nell'assorbimento dei farmaci a causa della diminuita
lunghezza dell'intestino in seguito all'intervento chirurgico.
Un utente che ritrova frammenti di capsule o pastiglie all'interno della sacca necessita, ove
possibile, di un cambiamento della forma farmaceutica o di soluzioni che favoriscano
l'assorbimento.
Le supposte non devono essere prese in considerazione come forma farmaceutica semisolida:
alcuni studi evidenziano come risultino inefficaci se inserite in una stomia a causa del limitato
tempo di stazionamento all'interno di quella porzione di intestino.
Alcuni farmaci possono provocare alterazioni del colore delle feci e delle urine; il paziente deve
conoscere gli effetti dei farmaci che assume sulla stomia e su questo aspetto risulta molto utile la
consulenza di un farmacista.
TRIAGE
Il Triage è una delle molteplici competenze dell’infermiere che lavora in Pronto soccorso e
consiste in una rapida valutazione della condizione clinica dei pazienti e del loro rischio evolutivo
attraverso l'attribuzione di una scala di codici colore volta a definire la priorità di trattamento. I
codici di priorità di accesso all’area del trattamento sono stati codificati nelle Linee di indirizzo
nazionali sul triage intraospedaliero (2019) e prevedono l’utilizzo di un sistema di codifica a 5
codici numerici di priorità, con valori da 1 a 5. L'implementazione della codifica a 5 codici
numerici di priorità e il conseguente superamento della codifica con i codici colore dovrà
avvenire progressivamente entro 18 mesi dalla pubblicazione del documento.
Tra le molte definizioni di Triage, quella che meglio ne descrive l’attività è fornita dall’American
College of Surgeons, secondo il quale “il triage consiste nell’attribuzione dell’ordine di
trattamento dei pazienti sulla base delle loro necessità di cura e delle risorse disponibili”.
È importante ricordare come lo stabilire la priorità di accesso all’area di trattamento non
significhi porre una diagnosi, ma individuare quali pazienti abbiano bisogno di cure immediate e
quali possono differire la valutazione medica. Questo procedimento richiede di soddisfare, in
particolare, tre criteri:
•
Rapidità: il tempo accesso-codifica di triage deve essere breve
•
Sensibilità elevata e specificità sufficiente: tutti i pazienti potenzialmente critici devono
essere identificati
•
Logica organizzativa: va perseguita una organizzazione che con un adeguato utilizzo delle
risorse produca il rispetto di tempi e standard gestionali
Nella legislazione italiana il Triage compare nel 1996, in particolare tramite l'attuazione del
decreto n.76/1992, il quale afferma come in ogni dipartimento di emergenza e accettazione
debba essere prevista questa funzione come primo momento di accoglienza e valutazione dei
pazienti afferenti al Pronto soccorso.
Tale funzione – recita il decreto - è svolta “da personale infermieristico adeguatamente formato,
che opera secondo protocolli prestabiliti dal dirigente del servizio”.
Gli obiettivi principali che deve perseguire l’attività di Triage in Pronto Soccorso
 Individuare i pazienti urgenti e inoltrarli immediatamente all’area di trattamento e/o
all’avvio di specifici percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali
 Attribuire a tutti i pazienti un codice di priorità che regoli l’accesso alle cure in relazione
alla gravità delle condizioni e al potenziale rischio evolutivo
Oltre a questi, il triage si pone anche una serie di obiettivi “accessori”, che contribuiscono a
migliorare la qualità del servizio prestato dal sistema:
•
Determinare l’area più appropriata per il trattamento
•
Mantenere e migliorare l’efficacia complessiva della struttura di Pronto soccorso
•
Ridurre lo stato d’ansia delle persone che si rivolgono alla struttura
•
Valutare periodicamente le condizioni dei pazienti in attesa
La formazione dell'infermiere triagista
Per permettere all’infermiere l’acquisizione delle competenze necessarie, il percorso per arrivare
alla postazione di triage non è immediato.
