La Prima guerra mondiale

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Il delicato equilibrio tra le
potenze europee
La Prima guerra mondiale
FINLANDIA
NORVEGIA
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BELGIO
Atlantico
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Nuovi confini e nuovi
stati alla fine della
Prima guerra mondiale
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Cipro
(R.U.)
L’assetto dell’Europa prima e dopo la Prima guerra mondiale
3.1 Lo scoppio della
guerra
L’attentato di Sarajevo
ultimatum: intimazione
con cui uno Stato rende note
a un altro Stato le proprie
irrevocabili condizioni circa
una determinata questione,
minacciando di ricorrere alla
forza qualora tali richieste non
vengano soddisfatte entro un
dato tempo.
Il 28 giugno 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono dell’Impero d’Austria-Ungheria, e sua moglie Sofia
furono assassinati a Sarajevo, capitale della
Bosnia-Erzegovina. Autore dell’attentato
fu uno studente serbo-bosniaco, Gavrilo
Princip, membro di una organizzazione nazionalista che – con il sostegno di Belgrado
– rivendicava l’annessione della Bosnia alla
Serbia.
La decadenza inarrestabile dell’Impero
ottomano aveva scatenato gli appetiti della
Russia e dell’Austria-Ungheria sui Balcani:
la prima cercava uno sbocco sul Bosforo e
i Dardanelli per puntare poi al Mediterraneo, la seconda desiderava estendere i suoi
domini verso sud (e nel 1908 aveva già annesso unilateralmente proprio la Bosnia-Erzegovina). La situazione era complicata dal
gran numero di etnie diverse presenti nella
penisola e dal ruolo emergente della Serbia,
che desiderava unificare sotto le proprie insegne tutte le popolazioni slave del sud (gli
stessi serbi, i bosniaci, gli sloveni e i croati).
L’attentato di Sarajevo ebbe l’effetto di
esacerbare le tensioni e poche settimane
dopo – il 23 luglio – gli austro-ungarici inviarono a Belgrado un durissimo ultimatum .
La situazione dei Balcani si rivelò esplosiva perché inserita all’interno del delicato
equilibrio tra le potenze europee di inizio
Novecento. Nel vecchio continente si fronteggiavano due grandi sistemi di alleanze:
la Triplice Alleanza, nata nel 1882, che univa Austria-Ungheria, Germania e Italia, e la
Triplice Intesa, stipulata nel 1907 tra Francia, Regno Unito e Russia.
Molti erano i motivi di ostilità tra i governi. In primo luogo, gli Stati europei erano in
accesa concorrenza tra loro per l’accaparramento dei territori ancora colonizzabili, in
particolare in Africa e Asia; la necessità di
sostenere le ambizioni imperialistiche aveva di conseguenza spinto tutte le maggiori
capitali a varare imponenti piani di riarmo.
Gli apparati industriali nazionali erano inoltre in competizione per la conquista economica dei mercati internazionali, europei ed
extra europei. Infine, il nazionalismo sciovinista infiammava le opinioni pubbliche
borghesi e spingeva i governi a mostrarsi
aggressivi sul piano diplomatico e militare:
esempio più rilevante di questo atteggiamento era senza dubbio il vigore con cui
l’imperatore tedesco Guglielmo II aveva
accolto e promosso le istanze espansionistiche dei movimenti pangermanisti .
A partire dalla fine del XIX secolo e fino
al 1914, tutte le principali crisi internazionali erano state risolte per via diplomatica
e non avevano portato allo scontro militare
tra le grandi potenze europee: così era avvenuto, per esempio, nel caso delle due crisi
marocchine del 1905 e 1911 e dei pericolosi
fermenti dell’area balcanica. Tuttavia, dopo
l’attentato di Sarajevo la guerra sembrò un
passo non solo inevitabile ma addirittura
auspicato dagli europei. Infatti, allo scoppio delle ostilità il sentimento prevalente
dell’opinione pubblica di molti Stati europei, dominata dal nazionalismo, fu di tale
esaltazione che gli storici hanno parlato in
proposito di una «comunità d’agosto» tra le
genti del vecchio continente, una comunità
inconsapevolmente indirizzata all’autodistruzione.
A favore dell’intervento militare si dichiararono anche molti tra i maggiori partiti
socialisti europei, appoggiando l’entrata in
guerra dei rispettivi paesi e sancendo nei
fatti la fine della Seconda internazionale e
dell’ideale di unità tra le classi lavoratrici
d’Europa.
L’aspirazione all’unificazione di tutte le
genti di lingua tedesca in un unico stato;
il movimento che si basava su tale aspirazione si diffuse nel corso del XIX secolo
nel mondo germanico e giunse nel secolo
successivo, con il nazismo, alla teorizzazione della superiorità della razza ariana,
nella quale si identificava quella germanica.
[ I NODI DELLA STORIA p. 60]
Luglio 1914: una guerra
inevitabile
Dopo l’attentato si arrivò velocemente allo
scoppio delle ostilità: Vienna non ritenne
soddisfacente la risposta serba all’ultimatum del 23 luglio e cinque giorni dopo – il 28
luglio 1914 – dichiarò guerra al paese balcanico. Si mise allora in moto il meccanismo
inarrestabile delle alleanze contrapposte:
la Russia si schierò a fianco della Serbia, la
Germania accanto all’Austria-Ungheria; la
Francia a sua volta appoggiò la Russia. Il Regno Unito tentò disperatamente di arginare
la crisi per via diplomatica, ma il 4 agosto
le truppe tedesche violarono la neutralità del Belgio allo scopo di aggirare le posizioni
di frontiera dell’esercito francese. L’occupazione del Belgio indusse anche Londra
a schierarsi e il 5 agosto 1914 le più grandi
potenze europee si trovavano in guerra tra
loro.
Ad esse si aggiunsero col tempo molti
altri paesi, e la guerra assunse dimensioni
veramente mondiali. Accanto ai cosiddetti
«Imperi centrali» scesero in campo l’Impero ottomano e la Bulgaria. Con le potenze
dell’«Intesa» si schierarono invece Romania, Grecia, Giappone, Stati Uniti e, come
vedremo, l’Italia.
1870
pangermanismo:
movimento politico e
culturale nato nel XIX
secolo e mirante a riunire
tutti i popoli di origine
tedesca in un unico stato.
neutralità: è la
posizione politica di chi
non parteggia per nessun
contendente. La neutralità
del Belgio era garantita da
un trattato internazionale
del 1839 sottoscritto
anche dalla Germania.
J.E. Détaille , Il sogno, 1888, Parigi, Musée d’Orsay.
© Loescher Editore – Torino
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L’arciduca Francesco Ferdinando,
erede al trono d’Austria, e sua
moglie, l’arciduchessa Sofia,
vengono assassinati a Sarajevo,
«Domenica del Corriere», 1914.
© Loescher Editore – Torino
1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi
1895 I Lumière brevettano il cinematografo
1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright
1913 Ford introduce la catena di montaggio
1920
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L’Europa e il mondo nel primo Novecento
3.2 L’entrata in guerra
dell’Italia
L’iniziale neutralità italiana
L’Italia era legata a Germania e AustriaUngheria dal trattato della Triplice Alleanza, che aveva però un carattere difensivo.
L’ultimatum inviato alla Serbia dall’Austria,
senza peraltro alcun accordo con l’Italia, era
così dichiaratamente aggressivo, che Salandra, capo del governo, annunciò il 2 agosto
1914 che l’Italia sarebbe rimasta neutrale.
Il governo Salandra ritenne – almeno
all’inizio – la scelta della neutralità conveniente da diversi punti di vista. In primo luogo essa permetteva di continuare a commerciare liberamente con i paesi in guerra. In
cambio del non intervento, inoltre si potevano ottenere dalle due alleanze adeguati vantaggi territoriali. I politici, infine, tenevano
conto del fatto che la maggioranza dell’opinione pubblica e del Parlamento italiani
erano in generale a favore della pace.
Col passare dei mesi, i paesi dell’Intesa e
gli Imperi centrali aumentarono le pressioni su Roma affinché si schierasse e la scelta neutralista cominciò ad essere messa in
dubbio. Anche l’opinione pubblica si divise
progressivamente in opposte fazioni: neutralisti e interventisti.
Vignetta pubblicata sull’«Avanti!»
del 7 Agosto 1914.
territori irredenti:
erano i territori non
ancora «salvati»
e che rimanevano sotto
il dominio straniero:
in particolare Trento
e Trieste.
La divisione dell’opinione pubblica in Italia
Neutralisti e interventisti
Neutralisti
Cattolici, socialisti, liberali
(Giovanni Giolitti)
Interventisti
Nazionalisti (Gabriele
D’Annunzio), irredentisti
(Cesare Battisti),
repubblicani, radicali,
riformisti (Gaetano
Salvemini), rivoluzionari di
sinistra
Obiettivi
mantenere la pace; preservare
l’unità del movimento operaio
internazionale (socialisti)
Obiettivi
Ottenere una «purificazione
del mondo», un cambiamento
radicale; possibilità di guadagni
tramite ricche commesse militari
pubbliche
Neutralisti e interventisti
Il fronte di chi si opponeva alla discesa in
campo dell’Italia era multiforme. Neutralisti erano:
• i socialisti – al cui interno prevaleva la
corrente massimalista – che si opponevano alla guerra considerata un «borghese»
da cui operai e contadini non avrebbero
tratto alcun beneficio;
• i cattolici, che seguivano l’insegnamento
pacifista del papa Benedetto XV;
• i liberali facenti capo a Giovanni Giolitti,
il quale temeva una guerra lunga e l’impreparazione italiana al conflitto. Egli era
inoltre convinto che garantendo agli Imperi centrali la neutralità di Roma, l’Italia
avrebbe potuto ottenere per via diplomatica gran parte dei territori irredenti .
Interventisti erano:
• i nazionalisti, che miravano ad accrescere
attraverso la guerra il prestigio dell’Italia
come nuova grande potenza continentale;
• gli irredentisti, che desideravano l’annessione di Trento e Trieste per portare
a termine il processo di unità nazionale
cominciato con il Risorgimento;
l’entrata in guerra dell’Italia contro gli Imperi centrali entro un mese. Al termine del
conflitto il nostro paese avrebbe ricevuto
Trento, Trieste, l’Istria, il Tirolo meridionale
(Alto-Adige) e la Dalmazia settentrionale.
[Testimonianze  documento 5, p. 72]
Il Parlamento venne tenuto all’oscuro
delle trattative e messo di fronte al fatto
compiuto. Per la Camera, opporsi avrebbe
significato entrare in contrasto con il sovrano e con il governo – ormai apertamente
favorevoli alla guerra – ai quali spettava la
scelta delle alleanze del paese. Il monarca
e l’esecutivo erano inoltre rumorosamente
appoggiati, in quelle che la propaganda interventista chiamò le «radiose giornate» di
maggio, da un’opinione pubblica sempre
più incline al conflitto. Rifiutando ancora
di impegnarsi per l’intervento, la Camera
avrebbe aperto un grave conflitto istituzionale. Fu così che i deputati votarono, con la
sola eccezione del Psi, i pieni poteri a Salandra lasciandogli l’assoluta libertà di gestire
la discesa in campo dell’Italia. Il 24 maggio
1915 Vittorio Emanuele III annunciava l’entrata in guerra contro l’Austria-Ungheria.
• i repubblicani, i radicali e i socialisti riformisti, recentemente espulsi dal Psi,
tutti desiderosi di battersi per l’Europa
dei popoli, contro il dispotismo e contro
il militarismo degli Imperi centrali.
• i rivoluzionari di sinistra, che vedevano
nella guerra l’occasione per abbattere i
governi borghesi e capitalisti del vecchio
continente.
Il Patto di Londra e l’entrata in
guerra a fianco dell’Intesa
Papa Benedetto XV.
Gli interventisti, benché in minoranza, erano
appoggiati da influenti giornali come il «Corriere della Sera» e da prestigiosi intellettuali
come il meridionalista Gaetano Salvemini o
lo scrittore Gabriele D’Annunzio. Inoltre essi
contavano tra le loro fila il sovrano Vittorio
Emanuele III, i capi dell’esercito e il presidente del Consiglio, Antonio Salandra.
Salandra, dopo aver tentato inutilmente
le trattative con l’Austria, decise di prendere contatto con i governi dell’Intesa con cui
il 26 aprile 1915 concluse un patto segreto,
il Patto di Londra. L’accordo prevedeva, in
cambio di adeguate concessioni territoriali,
Antonio Salandra.
Soldati in trincea nella zona della Marna in un dipinto francese del 1917, Parigi, Musée de l’Armée.
3.3 Quattro anni di feroci
combattimenti
1914: dalla guerra di
movimento alla guerra
di posizione
Il piano tedesco prevedeva a ovest una rapida vittoria sulla Francia, prima che a oriente
la Russia mobilitasse il suo immenso esercito. Ciò avrebbe evitato alla Germania una
guerra su due fronti. La resistenza dei belgi
(attaccati dai tedeschi nonostante la dichiarazione di neutralità) e dei francesi superò
tuttavia le previsioni dei tedeschi. Giunte
ad appena quaranta chilometri da Parigi, le
armate tedesche vennero fermate sul fiume
Marna, tra il 6 e il 12 settembre; il fronte allora si stabilizzò lungo una linea che correva
per 800 chilometri dalle coste del Mare del
Nord alla Svizzera.
