TIROCINIO 3. AREA CLINICA 1) ASSISTENZA PAZIENTE CON DEFICIT DI MOBILITA’ Il paziente può presentare una mobilità ridotta per diversi motivi: emiparesi conseguente a stroke, malattie progressivamente invalidanti, sottomissione ad un intervento chirurgico importante. Ad esempio, se ci soffermiamo sullo stroke: L’ictus cerebrale è la repentina conseguenza di una compromissione del rifornimento di sangue al cervello che, provocando la morte di cellule neuronali, causa una grande varietà di deficit neurologici a seconda della localizzazione e dell’ampiezza della lesione. Il disordine cerebrovascolare che porta all’ictus è principalmente di due tipi: ischemico o emorragico. L’ictus ischemico copre circa l’80% dei casi e consiste nell’occlusione parziale o completa del lume vasale dovuta prevalentemente a placche ateromasiche o trombi conseguenti all’aumento cronico della pressione arteriosa, mentre l’ictus emorragico, che rappresenta il restante 20% dei casi, consiste nello stravaso di sangue nel cervello come conseguenza della rottura di una parete vasale causata da aneurisma, ipertensione e/o malformazioni arterovenose. Tra i fattori di rischio che possono predisporre ad una sofferenza cerebrale di questa natura, si può operare una distinzione che affianca fattori sui quali si può agire (ipertensione arteriosa, fumo, consumo di alcolici, vita sedentaria, dieta ipercalorica, uso di sostanze stupefacenti) a fattori che vanno tenuti in considerazione a seconda dei casi (ad esempio età, sesso, malformazioni arterovenose, predisposizione genetica, stato di gravidanza, cardiopatie). L’ictus comporta una serie di deficit che vanno ad incidere in maniera significativa sulla vita della persona poiché si tratta di danni irreversibili che spaziano da deficit motori come formicolii a volto, braccio o gamba, riduzione della capacità di movimento di un emisoma (emiparesi) o assenza completa di movimento di una parte del corpo (emiplegia), mancanza di coordinazione muscolare in associazione a vertigini e perdita di equilibrio, difficoltà nella deglutizione, confusione mentale, disturbi motori del linguaggio o perdita della capacità di produrre o comprendere il linguaggio, disturbi della vista come la perdita di metà del campo visivo o visione sdoppiata. Può accadere che l’attacco di sofferenza neurologica sia improvviso e breve in seguito ad un’interruzione transitoria del flusso sanguigno cerebrale; in tal caso si parla di Attacco Ischemico Transitorio (TIA) caratterizzato dalla transitorietà anche dei sintomi. Essi, infatti, scompaiono entro un’ora o entro un giorno dall’effettivo verificarsi dell’evento di sofferenza neurologica. L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica e di fronte ad un paziente colpito da ictus che dopo la stabilizzazione della sua condizione clinica ad opera dell’unità operativa d’emergenza viene trasferito nell’Unità Operativa di Geriatria, ha la responsabilità di prendere in carico l’utente. Dopo aver acquisito i dati anagrafici necessari al ricovero del paziente, l’infermiere procede ad effettuare l’accertamento infermieristico per delineare le condizioni dello stesso al momento dell’ingresso in reparto. L’infermiere rileva i parametri vitali, quali: 1. pressione arteriosa; 2. saturazione; 3. frequenza cardiaca; 4. frequenza respiratoria e qualità del respiro; 5. temperatura corporea. Con l’utilizzo di scale validate e contestualizzate e, ove possibile, con la collaborazione del paziente, valuta la presenza di dolore, con relative caratteristiche, localizzazione e intensità, così come accerterà il livello di ansia che affligge la persona. In presenza di un paziente con pregresso ictus, l’infermiere valuterà: lo status neurologico del soggetto avvalendosi, nuovamente, di scale validate; molto utilizzata, ad esempio, è la Glasgow Coma Scale che, indagando la risposta oculare, verbale e motoria, permette di sondare le abilità residue del paziente; il grado di decadimento cognitivo del paziente, utilizzando ad esempio la Mini Mental State Examination (MMSE); il rischio di caduta da valutare, ad esempio, con la Scala Conley. L’infermiere, dunque, accerterà: 1. lo stato degli occhi del paziente, le caratteristiche delle pupille e la loro reattività alla luce; 2. la risposta verbale e/o motoria a semplici comandi verbali; 3. il livello di compromissione della marcia e della mobilità, il deterioramento della capacità di giudizio, il livello di agitazione, il decadimento dell’acuità visiva. 4. Responsabilità dell’infermiere è anche quella di accertare la presenza di: 5. eventuali patologie già in essere nel paziente; 6. terapie assunte a domicilio; 7. allergie o intolleranze alimentari; 8. l’eventuale presenza di edemi, lesioni, contusioni o arrossamenti della cute (Scala di Braden). L’accertamento infermieristico, inoltre, mira ad indagare lo stile di vita del paziente al fine di conoscere le sue abitudini alimentari (con tanto di misurazione dell’indice di massa corporea – BMI) e di eliminazione, la sua occupazione e le caratteristiche del nucleo socio-familiare in cui è calato, l’eventuale utilizzo di ausili oculistici, auricolari, per la deambulazione o per l’incontinenza urinaria e/o fecale. Tutto questo per accertare i livelli di autonomia nelle attività di vita quotidiana precedenti all’attacco di sofferenza neurologica (Scala di Barthel). Occorre ricordarsi anche che è utile stilare una lista degli effetti personali dell’utente. Quella dell’accertamento è solo la prima fase del processo di assistenza infermieristica che, come passaggio successivo, prevede un’attenta analisi incrociata dei dati raccolti attraverso l’accertamento, con la collaborazione del paziente e, se presente, con quella di un caregiver; analisi dei dati che porta alla formulazione di un piano assistenziale tarato sulla singola persona. Diagnostica Il professionista infermiere identifica e conosce il materiale da preparare per effettuare le principali indagini diagnostiche che il medico potrebbe prescrivere nel caso di un paziente con ictus: esami ematici (emocromo, PT, PTT, elettroliti, ecc.); TC; 3 – RM; 4 – RX; angiografia intracranica; EEG; ECG; ecodoppler tronchi sovraortici. Un piano assistenziale secondo il modello bifocale Carpenito prevede la formulazione, in completa autonomia da parte del professionista infermiere, di Diagnosi Infermieristiche con relativi obiettivi, la pianificazione e attuazione degli interventi volti al raggiungimento degli stessi ed un sistema di valutazione in itinere per monitorare la risposta del paziente all’erogazione dell’assistenza. L’altra parte del piano assistenziale è costituita dai Problemi Collaborativi, ovvero complicanze potenziali che si stanno verificando o potrebbero verificarsi rispetto ad una determinata patologia. In questo caso l’infermiere ha un ruolo “collaborativo” nei confronti del medico e di altri professionisti della salute coinvolti nel pieno rispetto delle reciproche competenze, ovvero contribuisce a monitorare il paziente, ad individuare eventuali segni e sintomi di complicanze e ad attuare gli interventi per riportare le condizioni cliniche dell’assistito alla stabilità. Esempio di pianificazione assistenziale Con un accertamento infermieristico come quello appena esposto e considerando solo la parte del piano assistenziale di completa autonomia dell’infermiere, un esempio calzante di Diagnosi Infermieristica che si potrebbe sviluppare è la seguente: D.I. Rischio di lesione correlato ad alterazioni della mobilità secondarie a Ictus cerebrale. Obiettivo: La persona non presenterà lesioni durante la degenza. Pianificazione degli interventi garantire la privacy; informare il paziente su ogni manovra che si andrà ad effettuare; istruire il paziente sull’utilizzo del campanello per richiedere assistenza; garantire igiene personale e dell’unità di degenza; cambiare la posizione almeno ogni 2 ore e monitorare lo stato della cute; portare la persona dalla posizione supina a quella seduta a bordo letto; incoraggiare il paziente ad utilizzare l’arto sano per supportare la parte controlaterale più debole; promuovere esercizi attivi e passivi di escursione articolare di tutte le estremità; mantenere il letto nella posizione più bassa con le sponde sollevate; eliminare ostacoli ambientali Attuazione degli interventi effettuare igiene delle mani dell’operatore; chiudere la porta della stanza di degenza e posizionare un paravento a protezione dell’assistito durante le manovre invasive per garantire la privacy; spiegare al paziente con parole adatte al suo livello di comprensione le fasi e l’utilità della manovra che si sta per eseguire affinché comprenda pienamente ciò che verrà effettuato e aumenti la sua collaborazione; spiegare il funzionamento del sistema di chiamata posizionando il campanello all’interno del campo visivo del paziente e vicino all’arto funzionante, accertarsi della capacità di utilizzarlo da parte dell’assistito con delle simulazioni; effettuare igiene personale almeno una volta al giorno e all’occorrenza mantenendo il paziente in posizione di sicurezza per evitare l’insorgenza di lesioni da pressione/ulcere da decubito, di infezioni o di cadute accidentali; cambiare la posizione della persona con l’utilizzo di presidi adatti per evitare l’insorgenza di lesioni da pressione, monitorare lo stato della cute in particolare nelle zone delle prominenze ossee dove più facilmente possono verificarsi lesioni, posizionare un cuscino sotto l’ascella per l’abduzione del braccio, posizionare bacino e arti inferiori in asse rispetto al resto del corpo per evitare lussazioni o sublussazioni delle articolazioni, posizionare “in scarico” la mano e il braccio dell’arto colpito per favorire il ritorno venoso ed evitare l’insorgenza di edemi declivi, posizionare un piccolo presidio di consistenza rigida nel palmo della mano del soma colpito per contrappore il pollice alle altre dita ed evitare un posizionamento errato delle dita che potrebbe compromettere la circolazione sanguigna e/o le articolazioni; aiutare il paziente, gradualmente e se non controindicato, a stare seduto: rilevare la pressione arteriosa e monitorare il colorito della cute del viso prima di effettuare la manovra, abbassare il letto per ridurre la distanza dal pavimento, sollevare la testata del letto, aiutare il paziente a sedersi sul bordo del letto, fargli indossare calzature comode e chiuse per evitare eventuali contusioni e posizionarlo con le braccia appoggiate ad un tavolino debitamente frenato, continuare a tener monitorato il colorito del paziente e il suo stato di coscienza per verificare che non sia in atto un repentino calo della pressione arteriosa, rilevare nuovamente la pressione arteriosa per valutare la tolleranza del paziente alla manovra, chiedere ad un caregiver di restare in compagnia del paziente e ripetere la tecnica di utilizzo del sistema di chiamata in caso di bisogno; istruire l’assistito ad accompagnare l’arto colpito con l’arto sano per evitare che si provochi lesioni o lussazioni con movimenti incontrollati; stimolare l’assistito, anche avvalendosi della collaborazione di un professionista fisioterapista, ad effettuare esercizi attivi e passivi di mobilizzazione per mantenere il tono muscolare e migliorare la circolazione sanguigna; sollevare le sponde del letto nel momento in cui il paziente è allettato per fare in modo che con esse possa aiutarsi nella mobilità a letto; j eliminare dal comodino e dall’unità di degenza ostacoli ambientali come tappeti, sedie, oggetti taglienti, che potrebbero provocare lesioni accidentali durante la mobilizzazione del paziente. Verifica La persona non presenta lesioni durante la degenza. Dopo tutto quanto sopra esposto l’Infermiere deve valutare e comunicare al Medico e all’equipe assistenziale anche la presenza di: eventuali altre patologie concomitanti; eventuali allergie; eventuali intolleranze alimentari; eventuale terapia domiciliare; abitudini alimentari; incontinenze fecali e urinarie; presenza di vescica o di sfinteri neurologici; ultima evacuazione; presenza di cateteri venosi periferici, cateteri venosi centrali; presenza di cateteri vescicali; eventualità di posizionamento del pantalone (compito che attribuisce all’OSS); necessità di presidi deambulatori o di altra natura; necessità di utilizzare sollevatori passivi o attivi; necessità di indicare materasso antidecubito (in presenza di lesioni o di indice di Braden sfavorevole); eventuali contenzioni (sempre su prescrizione del Medico, in caso d’urgenza può farlo l’Infermiere, ma dopo aver informato il Medico, che avrà l’obbligo di riportare il tutto in cartella clinica il giorno successivo). Una volta identificato il paziente fragile, è necessario attivare interventi e percorsi assistenziali specifici per il suo sostegno, con l’obiettivo di ridurre l’incidenza di eventi morbosi. L'ambiente ospedaliero risulta quello ideale per l'ascolto, l'osservazione e il dialogo, per poter identificare il soggetto vulnerabile e progettare un percorso idoneo. Il percorso assistenziale e le opzioni terapeutiche vanno predisposte con la persona stessa, identificando i rischi e benefici, anche in relazione alla qualità della vita, alle potenzialità assistenziali attuabili nel territorio e a domicilio e all'aspettativa di vita. Durante il ricovero è utile analizzare alcuni aspetti fondamentali, come: Stato nutrizionale Rischio di caduta Mobilizzazione e attività fisica Eventuale riduzione della capacità visiva e uditiva Piano terapeutico farmacologico Fattori come la solitudine e fattori socio-ambientali possono determinare di per sé una condizione di fragilità, indipendentemente che vi siano altre problematiche associate. La gestione ideale prevede di reinserire la persona nella propria casa, ma per fare ciò è necessaria la presenza di servizi territoriali in grado di rispondere ai bisogni della persona che invecchia. Per affrontare i problemi del paziente fragile, l’approccio deve essere multidisciplinare e deve prevedere un tipo di intervento globale definito bio–psico-sociale, che preveda anche il coinvolgimento dei familiari e di diverse figure professionali che concorrano in maniera sinergica al miglioramento della qualità della vita del paziente. Una buona integrazione sociosanitaria attraverso team interdisciplinari permette vantaggi significativi in termini di qualità di vita e, nel contempo, una riduzione dei costi ospedalieri grazie alla diminuzione dei ricoveri impropri per gli ultrasettantacinquenni. La presa in carico al domicilio deve avvenire ad opera di un team multidisciplinare, che deve prevedere la presenza di: Medico di medicina generale (MMG) Servizi socioassistenziali Assistenza domiciliare integrata e operatori del territorio: medici, infermieri e personale amministrativo La famiglia Il medico di medicina generale è la figura professionale più idonea in grado di “diagnosticare” una condizione di fragilità, in quanto ha un quadro globale del paziente, riveste un ruolo nella prevenzione delle malattie tumorali, cardiovascolari e metaboliche, nella diagnosi e terapia, conosce vantaggi terapeutici e i potenziali rischi ed effetti collaterali. I servizi socioassistenziali entrano in gioco su segnalazione diretta della famiglia, o dal MMG o dall'ospedale, e possono essere fondamentali in caso di problematiche di tipo sociale ed economico, o qualora non siano presenti caregiver in grado di prendersi cura della persona fuori dall’ambiente ospedaliero. L'assistenza domiciliare integrata è diretta all'anziano che ha necessità di supporto, ma nel contempo deve vivere al domicilio. Questo deve far sì che possa svolgere le sue normali attività quotidiane, come l'igiene personale. Per assistenza domiciliare integrata si intende un'assistenza che prevede la collaborazione di infermieri, medici, operatori sociosanitari, servizi sociali. L’assistenza fornita al domicilio presuppone preferibilmente che vi sia la presenza di un caregiver costante in grado di seguire la persona. 2) ASSISTENZA AL PZ IN FASE PRE OPERATORIA La fase preoperatoria dell’assistenza infermieristica peri operatoria, inizia quando viene presa la decisione di eseguire un intervento chirurgico e termina quando il paziente viene trasferito sul letto operatorio. Lo scopo delle attività infermieristiche in questo periodo include la valutazione di base del paziente prima dell’intervento chirurgico, eseguita attraverso l’intervista preoperatoria che comprende: Accertamento fisico ed emotivo previa anamnesi anestesiologica e valutazioni di eventuali allergie La conferma che sono stati eseguiti gli esami necessari La prenotazione di servizi di consulenza L’attuazione dell’educazione preoperatoria sul recupero dell’anestesia e sulla gestione postoperatoria. ACCOGLIENZA L’accoglienza è il momento in cui il degente entra in reparto e nella sua stanza. Compito dell’infermiere: presentarsi, accompagnarlo in stanza e descriverla, descrivere l’UO ed i suoi ritmi, consegnare brochure informativa. VISITA ANESTESIOLOGICA ANAMNESI (Storia clinica: malattie pregresse, interventi chirurgici pregressi, farmaci, allergie). ESAME OBIETTIVO (Affezioni respiratorie, epatiche, cardiocircolatorie, etc.). VALUTAZIONI INDAGINI DIAGNOSTICHE EFFETTUATE (Ecg, Rx torace, esami laboratorio etc.). RICHIEDERE ULTERIORI ACCERTAMENTI O CONSULENZE; VALUTARE IL RISCHIO (ASA) OTTENERE CONSENSO DEL PAZIENTE ALLE PROCEDURE. CONSENSO INFORMATO Per un valido consenso informato prima che venga eseguito un intervento chirurgico è necessario un consenso scritto e informato da parte del paziente. Tale permesso scritto protegge il paziente da una chirurgia non soddisfacente e protegge il chirurgo da reclami per operazioni non autorizzate. Nel migliore interesse da entrambi le parti, vanno seguiti dei solidi principi medico-legali. Inoltre, il chirurgo deve informare al paziente delle alternative, dei possibili rischi, delle complicanze, delle disabilità, e delle eventuali rimozioni del corpo. Il consenso informato è necessario in casi in cui: 1. La procedura è invasiva 2. Si utilizza l’anestesia 3. Si esegue una procedura non chirurgica con un rischio medio per il paziente. 4. Si esegue una procedura che utilizza radiazioni ACCERTAMENTO L’accertamento del paziente chirurgico comporta la valutazione di un’ampia serie di fattori fisici e psicologici. Molti problemi del paziente o diagnosi infermieristiche possono essere previsti o identificati sulla base dei dati. A questa sezione segue una dettagliata discussione sull’accertamento psicosociale e sull’esame obiettivo del paziente chirurgico. DIGIUNO L’ASA, la società americana di anestesiologia, raccomanda un digiuno dopo un pasto leggero 6 ore prima e di interrompere l’assunzione di liquidi 2-4 ore prima dell’intervento chirurgico che richiedono anestesia generale, regionale o sedazione. Un periodo di digiuno di 8 ore o più è raccomandato per pasti che includono cibi grassi o fritti e carne. Lo scopo del digiuno è quello di impedire l’aspirazione, che si verifica quando cibi o liquidi vengono rigurgitati dallo stomaco e inspirati nel sistema respiratorio. Questo materiale inalato agisce come sostanze estranea, causando irritazione e reazione infiammatoria, ostacolando lo scambio gassoso. L’aspirazione è un problema grave, con una percentuale di mortalità del 60-70%. In alcuni pazienti, quando si vieta l’assunzione orale, i liquidi possono essere somministrati per via endovenosa, per assicurare un adeguato volume di liquidi. PREPARAZIONE INTESTINALE i clisteri non sono comunemente prescritti nel preoperatorio, a meno che il paziente deve essere sottoposto a un intervento di chirurgia addominale. In questo caso, può essere prescritto un clistere lassativo, la sera prima dell’intervento, e un altro ripetuto nella mattina dell’operazione. Questo permette di avere una migliore visione del sito chirurgico e previene traumi all’intestino o contaminazione del peritoneo da parte delle feci. PREPARAZIONE CUTE Lo scopo della preparazione cutanea è quello di ridurre le fonti batteriche senza provocare lesione alla cute. Quando è un intervento non di emergenza, il paziente può detergersi l’aerea interessata con un sapone germicida per diversi giorni prima dell’operazione, con lo scopo di ridurre la quantità di organismi presenti sulla cute. Inoltre, vengono rimossi i peli sul sito chirurgico, in modo da ridurre la presenza di microrganismi e di avere una migliore visione per la zona da operare. L’operazione viene eseguita prima dell’intervento usando un clipper elettrico. TRICOTOMIA La tricotomia preoperatoria è la procedura di rimozione dei peli o capelli presenti nella zona cutanea da sottoporre a un intervento chirurgico, per minimizzare l'interferenza con l’incisione e il seguente intervento. La tricotomia fa parte della preparazione preoperatoria del paziente, ed è uno dei fattori più rilevanti nel controllo delle cosiddette infezioni del sito chirurgico (ISC); una volta ripulita la zona, si procede a ridurre la flora microbica cutanea con un’adeguata igiene ed un trattamento antisepsi. Nonostante sia necessaria per ridurre le possibilità di insorgenza di problemi, la tricotomia è a sua volta un rischio d'infezione, poiché può causare microlesioni della pelle. Dai dati riportati in letteratura è noto, infatti, che la rasatura preoperatoria del sito chirurgico è associata ad un rischio significativamente più elevato di infezione rispetto all’uso di creme depilatorie o alla non rasatura. L’aumentato rischio di ISC associato alla rasatura è stato attribuito a microscopiche lesioni cutanee che fungono poi da “foci” per la moltiplicazione batterica. DOCCIA PREOPERATORIA L’esecuzione di una doccia o di un bagno preoperatorio è utile a diminuire la colonizzazione microbica della cute, ma non alla riduzione dell’incidenza delle infezioni della ferita chirurgica. Uno studio con più di 700 pazienti ha evidenziato che due docce preoperatorie antisettiche con clorexidina riducono la conta delle colonie batteriche di 9 volte, mentre lo iodio-povidone riduce la conta di 1,3 volte. I prodotti a base di clorexidina gluconato richiedono diverse applicazioni per ottenere il massimo effetto antimicrobico tanto da rendere necessarie, di solito, più docce antisettiche. INTERVENTI INFERMERISTI NELLA FASE PREOPERATORIA Al paziente viene fatto indossare un camice lasciato aperto sulla schiena. Se la persona ha i capelli lunghi, questi vengono raccolti in una treccia, i capelli vanno poi coperti con una cuffia di carta monouso. Il paziente viene chiesto di togliere la dentiera o ponti mobili, poiché se lasciati in bocca questi oggetti possono cadere in gola durante induzione dell’anestesia e causare ostruzione respiratoria. In sala operatoria, inoltre, il paziente non deve indossare gioielli. Tutti i pazienti devono urinare prima di recarsi in sala operatoria, in modo da mantenere la continenza durante l’intervento ed avere un accesso più facile agli organi addominali. La cateterizzazione va eseguita in sala operatoria se necessario. TRASFERIMENTO DEL PAZIENTE ALLA SALA OPERATORIA Il paziente viene trasportato nella stanza preoperatoria 30-60 minuti prima della somministrazione dell’anestesia su una barella. L’ambiente deve essere silenzioso, per permettere al farmaco anestetico di avere la massima efficacia. Il paziente sedato non deve udire rumori o conversazioni spiacevoli che potrebbe mal interpretare. FASE INTRAOPERATORIA Una volta giunto in camere operatoria il paziente viene preso in consegna dal personale di sala; in questa fase è importante sempre mettere in primo piano i bisogni psico-fisici presentati dal paziente. Il paziente viene posizionato correttamente sul tavolo operatorio e monitorizzato, prima della somministrazione dell’anestesia. Durante lo svolgimento dell’intervento l’infermiere collabora assumendo il ruolo o di “strumentista” o di “sala o fuori campo”: compiti infermiere di sala o “fuori campo”: 1. Posizionamento del pz sul letto operatorio 2. Collaborazione con l’anestesista durante l’intubazione e l’induzione dell’anestesia 3. Collaborazione con i membri dell’equipe durante la vestizione sterile 4. Preparazione del materiale sterile per l’allestimento dei tavoli a cura dello strumentista 5. Controllo dell’illuminazione del campo operatorio 6. Inoltre, durante l’intervento il materiale occorrente che non è disponibile deve essere passato all’infermiere strumentista in modo sterile Compiti infermiere strumentista: Preparazione igienica personale con vestizione sterile Allestimento del tavolo madre e servitore Verifica della funzionalità degli strumenti ed elettromedicali Assistenza al chirurgo che consiste nel porgere gli strumenti ed i materiali necessari all’intervento Verifica il numero di ferri chirurgici utilizzati e procede alla conta delle pezze e degli aghi Al termine dell’intervento, ed al risveglio dall’anestesia, l’infermiere controlla i parametri vitali del paziente ed il suo ritorno alle normali funzioni psico-fisiche. 3) ASSISTENZA AL PZ IN SALA RISVEGLIO Il periodo post-operatorio è la fase che segue immediatamente l'intervento chirurgico; la sua durata e complessità variano in base alla tipologia di intervento, alle tecniche chirurgica e anestesiologica utilizzate e alla presenza e gravità di eventuali complicazioni per il paziente. Quello post-operatorio è senza dubbio uno dei momenti più delicati per la vita del paziente dopo l'intervento chirurgico; il suo management richiede da parte dell'équipe la considerevole conoscenza dei possibili eventi avversi e delle procedure che li possono limitare, in relazione alla situazione clinica dell'operato. Le figure professionali che si interfacciano con il malato nell'immediato postoperatorio sono il medico anestesista, l'infermiere di sala, l'infermiere di anestesia, e gli operatori di supporto. L’infermiere svolge, in merito, un ruolo tanto fondamentale quanto complesso. Egli ha il compito di accogliere il paziente nella sala di risveglio, di monitorarne i parametri vitali ed emodinamici, di applicare le prescrizioni terapeutiche secondo indicazione del medico anestesista e di intervenire in maniera adeguata in caso di situazioni di criticità in cui il paziente si presenti in pericolo di vita. Organizza, infine, solo dopo aver stabilizzato le condizioni del paziente, il trasferimento del paziente nell'unità operativa presso la quale è ricoverato. L'assistenza infermieristica in sala risveglio è un nursing di area critica e dev'essere, pertanto, continua e minuziosa in quanto anche da essa dipendono il successo terapeutico e la qualità dell'esperienza del paziente. La sala risveglio è la struttura facente parte del complesso operatorio all'interno della quale medici e infermieri esercitano, normalmente, le funzioni di assistenza post-operatoria, quali il monitoraggio dei parametri e delle funzionalità vitali, la somministrazione dei farmaci e della terapia infusionale, la sorveglianza dello stato di coscienza e la valutazione clinica globale del paziente neo-operato. La zona risveglio è realizzata in un locale adibito alle esclusive funzioni previste e dev'essere dotato ai sensi del Decreto legislativo del 30/12/1992 n. 502 di: 1. prese elettriche, prese per l'ossigenoterapia, per l'aria compressa e l'aspirazione; 2. sistemi monitorizzati per la valutazione dei parametri vitali; 3. defibrillatore, ventilatori automatici e manuali, farmaci e presidi per l'urgenza; 4. filtrazione ad alta efficienza con un minimo di 6 ricambi d'aria per ora; 5. spazi adeguati e illuminazione efficiente. Successivamente all'intervento chirurgico e al risveglio dallo stato di coma indotto dall'anestesia, il paziente operato viene accolto dal personale medico e infermieristico all'interno dei locali della sala risveglio dove seguirà un periodo di sorveglianza e monitoraggio post-operatori. Il paziente neo-operato, soprattutto se ha subito una anestesia generale, può presentarsi alla visita dei sanitari della sala risveglio con le attività motorie e psico-sensoriali limitate o particolarmente alterate, delirante, dolorante e “dotato” di presidi medico chirurgici quali, ad esempio, sondino naso gastrico, drenaggi chirurgici, cateteri venosi e cateteri vescicali. All'infermiere spetta la valutazione e il management del paziente con le caratteristiche descritte, ma anche la valutazione dello stato clinico generale, la prevenzione e la gestione delle possibili complicanze post-operatorie in collaborazione con il medico anestesista. La gestione del dolore nel paziente durante il post-operatorio è di considerevole importanza e lo stato di analgesia rappresenta per l'équipe anestesiologica un obiettivo primario. Il dolore è un'esperienza individuale, soggettiva e spiacevole e dev'essere valutato e trattato quanto più precocemente possibile. L'infermiere lo fa utilizzando le competenze tecniche e umane proprie della professione infermieristica, utilizzando le più aggiornate linee guida in relazione alle risorse a disposizione. Per l'infermiere che opera nella sala risveglio la conoscenza dei farmaci e dei possibili effetti, in particolare analgesici e stupefacenti, è di vitale importanza. Gli eventi avversi più pericolosi ipotermia nausea e vomito complicanze respiratorie complicanze cardiache complicanze neurologiche complicanze chirurgiche. Oltre alla temperatura ambientale, sia l'anestesia generale che quella loco-regionale, unite a determinati eventi che possono verificarsi prima e durante l'intervento chirurgico, sono in grado di scatenare l'ipotermia. L'ipotermia è la condizione nella quale il corpo umano fa registrare una temperatura inferiore a quella fisiologica. Nei casi più gravi può portare il paziente a sviluppare delle complicazioni respiratorie, cardiache e renali. L'infermiere ha il compito di prevenirla ed eventualmente trattarla, facendo in modo che la dispersione di calore del paziente sia quanto più bassa possibile e lo fa agendo sulla temperatura dell'ambiente dove è collocato il paziente, utilizzando termocoperte, riscaldando le soluzioni da infondere e favorendo un idoneo posizionamento del paziente sul lettino. Il vomito nel paziente neo-operato può essere scatenato da diversi fattori post-operatori (dolore, ipotensione, disidratazione, postura, somministrazione di stupefacenti ecc.) ai quali si aggiungono fattori chirurgici (es. durata intervento, chirurgia laparotomica) e fattori intrinseci del paziente (età, sesso, peso corporeo, terapia domiciliare, ansia). Esso può determinare soffocamento nel paziente non ancora del tutto cosciente e necessita di intervento farmacologico con la somministrazione di farmaci antiemetici. Le complicazioni respiratorie, cardiache e neurologiche (insufficienza respiratoria, infarto, aritmie, tromboembolia polmonare, emorragia cerebrale, ischemie ecc.) sono talvolta poco prevedibili e necessitano di un intervento immediato del personale infermieristico in collaborazione con l'équipe medica e prevedono un primo trattamento già nella sala risveglio con successivo trasferimento nelle unità operative specialistiche. Le complicanze chirurgiche che possono andare dallo shock ad una grave emorragia richiedono talvolta un immediato trasferimento del paziente sul letto operatorio. Soltanto quando le condizioni cliniche del paziente vengono stabilizzate dall'équipe medica e infermieristica e questo risponde correttamente agli stimoli esterni, può essere organizzato il trasferimento nell'Unità Operativa presso la quale è stato ricoverato in origine o in un centro differente (es. Terapia Intensiva), qualora vi siano state complicazioni richiedenti una sorveglianza e un trattamento più specifici. Negli spostamenti, compreso quello dal letto operatorio alla barella, si deve prestare particolare attenzione evitando lesioni a carico del sistema nervoso e osteo-articolare, rassicurando il paziente e informandolo di tutto quello che succederà. L'ok alla dimissione dalla sala operatoria spetta in ultima analisi al medico. Un interesse esclusivo lo meritano gli operatori che movimentano il paziente operato; i trasferimenti, lo ricordiamo, devono essere effettuati in sicurezza, in modo che anche i sanitari eseguano le manovre assumendo una corretta postura, sia per salvaguardare sé stessi dai traumi che per tutelare l'incolumità del paziente. Il tragitto dal blocco operatorio alla stanza del paziente può richiedere la vigilanza del medico anestesista, di un infermiere di anestesia o di entrambi, in quanto l'insorgenza di aventi avversi durante il tragitto stesso non dev'essere lasciata al caso. 4) ASSISTENZA AL PZ NEL POST-OPERATORIO L’intervento chirurgico, a prescindere dalla sua portata, è comunque sempre un evento invasivo e traumatico per il paziente. Tra le responsabilità dell’infermiere vi è il controllo e la prevenzione dei rischi postoperatori nei quali l’assistito può incorrere. Ma quali sono questi rischi? Ricordiamone alcuni insieme. Il processo chirurgico, definito anche peri operatorio, si articola in tre fasi distinte fra loro, dotate di procedure specifiche e caratterizzanti: periodo preoperatorio: comprende tutta la fase che precede l’intervento, a partire dalla decisione della necessità dell’operazione e dagli accertamenti diagnostici per arrivare al trasferimento e posizionamento dell’assistito sul tavolo operatorio; periodo intraoperatorio: comprende tutta la fase durante la quale il paziente si trova sul letto operatorio e termina con l’esaurirsi dell’operazione chirurgica; periodo postoperatorio: comprende tutta la fase che va dal termine dell’intervento fino al termine di tutte le cure strettamente correlate all’intervento stesso. L’infermiere è protagonista dell’assistenza in tutte le fasi e garantisce prestazioni proporzionate alle necessità psicosociali e fisiche di ogni singolo assistito, consapevole di quanto il paziente riversi le proprie personali convinzioni sull’evento “operazione chirurgica” e di quanto questo possa condizionare l’andamento dell’intero percorso. Qualità e continuità dell’assistenza sono due dei motivi conduttori che guidano l’agire infermieristico; è in questa dimensione che si inseriscono consapevolezza e prevenzione dei rischi nei quali l’assistito può incorrere nel periodo postoperatorio. L’assistenza infermieristica, sorretta sempre dal rigore scientifico e dalla forza delle evidenze, si plasma e si modella a seconda del tipo di procedura chirurgica in questione e, non ultimo, a seconda delle peculiari esigenze dell’operando. Numerosi e insidiosi sono i rischi che possono concretizzarsi al termine di un intervento chirurgico, più o meno vicini nel tempo. L’infermiere li conosce e mette in atto pratiche atte a scongiurare il loro verificarsi. Tra i rischi postoperatori possibili ricordiamo: Complicanze respiratorie Soprattutto nei pazienti sottoposti ad anestesia generale possono verificarsi casi di insufficienza ventilatoria, aspirazione o inadeguata clearance delle vie respiratorie. Per via di accumulo e di stasi di secrezioni mucose possono verificarsi fenomeni di atelettasia e di polmonite postoperatoria (o “da stasi”, appunto), accompagnate da dispnea, febbre, tachipnea, tachicardia e cianosi. Come misure preventive l’infermiere, tra le altre cose: stimola l’assistito a compiere periodiche inspirazioni profonde; stimola l’assistito a tossire (contenendo con le mani la ferita chirurgica); stimola e aiuta l’assistito a variare la postura (entro i limiti consentiti dalla situazione); stimola l’assistito a riprendere la deambulazione prima possibile (se non controindicato); garantisce una corretta gestione della terapia antalgica; garantisce e promuove una corretta igiene orale. Disfunzioni neurovascolari periferiche Trombosi venosa profonda e tromboflebite, che possono evolvere in embolia polmonare, sono tutt’altro che infrequenti per via dello stress a cui tipicamente un intervento chirurgico espone il fisico del paziente, dell’immobilità prolungata, delle variazioni pressorie e di eventuali traumatismi. Complicanze di questa natura possono verificarsi nell’immediato postoperatorio o anche a distanza di una o due settimane. Come misure preventive l’infermiere, tra le altre cose: tiene monitorata la cute dei polpacci per individuare eventuali stati insoliti di rossore, calore o turgore; testerà periodicamente il segno di Homans (se il paziente ha dolore alla gamba o al polpaccio in seguito alla dorsiflessione forzata del piede il segno di Homans si dice positivo e questo può significare la presenza di tromboflebite); stimola l’assistito a riprendere la deambulazione prima possibile (se non controindicato); educa e stimola l’assistito a svolgere esercizi postoperatori attivi e passivi durante l’allettamento; garantisce la corretta applicazione di calze elastocompressive e/o di altri sistemi a compressione graduata; garantisce la corretta somministrazione della terapia anticoagulante prescritta dal medico. Infezione, eviscerazione, deiscenza della ferita Materiale purulento e maleodorante che fuoriesce dalla ferita e/o dal punto di inserzione del drenaggio, dolore in sede d’intervento, rossore insolito della cute perilesionale e febbre sono i principali segni e sintomi d’infezione. Inoltre, possono verificarsi riapertura spontanea della ferita e la fuoriuscita di visceri dalla stessa. Come misure preventive l’infermiere, tra le altre cose: monitora la ferita, lo stato della cute perilesionale e il punto di inserzione del drenaggio, ove presente; monitora quantità e qualità del materiale nel drenaggio, ove presente; sostituisce la medicazione con tecnica asettica secondo i protocolli della struttura e al bisogno, valutando il materiale rilasciato sulla medicazione precedente; mantiene il circuito chiuso del drenaggio, ove presente; riduce le possibilità d’ingresso di microrganismi; istruisce l’assistito a contenere la ferita con le mani in caso di tosse, starnuti, vomito o singhiozzo; garantisce una corretta igiene personale del paziente e dell’unità di degenza. Stati ansiosi o depressivi: Un intervento chirurgico, dicevamo, si carica inevitabilmente di connotazioni personali appartenenti al singolo paziente. Ad esso, a seconda della causa, possono associarsi mancata accettazione di una nuova immagine corporea, disagi relativi a cambiamenti drastici nelle abitudini quotidiane, sconforto per una prognosi sfavorevole, ecc. La dimensione psicologica e affettiva non è da trascurare mai, tantomeno nel periodo postoperatorio, durante il quale anche lo spirito con il quale si affronta la convalescenza è d’aiuto. Come misure preventive l’infermiere, tra le altre cose: accoglie i dubbi dell’assistito; fornisce all’assistito tutte le spiegazioni di cui ha bisogno; attraverso l’ascolto attivo e un linguaggio assertivo entra in empatia col paziente; si accerta che l’assistito abbia appreso le pratiche che dovrà attuare durante la convalescenza a domicilio; garantisce la continuità assistenziale attivando le pratiche per il follow-up. Il periodo post-operatorio inizia per convenzione 24h dopo l’intervento e si protrae per il resto della degenza post-operatoria; se il percorso clinico è regolare, nel periodo post-operatorio intermedio avviene la stabilizzazione definitiva dei parametri vitali e la fase iniziale della guarigione del trauma chirurgico, monitoraggio parametri vitali, delle condizioni cliniche, della ferita chirurgica e determinazione di parametri di laboratorio e di eventuali esami strumentali. Durante questo periodo è particolarmente importante il monitoraggio e il trattamento della ferita chirurgica/eventuali drenaggi. Per un adeguato monitoraggio del paziente nel periodo post-operatorio immediato ed intermedio, si deve valutare la funzionalità di principali organi e apparati: - parametri e segni vitali; - funzionalità cardio circolatoria, respiratoria, corporea, renale/vescicale, epatica, gastrointestinale; - coagulazione del sangue; - esami di laboratorio generali e particolari. E’ inoltre necessario curare la posizione a letto e la mobilizzazione del paziente, sorvegliare e trattare la ferita chirurgica/eventuali drenaggi, bilancio idrico, gestione del dolore post operatorio, terapia farmacologica, catetere vescicale, medicazione della ferita chirurgica e drenaggi, alimentazione/ripresa dell’alimentazione, sorveglianza del sito chirurgico. 5) ASSISTENZA AL PZ IN COMA – TIPI DI COMA Il coma, o stato comatoso, è uno stato di incoscienza, dal quale chi vi cade non può essere risvegliato; tale condizione - caratterizzata dalla mancata risposta agli stimoli dolorosi, ai cambiamenti di luce e ai suoni - mina il ciclo sonno-veglia e rende impossibile ogni azione di tipo volontario. L'entrata in coma può dipendere da: un abuso/overdose di farmaci, alcol, droghe pesanti o sostanze tossiche; gravi malattie del sistema nervoso centrale; gravi anomalie metaboliche; ictus; ernia cerebrale; gravi traumi cerebrali; ipoglicemia, ipercapnia ecc. La gravità di un coma e le sue modalità d'insorgenza dipendono dalle cause scatenanti. In genere e salvo il paziente non si svegli, lo stato di coma vero e proprio ha una durata limitata nel tempo, che oscilla tra le 4 e le 8 settimane. Dopodiché, evolve o in stato vegetativo o in stato di minima coscienza. Il passaggio dal coma allo stato vegetativo o a quello di minima coscienza può decretare o meno un miglioramento progressivo delle condizioni di salute del paziente. I miglioramenti derivanti dall'uscita dallo stato di coma sono imprevedibili, possono essere più o meno veloci e dipendono dalla gravità del danno encefalico che ha provocato, in origine, lo stato comatoso. Nelle sue prime battute, il ricovero ospedaliero di una persona comatosa ha luogo nel reparto di terapia intensiva; quindi, quando le condizioni del paziente si sono stabilizzate di un certo grado, avviene in corsia. Il coma è uno stato di incoscienza, dal quale chi vi cade non può essere risvegliato; tale condizione comporta la mancata risposta agli stimoli dolorosi, ai cambiamenti di luce e ai suoni, fa saltare il ciclo sonno-veglia e, infine, rende impossibile ogni azione volontaria. Un soggetto che cade in stato di coma è detto “soggetto comatoso”. L'aggettivo comatoso è valido anche associato alla parola “stato”; stato comatoso e coma sono sinonimi. Coma e coma farmacologico sono due situazioni distinte, che è bene chiarire fin dalle prime battute di questo articolo. Mentre il coma è uno stato di incoscienza patologico, non voluto e indicativo di una grave condizione di salute, il coma farmacologico è uno stato di incoscienza indotto volontariamente dai medici, per favorire il recupero da situazioni traumatiche, per proteggere l'encefalo da una carenza di ossigeno e per ridurre la sensibilità al dolore, in occasione di interventi chirurgici molto delicati. Conosciuto anche come coma indotto o coma artificiale, il coma farmacologico si ottiene con dosi controllate di barbiturici, benzodiazepine o propofol, in aggiunta ad analgesici oppiacei (es: morfina). I motivi per cui una persona può entrare in coma sono numerosi. Tra le possibili cause di coma, rientrano: Le intossicazioni da abuso/overdose di farmaci, droghe pesanti, sostanze nocive o alcol. Secondo attendibili indagini mediche, 40 casi di coma su 100 (quindi il 40%) sarebbero dovuti a un avvelenamento farmacologico. Le gravi anomalie metaboliche; Le malattie del sistema nervoso centrale a uno stadio avanzato; L'ictus e l'ernia cerebrale; I gravi traumi cerebrali; L'ipotermia; L'ipoglicemia; L'ipercapnia grave; L'eclampsia. La gravità del coma e le modalità d'insorgenza dipendono dalle cause scatenanti. Per esempio, prendendo in considerazione soltanto le modalità d'insorgenza, il coma risultante da ipoglicemia o ipercapnia comprende una serie di sintomi precedenti, tra cui: agitazione, confusione, ottundimento progressivo e stupore; al contrario il coma derivante da un trauma cranico o un ictus emorragico a livello subaracnoideo (emorragia subaracnoidea) è istantaneo. Esistono varie scale di misura per stimare la gravità di un coma. La scala di misura più famosa e maggiormente in uso oggi è la cosiddetta Glasgow Coma Scale (scala GCS). La scala GCS comprende un range di valori che va da un minimo di 3 – valore che rappresenta il coma profondo – a un massimo di 15 – valore che rappresenta la coscienza massima. I parametri considerati dalla scala GCS, per valutare la gravità di un coma, sono tre: l'apertura degli occhi, la risposta motoria a un determinato comando e la risposta verbale a un certo stimolo vocale. A ciascuno di questi parametri corrisponde un intervallo numerico (in inglese score), che ne indica la severità. Per capire: L'apertura degli occhi presenta uno score che va da 1 a 4. 1 (uno) indica completa assenza di apertura degli occhi; è il livello più grave. 4 (quattro), invece indica spontanea apertura oculare; equivale alla normalità. I valori intermedi corrispondono a situazioni intermedie. La risposta motoria a un determinato comando presenta uno score che va da 1 a 6. 1 (uno) segnala completa assenza di risposta motoria a qualsiasi comando; è il livello più severo. 6 (sei), invece, segnala massima obbedienza motoria a qualsiasi comando; corrisponde alla normalità. I valori compresi tra 1 e 6 rappresentano situazioni intermedie. La risposta verbale a un certo stimolo vocale presenta uno score che va da 1 a 5. 1 (uno) indica completa assenza di risposta a qualsiasi tipo di stimolo verbale; è il livello più grave. 5 (cinque), invece, indica massima attenzione, normale capacità di linguaggio e capacità di risposta a ogni stimolo di natura verbale; rappresenta la normalità. Come nei casi precedenti, i valori inclusi tra 1 e 5 equivalgono a situazioni intermedie. La stima della severità di un coma è frutto della somma del punteggio assegnato a ciascuno dei sopraccitati parametri. Per esempio, se a un'indagine medica l'apertura degli occhi, la risposta motoria a un comando e la risposta verbale a uno stimolo vocale totalizzano il minimo ciascuno (ossia 1), la valutazione del coma è pari a 3 (la situazione più grave, equivalente al coma profondo). A questo punto, manca un ultimo aspetto importante da chiarire: nella scala GCS c'è un valore soglia che rappresenta la linea di confine tra lo stato di coma e lo stato di coscienza. Tale valore è 8. Quindi, quando la somma dei parametri GCS risulta superiore a 8, l'individuo è più o meno cosciente; quando invece la somma dei parametri GCS risulta uguale o inferiore a 8, il soggetto è in stato di coma più o meno profondo. Salvo che il soggetto interessato non si svegli, lo stato di coma vero e proprio ha una durata canonica compresa tra le 4 e le 8 settimane. Dopodiché evolve e, in base alla gravità delle cause scatenanti, può diventare: stato vegetativo oppure stato di minima coscienza. Una persona in stato vegetativo è un soggetto sveglio inconsapevole di sé e dell'ambiente in cui si trova; una persona in stato di minima coscienza, invece, è un soggetto sveglio che, a tratti, è anche consapevole. L'individuazione delle cause del coma può risultare anche assai complessa, tanto da richiedere il ricorso a svariati esami diagnostici. Tra i possibili esami diagnostici utili alla scoperta delle condizioni all'origine di uno stato di coma, rientrano: l'esame obiettivo, l'anamnesi medica, la TAC, la risonanza magnetica nucleare (RMN), l'elettroencefalogramma ecc. PRINCIPALI COMPLICANZE IN STATO DI COMA: COME PREVENIRE LA POLMONITE DA ASPIRAZIONE In caso di coma, la polmonite da aspirazione è una complicanza che può dipendere da diversi fattori, tra cui: Il reflusso gastroesofageo, derivante dal prolungato mantenimento di una posizione orizzontale; L'incapacità di deglutizione corretta; La nutrizione tramite sondino. Per prevenire la complicanza in questione, i rimedi medici più praticati consistono in: Mantenimento del paziente in posizione laterale; Aspirazione della saliva a intervalli regolari. Per prevenire le piaghe da decubito, è essenziale: Cambiare la posizione del paziente allettato ogni 2-3 ore; Utilizzare materassi ad acqua, che sono più congeniali a chi è costretto a lunghi periodi di immobilità; Pianificare una nutrizione adeguata alle esigenze del corpo umano; Monitorare le condizioni favorenti, come per esempio il diabete. GUIDA TERAPEUTICA PER LE PERSONE USCITE DAL COMA Le persone che si risvegliano da uno stato di coma necessitano di alcune cure, che – come anticipato – favoriscono il ritorno a una vita normale. Tra le cure in questione, rientrano: La fisioterapia, fondamentale per rimediare alle contratture muscolari, derivanti dall'immobilità prolungata; La terapia occupazionale, il cui campo d'applicazione va dal favorire il reinserimento del paziente, in un contesto sociale, all'adattare l'ambiente domestico in base alle esigenze della persona appena risvegliatasi dal coma; La psicoterapia, il cui obiettivo è aiutare il paziente a superare le prime fasi del risveglio dallo stato comatoso e ad accettare le incapacità irrecuperabili, che il danno cerebrale e il coma conseguente possono aver provocato. 