Le Linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero, pubblicate dal Ministero della Salute e
recepite dalla Conferenza Stato Regioni nel 2019, stabiliscono che per accedere alla formazione
di triage siano necessari due requisiti :
 Possedere un’esperienza lavorativa in Pronto soccorso di almeno sei mesi (periodo di
prova escluso)
 Avere un titolo certificato alle manovre di supporto vitale di base nell’adulto e nel
bambino.
La formazione di accesso si concretizza con la partecipazione ad uno specifico corso teorico
residenziale della durata minima di 16 ore e ad un periodo di affiancamento di durata non
inferiore a 36 ore con un tutor esperto.
Trascorso un periodo di lavoro sul campo di massimo sei mesi deve essere realizzato un ulteriore
momento di verifica, al fine di dichiarare l’idoneità definitiva all’attività di triage. Una volta
superato tutto ciò, si entra nella fase della formazione permanente del triagista, la quale è
necessaria affinchéé lo stesso mantenga adeguate performance nello svolgimento di questa
delicata attività.
In questo si rende necessario che ogni Pronto Soccorso adotti un piano delle attività formative
specifiche per il triage, stabilendo degli obiettivi formativi triennali.
Il Triage nella pratica di tutti i giorni
Da un punto di vista operativo, il Triage si sviluppa in tre principali fasi:
1. Valutazione del paziente “sulla porta”: si tratta di una valutazione pressoché visiva che si
basa su come si presenta il paziente prima ancora di averlo valutato e di aver individuato
il motivo di accesso. Questa fase permette di identificare sin dall’ingresso del paziente in
Pronto Soccorso una situazione di emergenza che richieda un trattamento tempestivo e
immediato.
2. Valutazione soggettiva e oggettiva: una volta escluse situazioni di emergenza, si procede
con la fase della raccolta dati. La valutazione soggettiva prevede che, attraverso domande
mirate, l’infermiere indaghi il sintomo principale, l’evento presente, il dolore, i sintomi
associati e la storia medica passata.
3. Una volta identificato il motivo di accesso, viene condotta dal triagista la valutazione
oggettiva, la quale si compone dell’esame fisico sul paziente integrato attraverso
l’osservazione (guardare come appare il paziente), la misurazione dei parametri vitali e la
ricerca specifica di informazioni che possono derivare da un esame localizzato del
distretto corporeo interessato dal sintomo principale.
Decisione di triage: si tratta di un processo molto complesso, in cui l’attribuzione del codice di
priorità rappresenta solamente il primo passaggio. In questa fase, difatti, il triagista decide il
percorso adeguato al paziente, attiva le risorse necessarie da introdurre per fronteggiare alle
situazioni che di volta in volta si presentano, eroga la prima assistenza e la pianifica per l’attesa
del paziente e attua tutte le attività necessarie a ridurre il rischio derivante dal prolungarsi
dell’attesa.
I codici di priorità di accesso all’area del trattamento sono stati codificati nelle Linee di indirizzo
nazionali sul triage intraospedaliero (2019) e prevedono l’utilizzo di un sistema di codifica a 5
codici numerici di priorità, con valori da 1 a 5.
Codifica di priorità e tempi di attesa
Codice
Numero
Colore
1
Rosso
2
3
4
5
Arancione
Azzurro
Verde
Bianco
Denominazione
Definizione
Tempo
massimo di
attesa per
l'accesso alle
aree di
trattamento
Emergenza
Interruzione o
compromissione di una o
più funzioni vitali
Accesso
immediato
Urgenza
Rischio di
compromissione delle
funzioni vitali. Condizione
stabile con rischio
evolutivo
Accesso entro
15 minuti
Urgenza
differibile
Condizione stabile senza
rischio evolutivo con
sofferenza e ricaduta
sullo stato generale che
solitamente richiede
prestazioni complesse
Accesso entro
60 minuti
Urgenza
minore
Condizione stabile senza
rischio evolutivo che
solitamente richiede
prestazioni diagnosticoterapeutiche semplici
mono-specialistiche
Accesso entro
120 minuti
Non urgenza
Problema non urgente o
di minima rilevanza
clinica
Accesso entro
240 minuti
EMODIALISI
L’obiettivo della dialisi non è sostituire tutte le funzioni del rene, ma depurare l’organismo dalle
sostanze tossiche che si accumulano nel sangue a seguito della perdita della funzione escretoria,
ripristinare l’equilibrio idro-elettrolitico, controllare l’acqua corporea, che non viene più
eliminata adeguatamente e, infine, ripristinare l’equilibrio acido-base.