A est, le cose non andarono meglio per gli
Imperi centrali. Nelle due grandi battaglie di
Tannenberg e dei Laghi Masuri (nell’odierna Polonia), tra agosto e settembre, i tedeschi riuscirono a fermare l’avanzata dei russi
verso la Germania. Contemporaneamente,
però, Vienna perse la Galizia (nelle attuali
Ucraina e Polonia) e dovette attestarsi sulla
difensiva.
Nel giro di pochi mesi svaniva la speranza
di una vittoria rapida e appariva concreta,
invece, la prospettiva di un lungo e logorante conflitto. Lo scontro su due fronti temuto
dai tedeschi era divenuto realtà.
© Loescher Editore – Torino
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1870
La Prima guerra mondiale
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1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi
1895 I Lumière brevettano il cinematografo
1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright
1913 Ford introduce la catena di montaggio
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L’Europa e il mondo nel primo Novecento
Il 1915 e il 1916 furono anni di battaglie durissime che causarono centinaia di migliaia
di morti lasciando sostanzialmente inalterate le linee del fronte.
Sul fronte occidentale si combatté la
guerra di posizione. Era una guerra di profondo logoramento degli uomini e dei materiali. I soldati dei due schieramenti vivevano all’interno delle trincee, immersi nel
fango ed esposti al freddo, alle malattie e ai
colpi dell’artiglieria nemica. Quando riceveLe prime offensive sul fronte occidentale
Anversa
Bruges
Gand
Bruxelles
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Linea della guerra
di posizione
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Le alleanze e i fronti dopo le prime settimane di guerra
NORVEGIA
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Fronte nell’ottobre 1917
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L’offensiva austriaca dell’ottobre 1917
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Soldati appostati in trincea durante la Prima guerra mondiale.
© Loescher Editore – Torino
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Monte Coglians
Cortina
d’Ampezzo
Marmolada
Il fronte italiano: dall’Isonzo
a Caporetto
Sul fronte italiano, la guerra conobbe a lungo lo stesso andamento del resto d’Europa:
grandi battaglie dagli esiti non risolutivi che
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ALBANIA
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Fronti di guerra alla fine del 1914
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Triplice intesa
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Luigi Cadorna.
Le offensive italiane e austriache sul fronte meridionale
fino all’autunno del 1917
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Parigi
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R U S S I A
Berlino
La Prima guerra mondiale
nura. Si trattò di un’autentica disfatta, che
causò circa 400.000 morti e quasi 300.000
prigionieri, oltre alla perdita di quasi tutto
l’armamento leggero e pesante. Mentre ondate di profughi si riversavano nelle retrovie e il panico si impadroniva dell’opinione
pubblica del paese, solo la resistenza disperata dei soldati italiani – tra cui i cosiddetti
«ragazzi del 1899», soldati appena diciottenni – arrestò lungo il fiume Piave l’avanzata
austriaca. Gli alti comandi dell’esercito negarono le proprie responsabilità, addossando alla scarsa disciplina delle truppe le colpe della disfatta. Cadorna venne comunque
destituito pochi giorni dopo e sostituito dal
generale Armando Diaz.
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Château-Thierry
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sfociavano in un sanguinoso ed estenuante
conflitto di posizione.
Nel 1915, l’esercito italiano guidato dal
generale Luigi Cadorna si lanciò in ripetuti assalti contro le fortificazioni austriache
nella regione del fiume Isonzo e del Carso
senza ottenere apprezzabili avanzamenti
territoriali. Oltre 250.000 soldati persero la
vita nei primi mesi di guerra e apparve subito evidente l’inadeguatezza dell’armamento
ed equipaggiamento italiano.
Nel maggio 1916 furono gli austriaci a
lanciare contro l’Italia, ex alleato traditore,
la Strafexpedition («spedizione punitiva»).
Attaccando in Trentino, essi puntavano ad
attraversare l’altopiano di Asiago e penetrare così nella pianura veneta, ma, pur subendo gravi perdite, gli italiani riuscirono a
respingere l’offensiva proprio sull’altopiano
di Asiago. Più a est l’esercito di Cadorna riuscì anzi ad avanzare sul fronte dell’Isonzo e
ad espugnare in agosto la città di Gorizia.
Il 1917 si rivelò per l’Italia un anno drammatico. Tra il 23 e il 24 ottobre, l’Austria-Ungheria sferrò sul fiume Isonzo – con l’ausilio
di alcune divisioni tedesche – un potente
attacco contro le truppe italiane, stanche e
sfiduciate dopo oltre due anni di guerra. Il
fronte crollò a Caporetto (nell’odierna Slovenia) e gli austriaci dilagarono nella pia-
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LUSSEMBURGO
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Direttrici
dell’avanzata
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Limite massimo
dell’avanzata tedesca
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REGNO
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Dunkerque
Dover
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vano l’ordine di avanzare, le truppe si lanciavano in disperati attacchi verso la trincea
avversaria, che distava poche centinaia di
metri – a volte poche decine – ma le mitragliatrici falciavano inesorabilmente gran
parte dei soldati e l’assalto falliva. Per esempio, nell’attacco tedesco al forte francese di
Verdun (febbraio-dicembre 1916) caddero
800.000 uomini, mentre nell’assalto inglese
sulla Somme (luglio-novembre 1916) fu sacrificato un milione di soldati.
A oriente, il fronte si mantenne più mobile. La Russia perse nel 1915 la Polonia e
la Lituania. La Serbia, le cui rivendicazioni
erano all’origine della guerra, venne invasa
e sconfitta, e anche la Romania, che si era
affiancata all’Intesa, fu costretta dalla Germania alla resa.
Francia e Regno Unito riposero grandi
speranze in una spedizione navale contro
l’Impero ottomano. Ma l’impresa fallì: sbarcate nella regione degli Stretti, le truppe alleate dovettero ritirarsi dopo mesi di cruenti
combattimenti con i turchi. Un insuccesso
si rivelò anche il tentativo tedesco di spezzare il monopolio avversario sui mari: le flotte
di Germania e Regno Unito si affrontarono
alla fine di maggio del 1916 nella battaglia
dello Jütland, al largo della Danimarca, ma
lo scontro si risolse in un nulla di fatto.
Più efficace fu il blocco navale cui Regno Unito e Francia sottoposero la Germania per interrompere le indispensabili
forniture di materie prime e beni alimentari. Le flotte di Londra e Parigi riuscirono
a limitare l’afflusso di merci sul continente;
Berlino rispose con assalti indiscriminati
alle navi degli avversari, e giunse a colpire i
mercantili dei paesi neutrali carichi di aiuti
per l’Intesa. Questa strategia culminò con
l’affondamento del transatlantico Lusitania, avvenuto nel maggio 1915 ad opera di
un sommergibile U-20, che causò la morte
di circa 1200 persone. Parte dei passeggeri
era di nazionalità statunitense e l’evento si
rivelò diplomaticamente disastroso per la
Germania e contribuì a orientare in senso
antitedesco l’opinione pubblica americana.
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1915-1916: battaglie
sanguinose e inutili
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Offensive austro-tedesche
Fronte nell’ottobre 1917
Fronte nel dicembre 1917
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1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi
1895 I Lumière brevettano il cinematografo
1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright
1913 Ford introduce la catena di montaggio
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L’Europa e il mondo nel primo Novecento
Kaunas
Konigsberg
Stettino
Minsk
Danzica
Laghi Masuri
Tannenberg
IMPERO
TEDESCO
Bielostok
IMPERO RUSSO
Varsavia
Lodz
Breslavia
Rovno
Kiev
Leopoli
Cracovia
Vienna
IMPERO AUSTRO-UNGARICO
Budapest
1917: la Rivoluzione in Russia
e la discesa in campo degli
Stati Uniti
autodeterminazione
dei popoli: è il diritto
di ogni popolo di creare
uno Stato che raccolga
quanti appartengono, per
lingua, cultura e tradizioni
a un’unica comunità
nazionale.
Gli ultimi mesi di guerra sul fronte occidentale
PAESI BASSI
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Linea della guerra
di posizione
Fronte nel luglio 1918
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Fronte nell’ottobre 1918
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Fronte nel novembre 1918
La fase finale del conflitto tra Austria e Italia
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San Donà di Piave
R E G N O D’ I T A L I A
Verona
Manifesto propagandistico americano
che incita i giovani all’arruolamento.
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L’imperatore Carlo I d’Austria.
© Loescher Editore – Torino
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Offensive alleate
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decimazione:
punizione inflitta per
colpa gravissima a
un reparto militare.
Prevedeva la fucilazione
di un soldato, estratto a
sorte, ogni dieci.
Il 1917 fu l’anno della svolta. La stanchezza
serpeggiava fra le truppe di tutti gli eserciti:
gli episodi di insubordinazione erano sempre più frequenti e non rari divennero anche
diserzioni e ammutinamenti di interi reparti, che si rifiutavano di andare all’assalto anche sotto la minaccia della decimazione .
Anche le popolazioni civili, sottoposte
a gravi privazioni economiche e alimentari, mostrarono una crescente ostilità alla
guerra. Le manifestazioni di protesta aumentarono e crebbero anche gli scioperi in
fabbrica, segnalando il rifiuto del conflitto
che maturava in seno alla classe operaia. Le
stesse frange socialiste contrarie alla guerra,
riunitesi prima a Zimmerwald e poi a Kienthal (in Svizzera), lanciarono un appello alla
pace senza vincitori e vinti, senza annessioni territoriali o pagamento di danni di guerra. Analogo appello contro «l’inutile strage»
della guerra fu mosso dal papa Benedetto
XV, ottenendo grande risonanza presso
l’opinione pubblica dell’intero continente.
In questo quadro, due eventi cambiarono
radicalmente le prospettive del conflitto. In
Nella primavera del 1918, gli Imperi centrali
si impegnarono nella loro ultima, potente
offensiva. A marzo, la Germania avanzò sul
fronte occidentale, arrivando in giugno a
minacciare nuovamente Parigi: ma ancora
una volta venne fermata sulla Marna dalla
resistenza anglo-francese. L’Intesa passò
successivamente all’attacco e in agosto costrinse i tedeschi ad arretrare profondamente dopo la vittoriosa battaglia di Amiens. Il
fronte dell’Intesa era inoltre rafforzato dalle
truppe americane (giungevano in Europa
oltre 300.000 soldati al mese) e dalle enormi quantità di beni alimentari, merci finite
e materie prime che gli Stati Uniti presero a
inviare agli alleati subito dopo la discesa in
campo.
Nell’evidente impossibilità della vittoria,
il fronte interno tedesco si disgregò. La rivolta dilagò in tutta la Germania e il Kaiser Guglielmo II fu costretto ad abdicare fuggendo
in Olanda. Il 9 novembre veniva proclamata
la repubblica e due giorni dopo la Germania
firmava l’armistizio.
L’Austria-Ungheria lanciò in giugno una
grande offensiva sul Piave, che venne però
respinta dall’esercito italiano, risollevatosi
dopo Caporetto e guidato ora dal generale
Armando Diaz. Sostenuti dal fronte interno e uniti dall’urgenza della lotta difensi-
va sul suolo patrio, gli italiani passarono
al contrattacco e alla fine di ottobre, nella
battaglia di Vittorio Veneto, costrinsero gli
avversari alla rotta. L’armistizio fu firmato il
3 novembre nei pressi di Padova, dopo che
l’esercito e la flotta italiani avevano occupato rispettivamente Trento e Trieste. Anche il
sovrano asburgico Carlo I dovette abdicare e
il 12 novembre l’Austria si proclamò repubblica, concedendo alle tante etnie dell’impero un’indipendenza di fatto che sarebbe
poi stata sanzionata dai trattati di pace successivi alla guerra. La resa della Bulgaria e
dell’Impero ottomano completarono la disfatta degli Imperi centrali.
o
Mar Baltico
1918: l’ultima offensiva degli
Imperi centrali e la fine della
guerra
Re
n
Linea del fronte
nel dicembre del 1914
Linea del fronte
nel dicembre del 1917
Riga
Russia crollò il potere degli zar: i bolscevichi di Lenin nel novembre di quell’anno si
impadronirono del potere e decretarono
l’immediata uscita della Russia dalla guerra. L’armistizio con gli Imperi centrali fu
concluso nel dicembre dello stesso anno
e la pace venne firmata il 3 marzo 1918 a
Brest-Litovsk: la Russia perdeva la Polonia, i paesi baltici, la Finlandia, parte della
Bielorussia e l’Ucraina, mentre Germania
e Austria-Ungheria si trovarono finalmente
libere dall’impegno su due fronti.