6) ASSISTENZA AL PZ CON USTIONI L’ustione è una lesione traumatica provocata dal trasferimento di energia termica sulla superficie cutanea da parte di un agente termico, chimico, elettrico o radiante. Con ustione si intende una lesione traumatica provocata dal trasferimento di energia termica sulla superficie cutanea da parte di un agente termico, chimico, elettrico o radiante. Le ustioni possono infatti essere: termiche/ da calore: contatto con fiamme, liquidi o vapori caldi chimiche: contatto con acidi, alcali o metalli fusi (ad es. acido cloridrico o solforico, soda caustica) elettriche (ad es. folgorazioni) da radiazioni. Gli effetti dell’ustione dipendono da: 1. temperatura dell’agente ustionante 2. durata del contatto 3. natura dell’agente 4. calore specifico del corpo. Le ustioni vengono classificate in tre gradi: I gradi: eritema, ustione superficiale con coinvolgimento dell’epidermide Il grado: flittene, ustione media con coinvolgimento del derma papillare III grado: escara, ustione profonda del derma fino ai tessuti sottostanti Per quanto riguarda invece l’estensione del danno in termini di superficie corporea coinvolta, si utilizza comunemente la regola del 9, riadattata nel caso il paziente da trattare sia un bambino. Si parla di danno grave da ustione quando la percentuale di interessamento corporeo è >20% nell’adulto e >10% nel bambino sopra i quattro anni di età, poiché presuppone che non vi sia solamente un danno locale, ma anche sistemico. Le tre maggiori complicanze a cui si deve fare attenzione nel paziente ustionato grave sono: lo shock ipovolemico, secondario alla disidratazione e allo squilibrio idroelettrolitico; le infezioni, secondarie al danno profondo delle ustioni. Sono la causa principale di morte dei pazienti che sopravvivono alla fase acuta; provocano un’immunodeficienza secondaria che porta complicanze infettive, sia a livello locale che sistemico; il dolore: l’ustione, in particolar modo se profonda, provoca dolore intenso. La fase della medicazione è sicuramente il momento più traumatico, nel quale è fondamentale valutare la necessità di somministrare analgesici. Il paziente ustionato è da considerarsi a tutti gli effetti un paziente traumatizzato. Se ci troviamo in ambiente extraospedaliero è quindi fondamentale applicare tutte le linee guida IRC sul PTC (prehospital trauma care). L’operatore deve valutare innanzitutto la sicurezza dell’ambiente, poiché è possibile siano presenti fiamme libere, liquidi infiammabili, ecc., ed è quindi prima necessario allertare l’ente preposto per far sicurezza. APPLICAZIONE ABCDE A – Airways: l’ustione, essendo un evento traumatico, richiede la valutazione di eventuali traumi del rachide cervicale. Se non si possono escludere, occorre posizionare il collare cervicale. Valutare le vie aeree per evidenziare eventuali lesioni da inalazione, ed escludere un’ostruzione completa o parziale delle vie aeree, eritema o edema dell’orofaringe. B – Breathing: valutare il respiro del paziente, se possibile rilevando anche parametri vitali come la SpO2 e la frequenza respiratoria. Valutare se il paziente ha segni di inalazione: vibrisse nasali bruciate, sputo carbonaceo, raucedine, tosse stizzosa, stridore inspiratorio, dispnea. Somministrare O2 con una maschera facciale per evitare o limitare danni ipossici. Se il paziente è in insufficienza respiratoria grave, occorre valutare la necessità di intubazione oro o naso tracheale. C – Circulation: valutare il cardiocircolo al fine di prevenire o prevedere eventuali situazioni di shock: rilevare la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. Posizionare un accesso venoso di grosso calibro e somministrare liquidi. D – Disability: valutare la funzionalità neurologica e lo stato di coscienza. E – Exposure: rimuovere gli indumenti, esporre la superficie corporea, eseguire un esame obiettivo. In un primo approccio sul territorio, è importante raffreddare le aree ustionate con soluzione fisiologica fredda, ma allo stesso tempo riscaldare il paziente per evitare l’ipotermia da dispersione di calore. In pronto soccorso, oltre ad eseguire le stesse manovre che si effettuano sul territorio, è necessario monitorizzare il paziente, eseguire esami ematochimici, ECG ed emogasanalisi (indispensabile per valutare la carbossiemoglobina, segno di inalazione da monossido di carbonio). Somministrare analgesici secondo prescrizione medica, rimuovere tutti gli indumenti al fine di esporre la superficie corporea ed effettuare un esame obiettivo completo; raffreddare e lavare le ustioni con soluzione fisiologica ed eseguire medicazioni secondo le procedure ospedaliere. Il paziente ustionato grave è considerato particolarmente critico ed instabile nelle prime 48-72 ore dall’incidente. La qualità della prognosi a breve e lungo termine dipende molto dal trattamento a cui il paziente è stato sottoposto proprio in questa prima fase. Se non si interviene tempestivamente con la correzione dell’ipovolemia con la terapia infusionale reidratante, possono insorgere lesioni agli organi vitali con drastico peggioramento prognostico. Per contro, la somministrazione eccessiva di liquidi, può aggravare l’edema tissutale aumentando la pressione interstiziale, riducendo la perfusione dei tessuti e aumentando il rischio di una sindrome compartimentale e di edema polmonare. È utile isolare il paziente, se possibile, per prevenire eventuali contaminazioni batteriche delle superfici ustionate. Deve essere iniziata tempestivamente una terapia antibiotica mirata ed è raccomandato un costante monitoraggio dell’eventuale infezione con emocolture, urinocolture e broncoaspirati. È utile, ove possibile, la balneoterapia, ovvero la terapia che prevede di immergere il paziente, o le parti ustionate, in una vasca di acqua. Il danno da ustione può essere trattato chirurgicamente. La terapia consiste nell’escarectomia, ossia nella rimozione del tessuto necrotico. Esso va rimosso perché rappresenta una sorgente di sostanze tossiche, una fonte di contaminazione e provoca autolisi dei tessuti sani adiacenti. Il trattamento chirurgico prevede anche, nei casi di lesioni gravi, l’applicazione di innesti cutanei, la cui evoluzione va valutata attentamente poiché, essendo un vero e proprio trapianto, può causare rigetto. Durante la procedura della medicazione, è necessario mantenere una temperatura ambientale elevata, al fine di prevenire l’ipotermia e preservare il benessere del paziente. Per effettuare le medicazioni è necessario seguire la procedura aziendale in uso, di norma condivisa con il centro grandi ustionati di riferimento. Gestione del dolore Somministrare farmaci analgesici per il dolore è fondamentale, poiché il dolore da ustione è spesso sottostimato. Nelle ustioni maggiori è talvolta necessaria la somministrazione di oppiodi, il cui farmaco di prima scelta è la morfina. Il dolore è causato infatti oltre che dalla distruzione dei tessuti, anche dall’esposizione delle terminazioni nervose (neuropatia) e dal processo di infiammazione. Alimentazione Al paziente ustionato deve essere garantito un adeguato apporto nutrizionale, attraverso una dieta ad alto apporto calorico e proteico. Egli, infatti, presenta un metabolismo superiore del 100150% rispetto al suo metabolismo basale. Per prevenire l’immunodepressione e i ritardi di guarigione delle lesioni, è raccomandata la nutrizione enterale precoce in associazione ad una nutrizione parenterale bilanciata. Qualora il paziente non sia in grado di alimentarsi autonomamente (perché sedato, oppure per le lesioni interne legate all’ustione) è necessario posizionare un SNG per la nutrizione enterale. L’impatto psicologico L’ustione, se grave, è un evento traumatico e stressante per il paziente, in particolar modo se comporta esiti a livello estetico o lesioni che limitano l’autonomia nella mobilizzazione. Per questo motivo è fondamentale che tutta l'équipe svolga un ruolo di supporto durante il ricovero e prepari anche la famiglia alla gestione del paziente quando sarà dimesso. È previsto, in alcuni casi, un supporto psicologico nelle prime fasi di elaborazione del trauma. NUTRIZIONE ENTERALE E PARENTERALE - La Nutrizione Parenterale Totale (NPT) consiste nell'introduzione direttamente nel torrente circolatorio di substrati nutrizionali in forma sterile. Gli alimenti/substrati, non passando attraverso il canale gastroenterico, devono essere necessariamente allo stato elementare o semi-elementare, perché non possono essere "digeriti", cioè sottoposti al complesso sistema enzimatico gastro-enterico. Benché la nutrizione parenterale (NP) possa essere somministrata anche mediante accessi venosi periferici, la somministrazione efficace e sicura di una NP richiede frequentemente l’utilizzo di un accesso venoso centrale, in quanto permette di somministrare nutrienti a concentrazioni più elevate (ad alta osmolarità), volumi di liquidi inferiori rispetto a quanto sarebbe possibile attraverso un vaso periferico ed assicura una maggiore stabilità dell’accesso. L’infusione periferica, infatti, comporta necessariamente il contenimento della osmolarità della soluzione, con conseguente limitazione degli apporti energetici ed elettrolitici. La NPT dovrebbe essere presa in considerazione quando la via enterale non è assolutamente praticabile, quando esistono controindicazioni assolute alla Nutrizione Enterale (NE), quando non ci sono le condizioni per assicurare una via di accesso sicuro all’apparato gastroenterico. Questo perché i vantaggi della Nutrizione Enterale (NE) sulla Nutrizione Parenterale (NP) sono ormai assodati: la NE presenta molti vantaggi per il mantenimento dell’integrità anatomo-funzionale della mucosa intestinale, per migliorare l’utilizzazione dei substrati nutritivi, per la facilità e sicurezza di somministrazione ed il minor costo. Le condizioni cliniche nelle quali la NE è in genere controindicata sono: • L’occlusione o la subocclusione cronica intestinale di origine meccanica • La grave ischemia intestinale su base non ipovolemica • La grave alterazione della funzione intestinale secondaria a enteropatie o insufficienza della superficie assorbente Nei pazienti sottoposti a NPT deve essere periodicamente verificato l’eventuale recupero della funzionalità intestinale per poter ripristinare quando possibile la nutrizione più naturale. Nutrizione artificiale e competenze infermieristiche La letteratura nazionale ed internazionale non consente ampia disponibilità in merito alle EvidenceBased Nursing in nutrizione artificiale. Le evidenze prodotte dalle maggiori società o organismi di carattere medico-scientifico riportano pochi aspetti propriamente infermieristici a favore invece di quelli medici. Dalla letteratura si evince che l’ambito infermieristico di pertinenza si articola nelle seguenti attività: • Attuare la terapia nutrizionale prescritta secondo protocolli validati • Gestione delle linee di somministrazione in merito all'utilizzo delle pompe infusionali, sostituzione delle sacche e dei deflussori, regolazione delle velocità di infusione • Valutazione e monitoraggio della canalizzazione • Mantenimento di attività intestinale, con applicazione di protocolli di stimolazione, là dove necessario • Contenimento di effetti collaterali attraverso la modulazione dei flussi d'erogazione, sostituzione di nutrienti, applicazione di interventi di sorveglianza infettiva (colture, terapie mirate) • Interventi di educazione sanitaria rivolti al paziente e ai familiari L’infermiere inoltre può e deve partecipare alla scelta della via di accesso e del dispositivo venoso centrale da impiantare (catetere monolume vs. lumi multipli; accesso a breve termine vs. a lungo termine; catetere tunnellizzato vs. sistema totalmente impiantato tipo port). Il protocollo nutrizionale Uno stretto e continuo monitoraggio del paziente e l’aderenza ai protocolli di gestione permettono di prevenire o minimizzare le complicanze metaboliche, disnutrizionali, meccaniche ed infettive. Un protocollo di gestione della NPT deve prevedere: Rilevazione del peso corporeo, altezza, Body Mass Index (BMI) e comuni parametri di laboratorio; valutazione del fabbisogno energetico basale. La valutazione nutrizionale eseguita prima dell’inizio della terapia nutrizionale, così come il calcolo dei fabbisogni, devono essere periodicamente ripetuti ad intervalli più ravvicinati se il paziente è metabolicamente instabile, più distanziati quando il paziente è in una situazione clinica stabile, anche per poter valutare l’efficacia della terapia nutrizionale. Lo screening nutrizionale va eseguito da parte del personale sanitario del reparto di degenza entro le 48h dall’accettazione e ripetuto ogni 7 giorni, anche in pazienti che non presentano, al loro ingresso in ospedale, rischio di malnutrizione. L’utilizzo di strumenti adottabili in diversi setting (comunità, ospedale, popolazione anziana) e basati su evidenze validate, sono stati proposti da linee guida in merito e sono: • Malnutrition Universal Screening Tool (MUST) • Nutritional Risk Screening (NRS) • Subjective Global Assessment (SGA) • Mini Nutritional Assessment (MNA) nell’anziano 2.Stesura di un piano nutrizionale su apposito modulo in cartella in base al: • Fabbisogno calorico glucidico e lipidico • Bilancio azotato e fabbisogno proteico • Scelta della Nutrizione in base a stato clinico ed eventuali patologie d’organo 3. Monitoraggio parametri fisici/biochimici nutrizionali e conseguenti eventuali modifiche: • Bilancio idrico • Intolleranze nutrizionali, diarrea, stipsi, nausea/vomito • Elettroliti sierici, glicemia, azotemia, creatinina sierica, conta linfocitaria, funzionalità epatica e funzionalità renale • Segnalazione complicanze: infezioni, insufficienze d’organo Per garantire organizzazione e assistenza di qualità l'infermiere deve pianificare l'assistenza e svolgere periodici confronti per analizzare e correggere le criticità. Non esistono studi prospettici randomizzati che valutino l’efficacia del monitoraggio nutrizionale sull’evoluzione clinica (mortalità, complicanze, qualità di vita), mentre vi sono studi che hanno dimostrato che i pazienti monitorati sviluppano meno complicazioni e quindi richiedono minor costi rispetto a pazienti non monitorati, soprattutto se il monitoraggio serve per modificare il trattamento nutrizionale e adeguarlo all’evoluzione clinica e all’attività del paziente. NPT, linee guida per l’infermiere • L’infermiere può e deve partecipare alla scelta della via di accesso e del dispositivo venoso centrale da impiantare (catetere monolume vs. lumi multipli; accesso a breve termine vs. a lungo termine; catetere tunnellizzato vs. sistema totalmente impiantato tipo port) • L’istruzione e la formazione del personale sanitario che si occupa della gestione della Nutrizione Artificiale hanno un ruolo determinante nella qualità dell’assistenza • L’impiego di personale specificamente addestrato nella gestione dei CVC riduce efficacemente il tasso di infezioni da catetere in corso di NP • Nelle manovre per la gestione del CVC, il lavaggio delle mani (con soluzione saponosa di Clorexidina o di Iodio povidone) è la misura più importante nel controllo delle infezioni • Tutte le manovre di gestione del CVC vanno eseguite in rigorosa asepsi • Gestione della via infusionale L’utilizzo di una via infusionale dedicata alla NP riduce le complicanze. È stata dimostrata una maggiore incidenza di complicanze quando la via infusionale per NP viene utilizzata per scopi multipli (prelievi, infusione di emoderivati, misura della pressione venosa). Il corretto posizionamento e funzionamento dell’accesso venoso va controllato periodicamente, e – se discontinuo – va mantenuto irrigato in maniera appropriata: • lavato con soluzione fisiologica • eparinizzato secondo i protocolli specifici per i differenti tipi di catetere e di patologia di base • Preparazione delle soluzioni NPT La soluzione nutritiva deve essere preparata in locali idonei e specificamente adibiti, da personale qualificato del servizio centralizzato di farmacia o del servizio di Nutrizione Clinica dell’ospedale, su prescrizione medica ed in base alle specifiche esigenze del paziente. La tecnica di preparazione deve essere asettica e mediante l’uso di cappa a flusso laminare di aria sterile per ridurre sostanzialmente la contaminazione dei liquidi per la NPT. L’infermiere deve controllare prima dell’inizio dell’infusione della NP l’integrità della sacca e deve anche provvedere alla conservazione adeguata delle sacche nutrizionali, secondo le modalità e istruzioni del servizio di farmacia. Somministrazione della soluzione Il deflussore e la linea utilizzati per l’infusione della NPT vanno sostituiti entro 24 ore dall’inizio dell’infusione. Non si è dimostrato utile l’uso routinario di filtri “in linea” per il controllo delle infezioni. Il deflussore della sacca deve essere collegato al catetere del paziente, prestando la massima attenzione ad usare una tecnica strettamente asettica; durante questa manovra può avvenire una contaminazione del CVC ed il raccordo deve essere protetto con garza sterile. Le infusioni di preparati per la NP contenenti lipidi e/o lipidi da soli devono essere terminate entro le 24 ore dall’inizio della somministrazione. Ridurre al minimo le manipolazioni delle sacche nutrizionali e dei dispositivi medici al fine di evitare possibili contaminazioni esogene. Sorveglianza e diagnosi L’infermiere deve registrare nella documentazione infermieristica tutti i dati riferiti alla gestione dell’accesso e della nutrizione artificiale. La sorveglianza microbiologica di routine per la prevenzione delle infezioni durante la NPT non è attualmente consigliata. Esistono comunque situazioni in cui l’infermiere deve intervenire: Coltura della cute adiacente il sito di inserzione del catetere quando si nota presenza di materiale sieroso o purulento Coltura del liquido della sacca nutrizionale in caso di comparsa di ipertermia superiore a 38°C con brivido Emocoltura sia periferica che centrale (da ciascuna via, in caso di CVC multilume) in caso di iperpiressia superiore a 38°C - La nutrizione enterale (NE) rappresenta una delle due varianti della nutrizione artificiale e consiste nella somministrazione di una miscela nutritiva direttamente nel tratto digestivo di un paziente mediante infusione continua, intermittente o in bolo. Obiettivo della NE è quello di contrastare lo stato di malnutrizione attraverso una somministrazione più fisiologica che riduce il rischio di presentare squilibri metabolici e condizioni di ipercatabolismo consentendo così un ritorno più facile e veloce alla normale alimentazione. La nutrizione artificiale (NA) permette ad un individuo di mantenere o reintegrare il suo stato nutrizionale qualora questo non fosse possibile fisiologicamente. La NA può essere somministrata per via enterale (nutrizione enterale) o parenterale (nutrizione parenterale): nella prima modalità la miscela nutritiva viene infusa direttamente nel tratto digestivo a vari livelli mentre nella seconda modalità la somministrazione dei nutrienti avviene direttamente nel circolo ematico per mezzo di un catetere venoso periferico o centrale. La somministrazione della NE può avvenire in sede prepilorica o post-pilorica. Il piloro è la valvola situata nella regione terminale dello stomaco che regola il passaggio del contenuto gastrico nel duodeno. La scelta della sede deve essere adeguatamente valutata tramite un approccio multidisciplinare e dovrebbe ricadere su quella in grado di mantenere ed utilizzare tutte le funzioni digestive ed enzimatiche del tratto gastrointestinale procurando così benefici al paziente e contribuendo al miglioramento della sua qualità di vita. Intermittente, in bolo, continua: quale infusione comporta più rischi? La somministrazione della NE può avvenire tramite Sondino Naso Gastrico (SNG) o Gastrostomia Endoscopica Percutanea (PEG) ed attraverso tre modalità differenti: • in bolo (gavage): attraverso l'infusione di una grande quantità di miscela in modo rapido ad intervalli temporali ampi • intermittente: attraverso l'infusione di una miscela nutritiva ad intervalli regolari più volte nelle 24 ore • continua: attraverso l'infusione di una miscela nutritiva in maniera continuativa e costante nelle 24 ore mediante nutripompa Una revisione della letteratura pubblicata sulla rivista ufficiale "Scenario" di Aniarti (Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica) è andata ad indagare quale, fra le modalità di somministrazione della nutrizione enterale, è quella che genera più complicanze e quale, invece, apporta un maggiore beneficio al paziente. La ricerca si è svolta da gennaio a giugno 2018 ed ha portato alla selezione di 10 articoli i quali confrontano le diverse modalità di somministrazione tra di loro al fine di ricavarne quella che produce meno rischi per il paziente migliorando, al contempo, la sua compliance. Inoltre, ha analizzato le complicanze che possono verificarsi nei pazienti adulti, ricoverati in Terapia Intensiva e che ricevono NE in sede prepilorica. Gli effetti collaterali maggiormente osservati sono: • aspirazione polmonare • ristagno gastrico • diarrea • stipsi • nausea e vomito • scompenso glicemico Dall'analisi però non sono emersi netti risultati in quanto la criticità di ogni paziente causata dalla diversa malattia li rende tutti unici e bisognosi di modalità di somministrazioni mirate alla loro condizione. Una considerazione, però, emersa in diversi articoli è riferita alla migliore tollerabilità per il paziente dell'infusione continua tramite SNG rispetto a quella in bolo ed intermittente. A conferma di quanto detto sui risultati, anche le Linee Guida delle società scientifiche ESPEN e ASPEN non hanno dato chiare linee guida in riferimento alle modalità di somministrazione. La prima definisce la terapia nutrizionale medica ancora una sfida, ritiene di fondamentale importanza la valutazione dei bisogni del paziente durante la permanenza in TI, ma spiega che una raccomandazione unica per ogni paziente e situazione non può essere suggerita. La seconda ritiene la modalità di infusione continua come quella meno aggressiva e raccomanda di porre particolare attenzione alla valutazione del volume gastrico residuo al fine di evitare complicanze gastrointestinali. In conclusione, possiamo dire che la nutrizione enterale va considerata di prima scelta qualora la funzione gastrointestinale della persona sia preservata; inoltre, la somministrazione della miscela nutritiva tramite SNG ad in infusione continua è risultata essere quella più tollerabile per il paziente. CARRELLO DELLE EMERGENZE DEFINIZIONE EMERGENZA È una situazione critica nella quale il paziente vede compromesse una o più funzioni vitali in modo acuto e deve essere sottoposto a trattamento in modo tempestivo, altrimenti può avere esito infausto. Importante, quindi, è la tempistica, in quanto il successo delle manovre rianimatoria è inversamente proporzionale al trascorrere del tempo. CARRELLO DI EMERGENZA È un’attrezzatura costituita da apparecchiature vitali e materiale necessario per affrontare le emergenze critiche, consentendo agli operatori di disporre di tutti gli strumenti idonei. Deve prevedere: ◦ -Equipaggiamento per assistenza cardiorespiratoria ◦ -Presenza di dispositivi medici e farmaci. Caratteristiche: La dotazione prevista e l’organizzazione dei cassetti deve essere uniforme a livello aziendale; Deve essere accessibile; Tutti gli operatori devono essere formati per essere in grado di utilizzarlo; Deve essere presente almeno 1 carrello per ogni piano. Devono trovarsi in un luogo: identificato da cartelli, conosciuto dagli operatori, vicino ad una presa elettrica per consentire il caricamento del defibrillatore. Da cosa è composto: Piano superiore: defibrillatore, aspiratore, saturimetro; Cassetti: Farmaci: es. Adrenalina, diazepam, furosemide, midazolam; Ancora farmaci; Materiale per CVP o prelievo arterioso; Presidi di ventilazione: es. ambu, va e vieni, cannula ghedel, maschera facciale...; Presidi di intubazione: es. Laringoscopio; cassetto laterale sx: materiale defibrillatore es. Piastre; Cassetto laterale sx: DPI Cassetto laterale sx: liquidi es. Ringer lattato Cassetto laterale di dx: pattumiera Cassetto posteriore: bombola ossigeno. Controllo e checklist La responsabilità dei controlli e della funzionalità del carrello di emergenza e del suo contenuto in farmaci, presidi e dotazioni elettromedicali, è dell’infermiere, individuato per ogni turno dal Coordinatore infermieristico. Le responsabilità ricadono a: - Medico/infermiere per i materiali e farmaci utilizzati; - Infermiere per il rifornimento e valutazione del carrello; - Coordinatore infermieristico per il controllo e il mantenimento. Se non vengono rispettate le regole, il responsabile può essere accusato di omicidio colposo. Controllo successivo all’utilizzo: Il personale che ha utilizzato il carrello deve reintegrare farmaci e materiale utilizzato, ripulire il carrello e apporre nuovo sigillo. Controllo quotidiano: • Verificare l’integrità del sigillo; • Controllare la presenza/assenza delle dotazioni elettromedicali e presidi; • Verificare che le apparecchiature in cariche presentino tutte le spie di connessione e carica accese; • Verificare la pressione della bombola di O2 e richiedere sostituzione se è al di sotto dei 50 atm; Per il defibrillatore: eseguire il test di funzionalità e la stampa del report che deve essere spillata e tenuta in archivio per 1 anno; Per l’aspiratore portatile: eseguire test di funzionamento. • Controllo settimanale/mensile: • Farmaci e materiali. • Controllo annuale: • Controllare le scadenze delle verifiche di manutenzione delle varie apparecchiature elettromedicali. DEFIBRILLATORE Collocato sul ripiano del carrello, deve restare costantemente in carica (se con batterie ricaricabili) FARMACI E PRESIDI La conservazione dei farmaci all’interno del carrello d’emergenza deve avvenire in modo appropriato e tenendo conto delle Raccomandazioni del Ministero della Salute. In particolare: • Conservare i farmaci nella loro confezione originale (foglietto illustrativo e data di scadenza del prodotto); • Conservare i farmaci in un luogo lontano da fonti di calore e non esposto direttamente alla luce; • Conservare i farmaci in un luogo asciutto e a temperatura ambiente, a meno che non sia esplicitamente raccomandata sulla confezione altra forma di conservazione. ASSISTENZA DOMICILIARE DI II E III LIVELLO L’assistenza domiciliare integrata (ADI), rappresenta oggi il setting assistenziale che meglio risponde ai cambiamenti epidemiologici della popolazione (invecchiamento, aumento della comorbilità e delle patologie croniche) e alle esigenze di sostenibilità economica del Servizio Sanitario Nazionale (. Sono stati ridefiniti, a livello ministeriale, i nuovi standard per l’ADI. Si parla di cure domiciliari integrate (CDI) di primo, secondo e terzo livello in ASSISTENZA DOMICILIARE DI II E III LIVELLO. L’assistenza domiciliare integrata (ADI), rappresenta oggi il setting assistenziale che meglio risponde ai cambiamenti epidemiologici della popolazione (invecchiamento, aumento della comorbilità e delle patologie croniche) e alle esigenze di sostenibilità economica del Servizio Sanitario Nazionale (. Sono stati ridefiniti, a livello ministeriale, i nuovi standard per l’ADI. Si parla di cure domiciliari integrate (CDI) di primo, secondo e terzo livello in base all’intensità, crescente, dell’intervento assistenziale. Le CDI di primo e secondo livello si rivolgono a persone che, pur non presentando criticità specifiche o sintomi particolarmente invalidanti, hanno bisogno di continuità assistenziale con interventi che si articolano su 5 giorni (primo livello) o su 6 giorni (secondo livello). Le CDI di terzo livello si rivolgono a persone che presentano dei bisogni con un grado di complessità assistenziale elevato, in presenza di criticità specifiche, con instabilità clinica e sintomi di difficile controllo. Gli interventi si articolano su 7 giorni settimanali. L’erogazione delle CDI avviene tramite l’unità di valutazione multidimensionale (UVM) del distretto sanitario, che valuta i bisogni sanitari e sociosanitari dell'utente, definendo il progetto assistenziale individualizzato (PAI), in cui viene esplicitato il piano di interventi da erogare a domicilio (operatori, prestazioni, frequenza di accesso, durata, ecc.). Diventa, dunque, cruciale, per la direzione strategica del distretto, avviare azioni di self-audit per evidenziare criticità e caratteristiche dei servizi erogati e della popolazione assistita. Il picco di invecchiamento colpirà l'Italia nel 2045-50, quando si riscontrerà una quota di ultrasessantacinquenni vicina al 34%. Si prevede che anche la sopravvivenza aumenterà. Di conseguenza entro il 2065 la vita media si aggirerà attorno agli 86,1 anni per gli uomini e ai 90,2 per le donne. In particolare, il fenomeno cui stiamo assistendo vede un’aumentata sopravvivenza di individui affetti da diverse condizioni croniche e che necessitano di un’assistenza continuativa per il resto dell’esistenza. In proposito, si sono sviluppate forme alternative di assistenza di lungo periodo, in grado di fornire una tipologia di servizi sempre più mirata ai problemi legati alla perdita di autonomia delle persone anziane e dei disabili. L’offerta dei servizi sanitari e sociosanitari è cambiata con una diminuzione dei posti letto a livello ospedaliero e una crescita lenta e non uniforme dei servizi territoriali, a livello di assistenza primaria (sanitaria di base) e di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI). L’ADI viene introdotta dal Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001, la si riconosce come uno dei Livelli Essenziali di Assistenza, ovvero i LEA. I destinatari dell’ADI sono: • pazienti impossibilitati a raggiungere lo studio del proprio medico di Medicina Generale (MMG) per non-autosufficienza e/o barriere architettoniche; • pazienti affetti da malattie non invalidanti, malattie invalidanti (stabilizzate o non stabilizzate) o in fase terminale che necessitano di interventi sanitari diagnostici e/o terapeutici e/o riabilitativi erogabili a domicilio. Condizioni necessarie affinché si realizzi un programma di ADI sono: • il Piano Assistenziale Individuale (PAI) deve mostrare una reale integrazione degli interventi attuati dai diversi professionisti coinvolti; • essere consenzienti e supportati dalla famiglia; • avere una condizione abitativa adeguata allo svolgimento del PAI (le condizioni critiche vanno immediatamente segnalate). Generalmente, la gran parte delle richieste di attivazione di questa tipologia di assistenza si riferiscono a malati terminali, soggetti che hanno avuto patologie vascolari acute o forme psicotiche acute, anziani con gravi fratture o con malattie acute temporaneamente invalidanti e pazienti che hanno ricevuto dimissioni protette da strutture ospedaliere. Gli obiettivi dell’ADI sono: • assicurare un’adeguata assistenza sociosanitaria ai pazienti che presentano le caratteristiche già elencate e chiedono di essere assistiti nel proprio domicilio; • evitare i ricoveri ospedalieri non appropriati e la permanenza degli anziani in un luogo di cura per un lungo periodo; • promuovere le dimissioni protette del paziente, ovvero l’insieme delle azioni che costituiscono il passaggio da un luogo di cura a un altro (ospedale-casa, ospedale- residenza sanitaria assistenziale...) L’ADI, quindi, consiste in una forma assistenziale vantaggiosa per la qualità di vita del paziente e comporta benefici economici rispetto ad altre forme di ricovero extraospedaliero. Inoltre, nella letteratura scientifica sono presenti evidenze che suggeriscono come l’assistenza sanitaria erogata a domicilio produca per alcuni pazienti migliori risultati di salute. In base ai bisogni sanitari del paziente, l’ADI viene distinta in tre livelli. Nei primi due livelli, il medico di Medicina Generale (MMG) assume un ruolo di riferimento in quanto responsabile dei processi di cura stabiliti dagli altri operatori, ma condivisi all’interno dell’équipe. I malati coinvolti pur non presentando condizioni critiche specifiche o sintomi particolarmente complessi hanno bisogno di continuità assistenziale e interventi programmati che si svolgono in 5 giorni (I livello) o in 6 giorni (II livello) per ogni settimana. L’ADI ad alta intensità, invece, si rivolge a malati che presentano bisogni complessi e in presenza di condizioni critiche specifiche. In questo caso, gli interventi sono programmati ogni giorno della settimana. ADI a bassa intensità sanitaria (livello 1) Con assistenza max 5 giorni su 7, per più di un anno. Rientrano in questo tipo di assistenza tutti i pazienti, impossibilitati ad accedere allo studio del proprio medico per non autosufficienza e/o barriere architettoniche, che presentano: • malattie croniche non invalidanti che necessitano di assistenza sanitaria (ad esempio ipertensione arteriosa, diabete malattie cardiovascolari in terapia anticoagulante...); • malattie croniche invalidanti che necessitano di assistenza sanitaria (ad esempio esiti di ictus cerebrale con catetere vescicale a permanenza, cirrosi epatica, scompenso cardiaco, anemia refrattaria, bronco pneumopatia cronica ostruttiva con insufficienza respiratoria in ossigenoterapia a lungo termine). Per i pazienti che rientrano in questa tipologia, la necessità di accedere allo studio del medico di famiglia va da una volta al mese fino a una volta a settimana, e quella di ricevere assistenza dall’infermiere va da quattro volte all’anno a più volte durante la settimana. Nell’ADI di primo livello la necessità di integrazione è bassa, qualora siano necessarie si richiedono le consulenze specialistiche e l’attivazione dell’assistenza sociale. Si prevede che l’ADI di bassa intensità duri più di dodici mesi. Il responsabile terapeutico è il medico di Medicina Generale, mentre il responsabile organizzativo è l’infermiere o l’assistente sociale. ADI a media intensità sanitaria (livello 2) • Con assistenza max 6 giorni su 7, fino a un anno. • Vi rientrano tutti quei pazienti impossibilitati (anche temporaneamente) ad accedere allo studio del proprio medico per non autosufficienza, che presentano: • malattie croniche invalidanti riacutizzate o complicate come ad esempio anemia refrattaria riacutizzata che necessita di trasfusione, cirrosi epatica complicata da ascite, demenza complicata da malnutrizione o disidratazione etc... • malattie post-acute invalidanti come, ad esempio, esiti di interventi chirurgici; tumori in terapia specifica invalidante; tumori in fase preterminale. In questo tipo di ADI è previsto che: l’assistenza del medico di Medicina Generale e dell’infermiere sia erogata da una a più volte alla settimana, che le consulenze specialistiche e l’attivazione dell’assistenza sociale siano richieste al bisogno, e che è possibile eseguire a domicilio determinate prestazioni di particolare impegno professionale (PPIP). In questo tipo di assistenza la necessità di integrazione è maggiore rispetto all’assistenza del livello I, tant’è vero che il caso viene attivato in via congiunta tra medico di Medicina Generale e infermiere. La durata prevista dell’assistenza domiciliare di media intensità arriva fino a 12 mesi. Il responsabile organizzativo è l’infermiere, mentre quello terapeutico è il medico di Medicina Generale. ADI ad alta intensità sanitaria (livello 3) Con assistenza 7 giorni su 7, fino a 6 mesi, prolungabile. I pazienti assistiti in regime di terzo livello sono quelli impossibilitati ad accedere allo studio del proprio medico per non autosufficienza, o che presentano una malattia terminale o malattie neurologiche degenerative/progressive in fase avanzata (Sclerosi Laterale Amiotrofica - SLA, distrofia muscolare); e ancora, chi necessita di nutrizione artificiale parenterale o di supporto ventilatorio invasivo. Con questo tipo di ADI vengono assistiti anche pazienti in stato vegetativo. Nell’ADI di terzo livello è previsto che il medico presti la sua assistenza da una volta alla settimana a una volta al giorno, mentre l’infermiere da una a più volte alla settimana. La necessità di integrazione in questo tipo di ADI è elevata: l’attivazione del caso anche in questo livello avviene in maniera congiunta tra medico e infermiere che costantemente si tengono in contatto per monitorare le condizioni del paziente. La durata dell’assistenza è prevista per un periodo non superiore a 6 mesi, anche se l’équipe può prolungare tale periodo valutando le necessità del caso. Anche nell’ADI di terzo livello il responsabile organizzativo è l’infermiere, mentre quello terapeutico è il medico di medicina generale. Il modello organizzativo L’ADI viene gestita da un’equipe multiprofessionale che deve assistere il paziente e la famiglia. Dell’équipe fanno parte il medico di Medicina Generale, il medico della Continuità Assistenziale, gli infermieri del Modulo Organizzativo del Dipartimento Cure Primarie e, qualora sia necessario, gli specialisti, gli operatori sociosanitari (O.S.S.), gli assistenti di base del Servizio Sociale e, eventualmente, gli operatori tecnici dell’assistenza domiciliare (OTA) e i volontari. Il medico è il Responsabile Terapeutico mentre il ruolo di Responsabile organizzativo (case manager) viene svolto dall’infermiere o dall’assistente sociale che hanno il compito di raccordare i servizi sanitari e quelli sociali. L’équipe, definita multiprofessionale, è supportata da operatori sanitari che appartengono all’Unità Operativa Nuclei Cure Primarie (NCP) della ASL e, tra questi, alcuni responsabili hanno il compito di raccordare tutte le attività utili all’ADI, nonché i vari servizi delle aziende sanitarie e il volontariato sociosanitario. L’obiettivo di questo modello organizzativo è ottenere l’integrazione di competenze professionali diverse, per rispondere ai bisogni di salute di tutti i soggetti che presentano le caratteristiche già descritte. L’integrazione fra le professioni costituisce la condizione necessaria a realizzare una valutazione multidimensionale del paziente, a predisporre il Piano Assistenziale Individuale (PAI), e a erogare l’assistenza attraverso le figure dell’équipe multiprofessionale o con altri operatori con cui l’équipe collabora. È effettuata dopo il colloquio con la famiglia da parte delle diverse professionalità coinvolte. Il fine di questa valutazione multidimensionale è quello di stabilire se e quali interventi siano necessari per poter predisporre il PAI che avrà una durata complessiva definita, con momenti di verifica a cadenza periodica tra medico, Centro di assistenza domiciliare e il servizio di assistenza domiciliare dell’ente erogatore. Il PAI costituisce, pertanto, la formalizzazione dell’impegno di tutti i livelli coinvolti nell’assistenza. Al momento della scadenza del PAI, o in caso di oggettivi modifiche dello status clinico - funzionale dell’assistito, e comunque periodicamente, andranno effettuate nuovamente le procedure di valutazione/verifica così da poter ridefinire eventualmente i piani assistenziali individuali. Tutti gli elementi individuati dal singolo piano saranno determinanti nell’attuazione della presa in carico, in quanto questa viene effettuata da tutti gli attori coinvolti nel PAI, con responsabilità attinenti al ruolo che ciascuno di essi ha nella rete. La valutazione multidimensionale e la presa in carico del paziente fanno parte di una serie di attività di cui si compone l’Assistenza Domiciliare. Le attività che compongono l’ADI sono nell’ordine: la segnalazione, in favore della persona malata non autosufficiente, perché fruisca dell’assistenza domiciliare. Tutte le segnalazioni (anche quelle che avvengono in ambito ospedaliero) vengono effettuate dal medico di Medicina Generale. Alla segnalazione segue una valutazione preliminare del bisogno; l’attivazione dell’ADI ad opera del medico di famiglia; la valutazione multidimensionale e la formulazione del PAI; la presa in carico; l’erogazione dell’assistenza sanitaria, assicurata dal medico di medicina generale con le modalità previste nel piano personalizzato di assistenza; le verifiche, che avvengono tramite riunioni e incontri tra il medico, il personale di coordinamento del Centro di assistenza domiciliare e quello del servizio di assistenza domiciliare; la conclusione dell'attività si compie una volta raggiunti gli obiettivi assistenziali, la conseguente dimissione del paziente o il suo passaggio a un altro livello assistenziale, o con la morte dell’assistito. assistenza al paziente Iperteso ipertensione Arteriosa: è una sindrome molto diffusa (3/4 della popolazione mondiale), dovuta a un aumento delle resistenze periferiche che comporta ad un aumento della pressione arteriosa del sangue sulle arterie. • Ottimale: sistolica <120mmHg; diastolica <80mmHg • Preipertensione: normale: 120-129; 80-84: • Borderline: 130-139; 85-89 • Ipertensione: >o= 140/90 Complicanze: problematiche macro e micro-vascolari, ictus, infarto, problemi renali fino a IR, agli arti inferiori, problemi micro-circolatori all’occhio con la retinopatia Problemi collaborativi: insufficienza vascolare: identificare segni e sintomi in maniera tempestiva e svolgere interventi per stabilizzare le condizioni cliniche dell’assistito. Indicatori: • Assenza di alterazioni della vista (retinopatia ipertensiva) • Orientamento nel tempo, spazio, persone; quando il paziente ha già avuto un accidente Cv • Uguale forza in arti superiori e inferiori • Livello delle proteine plasmatiche, il problema è che crea un addensamento delle proteine plasmatiche che fanno un ostacolo Interventi: monitorare la comparsa di un’ischemia tissutale (riduzione flusso di sangue e ossigeno) valutando se vi sono alterazioni della vista, deficit cerebrovascolari (disorientamento, astenia, paralisi, difficoltà mobilità e nel linguaggio, deficit sensitivi), IR (diminuzione delle proteine plasmatiche, elevato peso specifico delle urine, elevato livello di sodio urinario, oliguria, aumento di azotemia, creatininemia, ammonemia, diminuzione CC), IC con fastidio retrosternale. Interventi su indicazione medica: Terapia Farmacologica: diuretici, calcio antagonisti, b-bloccanti, vasodilatatori, inibitori adrenergici, sartani, ace-inibitori Esami di laboratorio: emocromo, colesterolemia, trigliceride mia, funzionalità tiroidea, esame delle urine, azotemia, CC, glicemia, potassio, aldosterone. Indagini Diagnostiche: ecg, radiografia torace, TC renale INTERVENTI ASSISTENZA INFERMIERISTICA Dieta iposodica e ipolipidica Identificare eventuali fattori che possono predire la non adesione dell’assistito (mancanza di conoscenze e incapacità di percepire la gravità) Sottolineare che la non adesione può avere conseguenze gravi (è importante di per sé e per le complicanze) Sottolineare che l’ipertensione è asintomatica, quindi anche se non ci sono sintomi non si sta bene Discutere gli effetti di un eventuale ictus cerebrale, IR e malattia coronarica Quando possibile far partecipare le persone significative alle sedute di insegnamento Mettere in risalto con l’assistito ch’è sua la scelta di aderire o meno al trattamento Istruire l’assistito a misurare o farsi misurare la pressione e registrare i valori Spiegare i possibili effetti collaterali degli antipertensivi (vertigini, ipotensione, astenia) Se il costo dei farmaci rappresenta un problema per l’assistito consultare il Servizio sociale Discutere dei concetti relativi alla PA con termini comprensibili Insegnare all’assistito come misurare la pressione Discutere le modificazioni dello stile di vita che possono ridurre l’ipertensione arteriosa (mantenere il peso corporeo entro il 10% del valore ideale, limitare alcool, esercizi fisici crea vasodilatazione, ridurre sodio, non fumare perché si formano placche, ridurre grassi saturi e colesterolo, apporto giusto di calcio, potassio e magnesio) Fornire indicazioni relative ai farmaci (azione, dosaggio, effetti collaterali, precauzioni) Avvertire ch’è controindicata l’assunzione di alcuni farmaci da banco (alto contenuto di sodio, decongestionanti e lassativi) Sottolineare l’importanza dei controlli a distanza Insegnare a riferire i sintomi quali: cefalea, dolore toracico (infarto), dispnea, edema, epistassi (picco ipertensivo e valvola di sfogo... evita ictus), modificazioni visive. Gli Infermieri, come gli altri professionisti della salute, sono anche promotori di stili di vita sani e devono trasmettere ai cittadini le informazioni necessarie per prevenire e contrastare le diverse malattie causa di molte inabilità. Diagnosi e prevenzione dell'ipertensione Partiamo da alcuni concetti generali che ci indicano che la pressione arteriosa è la forza, ovvero la pressione che il sangue esercita contro la parete delle arterie. Ad ogni battito, il cuore, principale organo del sistema circolatorio, si contrae e spinge il sangue ricco di ossigeno e nutrienti in circolo per tutto il corpo, attraverso i vasi arteriosi. La forza pressoria dipende dalla quantità di flusso del sangue pompato dal cuore, dalla forza di contrazione del muscolo cardiaco e dalla resistenza al flusso dei vasi. Quando il cuore si contrae (sistole ventricolare) e spinge il sangue in circolo, attraverso l’arteria aorta crea un’onda pressoria e si misura la pressione sistolica o massima. Quando il cuore è a riposo (diastole ventricolare), tra un battito e l’altro, si misura la pressione diastolica o minima. Quando ci si misura la pressione arteriosa otteniamo due valori, ad esempio 120/80 di cui 120 è il valore della pressione sistolica o massima e 80 è il valore della pressione diastolica o minima. L’ipertensione in sé, di norma, non provoca alcun sintomo specifico, molti italiani ne soffrono anche per anni senza saperlo. Il problema è che nel tempo la sua presenza può danneggiare il cuore, i vasi sanguigni, i reni e altri organi. Seguire sane abitudini di vita può sicuramente aiutare l’organismo a mantenere buoni livelli di pressione arteriosa oltre che andare a rafforzare il sistema immunitario e agire indirettamente sulla qualità globale del nostro stato di salute. È importante, quindi: ridurre il peso in eccesso; ridurre l'apporto di sale; fare esercizio fisico; non fumare; limitare l'assunzione di alcol. Sarebbe inoltre di buona norma tenere un diario dove periodicamente andiamo a scrivere la data e gli orari di misurazione della pressione arteriosa. La pressione varia durante il giorno per tale motivo eventuali valori elevati non sempre ne riflettono l’andamento abituale; le misurazioni vanno effettuate allo stesso orario in giorni diversi. Tenere sotto controllo la pressione è semplice, si tratta di un'operazione che può essere svolta in maniera del tutto autonoma a casa propria. Sono in vendita numerosi apparecchi che ci aiutano