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STORIA DEL CINEMA MINUZ 20202021 (2022 10 16 16 21 18 UTC)

I PRIMI ANNI DEL CINEMA
Presupposti tecnici dell’invenzione del cinema
Il cinema fu inventato alla fine dell’800. Esso fu in principio un meccanismo tecnologico che divenne la base
di una grande industria, una nuova forma di intrattenimento e un nuovo mezzo artistico. Nel primo
decennio di vita, gli inventori lavorarono per migliorare le macchine da presa e i proiettori. Già nei primi
dieci anni, si stabiliscono le condizioni per la diffusione internazionale dell’industria.
I presupposti per la nascita del cinema era cinque:
1) percezione. Gli scienziati capirono che l’occhio umano percepisce il movimento quando gli sono
mostrate una successione di immagini a una velocità di almeno sedici al secondo.
2) proiezione. Serviva un meccanismo che riuscisse a proiettare le immagini.
3) fotografia. Fu necessario elaborare una tecnologia fotografica con un tempo di esposizione breve.
4) impressionamento delle foto. Le fotografie dovevano essere impressionate su una base flessibile in
gradi di scorrere rapidamente in una macchina. Il Kodak di George Eastman era un rullo di celluloide
trasparente adatto a questo scopol
5) proiezione. Fu necessario elaborare un meccanismo a intermittenza per fermare lo scorrimento varie
volte al secondo.
Invenzioni fondamentali: Edison (3) e il kinetoscopio; il vitascope, e il mutoscope (5)
La tecnica delle immagini in movimento emerse dal contributo di ricercatori che provenivano soprattutto
dagli Stati Uniti (Edison e Dickson), dalla Germania (bioskop), dal Regno Unito (Robert Paul) e la Francia
(cinematografo dei Lumière).
Edison e il suo assistente Dickson, con l’invenzione del kinetografo e il kinetoscopio (simile al peepshow),
costruirono il primo teatro di posa e settarono lo standard della pellicola da 35 mm. In Germania fu
inventato il bioskop, un sistema molto ingombrante.
Nel Regno Unito, Robert Paul e Birt Acres costruirono una macchina simile al kinetografo, con la quale
girarono Rough Sea at Dover (1896), uno dei film delle origini più celebre.
Negli Stati Uniti, vari gruppi rivali perfezionavano i sistemi di ripresa e proiezione. Edison commercializzò il
vitascope, e Herman Casler commercializzò il mutoscope, un peepshow con il quale diede vita all’American
Mutoscope Company.
I fratelli Lumière. Il cinematografo
Il cinematographe dei fratelli Lumière, una piccola macchina da presa ispirata al kinetografo, con la pellicola
da 35 mm e un meccanismo a intermittenza, contribuì a rendere il cinema un’esperienza realmente
internazionale. Nel 1895 fu girato L’uscita dalla fabbrica Lumière, il primo film della storia. In poco tempo, i
Lumière offrivano diverse proiezioni al giorno a pagamento.
Il 28 dicembre 1895 nasceva il cinema, in quanto alla prima proiezione dei Lumière erano presenti tutte le
condizioni per uno spettacolo cinematografico:
1. un soggetto produttore
2. un dispositivo (in cinematographe)
3. un atto di vendita
4. un’audience.
La decina di filmati mostrati rientrano nel “modo di rappresentazione primitivo”, un cinema delle attrazioni
mostrative” anteriore alla fase dell’integrazione narrativa. Il sistema monopuntuale, basta su un piano unico,
prevedeva una sola inquadratura. I soggetti erano principalmente vedute en plein air. Il movimento delle
persone fa pensare a una regia embrionale, e la logica dell’attenzione vuole indurre negli spettatori uno
shock visivo. Le linee centrifughe disorientanti saranno poi sostituite dalla prospettiva centrale del
linguaggio classico.
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Dal 1897, i Lumière contribuirono allo sviluppo iniziando a vendere il cinematographe. Nel 1905 cessarono
la loro attività, per continuare le sperimentazioni in ambito fotografico.