Il 6 aprile 1917 erano però entrati in guerra gli Stati Uniti. Come affermò il presidente
americano Woodrow Wilson, gli americani
si schieravano a fianco dell’Intesa con lo
scopo di ristabilire il diritto internazionale
e di combattere il militarismo e l’autoritarismo degli Imperi centrali. Tali obiettivi,
insieme al principio di autodeterminazione dei popoli , erano al centro dei famosi
Quattordici Punti che Wilson rese noti nel
gennaio del 1918 e che gli valsero l’appoggio
dell’opinione pubblica internazionale. In
essi si affermava che la nuova Europa sorta
dalla guerra avrebbe dovuto essere democratica e pacifica e rispettosa delle nazioni:
principi e valori del tutto opposti a quelli che
avevano guidato la politica degli Stati europei nel periodo prebellico. [Testimonianze
 documento 6, p. 72] Dotati di straordinarie
risorse economiche e militari, gli Stati Uniti diventavano così protagonisti della scena
politica mondiale.
La Prima guerra mondiale
rco
Il fronte orientale all’uscita della Russia dalla guerra
Isa
1
Venezia
Offensive italiane
Fronte nell’ottobre 1918
Fronte nel novembre 1918
© Loescher Editore – Torino
1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi
1895 I Lumière brevettano il cinematografo
1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright
1913 Ford introduce la catena di montaggio
1920
55
1
3
L’Europa e il mondo nel primo Novecento
La Prima guerra mondiale
Officina meccanica della Krupp AG, Essen, 1913.
Manifesto inglese che invita all’arruolamento,
1914, Londra, Imperial War Museum.
Rifugiati armeni che ricevono provviste di cibo.
3.4 Le caratteristiche
della nuova guerra
La guerra di massa
Album p. 62
Dossier 9 p. 408
Deportati armeni durante
il genocidio, 1915-1916.
La Prima guerra mondiale fu diversa da tutte le guerre che l’avevano preceduta ed ebbe
un tale impatto sulla storia del Novecento
da venire chiamata «Grande guerra».
Essa fu innanzi tutto una guerra di massa. Gli eserciti mobilitarono decine di milioni di uomini, per la maggior parte contadini,
che in questo modo per la prima volta vennero a contatto con luoghi, persone e idee
nuove, acquisendo coscienza della propria
importanza. Il numero delle vittime fu enorme: i principali paesi belligeranti subirono
nel complesso circa 8.750.000 morti e oltre
20 milioni di feriti. A
Masse enormi vennero poi mobilitate sui
fronti interni, nelle fabbriche e nei campi,
per supportare lo sforzo di guerra. Alle popolazioni, che soffrirono ovunque ristrettezze e privazioni, vennero chiesti in nome della patria una adesione ideale e un impegno
non inferiori a quelli dei soldati. Le donne
uscirono dall’ambiente domestico, nel quale
erano state fino ad allora relegate, per diventare protagoniste della produzione bellica. Il
movimento per i diritti femminili conobbe
allora un deciso balzo in avanti. D9
Le popolazioni civili furono spesso vittime dirette dei combattimenti. I profughi si
contarono a milioni e villaggi e città occupati furono spesso sottoposti a saccheggio.
Spicca in questo quadro la terribile sorte
che colpì gli armeni. Di religione cristiana,
essi costituivano una cospicua minoranza etnica all’interno dell’Impero ottomano
– musulmano – e rivendicavano l’indipendenza e la creazione di un proprio Stato.
Nel 1915, con l’accusa di connivenza con
le potenze dell’Intesa, i turchi procedettero
alla loro sistematica deportazione verso il
deserto siriano: gli stenti, i maltrattamenti e
le uccisioni indiscriminate furono causa di
un autentico genocidio. Secondo le stime
più accreditate, le vittime furono circa un
milione, su un totale di 1,5 milioni di armeni turchi. Fu la prima delle grandi stragi di
civili che avrebbero caratterizzato la storia
del Novecento.
Le innovazioni tecnologiche
e gli alti comandi
La Grande guerra fu anche un trionfo della
tecnologia bellica. Invenzioni già applicate
alla vita civile, per esempio il motore a scoppio o il telefono, furono utilizzate per realizzare armi e dispositivi sempre più efficaci e
letali: si possono ricordare il sottomarino,
l’aeroplano, la mitragliatrice, i gas asfissianti, cannoni, esplosivi, comunicazioni
più efficaci nel coordinare le truppe e prevedere le mosse nemiche.
Tuttavia, non sempre i comandi militari
seppero utilizzare appieno le potenzialità
delle nuove tecnologie. Per questo motivo
continuarono ad affidarsi a massicci – e inutili – assalti della fanteria contro le linee avversarie, praticamente ignorando le enormi
potenzialità e la forza dirompente del carro
armato, un nuovo veicolo a motore, corazzato e dotato di cingoli che gli permettevano
di viaggiare su ogni terreno. Il carro armato
era capace di superare ogni resistenza, ma
fu utilizzato in formazioni compatte solo
verso la fine della guerra: divenne allora facile espugnare le trincee apparse per quattro anni inviolabili e penetrare in profondità
nel fronte nemico.
La Grande guerra fu anche il conflitto che
donò un potere senza precedenti agli alti
comandi militari. Generali come Paul von
Hindenburg in Germania, Douglas Haig
nel Regno Unito e Joseph Joffre in Francia
lavorarono fianco a fianco con i capi dei governi, imponendo spesso le loro decisioni al
potere politico. In generale, inoltre, la Prima
guerra mondiale determinò la crescita smisurata del potere e delle prerogative degli
esecutivi a scapito dei parlamenti. La necessità di prendere decisioni importanti in
tempi rapidi era una condizione incompatibile con la tradizionale – e necessariamente
più lenta – discussione tra partiti all’interno
delle Camere dei rappresentanti.
Economia di guerra
e propaganda
In tutti i paesi coinvolti nella guerra, fu evidente la crescita dei poteri dello Stato. Essa
si manifestò principalmente in due fondamentali campi della vita civile.
In campo economico, le materie prime
vennero sottoposte a controllo pubblico, i
Vittime della Prima guerra mondiale
Nazioni belligeranti
Caduti
Russia
1870
Dispersi
1.700.000
4.950.000
2.500.000
910.000
2.100.000
190.000
1.357.000
4.266.000
537.000
Italia
650.000
947.000
600.000
Stati Uniti
126.000
234.000
4.500
Serbia, Romania, Belgio, Grecia, Portogallo, Montenegro
408.000
341.000
286.000
Germania
1.773.000
4.216.000
1.152.000
Austria-Ungheria
1.200.000
3.620.000
2.200.000
Impero ottomano
325.000
400.000
250.000
87.000
152.000
27.000
8.536.000
21.226.000
7.746.500
Gran Bretagna
Francia
Bulgaria
Totale
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Feriti
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1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi
1895 I Lumière brevettano il cinematografo
1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright
1913 Ford introduce la catena di montaggio
1920
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L’Europa e il mondo nel primo Novecento
riparazioni di
guerra: poiché la
responsabilità della
guerra ricadeva sulla
Germania, apparve logico
caricarla nel 1919 del
compito di «riparare»
i danni provocati dal
conflitto. Questo impedì
per parecchi anni
all’economia tedesca di
riprendersi.
beni alimentari furono razionati e venduti a prezzi imposti dal governo, le risorse
produttive e la manodopera vennero concentrate forzatamente sugli obiettivi della
guerra, in particolare sulla fabbricazione
di armi. Interi comparti industriali – dal
siderurgico al meccanico, al chimico – ebbero nello Stato il principale committente
e conobbero uno sviluppo straordinario. Lo
Stato stesso finì ovunque per dirigere gran
parte dell’economia nazionale: un fenomeno che allontanava l’Europa dal liberismo
ottocentesco e la lanciava sulla strada della
pianificazione o programmazione pubblica
della produzione.
La necessità di coordinare gli sforzi del
fronte interno determinò inoltre una riduzione delle libertà personali dei cittadini –
in particolare della libertà d’espressione –,
una limitazione della libertà d’azione degli
oppositori della guerra – i «disfattisti» –, e la
creazione di un capillare sistema di propaganda in favore del conflitto. Era necessario,
infatti, produrre uno sforzo eccezionale per
convincere le opinioni pubbliche nazionali
a sostenere gli enormi sacrifici richiesti dalla guerra. Nacquero così uffici civili e militari appositi, incaricati di propagandare
la bontà dello sforzo bellico presso soldati
e popolazione. Era l’esordio di un campo
nuovo, che nel corso del Novecento avrebbe
assunto un’importanza fondamentale nella
vita pubblica di ogni paese.
Le dure clausole imposte alla Germania
3.5 La Conferenza
di Parigi
La dura punizione inflitta
ai tedeschi
La Conferenza di pace che si aprì a Parigi nel
gennaio 1919 ebbe per protagonisti i vincitori della guerra: Lloyd George per il Regno
Unito, Georges Clemenceau per la Francia e
Woodrow Wilson per gli Stati Uniti e Vittorio
Emanuele Orlando per l’Italia. I delegati dei
paesi vinti non furono ammessi e alle potenze sconfitte vennero imposte condizioni
particolarmente dure. I lavori procedettero
speditamente e in pochi mesi si conclusero
diversi trattati.
Il Trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1919, attribuì alla Germania la responsabilità della guerra; il suo esercito e la sua
flotta furono quasi azzerati, la riva destra del
Reno venne smilitarizzata e quella sinistra
occupata da truppe alleate. L’Alsazia e la
Lorena tornarono alla Francia, lo Schleswig
andò alla Danimarca, i vasti territori orientali della Posnania e dell’Alta Slesia passarono alla Polonia. Le miniere di carbone della
Saar furono concesse in amministrazione
per 15 anni al governo di Parigi, le colonie
vennero spartite tra i vincitori e Berlino
si vide imporre un debito di 132 miliardi
di marchi-oro in riparazioni di guerra :
una cifra del tutto fuori dalla sua portata.
Nel complesso, la Germania perse 70.000
chilometri quadrati di territorio e 6 milioni
di abitanti. Queste durissime misure generarono tra i tedeschi rabbia e un sentimento
di rivalsa che avrebbero gravemente pregiudicato le relazioni internazionali nei decenni seguenti.
L’Austria, con il Trattato di Saint-Germain firmato il 10 settembre 1919, perse
quasi per intero il territorio che componeva l’impero prima della guerra e fu ridotta a
uno Stato di piccole dimensioni. Stessa sorte toccò alla Turchia, nata dalla dissoluzio-
Il presidente americano Woodrow Wilson.
La Prima guerra mondiale
ne dell’Impero ottomano, confinata – se si
esclude la capitale – alla sola penisola anatolica e gravemente penalizzata dal Trattato
di Sèvres del 10 agosto 1920. I suoi territori
in Europa si ridussero praticamente alla sola
città di Istanbul, mentre le regioni del Medio
Oriente che avevano fatto parte dei domini
della «Sublime Porta» furono affidate sotto
mandato internazionale a Francia e Regno
Unito. Le due potenze europee si spartivano
così in zone d’influenza territori vastissimi e
ricchi di giacimenti petroliferi.
I nuovi Stati indipendenti
L’Europa uscita dai trattati di pace era assai
diversa da quella del 1914. Tre grandi imperi – Russia, Austria-Ungheria e Germania
– erano crollati. La carta d’Europa fu ridisegnata e i vincitori applicarono il principio
dell’autodeterminazione dei popoli, così
come auspicato dal presidente statunitense Wilson. Fu decisa quindi la formazione
di nuovi Stati nazionali secondo il criterio
della tendenziale omogeneità di lingua e
cultura: la Polonia, che risorgeva dopo le
tre spartizioni settecentesche, e l’Ungheria, che si svincolava dalla tutela di Vienna.
Furono inoltre create la Cecoslovacchia e la
Iugoslavia, a coronamento degli sforzi serbi
per unire i popoli slavi del sud, la Finlandia
e i tre paesi baltici di Lettonia, Lituania ed
W. Orpen, La firma della pace di Versailles,
1919, Londra, Imperial War Museum.
Trattato di Versailles
Riduzioni
territoriali
• cessione a
Francia e Regno
Unito delle colonie
in Africa;
• occupazione
francese di Alsazia,
Lorena e bacino
minerario della
Saar;
• cessione della
Posnania e dell’Alta
Slesia alla Polonia;
• cessione dello
Schleswig alla
Danimarca
Limitazioni delle
forze armate
• riduzione
dell’esercito a
100.000 uomini;
• riduzione del
numero delle navi
da guerra;
• proibizione di
creare un’aviazione
militare;
• creazione
di una zona
«smilitarizzata»
di 50 km sulla riva
destra del Reno
Risarcimenti
• pagamento di
enormi indennizzi
alle potenze
vincitrici;
• cessione di
ingenti quantità di
materie prime e di
prodotti industriali
La cerimonia della firma del Trattato di pace a Parigi il 28 giugno 1919.
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1870
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1882 Koch scopre il batterio della tubercolosi
1895 I Lumière brevettano il cinematografo
1903 Primo volo aereo dei fratelli Wright
1913 Ford introduce la catena di montaggio
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L’Europa e il mondo nel primo Novecento
Estonia: questi ultimi quattro
Stati acquistavano l’indipendenza dopo un plurisecolare dominio russo.