a fare ciò. Quali scegliere? Bracciale o misuratore da polso? Alcuni esperti consigliano di utilizzare i modelli che hanno il bracciale. Quelli da polso, pur essendo affidabili, è meglio che vengano utilizzati da una mano esperta. Misurate la pressione, mattina e sera, per tre o quattro giorni consecutivi seguendo queste indicazioni: essere a riposo da almeno cinque minuti; non avere indumenti stretti alla vita e al braccio; appoggiare il braccio sul tavolo, circa all’altezza del cuore; misurare una prima volta la pressione dopo essere seduto col braccio; effettuare la rilevazione al mattino, prima di colazione e prima di assumere le vostre medicine; effettuare la rilevazione alla sera, prima di andare a letto; ripetere, mattina e sera, il procedimento 3 volte di seguito, ad intervalli di 1 o 2 minuti. Sembra che sia meglio misurare la pressione la sera, perché appena svegli i valori possono risultare alterati. In ogni caso va misurata con calma, a vescica vuota e, per i fumatori, lontano dal momento della sigaretta. Quando NON deve essere misurata la pressione dopo i pasti principali; dopo uno sforzo fisico; dopo aver assunto alcol o caffè; dopo aver fumato; dopo forti emozioni o stati di agitazione psicomotoria. I fattori che influiscono sulla pressione arteriosa Come abbiamo già detto la pressione arteriosa varia durante il giorno ed è normalmente più alta al mattino e di sera. L’innalzamento della temperatura ambientale provoca la dilatazione dei vasi sanguigni superficiali causando una diminuzione della pressione arteriosa. Oltre a questo, i valori della pressione arteriosa possono subire variazioni in seguito a molti fattori, sia nell’arco di un singolo giorno sia nell’arco di più giorni, mesi o stagioni diverse. Alcune cause di ipertensione possono essere correlate a: stati emotivi come ansia, paura e/o agitazione; la presenza di dolore acuto o cronico; età della persona (con l’avanzare degli anni si verifica una diminuzione dell’elasticità dei vasi, soprattutto in chi ha patologie aterosclerotiche con un aumento delle resistenze vascolari sistemiche causate dal restringimento delle arterie; in questo caso la pressione arteriosa tende ad aumentare); peso corporeo: studi dimostrano che esiste una forte correlazione tra sovrappeso e ipertensione e quest’associazione può aumentare in maniera significativa il rischio globale cardiovascolare; assunzione di fumo e alcool; diminuzione dei liquidi in circolo, per esempio legata a perdite di sangue o liquidi (non sufficiente assunzione orale di acqua o presenza di diarrea o sudorazione profusa). Le persone che dopo aver accertato la presenza di una pressione troppo alta, situazione in cui risulta indispensabile una terapia prescritta dal medico per impedire che gli organi siano danneggiati, devono tener presente che: i farmaci vanno assunti regolarmente per mantenere la pressione entro i limiti di normalità; non va interrotto mai il trattamento di propria iniziativa, ma occorre chiedere sempre allo specialista; alcuni farmaci per altre patologie possono interferire con i farmaci usati per il trattamento dell'ipertensione, quindi, in caso di dubbio, è necessario chiedere al medico, al farmacista o all’infermiere di fiducia. Le cause dell'ipertensione si possono suddividere in due grandi categorie. Quando si riesce a stabilire chiaramente l'origine in un organo allora siamo difronte a una causa secondaria. Anomalie dell'apparato endocrino o malattie renali sono un esempio. Queste cause però rappresentano solamente il 10% di tutti i casi di ipertensione. La restante parte è di origine primaria, ovvero senza nessun particolare legame con la disfunzione di un organo. I valori compresi tra 110 e 140 di massima e 70 e 90 di minima sono da considerarsi del tutto normali. Si parla di ipertensione invece quando uno di questi valori è superiore. Mentre la minima rappresenta un dato per gli “addetti ai lavori”, il valore da tenere sotto controllo è quello della massima.” Monitorare la pressione sanguigna costantemente è fondamentale per fare prevenzione. Bisogna giocare d'anticipo. Se ci si accorge precocemente dell'innalzamento è più facile intervenire ed evitare quindi di arrecare danno al nostro sistema cardiovascolare. assistenza al paziente con insufficienza renale acuta (IRA) L'insufficienza renale acuta è una grave condizione medica, che riguarda i reni e che consiste nel declino rapido e improvviso della funzionalità renale. In altre parole, il termine insufficienza renale acuta fa riferimento a una circostanza in cui i reni hanno perso le proprie capacità funzionali in maniera repentina e imprevista. Se trattata con tempestività e in maniera adeguata, l'insufficienza renale acuta ha effetti reversibili. La sua presenza, quindi, non esclude un recupero della funzionalità renale. Con insufficienza renale, i medici intendono un'incapacità, da parte dei reni, di adempiere correttamente alle proprie funzioni. L'insufficienza renale può instaurarsi anche in maniera graduale, per effetto di un meccanismo a lenta evoluzione. Quando la perdita della funzionalità renale avviene con le suddette modalità, i medici parlano di insufficienza renale cronica. Diversamente dall'insufficienza renale acuta, l'insufficienza renale cronica è una condizione i cui effetti sono irreversibili e per la quale i trattamenti servono soltanto a rallentarne l'inesorabile peggioramento. L’assistenza infermieristica ad utenti portatori dell’insufficienza renale acuta si rivela spesso importante, soprattutto per la prevenzione delle complicanze e per l’individuazione precoce delle acuzie. Il ruolo dell’infermiere nell’assistenza al paziente con Insufficienza Renale Acuta L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica e di fronte ad un paziente con Ira che, dopo la stabilizzazione della sua condizione clinica ad opera dell’unità operativa d’emergenza, viene trasferito nell’Unità Operativa di Medicina Interna, ha la responsabilità di prendere in carico l’utente. Dopo aver acquisito i dati anagrafici necessari al ricovero del paziente, l’infermiere procede ad effettuare l’accertamento infermieristico per delineare le condizioni dello stesso al momento dell’ingresso in reparto. L’infermiere, in particolare, rileva i parametri vitali quali: -pressione arteriosa; -saturazione; -frequenza cardiaca; -frequenza respiratoria e qualità del respiro; -temperatura corporea. Monitorerà, inoltre: -il bilancio idrico del paziente (controllando, anche ogni ora, entrate e uscite, comprese sudorazione e perspiratio); -il peso corporeo del paziente, effettuando la misurazione sempre con la stessa bilancia e sempre con la stessa quantità di vestiti; -l’eventuale presenza di edemi agli arti, misurandone la circonferenza; - lo stato della cute (secchezza, in primis); -i rumori polmonari (per rilevare eventuale edema polmonare); -valori di azotemia, creatininemia, elettroliti e proteine plasmatiche. Con l’utilizzo di scale validate e contestualizzate e, ove possibile, con la collaborazione del paziente, valuta la presenza di dolore, con relative caratteristiche, localizzazione e intensità, così come accerterà il livello di ansia che affligge la persona. L’infermiere consulterà il dietista per concordare, insieme all’assistito, una dieta opportuna al caso e le relative restrizioni, dietetiche e di liquidi. Quella dell’accertamento è solo la prima fase del processo di assistenza infermieristica che, come passaggio successivo, prevede un’attenta analisi incrociata dei dati raccolti attraverso l’accertamento, con la collaborazione del paziente e, se presente, con quella di un caregiver; analisi dei dati che porta alla formulazione di un piano assistenziale tarato sulla singola persona. Piano assistenziale standard Un piano assistenziale secondo il modello bifocale Carpenito prevede la formulazione, in completa autonomia da parte del professionista infermiere, di Diagnosi Infermieristiche con relativi obiettivi, la pianificazione e attuazione degli interventi volti al raggiungimento degli stessi ed un sistema di valutazione in itinere per monitorare la risposta del paziente all’erogazione dell’assistenza. L’altra parte del piano assistenziale è costituita dai Problemi Collaborativi, ovvero complicanze potenziali che si stanno verificando o potrebbero verificarsi rispetto ad una determinata patologia. In questo caso l’infermiere ha un ruolo “collaborativo” nei confronti del medico e di altri professionisti della salute coinvolti nel pieno rispetto delle reciproche competenze, ovvero contribuisce a monitorare il paziente, ad individuare eventuali segni e sintomi di complicanze e ad attuare gli interventi per riportare le condizioni cliniche dell’assistito alla stabilità. Un esempio di piano assistenziale per un paziente con Insufficienza Renale Acuta Il signor Luigi, 71 anni, pensionato, proveniente dal Pronto Soccorso, accede al reparto di Medicina Interna in seguito alla stabilizzazione di una condizione di Ira. All’accertamento infermieristico si rilevano i seguenti parametri: • P.A. 170/90 mmHg; • Sat. O2 92% in aria ambiente (AA); • F.C. 78 battiti al minuto (bpm); - F.R. 28 atti al minuto (am) con respiro superficiale. • Inoltre, il paziente manifesta: - cefalea di valore 6 sulla scala NRS; • oliguria; • BMI = 28,50 (sovrappeso); • edema generalizzato; • secchezza cutanea; • irrequietezza; • ansia lieve legata alla patologia. Esempio di pianificazione assistenziale Con un accertamento infermieristico come quello appena esposto e considerando solo la parte del piano assistenziale di completa autonomia dell’infermiere, un esempio calzante di Diagnosi Infermieristica che si potrebbe sviluppare è la seguente: Eccessivo volume di liquidi correlato a compromissione dei meccanismi regolatori secondaria a insufficienza renale acuta che si manifesta con entrate superiori alle uscite e edema generalizzato. Obiettivo: La persona ridurrà lo stato di edema generalizzato entro 3 giorni. Pianificazione interventi: • garantire la privacy; • informare il paziente su ogni manovra che si andrà ad effettuare; • monitorare i parametri vitali; • monitorare il bilancio idrico; • pesare la persona; • monitorare lo stato della cute; • posizionare gli arti edematosi in scarico; • valutare lo stato di coscienza; • pianificare l’assunzione dei liquidi per via orale. Attuazione interventi: • effettuare igiene delle mani dell’operatore; • chiudere la porta della stanza di degenza e posizionare un paravento a protezione dell’assistito durante le manovre invasive per garantire la privacy; • spiegare al paziente con parole adatte al suo livello di comprensione le fasi e l’utilità della manovra che si sta per eseguire affinché comprenda pienamente ciò che verrà effettuato e aumenti la sua collaborazione; • tenere monitorati in particolare i valori di P.A. e F.C. per valutare i livelli di sofferenza cardiaca, e i valori di SatO2, F.R. e qualità del respiro per valutare l’eventuale coinvolgimento dei polmoni nel processo edematoso; • tenere monitorato, nelle 24 ore, il bilancio idrico valutando entrate (bevande, alimenti, acqua endogena, farmaci in forma liquida o in via infusiva) e uscite (urine, feci, perspiratio, sudorazione); • la persona va pesata tutti i giorni alla stessa ora, con la stessa bilancia e con indosso la stessa quantità di indumenti; • monitorare quotidianamente lo stato della cute per rilevare eventuale insorgenza di lesioni, soprattutto nelle zone edematose; • posizionare, con l’aiuto di presidi idonei, gli arti edematosi sollevati rispetto il livello del cuore, se non controindicato per insufficienza cardiaca; • eventuali alterazioni del sensorio possono essere segno di accumulo di tossine; • consultare il dietista per definire la dieta e l’apporto di liquidi; se possibile, somministrare i farmaci per via orale durante i pasti, in modo da contenere l’assunzione di liquidi. Se i farmaci devono essere assunti in altri orari, utilizzare la quantità di acqua indispensabile alla sola deglutizione degli stessi. PROCESSO DI DISINFEIONE E STERILIZZAZIONE Il processo di sterilizzazione consiste nella completa distruzione ed eliminazione di tutti i microrganismi viventi (compreso le spore). Siano essi di qualsiasi natura e sotto qualsiasi forma essi si presentino su una superficie. Dunque, la sterilizzazione ha come obiettivo finale non solo l’eliminazione completa di batteri. Bensì anche la creazione di un ambiente in cui sia impossibile la sopravvivenza di virus e simili. L’art. 1 del DM 274/97 definisce invece attività di disinfezione. Si tratta di quelle attività che riguardano il complesso dei procedimenti ed operazioni atti a rendere sani determinati ambienti confinati ed aree di pertinenza. Ciò avviene mediante la distruzione o inattivazione di microrganismi patogeni. La disinfezione deve essere preceduta dalla pulizia per evitare che residui di sporco possano comprometterne l’efficacia. Essa consente di distruggere i microrganismi patogeni. La disinfezione, dunque, è un processo che ha come scopo l’eliminazione totale di batteri, virus e funghi di qualsiasi tipo. Dunque, sterilizzazione e disinfezione non sono la stessa cosa. Hanno obiettivi diversi e si usano in ambiti diversi. Livelli di disinfezione: In funzione del principio attivo che viene utilizzato e del tempo impiegato per il trattamento delle superfici, la disinfezione può essere di tre livelli: -Livello elevato: distrugge tutti i microrganismi salvo le spore batteriche in numero elevato. Si utilizza quando non è possibile sterilizzare. -Livello intermedio: distrugge la maggior parte dei virus e dei miceti (funghi), batteri in forma vegetativa e le spore batteriche. Si utilizza su superfici o oggetti contaminati da sangue o altro materiale organico. -Livello basso: distrugge la maggior parte dei batteri in forma vegetativa, solo alcuni virus e solo alcuni miceti. Sterilizzato e sterile, la stessa cosa? Sterilizzato è considerato lo strumento sottoposto a processo di sterilizzazione senza la sua confezione. Poi riposto per essere pronto all’uso in modo da minimizzare il rischio di contaminazione ambientale. Sterile è lo strumento ispezionato, pulito, confezionato e poi sottoposto a sterilizzazione dentro uno strumento progettato per sterilizzare strumenti confezionati. Per mantenere lo status di sterile uno strumento deve essere tenuto nella confezione chiusa fino all’attimo prima dell’utilizzo. Tra i metodi/sistemi comunemente utilizzati per la sterilizzazione in ambito sanitario ricordiamo: - Con vapore saturo - Con ossido di etilene - Con perossido di idrogeno - Mediante soluzione di acido peracetico - Sterilizzazione con vapore saturo È una tecnica che sfrutta l'azione del vapore fluente (pentola di Koch) o saturo (autoclave); elimina i microrganismi mediante denaturazione di loro proteine e altre biomolecole. La sterilizzazione mediante autoclave è quella più diffusa essendo poco costosa e non tossica e data la sua buona capacità di penetrazione. La temperatura (T) di sterilizzazione normalmente impiegata è di 134°C alla P di 2,1 bar. Il tempo, come esposizione minima dei dispositivi, risulta essere dai 5 ai 7 min. Oppure 121°C alla P di 1,1 bar. Il tempo, per questo ciclo (definito anche ciclo gomma), è dai 15 ai 20 min. Sterilizzazione con mezzi chimici L'unico mezzo chimico ancora in uso per sterilizzare è l'Ossido di etilene o etossido (EtO). È usato soprattutto in ambito ospedaliero data la sua pericolosità: è infatti un gas esplosivo e infiammabile. L'ETO è incluso nella Legislazione dei gas tossici; la sua detenzione e il suo utilizzo sono regolamentati dal RD 147 del 1927 e dalle circolari del Ministero della Sanità del 1981 e del 1983. L'etossido ha la caratteristica di impregnare a lungo gli oggetti trattati; per evitare danni all'organismo, dunque, prima di usare questi oggetti è necessario riporli in ambienti aerati o in armadi ventilati fino alla completa eliminazione dello sterilizzante. Il meccanismo d'azione è dovuto all'alchilazione, (cioè, alla sostituzione di un atomo di idrogeno con un gruppo alchilico) di gruppi sulfidrilici, aminici, carbossilici, fenolici ed idrossilici delle spore e delle cellule vegetative. Tale processo porta alla morte del microorganismo. Le controindicazioni di questo metodo sono: - Limiti legati al costo - Alla sua tossicità - Tempi lunghi di sterilizzazione e di aerazione - Deve essere installata in un locale appropriato - Personale dotato di patente per la manipolazione di gas tossici Deve essere riservata a tutti quei materiali sterilizzabili che rispondono ai requisiti di compatibilità (modificazione di tipo fisico/ livelli gas residuo). Non è eseguibile la risterilizzazione dei materiali processati in precedenza con raggi gamma (formazione di etilenclorina). Tali vincoli hanno indotto le Aziende Ospedaliere ad una gestione esterna della sterilizzazione ad ETO. Un altro mezzo chimico usato è l'acido peracetico. La formaldeide è stata utilizzata in passato come sterilizzante chimico, ma il suo uso è stato fortemente limitato per legge avendo mostrato indizi di essere cancerogeno. Sterilizzazione con Perossido di Idrogeno Lo si può utilizzare sotto forma di gas plasma o vapore. Con questo metodo si possono trattare materiali plastici, metalli, fibre ottiche, componenti elettroniche e strumenti molto delicati (microchirurgia). Non possono essere utilizzati materiali in grado di assorbire il perossido quali ad esempio la cellulosa (carta e teleria), i liquidi e le polveri. Rappresenta una delle tecniche più avanzate per la sterilizzazione: consiste nell'applicazione di perossido di idrogeno allo stato gassoso in presenza di un forte campo elettrico. Questo porta il perossido allo stato di plasma strappandone gli elettroni e generando radicali liberi. I radicali hanno un'alta capacità germicida andando a danneggiare notevolmente le membrane cellulari. Il vantaggio è dovuto al fatto che si può preservare la sterilità fino a 12 mesi. Il gas plasma è molto promettente in quanto: assolutamente non tossico (genera solo acqua e ossigeno); ha una temperatura operativa molto bassa, intorno ai 40-45 °C; può essere utilizzato praticamente su ogni materiale, tranne alcune stoffe e composti in grado di assorbire il perossido. Sterilizzazione con Acido peracetico È un potente agente ossidante. Questa caratteristica gli consente di avere proprietà antimicrobiche anche a minime concentrazioni. I prodotti di degradazione inoltre non sono tossici e si dissolvono facilmente in acqua. Questo sistema è elettivo, ad esempio, per tutti gli strumenti utilizzati in campo endoscopico (endoscopi flessibili) per i quali è richiesta la sterilizzazione tra un utilizzo e l’altro. Sterilizzazione fasi: Le principali fasi del processo: ACCETTAZIONE IN CENTRALE DELLO STRUMENTARIO CHIRURGICO PROVENIENTE DALLE SALE OPERATORIE; Il personale della Centrale ritira e/o riceve il materiale dai comparti operatori – tramite sistema informatico effettua l’accettazione del materiale e ne verifica la conformità. LAVAGGIO – DECONTAMINAZIONE; Tutti i dispositivi medici riutilizzabili venuti a contatto con materiale biologico devono essere SEMPRE decontaminati. Gli operatori effettuano il lavaggio-disinfezione dello strumentario chirurgico, nel rispetto di specifiche procedure e istruzioni operative, in maniera manuale o automatica in lava strumenti a seconda del tipo di dispositivo. CONFEZIONAMENTO; Lo scopo principale del confezionamento è di conservare il prodotto sterile fino al momento del suo utilizzo. Per il confezionamento vengono utilizzati: containers con filtri, indicati per kit di strumenti chirurgici numerosi. carta medigal grade – accoppiato carta/polipropilene – per strumentario singolo o particolarmente voluminoso -Appositi indicatori di processo/sterilizzazione vengono inseriti in ogni kit. 4)IDENTIFICAZIONE; Identificazione dei containers e dei kit tramite apposito codice a barre rilasciato dal sistema informativo al fine di garantire la rintracciabilità di prodotto. 5)CONFORMITA’; Controllo del 100% dei kit sterilizzati per integrità e viraggio indicatori di processo/ sterilizzazione. Identificazione kit con etichetta finale, con parte staccabile da destinare alla cartella clinica del paziente. Stampa del report di conformità nel rispetto della normativa vigente. Sterilizzazione con vapore saturo; È una tecnica che sfrutta l'azione del vapore fluente (pentola di Koch) o saturo (autoclave); elimina i microrganismi mediante denaturazione di loro proteine e altre biomolecole. La sterilizzazione mediante autoclave è quella più diffusa essendo poco costosa e non tossica e data la sua buona capacità di penetrazione. Autoclave utilizza il calore umido. Vapore d’acqua saturo. Il vapore genera la denaturazione delle proteine. Contenitore in acciaio a chiusura ermetica con una valvola di sicurezza. Manometro e termometro. La temperatura è di 134°C grazie alla pressione che aumenta il punto di ebollizione dell’acqua e la sterilizzazione dura 4-7 minuti. Pressione 760 mmhg. Autoclave a due cicli:1 atm e mezzo (121°C materiale delicato) – 2 atm e mezzo (139°C ferri chirurgici). Caricamento Autoclave: Deve essere effettuato in modo che il vapore possa circolare liberamente e penetrare in ogni pacco. Il carico dell’autoclave deve essere uniformemente distribuito e non deve toccare le pareti interne. Gli articoli da sterilizzare devono essere disposti in modo tale che ogni superficie sia esposta all’agente sterilizzante per la temperatura ed il tempo previsti. Sistemare le buste ed i pacchi di carta nelle apposite griglie in posizione tale da essere paralleli al fluire del vapore, non pressarli, le superfici in polietilene delle buste devono essere abbinate tra loro, i pacchi piccoli sopra a quelli più grandi. Sterrad è una sterilizzazione a gas plasma che utilizza come agente sterilizzate il perossido di idrogeno vaporizzato ed è una tecnica a bassa temperatura (45-55°C) in tempi poco inferiori ad 1 ora ed è una tipologia di sterilizzazione sicura perché non lascia residui di sostanze tossiche permettendo l’uso dei materiali immediatamente dopo la fine del ciclo. È compatibile con materiali plastici, metalli, fibre ottiche. Non possono essere utilizzati materiali in grado di assorbire il perossido quali ad esempio la cellulosa (carta e teleria), i liquidi e le polveri. Rappresenta una delle tecniche più avanzate per la sterilizzazione: consiste nell'applicazione di perossido di idrogeno allo stato gassoso in presenza di un forte campo elettrico. Questo porta il perossido allo stato di plasma strappandone gli elettroni e generando radicali liberi. I radicali hanno un'alta capacità germicida andando a danneggiare notevolmente le membrane cellulari. Il vantaggio è dovuto al fatto che si può preservare la sterilità fino a 12 mesi. Responsabilità dell’operatore nel processo di sterilizzazione: Le norme specifiche di ogni ospedale regolano l’utilizzo e la sicurezza dei presidi di sala operatoria. Tutti gli operatori dovrebbero essere a conoscenza di ogni presidio, delle sue modalità di utilizzo e dei potenziali rischi per garantire la sicurezza sia del paziente sia del team operatorio. -Gli operatori devono controllare il materiale prima che venga utilizzato, valutare il corretto funzionamento, identificare eventuali problemi ed eseguire le corrette istruzioni per garantire la manutenzione e provvedere alla riparazione in caso di malfunzionamento. -È necessario stabilire dei parametri per un sicuro utilizzo dei presidi da parte degli operatori e questi devono sempre fare riferimento alle linee guida fornite dalla casa produttrice. Le istruzioni per l’assemblaggio, per l’utilizzo e per la manutenzione dei presidi dovrebbero essere specificate per iscritto nelle norme interne del dipartimento o riferirsi al manuale d’uso fornito dalla casa produttrice. Utilizzo delle autoclavi a vapore per la sterilizzazione: La buona pratica di sterilizzazione dei DMR si inserisce nel governo clinico e nella qualità. All’avvio dell’attività di sterilizzazione sull’autoclave si prevede l’esecuzione di un ciclo di riscaldamento allo scopo di ripristinare le condizioni di efficacia sia del vapore sia della temperatura, seguito da vuoto test e test per la verifica della penetrazione del vapore routinari come ad esempio: -Vuoto test: serve a verificare la tenuta della camera di sterilizzazione assicurando che non entri aria durante le fasi di vuoto -Test per verifica della penetrazione del vapore: dopo il test di verifica del vuoto, bisogna verificare che il vapore penetri -Test Bowie & Dick: permette di verificare se la rimozione dell’aria si mantiene efficace e se il vapore è ancora in grado di penetrare all’interno della confezione di materiale da sterilizzare -Helix Test: la capacità di rimozione dell’aria dai corpi cavi deve essere determinata utilizzando un dispositivo di prova per carichi cavi (PCD) più comunemente chiamato Helix test. -Indicatori chimici e biologici: Biologici: possono essere sotto forma di striscia o fiale e contengono spore. Chimici: il viraggio finale dell’indicatore chimico non certifica la sterilità del prodotto, ma indica soltanto che il DMR è stato sottoposto a sterilizzazione. Il test Bowie & Dick permette di verificare la corretta evacuazione dell’aria dalla camera di sterilizzazione e conseguentemente, la completa penetrazione del vapore in carichi porosi (esempio: bandane o camici). Il test Bowie & Dick simula le prestazioni dell’apparecchio in riferimento alla sterilizzazione di carichi porosi, in particolare valuta: -l’efficacia del vuoto preliminare, e quindi la penetrazione del vapore all’interno delle cavità; -valori di temperatura e pressione del vapore saturo durante la fase di sterilizzazione. L’indicatore è un foglio sensibile al calore ed è posto al centro di un pacchetto costituito da vari strati di carta e gommaspugna. Questo foglio ha la caratteristica di cambiare colore se esposto ad una determinata pressione di vapor acqueo saturo. Se l’autoclave è efficiente deve essere in grado di sterilizzare in modo omogeneo il pacco poroso, quindi vi sarà una penetrazione omogenea e il Bowie & Dick test assumerà una colorazione uniforme, senza macchie di colore diverso. Il tipo di colorazione che deve raggiungere dipende dalla casa costruttrice ed è reperibile sulle indicazioni dello stesso. Si prende il test Bowie & Dick, che deve essere collocato in autoclave da solo (senza alcun strumento), centralmente sul piano inferiore della camera di sterilizzazione (in queste condizioni il quantitativo di aria da rimuovere è maggiore e la prova risulta più critica.) Il pacco prova contiene all’interno un foglio di carta specifico sul quale è stato predisposto un inchiostro (indicatore chimico) che virerà uniformemente e in modo omogeneo dalla periferia al centro. Si seleziona e avvia sulla propria autoclave l’apposito programma per effettuare il Bowie & Dick Test (il programma effettua un ciclo di sterilizzazione completo a 134 °C a 2.1 atm. per un tempo di sterilizzazione di 3’30”). Si esamina il foglio e si verifica se il viraggio del colore sia avvenuto uniformemente e con la stessa intensità dal centro alla periferia si confronta la risposta ottenuta con quelle presentate nel supporto interpretativo. I Cestelli con Indicatori di Sterilità, Containers ferri chirurgici solitamente raggruppano strumentario utilizzato per un determinato intervento, ad esempio un cainers ernia, un cainers neurochirurgia, ecc. all’esterno troviamo la carta di bowie dick. Lo sterilizzante entra nei container tramite dei filtri che vanno quotidianamente controllati. Confezionamento con containers: Il confezionamento con l’utilizzo di containers è il più pratico e veloce; il materiale viene posizionato all’interno del container su delle griglie di acciaio tenendo presente che lo strumentario più pesante va posto nella parte inferiore all’interno dello stesso. I containers non devono essere riempiti più dei ¾ della loro capacità in modo da poter agevolare la libera circolazione del vapore e non devono superare i 5/6 kg per materiale tessile e i 10 kg per strumentario chirurgico. Prima di ogni processo di sterilizzazione il container deve essere pulito e controllato in ogni sua parte; i filtri monouso devono essere cambiati, i filtri in tessuto devono essere controllati (seguire le indicazioni del produttore per la sostituzione) e le guarnizioni devono essere integre ed a tenuta. All’esterno del container, una volta chiuso, posizionare i ganci di controllo per indicare che il contenuto, una volta processato, non è mai stato utilizzato. I containers per strumentario chirurgico in commercio non devono superare le dimensioni di 30x30x30 e di 30x30x60 e sono costruiti in alluminio e non più in acciaio; l’alluminio disperde il calore molto più velocemente evitando la formazione eccessiva di condensa al suo interno. Posti in scaffali sollevati da terra lontano da umidità luce e polvere i containers mantengono la sterilità al loro interno per almeno 60/90 giorni. La disinfezione Viene eseguita con mezzi fisici, chimici (disinfettanti) e meccanici. Se è diretta alla distruzione di insetti o di piccoli animali è indicata più propriamente con i termini di disinfestione o di disinfestazione. La d. delle acque, allo scopo di renderle potabili, è detta potabilizzazione. Modalità per eseguire la disinfezione. La d. delle ferite si pratica spargendo i disinfettanti sulla parte ferita, mediante batuffoli di ovatta o di garza. Le sostanze impiegate sono comunemente l’alcole puro a 70° o denaturato, l’acqua ossigenata, l’alcole iodato, la tintura di iodio, ecc. La d. di ambienti o di oggetti ed effetti d’uso, quando sia d’interesse pubblico (in casi di epidemie, di malattie contagiose, ecc.) è eseguita a cura delle organizzazioni sanitarie (in Italia dalle unità sanitarie locali). D. fisica (detta più propriamente sterilizzazione): quella eseguita con mezzi fisici quali: 1) calore secco o aria calda: nelle stufe a secco, in genere per vetrerie di laboratorio, siringhe di vetro, ecc.; 2) vapore d’acqua: questo può essere utilizzato fluente (cioè, non compresso) o sotto pressione (in autoclave), talvolta misto a formaldeide, per la d. di biancheria, materiale di medicazione, ecc.; 3) acqua in ebollizione: comunem. impiegata per siringhe, ferri chirurgici, ecc. Allo scopo di distruggere anche le spore batteriche si usa aggiungervi il D. chimica: quella eseguita per mezzo dei disinfettanti chimici, organici e inorganici. carbonato sodico nella proporzione del 2%. D. meccanica: consiste nell’impiego di filtri che trattengono i microbi (per es., in impianti per la potabilizzazione dell’acqua). In genere essa è completata con mezzi chimici (cloro, sali d’argento, ecc.). 12) assistenza al paziente con infarto acuto del miocardio L’infarto del miocardio si verifica quando una parte di muscolo cardiaco rimane isolata dal flusso sanguigno (evento ischemico) e, quindi, privata di ossigeno e nutrienti. Se l’ischemia è prolungata i cardiomiociti (cellule cardiache) vanno incontro a necrosi, che è la morte cellulare. Nella maggior parte dei casi l’infarto avviene in conseguenza della formazione di placche all’interno delle arterie coronariche, deputate all’irrorazione del tessuto miocardico. La formazione delle placche avviene nel corso di un periodo molto lungo, attraverso la deposizione di colesterolo e cellule; se la placca si rompe l’aggregazione piastrinica conseguente può portare a un coagulo di dimensioni tali da ostruire l’arteria. Una causa meno frequente di infarto può essere lo spasmo, una costrizione improvvisa di un’arteria coronarica (National Institutes of Health). L’infarto miocardico può essere di due diverse tipologie, che presentano sintomi molto simili e si distinguono nell’analisi dell’elettrocardiogramma (ECG) a dodici derivazioni (ottenuto con 6 elettrodi posizionati intorno al cuore): Infarto miocardico: STEMI (ST Elevation Myiocardial Infarction), in cui si osserva un sopraslivellamento di almeno 0,1 mV del tratto ST tra due derivazioni contigue; in genere è causato dall’ostruzione completa di una coronaria. Infarto miocardico NSTEMI (Non ST Elevation Myiocardial Infarction), in cui non vi è il sopraslivellamento. In genere l’occlusione della coronaria è parziale. La differenza tra infarto STEMI e NSTEMI è imputabile all’estensione dell’area cardiaca interessata da ischemia, che può dipendere dal tipo di occlusione, se parziale o totale, ma anche dall’arteria occlusa: se il danno interessa le arterie coronariche destra o sinistra le conseguenze sull’area cardiaca possono essere maggiori che non in caso di danno all’arteria circonflessa, che è un’arteria secondaria. In genere i pazienti colpiti da infarto miocardico STEMI sono più giovani e presentano meno disordini cardiovascolari correlati, rispetto invece ai pazienti con infarto miocardico NSTEMI, il quale può essere considerato come il risultato di un processo di una serie di condizioni dannose per la salute cardiovascolare. L’infarto è da considerarsi un’emergenza perché, se il flusso sanguigno rimane interrotto troppo a lungo le cellule cardiache vanno incontro alla morte e il tessuto cicatrizza. Nell’infarto si ritrova, infatti, il rilascio nel sangue di specifici biomarcatori di necrosi cellulare, che differenziano questo evento, sia esso STEMI o NSTEMI, dall’angina instabile, altra patologia cardiaca in cui l’ossigenazione del muscolo cardiaco da parte delle arterie coronariche risulta difficoltosa. Le conseguenze di un attacco di infarto cardiaco possono essere molto gravi e portare all’insorgenza di aritmie, che sono alterazioni del ritmo cardiaco, o insufficienza cardiaca, condizione in cui il cuore non riesce a pompare abbastanza sangue per sostenere la vitalità dell’organismo in maniera adeguata. L’infarto rappresenta la prima causa di morte al mondo. Esistono fattori associati ad un aumento del rischio di infarto miocardico: età fumo: fumare favorisce la coagulabilità del sangue e l’aterosclerosi; pressione alta: la pressione elevata può danneggiare le arterie e aumenta il fabbisogno di ossigeno del cuore, che deve esercitare una maggiore contrattilità; colesterolo o trigliceridi elevati: il colesterolo LDL (low density lipoproteins) e i trigliceridi si depositano e contribuiscono alla formazione delle placche aterosclerotiche; diabete: livelli di glicemia elevati favoriscono l’aterosclerosi; familiarità per infarto del miocardio: esistono polimorfismi genetici che predispngono maggiormente all’infarto del miocardio; mancanza di attività fisica: uno stile di vita comprensivo di attività aerobica permette di mantenere una migliore salute cardiovascolare; obesità: l’obesità è associata a glicemia, trigliceridi e colesterolo elevati; stress: lo stress può influire sulla salute cardiovascolare; sostanze stupefacenti: la cocaina e l’amfetamina possono provocare spasmi costrittivi delle arterie coronariche; preeclampsia: la pressione alta in gravidanza aumenta il rischio di infarto miocardico; malattia autoimmunitaria: condizioni come artrite reumatoide o lupus eritrematoso sono caratterizzate da iperattivazione delle cellule infiammatorie, che favoriscono l’aterosclerosi. l’IMA è una necrosi del tessuto miocardico dovuta: ad una severa ipoperfusione, causata da una inadeguata perfusione coronorica, in seguito a coronaropatie come aterosclerosi, stenosi e/o occlusioni trombotiche. da una maggiore richiesta di O2 (eccessivo sforzo, tachiaritmie) dal tessuto miocardico non soddisfatta per varie ragioni, come l’anemia (ima da discrepanza). Sintomi e segni dell’infarto miocardico acuto Specifici: dolore retrosternale che può diramarsi a livello gastrointestinale (con nausea e vomito), sottomandibolare, giugulo, interscapolare e sulle spalle fino alle braccia. La cute appare pallida e diaforetica (sudore freddo). Respiratori: tachipnea e dispnea, possibile edema polmonare. Psico-neurologici: irritabilità, ansia, irrequietezza, senso di morte imminente. Cefalea. ECG: Alterazioni come ST sopraslivellato, BBSx di nuova insorgenza. Diagnosi Clinica: • Anamnesi, • Esame Obiettivo. • Esami ematochimici: • isoenzimi cardiospecifici: • Troponina T e I, CK-Mb, Mioglobina. Ogni 4/6 h per avere una curva di valori tali da verificare e stimare il danno miocardico. • altri esami utili: LDL e HDL, Colesterolemia, Transaminasi. Strumentali: ECG, EcoCardio, test ergometrico o test da sforzo, ecostress, coronarografia. Trattamento I farmaci generalmente usati si possono ricordare con l’acronimo MANO: Morfina Cloridrato per i casi di concomitante edema polmonare (solo se la pressione arteriosa regge) ed eventualmente per l’ansia e il dolore del paziente. Aspirina (e/o altri antiaggreganti come Plavix) come anti aggregante piastrinico Nitroglicerina inizialmente sublinguale e per le angine semplici, se non efficace o insulto cardiaco è maggiore si passa alla somministrazione endovena. O2 Terapia Il trattamento d’elezione secondo le ultime linee guida è la coronarografia (preferibile rispetto all’uso dei trombofibrinolitici) con eventuale applicazione di stunt o angioplastica, soprattutto se dall’insorgenza dell’infarto non si siano superati 90 minuti la cosiddetta golden hour. Terapia possibile e aggiuntiva: Eparina/Clexane, B-Bloccante, Antiaritmici, ansiolitici ed ipnotici Nursing nell’IMA STemi: Primo Intervento L’infermiere di fronte a sintomatologie che facciano sospettare un infarto miocardico in corso dovrà velocemente effettuare una valutazione dello stato di salute e di coscienza del paziente e: Avvertire il medico Posizionare in Semiseduta o Flower alta (aumenta i volumi respiratori e mantiene in sicurezza il paziente) Effettuare un Accesso Venoso (20G come minimo) Posizionare Ossigenoterapia (secondo protocolli aziendali), Tranquillizzare il paziente. In seguito, si passa al prelevamento dei dati: Farsi spiegare bene la posizione e la natura del dolore (“Sento come una puntura qui vicino allo sterno “) chiedere di oggettivare il dolore con una scala NRS (“Da uno a dieci quanto è forte il dolore dove 10 è il massimo dolore che ha mai sentito e 0 è non sentire dolore” – “In questo momento…sarà 4 ma all’inizio era 2”). Prelevare i parametri vitali: Pressione arteriosa, Saturazione Ossigeno, Frequenza cardiaca e documentarli. Eseguire un ECG (elettrocardiogramma) Recuperati i dati clinici mostrate l’ecg e segnalate al medico i p.v. prelevati e il dato oggettivo del NRS. Somministrate la terapia come prescritta. Probabilmente vi si chiederà di eseguire un prelievo per valutare gli indicatori di necrosi miocardica ed altri valori biochimici. Se fate parte di reparti della branca cardiologica: ogni reparto ha i suoi protocolli e le sue linee guida e quelli saranno da seguire ma possiamo ammettere che grosso modo e in linea generale dovrete, nel caso di imminente esecuzione di coronarografia: • Verificare che il paziente abbia firmato i consensi, compreso e accettato la procedura • Verificare la congruità e la pervietà dell’accesso venoso • Eseguire Tricotomia (secondo il vostro protocollo) ma generalmente a livello inguinale esteso e nei polsi radiali fino all’avambraccio. • Somministrare eventuale terapia • Monitorare parametri vitali e sintomatologia del paziente. • Monitorate attraverso ecg o telemetria l’attività elettrica del cuore • Verificare il digiuno • Se richiesti eseguite il prelievo ematico: la procedura necessità di altri valori biochimici come la creatinina, l’emoglobina e la coagulazione. • Se da protocollo: posizionate un catetere vescicale, in genere non è necessario per tutti. Se il pz ha formato un globo vescicale (fino a 1000 ml) clampate ogni 300/400 ml questo eviterà una crisi vagale, non una buona cosa in un pz infartuato. • Togliete e conservate protesi e accessori: dentiera, occhiali, collane e anelli, cc... • Vestite il paziente con grembiule chirurgico, calzari, mascherina ecc. • Spesso se la creatinina è borderline è da somministrare una soluzione fisiologica (il flusso sarà prescritto secondo la frazione di eiezione del pz) • Trasferire il paziente: UTIC o EMODINAMICA. N.B.: preparare e mantenere vicino subito il carrello d’emergenza, presidi di emergenza sempre a vista e pronti: farmaci di emergenza come atropina e adrenalina, per sostenere la respirazione come l’Ambu, il set per intubazione endotracheale, va e vieni, ecc. e quelli cardiaci come il defibrillatore manuale o quello semi-automatico. Diagnosi Infermieristiche al paziente con Infarto Miocardico Acuto - Rischio di difficoltà respiratoria secondario a edema polmonare Alcuni i pazienti durante l’IMA presentano o rischiano un EPA (edema polmonare acuto). Quindi sarà necessario mantenere un monitoraggio e documentazione costante dei parametri vitali quali PA, FC e SpO2. Eseguire al sospetto un esame obiettivo valutando eventuali suoni respiratori anormali come gorgoglii o fischi, prelevare se prescritto un Emogasanalisi per valutare i gas respiratori, compilare un bilancio idroelettrolitico, monitorare la diuresi che non dovrà mai essere inferiore ai 30 ml/h mantenere sotto osservazione. Preferire una dieta iposodica. Ansia L’ansia è un fenomeno percepito dal paziente con risvolti somatici che possono aggravare lo stato di salute del paziente se eccessivo; quindi, è bene attraverso l’ascolto attivo e l’educazione sanitaria aiutare il pz a controllarla Si può richiedere l’intervento di specialisti se disponibili. Favorire le visite di familiari e amici se le stesse sono armoniose. Problemi Collaborativi: Dolore Istruire il paziente a riferire ogni sintomo o evoluzione ed ogni episodio di dolore. Ricordare dell’importanza del riposo assoluto. Il paziente in seguito alla fase acuta dovrà essere monitorato, se il pz riferisce dolore l’infermiere dovrà effettuare un tracciato ECG (se il paziente non è gia monitorato o telemetrato) e valutare alterazioni del tracciato e riferirle al medico. Prendere i PV, somministrare terapia farmacologica e O2T secondo prescrizione e terapia. Mantenere un ambiente tranquillo, e autorizzare le visite solo se armoniose. Complicanze dell’infarto miocardico acuto Le maggiori complicanze nel paziente infartuato sono: - Aritmie - Embolia Polmonare - Shock Cardiogeno - Monitorare e rilevare possibili stati di ipossia, squilibri acido-base ed elettrolitici, segnalare al medico alterazioni patologiche (esempio potassio fuori range) - Garantire nei casi selezionati dai medici, il monitoraggio ecg continuo e segnalare alterazioni non fisiologiche - Garantire la presenza e la pervietà di un accesso venoso e la disponibilità ai farmaci antiaritmici di urgenza ed emergenza. Embolia Polmonare Monitorare e valutare il dolore toracico e il respiro (anche attraverso auscultazione) per rilevare eventuali sintomi di difficoltà a respirare e segnalare prontamente al medico Monitorare la comparsa di sintomi di inadeguata ossigenzione tissutale o di insufficienza respiratoria: cute fredda, cianosi, pallore, dolore al polpaccio, segno di Holmas (dorsoflessione del piede dolorosa), confusione, agitazione dello stato mentale, disorientamento, alterazione dello stato di coscienza. Shock Cardiogeno Monitorare e segnalare segni e sintomi di diminuita gittata cardiaca: tachicardia, tachipnea, polso debole e filiforme, diuresi <30 ml/h, cute pallida, fredda e cianotica, confusione, agitazione dello stato mentale, disorientamento, alterazione dello stato di coscienza. PA media < 60 mmHG Monitorare i segni di inadeguata perfusione coronarica: valutare presenza di angor o angina. Monitorare e segnalare esami della coagulazione Altre complicazioni principali che l’infermiere dovrà sempre attenzionare e monitorare sono: Fibrillazione Ventricolare, nella prima ora soprattutto e in maniera lievemente minore nelle successive, mantenere accessibile il defibrillatore, solo una scarica può elettro convertire una FV in un ritmo sinusale. Edema Polmonare, vedi in rischio di difficoltà. Complicanze da cateterismo cardiaco (infezione, emorragia, aritmie) ASSISTENZA AL PAZIENTE CON PROBLEMI EPATICI-ASCITE DEFINIZIONE ASCITE: Per ascite si intende la raccolta di liquido nella cavità addominale. In condizioni normali, la presenza di liquidi in quantità ridotte (meno di 30 ml) non crea problemi, ma l'accumulo di quantità maggiori è una spia di differenti patologie in corso e può causare rischi gravi per la salute. Le patologie collegate all'ascite sono le malattie del fegato, epatiti virali ed epatopatia alcolica, seguite da cirrosi epatica e ipertensione portale, insufficienza cardiaca, infarto, sindrome di Budd-Chiari, tubercolosi, pancreatite, carcinoma peritoneale. Le complicazioni più gravi riguardano la possibilità di infezioni (peritonite batterica spontanea o SBP) e la temuta sindrome epatorenale, in cui la pressione dei liquidi su fegato e reni ne compromette gravemente il funzionamento. Questa condizione si verifica nella maggioranza dei casi (fino all'80%) nei pazienti con malattie del fegato, in particolare la cirrosi. In caso di cirrosi, infatti, il legame di forte scambio tra il fegato e la vena porta (vena che “porta” il sangue venoso al fegato) comporta il versamento dei liquidi nella cavità peritoneale causando l'ascite. L'ascite può essere classificata in gradi: I grado, lieve, si evidenzia solo con l'ecografia; II grado e III grado, rilevate dal medico tramite una visita medica, si caratterizzano per il gonfiore evidente dell'addome. La causa più frequente di ascite è la cirrosi epatica. Quando fegato e dotti biliari sono soggetti a cicatrizzazione (fibrosi), l'alterazione nello scambio di liquidi con la vena porta causa il versamento di siero all'interno della cavità addominale. L'ascite compare anche nei pazienti con tumori degli organi addominali, con tubercolosi, pancreatite e con insufficienza cardiaca. I sintomi dell'ascite variano a seconda della causa. In genere, nella forma lieve non dà sintomi e non è visibile. Nelle forme più gravi i sintomi possono includere: - dolore addominale - gonfiore addominale - stanchezza intensa - perdita di peso - perdita di appetito - fiato corto (dispnea), per l'interferenza meccanica con i movimenti del diaframma e dei polmoni La diagnosi di ascite si può ottenere con una visita medica nelle sue fasi avanzate. Il medico attraverso l'esame visivo dell'addome e alcune semplici manovre individua i segni tipici dell'ascite. Per la diagnosi delle cause o per escludere altre condizioni, il medico può richiedere i seguenti esami: Esami del sangue, con emocromo, elettroliti (natremia, potassiemia, cloremia, test della funzionalità renale (creatininemia, azotemia), transaminasi (AST e ALT), glicemia; Ecografia addominale, per la ricerca di ascite lieve, la stima della quantità di liquido e di altre condizioni come la sindrome di Budd-Chiari; In seguito a paracentesi, esame del liquido aspirato per la ricerca di infezioni batteriche o per il dosaggio delle albumine e delle proteine, per la ricerca di eventuali cellule tumorali. Il trattamento dell'ascite prevede alcune misure alimentari, come la riduzione del sale (sodio) negli alimenti per evitare la ritenzione dei liquidi. I farmaci principali sono i diuretici, per l'espulsione dei liquidi in eccesso. Nel caso in cui l'ascite non migliori con l'uso di diuretici, si interviene con l'aspirazione dei liquidi. La procedura si chiama paracentesi e viene eseguita in regime ambulatoriale. Nel caso di peritonite batterica spontanea, l'infezione viene trattata con antibiotici. IL PAZIENTE EPATICO: Il paziente malato di cirrosi epatica: le patologie epatiche possono essere di natura cronica ed è irreversibile. Si tratta di un complesso ampio di alterazioni delle cellule del fegato che sono sottoposte a continue azioni flogistiche che a loro volta danno origine ad esiti cicatriziali. L’organo diventa più spesso e il tessuto diventa fibroso. La Cirrosi Epatica rappresenta a tutti gli effetti l’esito finale di una patologia molto grave la cui cura resta il trapianto. Con i farmaci attuali e con altri rimedi non farmacologici (stile di vita, alimentazione corretta, ecc.) è possibile solo ridurne la progressione. La Cirrosi Epatica nello specifico: Le alterazioni cronico-degenerative delle cellule del fegato, tipiche della condizione di cirrosi epatica, vanno ad intaccare sensibilmente le funzionalità del fegato stesso e ciò accade per cause diverse: la maggior parte dei casi di cirrosi epatica è riconducibile all’abuso di alcool e a malnutrizione (cirrosi portale di Laennec); numerosi anche i casi di cirrosi postnecrotica, secondaria ad epatiti virali acute (soprattutto di tipo B e C); frequente anche la cirrosi biliare, conseguenza di ostruzione biliare cronica. Sono anche altre le cause di cirrosi (ad esempio tumori, patologie ereditarie o l’esposizione ad agenti tossici), ma in tutti i tipi di cirrosi il tessuto cicatriziale interferisce inevitabilmente con la normale funzionalità epatica ed essendo il fegato un organo responsabile di molte funzioni, le complicanze di questa patologia sono ad ampio spettro e possono raggiungere livelli molto gravi. Fra le complicanze della cirrosi, dunque, individuiamo: • malnutrizione: il fegato non è più in grado di assorbire i grassi e le vitamine liposolubili, di conseguenza si ha affaticamento, consumo di massa muscolare e perdita di peso; • ipoglicemia: il fegato non è più in grado di regolare i processi di scissione del glicogeno in glucosio (glicogenolisi); • disfunzioni della coagulazione: il fegato non è più in grado di produrre quantità sufficienti di protrombina e fibrinogeno; • ipertensione portale: il flusso di sangue che attraversa il fegato viene interrotto dal tessuto cicatriziale e ritorna dunque verso la vena porta, causando ipertensione. L’ipertensione portale, causando a sua volta la distensione delle vene di esofago, milza e retto, provoca varici esofagee, splenomegalia ed emorroidi; • ascite: l’ipertensione portale può condurre anche ad un accumulo di liquidi nella cavità peritoneale; • encefalopatia epatica: il paziente si mostra disorientato ed ha tremore delle mani, segni di accumulo di ammoniaca nell’encefalo; • sindrome epato-renale: la cirrosi evolve in un’insufficienza renale ed il paziente manifesta oliguria, inappetenza, astenia, affaticamento ed iperazotemia. La cirrosi epatica può essere definita una patologia subdola, poiché chi ne è colpito spesso non sa di avere un problema di fegato fino alla comparsa, talvolta improvvisa, di complicazioni ad esso correlate. Una serie di segni e sintomi, tuttavia, possono essere notati e possono far sospettare la presenza di una patologia epatica, quali ad esempio: • ittero: colorazione giallastra di cute, mucose e occhi (sclere) dovuta ad un accumulo di bilirubina, non più escreta in quantità adeguate da parte del fegato; • ascite ed edemi agli arti inferiori: per un difetto del ruolo del fegato nell’eliminazione dei liquidi; - alterazioni dei vasi periferici (spider naevi: piccole macchie circondate da sottili vasi sanguigni, a forma di “ragno”), ematomi, ecchimosi, petecchie, epistassi; • alterazioni delle unghie e delle dita delle mani: bande orizzontali bianche sulle unghie, dita ippocratiche o “a bacchetta di tamburo”; • epato-splenomegalia; • febbre, vomito, perdita di peso ed altri. La diagnosi di cirrosi epatica può essere determinata attraverso: esami ematici (aminotransferasi, bilirubina, albumina, fattori della coagulazione ecc.) TAC - Ecografia ed altri. PROBLEMI COLLABORATIVI DEL PAZIENTE EPATICO: emorragia, tossicità da farmaci, malattie metaboliche, encefalopatia porto sistemica, insufficienza renale OBIETTIVI: l’infermiere identificherà segni e sintomi di emorragia, tossicità da farmaci ecc. INDICATORI: • pressione arteriosa maggiore di 90/60 o minore di 140/90 • Frequenza cardiaca 60-100 bpm • Frequenza respiratoria 16-20 atti/min. • Vigile, orientato nel tempo, spazio e persone • diuresi>5ml/Kg/h • Esami: emoglobina, tempo di protrombina, elettroliti plasmatici, sodiemia, creatininemia, albuminemia, azotemia, assenzadisangueoccultonellefeci • PCO2sanguearterioso:35-45mmHg • SaturazioneinO2 dell’emoglobina con pulsossimetro>95% INTERVENTI: Monitorare l’eventuale comparsa di emorragie raccogliendo i seguenti dati: parametri vitali, ematocrito e emoglobina, presenza di sangue occulto nelle feci, tempo di protrombina Monitorare l’eventuale comparsa di sintomi di rottura di varici esofagee: ematemesi, melena Insegnare a riferire la comparsa di emorragie insolite e aree di ecchimosi Monitorare l’eventuale comparsa di segni e sintomi quali: ipoglicemia, riduzione di sodio, potassio, calcio, magnesio, fosfati; Monitorare l’eventuale comparsa di alterazioni dell’equilibrio acido-base Monitorare l’eventuale comparsa di encefalopatia portosistemica valutando: comportamento generale, orientamento nel tempo e nello spazio, linguaggio, ph ematico e ammonemia Accertare l’eventuale comparsa di effetti collaterali dei farmaci Evitare la somministrazione di farmaci che possono alterare la funzionalità epatica Monitorare l’eventuale comparsa di insufficienza renale valutando entrate e uscite, peso specifico delle urine, sodiemia Monitorare l’eventuale comparsa di ipertensione arteriosa Insegnare a riferire ai familiari i seguenti sintomi: aumento della circonferenza addominale, perdita o aumento del peso corporeo, emorragie, tremori, confusione mentale Terapia farmacologica. • Integratori vitaminici e/o di Sali minerali, lattulosio, enzimi digestivi, vasodilatatori, diuretici risparmiatori di potassio. • Terapia endovenosa. • Nutrizione parenterale. Esami di laboratorio: Azotemia, bilirubina plasmatica, AST, ALT, LDH, glicemia, elettroliti plasmatici, fosfatasi alcalina, tempo di protrombina, emocromo, immunoglobuline IgA e IgG. Indagini diagnostiche. Ecografia epatica, colangiografia trans epatica, biopsia epatica, esofagogastroduodenoscopia, RMN TC, radiografia addome. Altri trattamenti. Dieta, restrizione di liquidi, ossigenoterapia, nutrizione per sonda, paracentesi DOCUMENTAZIONE: Diario giornaliero: peso corporeo, parametri vitali, sangue occulto nelle feci, circonferenza addominale, peso specifico urine, entrate e uscite. Note di decorso: segni di emorragia, tremori o confusione mentale DIAGNOSI INFERMIERISTICHE: Nutrizione inferiore al fabbisogno, correlata a inappetenza, compromissione del metabolismo proteico, lipidico e glucidico e del deposito di vitamine (A, C, K, D, E) NOC: stato nutrizionale, conoscenza della dieta NIC: gestione della nutrizione 1. Discutere le cause dell’inappetenza, della dispepsia e della nausea e spiegare che la compromissione della funzionalità epatica è causa di alterazioni metaboliche. 