I fratelli Lumière non intravidero il potenziale narrativo del cinema. “Questa invenzione potrà essere
sfruttata per un po’ come curiosità scientifica: al di fuori di questo, non ha alcun avvenire commerciale” (L. e
A. Lumière, 1900).
Il cinema delle origini
Il cinema delle origini è diviso in tre grandi fasi:
- Cinema delle attrazioni (1895-1905). Prevede un unico punto di vista (inquadratura monopuntuale). Punta
a mostrare piuttosto che a raccontare: l’orizzonte della narrazione è assente. Solo dopo 10/15 anni gli
spettatori inizieranno a stancarsi di breve scene, e si creeranno le condizioni per il passaggio al
lungometraggio. Lo spettacolo cinematografico esiste solo dentro un sistema di attrazioni spettacolari
popolari (circo, fiere, music-hall). Non esistono figure professionali specifiche (tecnici, attori, regista) al di
fuori dell’operatore. I Fratelli Lumière erano degli imprenditori della fotografia e si buttano nel mondo
delle vedute cinematografiche in modo improvvisato. L’effetto speciale principale è il movimento stesso.
- Era di transizione (1903-1913).
- Modo istituzionale di rappresentazione (1908-1915). Il passaggio dalla dimensione artigianale del cinema
(vicino alle forme circensi) alla dimensione industriale (istituzionale). Questo processo si sviluppa per
tappe, dal 1895 al 1915, che rispondono a due leggi:
I.
il rapporto fra domanda e offerta. Il pubblico si stanca delle scene monopuntiali, stimolando la nascita
di forme narrative tramite i lungometraggi. Rete di domanda-offerta.
II. scoperte casuali dovute alle sperimentazioni e alla varietà di produzioni.
Elementi caratterizzano questa transizione:
1) il passaggio ad un cinema narrativo;
2) le sale cinematografiche. Il cinema impiega dieci anni per passare da una modalità di fruizione diffusa alla
costruzione di sale adibite alla visione dei film.
3) rafforzamento di uno studio system basato sull’integrazione verticale;
4) definizione di uno star system anche tramite le riviste;
5) trasformazione del linguaggio cinematografico.
Il corpo nel cinema delle origini
Il cinema spezza il corpo umano per la prima volta: alcuni spettatori, guardando dei primi piani, si
spaventarono o avevano chiesto indietro i soldi del biglietto. Queste reazioni sono comprensibili se
collocate nel contesto della cultura visiva del tardo ottocento: spezzando la figura visiva attraverso dei
dettagli o primi piani, il cinema inizia gradualmente a costruire una propria sintassi. Questo genere di
sperimentazioni ha come riferimento lo spettacolo popolare, i giochi illusionistici, non certo ad una chiave
narrativo-empatica che ci permette ad interpretare quei dettagli in modo emotivo, propria di un pubblico
con 120 anni di cinema alle spalle. Il cinema delle origini non vuole narrare bensì stupire.
Divi nel cinema delle origini
Nei primi anni della storia del cinema non si può parlare di divi. Gli attori teatrali si vergognavano di essere
ridotti allo schermo, per un fatto di prestigio culturale. Il cinema delle origini non aveva neanche bisogno di
attori, poiché non gli erano personaggi. Nella fase di transizione, il cinema comincia a garantire dei grandi
compensi attirando gli attori. Inizia la costruzione di divi e di fandom. Il pubblico inizia a scrivere lettere ai
produttori per avere informazioni personali sugli attori. Ci vuole un concorso di azioni, in primis l’esistenza
di riviste che portano avanti un discorso sul film, per creare una cultura cinematografica. Le riviste sono
spesso proprietà dei produttori, possono pilotare le interviste e promuovere i film.
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Sviluppo dell’industria francese.
Con il successo del cinematographe, comprassero altre case di produzione, come la Star Film di George
Méliès, la Pathé e la Gaumont. Nel 1905 e il 1906, l’industria cinematografica francese dominava il mercato.