Altre
nazionalità
non videro riconosciuto il diritto a darsi uno Stato. Inoltre,
in diversi dei nuovi
Stati persisteva il
problema delle
minoranze etniche. In Polonia, per esempio, insieme
ai
polacchi
vivevano un
milione di tedeschi e quattro
milioni di ucraini. In Iugoslavia
invece convivevano serbi, croati,
sloveni, bosniaci e altre
minoranze. Tutto questo avrebbe generato
a breve nuove tensioni
nel cuore d’Europa.
p. 66
David Lloyd-George, Georges Clemenceau e Woodrow
Wilson a Versailles per la Conferenza di pace, 1919.
L’Italia e
la «vittoria mutilata»
L’Italia, rappresentata alla Conferenza di
Parigi dal presidente del consiglio Vittorio
Emanuele Orlando, ottenne Trento, con
l’Alto Adige, Trieste e l’Istria.
Non era poco, ma era meno di quanto previsto dal Patto di Londra del 1915.
Quell’accordo riservava infatti al nostro paese una parte della Dalmazia (ora non più
disponibile perché parte del nuovo stato iugoslavo), e un posto nella spartizione delle
colonie tedesche. Roma chiese anche l’annessione della città di Fiume, abitata in prevalenza da italiani e di partecipare alla spartizione dei domini ottomani. Non trovando
soddisfazione per queste richieste, Vittorio
Emanuele Orlando abbandonò temporaneamente la Conferenza.
Nacque allora in Italia il mito della «vittoria mutilata». Il completamento, con Trento
e Trieste, dell’unità del paese non appariva
più sufficiente: secondo i nazionalisti, la
sofferenza e il sangue versato dagli italiani
meritavano ben altra ricompensa. Anche
in Italia, dunque, gli strascichi della Grande
guerra erano destinati ad alimentare a lungo tensioni pericolose e destabilizzanti.
1914
Attentato di Sarajevo
1915
L’Italia entra in guerra
1916
Battaglie di Verdun
e della Somme
1917
Rivoluzione in Russia;
disfatta di Caporetto
Quali furono le cause della Prima guerra mondiale?
Lo scoppio della Prima guerra mondiale fu, per molti versi, una
delle vicende meno spiegabili del Novecento. Una sorta di
gioco d’azzardo politico-diplomatico che maturò nella convinzione che il conflitto sarebbe stato breve e poco dispendioso
in termini sia economici che di perdite umane. In realtà, come
abbiamo visto, fu costosissimo sotto entrambi gli aspetti.
Se proviamo a paragonare le ragioni che portarono alla prima
guerra con quelle che generarono la seconda, di cui parleremo
tra qualche capitolo, emerge con chiarezza la nuvolosità e la carenza di vere motivazioni del conflitto del 1914. La Seconda
guerra mondiale esplose per l’attacco della Germania nazista alla
Polonia nel 1939; attacco che era stato preceduto da una lunga
serie di violazioni diplomatiche e militari nel 1938, blandamente
contrastate dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale
fino all’inevitabile esito del nuovo conflitto. In estremo Oriente,
l’attacco a sorpresa dei giapponesi a Pearl Harbor (1941) non
poteva che scatenare la reazione militare degli Stati Uniti. Come
si può vedere, nella tragedia degli eventi, si trattò di un processo
lineare, di una classica successione di causa-effetto.
60
© Loescher Editore – Torino
Ma le ragioni da cui scaturì la Grande guerra, invece, sembrano fragili, non lineari e il conflitto del tutto evitabile. La causa
scatenante, l’attentato di Sarajevo, ci appare come una vicenda
troppo isolata per giustificare l’incendio anche solo della polveriera balcanica. I rancori franco-tedeschi, la concorrenzialità
commerciale tra Germania e Gran Bretagna, il ruolo della Russia di protettrice dei popoli slavi, l’ambizione italiana di ottenere
le terre irredente (e qualcosa di più, magari) giustificarono un
conflitto di tale portata? Ovviamente un ruolo centrale lo recitarono le patologie politiche dell’epoca, l’imperialismo e il nazionalismo. Tuttavia, sempre più numerosi storici insistono oggi
sull’idea dello scivolamento involontario dei governi dell’epoca
nel conflitto; sull’incapacità di mettere freno all’escalation bellica; sulla debolezza della diplomazia, usata più come una clava
per colpire il nemico piuttosto che come mezzo per regolare i
conflitti. La Prima guerra mondiale, insomma, è nata e si è autoalimentata non per la volontà lineare di una parte (come Hitler
o il Giappone nazionalista nella Seconda guerra mondiale), ma
per l’incapacità di tutti di tenerla fuori dalle opzioni praticabili.
1 Nell’estate 1914 scoppia la Prima guerra mondiale, che all’inizio vede
contrapposte Austria-Ungheria e Germania a Russia, Francia e Regno
Unito. Il 28 giugno 1914, un bosniaco di nazionalità serba uccise a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero asburgico. L’evento fece
precipitare le tensioni internazionali, mettendo in moto il meccanismo delle alleanze
contrapposte. L’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia, al cui fianco si schierarono Russia, Francia e Regno Unito. Accanto all’Austria-Ungheria scese in campo la
Germania. Entro l’inizio di agosto l’Europa era in guerra. In seguito nel conflitto sarebbero intervenute altre grandi potenze, come l’Impero ottomano e gli Stati Uniti.
2 1918
Wilson pubblica i Quattordici
punti sull’autodeterminazione
dei popoli
I NODI DELLA STORIA
La Prima guerra mondiale
1918
Sconfitta degli Imperi centrali
L’Italia si tiene da principio fuori dal conflitto, ma nel maggio 1915 scende
in campo a fianco della Triplice Intesa, contro i vecchi alleati della Triplice
Alleanza. L’Italia, la legata dalla Triplice Alleanza ad Austria-Ungheria e Germania, si
dichiarò neutrale: la maggioranza dell’opinione pubblica e del Parlamento era contraria a un ingresso in guerra. Gli interventisti, tra cui il re, i militari e il capo del
governo Antonio Salandra, vedevano nel conflitto la possibilità di acquisire territori e
prestigio internazionale. Alla fine di aprile del 1915, con la firma segreta del Patto di
Londra l’Italia si legò all’Intesa e il 24 maggio Vittorio Emanuele III dichiarò guerra
all’Austria-Ungheria.
3 Nell’autunno 1918, dopo quattro anni di combattimenti e oltre otto milioni di morti, la Grande guerra si conclude con la sconfitta di Germania e
Austria-Ungheria. La Prima guerra mondiale durò fino al 1918. I principali combattimenti si svolsero nella Francia nord-orientale e nell’Europa dell’est: fu una guerra
di posizione e logorante, imperniata sul sistema delle trincee. Molte nuove tecnologie
vennero impiegate, gli apparati industriali produssero al massimo e alle popolazioni civili furono imposti grandi sacrifici. Gli Stati giunsero a controllare buona parte
dell’economia e ovunque crebbe il potere degli esecutivi e dei militari. La fine della
guerra giunse per l’esaurimento della Germania e dell’Austria-Ungheria, che, prive
ormai di soldati e armi, chiesero l’armistizio nel novembre 1918.
4 L’Italia rischia la sconfitta nel 1917 con la disfatta di Caporetto, ma batte
gli austriaci nel 1918 e conquista la vittoria in guerra. L’esercito italiano
si batté sulla linea dell’Isonzo e del Carso, e in Trentino, perdendo circa 650.000
uomini. Come sul fronte francese, si trattò di una guerra di posizione, segnata da
inutili e sanguinosi assalti alle linee avversarie. Le battaglie maggiori furono però di
movimento e si svolsero nell’ottobre 1917 con lo sfondamento austriaco a Caporetto e la ritirata italiana fino al Piave, e nell’ottobre 1918, con la vittoria italiana nello
scontro di Vittorio Veneto. L’Austria-Ungheria chiese allora l’armistizio, firmato il 3
novembre 1918.
5 1919-1920
Trattati di pace
1920
Dissoluzione dell’Impero
ottomano
Con la pace, si dissolvono gli imperi asburgico, tedesco, russo e ottomano,
mentre l’Italia ottiene dai trattati meno di quanto desiderato. I trattati di
pace, firmati tra 1919 e 1920, furono molto duri per gli sconfitti. La Germania perse
ampi territori, le sue forze armate vennero azzerate, il Kaiser abdicò e fu proclamata
la repubblica. L’impero asburgico crollò e in Europa centro-orientale nacquero molti
nuovi Stati, come Austria, Cecoslovacchia, Iugoslavia, Ungheria. Intanto, nel 1917,
in Russia lo zar era caduto sotto i colpi della rivoluzione comunista: anche l’ultimo grande impero europeo cessò così di esistere. Stessa sorte toccò all’Impero
ottomano, dissoltosi e ridotto alla piccola Turchia. Ottenendo Trento e Trieste, l’Italia
concluse il processo di unità nazionale cominciato col Risorgimento. Ma dalla guerra
il nostro paese ottenne meno di quanto desiderato e nacque allora il mito della «vittoria mutilata», che avrebbe avuto profonda influenza sull’opinione pubblica nazionale
negli anni seguenti.
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L’Europa e il mondo nel primo Novecento
La Prima guerra mondiale
Dalle trincee ai monumenti
della Grande guerra
L’esperienza della Prima guerra mondiale costituì un trauma psicologico e sociale senza precedenti. I soldati
sui diversi fronti europei (ed extraeuropei) erano stati costretti per lunghi anni, dal 1914 al 1918, a sperimentare una guerra per lo più di logoramento, combattuta all’interno di trincee e con armi moderne. Nel dopoguerra i governi e le istituzioni dei paesi vincitori e vinti dovettero affrontare l’eredità politica e simbolica
della guerra, a cominciare dalla gestione del lutto per i milioni di morti che il conflitto aveva provocato.
L’ossario di Douaumont.
I monumenti
I cimiteri di guerra
In primo luogo, i morti dovevano essere sepolti con tutti gli onori e i vivi dovevano essere consolati della loro perdita. Con questo
obiettivo, tra gli anni Venti e Trenta, furono costruiti innumerevoli cimiteri di guerra, concentrati soprattutto in prossimità dei campi di battaglia. In questi luoghi, destinati soprattutto al lutto privato, si susseguivano file interminabili di croci che ricordavano le
vittime, disposte secondo un ordine rigoroso e marziale. Molto spesso si trattava di vittime anonime, perché non era stato possibile
dare un nome ai corpi dei soldati caduti.
I monumenti (sacrari o ossari soprattutto) sorsero in tutto il territorio nazionale e furono
destinati al lutto pubblico: lo scopo era celebrare la vittoria militare, promuovere il culto della
nazione, tributare l’omaggio ai combattenti e al loro sacrificio, imporre una memoria ufficiale
della guerra. Attraverso imponenti opere architettoniche, che garantivano il riconoscimento
del valore dei caduti, si attuava una ricomposizione della comunità tra chi aveva combattuto
in prima linea e chi aveva vissuto l’esperienza bellica nelle retrovie o nella vita civile. A seconda della forma e dei soggetti rappresentati mutava il messaggio veicolato. L’ossario di
Douaumont, nei pressi di Verdun, che ospita le spoglie di 130.000 caduti francesi e tedeschi,
fu costruito nel 1920 e inaugurato soltanto nel 1932: la sua forma insolita di proiettile rievoca l’impugnatura di una spada, ormai conficcata nel suolo francese e così resa inoffensiva.
A Redipuglia, vicino a Gorizia, fu inaugurato nel 1938 il più grande sacrario militare italiano,
che contiene i resti di oltre 100.000 morti. La sua cifra essenziale è rappresentata dalla
scalinata maestosa, in cui campeggia la scritta «presente» per ognuno dei 22 gradoni.
Dettaglio dei gradoni del sacrario militare di Redipuglia.
L’arco di Trionfo a Parigi, che ospita
il monumento al Milite ignoto francese.
Il «Milite ignoto»
La guerra moderna di massa, che aveva coinvolto milioni di soldati e aveva lasciato migliaia di corpi senza riconoscimento, trovò la sua rappresentazione più efficace nel monumento al Milite ignoto, il combattente non
identificato che si era sacrificato per la patria. In occasione dell’anniversario
dell’armistizio, l’11 novembre 1920, furono l’Inghilterra e la Francia a rendere omaggio al simbolo di tutti i militari caduti. Il monumento trovò spazio
all’interno di strutture già esistenti: i corpi dei Militi ignoti inglese e francese
furono tumulati rispettivamente presso l’Abbazia di Westminster a Londra e
l’Arco di Trionfo a Parigi. Il 4 novembre 1921 anche l’Italia seppellì con tutti
gli onori il proprio Milite ignoto: a Roma, all’interno del Vittoriano, monumento già dedicato a Vittorio Emanuele II.
Veduta del Hooge Crater War Cemetery presso Ypres in Belgio: un cimitero che accoglie
i caduti inglesi che morirono durante le battaglie delle Fiandre nella Prima guerra mondiale.
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© Loescher Editore – Torino
Il Vittoriano a Roma, sede del monumento al Milite ignoto italiano.
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3
L’Europa e il mondo nel primo Novecento
Ragiona sul tempo e sullo spazio
Impara il significato
1
4
ATTIVITÀ
2
Osserva le cartine alle pp. 48 e 126 e spiega quali sono le trasformazioni geopolitiche portate dalla Prima guerra
mondiale.