Che cos'è l'emodialisi?
Le principali funzioni del rene sono il controllo dell’equilibrio idro-elettrolitico, il controllo
dell’equilibrio acido-base - in quanto responsabile dell’escrezione sia degli acidi che delle basi
non volatili e contribuisce a mantenere il pH ematico entro i range - l’eliminazione dei cataboliti
azotati, il controllo del metabolismo calcio-fosforo, la funzione endocrina con la produzione di
ormoni - quali l’eritropoietina, che stimola la produzione midollare dei globuli rossi, la renina,
che innesca il complesso meccanismo del sistema renina-angiotensina per il controllo della
pressione arteriosa - l’attivazione della vitamina D utile al riassorbimento intestinale di calcio, la
mobilizzazione di calcio dall’osso, l’inibizione della sintesi di paratormone.
L’insufficienza renale cronica è una complessa sindrome caratterizzata dalla progressiva e
permanente perdita delle funzioni sopradescritte dei reni, classificata in 5 stadi a seconda della
progressione del deterioramento della funzionalità renale, la quale si misura attraverso il valore
del filtrato glomerulare.
Nella fase terminale della malattia le opzioni terapeutiche, oltre che la terapia farmacologica di
supporto, sono il trattamento sostitutivo insieme al trapianto renale.
L’obiettivo della dialisi non è sostituire tutte le funzioni del rene, ma depurare l’organismo dalle
sostanze tossiche che si accumulano nel sangue a seguito della perdita della funzione escretoria,
ripristinare l’equilibrio idro-elettrolitico - poichéé alcuni elettroliti si accumulano
pericolosamente come il potassio ed altri, invece, si riducono, come per esempio il calcio controllare l’acqua corporea, che non viene più eliminata adeguatamente e, infine, ripristinare
l’equilibrio acido-base.
Il procedimento depurativo avviene attraverso meccanismi chimico-fisici e si realizza grazie ad
una membrana semipermeabile che consente il passaggio di acqua e particelle separando il
sangue da una soluzione cosiddetta dializzante, nella quale vi è una concentrazione nota di
soluti, i quali, per diffusione e/o convezione, si spostano da un compartimento (sangue) all’altro
(dialisato).
Per l’emodialisi le membrane utilizzate vengono assemblate sotto forma di capillari sintetici che
formano il cosiddetto “filtro”, mentre per la dialisi peritoneale la membrana utilizzata è
endogena ed è appunto la membrana peritoneale.
L’emodialisi e l’infermiere esperto
Il trattamento dialitico più utilizzato è l’emodialisi, che generalmente si esegue in centri
ospedalieri ed è gestito da infermieri esperti.
L’infermiere, dunque, è colui che è responsabile sia della gestione tecnica del Rene Artificiale dalla preparazione dell’apparecchiatura, alla gestione delle complicanze tecniche fino alla
conclusione del trattamento - che della complessa gestione clinica del malato sottoposto al
trattamento dialitico, che va dal corretto management dell’accesso vascolare (Fistola ArteroVenosa o CVC), passando per il monitoraggio dei parametri clinici e la cura della sfera relazionale,
fino alla prevenzione e gestione delle complicanze intradialitiche fino al termine della seduta
dialitica.