1. George Méliès. Considerato uno degli artisti più importanti del cinema delle origini. Egli era un
illusionista che chiese un un proiettore a Robert Paul da usare nei suoi spettacoli. Egli girò film di tutti i
generi, ma è ricordato principalmente per i film fantastici, ricchi di trucchi e fondali dipinti. Utilizzò il
fermo macchina per creare degli effetti speciali, per esempio per trasformare una donna in uno
scheletro. Egli agiva anche in post produzione, tagliando la pellicola. Spesso abbelliva le messe in
scena colorandole a mano. I suoi film erano molto popolari e spesso abusivamente distribuiti. Fra i film
più famosi c’è Il viaggio sulla luna (1902), film comico di fantascienza. Coperto da debiti e schiacciato
dalla concorrenza, concluse la sua attività nel 1912.
2. Pathé Frères. Già venditore di fonografi, in pochi anni divenne la società cinematografica più grande al
mondo. Fu una delle prime a basarsi su un sistema di concentrazione verticale della produzione.
Cominciò a noleggiare i film piuttosto che venderli. I film di Ferdinand Zecca, che riprendevano le idee
di Méliès e i film americani e inglesi, vendevano moltissimo. Inoltre, Zecca supervisionava la produzione
degli altri registi, che dovevano girare un film alla settimana. Si espanse fuori dai confini nazionali. Nel
1913, la Pathé decise di tagliare il settore della produzione e dedicarsi alla distribuzione in particolare
dei serials, rendendosi indipendente dalla MPPC. Questa scelta si rivelò infruttuosa e la Pathé fu esclusa
dal mercato.
- La Pathé creò il pochoir, un sistema di colorazione meccanica utilizzato fino ai primi anni del cinema
sonoro.
- I film di maggior successo coinvolgevano comici famosi, il particolare la serie di Max Linder, che
esercitò una forte influenza sul personaggio di Charlie Chaplin.
3. Gaumont. Nel 1897 cominciò a produrre film, principalmente le “attualità”, con la regia di Alice GuyBlanché, la prima donna regista della storia, in seguito sostituita da Louis Feuillade e Léonce Perret.
Negli anni dieci la Gaumont iniziò a produrre cortometraggi. Il nome di Feuillade è legato ai serials, film
a episodi che precedettero i lungometraggi.
La cultura francese è fondata sul grande romanzo francese e sul grande teatro borghese naturalistico. Il
cinema diventa un amplificatore della cultura legittima, per catturare delle fasce di pubblico culturalmente
ed economicamente elevate attraverso il lungometraggio. Il cinema francese si sviluppa già dagli anni dieci
su basi letterario-dramamturgiche.
La Scuola di Brighton: George Albert Smith e James Williamson.
Nel Regno Unito, i film erano mostrati alle fiere o nei music-hall. Divenne popolare il phantom ride. Alcuni
produttori, sparsi per il Regno Unito, costituirono la scuola di Brighton, località di villeggiatura dove
lavoravano: fra questi i più importanti furono George Albert Smith e James Williamson. Essi sperimentarono
diversi modi di usare gli effetti speciali e il montaggio. In The Big Swallow (1900), l’uomo inquadrato ingoia
la cinepresa, la quale cade nel vuoto insieme all’operatore. Mary Jane’s Mishap (1903) utilizza una serie di
inquadrature ravvicinate per conferire una continuità narrativa, una delle tecniche basilari che si svilupperà
nei seguenti 15 anni.
Stati Uniti: L’American Mutoscope & Biograph e l’American Vitagraph
Negli Stati Uniti, era difficile controllare la diffusione delle pellicole, che spesso venivano abusivamente
copiate e imitate. Si diffuse il cinema patriottico e “delle Passioni”. L’American Mutoscope Company
cambiò nome in American Mutoscope & Biograph (AM&B), che nel 1908 assunse David Griffith, uno dei
registi più importanti del cinema muto. In parallelo, iniziò la sua attività la American Vitagraph.
3
Edwin Porter
Per fronteggiare la concorrenza, Edison assunse Edwin Porter, uno dei più importanti registi del periodo. A
lui è attribuita la realizzazione del primo film narrativo, Life of an American Fireman (1903) e il
perfezionamento del montaggio. Il suo film più importante fu La grande rapina al treno (1903). Egli
contribuì alla diffusione dei film di finzione, che potevano essere prodotti nei teatri di posa e accuratamente
pianificati.