1 Il 28 giugno
viene firmato il Trattato di Versailles, che attribuisce alla Germania la responsabilità della guerra
2 Il 28 luglio
l’Austria dichiara guerra alla Serbia; pochi giorni dopo la Germania dichiara guerra alla Russia
e alla Francia
3 Il 10 settembre
viene firmato il Trattato di Saint-Germain con il quale l’Austria viene ridotta a uno Stato
di piccole dimensioni
4 Nel maggio
gli austriaci avviano contro l’Italia la Strafexpedition, la «spedizione punitiva» contro l’alleato
traditore
5 Nel
gli austriaci, rinforzati da alcune divisioni tedesche, sfondano le linee italiane a Caporetto e dilagano
nella pianura veneta
6 Il 3 marzo
viene firmata la pace di Brest-Litovsk che segna la fine delle ostilità sul fronte orientale;
una pace fortemente voluta dalla Russia bolscevica che, pur di mettere fine alle sofferenze della guerra, accetta
la perdita di un immenso territorio
7 Il 6 aprile
gli Stati Uniti entrano in guerra a fianco dell’Intesa, contro il militarismo e l’autoritarismo
degli Imperi centrali
8 Nel gennaio
si apre a Parigi la Conferenza di pace, che ha per protagonisti i vincitori della guerra;
essa si conclude con la stesura dei trattati che dettano le condizioni ai paesi vinti
9 Il 28 giugno
l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono dell’Impero d’Austria e Ungheria,
e sua moglie Sofia sono assassinati a Sarajevo da uno studente nazionalista serbo
10 Il 24 maggio
, abbandonando l’iniziale posizione neutrale, l’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria
Scrivi quale significato assumono i seguenti concetti nel periodo della Prima guerra mondiale.
1
2
3
4
5
6
7
8
Completa le frasi scrivendo l’anno esatto in cui accade l’evento; poi distingui con tre colori diversi gli eventi
riconducibili alle prime fasi della guerra, quelli che riguardano il suo svolgimento e quelli che si riferiscono
alla conclusione del conflitto.
5
La Prima guerra mondiale
Conflitto istituzionale
Nazionalismo sciovinista
Disfatta
Diritto internazionale
Genocidio
Ammutinamento
Autolesionismo
Trincea
Prova a riflettere sul significato di «profughi» e scrivi un esempio di profughi ai tempi della Prima guerra mondiale e di
profughi ai giorni nostri.
Osserva, rifletti e rispondi alle domande
6
Osserva la mappa concettuale relativa alla Prima Guerra mondiale. Poi rispondi alle domande.
Le caratteristiche fondamentali del primo conflitto mondiale
Esplora il macrotema
3
Completa il testo.
Le motivazioni della Prima guerra mondiale vanno ricercate nella situazione di delicato equilibrio tra
le potenze europee di inizio Novecento. L’attentato di Sarajevo, a seguito del quale l’Austria dichiara
guerra alla (1)
, non fa che esacerbare tali tensioni e finisce per mettere in movimento
il sistema di alleanze contrapposte delle potenze (2)
: gli «Imperi centrali» (Germania e
Austria) e l’«Intesa» (Francia, Inghilterra, Russia).
I motivi di ostilità tra i governi erano molti: la concorrenza per l’accaparramento dei (3)
ancora colonizzabili, che aveva spinto a varare imponenti piani di riarmo; la competizione per la
conquista dei (4)
internazionali; il nazionalismo sciovinista.
La guerra si conclude con la (5)
degli «Imperi centrali», ai quali vengono imposte
condizioni molto dure, e a seguito dei trattati l’Europa assume una fisionomia completamente differente:
sono crollati gli (6)
di Russia, Austria-Ungheria, Germania e Turchia e sono nati nuovi
Stati nazionali.
Tuttavia alcune (7)
non vedono riconosciuto il diritto a darsi uno Stato e in diversi dei
nuovi Stati rimane persistente il problema delle minoranze (8)
; l’Italia, dal canto suo,
rimane delusa dall’esito delle (9)
. Tutto questo non farà che alimentare nuove tensioni
pericolose e destabilizzanti.
1 Perché fu «guerra di massa»?
2 Quali effetti ebbe la guerra sui poteri dello Stato?
3 Perché fu considerata una guerra ad alta intensità tecnologica?
Mostra quello che sai
7
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Osserva le immagini alle pp. 54 (in basso) e 56 (in alto): a chi si rivolgono questi manifesti? Quale tipo di richiesta
formulano e quali sono le strategie di cui si avvalgono?
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Documenti
Diritti di libertà e diritti politici
Secondo alcuni studiosi, la Prima guerra mondiale segnò una rottura storica: solo allora furono definitivamente
seppelliti gli ultimi residui dell’Ancien régime. Nei paesi sconfitti crollarono i vecchi imperi e si aprì una fase costituente: al mutamento della forma di Stato, con la proclamazione della Repubblica, si accompagnarono Costituzioni che innovavano profondamente in direzione democratica la vita degli Stati. Fu quel che accadde in Germania e in Austria, ma anche per molti versi in Turchia. Il fondamento delle nuove Costituzioni era dunque il principio
democratico: esse si fondavano sulla democrazia di massa pluralista, che oltrepassava il costituzionalismo
classico avente le basi nello Stato di diritto e nel principio parlamentare. Le Costituzioni del primo dopoguerra,
infatti, recepirono innanzitutto la piena affermazione dei diritti di libertà e dei diritti politici e li preservarono con una
serie di garanzie per il loro esercizio.
Quel passaggio non riuscì all’Italia: paese vincitore, ma ferito nelle proprie aspirazioni, non conobbe un passaggio
verso la piena democrazia pluralista. Fu invece la dittatura fascista a guidare il passaggio alla dimensione di massa. Anche nei paesi sconfitti, la democrazia pluralista fu un fatto effimero. Travolte le nuove Costituzioni dall’ondata
fascista e nazista, che imperversò in Europa fino alla Seconda guerra mondiale, il costituzionalismo democratico
si riaffacciò prepotentemente nella fase di ricostruzione degli assetti europei nel secondo dopoguerra.
In particolare, per l’Italia l’Assemblea costituente fu la prima esperienza di elaborazione condivisa del testo fondamentale. E tutte le culture politiche, pur in contrasto su molti temi e con sensibilità assai differenti, recepirono
gli sviluppi del costituzionalismo novecentesco. La prima sottocommissione, della quale facevano parte alcuni
tra i più eminenti deputati (Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Aldo Moro per i democristiani, Palmiro Togliatti,
Concetto Marchesi e Nilde Iotti per il PCI, Lelio Basso per il PSI, Francesco De Vita per il PRI, Mario Cevolotto per
il Partito democratico del lavoro, Roberto Lucifero e Giuseppe Grassi per il PLI), ebbe il compito «di elaborare i
principi generali della nuova Costituzione nonché i diritti fondamentali delle libertà della persona umana».
Non tutti in Assemblea costituente furono d’accordo sulla centralità acquisita dai principi affermati nella prima parte del testo. Alcune componenti, infatti, avrebbero preferito che i principi fondamentali, come nella Costituzione
francese del 1946, fossero racchiusi in un preambolo da premettere alle norme vere e proprie dell’organizzazione
dei poteri dello Stato. La soluzione che invece prevalse – fondata sulla centralità della prima parte del nostro testo
fondamentale – dava ai diritti di libertà una rilevanza eguale alla regolazione dei diversi poteri dello Stato.
La Costituzione si apre con i principi fondamentali, enunciati negli articoli che vanno da 1° al 12°, per poi passare ai diritti e ai doveri dei cittadini. Il titolo I si occupa dei rapporti civili, ovvero dei diritti di libertà, che coprono
gli articoli 13-28. I rapporti politici sono regolati dal titolo IV, che comprende gli articoli 48-54. Si chiude con le
disposizioni transitorie e finali, che in origine vietavano il ritorno in patria dei discendenti di casa Savoia e la ricostituzione del disciolto Partito fascista. Erano precedute dall’articolo 139, secondo il quale «La forma repubblicana
non può essere oggetto di revisione costituzionale».
«Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i
partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione». Con queste parole Piero
Calamandrei, membro dell’Assemblea costituente, iniziò a spiegare ai giovani le caratteristiche principali della Costituzione
italiana durante un incontro tenutosi a Milano nel 1955. La Carta entrata in vigore nel 1948 tratta dei diritti e dei doveri
nella prima parte, articoli 13-54.
1 Quali sono i pericoli maggiori che possono condizionare il diritto di libertà?
2 Ti pare che certe iniziative intraprese in nome della sicurezza dei cittadini possano portare a limitazioni dei diritti sanciti
dalla Costituzione?
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1.Lo Statuto Albertino del 1848 e la Costituzione della Repubblica del 1948
Si mettono a confronto alcuni articoli dello Statuto Albertino del 1848, divenuto con l’unità italiana, la legge fondamentale dello Stato,
e della Costituzione democratica del 1948, relativamente ai diritti di libertà. Nel primo essi sono meramente enunciati, nella seconda
sono affermati e tutelati da prescrizioni circostanziate alle quali il legislatore non può sottrarsi.
Art. 24. [Statuto Albertino] – Tutti i
regnicoli, qualunque sia il loro titolo
o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti
civili e politici, e sono ammissibili
alle cariche civili, e militari, salve le
eccezioni determinate dalle Leggi.
Art. 3. [Costituzione della Repubblica] – Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione,
di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali. È compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli
di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti
i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 26. [Statuto Albertino] – La libertà individuale è guarentita.
Art. 13. [Costituzione della Repubblica] – La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma
alcuna di detenzione, di ispezione
o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà
personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli
casi e modi previsti dalla legge. È
punita ogni violenza fisica e morale
sulle persone comunque sottoposte
a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Art. 28. [Statuto Albertino] – La
Stampa sarà libera, ma una legge ne
reprime gli abusi.
Art. 21. [Costituzione della Repubblica] – Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione. La stampa
non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a
sequestro soltanto per atto motivato
dell’autorità giudiziaria nel caso di
delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel
caso di violazione delle norme che
la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.
2.I diritti
La formulazione del termine «diritti» fatta da Giuliano Amato.
L’obiettivo di fondo del costituzionalismo moderno di questo secondo
dopoguerra – sul quale si è verificata
e almeno sino ad ora rinnovata, una
convergenza tra le diverse forze sociali e politiche ammesse alla competizione nello Stato democratico e
pluralista – può essere sintetizzato
nel tentativo di sottrarre alla politica, come volontà della maggioranza,
e all’economia, come risultato del
confronto fra le proprietà e le iniziative private, il diritto per ciascun
individuo di condurre un’esistenza nel contempo libera e dignitosa.
Ogni uomo, indipendentemente
dalle ragioni del calcolo economico
e dei caratteri dell’indirizzo politico
che di volta in volta si afferma come
prevalente, deve essere posto nella
condizione di poter realizzare nella
maniera più piena lo sviluppo della
propria persona. A tal fine la maggior
parte delle Costituzioni contemporanee vigenti nell’Europa continentale, e tra queste in maniera esemplare quella italiana, riconoscono
come patrimonio, pre dato, di ogni
individuo, un complesso arcipelago
di libertà civili e di pretese a non essere escluso dai diversi luoghi sociali
nei quali e mediante i quali il singolo si fa appunto persona e si realizza
come persona. Attraverso le prime,
tradizionalmente definite «libertà
negative», o «libertà da», al cittadino viene riconosciuta, nei confronti dello Stato in tutte quante le sue
manifestazioni, e nei confronti degli
altri individui, una sfera di autonomia privata, in linea di principio, intangibile. Attraverso le seconde, che
potremmo anche definire «libertà
positive» o «libertà di», al cittadino
è invece riconosciuta la pretesa di
partecipare alla vita politica, economica e sociale della comunità. Nel
riconoscimento di questi diritti si
può constatare il superamento della
concezione individualistica propria
del pensiero liberale dell’Ottocento.
G. Amato, I diritti, in L. Violante (a cura di), Dizionario delle istituzioni e dei diritti del cittadino, Roma, Editori Riuniti, 1996
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Documenti
Diritti sociali
Il primo articolo della Costituzione – «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità
appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» – scaturì da una discussione appassionata nell’aula di Montecitorio. Il testo proposto dalla Commissione predisposta per elaborare il testo costituzionale era differente: più lungo – si componeva infatti di tre commi – e meno espressivo rispetto alla stesura
definitiva. Questa fu proposta dal democristiano Amintore Fanfani e prevalse rispetto a quella avanzata dai socialisti e dai comunisti («L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori»). La formulazione avanzata da Fanfani
prevalse anche su quella suggerita dal repubblicano-azionista Ugo La Malfa per conto della sinistra democratica.
Quest’ultima recitava: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro». Il
coniugare diritti di libertà e diritti del lavoro riprendeva il binomio giustizia e libertà, che aveva animato negli anni
della dittatura l’antifascismo democratico. Il leader comunista Palmiro Togliatti la giudicò troppo astratta.