Le fasi della seduta emodialitica
Per meglio descrivere come si svolge la singola sessione si può suddividere l’attività
dell’infermiere in tre fasi:
Fase di preparazione
1. prende visione della prescrizione dialitica, che ovviamente è di competenza medica, sulla
quale viene indicata la metodica utilizzata, la composizione del liquido di dialisi chiamato
anche “bagno di dialisi”, tipologia e superficie del filtro, durata della seduta dialitica, peso
ideale del paziente (poiché nel periodo interdialitico, a causa della perdita della diuresi, il
paziente accumula liquidi in eccesso che vanno rimossi), tipo di accesso vascolare (Fistola
Artero-venosa o CVC), tipo di anticoagulazione del circuito ematico, terapia farmacologica
intradialitica;
2. predispone la documentazione sulla quale registrare i parametri del trattamento in corso;
3. prepara il materiale necessario sulla base della prescrizione e sulla tipologia del monitor
utilizzato;
4. prepara l’apparecchiatura di dialisi: l’infermiere deve accertarsi che all’accensione del
monitor ogni test venga superato e che l’apparecchiatura non presenti anomalie o allarmi
e che sia stata eseguita correttamente la procedura di lavaggio e disinfezione. Effettuati i
controlli si può procedere al montaggio delle linee ematiche e alla connessione delle
soluzioni concentrate al monitor, affinchéé quest’ultimo prepari automaticamente la
soluzione dializzante e proceda al riempimento delle linee ematiche con liquido di
lavaggio e il sistema sia così completamente privo di aria.
Fase intradialitica
1. l’infermiere accoglie il paziente, lo fa accomodare sul letto-bilancia, esegue
l’accertamento infermieristico sullo stato di salute nel periodo interdialitico, rileva il peso
corporeo e i parametri vitali e li registra sulla cartella di dialisi;
2. indossa i Dispositivi di Protezione Individuali (occhiali protettivi, visiere, mascherine);
3. gestisce l’accesso vascolare: sia che si tratti della puntura della Fistola Artero-Venosa che
del CVC, la procedura deve essere effettuata con tecnica asettica;
4. esegue eventuali prelievi ematici di controllo prescritti;
5. connette il paziente al circuito extracorporeo e avvia il trattamento dialitico,
posizionando correttamente le linee ematiche per evitare il rischio di disconnessioni
accidentali, che possono causare la perdita massiva di sangue;
6. rileva ad intervalli regolari tutti i parametri vitali del paziente (pressione arteriosa,
frequenza cardiaca, calo del peso corporeo) al fine di prevenire l’insorgenza di eventuali
complicanze;
7. controlla i valori riportati dal monitor per quanto concerne il buon funzionamento
dell’accesso vascolare e lo stato di efficacia del trattamento;
8. durante il trattamento l’infermiere non deve allontanarsi dalla sala dialisi per valutare lo
stato di coscienza del paziente poiché si possono presentare complicanze improvvise e
imprevedibili.
Complicanze intradialitiche
1. ipotensione arteriosa, che causa un forte malessere fino alla perdita di conoscenza per
cui è necessario un intervento efficace e tempestivo da parte dell’infermiere. Può essere
dovuta alla riduzione della volemia in seguito alla eccessiva o repentina sottrazione di
acqua durante il trattamento, a cause cardiache come alterazioni della frequenza
cardiaca, variazioni dell’osmolarità plasmatica, ecc.;
2. ipertensione arteriosa;
3. aritmie dovute allo spostamento di elettroliti, soprattutto del potassio;
4. nausea e vomito, che possono avere svariate cause che vanno dalla crisi ipotensiva,
sindrome da squilibrio, reazioni a farmaci, ipoglicemia, ecc.;
5. crampi, che possono essere generalizzati o localizzati: i crampi generalizzati sono molto
rari e nell’ipotesi più grave possono essere causati da embolia gassosa; i crampi localizzati
(generalmente al polpaccio) sono indice di una ultrafiltrazione troppo eccessiva oppure
ad iponatriemia;
6. dolori addominali;
7. febbre, che può essere indice di contaminazione del circuito extracorporeo oppure una
infezione correlata all’accesso vascolare;
8. ipotermia: i pazienti possono avvertire freddo dovuto alla circolazione extracorporea;
9. coagulazione del circuito extracorporeo;
10. complicanze più rare, come embolia gassosa o emolisi.