Il cinema in Italia. Film d’arte, lm in costume, cinema in frack. (17, 31)
Il cinema italiano nasce un po’ in ritardo, nel 1905, e si sviluppò sulla base del modello francese. Nacquero
la Cines a Roma, e la Ambrosio Film e la Itala Film a Torino. Il cinema si sviluppò dentro la Mole antonelliana
a Torino. Torino era una città industriale, mentre Roma era la città papalina e non predisposta alle nuovi
fenomeni industriali. Sarà Mussolini e il fascismo a portare il baricentro del cinema italiano a Roma, tramite
la costruzione di Cinecittà negli anni ’30, per centralizzare la produzione cinematografica e per tenere forte
il legame fra cinema e politica.
I produttori si cimentarono nella produzione di “film d’arte”, e le esportazioni furono seconde solo alla
Francia. Andarono di moda anche i film comici, spesso imitazioni dei francesi, per esempio la serie con il
personaggio di Cretinetti (già Boireau della Pathé).
Dagli anni dieci, in particolare con l’attività di Giovanni Pastrone, si inaugurò la moda di realizzare film storici
lunghi e fastosi. Il cinema italiano non poteva che riprendere il suo grande patrimonio storico. La cultura
italiana è fondata sul culto del passato, e il cinema si specializza sul film storico anche per trasformare in
cinema da baraccone in una forma rispettabile e legittima.
Nasce come diretta conseguenza della nascita dello star system il “cinema in frack”, che racconta delle
passioni e gli intrighi dell’alta borghesia, condite con una miscela di erotismo e morte. L’equivalente della
diva era il personaggio forzuto, incarnato da Maciste, sul quale furono basati vari altri film ambientati nel
presente.
Il cinema italiano degli anni ’10 è più importante di quello americano, in particolare per il film storico (che
funziona anche all’estero) e per il diva film, che vede protagoniste le dive italiane dell’epoca. Esso entrerà in
una profonda crisi economica negli anni ’20, per essere poi recuperato dal fascismo.
Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone
Prodotto dalla Itala Film, Cabiria è un film profondamente originale che propone un inedito approccio
estetico. Ambientato a Cartagine nel secondo secolo a.C., Cabiria vede l’eroe Fulvio e lo schiavo forzuto
Maciste alle prese con il salvataggio della protagonista Cabiria. Esso porta in scena la storia romana antica
in modo solenne e grandioso. La forma cinematografica era ideale per valorizzare il patrimonio
archeologico, paesaggistico e culturale in chiave patriottica, anche alla luce del riassestamento degli
equilibri di potere in Europa.
Cabiria sfruttò una strategia produttiva e di marketing molto avanzata. Infatti, sulla locandina non spicca il
nome di Giovanni Pastrone; spicca la casa di produzione e “un film di Gabriele D’Annunzio”, che scrisse le
didascalie del film. Quest’operazione di marketing sfrutta il brand Gabriele D’annunzio e lo associa a un film
di basi storico-mitologiche. Inoltre, la pubblicizzazione di Cabiria avviene attraverso uno spot ben
architettato che riproduce Maciste che esce dallo schermo in una sala cinematografica.
La monumentali di Cabiria fu resa tale anche con le scenografie, che facevano ricorso a costruzioni in
muratura, modellini e altri espedienti. La grande statua viene costruita in scala 1:1. Per il pubblico
dell’epoca, vedere le scenografia non significa più confrontarsi con dei teli dipinti; significa esplorare delle
costruzioni cinematografiche fortemente realistiche che guadagnano in profondità attraverso l’esplorazione
della macchina da presa. Lo spettatore è trasportato in un’esperienza quasi tridimensionale. Gli scenografi
italiani diventarono fra i più famosi al mondo; Griffith ne copierà lo stile.
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All’interno di Cabiria compare un personaggio di grande successo: Maciste. Egli è un personaggio di
contorno, ma il pubblico dell’epoca si appassiona alle sue gesta eroiche. Il nome di d’Annunzio diventa
sempre più piccolo, e il nome di Maciste sempre più grande. L’attore Bartolomeo Pagano era uno
scaricatore di porto, analfabeta, scelto dalla Itala Film per il suo corpo maschile muscoloso. Maciste inizia a
vivere come personaggio di vita propria, e si apre un ciclo di film che ha come protagonista Maciste. Nel
film di Pastrone, Maciste era uno schiavo africano; nei film successivi egli si presenta come bianco italiano.