2. Educare l’assistito a riposare prima dei pasti 3. Offrire pasti piccoli e frequenti 4. Ridurre l’assunzione di liquidi ai pasti ed evitare di farlo bere un’ora prima e dopo ogni pasto 5. Mantenere un’adeguata igiene orale prima e dopo l’assunzione di cibo 6. Fare in modo che gli alimenti a più alto contenuto proteico e calorico vengano serviti nel momento in cui è più probabile che il paziente li assuma. 7. Insegnare all’assistito le misure idonee a ridurre la nausea (evitare l’odore della preparazione dei cibi, sostituire i vestiti se pieni di odori, mangiare in posizione seduta in ambiente arieggiato, riposare in modo che la testa si trovi almeno 10cm più in alto rispetto ai piedi 8. Limitare l’assunzione di alimenti e bevande ad alto contenuto lipidicoSpiegare il bisogno di aumentare l’apporto d ivitaminaB12, acido folico, tiamina, ferro, i rischi legati all’alcool e di assumere le vitamine liposolubili in forma idrosolubile 9. Documentazione Diario giornaliero: peso corporeo, entrate, circonferenza addominale DIAGNOSI INFERMIERISTICA: Compromissione del benessere, correlata a prurito secondario ad accumulo di bilirubina e Sali biliari NOC: controllo dei sintomi NIC: gestione del prurito, trattamento della febbre, gestione dell’ambiente per il benessere Interventi: mantenere l’igiene evitando la disidratazione della cuteEvitare l’esposizione a temperature elevate mantenendo l’ambiente frescoConsigliare di non grattarsi e istruire a applicare una ferma pressione sulla zona che prudeConsultare medico per la terapia farmacologica se necessario. DIAGNOSI INFERMIERISTICHE: Eccesso d volume dei liquidi, correlato a ipertensione portale, diminuzione della pressione colloidosmotica del plasma e ritenzione di sodio NOC: bilancio elettrolitico, bilancio idrico, idratazione NIC: gestione degli elettroliti, gestione dei liquidi, monitoraggio dei liquidi, sorveglianza della cute INTERVENTI: verificare la dieta dell’assistito per rilevare un inadeguato apporto proteico o un eccessivo apporto di sodio. Incoraggiare l’assistito a diminuire l’apporto di sodio; Accertare insieme al medico se l’assistito può usare i sostitutivi del sale evitando i prodotti che contengono ammonio Proteggere la cute edematosa da Lesioni. Il ruolo dell’infermiere nell’assistenza al paziente con Cirrosi Epatica L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica e di fronte ad un paziente con cirrosi epatica che viene ricoverato nell’Unità Operativa di Medicina Interna, ha la responsabilità di prendere in carico l’utente. Dopo aver acquisito i dati anagrafici necessari al ricovero del paziente, l’infermiere procede ad effettuare l’accertamento infermieristico per delineare le condizioni dello stesso al momento dell’ingresso in reparto. L’infermiere, in particolare, rileva i parametri vitali, quali: - pressione arteriosa - saturazione - frequenza cardiaca - frequenza respiratoria e qualità del respiro - temperatura corporea. Monitorerà, inoltre: - il colorito e il livello di idratazione della cute; - le condizioni del sensorio; - l’eventuale presenza di ascite e/o edemi agli arti, misurandone la circonferenza; - i rumori polmonari (per rilevare eventuale edema polmonare); - i valori di globuli bianchi, globuli rossi, piastrine, emoglobina, bilirubina e delle transaminasi. Con l’utilizzo di scale validate e contestualizzate e, ove possibile, con la collaborazione del paziente, valuta la presenza di dolore, con relative caratteristiche, localizzazione e intensità, così come accerterà il livello di ansia che affligge la persona. L’infermiere consulterà il dietista per concordare, insieme all’assistito, una dieta opportuna al caso e le relative restrizioni, dietetiche e di liquidi.(pochi liquidi dovrà assumere)Quella dell’accertamento è solo la prima fase del processo di assistenza infermieristica che, come passaggio successivo, prevede un’attenta analisi incrociata dei dati raccolti attraverso l’accertamento, con la collaborazione del paziente e, se presente, con quella di un caregiver; analisi dei dati che porta alla formulazione di un piano assistenziale tarato sulla singola persona. Un esempio di piano assistenziale per un paziente con Cirrosi Epatica La signora Giovanna, 68 anni, pensionata viene ricoverata nel reparto di Medicina Interna con una diagnosi di cirrosi epatica. All’accertamento infermieristico si rilevano i seguenti parametri: - P.A. 165/90 mmHg; - Sat. O2 93% in aria ambiente (AA); - F.C. 75 battiti al minuto (bpm); - F.R. 26 atti al minuto (am) con respiro superficiale. - Inoltre, il paziente manifesta: - cefalea di valore 5 sulla scala NRS; - oliguria; - ascite; - astenia; - nausea e inappetenza; - secchezza cutanea, ittero; - irrequietezza; - ansia lieve legata alla patologia. Obiettivo: La persona non presenterà segni e sintomi di infezione durante la degenza. Pianificazione interventi: - garantire la privacy; - informare il paziente su ogni manovra che si andrà ad effettuare; - garantire corretta igiene personale e dell’unità di degenza; - monitorare il paziente, i parametri vitali e lo stato della cute per rilevare eventuali segni e sintomi di infezione; - garantire tecnica asettica nella gestione dei presidi invasivi; - garantire la corretta somministrazione della terapia prescritta dal medico. Attuazione interventi: - effettuare igiene delle mani dell’operatore; chiudere la porta della stanza di degenza e posizionare un paravento a protezione dell’assistito durante le manovre invasive per garantire la privacy; - spiegare al paziente con parole adatte al suo livello di comprensione le fasi e l’utilità della manovra che si sta per eseguire affinché comprenda pienamente ciò che verrà effettuato e aumenti la sua collaborazione; - garantire quotidianamente l’igiene personale e dell’unità di degenza, una biancheria asciutta e pulita e una giusta areazione dell’ambiente aiuta a ridurre la possibilità d’insorgenza di infezioni; - monitorare il paziente per rilevare eventuali segni e sintomi di infezione, quali: stati insoliti di dolore, rossore, calore della cute, ematuria, piuria, temperatura corporea superiore ai 38°C, diaforesi profusa, aumento F.C., aumento F.R. ecc. - garantire una tecnica asettica nella gestione dei presidi invasivi riduce la possibilità di invasione da parte di microrganismi patogeni; - garantire la corretta somministrazione della terapia prescritta dal medico, ad esempio quella antibiotica, è fondamentale per debellare eventuali infezioni in atto. Verifica La persona non presenta segni e sintomi di infezione. LA SOMMINISTRAZIONE DEI FARMACI E NORME DI SICUREZZA La Terapia Farmacologica La gestione e somministrazione dei farmaci rappresenta uno dei perni centrali della professione Infermieristica. Centrale perché “è propria dell'infermiere” ed è un'attività delicata che comporta dei rischi per il paziente sino a metterne in serio pericolo la vita, ma anche per l’operatore. Facendo gravare su noi infermieri, un altissimo carico di responsabilità (“COLPA PROFESSIONALE”) Responsabilità etica, civile penale e disciplinare in caso di errore. Dal punto di vista giuridico, l’atto di somministrare la terapia farmacologica si compone di due momenti: -ATTO DI PRESCRIZIONE (COMPETENZA MEDICA) - ATTO DI SOMMINISTRAZIONE (COMPETENZA INFERMIERISTICA) IN SITUAZIONI DI EMERGENZA CLINICA E CIRCOSTANZIALE, QUESTA DISTINZIONE VIENE A MANCARE La Prescrizione Dev'essere scritta reperibile nella cartella clinica e/o nella cartella infermieristica. Nella prescrizione di un farmaco devono comparire quegli elementi che garantiscono un’adeguata completezza di informazioni rispetto a ciò che si sta somministrando e alla persona a cui lo si somministra “la prescrizione di farmaci sulla base di una prescrizione orale può essere accettata soltanto in casi di emergenza”. “l’emergenza è una situazione che giustifica la mancanza del requisito della prescrizione, in quanto il medico è comunque presente, ha visitato il paziente e ha fatto una diagnosi”. “le istruzioni telefoniche date ad un infermiere per una somministrazione di farmaci, anche in una situazione di emergenza, non sono accettabili”. Errore di prescrizione: Per “prescrizione completata” s’intende una prescrizione che prevede tutti i seguenti elementi: Associazione inequivocabile al paziente, peso del paziente, allergie, tipo di farmaco (denominazione commerciale), la forma farmaceutica, dose via di somministrazione, numero di somministrazioni, i tempi/orari, durata, ogni indicazione necessaria, data, firma Errore di trascrizione/ interpretazione: Riguarda la errata comprensione di parte o della totalità della prescrizione medica e/o delle abbreviazioni e/o di scrittura. Tale errore si può verificare laddove vi è l’abitudine di trascrivere la prescrizione, oppure si tenti di decifrare una grafia poco chiara, o si somministri anche a fronte di una prescrizione incompleta di uno dei suoi elementi costitutivi. Oppure possono verificarsi Errori di calcolo. Errore di somministrazione: Avviene nella fase di somministrazione della terapia, da parte degli operatori sanitari o di altre persone di assistenza, o quando il farmaco viene assunto autonomamente dal pz. Errore di monitoraggio: da riferire al mancato, oppure all’errato monitoraggio degli effetti del farmaco sul paziente È stato stimato che gli errori di somministrazione rappresentano circa il 59% degli errori. Ogni qual volta un infermiere si trova dinanzi a una prescrizione illeggibile, poco chiara o incompleta è obbligato a chiedere un chiarimento per iscritto dal medico. CALCOLO DELLE DOSI DEI FARMACI: dose prescritta diviso dose disponibile per volume che la contiene uguale quantità da somministrare. La gestione della terapia farmacologica viene messa in atto dall’infermiere attraverso tre azioni: 1.Somministrazione 2. Approvvigionamento 3.Conservazione L'infermiere deve: ➢ Essere informato rispetto al progetto terapeutico ➢ Garantire la corretta applicazione delle prescrizioni terapeutiche ➢ Garantire l’efficacia e la sicurezza della terapia ➢ Rispettare i diritti del malato, informarlo rispetto alla terapia e ai rischi reali e/o potenziali (CONSENSO) ➢ Conoscere i farmaci che si somministrano, le modalità di somministrazione ed il monitoraggio previsto ➢ Saper riconoscere le situazioni in cui è necessario rivalutare la somministrazione della terapia ➢ Agire secondo l’evidenza scientifica ➢ Garantire un uso appropriato delle risorse ➢ Perseguire la beneficialità del paziente e l'astensione da pratiche di accanimento terapeutico ➢ Agire in indipendenza e senza condizionamenti Principi di approvvigionamento dei farmaci: •Rispetto dei tempi e dei modi stabiliti dal programma terapeutico •Economicità •Continuità terapeutica La gestione dei farmaci all’interno dell’unità operativa: farmaci personali del paziente farmaci in prontuario (PTO) farmaci fuori prontuario (FPTO) farmaci campione farmaci stupefacenti e sostanze psicotrope farmaci pericolosi. Principi di conservazione dei farmaci -DMS 06/07/99 “Approvazione delle linee direttici in materia di buona pratica di distribuzione dei medicinali per uso umano” Gazzetta Ufficiale n° 190 del 14/08/1999 e Circolare n°2 del 13/01/2000 del Ministero della Sanità: “Informazioni sulla temperatura di conservazione dei prodotti medicinali” all’interno delle loro confezioni originali secondo la specificità di ogni singolo farmaco al riparo dalla luce al riparo dell’umidità al riparo dall’ossigeno alla temperatura indicata nella confezione e separare i farmaci pericolosi dagli altri farmaci Raccomandazioni del Ministero della Salute 2007/8 controllo periodico delle scadenze -DPR 9 ottobre 1990, n°309 Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di Tossicodipendenza” - Decreto Ministeriale del 3 agosto 2001“Approvazione del registro di carico e scarico delle sostanze stupefacenti e psicotrope per le unità operative” La scheda terapeutica unica è un eccellente strumento di comunicazione interna, che integra in un unico documento tutte le informazioni sul processo terapeutico dei pazienti ricoverati. Consente di far fronte ai problemi di comunicazione, prima causa degli errori di terapia (Leape et al, 1998). La STU è parte integrante della cartella clinica e: Facilita i medici ad effettuare la prescrizione scritta in modo chiaro; Consente ai farmacisti di identificare correttamente il prescrivente e le caratteristiche del paziente in modo tale da collaborare con il medico per la sicurezza della prescrizione. Evita passaggi di trascrizione tra la cartella clinica e la documentazione infermieristica cosicché gli infermieri impiegano la stessa scheda redatta dal medico per effettuare la somministrazione, risparmiando tempo ed errori di trascrizione; Consente di tener traccia su un unico documento di tutte le operazioni effettuate. Adottare una procedura condivisa a livello aziendale per la conservazione, prescrizione, preparazione, distribuzione e somministrazione dei farmaci per es.: -Doppio controllo Alcuni studi evidenziano che dedicare due infermieri alla somministrazione della terapia che verificano le prescrizioni mediche prima della somministrazione, porta alla probabilità di ridurre del 30% gli errori farmacologici rispetto all’uso di un solo infermiere. -Infermieri identificati come “non disturbabili”: Alcuni studi evidenziano che identificare come non disturbabili gli infermieri responsabili della somministrazione della terapia può ridurre la distrazione durante la preparazione e somministrazione della terapia. L’ATTO DI SOMMINISTRAZIONE DELLA TERAPIA È UN ATTO: •UNITARIO in quanto deve essere compiuto da una sola persona •SEQUENZIALE in quanto colui che prepara il farmaco è colui che lo somministra •CRONOLOGICO in quanto deve seguire in modo tassativo una sequenzialità logica IL PRINCIPIO DELL’UNITARIETA’ DELL’AZIONE RICONOSCE ALCUNE ECCEZIONI: -SITUAZIONI DI EMERGENZA -L’ ATTIVITA’ DI INSEGNAMENTO AGLI STUDENTI -LE SOLUZIONI CON FARMACI IN INFUSIONE CONTINUA REGOLA DELLE 7G: (aggiornamento 2024, le G sono 8) 1. GIUSTO FARMACO: il farmaco che si sta somministrando deve essere quello effettivamente prescritto. 2. GIUSTA DOSE: il farmaco deve essere somministrato nella dose prescritta. 3. GIUSTA VIA DI SOMMINISTRAZIONE: il farmaco deve essere somministrato per la via prescritta 4. GIUSTO ORARIO: il farmaco deve essere somministrato con la frequenza prescritta e all'ora indicata dai protocolli in uso. 5. GIUSTO PAZIENTE: il farmaco deve essere somministrato alla persona alla quale è stato prescritto 6. GIUSTA REGISTRAZIONE: si registra nella documentazione clinica dell'avvenuta somministrazione (o non avvenuta con le relative motivazioni) 7. GIUSTO CONTROLLO: sia su tutte le fasi di gestione della terapia, ovvero dalla lettura della prescrizione alla somministrazione, sia in merito all'esecuzione di eventuali controlli successivi (es. la rilevazione della pressione arteriosa nel caso di somministrazione di un antipertensivo). L’infermiere si accerta che il paziente abbia ricevuto l'opportuna formazione, deve documentare sia la somministrazione che l'eventuale rifiuto del paziente e in quest’ultimo caso comunicarlo al medico e registrarlo Cos’è UN FARMACO? Un farmaco è una sostanza o un’associazione di sostanze impiegata per curare o prevenire le malattie. È composto da un elemento, il principio attivo, da cui dipende l’azione curativa vera e propria, e da uno o più “materiali” privi di ogni capacità terapeutica (eccipienti)…con la funzione di: - proteggere il principio attivo. - facilitarne l’assorbimento. - mascherare eventuali odori o sapori. - ● Il farmaco può essere classificato in vari modi e secondo diverse caratteristiche: - ● gli organi su cui agisce o il tipo di azione che svolge (in tal caso si parla di classe o categoria terapeutica); - ● le modalità di produzione (di origine industriale, preparati in farmacia o galenici) In alcuni casi, il farmaco può essere anche somministrato allo scopo di stabilire una diagnosi medica (es. mezzi di contrasto) o per ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche (es. la pillola contraccettiva prescritta per impedire l'ovulazione), senza che vi sia alcuna malattia da curare. I farmaci possono essere classificati in base all'origine: • Animale (sieri, enzimi, ormoni); ormai rari • Vegetale (digitale); • Minerale (bicarbonato di sodio, sodio cloruro, magnesio, potassio cloruro); • Di sintesi. Si classificano inoltre farmaci con funzione: • Sostitutiva (compensano le carenze, come vitamine, enzimi, ormoni); • Eziotropica (agiscono sull’ agente eziologico, come gli antibiotici); • Sintomatica (agiscono sui sintomi come analgesici, antinfiammatori); • Preventiva (agiscono stimolando o migliorando le difese dell’organismo, come i vaccini). In relazione alle modalità di preparazione, approvazione, registrazione, controllo e distribuzione, i farmaci si classificano infine in: • Specialità (preparati dalle industrie farmaceutiche, sottoposti ad approvazione, controllo e registrazione da parte del Ministero della Salute e brevettati); • Generici (specialità con brevetto scaduto e che possono quindi essere prodotte da qualsiasi industria farmaceutica); • Galenici (non sono specialità, non sono sottoposti a registrazione da parte del Ministero della Salute ma necessitano dell’autorizzazione all’immissione in commercio). La farmacocinetica studia gli effetti che i processi dell'organismo hanno sul farmaco (assorbimento, distribuzione, metabolismo, eliminazione). ➢ La farmacodinamica è lo studio degli effetti biochimici e fisiologici dei farmaci sull'organismo, ed il loro meccanismo d’azione. In particolare, studia l'interazione tra farmaci e recettori; ➢ EFFETTI TERAPEUTICO: è la risposta fisiologica, voluta o prevista, prodotta dal farmaco ➢ EFFETTI COLLATERALI: è la possibilità, che un farmaco causi effetti secondari non voluti e possono essere innocui o dannosi. ➢ EFFETTI TOSSICI: dopo l’assunzione prolungata o quando un farmaco si accumula nel sangue a seguito di compromissione del metabolismo o dell’eliminazione. ➢ REAZIONI IDIOSINCRASICHE: sono effetti imprevedibili, reazioni eccessive a un farmaco o reazione diversa da quella normale. ➢ REAZIONI ALLERGICHE: è una risposta imprevedibile al farmaco somministrato, può essere lieve o grave. L’esposizione alla dose iniziale di un f. può provocare una risposta di sensibilizzazione immunologica (es. antibiotici). Il f. in questo caso agisce come un antigene e induce la produzione di risposta allergica verso il farmaco, verso i suoi eccipienti o verso un suo metabolita sino allo Shock anafilattico (improvvisa costrizione dei muscoli bronchiali da edema della laringe, da spiccati sibili, dispnea). La tolleranza ai farmaci si verifica quando il paziente assume lo stesso farmaco per un lungo periodo di tempo e necessita di dosi più alte per ottenere lo stesso effetto. La dipendenza da farmaci può essere; 1) psicologica: avviene quando il paziente desidera il farmaco perché pensa di trarne beneficio. 2) fisiologica: invece avviene quando il paziente presenta reazioni negative se non assume il farmaco (astinenza). L'interazione fra farmaci si ha quando un farmaco modifica l’azione di un altro farmaco. Un farmaco può potenziare o diminuire l’azione di un altro farmaco, può alterare le modalità di metabolizzazione o eliminazione. Due farmaci se somministrati simultaneamente possono avere un effetto sinergico o additivo (es. alcool più antidepressivi). A volte l’effetto sinergico è voluto (es. diuretici e vasodilatatori). L' azione di un farmaco all'interno di un organismo si divide in quattro fasi: 1. Esordio dell’azione: periodo di tempo trascorso dopo la somministrazione del farmaco prima che questo dia origine a una risposta; 2. Picco dell’azione – tempo che occorre affinché il farmaco raggiunga la sua più alta concentrazione e quindi la sua massima efficacia. 3.Durata dell’azione – arco temporale durante il quale il farmaco è presente in concentrazione ancora sufficiente elevata da dare luogo a una risposta; 4.Plateau – concentrazione sierica nel sangue raggiunta e mantenuta dopo dosi ripetute e fisse. DOMANDE: Quando somministriamo un farmaco dobbiamo chiederci: • A quale categoria farmaco terapeutica appartiene? • Qual è il suo principio attivo? • Qual è il suo meccanismo d’azione? • Quali sono le sue indicazioni e controindicazioni? • Quali sono i suoi effetti collaterali? • Fra quanto tempo avrà effetto questo farmaco? • Lontano o vicino dai pasti? • Può avere interazioni con gli altri farmaci? • Richiede particolari avvertenze controlli o precauzioni? • Il paziente ha il SNG? • Il paziente presenta vomito? • In quale forma farmaceutica e contenuto si presenta • Quale è la dose e il modo e di somministrazione? REGOLE BASILARI PRIMA DELLA SOMMINISTRAZIONE DEI FARMACI: - Controllare l’etichetta del farmaco - Riporre la confezione del farmaco nello scaffale o carrello - Lavarsi le mani - Organizzare il materiale Confermare l’identità del paziente e informarlo - Verificare le prescrizioni - Assicurarsi che il paziente possa assumere la terapia per la via prescritta ed ottenerne la collaborazione - Fargli assumere la posizione corretta - Non somministrare un farmaco: non adeguatamente etichettato, Scaduto o alterato, preparato da un’altra persona (salvo eccezioni) ALL’ATTO DELLA SOMMINISTRAZIONE DEL FARMACO: Riordinare il materiale utilizzato Valutare gli effetti del farmaco somministrato Lavarsi le mani e registrare la procedura LE VALUTAZIONI INFERMIERISTICHE: Vanno dall’accertamento inf. (valutaz. Iniziale) all’individuazione delle diagnosi infermieristiche e dei problemi collaborativi che servono per pianificare la somministrazione (attuazione) della terapia ad un singolo paziente o ad un gruppo ed infine a stabilire stabilire i criteri di valutazione dell’efficacia della terapia somministrata • Tener conto di quali sono le abitudini dei pazienti • Empowerment. Alcuni esempi di DI e/o Problemi Collaborativi • Gestione inefficace del regime terapeutico correlato a deficit cognitivi, uditivi e/o visivi • Rischio di tossicità da farmaci correlata ad insufficienza renale • Rischio di tossicità da narcotici correlata ad insufficienza epatica COME SOMMINISTRARE I FARMACI? Ai fini dell’assistenza infermieristica si dovrà valutare il grado di autonomia del paziente. • Nel caso in cui risulti assopito in aggiunta ad una valutazione dello stato di coscienza, sarà necessario stabilire se il paziente presenta un efficace riflesso della deglutizione. • Per gli anziani è importante andare a ricercare eventuali difficoltà nella manipolazione dei farmaci, disturbi visivi che possono dare difficoltà nel riconoscere i farmaci che devono assumere. Valutare la patologia principale e altre eventuali patologie concomitanti quali: Patologie epatiche: i sistemi enzimatici epatici sono il sito principale del metabolismo dei farmaci. Patologie renali: i pazienti con IRC possono andare incontro ad un aumento dell’effetto e della durata dei farmaci somministrati Stato d’idratazione del paziente: poiché questo influenza la distribuzione e l’eliminazione dei farmaci. VIE DI SOMMINISTRAZIONE DEI FARMACI Naturali: la via orale, la via buccale, la via sublinguale, la via rettale, la via inalatoria, la via transcutanea, la via trans mucosa. Artificiali: la via intramuscolare, la via sottocutanea, la via intradermica, la via endovenosa Speciali: la via intrarteriosa* la via intracardiaca* la via endorachidea* la via endocaviatria* la via epidurale* la via endomidollare ossea* La via parenterale consente al farmaco di raggiungere direttamente il circolo sanguigno provocando così un'azione farmacologica +/- rapida. Indicata per quei farmaci poco assorbiti per via enterale o che vengono degradati dal tratto gastrointestinale. Le tre principali vie di somministrazione sono: -Endovenosa (EV): per avere un rapido effetto ed un buon controllo dei livelli del farmaco in circolo. Inoltre, si evitano tutte le cause responsabili dell'inattivazione del farmaco nel tratto gastrointestinale. -Intramuscolare (IM): I muscoli sono molto più irrorati di sangue e meno sensibili del tessuto sottocutaneo, quindi il farmaco è più tollerato. I farmaci somministrati con questa via possono essere sotto forma di soluzioni acquose con assorbimento rapido oppure preparazioni speciali non acquose (oleose) con funzione di deposito nel muscolo provocando un rilascio lento del principio attivo nel sangue ed un'azione prolungata nel tempo. - Sottocutanea (SC): questa via di somministrazione presenta un assorbimento più lento rispetto e limita i rischi dovuti all'iniezione IM. È utilizzata per somministrare piccoli volumi di farmaco. La via enterale si divide in: -via orale (OS): è la via di somministrazione più comune, che avviene per bocca; -via sublinguale: che prevede la collocazione del farmaco sotto la lingua, che passa così direttamente nel circolo sanguigno senza passare per il tratto gastro-intestinale; -via rettale che, come quella sublinguale, permette al farmaco di non essere distrutto dall'ambiente acido dello stomaco, o successivamente, da quello basico dell'intestino. (Farmaco somministrato ai bambini: valium) Altre vie di somministrazione: Inalatoria: utilizzata con farmaci allo stato gassoso o per quelli che possono essere dispersi in aerosol. È efficace nei pazienti con problemi respiratori (asma, bronchite, etc.) poiché il farmaco agisce direttamente nel sito d'azione (apparato respiratorio) riducendo così gli effetti collaterali. Topica: il farmaco è applicato sulla pelle o sulle mucose per essere poi assorbito rapidamente o comunque agendo direttamente sulla lesione esterna; questa via è utilizzata per ottenere un effetto locale del farmaco (creme, pomate, colliri, gocce auricolari o nasali) riducendo al minimo gli effetti collaterali riguardanti l'intero organismo (disturbi gastrointestinali, ritenzione idrica, mal di testa...) Transdermica: si hanno effetti generali attraverso l'applicazione di farmaci sulla cute come, per esempio, per mezzo di un cerotto. In questo modo si ha un rilascio molto lento del farmaco. Al variare della via di somministrazione, varia l’assorbimento della sostanza da parte dell'organismo: ORALE: assorbimento variabile, che dipende da molti fattori gli effetti compaiono dopo almeno 45-60 minuti è la via più economica e più sicura RETTALE: assorbimento variabile e incompleto ha una latenza d'azione minore rispetto alla via per os SUBLINGUALE: assorbimento rapido l'effetto compare dopo pochi minuti utilizzata in emergenza aumentato rischio di effetti collaterali ENDOVENA: 100% assorbimento effetti immediati aumentato rischio di effetti collaterali. INTRAMUSCOLO: assorbimento rapido per le soluzioni acquose assorbimento lento e prolungato per le preparazioni a lento rilascio SOTTOCUTANEA: assorbimento rapido per le soluzioni acquose assorbimento lento e prolungato per le preparazioni a lento rilascio TRANSDERMICA: assorbimento limitato (basso tasso penetrazione) La scelta della via di somministrazione deve tenere conto di: caratteristiche fisico-chimiche del farmaco: un farmaco molto idrofilo, poco assorbito per via enterale, deve essere somministrato per via parenterale se si desidera un effetto sistemico) un farmaco lipofilo, che attraversa bene le membrane, anche se somministrato per via topica potrà essere assorbito dando luogo ad effetti sistemici. strategia terapeutica: rapidità e durata dell’effetto (es. e.v. e via i.m.; via sublinguale per la NTG) per terapie croniche si preferisce la via meno traumatica per il paziente, mentre le vie parenterali sono preferite nei pazienti non collaborativi (es. pz comatosi, neonati, etc.) alcuni regimi terapeutici sono seguiti con maggiore accuratezza dal paziente se la via di somministrazione è più complessa. Terapia orale Si intende l’assunzione per bocca e la successiva deglutizione di un farmaco. Questa modalità di somministrazione richiede normalmente che il paziente sia cosciente, collaborante e con riflesso della deglutizione presente. La somministrazione per via orale può avere effetti gastrointestinali indesiderati come nausea, vomito, distruzione della flora intestinale (antibiotici), irritazione gastrica sino a causare ulcere. Alcuni farmaci non possono essere somministrati per OS per inattivazione (insulina e la penicillina G sodica o per metabolizzazione epatica) Vantaggi: somministrazione semplice, indolore e economica, in base alla forma farmaceutica si può modulare la velocità di assorbimento. Le compresse gastroresistenti [es. mesalazina (es. Asacol), esomeprazolo, pantoprazolo (es. Peptazol)] sono progettate per superare la barriera dello stomaco e sciogliersi nell’intestino, pertanto non devono essere spezzate, pena la riduzione della biodisponibilità o tollerabilità del farmaco. Per evitare sgradevoli sorprese, è bene non dividere nemmeno le compresse rivestite: il film esterno spesso serve per mascherare un cattivo sapore che la rottura paleserebbe al momento dell’assunzione. La regola di non dividere le compresse a rilascio prolungato non vale invece per tutte. In alcuni casi (disfagia, sondino nasogastrico ecc.), le compresse divisibili possono essere polverizzate e somministrate. Analogamente alcune capsule possono essere aperte e può essere somministrata la polvere insieme al pasto. L’assorbimento di farmaci può essere modificato ad esempio da antidepressivi triciclici, atropina, ulcera gastrica, che rallentano lo svuotamento gastrico, mentre la metoclopramide e il digiuno aumentano la motilità gastrica. Valutazione della capacità del paziente di deglutire. Può essere utile nei casi dubbi: - Provare a far deglutire - Chiedere al paziente di ripetere alcuni suoni che richiedono gli stessi movimenti muscolari della deglutizione: “mi-mi-mi- (per le labbra); “le-le-le” (per la lingua); “ga-ga-ga” (per il palato molle e la faringe). -Valutare il riflesso della deglutizione inducendo il paziente a far scivolare la lingua all’indietro lungo il palato. - Sistemare pollice e indice sulla laringe del paziente e chiedergli di deglutire: in condizioni normali la laringe si eleva. L’assorbimento del farmaco somministrato per via orale è molto variabile principalmente dipende da: 1) Proprietà fisiche e chimiche del farmaco; 2) Stato funzionale dell’apparato digerente e velocità di svuotamento gastrico 3) Variazioni del ph 4) Irrorazione ematica della superficie d’assorbimento. 5) Eventuale metabolizzazione epatica 6) Attività della flora intestinale 7)Presenza di cibo nello stomaco (migliore quando è vuoto ma più pericoloso per la possibile irritazione della parete dello stomaco). Come procedere alla somministrazione Naso Gastrica o attraverso Gastrostomia Endoscopica Percutanea (PEG): 1. Utilizzare farmaci in forma liquida. In alternativa se possibile polverizzare le compresse e scioglierle in acqua, thè succhi di frutta o latte (in 30 ml) 2. Far assumere al paziente una posizione seduta o semiseduta 3. Verificare il corretto posizionamento del SNG e se presenta ipermobilità intestinale 4. Non mescolare i farmaci alla nutrizione enterale 5. Svuotare il contenuto gastrico prima di ogni somministrazione 6. Somministrare i farmaci separatamente l’uno all’ altro irrigando con 5-10 ml d’acqua il sondino tra un farmaco e l’altro. 7. Al termine della somministrazione lavare accuratamente con acqua. VIA DI SOMMINISTRAZIONE SOTTOLINGUALE: Quando si somministra un farmaco per via sublinguale questo non viene deglutito ma viene assorbito dai vasi sanguigni sotto la lingua. Il vantaggio di questa somministrazione è che il principio attivo va direttamente in circolo senza passare dal tratto gastroenterico e senza essere metabolizzato dal fegato. Sono in genere somministrati per via sublinguale i farmaci che devono avere un effetto rapido, che si sciolgono immediatamente in bocca e che vengono assorbiti a livello sublinguale (es. farmaci per l'angina). VIA DI SOMMINISTRAZIONE RETTALE. La maggior parte del farmaco assorbito non passa attraverso il fegato. Solo la vena emorroidaria superiore si immette nel circolo portale mentre la vena emorroidaria media e la inferiore si immettono nella vena cava inferiore e poi al cuore. La via rettale offre buone possibilità alternative; tuttavia, l'assorbimento dei farmaci è spesso troppo irregolare ed incompleto per garantire una adeguata affidabilità quando la terapia esige regolarità ed accuratezza nei dosaggi. La via rettale è da preferire: - in caso di vomito; - quando non è possibile somministrare il farmaco per bocca perché il principio attivo si degrada a contatto dell’ambiente acido dello stomaco; - se la persona non è collaborante o ha problemi di deglutizione (disfagia). In genere è utilizzata molto dopo intervento gastrico e in pediatria perché si evita l’assunzione per bocca, poco gradita ai bambini. -I farmaci più spesso somministrati per via rettale oltre agli antiemorroidali (az. topica) sono gli antipiretici, gli antidolorifici e gli antiemetici. Prima di somministrare una supposta per via rettale è importante: - controllare che la supposta non sia troppo morbida, nel caso è utile porla in frigorifero per alcuni minuti o lasciarla in acqua fredda (prima di aprire la confezione); - lavarsi accuratamente le mani e indossare guanti monouso; - rimuovere l’involucro di rivestimento; - lubrificare la parte alta della supposta per facilitare l’inserimento; - inserire la supposta nel retto, affinché oltrepassi lo sfintere muscolare anale; - far rimanere fermi qualche minuto per evitare che la supposta venga espulsa; - lavarsi le mani accuratamente. Somministrare le supposte dopo l’evacuazione, per evitare che la supposta venga espulsa prima di essere assorbita. Somministrazione dei farmaci per via inalatoria: Sfrutta la possibilità di distribuire la dose nebulizzata in particelle di piccole dimensioni dal dispositivo di somministrazione e poi inalata dal paziente, direttamente a livello della superficie interna delle vie aeree, che sono il bersaglio del trattamento, su una superficie molto ampia (circa 70 m2) ma con una concentrazione molto bassa, il che riduce gli effetti tossici a livello locale. Possono essere somministrati in questa maniera farmaci per: Uso topico (es. broncodilatatori, mucolitici, cortisonici, antibiotici) Uso sistemico (es. anestetici generali). Più fattori possono influenzare la somministrazione e l’assorbimento di un farmaco per via inalatoria: abilità individuale, caratteristiche dei dispositivi di erogazione, molti farmaci sono insapori e ciò non facilita il paziente nel capire se ha assunto la dose prescritta, dimensioni delle particelle del farmaco più sono piccole, maggiore è la diffusione in profondità fino ai bronchioli e agli alveoli. Educare il paziente: illustrare e consigliare quelli più adeguati anche in base alle caratteristiche del paziente (età, ridotta manualità, deficit cognitivi). Un corretto impiego della via inalatoria prevede che: - i farmaci vengano somministrati prima dei pasti, per favorire un assorbimento migliore, dal momento che nei pazienti con problemi respiratori il pasto può rendere più faticosa l’inspirazione profonda; - il dispositivo di erogazione sia tenuto lontano dagli occhi; - i farmaci broncodilatatori vengano somministrati per primi per facilitare l’assorbimento a livello bronchiale dei farmaci successivi; - le labbra aderiscano bene intorno al connettore; - il paziente si sciacqui la bocca dopo ogni somministrazione per eliminare i residui depositati sulle mucose e l'eventuale gusto sgradevole provocato dal passaggio della soluzione. SVANTAGGI DELLA VIA INALATORIA: ● Possibili irritazioni locali ● Scarsa possibilità di regolare la dose di farmaco somministrata ● Assorbimento variabile ● Alcuni pazienti non sono in grado di usare l'inalatore SOMMINISTRAZIONE PARENTERALE: immissione del farmaco mediante cpv. o cvc (vena di grosso o piccolo calibro) in modo che il farmaco venga iniettato direttamente nel circolo sanguigno. Vengono definite vie artificiali perché necessitano di un mezzo esterno per procedere alla somministrazione (l’ago). La via parenterale è indicata per farmaci che: ➔richiedono una precisione della dose ➔necessitano di essere assorbiti rapidamente e completamente ➔se somministrati attraverso altre vie sarebbero disattivati o scarsamente assorbiti È raccomandato evitare siti che appaiono gonfi, infiammati o infettati. Preparare i farmaci preservando la STERILITA’ del farmaco, dell’ago e della siringa. Il farmaco da infondere può essere contenuto in: 1.Fiala 2. Flaconcino monodose (fialoide con farmaco in forma liquida) 3. Flaconcino-farmaco (fialoide con farmaco liofilizzato e fiala solvente) VIA INTRADERMICA: Consiste nell’iniettare un farmaco o un diagnostico subito sotto l’epidermide, facendo penetrare l’ago con una angolazione di 10- 15°. È utilizzata soprattutto per scopi diagnostici (es. test alla tubercolina) o per somministrare di anestetici locali. Caratteristiche della via Assorbimento molto lento. Effetto locale piuttosto che sistemico. Caratteristiche della tecnica: Siringa da 1cc max, lunghezza dell’ago 15mm, diametro 25-26 Gauge. La quantità massima iniettabile 0,1 ml. Caratteristiche delle sedi d’iniezione: Scegli una zona: priva di peli, non irritata o gonfia non iperpigmentata, non sottoposta a frizione; i siti adatti per la somministrazione intradermica sono la faccia interna dell’avambraccio e la scapola a cui si possono aggiungere gli e stessi consigliati per la somministrazione sottocutanea. Tecnica: - Lavarsi le mani e indossare i guanti. - Preparare la siringa con la quantità di farmaco prescritta. - Disinfettare la zona scelta. - Somministrare: infilare la punta dell’ago in modo deciso attraverso l’epidermide nel derma con un’angolazione del piano della superficie corporea di 15°, con la mano non dominante stirare la cute in modo da renderla piatta - iniettare il farmaco con cura, così da produrre una piccola bolla sulla cute - Estrarre l’ago velocemente e con la stessa angolazione e smaltire in sicurezza. - Tamponare delicatamente con l'antisettico. Smaltire il materiale, togliere i guanti e lavarsi le mani. Verificare se vi siano segni di allergia. In caso di uso della tubercolina usare un pennarello per evidenziare la zona in cui si è somministrato il farmaco per valutazioni future di risposte allergiche. VIA INTRAMUSCOLO: È la via parenterale più frequente consente un rapido assorbimento dei farmaci in soluzione acquosa; se i farmaci sono in soluzione oleosa o in particolari forme deposito vi saranno assorbimenti lenti ed uniformi. In letteratura sono descritte diverse tecniche di cui è necessario approfondire la conoscenza, al fine di decidere con piena cognizione come attuare tale manovra. L'evidenza scientifica dimostra come la conoscenza e l'uso della sede appropriata riduce le probabilità di danni associabili iniezioni intramuscolari. L’assorbimento dipende da: ◦ sito dell’iniezione; la velocità di assorbimento è maggiore nel deltoide rispetto al gluteo, irrorazione del muscolo (es. > con l’attività fisica e massaggio) ◦ CR, volume e osmolarità del farmaco presenza di tessuto adiposo (assorbimento più lento) Le molecole piccole passano direttamente nel sangue, mentre grosse proteine passano prima dal circolo linfatico. ◦ Farmaci in soluzione acquosa: assorbimento in 10-30 min ◦ Farmaci insolubili al pH interstiziale o sospesi in soluzione oleosa: assorbimento lento (preparazioni ritardo, es. il sale di procaina della penicillina G è assorbito in 24 h, mentre il sale sodico in 2-3 h). ◦ Svantaggi Ansia, Paura Infezione, Emorragia, Dolore, Effetti collaterali rapidi (es reazioni allergiche) ◦ Danno tessutale (nervoso osseo). Raccomandazioni: 1. Controllare la prescrizione del farmaco, la scadenza, il dosaggio e la via di somministrazione. 2. Usare un ago con filtro o un ago di calibro 21 o minore per aspirare il farmaco. 3. Cambiare l’ago dopo la preparazione. 4. Per somministrare l’IM, usare un ago di lunghezza appropriata per assicurare che il farmaco si depositi all’interno del muscolo. 5. Non adottare la tecnica della bolla d’aria per inoculare tutto il farmaco 6. Usare la sede ventrogluteale come sede di scelta, salvo controindicazioni. 7. Aiutare il paziente ad assumere la posizione idonea per facilitare l’iniezione nella sede scelta. 8. Detergere la parte con soluzione alcolica prima dell’iniezione. 9. Usare la tecnica del tratto zeta per eseguire tutte le iniezioni. 10. Inserire velocemente l’ago nella cute a 90 gradi lasciando un terzo dell’ago esposto. 11. Aspirare se necessario. Se è presente sangue rinunciare e ripetere tutta la procedura. 12. Iniettare senza superare la velocità 1 ml ogni 10 secondi. 13. Estrarre rapidamente, premere se vi è perdita di sangue. 14. Non massaggiare la zona. 15. Riporre i taglienti in modo sicuro e documentare la procedura. 