Fase conclusiva e post-dialitica
1. terminato il trattamento l’infermiere indossa i Dispositivi di Protezione Individuale e inizia
la procedura di restituzione del sangue extracorporeo;
2. gestisce l’accesso vascolare: per la Fistola Artero-Venosa rimuove gli aghi fistola e
procede al tamponamento; per il CVC esegue il lavaggio e la chiusura del catetere come
previsto dai protocolli in uso;
3. prima di dimettere il paziente, l’infermiere valuta le sue condizioni: stato di coscienza,
parametri vitali, stato dell’accesso vascolare;
4. procede allo smontaggio delle linee ematiche e alla loro rimozione;
5. valuta la corretta sanificazione delle parti esterne dell’apparecchiatura di dialisi e del
letto-bilancia;
6. esegue le procedure di lavaggio e disinfezione del circuito interno del monitor per dialisi
seguendo le indicazioni dell’apparecchiatura stessa. L’infermiere deve garantire e
controllare che il ciclo di lavaggio e disinfezione vada a buon fine e che non ci siano
allarmi.
ASSISTENZA AL PZ. CON DISPNEA
il nostro approccio al paziente dovrà seguire una metodica tesa ad individuare rapidamente e a
trattare immediatamente tutte le condizioni potenzialmente pericolose per la vita del paziente,
secondo il ben noto acronimo ABCDE delle funzioni vitali, lasciando inizialmente in secondo
piano l’accuratezza diagnostica.
A-Airway: valutazione della pervietà della via aerea
B-Breathing: valutazione del respiro
C-Circulation: valutazione del circolo
D-Disability: valutazione dello stato neurologico
E-Exposure: rapida valutazione testa-piedi
Paziente dispnoico in emergenza: Osservazione iniziale
L’osservazione iniziale - quadro di presentazione e valutazione primaria (ABCDE) – ci permetterà
una prima sommaria valutazione delle condizioni cliniche del paziente: sick or not sick per gli
anglosassoni: apparentemente grave o non grave.
A questo punto si dovrà eseguire un esame obiettivo (e.o.) mirato sul sintomo di presentazione e
non sul solo distretto corporeo a carico del quale il paziente lamenta la propria sintomatologia.
Ciò significa che in un paziente dispnoico, ad esempio, l’esame obiettivo mirato potrà essere
esteso anche alle gambe per cercare, nel sospetto di embolia polmonare (TEP), segni di trombosi
venosa profonda (TVP).
Gli acronimi dell’emergenza: Sampler e Opqrst
All’esame obiettivo mirato seguirà la raccolta anamnestica basata sugli acronimi SAMPLER ed
OPQRST, quest’ultimo utile ad indagare al meglio la S del SAMPLER, cioè il segno od il sintomo di
presentazione.
S: segni/sintomi
A: allergie
M: medicinali/farmaci assunti dal paziente
P: past and pertinent medical history: anamnesi patologica remota pertinente al quadro clinico
attuale
L: last oral intake: ultima assunzione di cibo
E: eventi accaduti prima dell’insorgenza del sintomo
R: risk factors: fattori di rischio
I Segni e Sintomi (S) vengono indagati tramite OPQRST:
O: onset: esordio
P: palliation/provocation: cosa fa aumentare o ridurre la sintomatologia
Q: qualità, caratteristiche del sintomo
R: radiation: irradiazione
S: severity: intensità del sintomo
T: time, durata del sintomo
Infine, si passerà ad un esame obiettivo dettagliato che, unitamente ai dati finora raccolti ed agli
ausili diagnostici a nostra disposizione, ci permetterà di formulare una diagnosi accurata e di
impostare la specifica terapia.
Il nostro ragionamento sarà dunque, procedendo nella valutazione del paziente, quello di
restringere sempre più il campo delle possibili diagnosi differenziali.
Focalizzandoci sui disturbi respiratori iniziamo col dire che questi, in valutazione primaria,
possono dipendere da problemi in A, B, C, D.
Problemi in A:
Segni di ostruzione delle vie aeree
In A, una totale o parziale occlusione della via aerea deve essere immediatamente riconosciuta e
trattata.
È in assoluto la prima priorità nella valutazione e nella gestione di qualsiasi paziente. Segni di
ostruzione della via aerea sono rumori respiratori quali stridore, russamento, rantoli; scialorrea,
impossibilità a parlare, alterazione del tono della voce.
Attenzione ai pazienti nei quali l’ostruzione della via aerea può manifestarsi in maniera subdola,
come negli ustionati, pazienti con reazione anafilattica o con processi flogistici a carico delle alte
vie aeree.