Tutte e tre le proposizioni intendevano comunque affermare una dimensione includente e pluralista. La sovranità
era fondata sull’insieme dei cittadini, che la delegavano ai propri rappresentanti secondo le regole fissate dalla Costituzione. Inoltre tutte e tre le formule ricercavano la dimensione sociale, esplicitamente affermata nelle principali
Costituzioni del secondo dopoguerra, da quella francese del 1946 alla legge fondamentale tedesca del 1949.
Il bisogno di riconoscere la dignità eguale degli esseri umani non solo in quanto cittadini ma in quanto attivi artefici
con il loro lavoro, qualunque esso fosse, del benessere della comunità e, soprattutto, di sottolineare la dimensione sociale dell’economia, non era frutto di un pregiudizio ideologico, ma nasceva dalla dura esperienza dei tempi.
L’Europa e gli Stati Uniti prima della guerra mondiale erano stati attraversati da una devastante crisi economica che
aveva gettato sul lastrico milioni di uomini, aveva provocato una spaventosa disoccupazione e non era stata estranea all’affermarsi del nazismo nel cuore dell’Europa. Dopo quella catastrofe, il ruolo dello Stato nella regolazione
dell’economia si era generalmente affermato e si era rivelato uno stimolo alla ripresa economica.
La Costituzione riprendeva quindi i principi affermatisi dopo la crisi seguita al crack del 1929. Li possiamo riassumere nel riconoscimento del primato dell’economia di mercato, che, però, necessitava di regole per operare
a beneficio dei più, condizione imprescindibile di una democrazia effettiva. Entro questa cornice culturale, nel
secondo dopoguerra si verificarono il «miracolo economico» e la effettiva trasformazione dell’Europa e dell’Italia
in paesi di economia avanzata.
Recita l’articolo 41: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale
o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
E l’articolo 42 stabilisce: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti
o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di
godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. La
legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità».
Nelle democrazie moderne, soprattutto in quelle nate in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, i diritti sociali derivano
dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza. Tale
modello promuove l’uguaglianza di status passando così dal concetto di assicurazione sociale a quello di sicurezza sociale,
fornendo un Welfare (termine inglese che indica appunto lo Stato sociale) che si propone di garantire a tutta la popolazione
degli standard di vita qualitativamente più elevati.
1.Lo sforzo dei «padri» della Costituzione italiana per cercare di ridurre le distanze tra le classi sociali
I costituenti cercarono di riversare negli articoli della Carta costituzionale il frutto delle lotte e delle conquiste sociali della prima metà
del XX secolo. Un’analisi dello storico Luciano Canfora.
L’economista Fanfani, la cui matrice
culturale era stata l’Università Cattolica di padre Gemelli (dunque un
epicentro del clerico-fascismo), ora
costituente e collocato nella sinistra
del suo partito, propugna il «controllo sociale della vita economica»
onde «agevolare lo sviluppo della
persona». Un grande costituzionalista italiano, che fu tra gli artefici della
Costituzione emanata il 1° gennaio
1948, Piero Calamandrei, definì efficacemente questo genere di carte
costituzionali nate dopo la fine dei
fascismi. Osservò, e si riferiva in particolare a quella italiana – che sono
testi «polemici». E ciò per la ragione,
evidente alla lettura dei «principi
fondamentali», che esse mettono in
discussione l’ordine sociale esistente.
Una vera «rivoluzione» nella storia
del pensiero costituzionale e nella
prassi. L’articolo «eversivo» per eccellenza è il terzo della Costituzione
italiana, elaborato da Lelio Basso.
Esso dice: «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
A buon diritto Lelio Basso lo ha definito, trent’anni dopo, quando era
ormai chiara la distanza tra questa
norma e la concreta vicenda della
storia repubblicana, «l’articolo chiave di tutta la Costituzione, l’articolo
fondamentale, l’articolo perno». E
commentava: «questo articolo afferma che non c’è democrazia finché
sussistono disuguaglianze economiche e sociali». […] Esso costituisce
una novità assoluta. È la nozione di
«rimuovere gli ostacoli» come «compito della Repubblica» l’elemento
totalmente nuovo, unico rispetto
anche alle coeve carte costituzionali
antifasciste.
L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, Roma-Bari, Laterza, 2004
2.I diritti di partecipazione politica e sociale.
Una formulazione dell’espressione «diritti sociali» fatta da Giuliano Amato.
La Costituzione riconosce anche
diversi diritti di libertà che si esercitano essenzialmente in comune con
gli altri. Tra questi, in primo luogo,
oltre alla stessa libertà religiosa, la libertà di riunione (art. 17) e la libertà
di associazione (art. 18). Tutti i cittadini, in maniera pacifica e senz’armi, possono liberamente riunirsi
tra loro, per qualsiasi motivo, senza chiedere alcuna autorizzazione.
Tuttavia, per le riunioni che si svolgono in un luogo pubblico, come
ad esempio una strada, una piazza,
o comunque qualsiasi luogo che
per sua natura o volontà di legge sia
accessibile a tutti, gli organizzatori
devono darne preavviso all’autorità
di pubblica sicurezza. […] Sempre
nell’ambito dell’indirizzo fondamentale che ispira il riconoscimento
di tutti quanti i diritti che abbiamo
fin qui trattati – e che si potrebbe riassumere nell’aspirazione ad assicurare ad ogni individuo le condizioni
per realizzare nella maniera più piena lo sviluppo della propria persona – il costituzionalismo europeo di
questo secolo, in maniera coerente
alla proclamazione dell’uguaglianza
giuridica, e all’immagine di uomo
presupposta, si preoccupa però anche e soprattutto delle precondizioni materiali: all’individuo debole,
malato, indigente, disoccupato, vecchio o comunque involontariamente escluso dalla possibilità di condurre una vita degna e di esercitare
concretamente quelle libertà civili,
politiche e sociali che gli vengono
formalmente riconosciute, spetta,
in particolare, in quanto uomo e in
quanto membro della comunità politica, il diritto di ricevere un insieme
di prestazioni e risorse economiche
sufficienti a consentire la propria
(re)integrazione attiva. Al cittadino
malato che non può permettersi
l’acquisto a prezzo di mercato delle
cure necessarie, spetta il diritto di riceverle gratuitamente (art. 32).
G. Amato, I diritti, in L. Violante (a cura di), Dizionario delle istituzioni e dei diritti del cittadino, Roma, Editori Riuniti, 1996
1 Credi che la prospettiva di un reale progresso verso una società più rispettosa dei diritti sociali meriti l’impegno da parte di ciascuno?
2 Senti che questo possa valere anche per te nel tuo ambito oggi e in futuro? In che modo?
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Testimonianze
Documento 1
Testimonianze
Il diffondersi della moda nel vestire differenzia la Belle époque dal passato (capitolo 1)
La maggiore disponibilità di denaro, l’aumento dei consumi e la possibilità di volgersi per la prima volta a beni non essenziali coinvolsero tra Ottocento e Novecento tutte le classi sociali, seppure in misura differente. Uno dei risultati di questo straordinario cambiamento fu il diffondersi della moda nel vestire. Il filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel indagava tale fenomeno con grande
acutezza già nel 1911, notando come le mode variassero da ceto a ceto e come riguardassero prima di tutto le donne.
La moda è imitazione di un modello
dato e appaga il bisogno di appoggio
sociale, conduce il singolo sulla via
che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni
singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la
tendenza alla differenziazione, al
cambiamento, al distinguersi.
Se da un lato questo risultato le è
possibile con il cambiamento dei
contenuti che caratterizza in modo
individuale la moda di oggi nei confronti di quella di ieri e di quella di
domani, la ragione fondamentale
della sua efficacia è che le mode sono
sempre mode di classe, che le mode
della classe più elevata si distinguo-
no da quelle della classe inferiore e
vengono abbandonate nel momento
in cui quest’ultima comincia a farle
proprie. […]
Che la moda sia un puro prodotto di
necessità sociali o psicologico-formali è provato nel modo più convincente dal fatto che infinite volte non
si può trovare la minima giustificazione per le sue forme in rapporto a
finalità pratiche o estetiche o di altro
tipo. Mentre in generale il nostro abito è praticamente adatto alle nostre
necessita, nelle decisioni della moda
per dargli forma non c’è traccia di
utilità pratica: come quando si stabilisce se si debbono portare gonne
larghe o strette, capelli lunghi o corti,
cravatte nere o a colori. […]
Se la moda porta a espressione e accentua l’impulso all’eguaglianza e
quello all’individualizzazione, il fascino dell’imitare e quello del distinguersi, si può forse spiegare perché in
generale le donne dipendano particolarmente dalla moda. […] La moda
offre loro una felice combinazione:
da un campo di imitazione generale,
un nuotare nella più ampia corrente
sociale, una liberazione dell’individuo dalla responsabilità del suo gusto e delle sue azioni, dall’altro una
distinzione, un’accentuazione, un
ornamento individuale della personalità.
Documento 3
Il pensiero di Giovanni Giolitti sulla «questione sociale» (capitolo 2)
Nel 1922, pochi anni prima di morire, Giovanni Giolitti rilasciò alle stampe le Memorie della mia vita, in cui tornava con dovizia di particolari sulla sua carriera politica e sui principi ispiratori della sua azione. In questo brano, l’uomo politico piemontese spiega quale
approccio ebbe con la «questione sociale», fin dai tempi in cui fu ministro dell’Interno di Zanardelli: dialogo con le classi lavoratrici
per la pace e il benessere dell’Italia.
Per la politica interna io ritenevo arrivato il momento di avviarsi ad un
più decisivo e pratico esperimento
dei criteri democratici. […]
Io pensavo […] che fosse già arrivato
il momento di prendere in considerazione gli interessi e le aspirazioni delle masse popolari e lavoratrici, che in
quasi tutto il paese soffrivano sotto la
pressione di condizioni economiche,
di salario e di vita, spesso addirittura
inique, ed avevano cominciato, tanto
nelle grandi città industriali che qua
e là nelle campagne, ad agitarsi e a
farsi sentire […].
Osteggiare questo movimento non
avrebbe potuto avere altro effetto
che di rendere nemiche allo Stato
le classi lavoratrici, che si vedevano
costantemente guardate con occhio
diffidente anziché benevolo da parte del governo, il cui compito invece
avrebbe dovuto essere di tutore imparziale di tutte le classi di cittadini.
[…] Il moto ascendente delle classi
operaie si accelerava sempre più ed
era moto invincibile perché comune
a tutti i paesi civili e perché poggiava
sui principi dell’uguaglianza fra gli
uomini. Nessuno poteva ormai illudersi di poter impedire che le classi
popolari conquistassero la loro parte
d’influenza sia economica che politica; ed il dovere degli amici delle
istituzioni era di persuadere quelle
classi, e persuaderle non colle chiacchiere ma coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai
più che dai sogni avvenire […].
Solo con un tale atteggiamento ed
una tale condotta […] si sarebbe ottenuto che l’avvento di queste classi,
invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a introdurre nelle
istituzioni una nuova forza conservatrice e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione. […] Il governo
non aveva che due doveri, quello di
mantenere l’ordine pubblico ad ogni
costo e quello di garantire nel modo
più assoluto la libertà del lavoro.
G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti 1995
G. Simmel, La moda, Milano, Mondadori 1998
Documento 2
L’organizzazione scientifica del lavoro secondo Taylor (capitolo 1)
Frederick Taylor pubblicò L’organizzazione scientifica del lavoro nel 1911 e in essa spiegò come adattare le mansioni dell’operaio
allo scopo di ottenere da lui «il più alto rendimento». Obiettivo non secondario della nuova organizzazione di fabbrica era, per Taylor,
promuovere un coinvolgimento maggiore dell’operaio nelle scelte dell’azienda e corresponsabilizzarlo. I fatti avrebbero in realtà
dimostrato che la nuova suddivisione del lavoro accresceva, e non diminuiva, l’alienazione e l’insoddisfazione del salariato.
Primo. Chi dirige deve eseguire, per
ogni operazione di qualsiasi lavoro
manuale, uno studio scientifico, che
sostituisca il vecchio procedimento
empirico.
Secondo. Deve selezionare la mano
d’opera con metodi scientifici, e poi
prepararla, istruirla e perfezionarla,
mentre nel passato ogni individuo
sceglieva per proprio conto il lavoro
e vi si specializzava da sé come meglio poteva.
Terzo. Deve cordialmente collaborare
con i dipendenti, in modo da garantire che tutto il lavoro venga eseguito
in osservanza ai principi stabiliti.
Quarto. Il lavoro e la relativa respon-
sabilità sono ripartiti in misura quasi uguale fra la direzione e la mano
d’opera; chi ha mansioni direttive si
assume quei compiti per i quali è più
adatto dei lavoratori, mentre in passato quasi tutto il lavoro e la maggior
parte della responsabilità venivano
fatti pesare sulla mano d’opera. È
questa concomitanza della iniziativa
della mano d’opera coi nuovi compiti assolti dalla direzione che rende
l’organizzazione scientifica tanto più
efficiente del sistema tradizionale.