16. Osservare la zona 2-4 ore dopo l’iniezione per identificare e monitorare ogni effetto locale. Tecnica di iniezione: una volta scelta la sede idonea ed aver informato il paziente si procede alla disinfezione della zona cutanea, tendere la cute con la mano non dominante ed introdurre l’ago con una angolazione di 90°, iniettare il liquido quindi ritrarre l’ago detenendo la cute e tamponare col batuffolo imbevuto di disinfettante, mai massaggiare! (può determinare la risalita del farmaco verso il tessuto sottocutaneo). Non si usa sempre la manovra di Lesser ma solo in alcuni casi (aspirare per accertarsi di non essere in vena). L’iniezione IM deve essere praticata nelle sedi di elezione: deltoidea, Vasto laterale o ventrogluteale. La sede dorsogluteale non è raccomandata, salvo specifica indicazione per la tipologia di farmaco. Non è raccomandato aspirare prima di eseguire l’iniezione IM in sede deltoidea o vastolaterale o ventrogluteale, salvo specifica indicazione per la tipologia di farmaco (vedi formulazioni “depot”, antibiotici come la penicillina) Se la sede scelta è la dorsogluteale, è indicato aspirare per 5-10’’ prima di praticare l’iniezione intramuscolare Qualora la si ritenga opportuna, la manovra di aspirazione deve essere eseguita in modo corretto, aspirando per un tempo non inferiore a 5-10”, iniettando il farmaco lentamente, per 5-10” ed estraendo dolcemente l’ago, senza sfregamento della cute La terapia vaccinale IM nei neonati e nei bambini più piccoli deve essere praticata in sede ventrogluteale senza aspirare, per ridurre il dolore e lo stress correlato alla manovra (Livello di evidenza A) Al fine di rendere la manovra meno dolorosa, negli adulti, la terapia vaccina le IM deve essere eseguita senza aspirare e in sede deltoidea. Per le iniezioni sottocutanee di vaccini, di eparina e di insulina la manovra di aspirazione deve essere evitata. TECNICHE DI INIEZIONE INTRAMUSCOLARE • Volume del liquido iniettato – Le iniezioni in un grande gruppo muscolare non dovrebbero eccedere i 5 ml negli adulti. In sede ventrogluteare possono essere iniettati da 2 a 5 ml, in sede dorsogluteale 4 ml, in sede vastofemorale e rettofemorale 5 ml. Nei bambini, nei giovani, nelle persone con scarso sviluppo o atrofia muscolare da allettamento, la quantità massima somministrabile è proporzionalmente inferiore. • Velocità di somministrazione – Per ridurre il dolore durante l’iniezione del, farmaco occorre adottare un tempo minimo di 5 secondi. In particolare, la somministrazione non deve essere più veloce di 1 ml per 10 secondi. Ciò è utile per facilitare l’assorbimento e minimizzare il dolore. METODI DI INIEZIONE Tecnica del tratto Z Utilizzare la mano non dominante per tirare la cute e il tessuto sottocutaneo circa 3-4 cm da un lato rispetto la sede dell’iniezione, eseguire l’iniezione introducendo l’ago a 90° con un rapido movimento tipo dardo e conclusa l’introduzione del liquido, rimuovere l’ago e rilasciare il tessuto scostato con la mano non dominante. In questo modo si crea un percorso non lineare che impedisce al liquido di risalire verso il tessuto sottocutaneo. La tecnica del tratto Z può essere utilizzata in qualsiasi gruppo muscolare appropriato che sia dotato di un tessuto soprastante disolocabile di almeno 2,5 cm. Lunghezza dell’ago: variabile, circa 3,8 cm Diametro ago: il piu’ piccolo possibile, 21-23 G i più usati Volume massimo per sede d’iniezione: 5 ml (deltoide 1 ml) La misura della siringa da usare deve essere definita selezionando quella più piccola possibile per accogliere il volume richiesto. Per volumi minori di 0,5 ml devono essere usate siringhe molto piccole per assicurare l’esattezza di Contenitore per aghi SEDI DI INIEZIONE: -Sede rettofemorale - è localizzata a metà tra la rotula e la cresta iliaca superiore, sulla zona medio anteriore della coscia. L'assorbimento del farmaco in questa regione è più lento rispetto al braccio, ma più rapido che nella natica. Può essere utilizzata quando le altre sono controindicate o quando il paziente si somministra da solo il farmaco. In questa sede, l’iniezione praticata provoca considerevole dolore. - Sede vastolaterale - è rappresentata dal terzo medio della coscia, compreso tra il grande trocantere del femore e il condilo femorale laterale del ginocchio. È di facile accesso e non sono presenti grossi vasi sanguigni o strutture nervose. -Muscolo deltoide - Le iniezioni intramuscolari nel medio muscolo deltoide, come le altre iniezioni IM, devono essere effettuate nella parte più compatta del muscolo. A causa delle piccole dimensioni di questa sede, il volume e il numero delle iniezioni che possono esservi somministrate devono essere limitati. - Sede dorsogluteale - È la sede più utilizzata, ma la presenza di grossi nervi e vasi sanguigni, la relativa lentezza di assorbimento rispetto alle altre sedi e il duro strato di tessuto adiposo comunemente presente, rende questa sede quella maggiormente connessa alle complicanze. Essa non può essere utilizzata se il paziente è in piedi, ma solo se è prono o in decubito laterale, con il femore intraruotato, per minimizzare il dolore nel punto di iniezione, permesso dal rilassamento del gruppo muscolare. La sede dorsogluteale non è raccomandata, salvo specifica indicazione per la tipologia di farmaco -Sede ventrogluteale - Questa sede è facilmente accessibile per la maggior parte dei pazienti ed è localizzabile posando il polso della mano opposta (ad esempio mano destra per il fianco sinistro) sul grande trocantere del paziente. La sede di iniezione è rappresentata dall’area triangolare delimitata tra l’indice, posto sulla spina iliaca anterosuperiore e il dito medio, divaricato verso la cresta iliaca ma al di sotto di essa. Questa sede assicura il massimo spessore del muscolo gluteale (costituito sia del gluteo medio che del gluteo minore), è libera da nervi penetranti e da vasi sanguigni e ha un più stretto spessore di grasso che non nella zona dorsogluteale. La ventrogluteale è considerata la sede di prima scelta. Il muscolo interessato è il medio gluteo. Per localizzare la sede d’iniezione far assumere al paziente la posizione laterale o supina, e far flettere il ginocchio per aiutare a rilassare il muscolo interessato. Posizionare il polso della mano controlaterale (es.mano sinistra su gamba destra) mettendo il palmo della mano sopra il grande trocantere dell’anca del paziente perpendicolarmente al femore. Puntare il pollice verso l’inguine del paziente e le dita verso la testa del paziente, puntando l’indice verso la spina iliaca antero-superiore ed estendendo il medio e l’anulare lungo la cresta iliaca. Si ottiene così un triangolo formato dall’indice, dal medio e dalla cresta iliaca. Il centro di tale triangolo è la sede d’iniezione. VIA SOTTOCUTANEA (ipodermica) Indicazioni: terapia insulinica e ormonale, terapia anticoagulante Capacità siringa 1-2 ml e ago da 25/33G. L’angolazione dell’ago dipende dalla sua lunghezza ESEMPIO INSULINA Siringhe Penne siringa Microinfusori ● Le confezioni non iniziate conservate max: 2 anni in frigorifero a 2-8°C. ● Non iniettare l’insulina appena estratta dal frigo. ● Le confezioni in uso: durano circa 28 giorni a temp. ambiente (leggere bugiardino), evitando di esporli a fonti di calore, fonti dirette di luce ed a sbalzi di temperatura in genere. Se insulina rapida accertarsi che il paziente effettui il pasto e controllarlo...... i …....lavarsi le mani ➢accertarsi che il prodotto non sia scaduto e il tappo sia in perfette condizioni ➢ruotare tra i palmi delle mani il flacone per rimettere l ’insulina in sospensione (se lattescente) ➢Rimuovere i cappucci dalla siringa. ➢Tirare indietro il pistone in corrispondenza della dose desiderata per iniettare nel flacone una quantità d’aria uguale alla dose di insulina da prelevare ➢Capovolgi il flacone con la siringa inserita tira il pistone aspirando la dose di insulina richiesta aspirare qualche unità in più per facilitare l’eliminazione di bolle d’aria eventualmente presenti. TECNICA: disinfettare la sede di iniezione e lasciare asciugare ➢si può afferrare la cute formando una plica d’adipe di circa 2,5 cm ➢posizionare la siringa fra le dita come fosse una matita e l’ago con la parte smussa verso l’alto ➢inserire l’ago con movimento rapido e rilasciare l'eventuale plica la plica ➢sfilare l’ago con lo stesso angolo e disinfettare ➢Smaltire correttamente il materiale e registrare la procedura. L’ iniezione va effettuata nel tessuto sottocutaneo. L’iniezione sottocutanea garantisce una diffusione lenta ma costante dell farmaco. Una pizzicatura corretta si effettua utilizzando solo il pollice e l’indice/medio, sollevando il derma ed il tessuto sottocutaneo ed escludendo il muscolo. LE SEDI: più appropriate sono: l’addome: iniettare ad un palmo di mano dall’ombelico; iniezioni più laterali potrebbero andare nel muscolo Braccia: iniettare nella parte alta o posteriore del bracio dove il tessuto è più spesso glutei: iniettare nella parte alta ed esterna, dove il tessuto subcutaneo è abbondante anche nei bambini e nelgi adulti magri cosce: iniettare nella parte alta e laterale dove il tessuto subcutaneo è più spesso RUOTARE SEMPRE PER RISCHIO LIPODISTROFIE: Formazioni nodulari di tessuto adiposo che al tatto appaiono di consistenza e dimensione diversapossono formarsi in qualsiasi sito di iniezione. ESECUZIONE DELL’ECG DEFINIZIONE: L’elettrocardiogramma (ECG) è la registrazione e la riproduzione grafica dell’attività elettrica del cuore nelle varie fasi dell’attività cardiaca. È uno strumento diagnostico fondamentale e insostituibile che viene utilizzato per monitorare l’attività elettrica del cuore ed eventuali anomalie che sono campanello dall’allarme per patologie (dalle meno gravi alle più pericolose). L’ECG standard si compone di 12 derivazioni che registrano e forniscono l’immagine dell’attività elettrica del cuore da 12 punti di vista diversi. Le derivazioni sono: -6 DERIVAZIONI PRECORDIALI (ossia le toraciche); Per effettuare le registrazioni precordiali vengono utilizzati degli elettrodi toracici. Analogamente alle derivazioni unipolari degli arti, ogni elettrodo toracico rappresenta il polo positivo. Sono nominate V1, V2, V3, V4, V5, V6 e visualizzano l’attività elettrica del cuore sul piano frontale e orizzontale. È’ necessario, per la corretta lettura, il corretto posizionamento: VI: quarto spazio intercostale sulla parasternale di destra V2: quarto spazio intercostale sulla parasternale sinistra V4: quinto spazio intercostale sulla emiclaveare sinistra V3: Tra V2 e V4 V5: quinto spazio intercostale sull’ascellare anteriore sinistra V6: quinto spazio intercostale sull’ascellare anteriore media 6 DERIVAZIONI PERIFERICHE (degli arti) di cui 3 unipolari (esplorano il piano frontale lungo le bisettrici dell’angolo di Einthoveen 1. AVR: braccio destro, 2. AVL: braccio sinistro 3. AVF: gamba sinistra; 4. infine, l’elettrodo sulla gamba destro è neutro e coincide con la “messa a terra” e 3 bipolari (necessitano di 2 elettrodi per la registrazione di cui: 1 positivo e 1 negativo: D1, D2, D3 1. D1: posizionato tra braccio destro e braccio sinistro; 2. D2: tra braccio destro e gamba sinistra; 3. D3 tra braccio sinistro e gamba sinistra; 4. SI FORMA IL COSIDDETTO TRIANGOLO DI ENTHOVEEN). Le derivazioni standard periferiche vengono registrate tramite questi elettrodi che vengono posizionati alle estremità distali degli arti (caviglie e polsi). Vengono posti in questo modo: -ROSSO-BRACCIO DESTRO -NERO: GAMBA DESTRA (NEUTRO-MESSA A TERRA) -GIALLO: BRACCIO SINISTRO -VERDE: GAMBA SINISTRA INDICAZIONI ALL’USO: LA TARATURA Le registrazioni elettrocardiografiche vengono eseguite su un’apposita carta millimetrata. Ogni quadratino piccolo misura 1mm x 1mm.Ogni quadrato grande corrisponde a 5 mm. In senso verticale è rappresentato il voltaggio e ogni quadratino piccolo corrisponde a 0.1 mV (ogni 10 quadratini sono 1mV); In senso orizzontale è rappresentato il tempo e ogni quadratino corrisponde a 0,04 secondi per una velocità di scorrimento di carta pari a 25mm/sec. Ogni quadrato grande invece, corrisponde a 0,20 secondi. CICLO CARDIACO: Ogni ciclo cardiaco è costituito da: -ONDA P: corrisponde alla depolarizzazione atriale (contrazione degli atri) -complesso QRS: depolarizzazione ventricolare -Onda T: ripolarizzazione ventricolare (“riposo”) Il ritmo cardiaco fisiologico è di tipo SINUSALE; un’alterazione di quest’ultimo induce la possibilità di presentare anomalie cardiache a partire da “piccole aritmie” fino a patologie a prognosi infausta. ONDA P: l’impulso elettrico nasce dal nodo seno-atriale e si propaga ad entrambi gli atri, inducendo la contrazione atriale. L’INTERVALLO PQ (O PR): Rappresenta il tempo di consuzione atrio ventricolare, cioè il passaggio dello stimolo dagli atri ai ventricoli. COMPLESSO QRS: l’impulso arriva al nodo atri-ventricolare, passa al fascio di HIS, alle branche destra e sinistra e quindi alle fibre di Purkinje.Il sistema nasconde l’onda di ripolarizzazione atriale (il “riposo” degli atri). Q: prima deflessione negativa (visualizzando la linea isoelettrica del tracciato tutto ciò che si trova inferiormente alla linea è negativo, ciò che si trova superiormente è positivo). R: prima deflessione positiva S: deflessione positiva che segue l’onda R SEGMENTO ST: è un segmento normalmente isoelettrico. Fisiologicamente non deve slivellare al di sopra o al di sotto della linea isoelettrica per più di 1 mm. INTERVALLO QT: tempo di depolarizzazione (QRS) e ripolarizzazione ventricolare (ONDA T). La sua durata è inversamente proporzionale alla frequenza cardiaca: tanto più è elevata la frequenza, tanto minore sarà l’intervallo QT. ONDA T: ripolarizzazione ventricolare; fisiologicamente appare a forma arrotondata e asimmetrica. Alterazioni dell’onda T (ad esempio onda T negativa) deve far sospettare qualche anomalia o disturbi della conduzione ex: blocco di branca sinistra nei portatori di pacemaker). FREQUENZA CARDIACA: All’ecg si valuta la frequenza ossia il numero di battiti cardiaci che si registrano in 1 minuto. Fisiologicamente è compresa tra i 60 e gli 80 bpm. Oltre i 100 si parla di TACHICARDIA, al di sotto dei 60 si parla di BRADICARDIA.All’ecg la frequenza di valuta con il metodo (semplice e accurato solo per ritmi regolari) RR Se il sistema QRS successivo cade sulla prima linea scura (cioè, dopo 5 quadratini) la frequenza sarà di 300bpm; -se cade sulla seconda: 150bpm; -sulla terza: 100 bpm; -sulla quarta: 75 bpm RITMO: il passo successivo dopo la frequenza è la registrazione della regolarità del ritmo -l’attività elettrica è ritmica quando l’intervallo tra 2 onde R si mantiene costante (REGISTRAZIONE DELLA BRADICARDIA SINUSALE O TACHICARDIA SINUSALE). Se lo spazio tra le due onde R è ampio= bradicardia; viceversa, se le due onde R sono ravvicinate allora si parla di tachicardia. ESECUZIONE DELL’ECG: compito infermieristico L’Infermiere è preparato per eseguire correttamente la procedura ed è in grado di capire immediatamente se vi è qualche anomalia, segnalando il tutto prontamente al medico. Procedura standard per eseguire un ECG L’infermiere, nella fase di preparazione all’indagine: effettua l’igiene delle mani e garantisce la privacy del paziente; procede all’identificazione del paziente e alla registrazione dei dati riguardanti il nome, cognome, sesso e data di nascita dello stesso; accerta la presenza di disordini cardiaci anche precedenti e identifica l’eventuale regime terapeutico in corso; accerta l’eventuale presenza di dispositivi elettronici che potrebbero determinare alterazioni del tracciato (ad esempio pacemaker); accerta l’eventuale presenza di allergie del paziente (è possibile che sia allergico alle sostanze contenute nel gel di conduzione); spiega al paziente con parole adatte al suo livello di comprensione le fasi e l’utilità della manovra che si sta per eseguire affinché egli comprenda pienamente ciò che verrà effettuato e aumenti la sua collaborazione; rileva i parametri vitali relativi a pressione arteriosa, frequenza cardiaca e caratteristiche del polso; invita il paziente a scoprirsi torace, caviglie e polsi e ad assumere la posizione supina a letto, ove possibile; suggerisce all’assistito di rilassarsi e di astenersi dal parlare per qualche minuto; controlla lo stato della cute del paziente, l’eventuale necessità di una tricotomia, e che egli non indossi oggetti metallici che potrebbero creare alterazioni del tracciato; accerta la corretta predisposizione al funzionamento dell’elettrocardiografo: batteria carica, corretto assemblaggio dei cavi, presenza di carta millimetrata, data di scadenza di elettrodi e gel di conduzione. PREPARAZIONE DEL MATERIALE OCCORRENTE: 1 elettrocardiografo; cotone imbevuto d’acqua (consigliato) o Gel; garze non sterili; rasoi monouso nel caso di tricotomia; carta millimetrata per Ecg. L’infermiere, nella fase di esecuzione dell'ECG (nella persona adulta): La fase successiva consiste nel far assumere al paziente una posizione rilassata, distesa con torace, polsi e caviglie scoperte rimuovendo scarpe, calze (collant), orologi, bracciali, reggiseno, maglia intima e peli attraverso rasoi monouso per facilitare l’esecuzione.Subito dopo, bisogna controllare che l’elettrocardiografo sia funzionante e verificare la presenza di tutto il materiale occorrente.Infine, occorre posizionare le derivazioni degli arti e torace cercando di evitare che il paziente abbia contrazioni muscolari involontarie che potrebbero generare degli artefatti. posiziona le derivazioni precordiali: V1 nel quarto spazio intercostale parasternale di destra; V2 nel quarto spazio intercostale parasternale di sinistra; V4 nel quinto spazio intercostale nell’emiclaveare di sinistra; V3 nello spazio fra V2 e V4; V5 nel quinto spazio intercostale nell’ascellare anteriore di sinistra; V6 nel quinto spazio intercostale nell’ascellare media di sinistra. (Nel caso di destrocardia le precordiali si posizionano in modo speculare a destra). Posizionamento classico delle derivazioni precordiali) posiziona le derivazioni periferiche: ROSSO braccio di destra (lineare) GIALLO braccio di sinistra (lineare) NERO gamba di destra (lineare) VERDE gamba di sinistra (lineare) L’infermiere, nella fase di esecuzione della procedura (nel paziente affetto da infarto miocardico acuto): esegue prima un elettrocardiogramma di base, poi lasciando invariate le posizioni degli elettrodi periferici scollega V4 V5 e V6. Le posiziona poi a destra: V1 speculare a V3 (sul tracciato scriverà V3R) V2 speculare a V4 (sul tracciato scriverà V4R) V3 speculare a V5 (sul tracciato scriverà V5R) L’infermiere, nella fase di esecuzione dell’ECG nel bambino fino ad un anno: posiziona le derivazioni precordiali: V1 nel quarto spazio intercostale parasternale di destra; V2 nel quarto spazio intercostale parasternale di sinistra; V3 tra V2 e V4; V4 nel quinto spazio intercostale nell’emiclaveare di sinistra; V5 nel quinto spazio intercostale nell’ascellare media di sinistra; V6 speculare a V3 posizionata a destra (il cuore è ancora in posizione centrale) N.B.: Specificare sull’ECG: al posto di V6, V3R. Non vi è assoluta importanza se gli elettrodi nelle posizioni precordiali non sono millimetricamente in posizione. Invece è consigliabile rispettare la stessa collocazione degli elettrodi ad ogni esecuzione in pazienti con infarti o angina instabile che devono eseguire registrazioni ripetute. È invece, assolutamente necessario non commettere errori nelle periferiche in quanto ciò modificherebbe la valutazione dell’asse cardiaco; di conseguenza, potrebbero essere mal interpretate dall’operatore medico. L’infermiere, nella fase di esecuzione dell’indagine (operazioni valide per tutti i casi): La sequenza delle operazioni da questo punto in poi è legata alle diverse caratteristiche dell’apparecchiatura usata. In linea di massima comunque può essere così schematizzata: Accensione; inserimento dati pazienti (nome, cognome e possibilmente, data di nascita e codice fiscale); attesa di pochi secondi per stabilizzazione traccia e verifica dei collegamenti; premere il pulsante START; in questo modo si utilizzano le opzioni di stampa già preimpostate; Dopo l’esame si consiglia di sistemare i fili degli elettrodi e se è possibile, disinfettarli. Talora può risultare necessario o comodo modificare alcune opzioni riguardanti: Formato di stampa Modalità AUTO/MANUALE Velocità scorrimento carta (standard 25 mm/sec) Segnale di calibrazione (standard 10 mm=1 mV) Eventuale inserimento di filtri per avere un tracciato di qualità migliore verifica la qualità del tracciato, suggerisce al paziente di rilassarsi e chiudere gli occhi; registra il tracciato su carta millimetrata; La registrazione in AUTO consente di stampare tutte e 12 le derivazioni e anche la successiva stampa di una copia. Invece, la registrazione in MANUALE può essere scelta se si vogliono eseguire registrazioni prolungate (in caso EXITUS o aritmie particolari), registrazioni parziali di piccoli gruppi di derivazioni (in AUTO non partono se tutti gli elettrodi non sono collegati oppure se si vogliono aggiungere le precordiali destre o posteriori). Si consiglia prima di staccare gli elettrodi o, se c’è un monitor prima di stampare le seguenti raccomandazioni: Presenza (ed esattezza) di data e nome. Verifica del segnale di calibrazione e della velocità. Qualità del tracciato. Presenza di tutte le derivazioni. Stabilità della linea isoelettrica. Assenza di artefatti da tremori e corrente alternata. Ricercare indizi che possano far pensare ad un’errata collocazione degli elettrodi (es. verifica che l’onda P sia positiva in D1 e aVL). L’infermiere, nella fase successiva all’esecuzione dell’indagine: scollega gli elettrodi, elimina residui di gel conducente e aiuta l’assistito a rivestirsi; effettua l’igiene delle mani; smaltisce i rifiuti, ripristina il materiale utilizzato e collega l’elettrocardiografo alla rete elettrica; trasmette la copia dell’ECG al medico e la allega alla cartella clinica del paziente procedendo alla compilazione della documentazione. Oltre all’osservazione e alle conoscenze teoriche dell’osservazione dell’ECG è utile che l’infermiere possa riconoscere anche degli anomali del ritmo che possono comportare gravi patologie, tra cui: -fibrillazione atriale: tachicardia sopraventricolare caratterizzata da un’attivazione atriale incoordinata con conseguente deterioramento della funzione meccanica atriale. Si può osservare all’ECG con la mancanza dell’onda P.I pazienti con FA hanno: mortalità doppia rispetto a quelli che presentano ritmo sinusale, incremento rischio stroke, peggioramento della qualità di vita. -tachicardia parossistica sopraventricolare: una condizione caratterizzata da una frequenza cardiaca regolare e veloce (160-220 battiti al minuto) che inizia e si arresta improvvisamente e che origina nel cuore ma non nei ventricoli. All’ecg si evidenziano solo QRS con frequenza maggiore di 150 bpm a volte fino a 250 bpm; -Ischemia miocardica: si verifica quando il flusso coronarico non è più adeguato a soddisfare le esigenze miocardiche di 02.È dovuta a un aumento della richiesta di 02 da parte del cuore. All’ecg si vedrà: sottoslivellamento del tratto ST; inversione dell’onda T -Infarto del miocardio: All’ecg: sopraslivellamento del tratto ST. (la persistenza di questa condizione induce la presenza di un aneurisma). DOMANDA 28: LESIONI DA PRESSIONE DEFINIZIONE: Le lesioni da pressione, anche chiamate piaghe da decubito, sono lesioni localizzate alla cute/sottocute ad evoluzione necrotica. Il tessuto è compresso tra due superfici rigide: la superficie d’appoggio (per esempio del letto) e l’osso sottostante. CAUSE: Sono causate dalla parziale o totale interruzione della circolazione sanguigna nel tessuto cutaneo, con conseguente ischemia localizzata. Le cause possono essere: -esterne: La Pressione, l’attrito e la forza elastica trasversale -interne: stato nutrizionale e incontinenza FATTORI DI RISCHIO: generali: ipomobilità Locali: umidità, scivolamento, frizione SOGGETTI: i soggetti maggiormente affetti sono i pazienti anziani, gli immunodepressi, pazienti oncologici, allettati ecc. STADIAZIONE: stadio 1) eritema alla pelle che non è reversibile alla digito pressione stadio 2) ferita a spessore parziale che coinvolge l’epidermide e il derma. L’ulcera è superficiale e si presenta come abrasione. Stadio 3) ferita a tutto spessore che implica danno o necrosi del tessuto sottocutaneo e potrebbe interessare anche la fascia sottostante. Stadio 4) ferita a tutto spessore con estesa distribuzione dei tessuti, necrosi o danni ai muscoli, ossa e strutture di supporto. SINTOMI: malessere, febbre, tachicardia, dolore, rossore, bruciore, gonfiore; SEDI: Negli adulti i siti più comuni sono il sacro e il tallone; nei bambini e neonati l’area maggiormente esposta è rappresentata dalla cute che ricopre l’osso occipitale. Altre sedi predisposte al rischio di insorgenza di LDP sono: ischio; caviglia; gomito; anca. Una menzione a parte meritano i dispositivi medici (sondini naso-gastrici, tubi per tracheostomia, stecche per immobilizzazione, ecc.), che possono causare lesioni da pressione sui tessuti molli, irritazione o danneggiamento della cute. LA GESTIONE DELLE PIAGHE L’infermiere esegue la valutazione della lesione, pianifica il trattamento locale sulla base della valutazione complessiva dell’individuo e degli obiettivi di trattamento. Prima di procedere alla valutazione della ferita, evidenziare eventuali fattori che possono ostacolare il processo di guarigione: -malnutrizione: una persona malnutrita presenta spesso un’insufficiente quantità di proteine, vitamine e di altri elementi nutritivi necessari a favorire la guarigione della ferita e a difendersi dalle infezioni. -famaci: alcuni farmaci possono ritardare il processo di guarigione. Ad esempio, i corticosteroidi possono sopprimere il processo infiammatorio; ed inoltre l’uso prolungato di antibiotici possono aumentare la moltiplicazione batterica. -fumo: causa vasocostrizione periferica -patologie concomitanti: ex pazienti affetti da tumori o da diabete mellito hanno maggior rischio di contrarre infezioni -immobilità: i pazienti che non possono cambiare posizione non riescono ad alleviare la pressione che esercitano sulla superficie d’appoggio. In aggiunta i pazienti potrebbero andare incontro a incontinenza urinaria o fecale. GESTIONE DELLA CUTE (DETERSIONE), IDRATAZIONE, MOBILIZZAZIONE, NUTRIZIONE E SUPERFICI ANTIDECUBITO sono i principi da seguire per una corretta prevenzione dell’insorgenza di piaghe. LA VALUTAZIONE DELL'INFEZIONE La lesione da decubito non deve essere considerata come una ferita infetta, perché questo ci porterebbe a considerare gli antibiotici ed i disinfettanti, prodotti primari per il suo trattamento ma come una lesione che può infettarsi. La contaminazione batterica deve essere evitata. Quindi la prima valutazione da effettuare è quella del controllo: -dell’aspetto: ispezionare i bordi, se sono presenti corpi estranei; verificare se ci sono secrezioni: secrezione giallastra, color miele, indice di contaminazione da batteri gram+; secrezione verdastra e maleodorante indice di infezione da pseudomonas; ipertermia sì sospetterà l'infezione della lesione, che dovrà essere confermata attraverso un esame colturale che non deve essere effettuato sulle secrezioni presenti sulla lesione.Poi si analizza la localizzazione,il colore,la consistenza,l’odore,il grado di saturazione,verificare i tipi di drenaggi presenti sui tipi differenti di medicazioni.Valutare le dimensioni :perimetro (rimarcare i margini della lesione),lunghezza,larghezza e circonferenza utilizzando uno strumento monouso.Valutare la profondità utlizzando un tampone sterile.Per ultimo,e non meno importante è la valutazione del dolore:il dolore può essere severo,lieve ,moderato. SCALE DI VALUTAZIONI UTILI: sono la SCALA DI BRADEN e di NORTON, NORTON PLUS E KNOLL. COMPLICANZE DELLE ULCERE: -L’INFEZIONE; -ASCESSI STACCATI: sono dovuti alla proliferazione batterica nei tessuti profondi che generano colliquazione (fluidificazione di parti solide in seguito a processi degenerativi), con raccolta di materiale purolento. PREVENZIONE: tutti quegli interventi infermieristici dedicati a ridurre i fattori di insorgenza (rischio) -ridurre la pressione a livello delle superfici d’appoggio con il movimento: i pazienti a basso rischio mobilitazione devono cambiare posizione ogni 2h; pazienti ad alto rischio: ogni 30 minuti i pazienti vanno sempre sollevati e ruotati, MAI trascinati. -prevenire le forze di stiramento evitare posizioni proclive e semisedute; -prevenire l’attrito apporre un accurato rifacimento dei letti e telini; utlizzare presidi antidecubito: letti con materassi ad aria, ad acqua, a “bassa memoria” (capacità di non adattamento alla superficie di appoggio); -prevenire la macerazione: non utilizzare pomate a base alcolica ma sempre emollienti; -migliorare le condizioni generali del paziente: correzione dei fattori ematici e dell’equilibrio idro elettrolitico. OBIETTIVI DEL TRATTAMENTO: (debridment chirurgico, meccanico, enzimatico e autolitico) -eliminazione della compressione locale: ripristino della circolazione cutanea e ricircolazione -rimozione del tessuto necrotico: rimozione dell’escara necrotica che ripristina lo stato di sepsi che si era creato a seguito della distruzione del tessuto. Utilizzo della TOILETTA CHIRURGICA: asportazione graduale del tessuto -disinfezione dell’ulcera: non si effettua la sterilizzazione ma disinfezione per ridurre la carica batterica e la ritardata cicatrizzazione; Solitamente viene utilizzata l’irrigazione a bassa pressione con la soluzione fisiologica. I disinfettanti da utilizzare sono: derivati del cloro, clorexidina, spray a base di argento catadinico, iodio povidone e zucchero in pasta. -stimolazione del processo cicatriziale; PROCEDURA: La procedura ottimale è quello di sviluppare la coltura su prelievo bioptico. Questo tipo di procedura non è sempre disponibile soprattutto se il paziente è trattato presso il suo domicilio. Risulta attendibile un esame colturale con la seguente procedura: 1. pulire la lesione; 2. infiltrare soluzione fisiologica nei tessuti perilesionali; 3. applicare il tampone sul liquido che fuoriesce dai tessuti. Le lesioni da decubito vengono contaminate più frequentemente da: Pseudomonas Aeuriginosa, Stafiloccocco Aureus Proteus Mirabilis. Nei pazienti con ipertermia serotina e condizioni generali scadenti, vi è la necessità di ricorrere all'uso di antibiotici per via parenterale. L’operatore può trovarsi generalmente, in due situazioni: la prima è che il paziente che presenta la lesione da decubito infetta, giunge per la prima volta alla sua osservazione. La seconda che l'infezione complica la lesione nel corso del trattamento. Nel primo caso bisogna immediatamente valutare se l'infezione è sostenuta da una cattiva pulizia della lesione. In questo caso bisogna provvedere al suo debridiment. Questo non deve essere effettuato mediante detersione autolitica in quanto gli idrogeli sono controindicati in presenza di abbondante essudato ed inoltre la necessaria copertura con placche (idrocolloidi, poliuretani) aumenterebbe la carica batterica presente sulla lesione. La detersione và effettuata mediante debridment chirurgico, questo consente un'immediata pulizia della lesione. Immediatamente dopo questo trattamento, si effettua un esame colturale , con le modalità sopra descritte. Sulla scorta del risultato dell'antibiogramma si effettua antibioticoterapia per via parenterale. A questa è possibile associare una terapia topica, avendo cura di utilizzare solo antibiotici con una chiara e precisa indicazione a tale uso, evitando di adattare a tale scopo antibiotici che hanno un esclusivo utilizzo per via parenterale. Nel secondo caso (contaminazione batterica in corso di trattamento) bisogna valutare se vi è un peggioramento delle condizioni generali dei pazienti che rendono la lesione più aggredibile dai batteri o una modifica del suo stato. Nel caso in cui la piaga è trattata con medicazioni avanzate (idrocolloide in pasta, placca, idrofibra, alginati) queste devono essere immediatamente sospese per evitare che l’occlusione della piaga determini un aumento della contaminazione batterica. Procedura: fase “sporca” Preparare materiale occorrente e raggiungere il paziente. Spiegare la procedura al paziente e garantire la privacy (chiudere la porta, allontanare i visitatori, ecc..). Per quanto possibile: posizionare il paziente, assicurandone comunque il comfort, in modo da raggiungere agevolmente la medicazione (ad. esempio in caso di ulcera sacrale, posizionate in decubito laterale). Esponete all’ambiente esclusivamente l’area da medicare. Consigliato: posizionate un telino monouso appena sotto la medicazione. Posizionare il materiale e il sacco dei rifiuti sanitari in modo da avere tutto accessibile. Lavarsi le mani. Indossare i guanti. Rimuovere la vecchia medicazione, se si dimostra asciutta e comporta dolori al pz, si possono inumidire i bordi del cerotto con fisiologica o con clorexidina (la base alcoolica scoglie il collante). Valutate i residui riscontrati sulle garze delle medicazioni: se notate delle striature o macchie verdi alternate a gialle, insieme a drenaggi maleodoranti, valutate se vi sono ulteriori segni di infezioni. Notate le possibili allergie del paziente al cerotto sul tessuto perilesionale. Memorizzate bene queste informazioni perché le riporterete tutto nella documentazione. Irrigate l’ulcera con soluzione fisiologica, le siringhe vi saranno utili per creare sufficiente pressione di getto e allontanare i residui grossolani. Attenzione agli schizzi di ritorno, usate DPI idonei (occhiali, visiera, grembiule, ecc…). Se prescritto eseguite un tampone della ferita, creando una certa pressione altrimenti svilupperete in laboratorio soltanto le eventuali popolazioni batteriche superficiali e non quelle presenti sull fondo del letto dell’ulcera. Smaltire nei rifiuti sanitari, insieme ai guanti usati. Infine, lavarsi le mani. Valutazione: Valutate la localizzazione, stimate la dimensione, Osservate il possibile drenaggio: abbondante, medio, o secco? Individuare processi di infiammazione, infezione, macerazione, escara/necrosi o di guarigione (tessuto di granulazione: su un tessuto rosso vivo apparentemente sano si possono formare delle isole di tessuto bianco-rosa). In seguito, documenterete il tutto. Trattamento: Se disponibile usate la soluzione alcoolica per disinfettare ulteriormente le vostre mani. Preparare il campo sterile con il materiale occorrente. Indossare i guanti sterili. Trattare e medicare l’ulcera. In questa fase, in base alla prescrizione medica, lo stadio della lesione e le risorse disponibili si effettueranno trattamenti specifici. Secondo il grado di essudazione si opterà per un diverso tipo di medicazione: in caso di necrosi si useranno enzimi autolitici o debridment chirurgico (il medico) o tradizionale zaffatura. Se la medicazione necessita di medicazioni particolari o diversi dalla semplice garza sterile: a questo link maggiori informazioni sulle medicazioni e i razionali scientifici per decidere che medicazioni usare per curare le ulcere. Ad esempio, se notaste infezione potrebbero essere usate garze imbevute di betadine gel, ecc. Altrimenti inumidire le garze sterili all’interno della vaschetta pre-riempita di fisiologica o preparate delle garze grasse. Il principio è quello di adagiare sulla lesione una medicazione che permetta di mantenere umida la zona ma di non farla macerare. Se disponibili e se formati a farlo, preferite sempre medicazioni avanzate come le medicazioni antibatteriche agli ioni d’argento Usare altra garza sterile fino ad appianare al livello della cute. Fissare con cerotti e bendaggio e stabilizzare la medicazione. Smaltire il tutto, togliere i guanti e lavarsi le mani. Riposizionare il paziente, verificare ulteriori bisogni assistenziali. Congedarsi dal paziente. Documentazione del trattamento: Documentate tutto. Parte fondamentale del processo di guarigione di un’ulcera è una valutazione completa e coerente rispetto alle precedenti. Senza un’adeguata documentazione difficilmente riuscirete a fare delle buone considerazioni sul miglioramento o peggioramento dell’ulcera da pressione. MEDICAZIONE: è un materiale che viene posto a diretto contatto con una lesione (medicazione primaria) che può necessitare di un supporto di fissaggio. L’obiettivo della medicazione è di creare l’ambiente ottimale per il processo di guarigione. TRATTAMENTO DELLE PIAGHE DA DECUBITO AL 1 STADIO: eliminazione della compressione locale, evitare il massaggio, detergere e medicare Utilizzati: film semipermeabili: pellicole trasparenti di poliuretano adesive; sono permeabili all’02 esogeno e al vapore acqueo e impermeabili all’acqua. TRATTAMENTO DELLE PIAGHE DA DECUBITO AL 2 STADIO: eliminare la compressione locale, detergere, medicare Utilizzati: idrocolloidi:medicazioni semioccludenti costituite da sostanze come gelatina,pectina.Formati:paste,adesivi,polveri.A contatto con la ferita assorbe inmaniera lenta e controllata l’essudato formando un soffice gel.Schiume di poliuretano: medicazione sterile composta da schiuma assorbente e un film copertura in poliuretano che assicura l’isolamento.Sono antiaderenti.Assorbono e trattengono grandi quantità di essudato agendo in modo controllato.Proteolitici: sono enzimi deputati alla lisi del materiale proteico o nucleare. TRATTAMENTO DELLE PIAGHE DA DECUBITO AL 3 STADIO: asportare chirurgicamente il tessuto, uso di antibiotici locali, medicare Utilizzati: Collagene, idrogeli: gel trasparenti a base di acqua, rimuovono il tessuto necrotico promuovendo il processo autolitico naturale; alginati: medicazioni sterili composte da Sali di Ca e Na; assorbono grandi quantità di essudato in tempi brevi formando un soffice gel. Riducono il processo di macerazione. TRATTAMENTO DELLE PIAGHE DA DECUBITO AL 4 STADIO: approccio multidisciplinare, rimozione tessuto necrotico, detergere e disinfettare e medicare. Utilizzo di Chirurgia e laserterapia. 13)Termoregolazione, il paziente con la febbre Con termoregolazione si definisce una complessa funzione, propria degli animali omeotermi (Uccelli e Mammiferi), che consente all'organismo di mantenere la temperatura corporea ad un livello costante conservando l'equilibrio tra i processi di termogenesi e quelli di termodispersione (o termolisi). La principale fonte di calore dell'organismo è costituita dai processi metabolici, che perlopiù sono rappresentati da reazioni chimiche esotermiche. L'organismo può assumere calore dall'esterno se la temperatura dell'ambiente è superiore a quella del corpo. Tale evenienza, però, è del tutto estranea alla termogenesi vera e propria che è un processo di natura biochimica. Per realizzare un equilibrio tra termogenesi e termolisi, e mantenere costante la temperatura corporea con il variare di quella ambientale, intervengono meccanismi regolatori riconducibili a un modello cibernetico di feedback negativo: se l'organismo è esposto al freddo, e quindi ad aumentata termolisi, la perdita di calore viene contenuta con una vasocostrizione cutanea e controbilanciata, entro certi limiti, con un aumento della termogenesi (aumento del metabolismo basale e, in particolare, del tono muscolare, con eventuale comparsa di brividi, aumento dell'attività funzionale dei surreni ecc.). Nella condizione opposta, ossia quella di aumentata termogenesi (come si verifica nel lavoro muscolare, nella febbre o per l'ingestione di alimenti a rapida combustione, come gli alcolici), o in caso di elevate temperature ambientali, si verifica un aumento della termolisi. In particolare, cresce la quantità di calore disperso con l'evaporazione del sudore. Una reazione a più lungo termine è correlata con la sintesi di ormoni tiroidei (tiroxina). Questo ormone agisce su vari tessuti corporei e induce un'elevazione del metabolismo basale. Le reazioni termoregolatrici sono controllate dall'ipotalamo (v.) mediante due centri antagonisti che sono informati delle variazioni della temperatura ambiente e di quella interna da termocettori cutanei e viscerali. Nell'ipotalamo è configurata la temperatura di riferimento essenziale per difendere i tessuti da modificazioni termiche pericolose per la loro funzione e sopravvivenza: il centro anteriore regola la dissipazione di calore e quello posteriore favorisce la produzione di calore e la sua conservazione. In tale contesto anatomico hanno un ruolo importante alcuni neurotrasmettitori la cui azione si svolge nell'ambito dei diversi circuiti della termoregolazione. Termoregolazione: consente all’organismo di conservare la temperatura corporea a un livello costante mantenendo l’equilibrio tra i processi di termogenesi e quelli di termodispersione (o termolisi). La termogenesi è un processo di natura biochimica; al contrario, la termolisi si realizza attraverso processi fisici. Termogenesi: In biologia, la produzione di calore negli organismi viventi; è generalmente in rapporto con le reazioni chimiche del metabolismo. termolisi: la dispersione del calore dagli organismi viventi durante il processo di termoregolazione. ipertermia: il corpo guadagna più calore di quello che perde. Il calore corporeo è strettamente regolato. provocato da cause esterne, sia fisiche (surriscaldamento dovuto a colpo di sole o di calore), sia chimiche (inoculazione di sostanze piretogene), o da intensa fatica muscolare. ipotermia: condizione in cui la temperatura interna del corpo scende al di sotto della temperatura minima richiesta per mantenere la base funzioni metaboliche del corpo. La temperatura corporea minima è considerata di 35 gradi Celsius. Esistono quattro livelli di ipotermia: 1. lieve ipotermia (temperatura corporea 32-35 gradi Celsius). 