Una via aerea a rischio deve essere messa in sicurezza; il gold standard è rappresentato dal
posizionamento di un tubo cuffiato in trachea.
Da ricordare che i pazienti in coma (GCS<9), perdendo i riflessi di protezione della via aerea,
hanno per definizione la via aerea a rischio di ostruzione e necessitano della sua gestione
avanzata.
Problema in B
Logicamente molti dei pazienti dispnoici avranno un problema in B. La valutazione di B può
essere condotta secondo l’acronimo OPACS (Osservo, Palpo, Ausculto, Conto, Saturimetria).
Innanzitutto, ispezione ed osservazione del torace per valutare la simmetria dei movimenti
respiratori dei due emitoraci e l’eventuale presenza di anomali pattern ventilatori; ricordiamoci
che in questo momento della valutazione ci interessano alterazioni macroscopiche, ad esempio
se un emitorace sia fermo e non partecipi alla dinamica della ventilazione.
La palpazione ci farà individuare la possibile presenza di enfisema sottocutaneo, l’auscultazione
sui 4 campi, 2 apici e 2 basi polmonari, se esista passaggio di aria su tutto l’ambito o se invece il
murmure vescicolare (MV) sia assente o estremamente ridotto su uno o più campi, oltre alla
presenza di grossolani rumori aggiunti, quali rantoli o segni di broncospasmo.
L’assenza di MV implica 3 possibilità: o broncospasmo completamente serrato o nello spazio
pleurico esiste qualcosa che non dovrebbe esserci come aria (PNX) o liquido, massivo
versamento pleurico per sangue (emotorace) o essudato/trasudato.
Il conteggio della frequenza respiratoria (FR, normale tra 12-15 atti/m’) e la saturimetria (SO2)
completano la valutazione di B.
Problemi di B alla base della dispnea possono essere: pneumotorace, crisi asmatica, polmonite,
riacutizzazione di Bpco, Ards, versamento pleurico, contusione polmonare conseguente a
trauma.
Trovato un problema in B occorrerà risolverlo prima di procedere con la restante valutazione;
PNX e versamento pleurico massivo andranno drenati, Ards e Bpco riacutizzata trattati con
ventilazione non invasiva e, in caso di insuccesso tramite intubazione tracheale e ventilazione
invasiva, crisi asmatica e Bpco gestite con somministrazione di Beta 2 agonisti short acting per via
inalatoria.
Logicamente il primo atteggiamento terapeutico in tutte le situazioni di difficoltà respiratoria
sarà sempre la somministrazione di O2 che, nelle prime fasi del trattamento di un paziente
ipossico, con SO2 <92%, sarà sempre ai massimi flussi ed alla massima concentrazione possibili.
Nelle fasi successive l’erogazione di O2 sarà tarata in rapporto all’evoluzione del quadro clinico,
alla patologia di base ed ai valori emogasanalitici.
Problemi in C
Molti problemi di C possono avere ripercussioni sul respiro: un edema polmonare acuto (Epa)
sarà conseguenza di una primitiva patologia cardiaca (sindrome coronarica acuta, insufficienza
cardiaca, miocardiopatie, vizi valvolari, ecc.).
Un quadro di shock darà come segno precoce un incremento della frequenza respiratoria, così
come una anemizzazione acuta. Un EPA andrà immediatamente trattato con CPAP o NIV, a
seconda delle competenze personali e delle risorse a disposizione.
Problemi in D
In D lesioni midollari alte, fino a C4, provocheranno importantissimi problemi respiratori per la
paralisi della muscolatura, in primis diaframma; un quadro di ipertensione endocranica si
manifesterà, tra gli altri segni, con bradipnea.
Quindi, alla fine della nostra rapida valutazione primaria avremo già un’idea, anche se
grossolana, della possibile genesi della dispnea accusata dal paziente. Una rapida anamnesi
mirata tramite SAMPLER ed OPQRST ci permetterà di sfoltire il campo delle diagnosi.
Paziente dispnoico in emergenza: Indagini diagnostiche
Contemporaneamente all’esame obiettivo mirato sarà immediatamente necessario avvalersi
dell’ausilio di altri strumenti diagnostici.