Esso incarna un gioco di specchi fra mascolinità italiana e mascolinità forzuta. L’Italia è in cerca di un’icona in
grado di comunicare la sua forza virile e militare, e Gabriele d’Annunzio gli fornisce l’equivalente italiano del
superuomo di Nietzsche, scavato nella cultura popolare. Mussolini troverà nella forza di Maciste grande
ispirazione; egli ne studia le pose e le riproduce.
Il cinema in Danimarca: La Norisk. August Blom, Asta Nielsen
L'imprenditore Ole Olsen fondò nel 1906 una casa di produzione, la Nordisk, raggiungendo il successo nel
1907 che si specializzò nel poliziesco, nel dramma, nel melodramma, comprese storie di prostituzione e
drammi sulla vita nel circo, ammirati per aver condensato in due o tre rulli una trama molto ricca. August
Blom era il maggiore dei registi: il suo successo era dovuto alle splendide scenografie e scene spettacolari
dei suoi film, quale Atlantis. L’abisso portò alla ribalta l’attrice Asta Nielsen, che in seguitò andò a lavorare
in Germania. L’industria danese fu fiorente fino allo scoppio della prima guerra mondiale.
Il cinema svedese come esempio di cinematogra a nazionale. Af Klercker, Stiller, Sjostrom
Insieme a quello italiano e francese, il cinema svedese è il cinema nazionale più importante di Europa, in
particolare per i suoi paesaggi e la profondità dei personaggi. Il paesaggio propone un’atmosfera “gotica”.
La profondità dei personaggi deriva al teatro, rappresentato da Ibsen e Stindberg. Questo tratti
permettono un forte riconoscimento grazie anche a dei registi e sperimentatori che propongono dei film
memorabili. Le trame sono spesso tratte dl bagaglio dei racconti gotici e delle favole.
Su tutti, Il carretto fantasma di Viktor Sjostrom (1921) (attore e regista) incarna al meglio i caratteri del
cinema svedese. Esso si distingue per uno strabiliante uso degli effetti speciali, in particolare la
sovrimpressione, per rendere il carretto della morte attraverso la sovrimpressione. La recitazione
estremamente moderna per l’epoca, un elemento decisivo che permette di recuperare la caratterizzazione
psicologica.
I nickelodeons. Il cinema come intrattenimento popolare (19)
Tra il 1905 e il 1907 si verificò un aumento notevole delle sale (magazzini che contenevano meno di 200
posti a sedere) in cui si pagava il biglietto in base alla durata dello spettacolo (un nickel o dieci centesimi).
Con la diffusione dei film narrativi, andare al cinema divenne una forma di intrattenimento regolare. I
produttori cominciarono a noleggiare i loro film e in questo modo gli esercenti potevano cambiare la loro
programmazione due, tre anche sette volte alla settimana. I nickelodeons potevano programmare film dalla
tarda mattinata fino a mezzanotte.
Quasi sempre vi era un accompagnamento sonoro, la spiegazione di ciò che avveniva sullo schermo,
dialoghi di attori, rumori per accompagnare il film, musica con un pianoforte o un fonografo. I nickelodeons
permisero ad un pubblico di massa di assistere agli spettacoli. Un solo nickelodeon noleggiava 450 titoli
all'anno, che provenivano anche dall'Europa.
Questi locali permisero anche a brillanti uomini d'affari di intraprendere brillanti carriere. I fratelli Warner
cominciarono come gestori nickelodeons. Carl Laemmle, futuro fondatore della Universal, aprì il suo primo
nickelodeon a Chicago nel 1906; Louis B. Mayer, che divenne la seconda M della MGM, gestiva un piccolo
cinema nel Massachusetts.
Laemmle affermò che i frequentatori fossero “la peggiore feccia dell’umanità", le fasce di pubblico più
povere e ignoranti.