2. moderata ipotermia (temperatura corporea 28-32 gradi Celsius), 3. grave ipotermia (temperatura corporea 20-28 gradi Celsius) e 4. profonda ipotermia (temperatura corporea inferiore a 20 gradi Celsius). Il corpo reagisce all'ipotermia provocando brividi, ipertensione, battito cardiaco accelerato, respiro accelerato e costrizione dei vasi sanguigni periferici per generare / conservare calore. Il livello di glucosio nel sangue aumenta perché il fegato rilascia glucosio e la secrezione di insulina diminuisce e l'ingresso di glucosio nelle cellule diminuisce. La temperatura corporea assume valori diversi in base a dove viene rilevata. La rilevazione della temperatura può avvenire all’esterno per via cutanea: Cavo ascellare, Cavo inguinale o a livello di mucose: rettale, cavo orale, timpanica Nella normale fisiologia la Tc ha valore di 36,5°, per la misurazione interna e un grado in più per la misurazione a livello di mucose. Ha una certa variabilità individuale di circa 0,4°. Oltre alla variabilità individuale bisogna tenere conto che la temperatura corporea fluttua normalmente durate l’arco della giornata, con livelli più bassi al primo mattino e più alte la sera. Inoltre, intervengono altri fattori come la digestione, l’età, l’attività fisica e nelle donne il ciclo mestruale. Un aumento della TC > 37°C è definito PIRESSIA, IPERTERMIA o FEBBRE. Una TC>40°C è definita IPERPIRESSIA. La febbre è accompagnata da intenso calore e rossore al volto, occhi lucidi, cefalea, malessere generale, dolori muscolari, tachicardia, tachipnea, anoressia, stipsi, nausea, confusione, delirio convulsioni. La febbre ha un decorso che si articola in 3 fasi: •FASE 1- Fase del rialzo termico o fase prodromica •FASE 2- Fase del fastigio o massima intensità •FASE 3- Fase della defervescenza La Tc è un parametro vitale. I parametri vitali sono quei valori che nell’individuo rappresentano la funzionalità dell’organismo. La misurazione di quest’ultimi è un’abilità indispensabile che l’infermiere deve possedere, al fine di individuare ed evitare situazioni a rischio. I parametri vitali sono: •Pressione Arteriosa •Frequenza cardiaca •Frequenza respiratoria •Temperatura corporea •dolore, di recente introduzione tra i parametri vitali. La temperatura solitamente è più bassa negli anziani. I bambini e gli anziani hanno una instabilità a sostenere le temperature ambientali. Anche lo stress o l’ansia può elevare la temperatura. La T.C. presenta delle piccole oscillazioni giornaliere, essendo correlata all’attività fisica ed al sonno. Si dice che esiste una curva termica circadiana, cioè che avviene nell’arco delle 24 ore. Si determina effettuando la misurazione più volte al giorno, metodo detto rilevazione termica nicterale (cioè, del giorno e della notte) questa è minima nelle prime ore del mattino, ed è massima a metà pomeriggio nel soggetto sano; in caso di malattia si sommano gli effetti della malattia stessa. Nel voler comprendere quali siano i fattori che influenzano la T.C. l’infermiere nell’accertamento deve saper interpretare il significato delle principali variazioni che possono influenzare la temperatura corporea e principalmente: Età: i neonati hanno una T.C. instabile, perché i loro meccanismi di termoregolazione sono immaturi. Non è insolito che le persone anziane abbiano una T.C. ascellare inferiore ai 36°C. Ambiente: in genere i cambiamenti della temperatura ambientale non influenzano la T.C. interna, ma l’esposizione prolungata a temperature estremamente calde o fredde può causare delle alterazioni. Se la temperatura interna scende sotto i 25°C si può verificare la morte (assideramento). Se sale oltre i 43/44°C si può verificare uno stato di coma e morte (colpo di calore o colpo di sole). Ora del giorno: la T.C. è più bassa verso le 4/5 del mattino e più alta verso le 17/18 del pomeriggio. Può variare anche di 2°C, soprattutto nei neonati. Probabilmente per il variare dell’attività muscolare e digestiva. Esercizio fisico: la T.C. aumenta con l’attività muscolare attraverso il metabolismo dei grassi e carboidrati che vengono utilizzati per produrre energia. Stress: lo stress stimola il sistema nervoso simpatico (o sistema nervoso vegetativo o autonomo) con aumento dei livelli di adrenalina e noradrenalina (ormoni della midollare dei surreni) i quali stimolano un aumento del metabolismo, incrementando così la produzione di calore. Ormoni: il progesterone secreto durante l’ovulazione aumenta la temperatura di circa 0,5°C sopra i valori di base. Misurando la T.C. quotidianamente le donne possono determinare quando hanno l’ovulazione e quindi il periodo fertile. Dopo la menopausa la T.C. è la stessa per uomini e donne. Gli ormoni tiroidei (tiroxina) e surrenalici (adrenalina e noradrenalina) aumentano la produzione di calore La misurazione avviene usualmente con termometri elettronici compatibili alla sede di misurazione prescelta e in alcuni casi con strisce termometriche. In Italia la sede più utilizzata è il cavo ascellare anche se rileva la temperatura esterna; quindi, più suscettibile a variazioni dell’ambiente e necessita accuratezza nella rilevazione (asciugatura dell’ascella, corretta posizione del termometro a stretto contatto con la cute). Vengono utilizzati termometri elettronici con unità display e sensore (20-50 secondi) oppure, nei reparti di isolamento, strisce/cerotti termometrici monouso (60 secondi). Il range di normalità per questa zona di rilevamento si intende compreso fra i 36,5°C e i 36,8 °C. La misurazione nel cavo inguinale avviene nelle stesse modalità e il range di normalità per questa sede si intende compreso fra i 37°C e i 37,5°C. Attraverso l’utilizzo di un termometro elettronico dotato di sensore ad infrarossi sulla punta e guaina monouso, si può misurare la temperatura timpanica (2-5 secondi) che riflette la temperatura interna; questa sede, di facile e veloce accesso, viene utilizzata principalmente con i bambini, anziani o pazienti critici, ma è controindicata in caso di secrezioni abbondanti e/o di lesione del canale uditivo. Anche la temperatura orale, rilevata da termometri digitali (20-50 secondi), riflette la temperatura interna, ma può essere alterata dall’ingestione di cibi o bevande particolarmente fredde o calde, dall’aver fumato e dall’ossigenoterapia. Una delle sedi più affidabili per ottenere la temperatura interna è l’ampolla rettale, sempre attraverso l’utilizzo di termometri digitali (20-50 secondi); la rilevazione in questa zona è controindicata in pazienti con patologie rettali o con materiale fecale residuo nell’ampolla, in casi di diarrea conclamata e nelle fasi postoperatorie. Il range di normalità per queste tre aree è compreso tra i 36,8°C e i 37,5 °C. I diversi tipi di Febbre: Vari tipi di febbre : -Febbre continua: (frequente nelle polmoniti) durante la fase dell’acme febbrile la TC raggiunge i 40 °C e si mantiene costante, le oscillazioni giornaliere sono sempre inferiori a 1°C senza mai raggiungere la defervescenza per circa 7gg dopo i quali, solitamente, si ha risoluzione per crisi con sudorazione profusa; -Febbre remittente o discontinua: è frequente nelle setticemie, nelle malattie virali e nella tubercolosi; il rialzo termico, durante il periodo del fastigio, subisce oscillazioni giornaliere di 23°C, senza che mai si raggiunga la defervescenza per 5-6gg; -Febbre intermittente: è frequente in sepsi, malattie da farmaci, neoplasie; vede l’alternarsi di periodi di ipertermia e periodi di apiressia. -Febbre ondulante: la TC aumenta nel giro di vari giorni, raggiunge un picco e poi decresce lentamente in più giorni successivi (per lisi) della durata di 1-2 settimane e dopo uguale periodo di apiressia riprende con le stesse modalità; -Febbre ricorrente e familiare: il periodo febbrile oscilla dai 3 ai 5 giorni, alternandosi a periodi di apiressia; -Febbre settica: frequente in infezioni delle vie biliari e urinarie; l’andamento intermittente, con puntate di 1 o 2 volte al giorno, con un incremento rapido con brivido, acme breve e rapida defervescenza per crisi; -Febbricola: non sono mai raggiunti i 38°C, profilassi anticoncezionali, tubercolosi, una neoplasia oppure un’infezione cronica. Assistenza paziente con febbre : L’impostazione degli interventi terapeutici e assistenziali nei confronti di un soggetto in stato febbrile segue due direttrici : -Interventi volti ad agire sulle cause che hanno determinato l’insorgenza della febbre e sul quadro sintomatologico ( essenzialmente di ordine diagnostico e terapeutico e quindi di competenza medica e infermieristica),prestazioni di natura assistenziale volte a favorire l’abbassamento della temperatura compito dell’O.S.S. Persona con brividi. - Mantenere il comfort e la sicurezza del paziente - Fornire coperte o abiti supplementari per aiutare la persona a sentirsi calda. - Rilevare i parametri vitali P.A. , F.C , F.R , (effetti della febbre sugli altri sistemi corporei). Mantenere l’idratazione, favorendola. - Ridurre la produzione di calore. - Invitare la persona a ridurre l’attività fisica e favorire il riposo a letto in ambiente tranquillo, diminuire gli stimoli ambientali (rumore, luce). - Promuovere la dispersione di calore; La perdita di calore dal corpo del soggetto all’ambiente circostante va favorita togliendo gli abiti o coperte troppo pesanti: l’esposizione della superficie della cute all’aria aumenta la dispersione di calore. - Eseguire spugnature tiepide, su indicazione medica applicare la borsa del ghiaccio o criogel su decorso dei grossi vasi. (femorale – carotideo – temporale – ascellare per favorire il raffreddamento attraverso l’evaporazione e la conduzione. -Mantenere fresca e la temperatura della stanza (17 – 19°C) , e ben areata -Mantenere l’idratazione; osservare lo stato di idratazione delle mucose ( attuare le necessarie cure per prevenire il disagio provocato dalla disidratazione e le lesioni dalla mucosa con insorgenza di infezioni, mantenere le labbra morbide ). -Controllare la diuresi quantità e caratteristiche. -Stimolare l’assunzione orale di liquidi preferibilmente ad alto contenuto di carboidrati: succhi di frutta, tè, camomilla. -Mantenere la nutrizione; favorire l’assunzione di alimenti ricchi di carboidrati e proteine per contrastare l’elevato metabolismo, preferendo una dieta semi-liquida e facilmente digeribile. -Garantire l’igiene totale e il cambio della biancheria personale e del letto per effetto della sudorazione. - La luce eccessiva e i rumori sono fonte di disturbo per l’assistito, per cui entrambi vanno evitai accuratamente. Procedura Rilevazione temperatura corporea dal libro p.565 14) Assistenza al paziente anemico L'anemia è una condizione in cui il numero di globuli rossi non è sufficiente a trasportare abbastanza ossigeno da soddisfare i bisogni dei diversi tessuti e organi del corpo. In realtà esistono diverse forme di questo disturbo, ciascuna causata da fattori diversi. Anche la sua gravità può variare molto, passando dai casi di lieve entità a quelli molto gravi. Che cos’è l’anemia? In genere si parla di anemia quando i livelli di emoglobina nel sangue sono inferiori a 13 g/dl nel caso dell'uomo o 12 g/dl nel caso della donna. Esistono però anche altri modi per definire la malattia, fra cui valori di ematocrito inferiori al 40% nel caso degli uomini o al 37% nel caso delle donne. La riduzione dell'emoglobina può essere un problema temporaneo o cronico. In generale è più esposto al rischio di anemia chi soffre di carenze vitaminiche (in particolare di vitamina B12, C o di acido folico) o di ferro, di disturbi intestinali (celiachia inclusa), di mestruazioni troppo abbondanti, di malattie croniche come l'insufficienza epatica o renale e chi ha familiari che soffrono dello stesso problema. Inoltre, durante la gravidanza è più facile andare incontro a un'anemia da carenza di ferro. Quali sono le cause dell’anemia? Livelli bassi di globuli rossi possono essere associati a problemi nella loro produzione (come nel caso dell'anemia aplastica) o nella loro degradazione (anemie emolitiche), a emorragie, a difetti genetici (come l'anemia falciforme e le talassemie) o ad altre malattie (dall'artrite reumatoide alla leucemia). Inoltre, alcune forme di anemia sono associate a carenze di ferro o di vitamine. Quali sono i sintomi dell’anemia? L'anemia può essere inizialmente asintomatica, ma l'aggravarsi del problema porta alla comparsa di sintomi come stanchezza, pallore, battiti cardiaci irregolari o accelerati, affanno respiratorio, dolori al petto, vertigini, problemi cognitivi, mani e piedi freddi e mal di testa. Come si previene l’anemia? Molti tipi di anemia non sono prevenibili con lo stile di vita. In alcuni casi è invece possibile ridurre la probabilità di sviluppare la malattia seguendo un'alimentazione ricca di vitamine e di ferro. -Di acido folico sono ricchi gli agrumi, le banane, le verdure a foglia verde scuro, i legumi e i prodotti a base di cereali fortificati. -La vitamina B12 è presente nella carne e nei latticini e si trova in alcuni derivati dei cereali e della soia fortificati. -La vitamina C, utile perché aiuta ad assorbire il ferro, si trova negli agrumi, nel melone e nei frutti di bosco. -Il ferro può essere assunto con la carne, i legumi, i cereali fortificati, i vegetali a foglia verde scura e la frutta essiccata. Anemia Mediterranea o Talassemia: L'anemia mediterranea, anche nota come beta-talassemia major o anemia di Cooley, è una malattia del sangue ereditaria molto grave causata da un difetto genetico che provoca la distruzione dei globuli rossi. La mutazione genetica causa una distruzione precoce dei globuli rossi, una minore presenza di emoglobina e quindi una scarsa ossigenazione di tessuti, organi e muscoli che porta stanchezza e scarsa crescita. Chi soffre di beta-talassemia deve sottoporsi a frequenti trasfusioni di sangue. Anemia da carenza di vitamine: Le anemie da carenza di vitamine sono caratterizzate da una ridotta produzione di globuli rossi a causa di una deficienza vitaminica. Le vitamine coinvolte sono la vitamina B12, l’acido folico (folati) e la vitamina C, acido ascorbico. Anemia sideropenica o da carenza di ferro: L’anemia da carenza di ferro è il tipo più comune di anemia. Viene anche chiamata anemia sideropenica (dal latino sìderos = ferro e penìa = povertà) o anemia marziale. Si tratta di una condizione in cui nell'organismo non vi sono adeguati livelli di ferro e questo compromette il trasporto di ossigeno attraverso il sangue provocando, tra l'altro, stanchezza e fiato corto. Il ferro è un minerale fondamentale per alcune funzioni biologiche, tra le quali la formazione dell'emoglobina. Quando c'è una mancanza di ferro, provocata da uno scarso apporto con l'alimentazione, da problemi nell'assorbimento, da perdite ematiche, la produzione di emoglobina è insufficiente e questo determina una scarsa circolazione di ossigeno attraverso l'organismo. Interessa tutte le fasce di età, in prevalenza i bambini, gli adolescenti, le donne in età fertile, in gravidanza e allattamento. -Anemia falciforme: L’anemia falciforme è una malattia genetica ed ereditaria del sangue. Il nome si deve alla caratteristica forma a falce o mezzaluna che viene assunta dai globuli rossi che diventano anche rigidi, viscosi e facilmente aggregabili. La forma irregolare ne ostacola il movimento attraverso i vasi sanguigni, rallentando o bloccando il flusso del sangue. Normalmente i globuli rossi hanno una forma simile a due piatti sovrapposti, sono elastici, deformabili e scivolano nei vasi sanguigni facilmente. Nell'anemia falciforme un gene mutato ne determina la forma irregolare: i globuli rossi assomigliano quindi a una falce, sono viscosi e si aggregano formando degli ostacoli al normale flusso sanguigno, con il rischio che i tessuti non vengano irrorati a sufficienza e le cellule muoiano (ischemia). Le cellule falciformi sono più fragili di quelle normali e ciò determina questa grave forma di anemia. L'anemia può essere scaturita da emorragie, secondarie a patologie croniche, Anemia aplastica (non vengono prodotte le cellule del sangue dal midollo osseo). Inoltre, le anemie possono essere classificate anche in base al valore di Volume Corpuscolare Medio (MCV): Macrocitiche: MCV > 100 Microcitiche: MCV < 80 Normocitiche: MCV 80-100 Segni e sintomi : L’anemia è riferibile a differenti condizioni patologiche molto diverse fra loro; si rileva tramite valori riscontrati nelle analisi del sangue, per la quale è sufficiente eseguire un emocromo che conta la parte corpuscolata del sangue. Il paziente affetto da anemia presenta sintomi che possono essere più o meno marcati; si può manifestare con senso di debolezza, difficoltà nella concentrazione, malessere diffuso, cefalea, crampi agli arti inferiori, caratteristico colorito pallido della cute e delle mucose, dispnea. In alcuni casi si può verificare anche un lieve calo ponderale, splenomegalia con dolore. Nei casi più gravi possiamo avere anche una compromissione del sistema cardiaco dettata dalla necessità del corpo di compensare la mancanza di capacità di trasporto dell’ossigeno; il paziente può quindi avvertire dolore al petto, tachicardia e ipotensione. Come si trattano le anemie? Il trattamento delle anemie dipende dalla causa che ha scatenato la patologia. Le strategie di trattamento possono essere distinte in quattro gruppi: -Correzione del deficit tramite terapia farmacologica con assunzione di farmaci per via orale, iniezioni sottocutanee/iniezioni intramuscolari oppure per via endovenosa (Ferro in compresse/fiale; integratori di ferro e vitamina b-12) -Correzione del deficit tramite dieta includendo consumo di: verdure (ad esempio: carote, pomodori, broccoli, patate), legumi, carne rossa, molluschi, agrumi e frutta secca -Correzione del deficit tramite emotrasfusione con la somministrazione in ambiente ospedaliero di emazie concentrate secondo protocolli aziendali (procedura che prevede il monitoraggio del paziente, il prelievo di campioni ematici e l’invio al reparto di medicina trasfusionale che tramite vari e scrupolosi controlli identifica il gruppo sanguigno del paziente e fornisce emazie concentrate compatibili, la somministrazione secondo attento riconoscimento del paziente e controllo ulteriore delle sacche di emazie da parte di medico e infermiere e la registrazione in apposito “diario trasfusionale” dei parametri vitali del paziente – procedura che varia a seconda dell’azienda ospedaliera). A seconda del grado di severità dell’anemia sarà il medico a valutare quante sacche di emazie dovrà ricevere il paziente. In caso di emergenza con paziente gravemente anemico (emorragia massiva) può essere somministrato immediatamente sangue disponibile nei reparti di Emergenza-Urgenza di gruppo “0 Rh Negativo” che è compatibile con tutti i tipi di gruppi sanguigni (0 NEG: Donatore Universale) -Correzione del deficit tramite intervento chirurgico/endoscopico nel caso l’emorragia sia causata da una perdita di cui si è scoperta la natura e quindi si possa intervenire per risolverne la causa (ad esempio: emorragia digestiva, varici esofagee). Indicatori assistenziali: segni vitali stabili, assenza di febbre, Hb e Ht entro parametri accettabili, EGA entro parametri normali, assenza di complicazioni cardiovascolari e polmonari (dispnea e angina), capacità di tollerare adeguata assunzione alimentare, peso stabilizzato, capacità di procurarsi la dieta raccomandata, capacità di deambulare e svolgere le attività di vita quotidiana, adeguato sistema di sostegno dopo la dimissione. Promemoria per l'educazione di pz e familiari: documentare che abbiano compreso il tipo di anemia e le sue implicazioni, scopo, dosaggio e modalità di somministrazione dei farmaci da assumere, le particolari esigenze dietetiche, risorse disponibili sul territorio, riconoscere segni e sintomi che indicano la necessità di ricorrere al medico, data, ora e sede degli appuntamenti medici, quando e come mettersi in contatto col medico. Promemoria per la documentazione: bisogna documentare lo stato clinico al momento dell'ingresso, le modificazioni significative, i risultati dei test diagnostici e di lab pertinenti, assunzione di alimenti, tolleranza ad attività fisica, insegnamento al pz e ai familiari, piano di dimissione. *Quindi possono esserci tante diagnosi infermieristiche in base al tipo di anemia e ai sintomi riferiti dal paziente, di conseguenza ci saranno vari interventi infermieristici. 15)Assistenza al paziente diabetico Il diabete mellito è una sindrome cronica caratterizzata dall’alterato metabolismo dei glucidi causato dalla carenza o totale assenza di insulina. Una concentrazione di glucosio nel sangue (glicemia) mantenuta fra i 90 mg/100 ml è condizione indispensabile per il normale funzionamento dei vari tessuti, in particolare di quello nervoso per il quale il glucosio è un’indispensabile fonte di energia. Il glucosio presente nel sangue deriva da: -alimentazione; -scorte immagazzinate dal fegato sotto forma di glicogeno; -scorte di glucosio sintetizzato dal fegato a partire da composti di natura diversa (ad esempio, aminoacidi). Il mantenimento di un livello ottimale di glicemia (omeostasi) è garantito dall’azione organizzata di ormoni secreti da ghiandole endocrine che si coordinano con l’apporto incostante di glucosio introdotto con la dieta. In particolare, l’insulina, ormone secreto dalle cellule beta delle isole di Langerhans pancreatiche, stimola le cellule del fegato, del tessuto muscolare e di quello adiposo a prelevare dal sangue il glucosio necessario e ad immagazzinare al loro interno quello di non immediato utilizzo sotto forma di glicogeno, una riserva per i casi di emergenza (digiuno prolungato, attività fisica, stress). Casi di ridotta secrezione di insulina, ai quali possono aggiungersi condizioni di resistenza a tale ormone da parte dei tessuti periferici, provocano una grave alterazione nei meccanismi omeostatici della glicemia che si traduce nella possibilità di gravi danni a tutti i tessuti. Un elevato livello di glucosio, infatti: -favorisce la crescita batterica, predisponendo allo sviluppo di infezioni; -aumenta la viscosità del sangue; -riduce la capacità dell’emoglobina di trasportare ossigeno ai tessuti. Il diabete mellito rappresenta una grave compromissione della regolazione dell’omeostasi glicemica; si conoscono diversi tipi di diabete, con diverse eziologie, decorsi clinici e trattamenti, ma l’intolleranza al glucosio rappresenta un fattore comune e trasversale ad essi. Secondo la Carpenito, una diagnosi di diabete mellito può essere stabilita sulla base di uno dei seguenti tre parametri: 1.glicemia a >= digiuno:126 mg/dL; 2.glicemia a 2 ore durante il test di tolleranza al glucosio somministrato per via orale >200 mg/dL; 3.sintomi di diabete mellito (poliuria, polidipsia, calo ponderale) associati ad un valore di glicemia casuale >200 mg/dL. Sono riconosciute tre sottocategorie di diabete mellito: il diabete mellito di tipo 1 (conosciuto anche come diabete giovanile): -insorge in età giovanile (entro i 30 anni); -la produzione di insulina è insufficiente, perciò la terapia consiste nella somministrazione di insulina; -il glucosio non viene utilizzato dalle cellule e si accumula nel sangue (iperglicemia); -l’alta concentrazione di glucosio nel sangue impedisce ai tubuli renali di riassorbirlo, con conseguente presenza di glucosio nelle urine; -il riassorbimento renale dell’acqua e del sodio è compromesso per ragioni osmotiche dettate dall’elevata quantità di glucosio e corpi chetonici nell’ultrafiltrato, con conseguente produzione di grandi quantità di urina (poliuria); -alla poliuria consegue una forte disidratazione che, stimolando il centro della sete, induce il diabetico a bere continuamente (polidipsia); -il deficit d’insulina provoca un alterato metabolismo anche di grassi e proteine, al quale si aggiunge l’incapacità di immagazzinare il glucosio e si traduce in frequente perdita di peso e aumento dell’appetito del soggetto (polifagia); -nel lungo termine si verificano gravi complicanze relative soprattutto all’alterazione strutturale e funzionale dei vasi sanguigni (ispessimento e indurimento delle pareti arteriose, alterazioni dei capillari a carico della retina e dei reni, sofferenze del sistema nervoso periferico). Inoltre, il diabete di tipo 1 si suddivide ulteriormente in: 1)immuno-mediato: è il sistema immunitario del diabetico a distruggere le cellule beta, le uniche preposte alla produzione di insulina e alla regolazione dei livelli di glucosio. Questo processo di distruzione è tanto più rapido quanto più il soggetto è giovane (bambini e adolescenti, infatti, possono sviluppare molto rapidamente chetoacidosi); 2) idiopatico: l’individuo non produce insulina ed è soggetto a chetoacidosi, ma non vi sono coinvolti fattori autoimmuni. Il diabete mellito di tipo 2: -insorge in età adulta; -insorge per l’incapacità delle cellule di utilizzare correttamente l’insulina (resistenza) e progredisce con la graduale perdita, da parte del pancreas, della capacità di produrre insulina in quantità adeguate; -l’iperglicemia si genera quando il pancreas non è più in grado di soddisfare il fabbisogno organico e/o quando sono compromessi i recettori periferici per l’insulina; -la somministrazione di insulina come regime terapeutico spesso non è sufficiente e/o indicata, mentre fondamentale è il controllo della dieta; -la maggior parte dei soggetti affetti da questo tipo di diabete è obesa; -la resistenza all’insulina diminuisce con la perdita di peso, ma torna a salire non appena si riacquista peso; è soggetto a forte familiarità. Fra gli altri tipi di diabete, citiamo: -diabete mellito gestazionale: tipo di intolleranza al glucosio che si manifesta durante la gravidanza e che, generalmente, scompare dopo il parto e riporta la paziente alla normalità. Può essere gestito con o senza insulina; -diabete secondario: insorge in seguito ad altre patologie (es. difetti genetici delle cellule beta, endocrinopatie, pancreatiti, tumori) o a terapie mediche particolari (es. corticosteroidi); -diabete insipido: patologia caratterizzata da poliuria importante e sete insaziabile dovute ad un’alterazione della produzione, della secrezione o del funzionamento dell’ormone vasopressina (ormone antidiuretico) a livello di ipotalamo e ipofisi o dalla sua mancata attività a livello renale. Tra i fattori di rischio per lo sviluppo del diabete si può operare una distinzione che affianca fattori sui quali si può agire (obesità, mancanza di esercizio fisico) a fattori che vanno tenuti in considerazione a seconda dei casi (familiarità per il diabete, età, etnia, altre patologie, trattamenti terapeutici potenzialmente iatrogeni). Le complicanze acute e croniche del diabete vanno ad incidere significativamente sulla vita della persona: -complicanze acute: ipoglicemia, iperglicemia; -complicanze croniche: aterosclerosi, retinopatie, nefropatie, neuropatie, ulcere diabetiche, aumentata suscettibilità alle infezioni (piede diabetico, flemmoni, cellulite, fascite necrotizzante, infezioni dell’apparato urinario, ecc.). Il ruolo dell’infermiere nell’assistenza al paziente con diabete mellito di tipo 2 L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica, che è di natura tecnica, relazionale e educativa; di fronte ad un paziente al quale viene fatta una diagnosi medica di diabete mellito di tipo 2, infatti, l’infermiere ha anche la responsabilità di educare l’utente alla gestione della propria situazione clinica prima della dimissione, fornendogli gli strumenti per garantirsi una condizione di sicurezza a domicilio. La natura educativa dell’assistenza infermieristica prevede che l’infermiere accerti il livello di comprensione dell’utente e lo educhi ad effettuare le attività di gestione quotidiana della patologia in maniera autonoma. L’accertamento infermieristico, inoltre, mira ad indagare lo stile di vita del paziente al fine di conoscere le sue abitudini alimentari (con tanto di misurazione dell’indice di massa corporea – BMI) e di eliminazione, la sua occupazione e le caratteristiche del nucleo socio-familiare in cui è calato, l’eventuale utilizzo di ausili oculistici, auricolari, per la deambulazione o per l’incontinenza urinaria e/o fecale. Tutto questo per effettuare un’attenta analisi incrociata dei dati raccolti attraverso l’accertamento, con la collaborazione del paziente e, se presente, con quella di un caregiver; analisi dei dati che porta alla formulazione di un piano assistenziale tarato sulla singola persona. Per la persona affetta da diabete è fondamentale raggiungere l’autonomia necessaria a gestire la propria condizione, con particolare riferimento alla terapia farmacologica con insulina. la componente educativa dell’assistenza infermieristica: -Addestrare alla rilevazione glicemica (o verifica della corretta esecuzione: tempi, modi, ecc.) -Addestrare all'utilizzo della penna per insulina (o verificarne l’uso e la corretta tecnica iniettiva) -Addestrare a riconoscere e trattare le ipoglicemie (o verifica delle capacità apprese) -Addestrare alla compilazione del diario delle glicemie (o verifica) L’obiettivo principale del trattamento è di mantenere la glicemia entro valori normali e prevenire le complicanze. Le condizioni ottimali per raggiungere quest’obiettivo sono: -Un indice di massa corporea tra 18.5 e 25 -Un’alimentazione varia ed equilibrata -Attività fisica regolare -Affinché si riesca a seguire il trattamento adeguatamente, il paziente deve imparare a gestire le modalità di utilizzo dell’insulina. Per questo motivo si raccomanda che le persone vengano formate in un centro di diabetologia. Nella formazione è compreso un programma di educazione terapeutica del paziente, che comprende: -L’apprendimento e la valutazione delle conoscenze della patologia -La consapevolezza di sé e della patologia -Un insieme di capacità tecniche per il controllo e il trattamento -La capacità di fare auto-diagnosi -La gestione di crisi ipoglicemiche ed iperglicemiche -L’adattamento del proprio stile di vita alla patologia e l’adattamento dell’insulina all’evoluzione della patologia -La prevenzione delle complicanze L’educazione terapeutica deve essere fatta continuamente nel corso della vita del paziente. Le sedute di educazione terapeutica devono essere personalizzate e permettere di identificare e correggere le lacune di conoscenze che potrebbero avere un impatto negativo nel trattamento e nell’evoluzione della patologia. L'automonitoraggio glicemico è fondamentale per il paziente che si trova a dover convivere con una patologia cronica, che va curata per tutta la vita. Educare la persona ad effettuare l'automonitoraggio glicemico al proprio domicilio è parte integrante del percorso di educazione terapeutica del quale l'infermiere, che lavora in sinergia con il medico, il dietologo ed altri professionisti della salute, è responsabile. Il monitoraggio glicemico domiciliare è reso agevole dalla disponibilità di vari tipi di glucometro che si adattano alle varie esigenze dei pazienti. Quasi tutti gli strumenti per la misurazione della glicemia tramite prelievo capillare tengono in memoria un buon numero dei valori glicemici misurati e la maggior parte hanno la possibilità di scaricare i dati sul PC per elaborazioni statistiche (es. media della glicemia nei vari momenti della giornata, andamento nel tempo, ecc.) o inviare i dati in un archivio remoto accessibile sia al paziente che al medico curante. PROCEDURA STICK GLICEMICO: -Lavarsi le mani accuratamente con acqua e sapone; assicurandosi al termine di asciugarle per bene; -Prelevare una striscia reattiva dal contenitore; -Inserire la striscia reattiva nel glucometro. In genere, quando il dispositivo è pronto a rilevare la glicemia, compare sullo schermo il simbolo di una goccia; -Apporre all’interno del pungidito l’ago. -Informare il paziente della procedura, portando a letto tutto l’occorrente; -Indossare i guanti monouso ed effettuare una valutazione del dito da pungere; -Effettuare la disinfezione cutanea del polpastrello; -Pungere un polpastrello; -Mettere in contatto la striscia reattiva con la goccia di sangue ed osservare il risultato, avendo cura di posizionare un batuffolo di cotone non inumidito e bagnato con disinfettante; -Riporre l’attrezzatura utilizzata nel suo posto, eliminare i dispositivi di protezione utilizzati ed effettuare l’igiene delle mani; -Si consiglia di annotare, ogni qualvolta si effettui la misurazione, il valore rilevato, così da registrare eventuali sbalzi glicemici (si ricorda però che molti glucometri permettono di conservare nella memoria interna al dispositivo stesso i valori di svariate decine di misurazioni glicemiche). Gli orari appropriati per le misurazioni glicemiche domiciliari sono poco prima della colazione, del pranzo e della cena e circa due ore dopo l’inizio della colazione, del pranzo e della cena. -Diabete e dieta : La dieta è essenziale, perché: il livello glicemico dipende anche, ma non solo, dai carboidrati (zuccheri) che vengono assunti con la dieta; l’introito di grassi va controllato per correggere la dislipidemia spesso frequente nel diabete tipo 2; l’eccesso di peso corporeo, che contribuisce allo sviluppo del diabete tipo 2, va corretto con un introito di calorie inferiore alle calorie consumate. -Diabete e attività fisica : L’attività fisica è importante in quanto:contribuisce al calo di peso; fa consumare glucosio nei muscoli e, quindi, riduce la glicemia; aumenta la sensibilità insulinica, correggendo quindi una delle cause del diabete; aumenta il colesterolo HDL (“buono”) e riduce la pressione arteriosa, migliorando fattori di rischio di complicanze croniche. Trattamento farmacologico: l’insulina L’insulina è un ormone peptidico ipoglicemizzante indispensabile per l’assorbimento del glucosio da parte delle cellule dell’organismo. Viene secreto dalle cellule beta delle isole del Langerhans, che ne costituiscono la parte endocrina. Viene somministrata per via sottocutanea mediante una siringa, una penna o una pompa di insulina esterna. Le diverse tipologie di insulina; Le insuline disponibili sono di due tipi: 1)Le insuline umane, che sono una riproduzione esatta dell’insulina umana 2) analoghe dell’insulina umana Le insuline possono essere classificate in grandi famiglie. Insuline basali Le insuline basali: sono insuline lente e intermedie o semi lente, agiscono nel giro di qualche ora e per un lungo periodo. Questo tipo di insulina può essere miscelata con l’insulina rapida ed essere diluita in penne pre-riempite. L’azione delle insuline intermedie o semi lente inizia circa dopo un’ora dall’iniezione e la loro durata di azione va dalle 16 alle 20 ore. Sono insuline efficaci se vengono iniettate prima di andare a dormire, per mantenere un tasso di glicemia corretto fino al mattino. L’insulina intermedia viene di solito alternata a quella ad azione rapida per regolare la glicemia post-prandiale. Insuline rapide Le insuline rapide: sono delle preparazioni semplici e pure. Devono essere somministrate più volte al giorno e la loro durata d’azione non supera le 6-8 ore: Inizio effetto: 20-40 minuti Picco: 90 minuti Picco massimo atteso: 70 minuti Risalita della glicemia: 4 ore Fine totale dell’azione: 6- 8 ore Somministrazione dell’insulina; L’insulina può essere utilizzata in diversi modi: -Per via endovenosa (EV) l’azione dell’insulina è praticamente immediata e dura circa un’ora. È utilizzata in casi di urgenza -Per via intramuscolare (IM) l’azione è molto rapida - circa 10 minuti - e dura circa 2 ore -Per via sottocutanea (SC) ha le caratteristiche ben note PEOCEDURA SOMMINISTRAZIONE INSULINA P629 PROCEDURA APPROFONDIMENTI N.12 FILE ESAME DI STATO 66. PREVENZIONE E TRATTAMENTO DEL PIEDE DIABETICO E DELLE ULCERE CRONICHE Il piede diabetico costituisce la complicanza più invalidante dell'iperglicemia cronica trascurata: si tratta di uno stato patologico che condiziona negativamente la qualità di vita del paziente, tanto da richiedere una valutazione e gestione multidisciplinare che comprenda un team composto da diabetologi, podologi, chirurghi, infermieri. Obiettivo principale del trattamento del piede diabetico è senza dubbio prevenire l'ulcera plantare e, nel caso d'infezione in corso, arginare l'insulto patogeno entro il più breve tempo possibile. La gestione ed il monitoraggio frequente del paziente diabetico si rivelano indispensabili per minimizzare il rischio di complicanze croniche, incluso il piede neuropatico (La neuropatia diabetica colpisce sia i nervi sensitivi (neuropatia sensitiva) sia i nervi motori (neuropatia motoria) sia i nervi vegetativi (neuropatia autonomica). Il piede neuropatico pertanto è un piede in cui la neuropatia diabetica ha modificato l'equilibrio muscolare, la percezione degli stimoli, l'autoregolazione vegetativa, cioè tutte e tre le componenti nervose.). La mancata medicazione della lesione ulcerosa nel piede diabetico riduce drasticamente le possibilità di guarigione, esponendo il malato al rischio di cancrena, dunque di amputazione del piede. Una complicazione frequente e pericolosa di un’ulcera è l’infezione. Un’ulcera infetta può provocare fenomeni sistemici che possono mettere a repentaglio non solo il salvataggio d’arto ma la vita stessa del paziente. Il primo passo è distinguere se un’ulcera infetta necessita di provvedimenti immediati al di là della medicazione o se è sufficiente un intervento medicativo. Le infezioni compartimentali (ascesso) o le infezioni da anaerobi (gangrena gassosa) o da germi misti (cellulite o fascite necrotizzante) richiedono provvedimenti terapeutici generali e chirurgici, che, se non intrapresi con urgenza possono avere conseguenze molto gravi per il paziente. L’infezione si instaura nella maggior parte dei casi su un’ulcera aperta da molto tempo e non adeguatamente curata. L’infezione spesse volte è la causa che da sola determina la necessità di un’amputazione maggiore, effettuata a livello di gamba o coscia. La cura dell’ulcera plantare La cura dell’ulcera neuropatica plantare si basa fondamentalmente su tre momenti: • la cura locale della lesione • il trattamento di eventuali infezioni • lo scarico della lesione ulcerativa Il primo passo sarà il cosiddetto "debridement" dell’ulcera che consiste nell’eliminare tutti i tessuti non vitali fino ad arrivare a tessuti ben sanguinanti Sovente questo approccio è mal compreso e quindi mal accettato dal paziente che, prima del debridement, presenta una lesione non sanguinante e di ridotte dimensioni. Il debridement, infatti, rimuovendo il tessuto non vitale, evidenzia l’ulcera sottostante, nascosta dall’ipercheratosi, che presenta una dimensione sensibilmente maggiore. Questo momento terapeutico è tuttavia indispensabile: l’ipercheratosi non è un tessuto capace di rigenerare cellule viventi ma tende anzi a "soffocare" il tessuto vitale sottostante necessario per la guarigione; se non si elimina l’ipercheratosi non si otterrà mai la guarigione dell’ulcera. Ma il debridement è solo il primo passo nella cura dell’ulcera: se anche abbiamo fatto un preciso debridement e applicato una medicazione "avanzata" di ultima generazione ma rimettiamo il piede medicato in una scarpa qualsiasi non avremo eliminato la causa che ha prodotto l’ulcera, cioè l’iperpressione e la frizione. I fibroblasti, cellule necessarie per la guarigione dell’ulcera, se traumatizzati dal carico non possono adempiere correttamente alle funzioni rigenerative, al contrario di quelli protetti da uno scarico adeguato. Un passo indispensabile sarà quindi lo scarico della lesione ulcerativa; questo può essere ottenuto banalmente col riposo a letto o con l’utilizzo della carrozzella. Tuttavia, un’ulcera impiega molto tempo per guarire e rimanere a letto per 2-3 mesi non è solo difficile da attuare ma potrebbe rivelarsi dannoso per l’organismo (si pensi, ad esempio, alla possibile formazione di nuove ulcere da decubito al tallone o alle regioni sacrali). La terapia ottimale è uno "stivaletto" che permetta di scaricare completamente il piede pur permettendo una relativa mobilità. Apparecchi di scarico realizzati con materiali leggeri come la vetroresina, vengono utilizzati nei centri specializzati nella cura del piede diabetico, consentendo una guarigione dell’ulcera plantare in percentuale molto elevata e in tempi relativamente brevi. Oggi giorno ci sono in commercio svariati tipi di medicazioni avanzate che assicurano permanenze in situ di più giorni. Prevenzione In generale si può affermare che la miglior difesa nei confronti di una malattia è la conoscenza delle cause che possono determinarla; individuate tali cause è possibile scegliere le terapie più idonee a prevenirla. In presenza di neuropatia sensitiva si provvederà a visionare con frequenza il piede, a valutare l’idoneità delle scarpe, la temperatura dell’acqua del pediluvio col gomito, a non camminare a piedi nudi sulla sabbia. Qui di seguito si riportano le regole fondamentali per la prevenzione: • • • • Ispezionare e lavare ogni giorno i piedi Controllare la temperatura dell’acqua col gomito o col termometro Asciugare bene ma delicatamente, eventualmente con phon Usare calze che non stringano e cambiarle ogni giorno • • • • • • • Idratare il piede se secco con creme specifiche Non usare callifughi o strumenti taglienti per le callosità Tagliare le unghie con forbice a punte smusse, arrotondare con lima di cartone Non camminare a piedi scalzi Non usare fonti di calore dirette (borse d’acqua calda, calorifero, camino, etc) Usare scarpe comode con punta rotonda e tacco non superiore a 4 cm Quando si calzano scarpe nuove, controllare il piede dopo pochi minuti di cammino. 16)Disturbi di eliminazione urinaria (incontinenza/ritenzione) Che cos'è la Minzione? In termini generali, la minzione può essere definita come l'atto di espellere le urine, quindi come l'atto di urinare. Entrando più nel dettaglio, tuttavia, è possibile descrivere la minzione come l'insieme dei processi fisiologici - di natura sia volontaria che involontaria - che porta allo svuotamento del contenuto della vescica, quindi all'eliminazione delle urine, attraverso l'uretra. La ritenzione urinaria è definita come l’incapacità a svuotare completamente la vescica a causa di alterazioni a carico dello sfintere uretrale o del muscolo detrusore con la conseguente formazione del cosiddetto globo vescicale per accumulo dell’urina normalmente prodotta dai reni fino a trattenere volumi di urina molto elevati (>2000ml). Si parla di ritenzione urinaria acuta quando si presenta improvvisamente ed è accompagnata da dolore e dalla incapacità di svuotare la vescica anche se piena, mentre si parla di ritenzione urinaria cronica quando il fenomeno è quasi sempre indolore in presenza di ristagno vescicale. La ritenzione urinaria è una complicanza che si verifica in diverse condizioni patologiche, le quali sono comunemente classificate in: ostruttive, infettive, infiammatorie, farmacologiche, neurologiche, complicanze post-operatorie, gravidanza, traumi. Indipendentemente dalla causa sottostante, la ritenzione urinaria si verifica quando il paziente non è in grado di urinare e il ristagno vescicale supera i 400ml. In letteratura il volume del ristagno vescicale varia da 150 a 600ml. In questo caso è opportuno il cateterismo vescicale seguito dal trattamento della causa. Il posizionamento del catetere vescicale è indicato per: -monitoraggio della diuresi delle 24 ore -interventi chirurgici complessi -interventi chirurgici urologici -ritenzione urinaria con ristagno >1000ml Una volta posizionato, il catetere vescicale dovrebbe essere rimosso prima possibile, perché l’incidenza di infezioni urinarie correlate al catetere è molto elevata e grava pesantemente sull’ospedalizzazione, sulla qualità della vita della persona e sui costi sanitari. PROCEDURA CATETERISMO VESCICALE P458 , 465 Nel momento in cui viene raccomandato l’uso del catetere l’infermiere deve indicare sulla scheda infermieristica: -le indicazioni relative al cateterismo (data, orario di cateterizzazione e di rimozione, quantità di urina presente nella sacca) -i segni e i sintomi del soggetto al momento della cateterizzazione (agitazione, presenza di globo palpabile); -i dati relativi alla ripresa della diuresi spontanea (prima minzione, quantità, orario). Ritenzione urinaria: Accertamento ed interventi infermieristici -Accertare la quantità, la frequenza e l’aspetto delle urine -Accertare il modello di eliminazione del soggetto, storia di precedenti problemi urinari -Monitorare i parametri vitali e il bilancio idrico -Verificare la presenza di edemi periferici -Registrare gli intervalli tra le minzioni e misurare il volume urinario -Eseguire la palpazione e la percussione della zona sovra pubica -Chiedere al paziente se avverte dolore, senso di pienezza, difficoltà ad urinare _Valutare attraverso l’ecografia pelvica il volume residuo di urina nella vescica ed eseguire il cateterismo (se indicato) rispettando la tecnica asettica -Decomprimere la vescica moderatamente -Controllare il peso corporeo ogni giorno -Se possibile far urinare il paziente in posizione eretta -Garantire il più possibile la privacy -Effettuare manovre che possono facilitare la minzione -Educare il paziente a riconoscere segni e sintomi di distensione della vescica e riduzione della diuresi -Educare il paziente a riconoscere segni e sintomi di infezione del tratto urinario. La ritenzione urinaria si diagnostica prevalentemente con l’esame obiettivo e con la valutazione del residuo vescicale. Il soggetto con ritenzione acuta ha di solito un intenso desiderio di urinare e un dolore pressorio soprapubico. Alcuni soggetti riferiscono disfunzioni (nicturia, flusso urinario debole, perdite post svuotamento, iscuria paradossa) che peggiorano gradualmente dopo giorni o settimane, mentre altri avvertono una perdita improvvisa della capacità di urinare senza sintomi associati. Il segno oggettivo di ritenzione è la variazione del residuo post minzionale o la presenza di distensione vescicale (globo) palpabile. Il residuo post minzionale può essere valutato o con l’uso del catetere o con una ultrasonografia. L’incontinenza urinaria è caratterizzata dal rilascio involontario di urina. L’incontinenza può colpire sia gli uomini sia le donne di qualsiasi età, ma è più diffusa fra le donne e gli anziani, interessando il 30% circa delle donne anziane e il 15% degli uomini anziani. Sebbene l’incontinenza sia un disturbo più diffuso fra gli anziani, non è una normale conseguenza del processo di invecchiamento. Può essere un disturbo improvviso e temporaneo, ad esempio concomitante all’assunzione di un farmaco con effetti diuretici oppure può durare a lungo (cronica). Anche l’incontinenza cronica può, talvolta, essere guarita. Esistono diversi tipi di incontinenza: -L’incontinenza da urgenza è una perdita non controllata di urina (di volume da moderato ad ampio) che si verifica immediatamente dopo un bisogno urgente e irrefrenabile di urinare. Svegliarsi durante la notte per urinare (nicturia) e l’incontinenza notturna sono fenomeni comuni. -L’incontinenza da stress è una perdita di urina dovuta ad aumenti repentini della pressione intraddominale (ad esempio, durante un colpo di tosse, uno starnuto, una risata, un piegamento o un sollevamento di pesi). Il volume della perdita è normalmente da basso a moderato. -L’incontinenza da rigurgito è una perdita di urina che fuoriesce da una vescica troppo piena. Il volume è generalmente esiguo, ma la perdita può essere costante, causando una perdita totale consistente. -L’incontinenza funzionale è una perdita di urina causata da un disturbo cognitivo o fisico non associato al controllo della minzione. Ad esempio, una persona affetta da demenza dovuta a morbo di Alzheimer potrebbe non riconoscere l’urgenza di urinare o potrebbe non sapere dove si trova la toilette. Le persone costrette a letto potrebbero non essere in grado di recarsi alla toilette o di raggiungere la padella. Sono diversi i meccanismi che possono portare all’incontinenza urinaria. Spesso si tratta di una combinazione di meccanismi: Debolezza dello sfintere urinario o della muscolatura pelvica (detta incompetenza del collo vescicale), Presenza di un’ostruzione sul percorso dell’urina in uscita dalla vescica (ostruzione del collo vescicale). Spasmo o iperattività della muscolatura delle pareti vescicali (vescica iperattiva), Debolezza o deficit della muscolatura delle pareti vescicali, scarsa coordinazione tra muscolatura della parete vescicale e sfintere urinario, Un aumento del volume urinario, Problemi funzionali La debolezza o il deficit della muscolatura della parete vescicale, l’ostruzione del collo vescicale o in particolare entrambe queste condizioni possono causare incapacità di urinare (ritenzione urinaria). La ritenzione urinaria, paradossalmente, può causare incontinenza da rigurgito a causa di perdite determinate dalla vescica stracolma. Misure generali: Indipendentemente dal tipo e dalla causa dell’incontinenza è utile adottare alcune misure generiche. -Modificare l’apporto di liquidi -Allenamento della vescica -Esercizi per il pavimento pelvico Il consumo di liquidi può essere limitato in determinati orari (ad esempio, prima di uscire o 3-4 ore prima di coricarsi). Il medico potrebbe suggerire al paziente di evitare bevande che irritano la vescica (come bevande contenenti caffeina). È tuttavia necessario consumare da 1500 a 2000 ml di liquidi al giorno per evitare di concentrare l’urina, causa di irritazione vescicale. L’allenamento della vescica è una tecnica per cui la persona è tenuta a seguire un programma fisso di minzione durante la veglia. Il medico collabora con il paziente per la creazione di un programma in cui sia prevista una minzione ogni 2-3 ore ed eliminando l’urgenza di urinare durante i restanti orari (ad esempio con il rilassamento e la respirazione profonda). Man mano che il paziente progredisce nella capacità di eliminare l’urgenza di urinare, l’intervallo si allunga gradualmente. Una tecnica simile, la minzione sollecitata, può essere usata da chi si prende cura di un soggetto affetto da demenza o altri problemi cognitivi. Questa tecnica prevede che, a intervalli specifici, si domandi al paziente se deve urinare e se si sente bagnato o asciutto. Gli esercizi per la muscolatura del pavimento pelvico (esercizi di Kegel) sono spesso efficaci, specialmente per l’incontinenza da stress. È necessario assicurarsi di allenare i muscoli giusti, cioè quelli attorno all’uretra e al retto che interrompono il flusso di urina. Questi muscoli vengono contratti per circa 1-2 secondi, quindi rilassati per circa 10 secondi. Gli esercizi vengono ripetuti circa 10 volte per tre volte al giorno. Sarà poi possibile aumentare gradatamente il tempo di contrazione ferma dei muscoli fino a mantenerla per circa 10 secondi a volta. Poiché può essere difficile imparare a controllare i muscoli corretti, il medico potrebbe dover fornire delle istruzioni o raccomandare l’uso di biofeedback o elettrostimolazione (una versione elettronica degli esercizi per la muscolatura del pavimento pelvico in cui si usa la corrente elettrica per stimolare i muscoli corretti). Incontinenza urinaria ed interventi infermieristici: -Valutare la durata, la frequenza e le caratteristiche dell’incontinenza -Valutare storia di interventi di chirurgia pelvica -Terapia farmacologica -Valutare se l’incontinenza si verifica durante lo sforzo fisico. Eseguire il “test della tosse” -Accertare gravidanze pregresse -Accertare presenza di prolasso uterino -Palpare l’addome per rilevare masse o globo vescicale -Accertare la presenza di malattie neurologiche, ictus, malattie cronico-degenerative, diabete mellito, obesità -Valutare il grado di autonomia e lo stato cognitivo utilizzando scale di valutazione scientificamente validate -Chiedere al paziente di tenere un diario minzionale per valutare il modello urinario -Incoraggiare il paziente ad assumere un adeguato volume di liquidi per la tendenza a ridurre l’introito di liquidi e limitare gli episodi di incontinenza -Ai pazienti obesi consigliare di perdere peso avvalendosi del supporto di un nutrizionista -Favorire l’aderenza alla terapia farmacologica prescritta -Insegnare al paziente gli esercizi di Kegel (contrazioni volontarie dei muscoli del pavimento pelvico che sostengono utero, uretra, vescica e retto utili a migliorarne il tono muscolare) per rafforzare i muscoli del pavimento pelvico -Informare il paziente sui possibili presidi per l’incontinenza come pannolini assorbenti o slip assorbenti progettati per assorbire l’urina -Favorire l’accesso alla toilette e consigliare le minzioni programmate -Educare il paziente a ridurre il consumo di caffeina e alcol -Pianificare interventi educativi per la ginnastica vescicale e gli esercizi di Kegel -Valutare la disponibilità di servizi igienici o presidi che possano facilitare la minzione -Valutare il grado di autonomia del paziente nel raggiungere il bagno -Accertare la disponibilità di servizi igienici al domicilio del paziente: distanza dalla camera al bagno, ostacoli lungo il percorso, illuminazione adeguata, presenza di tappeti, presenza o meno di presidi per disabili -Valutare il bisogno del paziente di dispositivi di assistenza come deambulatori, sedie a rotelle, comode, ecc. -Consigliare l’uso di indumenti facili da rimuovere, larghi, con elastici piuttosto che bottoni -Garantire la privacy -Educare i familiari sull’importanza di rispondere alle richieste dell’assistito di urinare -Negli uomini applicare il condom che consente al paziente di restare asciutto, soprattutto nelle ore notturne -Eseguire il cateterismo ad intervalli regolari -Prevenire l’irritazione della cute ed eventuali lesioni correlate alla presenza di urina -Pianificare interventi educativi per l’auto-cateterismo. Esercizi dei muscoli pelvici: gli esercizi della muscolatura pelvica o esercizi di Kegel sono un’ulteriore alternativa che prevede una serie di esercizi utilizzati per rinforzare i muscoli volontari che aiutino la continenza sia negli uomini che nelle donne. Questo tipo di esercizi ai muscoli pelvici consiste in un programma di contrazioni ripetute insegnate da un infermiere. La formazione include almeno 24 contrazioni al giorno per un periodo iniziale di 6 settimane. La corretta tecnica di esecuzione degli esercizi di Kegel prevede: Lo svuotamento iniziale della vescica; Stringere i muscoli del pavimento pelvico e mantenerli contratti contando fino a 5; Rilassare i muscoli completamente contando fino a 10 (il tempo di rilascio dovrebbe essere circa il doppio quello di contrazione); Fare una serie di 10 esercizi, 3 volte al giorno (mattina, pomeriggio e notte). -Svuotamento programmato o a tempo della vescica. Lo svuotamento programmato prevede la minzione esortata dal caregiver o dall’infermiere. Questo tipo di intervento fa diminuire gli episodi di incontinenza. Viene utilizzata in pazienti anziani fragili che hanno < 4 episodi di incontinenza urinaria al giorno. La persona dovrebbe continuare con questa tecnica solo se c’è una riduzione del 20% di episodi d’incontinenza. -Diario della vescica. Il “diario della vescica” permette di porre diagnosi d’incontinenza urinaria. L’anziano su questo diario deve registrare giornalmente quanti liquidi ha assunto, i tempi di minzione e quanti episodi di incontinenza urinaria si sono manifestati. Questo può essere fatto sia dal paziente che dal caregiver ed è utile per identificare le cause di incontinenza urinaria ma non è sempre attuabile per i fragili. 