[…]
Ogni lavoratore, dal momento che
rappresenta uno degli elementi che
influiscono su questa accresciuta
produttività, viene sistematicamente
preparato perché possa raggiungere
il più alto rendimento ed eseguire un
lavoro di maggior levatura di quanto
fosse in grado di compiere nel sistema
organizzativo tradizionale. Al tempo
stesso egli acquista un’attitudine più
amichevole verso i datori di lavoro e
il complesso delle condizioni di lavoro, mentre prima gran parte del suo
tempo era impiegata in opera di critica, in sospettosa vigilanza e talvolta
in atteggiamenti apertamente ostili.
Cotesto guadagno diretto per tutti
coloro che lavorano con il sistema
moderno è senza dubbio l’elemento
più importante dell’intero problema.
Documento 4
Il «ministro della malavita» nelle parole di Gaetano Salvemini (capitolo 2)
Gli storici attribuiscono a Giovanni Giolitti molti meriti nella modernizzazione d’Italia. Ma alcuni suoi contemporanei diedero di lui
giudizi meno lusinghieri o addirittura negativi. Tra i suoi più implacabili avversari ci fu all’inizio del Novecento il meridionalista Gaetano Salvemini. Egli accusava il presidente del Consiglio di mantenere scientemente il Mezzogiorno d’Italia in condizione di grande
arretratezza, prima di tutto politica. E di praticare senza scrupoli brogli e violenze elettorali, pur di legare a sé i deputati meridionali.
Per questo Salvemini chiamò Giolitti il «ministro della malavita».
Nelle lotte elettorali di tutti i tempi
e di tutti i luoghi è sempre avvenuto e sempre avverrà che gli elementi
peggiori di ciascun partito pensino
di sopraffare gli avversari con la violenza e con la corruzione, quando i
mezzi legittimi di vittoria manchino,
o siano insufficienti, o appaiano di
esito incerto. E quanto più agevole e fruttifero si presenta l’impiego
dei metodi elettorali malsani, tanto
più forte deve essere la tentazione di
adoperarli. Ora, un corpo elettorale
poco numeroso è fatto apposta per
allettare i partiti alla prepotenza e
alla frode. Quando gli elettori sono
scarsi, il segreto del voto è una finzione: ogni partito riesce facilmente
a comporre l’anagrafe completa ed
esatta degli amici sicuri, dei nemici inflessibili e della massa incerta.
Basta allora comprare qualche centinaio d’incerti e bastonare qualche
centinaio di avversari: e la elezione è
fatta. Questo è il caso dell’Italia meridionale […].
Affinché questo possa avvenire, è
necessaria la complicità del governo. Ed ecco dove incominciano le
responsabilità personali e consapevoli dell’onorevole Giolitti. Il quale
approfitta delle miserevoli condizio-
ni del Mezzogiorno per legare a sé la
massa dei deputati meridionali: dà a
costoro carta bianca nelle amministrazioni locali; mette nelle elezioni
a loro servizio la mala vita e la questura; assicura ad essi e ai loro clienti
la più incondizionata impunità. […]
Nessuno è stato mai così brutale, così
cinico, così spregiudicato come lui
nel fondare la propria potenza politica sull’asservimento, sul pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno d’Italia; nessuno ha fatto un uso
più sistematico e più sfacciato nelle
elezioni del Mezzogiorno di ogni sorta di violenze e reati.
G. Salvemini, Il ministro della malavita, Torino, Bollati Boringhieri 2000
F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, Milano, Etas Kompass 1967
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Interpretazioni
Testimonianze
Documento 5
26 aprile 1915: il Patto di Londra porta l’Italia in guerra (capitolo 3)
Alla fine dell’aprile 1915, il governo italiano firmò un accordo diplomatico, il cosiddetto Patto di Londra, con il quale si impegnava
a entrare in guerra entro un mese. Il nostro paese avrebbe imbracciato le armi a fianco di Francia, Regno Unito e Russia contro
l’Austria-Ungheria. Il Patto era segreto e il suo testo fu portato a conoscenza del Parlamento italiano solo nel 1920. Ecco i principali
articoli di questo eccezionale documento storico.
Art. 2 – Da parte sua, l’Italia si impegna ad impiegare la totalità delle
sue risorse nel perseguire la guerra in
comune con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia contro tutti i loro
nemici. […]
Art. 4 – Nel trattato di pace, l’Italia otterrà il Trentino, il Tirolo cisalpino con
la sua frontiera geografica e naturale
(la frontiera del Brennero), e inoltre
Trieste, le contee di Gorizia e di Gradisca, tutta l’Istria fino al Quarnaro […].
Art. 5 – L’Italia otterrà ugualmente la
provincia di Dalmazia nei limiti am-
ministrativi attuali. […] Essa otterrà
inoltre tutte le isole situate a Nord e
ad Ovest della Dalmazia […].
Art. 6 – L’Italia riceverà l’intiera sovranità su Valona, l’isola di Sasseno […].
Art. 8 – L’Italia riceverà l’intiera sovranità sulle isole del Dodecanneso
che essa occupa attualmente.
Art. 9 – In una maniera generale, la
Francia, la Gran Bretagna e la Russia
riconoscono che l’Italia è interessata
al mantenimento dell’equilibrio nel
Mediterraneo e che essa dovrà, in
caso di spartizione totale o parziale
della Turchia d’Asia, ottenere una parte equa nella regione mediterranea finitima alla provincia di Adalia […].
Art. 11 – L’Italia riceverà una parte corrispondente ai suoi sforzi e ai
suoi sacrifici nell’indennità di guerra
eventuale. […]
Art. 13 – Nel caso che la Francia e la
Gran Bretagna aumentassero i loro
domini coloniali d’Africa a spese
della Germania, queste due Potenze
riconoscono in principio che l’Italia
potrebbe esigere qualche equo compenso […].
E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica, ISPI, Milano 1941
Documento 6
I Quattordici Punti di Wilson: una svolta nella politica internazionale (capitolo 3)
Il 1918 si aprì con l’enunciazione, da parte del presidente americano Wilson, dei Quattordici Punti del suo programma di pace. In essi,
il presidente proponeva la soluzione di molti e puntuali problemi territoriali europei, ma poneva anche importanti questioni di principio e di libertà. Il documento appariva lontano dalla realtà della politica di potenza europea e forse proprio per questo i Quattordici
Punti divennero immediatamente la bandiera di un nuovo idealismo pacifista e democratico.
1. Pubblici trattati di pace, conclusi
apertamente […].
2. Libertà assoluta di navigazione
sui mari, al di fuori delle acque territoriali, sia in tempo di pace che in
tempo di guerra […].
3. Soppressione, nei limiti del possibile, di tutte le barriere economiche
[…].
4. Garanzie sufficienti […] che gli armamenti nazionali saranno ridotti
all’estremo limite compatibile con la
sicurezza interna del paese.
5. Composizione libera […] di tutte
le rivendicazioni coloniali, fondata
sul […] principio che […] gli interessi
delle popolazioni interessate dovranno avere ugual peso delle domande
eque del governo richiedente.
6. Evacuazione di tutti i territori rus-
si e regolamento di tutte le questioni
concernenti la Russia […].
7. Il mondo intero sarà d’accordo che
il Belgio debba essere evacuato e restaurato […].
8. […] Il torto fatto alla Francia dalla
Prussia nel 1871, per quanto concerne l’Alsazia-Lorena, […] dovrà esser
riparato […].
9. Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere effettuata secondo
le linee di nazionalità chiaramente
riconoscibili.
10. Ai popoli dell’Austria-Ungheria
[…] dovrà essere data […] la possibilità di uno sviluppo autonomo.
11. La Romania, la Serbia, il Montenegro dovranno essere evacuati;
saranno ad essi restituiti quei loro
territori che sono stati occupati. […]
Garanzie internazionali di indipendenza politica, economica e di integrità territoriale saranno fornite a
questi Stati.
12. Alle parti turche del presente Impero ottomano saranno assicurate
pienamente la sovranità e la sicurezza, ma le altre nazionalità che vivono
attualmente sotto il regime di questo
Impero devono, d’altra parte, godere
una sicurezza certa di esistenza e potersi sviluppare senza ostacoli […].
13. Uno Stato polacco indipendente
dovrà essere costituito […].
14. Una Società Generale delle Nazioni dovrebbe esser formata in virtù
di convenzioni formali aventi per oggetto di fornire garanzie reciproche
di indipendenza politica e territoriale ai piccoli come ai grandi Stati.
E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica, ISPI, Milano 1941
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Gli ebrei sono esclusi dal Volk, comunità germanica di terra e sangue (capitolo 1)
Tra le conseguenze di maggiore impatto della ventata nazionalista che nella Belle èpoque investì i paesi europei ci fu la recrudescenza del tradizionale antisemitismo del Vecchio Continente e in particolare in Germania. George Lichtheim rileva come il nuovo
antisemitismo tedesco si nutrisse della mitologia del «Volk», la comunità di popolo che doveva forzatamente escludere chiunque non
avesse le sue stesse radici di terra e sangue: quindi, in primo luogo, proprio gli ebrei, visti come incarnazione del capitalismo e del
liberalismo moderni e nemici della tradizione.
[La classe media] si considerava come
la custode dei valori e dei sentimenti
minacciati dall’afflusso del razionalismo, del liberalismo, del laicismo e
del materialismo occidentali. […] Ciò
che sognavano era un ritorno al Volk
dell’era premoderna. Volk è un termine più pregnante di popolo: significa
una specie di cosmo spirituale che
risale, in definitiva, al legame dell’uomo con i suoi antenati e, attraverso
questi, con l’ambiente naturale in cui
la comunità del Volk originaria acquisì la sua essenza caratteristica. Da
questi sentimenti vaghi alla nozione
che le varie caratteristiche del Volk
erano non soltanto uniche ma incomunicabili ed eternamente inacces-
sibili ad altri, il passo era breve. […]
Per quanto riguarda gli ebrei, questo
cambiamento significò che gli oratori antisemiti sostituirono all’accusa
tradizionale di deicidio gli appelli al
sangue e alla terra. Per definizione,
gli ebrei non erano membri della comunità del Volk, e poiché si riteneva
che lo Stato fosse un’emanazione del
Volk, ne conseguiva che essi non potevano invocare un eguale diritto di
cittadinanza. […]
L’ossessione della politica tribale finì
per determinare gradualmente una
mentalità del tutto irrazionale, che
si aggrappò alle evidenti connessioni
tra il liberalismo politico, la comunità ebraica e il capitalismo moderno.
Poiché erano pionieri del capitalismo e, insieme, del liberalismo (e
in seguito anche del socialismo), gli
ebrei si esponevano all’accusa di minare alla base la coesione tribale del
Volk. […]
L’impero germanico si avventurò nell’espansione nazionale con
un’ideologia che rendeva impossibile la pace, perché la varietà moderna
dell’imperialismo si sovrapponeva
ad una base assai più antica, che risaliva ai tempi in cui i germani costituivano lo Herrenvolk, o razza sovrana, dell’Europa centrale. Il razzismo
divenne perciò un ingrediente di
grande importanza nella concezione
politica tedesca.
G. Lichtheim, L’Europa nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1998
Il pangermanismo e l’allontanamento degli ebrei dalla vita pubblica tedesca (capitolo 1)
Lo storico George Mosse, nel tracciare le linee fondamentali della storia della Lega pangermanica, racconta che Heinrich Class, a
lungo guida del movimento, lanciò nel 1908 una forte campagna antiebraica. Gli israeliti erano da lui considerati un corpo estraneo
alla nazione tedesca e dovevano essere in ogni modo allontanati dalla vita pubblica.
I pangermanisti […] facevano propri
gli ideali nazional-patriottici, pretendevano cioè che in Germania si addivenisse ad un’unificazione effettiva,
razziale e culturale, capace di assicurare al Geist tedesco un ruolo di primo piano nella Kultur come nell’ambito sociale e politico. […]
Poco dopo l’assunzione dell’incarico, Class provvide a rendere nota la
propria posizione ideologica in un
libro a larga tiratura, intitolato Wenn
ich der Kaiser wär («Se io fossi l’imperatore»), pubblicato nel 1912, dove
uno dei punti fondamentali era la dichiarata aspirazione a una dittatura,
che avrebbe attuato la società ideale,
incarnazione dell’«eterno Volk». Le
uniche limitazioni che si dovevano
porre alla volontà del dittatore sarebbero venute da un Parlamento
d’élite, composto ed eletto da aristocratici per nascita, grandi proprietari
terrieri e uomini che avessero reso
segnalati servizi allo Stato. […]
A partire dal 1908, Class propose una
decisa campagna antiebraica, accusando gli israeliti di essere i veicoli
del materialismo moderno e quindi i
nemici della sostanza spirituale germanica. […] Avrebbe voluto non solo
che lo Stato ponesse limiti all’immigrazione di Ebrei, ma anche che le
attività culturali e professionali de-
gli israeliti nati in Germania fossero
sottoposte a restrizioni: si sarebbe
dovuto escluderli dall’insegnamento,
dall’attività bancaria e dai pubblici
uffici, e vietar loro il possesso di terre.
Inoltre, sulle loro persone e proprietà avrebbero dovuto gravare imposte
doppie rispetto a quelle degli altri
cittadini. Proscritta andava anche la
loro attività in campo teatrale nonché
quella di pubblicazione e redazione
di riviste letterarie, notevolmente aumentate di numero negli ultimi due
decenni del XIX secolo; i giornali, che
contassero ebrei tra i loro collaboratori, poi, avrebbero dovuto, nella testata, portare la stella di Davide.
G. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano 1968
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Interpretazioni
Interpretazioni
Tempi, settori produttivi e localizzazione dello sviluppo industriale italiano (capitolo 2)
I nazionalisti italiani sono per una nuova Italia, forte e autoritaria potenza europea (capitolo 3)
In questo passo, lo storico Massimo Salvadori delimita il decollo dell’industria italiana nei settori produttivi e nei luoghi: nei settori
siderurgico, meccanico, elettrico, chimico e tessile, e nel Settentrione del paese, con ulteriore allargamento del divario socio-economico che già separava il Nord dal Sud.
Giancarlo Lehner sostiene che l’obiettivo ultimo dei nazionalisti italiani fosse quello di riportare l’Italia, dopo l’epoca giolittiana, a un
governo forte e capace di imporsi con autorità sulle diverse classi sociali. La guerra, con la sua urgenza di coesione e obbedienza, si
presentava come strumento perfetto di tale disegno.
I progressi furono assai rilevanti nel
campo della siderurgia e della meccanica, e in quello «nuovo» dell’industria elettrica; e proprio in questi
settori, […] l’intervento del capitale
bancario fu specialmente largo. L’industria siderurgica […] acquistò rapidamente la fisionomia di un potentissimo trust […] che prosperava
sulle commesse anzitutto dello Stato
(ferrovie, navi, armamenti).
L’industria meccanica […], assai forte nel campo delle macchine pesanti
(locomotive, motori per navi ecc.),
rimase piuttosto debole nel settore
delle macchine utensili, delle macchine agricole ecc. […]. Un notevolissimo slancio ebbe l’industria automobilistica, concentrata soprattutto
a Torino. Ma ben presto, fra le varie
industrie del settore […] la Fiat […]
acquistò una netta preminenza. Nel
1908, a Ivrea, sorse un’altra fabbrica,
di macchine da scrivere, destinata a
un grande avvenire, fondata da Camillo Olivetti.
L’industria […] elettrica […] suscitò esagerate speranze, alimentate
dall’incidenza che sul passivo della
bilancia dei pagamenti aveva l’importazione del carbone dall’estero.
[…] Comunque i progressi […] furono
notevoli: dai circa 100 milioni di chilowattora del 1898 si passò nel 1914 a
2575 milioni, cifra peraltro assolutamente insufficiente al fabbisogno.
Un settore in grande crescita fu anche quello dell’industria chimica, che
aumentò molto la produzione specie
di fertilizzanti, di materiale elettrico
e di prodotti di gomma […]. Fra le
industrie tessili, quella del cotone fu
la più dinamica, mentre minori progressi conobbero l’industria laniera
e l’industria della seta (quest’ultima,
anzi, verso il 1907 iniziò una netta discesa). […]
Nel periodo giolittiano i progressi
dell’industria contribuirono ad accentuare i divari territoriali non solo
fra il Nord e il Sud, ma all’interno
dello stesso Settentrione. Infatti sia
quantitativamente che qualitativamente l’industria si concentrò nel
cosiddetto «triangolo industriale»,
con i suoi centri di Genova, Torino e
Milano.
Il giorno stesso della dichiarazione
di guerra della Germania alla Russia
(1° agosto 1914) la giunta esecutiva
dell’ANI votava un ordine del giorno
in cui si invitavano gli aderenti a «fare
attiva propaganda per preparare il
Paese ad affrontare virilmente qualsiasi necessario cimento». […]
Appoggiati dalla classe dominante,
non esclusi gli alti gradi dell’esercito
e la monarchia, i nazionalisti ebbero,
dunque, il compito non solo di preparare l’opinione pubblica all’intervento a fianco dell’Intesa, ma anche
di delineare con precisione i fini e gli
obiettivi della guerra. Non si trattava
soltanto di realizzare un’irredentistica «quarta guerra d’indipendenza»,
Nel brano che segue Giorgio Candeloro spiega come la crescita dell’apparato di fabbrica italiano dovesse molto o quasi tutto all’intervento dello Stato, che fin dal 1887, con l’introduzione delle tariffe doganali ai danni dei prodotti esteri, favorì lo sviluppo assistito
e quindi in qualche modo artificioso della nostra economia.
L’introduzione del protezionismo
implicò […] la creazione di una situazione privilegiata per certi settori
produttivi a danno di altri ed implicò l’aumento dei prezzi delle merci
prodotte dai settori protetti, sicché la
massa dei cittadini in quanto consumatori pagò le spese di uno sviluppo
settoriale che avvantaggiò gruppi relativamente ristretti. […]
Comunque gli effetti favorevoli […] si
fecero sentire anzitutto sull’industria
cotoniera, che prima d’ogni altra conquistò il mercato interno e divenne
esportatrice […]. Fu questo il primo
esempio in Italia di una grande industria moderna, divenuta competitiva
sul mercato mondiale, che lavorava
materia prima importata […].
Anche l’industria laniera si avvantaggiò della protezione doganale,
senza peraltro riuscire a dominare
completamente il mercato interno,
che rimase tributario dell’estero per
alcune qualità di tessuti. Qualche
vantaggio dalla protezione doganale
trasse pure l’industria tessile serica,
che riuscì allora ad affiancare alla
tradizionale cospicua esportazione
di seta greggia e filata una notevole
esportazione di tessuti.
La protezione dell’industria siderurgica suscitò vivaci critiche non
solo da parte dei liberisti ma anche
da parte di quelli che sostenevano
la necessità di proteggere invece
l’industria meccanica […]. L’argomento fondamentale di queste critiche […] era l’altissimo costo della
produzione siderurgica italiana,
dovuto alla mancanza di carbone
fossile nazionale, che rendeva questa industria non competitiva sui
mercati esteri e la costringeva a reggersi soltanto sulle ordinazioni dello
Stato e dell’industria cantieristica
(anch’essa protetta dopo il 1885) per
le costruzioni delle navi da guerra e
mercantili. […] Tuttavia si deve riconoscere che, dietro «le mura difensive» della protezione doganale, questa industria riuscì a conservare una
certa vitalità […].
G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Milano, Feltrinelli 1974
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nazionale […]. Egli, ed Egli soltanto,
può e deve salvare l’Italia […]».
Così l’interventismo antidemocratico non solo preparava la guerra ma
mirava al dissolvimento delle istituzioni ed incitava ad una politica eversiva. E le frequenti manifestazioni di
piazza dei nazionalisti assunsero
spesso piuttosto il carattere di azioni
squadristiche contro gli avversari politici che di esplosioni di idealistico
patriottismo. […] Di fatto l’intervento verrà imposto ad un Parlamento,
neutralista per i due terzi, proprio
dalla duplice azione coercitiva del
vertice dello Stato (monarchia, industria, governo Salandra) e della «piazza interventista».
G. Lehner, Economia, politica e società nella prima guerra mondiale, Firenze, D’Anna 1973
M. Salvadori, Storia dell’età contemporanea, Torino, Loescher 1976
L’effetto leva del protezionismo sullo sviluppo industriale dell’Italia (capitolo 2)
come volevano gli interventisti democratici, ma di inaugurare una politica da grande potenza. […] Ma una
«grande Potenza» aveva bisogno di
un governo autoritario ed assolutistico e la guerra era l’occasione propizia
per un capovolgimento antidemocratico che avrebbe dovuto prendere
le mosse da un colpo di mano della
monarchia sin dal momento della
dichiarazione di guerra (nell’«Idea
Nazionale» del 13 maggio 1915 si leggeva: «Oggi l’ora suprema è sonata;
l’ora del Re. L’Italia attende. Non il
Governo può compiere l’atto supremo […]; non il Paese può compierlo,
e tanto meno il Parlamento, torbida
cancrena della nostra giovane vita
Il silenzioso desiderio di pace della maggior parte degli italiani (capitolo 3)
Dal brano di Alberto Monticone emerge come sia gli interventisti sia i neutralisti fossero assai lontani dal vissuto quotidiano degli
italiani, e in specie dei contadini, i quali non volevano la guerra per il semplice motivo che non ne avrebbero avuto alcun vantaggio.
Salandra lo sapeva, perché glielo rivelarono i 69 prefetti del regno, da lui apposta interrogati nell’aprile del 1915. Ma l’indagine gli
permise anche di scoprire che la guerra non avrebbe causato la rivolta del popolo. E questo era ciò che al presidente del Consiglio
bastava conoscere: il Patto di Londra era già sul tavolo.
Dalla lettura delle risposte [dei prefetti] risalta generale, diffusa e di
gran lunga prevalente la corrente
neutralista; non tanto quella del neutralismo organizzato, dei socialisti
ufficiali o di altre correnti politiche,
quanto piuttosto quello spontaneo,
non protestatario delle masse contadine, tinto talora di indifferentismo
verso il problema della guerra. […]
Anche ad un osservatore superficiale
non sfugge, leggendo le risposte dei
prefetti, che il paese nella sua grande maggioranza per motivi diversi
non desiderava la guerra, che specialmente i contadini, che avrebbero
dovuto fornire gli uomini all’esercito,
anelavano alla pace, che infine il desiderio di annettersi Trento e Trieste e
di avere certi vantaggi nell’Adriatico
era assai limitato pur nei ceti della
borghesia da cui veniva il nucleo degli interventisti.
Salandra scorrendo questi rapporti
non poteva che constatare di rappresentare una ristretta minoranza, ma
nello stesso tempo indubbiamente
si compiaceva nel vedere che l’opposizione violenta al conflitto non ci
sarebbe stata o avrebbe assunto proporzioni trascurabili. Erano i giorni
della decisione per l’intervento o per
la neutralità […]. Salandra al momento della firma del Patto di Londra
era pienamente cosciente di operare
contro la grande maggioranza degli
italiani: non aveva avuto bisogno di
attendere tutte le risposte dei prefetti per esserne a sufficienza edotto e
nel medesimo tempo non aveva più
interesse a condurre a termine l’indagine sullo spirito pubblico quando
ormai, verso il 20 aprile, l’accordo
con l’Intesa era pressoché concluso,
e pronto entro breve tempo sarebbe
stato l’esercito. Queste due cose erano quanto importava al fine di realizzare le sue idee.
A. Monticone, Gli italiani in uniforme, 1915-1918, Laterza, Bari-Roma 1972
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Unità 1 • L’Europa e il mondo nel primo Novecento
Verso la Prima prova: tema di argomento storico
Verso il Colloquio orale: preparazione dell’argomento a scelta
1 Ora che hai studiato la Prima guerra mondiale, prova a completare la tabella in modo sintetico; poi, dopo aver raccolto
3 Costruisci una mappa concettuale sulla politica estera nell’Italia giolittiana (capitolo 2).
Argomento: Lo scoppio della Prima guerra mondiale (capitolo 1)
Verso il Colloquio orale: guida all’esposizione orale
le informazioni richieste, scrivi un breve testo, più analitico, che le metta in relazione.
Qual è l’ambito tematico di riferimento del fenomeno:
politico-istituzionale, economico-sociale, filosofico-culturale
o religioso?
4 Facendo riferimento alla traccia fornita qui di seguito, prepara una breve esposizione sulla politica interna nell’Italia
giolittiana (capitolo 2), che potrai poi esporre oralmente.
Chi sono i protagonisti?
Belle époque à Sviluppo economico (agricoltura
e industria) nel Nord à Crescita del proletariato
industriale e dei braccianti agricoli à Rivendicazioni
à Conflittualità
Dov’è stata combattuta la guerra?
Giolitti à Opera riformista à Dialogo tra istituzioni
e lavoratori à Suffragio universale à Legislazione
sociale, libertà di sciopero e incremento delle
retribuzioni à Vantaggio per il sistema produttivo
Questione sociale
Arretratezza del Sud à Inefficienza
dell’amministrazione pubblica à Carenze
infrastrutturali à Analfabetismo à Disoccupazione
à Condizioni igieniche precarie à Emigrazione
à Impoverimento umano
Quando è iniziato lo scontro? Per quanto tempo è durato?
Questione meridionale
Giolitti à Azione inefficace à Aumento del divario tra
Nord e Sud à Accuse di Salvemini à Clientelismo e
corruzione à Trasformismo
Quali sono le cause che lo hanno innescato?
Non expedit (Pio IX) à Rerum Novarum (Leone XIII)
à «Dottrina sociale della Chiesa» à Costruzione di
una società più equa
Questione cattolica
Giolitti à Patto Gentiloni à Ingresso in politica dei
cattolici
Quali sono, invece, le conseguenze del conflitto?
Verso la Terza prova: quesiti a risposta singola
2 Rispondi in tre/cinque righe ai seguenti quesiti.
1In che cosa consisteva il progresso economico in Europa
negli anni della Belle époque?
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2In che cosa consisteva, invece, il progresso scientifico?
4In che cosa differiva il nazionalismo dilagante nell’Europa
della Belle époque dalla politica della concertazione
internazionale?
3Quali erano le caratteristiche della «società di massa» negli
anni della Belle époque?
5Spiega che cosa si intende con l’espressione «dottrina
Monroe» e quali conseguenze ebbe.
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