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La Motion Pictures Patents Company (1908). Inizio dell’oligopolio
La rivalità fra la AM&B e la Edison si concluse nella formazione di una nuova società nel 1908, la Motion
Pictures Patents Company, che aspirava a controllare il mercato imponendo una tassa per produrre film. Le
importazioni dei film furono limitate. La Eastman Kodak accettò di vendere materiale fotografico solo alla
MPPC. I cinema che si rifiutarono di acquistare la licenza della MPPC crearono un mercato alternativo di
“indipendenti”, che nel 1909 si unirono nella Indipendent Motion Picture Corporation. Nel 1915 la MPPC fu
condannata dal governo americano in quanto essa si configurava come trust.
Trasferimento degli studios da New York a Hollywood
La scena americana si sviluppa soprattutto a New York, dove si trovarono i principali impresari
cinematografici che nel 1908 misero in comune le loro licenze d’impresa nella Motion Picture Patents
Company (MPPC), che vede al suo interno vari soggetti: Edison, Biograph, Vitagraph, Pathé, Gaumont,
Lubin, Kalem, Essanay e Selig. Di risposta, i grandi produttori di Hollywood vanno contro il Trust e lavorano
nel cinema senza passare per questa licenza. Nel 1922 la Motion Picture Producers and Distributors of
America ha sede a Hollywood. Esso era il posto più lontano in assoluto da New York, che significava essere
al riparo da multe e controlli. Inoltre, Hollywood è un paesaggio soleggiato e molto vario, che permette di
costruire film molto diversi per ambientazione e scenografie avvalendosi della grande illuminazione
naturale.
Il dominio degli Stati Uniti
Inizialmente, le compagnie americane erano rivolte al mercato interno. Dal 1909, le società si rivolsero ai
mercati stranieri, passando per Londra, centro della compravendita dei film americani. Con la conquista del
mercato internazionale, i budget divennero più alti.
Hollywood si configurò come l’industria cinematografica più potente al mondo. Appena vent’anni dopo lo
spettacolo Lumière a Parigi, il cinema era già la quinta industria d’America. All’epoca in cui il sonoro
rivoluzionò Hollywood, era già la quarta industria nazionale.
1. ragioni economiche e politiche (libertà di mercato, mercato estero). Il cinema americano punta
pressoché subito sulla penetrazione e l’occupazione del mercato internazionale, che sarà dominante
durante la prima guerra mondiale: Hollywood ha da subito una vocazione globale. Negli anni ’60, il
50% degli incassi venivano dall’estero, e questo dato è valido ancora oggi. Viceversa, le cinematografie
europee si definiscono come nazionali nel senso tradizionale del termine. Il capitalismo americano è più
forte e libero rispetto a quello europeo, segue la legge della domanda e dell’offerta.
2. ragioni culturali e storiche (cultura giovane, maggiore disinibizione). L’ideazione di un meccanismo di
produzione cinematografica tanto efficiente fu sostenuto da fattori storici e culturali. La cultura
americana nasce come cultura globale, e in quanto tale tende a lavorare in termini della costruzione di
un linguaggio molto semplice, comprensibile da tutti, per costruire un immaginario di massa. Inoltre, gli
americani non si devono confrontare con un bagaglio artistico millenario: la loro cultura è più disinibita
e intravede nel cinema la possibilità di costruire la sua forma d’arte, o meglio di comunicazione e
espressione, una possibilità di business. Difatti, l cinema diventò l’espressione fondamentale e decisiva
degli Stati Uniti.
3. ragioni storiche (guerre mondiali indeboliscono le economie europee). Hollywood assunse una
posizione dominante durante la prima guerra mondiale, poiché il personale era impegnato al fronte.
Nascita dello star system (1910)
Dopo che il boom dei nickelodeons e la formazione della MPPC ebbero normalizzato l'industria americana,
le società cominciarono a vendere film con il proprio marchi di produzione. Dopo il 1908-1909 i produttori
iniziarono a offrire loro contratti più lunghi, e gli spettatori cominciarono a vedere le stesse facce in ogni
film, dimostrando un interesse per i loro interpreti preferiti chiedendo agli esercenti il nome degli attori. Nel
1910 alcune case di produzione cominciarono a sfruttare i loro attori famosi a fini pubblicitari. Nel 1911
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apparvero le prime riviste per i fan, ad esempio The motion picture story magazine. Rudoph Valentino è
considerato una delle prime star della storia.