38. PROCEDURE DI MEDICAZIONI SEMPLICI E AVANZATE. La ferita è un’interruzione della continuità della cute, che può interessare anche la mucosa sottostante ed i tessuti profondi. Le ferite chirurgiche sono soluzioni di continuo della cute a comparsa programmata, condotte secondo le più rigorose norme di asepsi, che dovrebbero andare incontro a guarigione senza complicazioni per prima intenzione. Possiamo distinguere le ferite in: Superficiali: se interessano solo i primi strati della cute. Profonde: se interessano muscoli, ossa od organi interni. Penetranti: se l’azione traumatica raggiunge cavità anatomiche come l’addome ed il torace. Inoltre, una ferita può essere: pulita: non infetta e senza segni di infiammazione, guarisce per 1^ intenzione. Pulita-contaminata: ferita chirurgica relativa ad interventi del tratto respiratorio, digerente, genitale, in condizioni controllate. Contaminata: aperta, in cui si evidenzia un processo infiammatorio non purulento, con interruzione delle procedure asettiche. Sporca: ferita traumatica non recente con ritenzione di tessuto devitalizzato. La guarigione può avvenire: PER PRIMA INTENZIONE: i bordi della ferita sono ben appaiati, tenuti da suture, graffe metalliche, cerotti adesivi, ecc., i margini sono quindi regolari e ciò permette una buona guarigione favorendo il processo di granulazione. Per queste ferite si raccomandano buona detersione con acqua sterile e copertura con garze sterili; non sono indicati antisettici, né particolari medicazioni. La medicazione va sostituita se bagnata o sporca e non è necessaria cambiarla tutti i giorni. Da tenere sotto controllo eventuali segni e sintomi di infezione. PER SECONDA INTENZIONE: i bordi della ferita non sono appaiati e la continuità dei tessuti è compromessa, con perdita di sostanza; quindi, i margini non possono essere suturati. Vanno trattate come normali ferite, coperte da garze sterili e protette da traumi. Controllare segni e sintomi di infezioni od emorragie. Si può accelerare il processo di riparazione tessutale con l’uso di idrocolloidi, film o schiume di poliuretano, idrofibre, medicazioni non aderenti paraffinate. PER TERZA INTENZIONE: per ferite chirurgiche infettatesi o andate incontro a complicanze (ad es. deiscenza, ovvero riapertura della ferita) nel decorso post-operatorio. In caso di deiscenza la ferita viene riaperta, detersa e vengono asportate le aree mortificate e fatto un adeguato zaffaggio. In seguito, si può procedere con una nuova sutura dei lembi. Fattori che influenzano il processo di guarigione delle ferite: Intrinseci (correlati al pz): età, stato nutrizionale, diabete, tabagismo, obesità, infezioni pregresse. Estrinseci: lavaggio delle mani degli operatori, tricotomia, procedure asettiche, inadeguata sterilizzazione degli strumenti chirurgici. Complicanze delle ferite ◦ Emorragia ◦ Ematoma ◦ Deiscenza ◦ Eviscerazione ◦ Fistole ◦ Infezioni MEDICAZIONE DELLE FERITE Tecnica atta a verificare, curare e proteggere una ferita al fine di favorire la rigenerazione e la guarigione del tessuto. La scelta della medicazione deve tenere conto della sede, dell’estensione, del tipo e della condizione della ferita. In generale, i requisiti di una medicazione ideale sono: impermeabilità, buon isolamento termico, promozione di un ambiente umido del letto della ferita, atraumatiche alla rimozione. Medicazioni semplici ed avanzate Le medicazioni possono essere semplici o avanzate, la scelta varia in base al tipo di ferita. I presupposti della medicazione semplice sono l’assorbimento dei liquidi fino all’essiccamento, l’emostasi, l’antisepsi, la protezione dalle infezioni e l’occultamento della ferita. Le medicazioni semplici sono quindi atte a proteggere e curare una ferita non complicata da drenaggi, con secrezione minima, senza perdita di sostanza e che guariscono di prima intenzione. Quelli della medicazione avanzata sono il mantenimento di un ambiente umido, la rimozione degli essudati e del materiale necrotico, il mantenimento di una temperatura costante, la permeabilità all’ossigeno, la protezione da infezioni esogene e l atraumaticità durante il cambio della medicazione. La medicazione prevede 4 fasi: ◦ Detersione; ◦ Antisepsi; ◦ Sbrigliamento; ◦ Medicazione avanzata; Detersione Consiste nell’irrigare la ferita con soluzione fisiologica o Ringer lattato (magari preriscaldato). Per detergere le ferite contaminate è preferibile lo iodopovidone. La finalità di questa manovra è la rimozione del materiale necrotico e della carica batterica. Antisepsi Gli antisettici possono essere utilizzati per l’irrigazione, la pulizia e lo sbrigliamento delle ferite. Per le ferite infette sono disponibili vari tipi di antisettici, che dopo l’applicazione di questi ultimi, vanno lavate con ulteriore detersione. Gli antisettici più utilizzati sono la clorexidina allo 0,05% e lo iodopovidone all’1% (attenzione perché provoca citotossicità a livello sistemico se uso prolungato). È consolidato l’uso di antisettici a base di argento in forma ionica per la medicazione delle ferite per le loro attività ad ampio spettro contro batteri, virus, miceti e protozoi. Sbrigliamento Ha lo scopo di rimuovere il materiale necrotico, la carica batterica, l’eccesso di essudato e di proteggere i bordi. Lo sbrigliamento può essere: meccanico: favorisce l’idratazione dell’escara che può essere rimossa più facilmente con le pinze o attuando uno sfregamento con garza. Enzimatico: si attua con prodotti a base di enzimi proteolitici. Per questo metodo vengono impiegati agenti enzimatici: le proteasi. Si trovano sotto forma di liquidi o pomate ed hanno origine batterica, animale o vegetale ed agiscono rompendo i ponti di collagene denaturato della necrosi Autolitico: è un metodo che utilizza l'autodigestione dell'escara attraverso l'utilizzo di enzimi proteolitici che sono già presenti nel liquido di ferita. Es. idrocolloidi (idrogel), ottimi appunto per lesioni con escara perché ne consentono la rimozione più facile, agiscono permeando i tessuti necrotici favorendone così l'autolisi. Chirurgico: consigliato quando la rimozione dell’escara è urgente per la presenza di infezioni, con l’utilizzo di strumenti chirurgici. Medicazioni avanzate Sono in grado di promuovere la guarigione della ferita in ambiente umido, al contrario di quelle tradizionali (come le garze) che tendono ad essiccarla. Le medicazioni avanzate assorbono una buona quantità di essudato, proteggono la cute peri lesionale sana, hanno un’azione battericida. Come sistemi di fissaggio delle medicazioni possono essere utilizzati: -placche idrocolloidi auto fissanti; cerotti in tessuto non tessuto; -pellicole semipermeabili. -cerotti di carta, da utilizzare in caso di allergie. TIPI DI MEDICAZIONE Medicazioni a piatto Medicazioni semplici. Di solito utilizzate per ferite in fase di cicatrizzazione con assenza di segni e sintomi di flogosi, che guariscono per prima intenzione. Come già detto in precedenza, per questo tipo di ferite, basta la detersione con fisiologica e utilizzo di garze sterili. I movimenti durante la detersione vanno effettuati dall’interno verso l’esterno. Medicazioni asciutte Utilizzate primariamente per ferite chiuse che guariscono per prima intenzione. Offrono una buona protezione della ferita, assorbono secrezioni e favoriscono la compressione, se necessario, per l’emostasi. Svantaggi: aderiscono alla superficie della ferita quando le secrezioni si asciugano e la rimozione può causare dolore e rottura del tessuto di granulazione, per questo bisogna inumidire la ferita con soluzione fisiologica, prima di staccare la medicazione. Medicazioni bagnate Utilizzate per detergere ferite aperte o superfici granuleggianti. Per saturare la medicazione può essere utilizzata solo soluzione fisiologica, o se necessario, anche una soluzione antisettica adatta. Forniscono un ambiente più fisiologico (calore, umidità), che può potenziare i processi di guarigione locali. L’essudato denso è rimosso più facilmente. Svantaggi: i tessuti circostanti possono macerarsi, il rischio di infezioni può aumentare e la biancheria bagnarsi. Medicazioni bagnate-asciutte Sono particolarmente utili per le ferite irregolari o infette che devono essere sbrigliate e che guariscono per seconda intenzione. La garza saturata con soluzione fisiologica (preferibilmente) o con una soluzione antimicrobica, viene zaffata nella ferita, eliminando lo spazio morto. Queste medicazioni bagnate vengono poi coperte con altre asciutte (garze, tamponi). Man mano che la medicazione si asciuga, i frammenti solidi ed il tessuto necrotico sono assorbiti nella garza per azione capillare. Zaffatura: riempimento di una cavità con garze sterili assorbenti o medicazioni di idrocolloidi, schiume di poliuretano, alginati (questi prodotti creano un ambiente umido e favoriscono la granulazione). 18)PROTOCOLLO BLS-D In un’emergenza l’infortunato si può ritrovare in molte condizioni, tra le quali: • persona priva di sensi (persona svenuta); • persona con un blocco meccanico delle vie aeree (oggetti nella gola dei bambini, acqua) • persona sottoposta a folgorazione elettrica; • paziente in totale arresto cardiaco con temporaneo stato di coma. In questi casi, interventi tempestivi basati sulla valutazione dei PV sono indispensabili per salvare la vita della persona. Il bls è l’ACRONIMO di Basic Life Support (in italiano sostegno di base alle funzioni vitali) è una tecnica di primo soccorso che può essere determinante. La tecnica BLS, che comprende la rianimazione cardiopolmonare (RCP) è compresa nella sequenza di supporto di base alle funzioni vitali. La definizione BLS/D si riferisce al protocollo BLS con l'aggiunta della procedura di defibrillazione (che è lo standard progressivo nei corsi di formazione per soccorritori laici). FUNZIONE Lo scopo di tale manovra è quello di mantenere ossigenati il cervello e il muscolo cardiaco, insufflando artificialmente aria nei polmoni e provocando, per mezzo di spinte compressive sul torace, un minimo di circolazione del sangue. LA CATENA DELLA SOPRAVVIVENZA La sopravvivenza è strettamente dipendente dalla realizzazione ordinata di una serie di interventi; la metafora della "catena" sta a simboleggiare da un lato l'importanza della sequenza, e il fatto che, se una delle fasi di soccorso è mancante, le possibilità di sopravvivenza sono ridottissime. La catena è formata da quattro anelli, che sono nell'ordine: 1.Accesso precoce al sistema di emergenza (118 Numero nazionale per le emergenze sanitarie). 2.Inizio precoce delle procedure di BLS. 3.Defibrillazione precoce, cioè l'arrivo precoce sul posto di un'équipe in grado di praticare la defibrillazione. 4.Inizio precoce del trattamento intensivo (da parte di personale medico e infermieristico adeguatamente formato). VALUTAZIONE DELLA SCENA All'arrivo sulla scena, prima di effettuare qualsiasi azione sul soggetto, il soccorritore deve accertarsi che la zona in cui agisce sia priva di pericoli che potrebbero pregiudicare la salute del soccorritore e dell'assistito. Nel caso in un cui la zona non sia sicura è necessario avvertite le autorità competenti, ad esempio i Vigili del fuoco. Se la zona è sicura, allora è possibile procedere con le manovre del BLS. La rianimazione viene praticata esclusivamente su un soggetto incosciente, che non risponde al richiamo verbale e agli stimoli tattili (per esempio, se scosso). Valutare se il soggetto è vittima di un malore oppure di un trauma; nel secondo caso non muovere il paziente e contattare immediatamente il 118. LINEE GUIDA 2010 DELL’AMERICAN HEART ASSOCIATION PER RCP E ECC A CHI PRATICARE IL RCP? Soggetto che: •È incosciente •Non respira •Non ha segni di circolazione Verificare e se necessario sostenere le funzioni vitali di base allo scopo di PREVENIRE I DANNI ANOSSICI CEREBRALI NEL SOGGETTO ADULTO IN CUI RISULTANO COMPROMESSE UNA O PIU’ FUNZIONI VITALI: •NON È COSCIENTE •NON RESPIRA •NON HA ATTIVITA’ CARDIACA SECONDO LE NUOVE LINEE GUIDA 2010: Valutazione parametri vitali: 1.Capacità respiratoria: Veloce riconoscimento delle seguenti situazioni: Assenza di respiro e Difficoltà di respiro (boccheggia). 2.Polso carotideo: se c’è difficoltà oggettiva di rilevamento del polso carotideo. La vittima respira? SI: Mettere in posizione laterale di sicurezza (non nel trauma!!!) •Osservare NO, OPPURE RESPIRA MALE: PCR NEL 2005 SI SEGUIVA LO SCHEMA “ABC”: Airways VIE AEREE Breathing RESPIRAZIONE Circulation CIRCOLAZIONE ADESSO 2010: COMPRESSIONI TORACHICHE PRIMA DELLE VENTILAZIONI Con le linee guida del 2010 c’è stata una semplificazione della procedura di compressione: 2005: Scorri lungo il margine costale. fino allo sterno. Posiziona l’altra mano sullo sterno. sovrapponi le mani. 2010: •Inginocchiarsi a fianco della vittima. •Porre il palmo di una mano al centro del torace della vittima. •Incrociare le dita dell’altra mano ed assicurarsi che la pressione non venga impressa sulle coste. Ed anche un’ottimizzazione della procedura di compressione: • 2005: Frequenza compressioni: circa 100/min. Profondità compressioni: 4 cm. • •2010: Comprimere il torace 5 centimetri. Mantenere una frequenza di >100 compressioni Ottimizzazione del ritorno venoso). Ridurre al minimo i tempi di assenza di compressione (Riduzione dei tempi di assenza di compressione. • Ottimizzazione della perfusione) FASE A: AIRWAY Apertura delle vie aeree: •iperestendi il capo •solleva il mento Una volta iperesteso il capo, la bocca si apre, per cui si può valutare la presenza di corpi estranei, che vanno RIMOSSI. N.B. Le protesi dentarie ben posizionate e stabili non devono essere rimosse. SOSPETTO DI UN TRAUMA CERVICALE: Se esiste il sospetto di un trauma cervicale la manovra di iperestensione dovrebbe essere sostituita dalla manovra di sublussazione della mandibola. SUBLUSSAZIONE DELLA MANDIBOLA: Questa viene eseguita sollevando la mandibola con entrambe le mani mentre i pollici spingono avanti il mento. Se disponibile, in questa fase va usata la CANNULA FARINGEA che facilita il mantenimento della pervietà delle vie aeree durante la RCP. Il dispositivo è utilizzato mantenendo l'iperstensione del capo; la cannula va inserita nella bocca con la concavità rivolta verso il naso e poi a metà del percorso ruotata di 180° ed introdotta fino a che l'anello esterno si sovrappone all'arcata dentale. FASE B: BREATHING: Ventilazioni bocca-bocca •2 insufflazioni ogni 30 compressioni •Ogni ventilazione deve durare 1 s •La ventilazione non dovrebbe eccedere 5 s •Ridurre il tempo di assenza di compressione QUESTE PROCEDURE SOPRA DESCRITTE SONO RIFERITE AD UN SOLO OPERATORE ADDESTRATO. NEL CASO CI SIANO DUE OPERATORI ADDESTRATI SULLA SCENA: 1.1 operatore comprime il torace (C) 2.1 operatore libera le vie aeree (A) in attesa che vengano praticate le 30 compressioni per praticare le 2 insufflazioni. CAMBIO DEL RUOLO DEI DUE SOCCORRITORI: VA EFFETTUATO OGNI 5 CICLI (CIRCA 2 MINUTI) - deve avvenire durante l’esecuzione delle 2 ventilazioni -il leader (chi è alla testa) effettua le ultime 2 insufflazioni, -poi si sposta al fianco della persona e inizia le 30 -compressioni -colui che massaggiava si sposta alla testa per ventilare Continua le manovre di rianimazione fino a che: La vittima mostra la ricomparsa di segni vitali. VENTILAZIONI CON MEZZIA AGGIUNTIVI: Ventilazione pallone-maschera. • Praticare respirazione di soccorso con una frequenza di circa 1 insufflazione ogni 6-8 secondi (da 8 a 10 insufflazioni al minuto). • Evitare una ventilazione eccessiva. CERCARE UN DEFIBRILLATORE PERCHE’ RUOLO CENTRALE DEL DEFIBBRILLATORE? • FIBRILLAZIONE VENTRICOLARE FV • TACHICARDIA VENTRICOLARE SENZA POLSO TV. • Sono e cause più frequenti di arresto cardiaco • L’unico trattamento salvavita è la DEFIBRILLAZIONE, che consiste nel far attraversare il cuore da una scarica di corrente elettrica sufficiente a depolarizzare una massa critica di miocardio al fine di ottenere un’attività elettrica organizzata. Il soccorritore smetterà il massaggio cardiaco esclusivamente se: • si modificano le condizioni del luogo, che non diventa più sicuro. In caso di grave pericolo il soccorritore ha il dovere di mettersi in salvo. • arriva l'ambulanza con medico a bordo o l'auto medica inviata dal 118. • arriva soccorso qualificato con una più efficace attrezzatura • è sfinito e non ha più forze (anche se in questo caso in genere si chiedono i cambi, in maniera tale da non interrompere il ciclo compressioni-insufflazioni). • il soggetto riprende le funzioni vitali. ASSISTENZA AL PZ. CON AVVELENAMENTO L’intossicazione è dovuta all’esposizione a una sostanza che determina effetti tossici. I sintomi sono variabili, ma alcune sindromi tipiche suggeriscono l’esposizione a particolari classi di sostanza tossiche. La maggior parte delle intossicazioni è dose-correlata. La dose è determinata dalla concentrazione nel tempo. L'intossicazione può derivare dall'esposizione a quantità eccessive di sostanze normalmente non tossiche. In alcuni casi, le intossicazioni sono causate dall'esposizione a sostanze che sono tossiche anche a dosi minimali. L'intossicazione viene distinta dall'ipersensibilità e dalle reazioni idiosincrasiche, imprevedibili e non dose-correlate, e dall'intolleranza, reazione a una sostanza utilizzata a un dosaggio normalmente non tossico. L'intossicazione è comunemente dovuta ad ingestione, ma si può manifestare anche per iniezione, inalazione o esposizione delle superfici corporee (p. es., cute, occhi, mucose). Molte sostanze non alimentari comunemente ingerite generalmente non sono tossiche; tuttavia, quasi tutte le sostanze possono determinare tossicità se ingerite in quantità eccessive. L'intossicazione accidentale è frequente tra i bambini, che, essendo curiosi, ingeriscono indiscriminatamente oggetti nonostante sapori e odori fastidiosi; generalmente, è coinvolta una singola sostanza. L'intossicazione è frequente anche tra bambini più grandi, adolescenti e adulti che tentano il suicidio; possono essere coinvolte diverse sostanze, compresi alcol, acetaminofene (paracetamolo) e altri farmaci da banco. L'intossicazione accidentale può manifestarsi in soggetti anziani per confusione, presbiopia, alterazione dello stato mentale o prescrizioni multiple di uno stesso farmaco da parte di differenti medici. Talvolta, l'intossicazione avviene a scopo criminale da parte di qualcuno che intende uccidere o debilitare le sue vittime (p. es., violenza sessuale o furto). Le sostanze usate per debilitare un individuo (p. es., scopolamina, benzodiazepine, gamma-idrossibutirrato) possiedono proprietà sedative o amnesiche o entrambe. Raramente, genitori con conoscenze mediche avvelenano i propri figli per provocare una malattia per motivi psichiatrici poco chiari oppure per attirare l'attenzione del medico (un disturbo chiamato disturbo fittizio imposto su un altro [precedentemente nota come sindrome di Munchausen per procura]). Dopo l'esposizione o l'ingestione e l'assunzione, la maggior parte delle sostanze tossiche viene metabolizzata, attraversa il tratto gastrointestinale e viene escreta. Occasionalmente, le compresse (p. es., aspirina, ferro o farmaci gastroresistenti) formano grosse concrezioni (bezoari) nel tratto gastrointestinale, dove tendono a rimanere, determinando tossicità dovuta al continuo e prolungato assorbimento. SINTOMATOLOGIA La sintomatologia dell'avvelenamento varia in base al tipo di sostanza. Inoltre, i pazienti intossicati da una stessa sostanza possono presentarsi con sintomi molto differenti tra loro. Tuttavia, in genere, si manifestano comunemente 6 gruppi di sintomi (o sindromi tossicologiche tipiche, tossidromi) che orientano verso un'intossicazione causata da specifiche classi di sostanze. I pazienti che ingeriscono più sostanze presenteranno con minori probabilità i sintomi caratteristici dell'intossicazione tipica di una singola sostanza. a sintomatologia tipicamente inizia subito dopo l'esposizione alla sostanza tossica, ma in alcuni casi può essere ritardata. L'insorgenza ritardata dei sintomi si manifesta quando la tossicità è dovuta al metabolita e non alla sostanza originaria (p. es., metanolo, glicole etilenico, epatotossine). L'ingestione di epatotossine (p. es., acetaminofene [paracetamolo], ferro , funghi della specie Amanita phalloides ) causa un'insufficienza epatica acuta da uno o pochi giorni dopo l'esposizione. Nel caso di esposizione a metalli o solventi idrocarburici, i sintomi generalmente compaiono solo dopo esposizione cronica. Solitamente le tossine ingerite o assorbite causano sintomi sistemici. Le sostanze caustiche e corrosive in forma liquida provocano lesioni principalmente a carico delle mucose del tratto gastrointestinale (stomatiti, enteriti o perforazioni). Alcune sostanze tossiche (p. es., alcol, idrocarburi) provocano un'alitosi caratteristica. L'esposizione cutanea a sostanze tossiche causa numerosi sintomi acuti (p. es., eritema, dolore, vesciche); l'esposizione cronica determina dermatiti. Solitamente l'inalazione di sostanze tossiche idrosolubili (p. es., cloro, ammoniaca) provoca sintomi a livello delle vie aeree superiori, invece l'inalazione di sostanze tossiche poco idrosolubili (p. es., fosgene) determina lesioni a livello delle vie aeree inferiori e edema polmonare non cardiogeno. L'inalazione di monossido di carbonio, cianuro, o idrogeno solforato può causare danni d'organo di natura ischemica, arresto cardiaco o arresto respiratorio. L'esposizione oculare a sostanze tossiche (solide, liquide o sotto forma di vapori) determina lesioni a livello della cornea, della sclera e del cristallino, con dolore oculare, arrossamento e perdita della vista. Alcune sostanze (p. es., cocaina, fenciclidina, anfetamine) possono provocare intensa agitazione, che a sua volta può indurre ipertermia, acidosi e rabdomiolisi. -Sospettare un'intossicazione in pazienti con alterazione dello stato di coscienza o sintomi non altrimenti spiegabili -Anamnesi raccolta da tutte le fonti disponibili -Esami di laboratorio specifici Primo passo per la diagnosi di avvelenamento è la valutazione delle condizioni generali del paziente. Gravi intossicazioni richiedono un intervento d'urgenza per insorgenza di compromissione delle vie aeree o di arresto cardiorespiratorio. L'intossicazione può essere già diagnosticata in base alla presentazione clinica. Deve essere sospettata in presenza di sintomi non spiegabili, in particolare in caso di alterazione dello stato di coscienza (che può variare da irritazioni alla sonnolenza al coma). Nel caso di intossicazione intenzionale in un soggetto adulto, si deve sospettare il coinvolgimento di più sostanze. L'anamnesi è spesso lo strumento più utile. Poichéé molti pazienti (p. es., bambini che ancora non parlano, adulti suicidi o psicotici, soggetti con uno stato di coscienza alterato) non possono fornire informazioni attendibili, devono essere interrogati amici, parenti e personale di soccorso. Anche pazienti apparentemente attendibili possono riferire in modo non corretto il dosaggio o l'epoca dell'ingestione. Se possibile, devono essere ispezionati i luoghi in cui il paziente vive al fine di reperire indizi (p. es., contenitori di pillole parzialmente vuoti, messaggi correlati al suicidio, evidenza di abuso di droghe). Importanti informazioni sono ricavate dalle prescrizioni farmaceutiche e dalle cartelle cliniche. Nelle potenziali intossicazioni sul luogo di lavoro, devono essere accuratamente interrogati i collaboratori e i supervisori. Tutte le sostanze chimiche industriali hanno una scheda di dati di sicurezza della sostanza facilmente reperibile sul posto di lavoro; la scheda di sicurezza fornisce informazioni dettagliate sulla tossicità e su ogni specifico trattamento. L'esame obiettivo a volte rivela segni che suggeriscono l'esposizione a particolari tipi di sostanze (p. es., tossidromi), alitosi, presenza di farmaci topici, segni di puntura di aghi che fanno presupporre l'utilizzo di droghe, segni di abuso di alcol). Anche in presenza di un paziente sicuramente intossicato, l'alterazione dello stato di coscienza può derivare da altre cause (p. es., infezioni del sistema nervoso centrale, trauma cranico, ipoglicemia, ictus, encefalopatia epatica, encefalopatia di Wernicke), le quali devono essere prese in considerazione. Nei bambini più grandi, negli adolescenti e negli adulti che hanno ingerito un farmaco deve sempre essere considerato il tentativo di suicidio. Inoltre, i bambini condividono spesso pillole e sostanze trovate; deve essere condotta un'indagine accurata per identificare ulteriori pazienti potenzialmente avvelenati tra compagni di gioco e fratelli. Esami Nella maggior parte dei casi, gli esami di laboratorio sono di limitato aiuto. Gli esami standard, disponibili in urgenza per l'identificazione delle sostanze di più comune abuso (screening tossicologici) sono qualitativi e non quantitativi. Tali esami possono esitare falsi positivi o falsi negativi e dosano solo un numero limitato di sostanze. Inoltre, la positività per una sostanza d'abuso non implica necessariamente che la causa della sintomatologia del paziente sia da ascrivere a quella sostanza (ossia, un paziente che ha recentemente assunto un oppioide può infatti essere obnubilato a causa dell'encefalite piuttosto che della sostanza). Il più delle volte viene utilizzato lo screening urinario di farmaci, che ha un valore limitato e di solito identifica classi di farmaci o loro metaboliti, piuttosto che farmaci specifici. Per esempio, il test immunologico urinario per la ricerca di oppiacei non rileva metadone o fentanil ma reagisce con quantità molto piccole di analoghi di morfina o di codeina. Il test utilizzato per identificare la cocaina rileva un suo metabolita piuttosto che la cocaina stessa. Per la maggior parte delle sostanze, le concentrazioni plasmatiche non possono essere facilmente determinate oppure non sono di aiuto nella scelta della terapia. Per alcune sostanze (p. es., acetaminofene [paracetamolo], aspirina, monossido di carbonio, digossina, etilene glicole, ferro, litio, metanolo, fenobarbital, fenitoina, teofillina), le concentrazioni plasmatiche possono aiutare nella scelta della terapia. Molti esperti raccomandano il dosaggio della concentrazione plasmatica di acetaminofene (paracetamolo) in tutti i pazienti con ingestioni miste in quanto l'assunzione di acetaminofene (paracetamolo) è frequente, spesso asintomatica durante le prime fasi ma con gravi effetti tossici tardivi che possono essere prevenuti mediante somministrazione di un antidoto. Nel caso di alcune sostanze, determinati esami di laboratorio (p. es., tempo di protrombina per un'intossicazione da warfarin, livelli di metaemoglobina per alcune sostanze tossiche) aiutano nella scelta del trattamento. Nei pazienti con alterazione dello stato di coscienza o parametri vitali anormali o che hanno ingerito specifiche sostanze tossiche, gli esami di laboratorio devono includere la valutazione degli elettroliti sierici, dell'azotemia, della creatinina sierica, dell'osmolarità sierica, della glicemia, degli studi di coagulazione e dell'emogasanalisi. Altri test (p. es., il livello di metaemoglobina, livello di monossido di carbonio, TC cervello) possono essere indicati per determinate veleni sospetti o in determinate situazioni cliniche. In alcune intossicazioni (p. es., da ferro, piombo, arsenico, altri metalli, ovuli di cocaina o altre droghe illecite ingerite dai cosiddetti body packers), l'esame RX addominale diretto può mostrare la presenza e localizzare le sostanze ingerite. Nelle intossicazioni da farmaci con attività cardiovascolare o da sostanze sconosciute, sono indicati l'EEG e il monitoraggio cardiaco. Se i livelli ematici di una sostanza o i sintomi di tossicità aumentano dopo un'iniziale riduzione o persistono per un tempo insolitamente lungo, si deve sospettare la presenza di bezoari, preparazioni a rilascio prolungato o una riesposizione (ossia, esposizione ripetuta e occulta a droghe d’abuso). TERAPIA -Terapia di supporto -Carbone attivato in caso di gravi intossicazioni per ingestione -Uso di antidoti specifici o dialisi, se necessari -Svuotamento gastrico, solo in specifici casi I pazienti con una grave intossicazione richiedono ventilazione assistita o terapia per arresto cardiovascolare. I pazienti con stato di coscienza alterato richiedono monitoraggio continuo o misure contenitive. La trattazione della terapia delle intossicazioni specifiche è generale e non comprende le complessità e i dettagli specifici. La consulenza specialistica con un centro antiveleni è raccomandata per ogni intossicazione eccetto quelle più lievi e comuni. Stabilizzazione iniziale Mantenimento delle vie aeree, della respirazione e della circolazione Naloxone EV Glucosio e tiamina EV Liquidi EV, a volte vasopressori Le vie respiratorie, la respirazione e la circolazione devono essere mantenute nei pazienti con sospetto avvelenamento sistemico. I pazienti senza pulsazioni o pressione arteriosa richiedono rianimazione cardiopolmonare in emergenza. Se i pazienti presentano apnea oppure ostruzione delle vie aeree (p. es., corpi estranei nell'orofaringe, alterato riflesso faringeo), si pratica l'intubazione endotracheale. Se i pazienti presentano depressione respiratoria o ipossia, si somministra ossigeno supplementare o si esegue una ventilazione meccanica a seconda delle necessità. Il naloxone EV (2 mg negli adulti; 0,1 mg/kg nei bambini; in alcuni casi possono essere necessarie dosi fino a 10 mg) deve essere somministrato nei pazienti con apnea o grave depressione respiratoria, pur mantenendo un'assistenza respiratoria. Nei tossicodipendenti che fanno uso di oppiacei, il naloxone può scatenare astinenza, condizione in ogni caso preferibile rispetto alla depressione respiratoria grave. Se persiste la depressione respiratoria, nonostante l'uso del naloxone, sono necessarie l'intubazione endotracheale e la ventilazione meccanica. Se il naloxone risolve la depressione respiratoria, i pazienti devono essere monitorati; se la depressione respiratoria si ripresenta, i pazienti devono essere trattati con un altro bolo di naloxone EV o con intubazione endotracheale e ventilazione meccanica. È stato proposto l'utilizzo di un'infusione continua di naloxone a basso dosaggio per mantenere la frequenza respiratoria senza far precipitare l'astinenza, ma in realtà può essere una pratica molto difficile da realizzare. Il glucosio EV (50 ml di una soluzione al 50% per gli adulti; 2 a 4 ml/kg di una soluzione al 25% per i bambini) deve essere somministrato a pazienti con coscienza alterata o depressione del sistema nervoso centrale, a meno che un'ipoglicemia sia stata esclusa dalla determinazione immediata della glicemia. La tiamina (100 mg EV) è somministrata con o prima del glucosio negli adulti con sospetta carenza di tiamina (p. es., alcolisti, i pazienti denutriti). I liquidi EV vengono somministrati per l'ipotensione. Se i liquidi sono inefficaci, può essere necessario un monitoraggio emodinamico invasivo per guidare la terapia con liquidi e farmaci vasopressori. Nella maggior parte dei casi di ipotensione indotta da sostanze tossiche, il vasopressore di prima scelta è la noradrenalina in infusione 0,5-1 mg/min EV, in ogni caso il trattamento non deve essere ritardato anche nel caso di immediata disponibilità di altri vasopressori. Decontaminazione topica Qualsiasi parte di superficie corporea (occhi compresi) esposta a una sostanza tossica deve essere abbondantemente lavata con acqua o soluzione fisiologica. Gli indumenti contaminati devono essere rimossi, inclusi calze, scarpe e gioielli. I patch topici e i sistemi di somministrazione transdermica vengono rimossi. Carbone attivato Il carbone attivato viene abitualmente somministrato, soprattutto in caso di ingestioni multiple o di sostanze non note. L'uso del carbone attivato espone il paziente a un rischio minimo (eccetto nel caso di vomito e inalazione) ma non è stato dimostrato che il suo impiego riduce la morbilità o la mortalità complessive. Il carbone attivato deve essere somministrato precocemente. Grazie alla sua configurazione molecolare e all'ampia superficie, assorbe la maggior parte delle sostanze tossiche. Dosi multiple di carbone attivato possono essere efficaci nel caso di intossicazioni causate da sostanze con ricircolo enteroepatico (p. es., fenobarbital, teofillina) e nel caso di preparazioni a rilascio prolungato. Il carbone attivato può essere somministrato a intervalli di 4-6 h in caso di intossicazioni gravi con alcune sostanze tossiche, tranne in caso di ridotta peristalsi. Il carbone attivato è inefficace nel caso di intossicazioni da sostanze caustiche, da alcol e da ioni (p. es., cianuro, ferro, altri metalli, litio). La dose raccomandata è pari a 5-10 volte la dose della sostanza tossica ingerita. Tuttavia, poichéé solitamente la dose della sostanza tossica ingerita non è nota, il carbone attivato si somministra con dosi pari a 1-2 g/kg, ossia tra 10-25 g nei bambini con età < 5 anni e tra i 50-100 g nei bambini più grandi e negli adulti. Il carbone attivato viene somministrato disciolto in acqua o in una bibita. La somministrazione può risultare sgradevole e induce il vomito in circa il 30% dei pazienti. Il carbone attivato può essere somministrato mediante sondino gastrico, ma deve essere usata cautela onde evitare complicanze causate dall'inserimento del sondino o da inalazione del carbone; i benefici potenziali devono essere superiori ai rischi. Il carbone attivato deve essere somministrato senza sorbitolo o altri lassativi, i quali non hanno alcun chiaro beneficio e possono causare disidratazione e alterazioni elettrolitiche. Svuotamento gastrico Lo svuotamento gastrico, che era bene accettato e sembrava efficace, non deve essere effettuato di routine. Non riduce la morbilità o la mortalità globali ed espone il paziente a rischi. Lo svuotamento gastrico deve essere preso in considerazione se può essere eseguito entro 1 h dall'ingestione di una sostanza che mette in pericolo la vita del paziente. Tuttavia, molte intossicazioni si manifestano troppo tardi e non sempre è chiaro se un'intossicazione è potenzialmente letale. Perciò, lo svuotamento gastrico è consigliato raramente ed è controindicato nel caso di ingestione di sostanze caustiche. La metodica preferita per lo svuotamento gastrico è rappresentata dalla lavanda gastrica. La lavanda gastrica può comportare delle complicanze, quali epistassi, inalazione, o, raramente, lesioni orofaringee o esofagee. Lo sciroppo di ipecacuana ha effetti imprevedibili, spesso causa vomito prolungato e potrebbe non rimuovere sufficienti quantità di sostanza tossica dallo stomaco. L'uso dello sciroppo di ipecacuana potrebbe essere giustificato nel caso di ingestione di una sostanza altamente tossica e se il tempo di trasporto al pronto soccorso è lungo, ma questa situazione è infrequente negli Stati Uniti e anche in Europa. La lavanda gastrica viene eseguita mediante instillazione di acqua nello stomaco tramite sondino e poi aspirata. Viene impiegato il sondino con sezione più larga tra quelli idonei (di solito > 36 French per gli adulti o 24 French per i bambini) in modo che possano essere recuperati frammenti di compresse. Se i pazienti presentano alterazione dello stato di coscienza o scarso riflesso faringeo, si esegue l'intubazione endotracheale prima della lavanda per prevenire l'inalazione. Ai pazienti, posizionati in decubito laterale sinistro, viene inserito il sondino attraverso la cavità orale, per prevenire l'inalazione. Poichéé il lavaggio talvolta spinge più distalmente le sostanze nel tratto gastrointestinale, i contenuti dello stomaco devono essere aspirati e deve essere instillata attraverso il sondino una dose da 25 g di carbone attivato immediatamente dopo l'inserzione. In seguito, vengono instillati boli (circa 3 ml/kg) di acqua di rubinetto e il contenuto gastrico viene recuperato per gravità o mediante una siringa. Il lavaggio deve continuare fino a che il liquido aspirato appare privo di sostanze; di solito devono essere instillati da 500 a 3000 mL di liquido. Dopo la lavanda, deve essere somministrata una seconda dose di 25 g di carbone attivato. Irrigazione intestinale Questa procedura determina il lavaggio del tratto gastrointestinale e teoricamente riduce il tempo di transito delle compresse. Non è dimostrato che l'irrigazione riduca la morbilità o la mortalità. L'irrigazione è indicata per una delle seguenti condizioni: -Alcune intossicazioni gravi dovute a farmaci a rilascio prolungato o sostanze che non sono assorbite dal carbone (p. es., metalli pesanti) -Ovuli di sostanze stupefacenti (p. es., pacchetti di eroina o cocaina rivestiti di lattice ingeriti da body-packer) -Sospetti benzoati Viene somministrata una soluzione di glicole polietilenico (non assorbibile) ed elettroliti, usata talvolta per pulire l'intestino per la colonscopia, a una velocità di 1-2 L/h negli adulti o di 25-40 mL/kg/h nei bambini fino a quando l'effluente rettale diviene limpido; questa procedura può richiedere molte ore o persino giorni. La soluzione solitamente viene somministrata mediante sondino gastrico, anche se alcuni pazienti, se motivati, possono bere spontaneamente grandi volumi. Diuresi alcalina La diuresi alcalina incrementa l'eliminazione degli acidi deboli (p. es., salicilati, fenobarbitale). Una soluzione che associa 1 L di soluzione glucosata al 5% con tre fiale da 50 mEq (50 mmol/L) di bicarbonato di sodio e 20-40 mEq (20-40 mmol/L) di potassio può essere somministrata a una velocità di 250 mL/h negli adulti e di 2-3 mL/kg/h nei bambini. Il pH urinario deve essere mantenuto > 8 e deve essere ripristinato il K. Si possono manifestare ipernatriemia, alcalemia e sovraccarico idrico, ma di solito non sono gravi. Tuttavia, la diuresi alcalina è controindicata nei pazienti con insufficienza renale. Dialisi • Sostanze tossiche comuni che possono richiedere la dialisi o l'emoperfusione comprendono: Glicole etilenico Litio Metanolo Salicilati Teofillina Queste terapie sono di minore utilità se la sostanza tossica è rappresentata da una molecola di grosse dimensioni o elettricamente carica (polare), se ha un grande volume di distribuzione (ossia, accumulata nel tessuto adiposo) o se è ampiamente legata alle proteine tissutali (come nel caso di digossina, fenciclidina, fenotiazina o antidepressivi triciclici). La necessità di ricorrere alla dialisi di solito è determinata sia dagli esami di laboratorio sia dalle condizioni cliniche del paziente. La dialisi comprende l'emodialisi, la dialisi peritoneale, e la dialisi lipidica (che rimuove le sostanze liposolubili dal sangue), l'emoperfusione (che rimuove più rapidamente ed efficacemente alcuni tossici). Antidoti specifici Per gli antidoti più comunemente utilizzati. I farmaci chelanti vengono usati in caso di intossicazione da metalli pesanti e occasionalmente da altri farmaci. Le emulsioni lipidiche EV a concentrazioni del 10% e del 20% e un'alta dose di insulinoterapia sono state usate per trattare con successo differenti sostanze tossiche a livello cardiaco (p. es., bupivacaina, verapamil). Misure di supporto La maggior parte dei sintomi (p. es., agitazione, sedazione, coma, edema cerebrale, ipertensione, aritmie, insufficienza renale, ipoglicemia) viene trattata con misure di supporto (vedi altrove nel MANUALE). L'ipotensione e le aritmie indotte da farmaci possono non rispondere ai consueti trattamenti farmacologici. Nel caso di ipotensione refrattaria sono necessari dopamina, adrenalina, altri farmaci vasopressori, contropulsazione aortica, circolazione extracorporea. Nel caso di aritmie refrattarie, è necessaria la stimolazione cardiaca con un pacemaker. In genere, la torsione di punta viene trattata con 2-4 g di solfato di magnesio EV, overdrive pacing o infusione titolata di isoproterenolo. Le convulsioni sono trattate di prima scelta con le benzodiazepine. Possono essere utilizzati anche il fenobarbitale o la fenitoina. La grave agitazione deve essere tenuta sotto controllo; possono essere necessarie benzodiazepine a dosi elevate, altri potenti sedativi (p. es., propofol), o, in casi estremi, anestetici generali, curarizzazione e ventilazione meccanica. L'ipertermia viene trattata con la sedazione e misure di raffreddamento fisico piuttosto che con gli antipiretici. L'insufficienza d'organo può richiedere come ultimo approccio il trapianto renale o il trapianto epatico. Ricovero ospedaliero Le indicazioni generali per il ricovero ospedaliero comprendono alterazione dello stato di coscienza, alterazione persistente dei segni vitali e tossicità tardiva prevedibile. Per esempio, il ricovero viene preso in considerazione se i pazienti hanno ingerito farmaci a rilascio prolungato, in particolare in caso di farmaci con effetti potenzialmente gravi (p. es., farmaci cardiovascolari). In assenza di altri motivi per il ricovero, se i test di laboratorio indicati sono nella norma e i sintomi regrediscono dopo un'osservazione di 4-6 h, la maggior parte dei pazienti può essere dimessa. Tuttavia, in caso di ingestione intenzionale, è necessaria una valutazione psichiatrica. TRACHEOSTOMIA La tracheostomia è il confezionamento di uno stoma che permette la comunicazione fra la parte superiore della trachea e l’ambiente esterno, dove viene posizionata una cannula che possiamo avere di diversi modelli e dimensioni in base alle esigenze del paziente. La gestione infermieristica della tracheostomia parte dalla conoscenza del presidio stesso: sapere se abbiamo a che fare con cannula cuffiata, non cuffiata o fenestrata, permette all’operatore di poter lavorare in sicurezza e consapevolmente. La stomia, quando viene confezionata, risulta essere una vera e propria “ferita” chirurgica e come tale va trattata; infatti, nelle prime 24-48 ore dall’intervento lo stoma va medicato con garze sterili che non vanno rimosse se non in caso di presenza di perdite di pus, muco, sangue. Dopo le prime 48 ore la medicazione va controllata ogni giorno rimuovendo la medicazione in sede: • verificando se ci sono segni di flogosi (rubor, tumor, dolor, calor, functio lesa) associati a perdite ematiche/sieroematiche, muco, pus • ripulendo con soluzione fisiologica e garze sterili la cute peristomale e solo in caso di infezione disinfettare con soluzione (es. iodopovidone) • posizionando la nuova medicazione in sede Esistono medicazioni avanzate, preformate appositamente per la tracheostomia, in TNT impregnata all'argento, per una maggiore antisepsi. Durante la procedura di medicazione della tracheostomia va prestata attenzione alla cannula, tenendola ferma dalla flangia esterna, evitando eccessive sollecitazioni della stessa per evitare di irritare e/o lesionare le pareti interne. La gestione della medicazione comprende anche la cannula stessa, che - come anticipato - può essere di diverso tipo per modello, dimensioni e caratteristiche. Tipologie di cannula trachestomica. Le cannule possono essere: • Cuffiate • Non cuffiate • e possono o meno essere: fenestrate e dotate di controcannula. Per le cannule cuffiate, dove il pallone si trova al terzo distale con sistema di gonfiaggio unidirezionale luer, è necessario conoscere la pressione di gonfiaggio della cuffia, solitamente compresa fra 18/25 mmHg; la cuffia presente nella cannula non va confusa come un pallone di ancoraggio, poichéé il suo scopo è quello di isolare completamente la parte inferiore e superiore della trachea. Ideale nei pazienti in ventilazione meccanica, così da non avere dispersioni durante la ventilazione, la quale non sarebbe altrimenti efficace, pazienti con alto rischio di ab-ingestis, così da evitare che il cibo raggiunga le basse vie aeree qualora invece dell’esofago dovesse imboccare la via respiratoria. La pressione deve essere controllata con manometro ad ogni medicazione per evitare che sia troppo sgonfia e quindi scongiurare quanto appena descritto; al contrario, che non sia troppo gonfia per evitare decubiti delle pareti tracheali. La controcannula, che si trova internamente alla cannula, ancorata ad essa con un sistema di fissaggio avvitabile, deve essere rimossa e lavata sotto acqua corrente, pulita con scovolini appositi per rimuovere le secrezioni interne e farla asciugare all’aria o utilizzando garze sterili, in modo da non lasciare residui di acqua che potrebbero, una volta ri-posizionata la controcannula, stimolare la tosse al paziente (se sono presenti due controcannule, queste possono essere conservate per 24 ore in soluzione fisiologica, all’interno di un contenitore, così da alternarle giornalmente). Un altro presidio presente e di assoluta importanza è il laccio di fissaggio; per mantenere la tracheostomia in sede è necessario che ci sia un sistema di fissaggio al collo del paziente, questo viene fatto utilizzando una fascetta apposita di materiale morbido e confortevole, che presenta due porzioni di velcro nella parte finale che servono per fissarlo in base alla dimensione del collo. Questo per evitare che la cannula si sposizioni, specialmente durante le medicazioni, durante l’atto della tosse, durante la ventilazione meccanica in cui i tubi di raccordo al ventilatore pesano e possono portare in avanti la cannula. Altri presidi annessi alla tracheostomia, da gestire e mantenere puliti sono: • Valvola fonatoria • Filtro scambiatore di umidità e calore con o senza raccordo per l’ossigenoterapia Umidificazione Pazienti portatori di tracheostomia sono soggetti a secchezza delle vie aeree considerando che durante la respirazione viene bypassata la via aerea superiore (mucosa del naso e della bocca) e l’aria o il gas medicale arriva direttamente alle basse vie aeree. Per ovviare a questo problema - che causa ai pazienti secchezza, cheratinizzazione, ostruzioni della cannula, infezioni - si utilizzano dei filtri scambiatori di umidità e calore (in gergo chiamati: “naso artificiale”), che a loro volta possono diventare un habitat ideale per i microrganismi, motivo per cui è importante che siano monitorati e sostituiti secondo le indicazioni della casa produttrice. Procedura di aspirazione L’aspirazione delle secrezioni bronchiali in pazienti portatori di cannula tracheostomica è una procedura che va eseguita quando necessario, poichéé invasiva e irritante per la mucosa, nonchéé quando si rilevano segni di ingorgo bronchiale: tosse eccessiva, fuoriuscita di muco dalla cannula, sospetto di ostruzione della cannula e conseguente difficoltà respiratoria tramite la valutazione di parametri vitali e segni, quali: tachipnea, alterazioni della meccanica respiratoria, colorito cutaneo, auscultazione dei campi polmonari, percezione tattile al torace di fremiti dovuti al passaggio di aria tra le secrezioni. La procedura deve essere fatta in modo asettico (guanti o guanto