Andrà ottenuto un Ega, meglio se arterioso e venoso, dopo avere iniziato la somministrazione di
O2 ed eseguita una POCUS (point of care ultrasonogrphy), cioè un esame ecografico bedside.
Monitoraggio Ecg ed Ecg 12 derivazioni completeranno la nostra valutazione.
Nell’Ega devono essere valutati i seguenti parametri, in quest’ordine: PO2, PH, PCO2, HCO3, BE
e, se presenti, lattati. Fondamentale il calcolo del P/F, rapporto tra PO2 e percentuale di O2
inspirata, normale se >350 (idealmente >400); se P/F inferiore a 350, ipossiemia moderata; se
inferiore a 200 ipossiemia severa; inferiore a 150 indicazione ad intubazione tracheale (IOT) e
ventilazione invasiva.
I valori normali dell'Ega
Senza addentrarci troppo nella lettura ed interpretazione dell’Ega, ricordiamo soltanto come, per
mantenere il Ph nei limiti fisiologici, al variare della componente acida (CO2) debba esistere una
consensuale variazione della componente alcalina (HCO3) e viceversa.
A seconda che la variazione di una delle due componenti sia acuta o cronica ci attenderemo un
compenso diverso da parte dell’altra componente.
In sostanza:
Acidosi respiratoria acuta: ogni aumento di 10 mmHg di CO2, aumento di 1 mEq/L di
HCO3
Acidosi respiratoria cronica: ogni aumento di 10 mmHg di CO2, aumento di 3.5 mEq/L di
HCO3
Alcalosi respiratoria acuta: ogni diminuzione di 10 mmHg di CO2, riduzione di 2 mEq/L di
HCO3
Alcalosi respiratoria cronica: diminuzione di 10 mmHg di CO2, riduzione di 4 mEq/L di
HCO3
Acidosi metabolica: ogni riduzione di 1 mEq/L di HCO3, riduzione i 1.2 mmHg CO2
Alcalosi metabolica: ogni aumento di 1 mEq/L di HCO3, aumento di 0.5 mmHg CO2
Interpretazione Pocus, esame ecografico bedside
Tramite la POCUS dovremo avere risposte del tipo “tutto o nulla” a nostre precise domande:
esiste PNX? Esiste versamento pleurico? Esistono aree di interstiziopatia intese come incremento
di linee B, cioè il polmone è nero, grigio, bianco? Se esistono queste aree di interstiziopatia, sono
settoriali (polmonite, contusione polmonare) ubiquitariamente diffuse (Epa), diffuse a macchia di
leopardo (ARDS)?
Esiste versamento pericardico? È tamponante? Esiste sovraccarico del cuore destro? Esistono
grossolani deficit della contrattilità miocardica? Il paziente è pieno o vuoto (misurazione della VCI
allo sbocco in atrio destro e ella sua riduzione di calibro in inspirium per ottenere sommaria
valutazione della pressione venosa centrale, PVC)? Esiste un aneurisma aortico? Esiste
versamento peritoneale? Alla CUS (ecografia compressiva venosa), esiste TVP prossimale?
Vari punti POCUS dovranno essere associati tra loro per ottenere una ipotesi diagnostica
integrata, qualche esempio:
 obiettività polmonare negativa, in eco polmone nero, cuore DX dilatato (VDX>2/3 SX), VCI
fissa e dilatata, CUS +: TEP
 polmone bianco per diffusa presenza di linee B, +/- versamento pleurico, VCI dilatata
(elevata PVC), deficit contrattilità VSX: EPA da deficit sistolico
 polmone bianco +/- versamento pleurico, VCI piccola (bassa PVC): EPA da deficit
diastolico
 paziente febbrile, in eco area settoriale di interstiziopatia +/- consensuale versamento
pleurico: polmonite.
L’approccio integrato valutazione primaria/SAMPLER-OPQRST/E.O. mirato/EGA/POCUS/ECG
permetterà, nella grande maggioranza dei casi, una diagnosi presuntiva precisa.
Trattamento terapeutico del paziente dispnoico in emergenza
MV ridotto, broncospasmo, polmone nero alla POCUS: asma (o riacutizzazione di Bpco se
anamnesi positiva in tal senso e pocus positiva per sovraccarico cuore dx; l’EGA sarà dirimente,
mostrando, nel caso di BPCO riacutizzata, una acidosi respiratoria acuta su cronica).
Terapia dell’asma in emergenza: O2 per SO2>/=92%; salbutamolo 5 mg (20 gtt) inalatorio, da
ripetere fino alla risoluzione del quadro; se genesi anafilattica associare antistaminici
(clorfenamina 10mg) ed H2 antagonisti (ranitidina 50 mg)) ev; in caso di peggioramento del
quadro, adrenalina per via inalatoria (molto utile nei bambini, 1 mg ogni 4 Kg di peso corporeo),
i.m. (1/2-1 fl im) o ev (1 mg portato a 100 cc; di questi infondere boli di 10 cc, da ripetere fino a
normalizzazione del quadro).
Febbre, crepitii settoriali, alla POCUS concomitante area di interstiziopatia: polmonite. Terapia:
O2 per SO2>/=92%, precoce terapia antibiotica dopo avere ottenuto prelievi per
emocolture (amoxicillina/acido clavulanico 2.2 gr in fisiologica 100 cc o Levofloxacina 500 mg ev)
POCUS + per polmone bianco, cava dilatata, rantoli diffusi: Epa da deficit sistolico. Terapia:
CPAP/NIV +/- nitroderivato ev in infusione continua e furosemide ev (attenzione, ricordare che la
CPAP riduce già di suo il ritorno venoso al cuore incrementando la pressione intratoracica!)
Rantoli diffusi, POCUS + per polmone bianco, VCI piccola: EPA da deficit diastolico. Terapia: CPAP
+/- inotropi ev (dopamina, dobutamina).
MV ridotto in un emitorace, alla POCUS assenza di sliding pleurico, presenza di lung point: PNX.
Terapia: O2 + drenaggio pleurico.
MV ridotto, versamento massivo alla POCUS: O2 + drenaggio pleurico.
MV ridotto, broncospasmo, polmone nero in eco, cuore dx dilatato, PVC aumentata (VCI dilatata
e con ridotta escursione in inspirium): Bpco riacutizzata. Terapia: NIV + salbutamolo 5 mg in
aerosol, da ripetere in continuo se necessario.
Di fronte ad un’insufficienza respiratoria acuta (IRA) ipossico-ipercapnia sarà fondamentale, per
la successiva terapia, orientarsi tra edema polmonare acuto cardiogeno (Epac) e Bpco
riacutizzata in quanto il primo può essere gestito con CPAP (più semplicemente) o con NIV, la
riacutizzazione di Bpco necessita quasi sempre di NIV, potendo essere problematico il tentativo
di trattamento con CPAP mancando, in tal modo, il supporto ventilatorio.
Quindi: l’Ega sarà probabilmente in grado di indirizzarci, di fronte ad una acidosi respiratoria,
verso un quadro acuto (Epac) o acuto su cronico (Bpco riacutizzata); quadro acuto: PO2 basa, PH
ridotto, PCO2 elevata, HCO3 normali. Quadro acuto su cronico: PO2 basa, PH ridotto, PCO2
molto elevata, HCO3 elevati.
In eco, EPAC polmone bianco, BPCO polmone nero.
Terapia:
EPAC: CPAP, PEEP 10, FiO2 elevata (almeno 50%, anche superiore nelle prime fasi)
BPCO: NIV.
Quando iniziare la NIV: PH<7.35; PCO2 >45; FR >25-30/m ’con distress respiratorio.
Come iniziare la NIV: EPAP 5 (controbilancia la PEEP intrinseca dei pazienti con BPCO); IPAP 15
(cioè PS, pressione di supporto, 10); FiO2 per SO2 88-90% (21% +1-2 litri di O2); trigger basso.
Per quanto riguarda la terapia antibiotica in urgenza in presenza di polmonite: non rischio di
infezione da pseudomonas aeruginosa: amoxicillina/acido clavulanico oppure levofloxacina
Rischio di infezione da pseudomonas: Levofloxacina oppure piperacillina/tazobactam o
ceftazidime.