singolo sterile) con sondini da aspirazione sterili e monouso, del calibro adeguato al tipo di secrezioni che si devono aspirare, preparando un piccolo campo sterile al letto del paziente. Si inizia iper-ossigenando il paziente per 1 minuto prima e dopo per evitare ipossiemia procedurale, successivamente si procede lungo la cannula con il sondino “libero”, cioè non in aspirazione, si raggiunge la zona interessata e con movimenti rotatori, in aspirazione, si torna fuori aspirando le secrezioni. Al termine valutare sempre la quantità e la qualità di quanto drenato all’interno del contenitore dell’aspiratore, segnalando in cartella variazioni. Con la procedura di aspirazione, utilizzando circuiti idonei di raccolta, si possono prelevare campioni sterili di secreto per analisi laboratoristiche, specialmente in casi di sospetta infezione delle vie aeree. Tutto il materiale va smaltito secondo procedura aziendale, prestando particolare attenzione ai rifiuti infetti. TRACHEOTMIA La tracheotomia è una manovra di tipo chirurgico che consente una comunicazione diretta tra la trachea e l’ambiente esterno, escludendo in questo modo la zona più alta delle vie respiratorie (bocca, naso, faringe e laringe). È bene precisare che questa procedura si differenzia dalla tracheostomia in quanto, in quest’ultima, si opera una modificazione del tratto tracheale che non ne permette la chiusura spontanea nel giro di poco tempo. La tracheotomia chirurgica prevede che si pratichi un’incisione verticale o trasversale della cute e del connettivo sottocutaneo a livello dei primi anelli tracheali. Successivamente, si separano i muscoli sterno-ioidei e sternotiroidei incidendo il connettivo aponeurotico che li unisce sulla linea mediana e si pratica quindi una piccola soluzione di continuo sulla parete anteriore della trachea al di sopra (tracheotomia sopraistmica), al di sotto (tracheotomia sottoistmica), o attraverso (tracheotomia transistmica) l’istmo della ghiandola tiroide. Tracheotomia percutanea Per quanto concerne la tecnica percutanea, esistono attualmente due approcci differenti: quello anteriore e quello translaringeo. Tracheotomia percutanea anteriore Nel primo caso è prevista una puntura percutanea tra il secondo ed il terzo anello tracheale con un ago 18 G e l’avanzamento di una guida metallica attraverso il lume dell’ago. Successivamente sulla guida viene effettuata o una dilatazione con apposita pinza curva (tecnica Griggs) fino all’ottenimento di un tramite sufficiente per l’inserimento della cannula tracheotomica oppure vengono inseriti dei dilatatori di calibro crescente (tecnica Ciaglia) fino a quello corrispondente alla cannula che si vuole posizionare. Tracheotomia percutanea translaringea L’approccio translaringeo, invece, comporta sempre il posizionamento per via anteriore di una guida metallica che viene però fatta procedere all’interno del lume delle vie aeree per via retrograda fino all’orofaringe; sul capo prossimale di questa guida viene ancorata un’apposita cannula tracheotomica con l’estremità affilata che, tramite una trazione sul capo distale della guida metallica, viene fatta avanzare dilatando la parete anteriore della trachea nel punto di inserimento della guida stessa. Una volta che la maggior parte del corpo della cannula è stato esteriorizzato, la cannula viene fissata nella sua posizione finale. Indicazioni alla tracheotomia Le principali indicazioni alla tracheotomia possono attualmente essere raggruppate nelle seguenti categorie: • Ripristino della pervietà dello spazio respiratorio nei casi di ostruzione delle alte vie aeree • Necessità di ventilazione artificiale meccanica a lungo termine impraticabile in modalità non invasiva • Incapacità di mantenere il controllo delle prime vie aeree grazie ai riflessi protettivi (ad es. nei pazienti con gravi patologie neurologiche) • Mantenimento di una adeguata toelette delle vie aeree nei pazienti con inefficacia del meccanismo della tosse (patologie neuromuscolari e del midollo spinale). Tracheotomia, possibili complicanze La tracheotomia, come tutte le procedure invasive, comporta un rischio di potenziali complicanze, differenziabili in precoci, quindi insorte nel corso o subito dopo la procedura stessa e tardive, quindi verificatesi ad una certa distanza di tempo: • Complicanze precoci: emorragia, pneumotorace, enfisema sottocutaneo, ipossia e lacerazione della parete tracheale, decannulazione accidentale • Complicanze tardive: granulomi, stenosi tracheali, tracheomalacia, infezioni dello stoma, fistole tracheo-esofacee e tracheo-innominate (tra trachea e arteria anonima), decanullazione accidentale. Gestione della cannula tracheostomica e prevenzione delle complicanze Al fine di prevenire le infezioni e ridurre le complicanze tardive è importante che l’infermiere che assiste un paziente portatore di tracheotomia tenga costantemente monitorata la quantità di secrezioni prodotte, in quanto sarà proprio sua responsabilità valutare quante volte sostituire la controcannula e la metallina con taglio ad Y (ovvero la medicazione che evita il contatto tra cannula e le secrezioni da essa prodotta e la pelle del paziente) rispetto alla quantità di secrezioni prodotte (da due a più volte al giorno). È dunque auspicabile che siano sempre ben conservate nella stanza del paziente alcune controcannule pulite in un contenitore nominale. Pulizia della cannula Quando sostituita, le linee guida indicano come la cannula sporca debba essere immersa in acqua tiepida contenente un detergente enzimatico diluito secondo le indicazioni di ciascun prodotto per 5 minuti. La cannula viene quindi sciacquata (anche con l’aiuto di uno scovolino, se molto incrostata) e riposta in un contenitore a bagno con detergente disinfettante per almeno 30 minuti. Al termine di questo procedimento la cannula deve essere sciacquata con bidistillata sterile, asciugata e riposta dunque nel contenitore personalizzato. Tracheoaspirazione Un’ulteriore procedura che consente di prevenire le complicanze è quella della Tracheoaspirazione, la quale permette la rimozione delle secrezioni tracheali qualora queste siano abbondanti e possano costituire un rischio per il paziente. È importante sottolineare come questa delicata manovra non debba essere eseguita di routine ma solamente quando clinicamente necessaria. Per questo motivo le indicazioni sono molto strette e sono le seguenti: • Presenza di secrezioni visibili • Presenza di rumori respiratori all’auscultazione toracica • Sospetta inalazione di materiale gastrico • Incremento obiettivo del lavoro respiratorio • Peggioramento dei valori arteriosi dei gas nel sangue • Picchi di pressione inspiratoria durante la ventilazione con volume controllato o riduzione di volume corrente durante la ventilazione a pressione controllata • Cambiamenti nei grafici di pressioni e di flusso. La procedura di Tracheoaspirazione Nei pazienti ventilati meccanicamente è importante sottolineare come la sospensione della ventilazione per l’aspirazione causi un aumento dell’anidride carbonica disciolta nel sangue non rilevabile in tempo reale così come avviene per la saturazione periferica di ossigeno. Quindi è sempre consigliato eseguire un’aspirazione di breve durata, in quanto anche se non diminuisce in maniera importante la saturazione periferica di ossigeno, si determina un aumento significativo dell’anidride carbonica nel sangue. È inoltre sconsigliata la disconnessione del paziente dal ventilatore, così come anche la perdita di PEEP con il ritorno dei polmoni a pressione atmosferica è scoraggiata. ASSISTENZA ILEO E COLO-STOMIA La persona portatrice di stomia ha bisogno di un’assistenza infermieristica che abbracci a 360° la sua situazione, a partire dai momenti che precedono il confezionamento chirurgico dello stoma, per arrivare al periodo post-operatorio, passando per il supporto emotivo che l’aiuti a capire che è possibile avere una vita pressochéé normale anche da stomizzati. In questo processo risalta, fra le altre comunque imprescindibili, la componente educativa dell’assistenza infermieristica. Con il termine stomia è indicato il risultato di un intervento chirurgico per mezzo del quale viene creata un’apertura a livello addominale in grado di mettere in comunicazione l'apparato intestinale (stomie intestinali) o quello urinario (stomie urinarie) con l'esterno. Grazie a questo varco riprodotto chirurgicamente, feci o urine sono espulse al di fuori dall'organismo, nel caso in cui le vie naturali siano state compromesse per via di una severa patologia. Per quanto il confezionamento chirurgico di una stomia e la sua prima apparecchiatura rappresenti un trauma fisico e psicologico per via del mutamento dell'anatomia e delle abitudini quotidiane dello stomizzato, essa rappresenta in certi casi un'ancora di salvezza e l'unica soluzione per il miglioramento della qualità di vita di queste persone. Il processo di cura necessita di cure specialistiche multidisciplinari che prevedono, tra gli altri, la presa in carico del paziente da parte dell'infermiere stoma terapista, figura di recente formazione che ha rivoluzionato gli ambiti di cura dei pazienti stomizzati. In Italia si contano oltre 70 mila pazienti portatori di stomia. Il numero più alto di stomie confezionate è rappresentato dalle colostomie (55%), seguito da ileostomie (31%) e urostomie (14%). Tali procedure sono eseguite successivamente a operazioni chirurgiche demolitive per la cura di: • cancro del colon-retto • malattie infiammatorie dell'intestino • tumore della vescica • diverticoliti • megacolon • colite necrotizzante • anomalie congenite • occlusioni e perforazioni I pazienti stomizzati non sono pazienti invalidi, sono uomini e donne con una anatomia e dei comportamenti fisiologici differenti dal resto della comunità, ma tutto sommato gestibili e talvolta completamente indipendenti. Questa tipologia di utenti affronta, nel corso della vita, un percorso tortuoso che può portarli allo sconforto e al rifiuto della propria condizione di vita, soltanto una corretta educazione sanitaria ed un supporto psicologico continui da parte dei professionisti della salute e degli affetti possono condurli alla consapevolezza che nessuno stomizzato è un malato cronico, rendendo “la nuova vita” un'esistenza fiera e dignitosa. Educazione al paziente nel preoperatorio L'educazione al paziente che si appresta ad un intervento chirurgico che preveda il confezionamento di una stomia è un atto sanitario di fondamentale importanza. Con esso si avranno maggiori possibilità di compliance e adattamento alla nuova condizione fisica del paziente nel post-operatorio ed ha una certa rilevanza anche dal punto di vista medicolegale. I professionisti sanitari - medici, infermieri, psicologi - che si interfacciano con l'operando eseguiranno una valutazione anamnestica e fisica per ottenere il maggior numero di informazioni possibili, utili allo sviluppo di un piano di cura specifico che prenda in considerazione le sue esigenze e quelle dei caregivers. Il piano terapeutico deve essere incentrato appunto sul paziente e non esclusivamente sulle necessità dei sanitari. L'utente dev'essere informato su tutti gli aspetti clinici e supportato psicologicamente per tutta la durata del ricovero sino ad ottenere una aderenza totale anche in seguito alla dimissione ospedaliera, al fine di garantire la continuità assistenziale. In sede di colloquio preoperatorio devono essere valutati e messi in discussione col paziente stesso, elementi cardine quali: • diagnosi e prognosi • piano chirurgico • storia clinica • storia sociale (occupazione, relazioni interpersonali, sessualità, pratiche culturali, ecc.) • abilità cognitive e psicomotorie • ambiente fisico, familiare e sociale • valutazione del grado di autogestione della stomia • individuazione della sede e della tipologia di stomia (disegno preoperatorio) Le cure specialistiche iniziano proprio nella fase del preoperatorio. Gli infermieri hanno il dovere di iniziare a educare i pazienti sulla varietà dei presidi necessari per la gestione della stomia e sulle procedure di svuotamento della sacca di raccolta. Per quanto questi interventi educativi siano incentrati con maggiore specificità nel postoperatorio, il processo educazionale deve coinvolgere fin da subito anche le famiglie, che hanno statisticamente un ruolo centrale nel processo di cura. Gli interventi educativi possono essere eseguiti anche attraverso la somministrazione di questionari, brochure e manuali. La curiosità del paziente dev'essere costantemente sollecitata; può essere utile fornire informazioni generali sull'anatomia del tratto digerente/urinario e sulla natura delle feci, in modo che l'utente abbia un quadro più chiaro della problematica. Egli, inoltre, dev'essere messo al corrente, già dal preoperatorio, sulle possibili complicanze, sui fattori di rischio e sulle figure professionali di riferimento. Educazione al paziente nel post-operatorio Il periodo post-operatorio è sicuramente il momento più difficile per un paziente stomizzato: il dolore in sede d'intervento e il malessere generale per l'insieme delle procedure terapeutiche, si uniscono alle alterazioni fisiche dovute al confezionamento della stomia, ponendo il malato in una condizione di disagio fisico e psichico che può sfociare nella depressione e nell'autosvalutazione, presupposti per un rallentamento del processo di cura. Le attività di supporto emotivo e psicologico e l'individuazione dei bisogni dell'utente continuano senza sosta nel post-operatorio. L'infermiere agisce sulla base della pianificazione preoperatoria e delle condizioni generali del paziente, identificando i fattori di rischio a seconda dei risultati dell'intervento chirurgico e predisponendo nuovi piani assistenziali individuando e contrastando i fattori di rischio. È utile ricordare come obesità, età avanzata, età neonatale, disturbi gastro-intestinali cronici e diabete mellito siano tra i principali elementi clinici predisponenti alle complicazioni per stomie, cute peristomale e gestione generale dello stoma. Il piano educativo nel post-operatorio ha lo scopo di formare il paziente ad una sana auto-cura dello stoma in modo da ridurre gli eventi avversi, tenendo presente che l'équipe ospedaliera e domiciliare rappresenta un saldo punto di riferimento. Il paziente alla dimissione deve essere in grado, per quanto possibile, di: • conoscere i dispositivi per la cura dello stoma • adattare i presidi in base alle esigenze, limitando il disagio dovuto ad odori e perdite incontrollate • saper sostituire le sacche di raccolta • avere consapevolezza della propria condizione fisica ed accettarla • modulare e adattare i nuovi comportamenti alla vita quotidiana prima del ricovero • riconoscere le modificazioni anomale della stomia e riferirle • seguire una dieta congrua ed equilibrata • gestire correttamente la terapia farmacologica Educazione terapeutica al paziente stomizzato Il piano terapeutico di un paziente stomizzato dev'essere individualizzato in base ai propri bisogni e a quelli della famiglia, oltre che all'eventuale comorbilità. Tutti gli interventi di educazione terapeutica sono mirati ad ottenere una complicance totale, a partire dalla predisposizione di un regime alimentare che prenda in considerazione età, peso, alterazioni del tratto digestivo e gusti personali. Il peso corporeo Il peso influisce negativamente sulla gestione delle stomie: raggiungere un peso forma ideale aiuta tantissimo a prevenire le complicanze, ma non sempre è una meta facile da raggiungere. La corretta masticazione dev'essere incoraggiata per evitare casi di malassorbimento e disagi nell'eliminazione. Alcuni cibi possono aiutare ad addensare o sfaldare le feci per prevenire problemi dovuti a diarrea, stipsi e occlusioni. L'eliminazione di feci può essere controllata e favorita dall'irrigazione della stomia attraverso precisi dispositivi, questa pratica ha riscosso una buona adesione fra gli utenti stomizzati, migliorando determinati aspetti quotidiani. Non è inusuale la prescrizione di integratori per migliorare l'assorbimento di elementi indispensabili come, ad esempio, il potassio. Cute peristomale La valutazione della cute peristomale dev'essere quotidiana e il paziente deve saper riconoscere la differenza tra una cute sana e una cute irritata. Qualora si presentino delle alterazioni quali sanguinamento, modificazioni dello stoma, arrossamenti è fondamentale la consulenza con un infermiere enterostomia. Una cute irritata, oltre a provocare dolore, può determinare il distacco delle sacche di raccolta, con la conseguente fuoriuscita di feci o urine che, alla lunga, possono causare ulteriori danni alla cute addominale circostante. Igiene quotidiana La stomia non è una ferita. Il paziente deve trattarla con cura, ma senza troppe paure. L'igiene quotidiana deve essere eseguita con sapone neutro a pH 5.5 e acqua tiepida, devono essere evitate manovre di sfregamento durante l'asciugatura e in caso di ileostomia è bene applicare una corretta quantità di pasta protettiva per via del pH decisamente acido del materiale effluente. La terapia farmacologica Anche la terapia farmacologica può necessitare di modificazioni. I pazienti con ileostomia o colostomia possono manifestare alterazioni nell'assorbimento dei farmaci a causa della diminuita lunghezza dell'intestino in seguito all'intervento chirurgico. Un utente che ritrova frammenti di capsule o pastiglie all'interno della sacca necessita, ove possibile, di un cambiamento della forma farmaceutica o di soluzioni che favoriscano l'assorbimento. Le supposte non devono essere prese in considerazione come forma farmaceutica semisolida: alcuni studi evidenziano come risultino inefficaci se inserite in una stomia a causa del limitato tempo di stazionamento all'interno di quella porzione di intestino. Alcuni farmaci possono provocare alterazioni del colore delle feci e delle urine; il paziente deve conoscere gli effetti dei farmaci che assume sulla stomia e su questo aspetto risulta molto utile la consulenza di un farmacista. TRIAGE Il Triage è una delle molteplici competenze dell’infermiere che lavora in Pronto soccorso e consiste in una rapida valutazione della condizione clinica dei pazienti e del loro rischio evolutivo attraverso l'attribuzione di una scala di codici colore volta a definire la priorità di trattamento. I codici di priorità di accesso all’area del trattamento sono stati codificati nelle Linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero (2019) e prevedono l’utilizzo di un sistema di codifica a 5 codici numerici di priorità, con valori da 1 a 5. L'implementazione della codifica a 5 codici numerici di priorità e il conseguente superamento della codifica con i codici colore dovrà avvenire progressivamente entro 18 mesi dalla pubblicazione del documento. Tra le molte definizioni di Triage, quella che meglio ne descrive l’attività è fornita dall’American College of Surgeons, secondo il quale “il triage consiste nell’attribuzione dell’ordine di trattamento dei pazienti sulla base delle loro necessità di cura e delle risorse disponibili”. È importante ricordare come lo stabilire la priorità di accesso all’area di trattamento non significhi porre una diagnosi, ma individuare quali pazienti abbiano bisogno di cure immediate e quali possono differire la valutazione medica. Questo procedimento richiede di soddisfare, in particolare, tre criteri: • Rapidità: il tempo accesso-codifica di triage deve essere breve • Sensibilità elevata e specificità sufficiente: tutti i pazienti potenzialmente critici devono essere identificati • Logica organizzativa: va perseguita una organizzazione che con un adeguato utilizzo delle risorse produca il rispetto di tempi e standard gestionali Nella legislazione italiana il Triage compare nel 1996, in particolare tramite l'attuazione del decreto n.76/1992, il quale afferma come in ogni dipartimento di emergenza e accettazione debba essere prevista questa funzione come primo momento di accoglienza e valutazione dei pazienti afferenti al Pronto soccorso. Tale funzione – recita il decreto - è svolta “da personale infermieristico adeguatamente formato, che opera secondo protocolli prestabiliti dal dirigente del servizio”. Gli obiettivi principali che deve perseguire l’attività di Triage in Pronto Soccorso Individuare i pazienti urgenti e inoltrarli immediatamente all’area di trattamento e/o all’avvio di specifici percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali Attribuire a tutti i pazienti un codice di priorità che regoli l’accesso alle cure in relazione alla gravità delle condizioni e al potenziale rischio evolutivo Oltre a questi, il triage si pone anche una serie di obiettivi “accessori”, che contribuiscono a migliorare la qualità del servizio prestato dal sistema: • Determinare l’area più appropriata per il trattamento • Mantenere e migliorare l’efficacia complessiva della struttura di Pronto soccorso • Ridurre lo stato d’ansia delle persone che si rivolgono alla struttura • Valutare periodicamente le condizioni dei pazienti in attesa La formazione dell'infermiere triagista Per permettere all’infermiere l’acquisizione delle competenze necessarie, il percorso per arrivare alla postazione di triage non è immediato. Le Linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero, pubblicate dal Ministero della Salute e recepite dalla Conferenza Stato Regioni nel 2019, stabiliscono che per accedere alla formazione di triage siano necessari due requisiti : Possedere un’esperienza lavorativa in Pronto soccorso di almeno sei mesi (periodo di prova escluso) Avere un titolo certificato alle manovre di supporto vitale di base nell’adulto e nel bambino. La formazione di accesso si concretizza con la partecipazione ad uno specifico corso teorico residenziale della durata minima di 16 ore e ad un periodo di affiancamento di durata non inferiore a 36 ore con un tutor esperto. Trascorso un periodo di lavoro sul campo di massimo sei mesi deve essere realizzato un ulteriore momento di verifica, al fine di dichiarare l’idoneità definitiva all’attività di triage. Una volta superato tutto ciò, si entra nella fase della formazione permanente del triagista, la quale è necessaria affinchéé lo stesso mantenga adeguate performance nello svolgimento di questa delicata attività. In questo si rende necessario che ogni Pronto Soccorso adotti un piano delle attività formative specifiche per il triage, stabilendo degli obiettivi formativi triennali. Il Triage nella pratica di tutti i giorni Da un punto di vista operativo, il Triage si sviluppa in tre principali fasi: 1. Valutazione del paziente “sulla porta”: si tratta di una valutazione pressoché visiva che si basa su come si presenta il paziente prima ancora di averlo valutato e di aver individuato il motivo di accesso. Questa fase permette di identificare sin dall’ingresso del paziente in Pronto Soccorso una situazione di emergenza che richieda un trattamento tempestivo e immediato. 2. Valutazione soggettiva e oggettiva: una volta escluse situazioni di emergenza, si procede con la fase della raccolta dati. La valutazione soggettiva prevede che, attraverso domande mirate, l’infermiere indaghi il sintomo principale, l’evento presente, il dolore, i sintomi associati e la storia medica passata. 3. Una volta identificato il motivo di accesso, viene condotta dal triagista la valutazione oggettiva, la quale si compone dell’esame fisico sul paziente integrato attraverso l’osservazione (guardare come appare il paziente), la misurazione dei parametri vitali e la ricerca specifica di informazioni che possono derivare da un esame localizzato del distretto corporeo interessato dal sintomo principale. Decisione di triage: si tratta di un processo molto complesso, in cui l’attribuzione del codice di priorità rappresenta solamente il primo passaggio. In questa fase, difatti, il triagista decide il percorso adeguato al paziente, attiva le risorse necessarie da introdurre per fronteggiare alle situazioni che di volta in volta si presentano, eroga la prima assistenza e la pianifica per l’attesa del paziente e attua tutte le attività necessarie a ridurre il rischio derivante dal prolungarsi dell’attesa. I codici di priorità di accesso all’area del trattamento sono stati codificati nelle Linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero (2019) e prevedono l’utilizzo di un sistema di codifica a 5 codici numerici di priorità, con valori da 1 a 5. Codifica di priorità e tempi di attesa Codice Numero Colore 1 Rosso 2 3 4 5 Arancione Azzurro Verde Bianco Denominazione Definizione Tempo massimo di attesa per l'accesso alle aree di trattamento Emergenza Interruzione o compromissione di una o più funzioni vitali Accesso immediato Urgenza Rischio di compromissione delle funzioni vitali. Condizione stabile con rischio evolutivo Accesso entro 15 minuti Urgenza differibile Condizione stabile senza rischio evolutivo con sofferenza e ricaduta sullo stato generale che solitamente richiede prestazioni complesse Accesso entro 60 minuti Urgenza minore Condizione stabile senza rischio evolutivo che solitamente richiede prestazioni diagnosticoterapeutiche semplici mono-specialistiche Accesso entro 120 minuti Non urgenza Problema non urgente o di minima rilevanza clinica Accesso entro 240 minuti EMODIALISI L’obiettivo della dialisi non è sostituire tutte le funzioni del rene, ma depurare l’organismo dalle sostanze tossiche che si accumulano nel sangue a seguito della perdita della funzione escretoria, ripristinare l’equilibrio idro-elettrolitico, controllare l’acqua corporea, che non viene più eliminata adeguatamente e, infine, ripristinare l’equilibrio acido-base. Che cos'è l'emodialisi? Le principali funzioni del rene sono il controllo dell’equilibrio idro-elettrolitico, il controllo dell’equilibrio acido-base - in quanto responsabile dell’escrezione sia degli acidi che delle basi non volatili e contribuisce a mantenere il pH ematico entro i range - l’eliminazione dei cataboliti azotati, il controllo del metabolismo calcio-fosforo, la funzione endocrina con la produzione di ormoni - quali l’eritropoietina, che stimola la produzione midollare dei globuli rossi, la renina, che innesca il complesso meccanismo del sistema renina-angiotensina per il controllo della pressione arteriosa - l’attivazione della vitamina D utile al riassorbimento intestinale di calcio, la mobilizzazione di calcio dall’osso, l’inibizione della sintesi di paratormone. L’insufficienza renale cronica è una complessa sindrome caratterizzata dalla progressiva e permanente perdita delle funzioni sopradescritte dei reni, classificata in 5 stadi a seconda della progressione del deterioramento della funzionalità renale, la quale si misura attraverso il valore del filtrato glomerulare. Nella fase terminale della malattia le opzioni terapeutiche, oltre che la terapia farmacologica di supporto, sono il trattamento sostitutivo insieme al trapianto renale. L’obiettivo della dialisi non è sostituire tutte le funzioni del rene, ma depurare l’organismo dalle sostanze tossiche che si accumulano nel sangue a seguito della perdita della funzione escretoria, ripristinare l’equilibrio idro-elettrolitico - poichéé alcuni elettroliti si accumulano pericolosamente come il potassio ed altri, invece, si riducono, come per esempio il calcio controllare l’acqua corporea, che non viene più eliminata adeguatamente e, infine, ripristinare l’equilibrio acido-base. Il procedimento depurativo avviene attraverso meccanismi chimico-fisici e si realizza grazie ad una membrana semipermeabile che consente il passaggio di acqua e particelle separando il sangue da una soluzione cosiddetta dializzante, nella quale vi è una concentrazione nota di soluti, i quali, per diffusione e/o convezione, si spostano da un compartimento (sangue) all’altro (dialisato). Per l’emodialisi le membrane utilizzate vengono assemblate sotto forma di capillari sintetici che formano il cosiddetto “filtro”, mentre per la dialisi peritoneale la membrana utilizzata è endogena ed è appunto la membrana peritoneale. L’emodialisi e l’infermiere esperto Il trattamento dialitico più utilizzato è l’emodialisi, che generalmente si esegue in centri ospedalieri ed è gestito da infermieri esperti. L’infermiere, dunque, è colui che è responsabile sia della gestione tecnica del Rene Artificiale dalla preparazione dell’apparecchiatura, alla gestione delle complicanze tecniche fino alla conclusione del trattamento - che della complessa gestione clinica del malato sottoposto al trattamento dialitico, che va dal corretto management dell’accesso vascolare (Fistola ArteroVenosa o CVC), passando per il monitoraggio dei parametri clinici e la cura della sfera relazionale, fino alla prevenzione e gestione delle complicanze intradialitiche fino al termine della seduta dialitica. Le fasi della seduta emodialitica Per meglio descrivere come si svolge la singola sessione si può suddividere l’attività dell’infermiere in tre fasi: Fase di preparazione 1. prende visione della prescrizione dialitica, che ovviamente è di competenza medica, sulla quale viene indicata la metodica utilizzata, la composizione del liquido di dialisi chiamato anche “bagno di dialisi”, tipologia e superficie del filtro, durata della seduta dialitica, peso ideale del paziente (poiché nel periodo interdialitico, a causa della perdita della diuresi, il paziente accumula liquidi in eccesso che vanno rimossi), tipo di accesso vascolare (Fistola Artero-venosa o CVC), tipo di anticoagulazione del circuito ematico, terapia farmacologica intradialitica; 2. predispone la documentazione sulla quale registrare i parametri del trattamento in corso; 3. prepara il materiale necessario sulla base della prescrizione e sulla tipologia del monitor utilizzato; 4. prepara l’apparecchiatura di dialisi: l’infermiere deve accertarsi che all’accensione del monitor ogni test venga superato e che l’apparecchiatura non presenti anomalie o allarmi e che sia stata eseguita correttamente la procedura di lavaggio e disinfezione. Effettuati i controlli si può procedere al montaggio delle linee ematiche e alla connessione delle soluzioni concentrate al monitor, affinchéé quest’ultimo prepari automaticamente la soluzione dializzante e proceda al riempimento delle linee ematiche con liquido di lavaggio e il sistema sia così completamente privo di aria. Fase intradialitica 1. l’infermiere accoglie il paziente, lo fa accomodare sul letto-bilancia, esegue l’accertamento infermieristico sullo stato di salute nel periodo interdialitico, rileva il peso corporeo e i parametri vitali e li registra sulla cartella di dialisi; 2. indossa i Dispositivi di Protezione Individuali (occhiali protettivi, visiere, mascherine); 3. gestisce l’accesso vascolare: sia che si tratti della puntura della Fistola Artero-Venosa che del CVC, la procedura deve essere effettuata con tecnica asettica; 4. esegue eventuali prelievi ematici di controllo prescritti; 5. connette il paziente al circuito extracorporeo e avvia il trattamento dialitico, posizionando correttamente le linee ematiche per evitare il rischio di disconnessioni accidentali, che possono causare la perdita massiva di sangue; 6. rileva ad intervalli regolari tutti i parametri vitali del paziente (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, calo del peso corporeo) al fine di prevenire l’insorgenza di eventuali complicanze; 7. controlla i valori riportati dal monitor per quanto concerne il buon funzionamento dell’accesso vascolare e lo stato di efficacia del trattamento; 8. durante il trattamento l’infermiere non deve allontanarsi dalla sala dialisi per valutare lo stato di coscienza del paziente poiché si possono presentare complicanze improvvise e imprevedibili. Complicanze intradialitiche 1. ipotensione arteriosa, che causa un forte malessere fino alla perdita di conoscenza per cui è necessario un intervento efficace e tempestivo da parte dell’infermiere. Può essere dovuta alla riduzione della volemia in seguito alla eccessiva o repentina sottrazione di acqua durante il trattamento, a cause cardiache come alterazioni della frequenza cardiaca, variazioni dell’osmolarità plasmatica, ecc.; 2. ipertensione arteriosa; 3. aritmie dovute allo spostamento di elettroliti, soprattutto del potassio; 4. nausea e vomito, che possono avere svariate cause che vanno dalla crisi ipotensiva, sindrome da squilibrio, reazioni a farmaci, ipoglicemia, ecc.; 5. crampi, che possono essere generalizzati o localizzati: i crampi generalizzati sono molto rari e nell’ipotesi più grave possono essere causati da embolia gassosa; i crampi localizzati (generalmente al polpaccio) sono indice di una ultrafiltrazione troppo eccessiva oppure ad iponatriemia; 6. dolori addominali; 7. febbre, che può essere indice di contaminazione del circuito extracorporeo oppure una infezione correlata all’accesso vascolare; 8. ipotermia: i pazienti possono avvertire freddo dovuto alla circolazione extracorporea; 9. coagulazione del circuito extracorporeo; 10. complicanze più rare, come embolia gassosa o emolisi. Fase conclusiva e post-dialitica 1. terminato il trattamento l’infermiere indossa i Dispositivi di Protezione Individuale e inizia la procedura di restituzione del sangue extracorporeo; 2. gestisce l’accesso vascolare: per la Fistola Artero-Venosa rimuove gli aghi fistola e procede al tamponamento; per il CVC esegue il lavaggio e la chiusura del catetere come previsto dai protocolli in uso; 3. prima di dimettere il paziente, l’infermiere valuta le sue condizioni: stato di coscienza, parametri vitali, stato dell’accesso vascolare; 4. procede allo smontaggio delle linee ematiche e alla loro rimozione; 5. valuta la corretta sanificazione delle parti esterne dell’apparecchiatura di dialisi e del letto-bilancia; 6. esegue le procedure di lavaggio e disinfezione del circuito interno del monitor per dialisi seguendo le indicazioni dell’apparecchiatura stessa. L’infermiere deve garantire e controllare che il ciclo di lavaggio e disinfezione vada a buon fine e che non ci siano allarmi. ASSISTENZA AL PZ. CON DISPNEA il nostro approccio al paziente dovrà seguire una metodica tesa ad individuare rapidamente e a trattare immediatamente tutte le condizioni potenzialmente pericolose per la vita del paziente, secondo il ben noto acronimo ABCDE delle funzioni vitali, lasciando inizialmente in secondo piano l’accuratezza diagnostica. A-Airway: valutazione della pervietà della via aerea B-Breathing: valutazione del respiro C-Circulation: valutazione del circolo D-Disability: valutazione dello stato neurologico E-Exposure: rapida valutazione testa-piedi Paziente dispnoico in emergenza: Osservazione iniziale L’osservazione iniziale - quadro di presentazione e valutazione primaria (ABCDE) – ci permetterà una prima sommaria valutazione delle condizioni cliniche del paziente: sick or not sick per gli anglosassoni: apparentemente grave o non grave. A questo punto si dovrà eseguire un esame obiettivo (e.o.) mirato sul sintomo di presentazione e non sul solo distretto corporeo a carico del quale il paziente lamenta la propria sintomatologia. Ciò significa che in un paziente dispnoico, ad esempio, l’esame obiettivo mirato potrà essere esteso anche alle gambe per cercare, nel sospetto di embolia polmonare (TEP), segni di trombosi venosa profonda (TVP). Gli acronimi dell’emergenza: Sampler e Opqrst All’esame obiettivo mirato seguirà la raccolta anamnestica basata sugli acronimi SAMPLER ed OPQRST, quest’ultimo utile ad indagare al meglio la S del SAMPLER, cioè il segno od il sintomo di presentazione. S: segni/sintomi A: allergie M: medicinali/farmaci assunti dal paziente P: past and pertinent medical history: anamnesi patologica remota pertinente al quadro clinico attuale L: last oral intake: ultima assunzione di cibo E: eventi accaduti prima dell’insorgenza del sintomo R: risk factors: fattori di rischio I Segni e Sintomi (S) vengono indagati tramite OPQRST: O: onset: esordio P: palliation/provocation: cosa fa aumentare o ridurre la sintomatologia Q: qualità, caratteristiche del sintomo R: radiation: irradiazione S: severity: intensità del sintomo T: time, durata del sintomo Infine, si passerà ad un esame obiettivo dettagliato che, unitamente ai dati finora raccolti ed agli ausili diagnostici a nostra disposizione, ci permetterà di formulare una diagnosi accurata e di impostare la specifica terapia. Il nostro ragionamento sarà dunque, procedendo nella valutazione del paziente, quello di restringere sempre più il campo delle possibili diagnosi differenziali. Focalizzandoci sui disturbi respiratori iniziamo col dire che questi, in valutazione primaria, possono dipendere da problemi in A, B, C, D. Problemi in A: Segni di ostruzione delle vie aeree In A, una totale o parziale occlusione della via aerea deve essere immediatamente riconosciuta e trattata. È in assoluto la prima priorità nella valutazione e nella gestione di qualsiasi paziente. Segni di ostruzione della via aerea sono rumori respiratori quali stridore, russamento, rantoli; scialorrea, impossibilità a parlare, alterazione del tono della voce. Attenzione ai pazienti nei quali l’ostruzione della via aerea può manifestarsi in maniera subdola, come negli ustionati, pazienti con reazione anafilattica o con processi flogistici a carico delle alte vie aeree. Una via aerea a rischio deve essere messa in sicurezza; il gold standard è rappresentato dal posizionamento di un tubo cuffiato in trachea. Da ricordare che i pazienti in coma (GCS<9), perdendo i riflessi di protezione della via aerea, hanno per definizione la via aerea a rischio di ostruzione e necessitano della sua gestione avanzata. Problema in B Logicamente molti dei pazienti dispnoici avranno un problema in B. La valutazione di B può essere condotta secondo l’acronimo OPACS (Osservo, Palpo, Ausculto, Conto, Saturimetria). Innanzitutto, ispezione ed osservazione del torace per valutare la simmetria dei movimenti respiratori dei due emitoraci e l’eventuale presenza di anomali pattern ventilatori; ricordiamoci che in questo momento della valutazione ci interessano alterazioni macroscopiche, ad esempio se un emitorace sia fermo e non partecipi alla dinamica della ventilazione. La palpazione ci farà individuare la possibile presenza di enfisema sottocutaneo, l’auscultazione sui 4 campi, 2 apici e 2 basi polmonari, se esista passaggio di aria su tutto l’ambito o se invece il murmure vescicolare (MV) sia assente o estremamente ridotto su uno o più campi, oltre alla presenza di grossolani rumori aggiunti, quali rantoli o segni di broncospasmo. L’assenza di MV implica 3 possibilità: o broncospasmo completamente serrato o nello spazio pleurico esiste qualcosa che non dovrebbe esserci come aria (PNX) o liquido, massivo versamento pleurico per sangue (emotorace) o essudato/trasudato. Il conteggio della frequenza respiratoria (FR, normale tra 12-15 atti/m’) e la saturimetria (SO2) completano la valutazione di B. Problemi di B alla base della dispnea possono essere: pneumotorace, crisi asmatica, polmonite, riacutizzazione di Bpco, Ards, versamento pleurico, contusione polmonare conseguente a trauma. Trovato un problema in B occorrerà risolverlo prima di procedere con la restante valutazione; PNX e versamento pleurico massivo andranno drenati, Ards e Bpco riacutizzata trattati con ventilazione non invasiva e, in caso di insuccesso tramite intubazione tracheale e ventilazione invasiva, crisi asmatica e Bpco gestite con somministrazione di Beta 2 agonisti short acting per via inalatoria. Logicamente il primo atteggiamento terapeutico in tutte le situazioni di difficoltà respiratoria sarà sempre la somministrazione di O2 che, nelle prime fasi del trattamento di un paziente ipossico, con SO2 <92%, sarà sempre ai massimi flussi ed alla massima concentrazione possibili. Nelle fasi successive l’erogazione di O2 sarà tarata in rapporto all’evoluzione del quadro clinico, alla patologia di base ed ai valori emogasanalitici. Problemi in C Molti problemi di C possono avere ripercussioni sul respiro: un edema polmonare acuto (Epa) sarà conseguenza di una primitiva patologia cardiaca (sindrome coronarica acuta, insufficienza cardiaca, miocardiopatie, vizi valvolari, ecc.). Un quadro di shock darà come segno precoce un incremento della frequenza respiratoria, così come una anemizzazione acuta. Un EPA andrà immediatamente trattato con CPAP o NIV, a seconda delle competenze personali e delle risorse a disposizione. Problemi in D In D lesioni midollari alte, fino a C4, provocheranno importantissimi problemi respiratori per la paralisi della muscolatura, in primis diaframma; un quadro di ipertensione endocranica si manifesterà, tra gli altri segni, con bradipnea. Quindi, alla fine della nostra rapida valutazione primaria avremo già un’idea, anche se grossolana, della possibile genesi della dispnea accusata dal paziente. Una rapida anamnesi mirata tramite SAMPLER ed OPQRST ci permetterà di sfoltire il campo delle diagnosi. Paziente dispnoico in emergenza: Indagini diagnostiche Contemporaneamente all’esame obiettivo mirato sarà immediatamente necessario avvalersi dell’ausilio di altri strumenti diagnostici. Andrà ottenuto un Ega, meglio se arterioso e venoso, dopo avere iniziato la somministrazione di O2 ed eseguita una POCUS (point of care ultrasonogrphy), cioè un esame ecografico bedside. Monitoraggio Ecg ed Ecg 12 derivazioni completeranno la nostra valutazione. Nell’Ega devono essere valutati i seguenti parametri, in quest’ordine: PO2, PH, PCO2, HCO3, BE e, se presenti, lattati. Fondamentale il calcolo del P/F, rapporto tra PO2 e percentuale di O2 inspirata, normale se >350 (idealmente >400); se P/F inferiore a 350, ipossiemia moderata; se inferiore a 200 ipossiemia severa; inferiore a 150 indicazione ad intubazione tracheale (IOT) e ventilazione invasiva. I valori normali dell'Ega Senza addentrarci troppo nella lettura ed interpretazione dell’Ega, ricordiamo soltanto come, per mantenere il Ph nei limiti fisiologici, al variare della componente acida (CO2) debba esistere una consensuale variazione della componente alcalina (HCO3) e viceversa. A seconda che la variazione di una delle due componenti sia acuta o cronica ci attenderemo un compenso diverso da parte dell’altra componente. In sostanza: Acidosi respiratoria acuta: ogni aumento di 10 mmHg di CO2, aumento di 1 mEq/L di HCO3 Acidosi respiratoria cronica: ogni aumento di 10 mmHg di CO2, aumento di 3.5 mEq/L di HCO3 Alcalosi respiratoria acuta: ogni diminuzione di 10 mmHg di CO2, riduzione di 2 mEq/L di HCO3 Alcalosi respiratoria cronica: diminuzione di 10 mmHg di CO2, riduzione di 4 mEq/L di HCO3 Acidosi metabolica: ogni riduzione di 1 mEq/L di HCO3, riduzione i 1.2 mmHg CO2 Alcalosi metabolica: ogni aumento di 1 mEq/L di HCO3, aumento di 0.5 mmHg CO2 Interpretazione Pocus, esame ecografico bedside Tramite la POCUS dovremo avere risposte del tipo “tutto o nulla” a nostre precise domande: esiste PNX? Esiste versamento pleurico? Esistono aree di interstiziopatia intese come incremento di linee B, cioè il polmone è nero, grigio, bianco? Se esistono queste aree di interstiziopatia, sono settoriali (polmonite, contusione polmonare) ubiquitariamente diffuse (Epa), diffuse a macchia di leopardo (ARDS)? Esiste versamento pericardico? È tamponante? Esiste sovraccarico del cuore destro? Esistono grossolani deficit della contrattilità miocardica? Il paziente è pieno o vuoto (misurazione della VCI allo sbocco in atrio destro e ella sua riduzione di calibro in inspirium per ottenere sommaria valutazione della pressione venosa centrale, PVC)? Esiste un aneurisma aortico? Esiste versamento peritoneale? Alla CUS (ecografia compressiva venosa), esiste TVP prossimale? Vari punti POCUS dovranno essere associati tra loro per ottenere una ipotesi diagnostica integrata, qualche esempio: obiettività polmonare negativa, in eco polmone nero, cuore DX dilatato (VDX>2/3 SX), VCI fissa e dilatata, CUS +: TEP polmone bianco per diffusa presenza di linee B, +/- versamento pleurico, VCI dilatata (elevata PVC), deficit contrattilità VSX: EPA da deficit sistolico polmone bianco +/- versamento pleurico, VCI piccola (bassa PVC): EPA da deficit diastolico paziente febbrile, in eco area settoriale di interstiziopatia +/- consensuale versamento pleurico: polmonite. L’approccio integrato valutazione primaria/SAMPLER-OPQRST/E.O. mirato/EGA/POCUS/ECG permetterà, nella grande maggioranza dei casi, una diagnosi presuntiva precisa. Trattamento terapeutico del paziente dispnoico in emergenza MV ridotto, broncospasmo, polmone nero alla POCUS: asma (o riacutizzazione di Bpco se anamnesi positiva in tal senso e pocus positiva per sovraccarico cuore dx; l’EGA sarà dirimente, mostrando, nel caso di BPCO riacutizzata, una acidosi respiratoria acuta su cronica). Terapia dell’asma in emergenza: O2 per SO2>/=92%; salbutamolo 5 mg (20 gtt) inalatorio, da ripetere fino alla risoluzione del quadro; se genesi anafilattica associare antistaminici (clorfenamina 10mg) ed H2 antagonisti (ranitidina 50 mg)) ev; in caso di peggioramento del quadro, adrenalina per via inalatoria (molto utile nei bambini, 1 mg ogni 4 Kg di peso corporeo), i.m. (1/2-1 fl im) o ev (1 mg portato a 100 cc; di questi infondere boli di 10 cc, da ripetere fino a normalizzazione del quadro). Febbre, crepitii settoriali, alla POCUS concomitante area di interstiziopatia: polmonite. Terapia: O2 per SO2>/=92%, precoce terapia antibiotica dopo avere ottenuto prelievi per emocolture (amoxicillina/acido clavulanico 2.2 gr in fisiologica 100 cc o Levofloxacina 500 mg ev) POCUS + per polmone bianco, cava dilatata, rantoli diffusi: Epa da deficit sistolico. Terapia: CPAP/NIV +/- nitroderivato ev in infusione continua e furosemide ev (attenzione, ricordare che la CPAP riduce già di suo il ritorno venoso al cuore incrementando la pressione intratoracica!) Rantoli diffusi, POCUS + per polmone bianco, VCI piccola: EPA da deficit diastolico. Terapia: CPAP +/- inotropi ev (dopamina, dobutamina). MV ridotto in un emitorace, alla POCUS assenza di sliding pleurico, presenza di lung point: PNX. Terapia: O2 + drenaggio pleurico. MV ridotto, versamento massivo alla POCUS: O2 + drenaggio pleurico. MV ridotto, broncospasmo, polmone nero in eco, cuore dx dilatato, PVC aumentata (VCI dilatata e con ridotta escursione in inspirium): Bpco riacutizzata. Terapia: NIV + salbutamolo 5 mg in aerosol, da ripetere in continuo se necessario. Di fronte ad un’insufficienza respiratoria acuta (IRA) ipossico-ipercapnia sarà fondamentale, per la successiva terapia, orientarsi tra edema polmonare acuto cardiogeno (Epac) e Bpco riacutizzata in quanto il primo può essere gestito con CPAP (più semplicemente) o con NIV, la riacutizzazione di Bpco necessita quasi sempre di NIV, potendo essere problematico il tentativo di trattamento con CPAP mancando, in tal modo, il supporto ventilatorio. Quindi: l’Ega sarà probabilmente in grado di indirizzarci, di fronte ad una acidosi respiratoria, verso un quadro acuto (Epac) o acuto su cronico (Bpco riacutizzata); quadro acuto: PO2 basa, PH ridotto, PCO2 elevata, HCO3 normali. Quadro acuto su cronico: PO2 basa, PH ridotto, PCO2 molto elevata, HCO3 elevati. In eco, EPAC polmone bianco, BPCO polmone nero. Terapia: EPAC: CPAP, PEEP 10, FiO2 elevata (almeno 50%, anche superiore nelle prime fasi) BPCO: NIV. Quando iniziare la NIV: PH<7.35; PCO2 >45; FR >25-30/m ’con distress respiratorio. Come iniziare la NIV: EPAP 5 (controbilancia la PEEP intrinseca dei pazienti con BPCO); IPAP 15 (cioè PS, pressione di supporto, 10); FiO2 per SO2 88-90% (21% +1-2 litri di O2); trigger basso. Per quanto riguarda la terapia antibiotica in urgenza in presenza di polmonite: non rischio di infezione da pseudomonas aeruginosa: amoxicillina/acido clavulanico oppure levofloxacina Rischio di infezione da pseudomonas: Levofloxacina oppure piperacillina/tazobactam o ceftazidime.