David Gif th. The Birth of a Nation
Griffith fu un regista e produttore, considerato il padre del cinema americano. Diede uno sviluppo tecnico e
produttivo fondamentale al cinema: tutta la storia del cinema americano si sviluppa attorno alle sue
invenzioni.
Attraverso un uso in buona parte innovativo della macchina da presa e del montaggio, David Griffith riuscì a
trovare una via davvero cinematografica al racconto, che sviluppa un proprio linguaggio piuttosto che
essere pressoché teatro firmato. Griffith trova questa via costruendo un grande quadro ritmico del racconto
cinematografico. Egli è uno dei primi organizzatori di uno spazio-tempo cinematografico. L’idea molto forte
di narrazione si sviluppa con gli strumenti del montaggio alternato (continuity editing) e montaggio
parallelo (parallel editing). Egli comprende che spazio cinematografico è costituito dalla frammentazione e
ricomposizione data dal montaggio, ponendo enfasi agli elementi ai quali si vuole dare rilievo.
La frammentazione a mosaico e la sua ricomposizione permette allo spazio di essere dinamizzato e restituito
in termini di narrazione. Il tempo cinematografico funziona allo stesso modo; esso è dato da una serie di
ellissi e tagli che accorciano l’azione.
Griffith è anche fra i primi sperimentatori a proporre l’idea di un montaggio che mostra più azioni. Un
esempio classico è il tema del last minute rescue: due linee narrative si ricongiungono quando i cattivi e i
buoni si incontrano per il duello e il salvataggio finale.
Film più importanti: The birth of a nation (1915) e Intolerance (1916). In essi si vede all’opera il montaggio di
due linee parallele di un racconto per permettere allo spettatore di vivere una situazione di ubiquità. Le
linee possono intersecarsi e definire la suspence e il ritmo del racconto.
Sviluppo della chiarezza narrativa (codi cazione del 1917)
A partire da Edwin Porter, il cinema commerciale si orientò sempre più verso la narrazione. L’obiettivo era
rendere chiara la trama ricorrendo alla sequenza di inquadrature. che rappresentano i rapporti di causaeffetto, spazio e tempo. Progressivamente, diventarono importanti le cause psicologiche delle azioni dei
personaggi. Dal 1917 si era codificato un sistema di regole formali poi chiamato cinema hollywoodiano
classico.
1. Profondità di campo. Fin dai primi anni, la trama poteva svilupparsi ricorrendo all’avvicinamento/
allontanamento dell’attore dalla macchina da presa, ad esempio per sottolineare la gestualità e le
espressioni.
2. Didascalie. Dal 1905, si introducono le didascalie descrittive e narrative. I dialoghi erano posti a metà
della sequenza, dopo che il personaggio aveva iniziato a parlare.
3. Recitazione. Griffith lavorò con le sue attrici per esplorare una gamma di emozioni solo attraverso
leggeri mutamenti delle espressioni.
4. Macchina da presa. Dal 1908 le macchine da presa erano collocate più vicino agli attori. Fu introdotto il
piano americano. Iniziarono ad utilizzarsi angolazioni dall’alto e dal basso. Si diffusero le teste girevoli e
le panoramiche.
5. Colore. Molte pellicole venivano colorate secondo la moda del momento. Le tecniche più diffuse
furono il pochoir, l’imbibizione e il viraggio. Inserendo la pellicola in un colorante, si creava una
tendenza cromatica dominante e uniforme. Questo linguaggio era compreso dal pubblico dell’epoca
ma incompresa da noi oggi. Ad esempio, una scena interamente viola suggeriva la notte; le scene blu
suggeriscono il romanticismo. In altri casi erano colorate solo delle parti. In alcuni rari casi molto
affascinanti, i fotogrammi erano colorati a mano, creando un effetto visivo simile alle vetrate delle
chiese medievali.
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6. Scenografia e illuminazione. Si usarono sempre più frequentemente set tridimensionali e l’illuminazione
elettrica, prevalentemente uniforme e piatta.
7. Montaggio. Le tipologie base di montaggio diventano implicite nel montaggio hollywoodiano.
- alternato. I film della Pathé e quelli di Griffith influenzarono lo sviluppo di questa tecnica. Gli spettatori
comprendevano che gli stacchi fra luoghi diversi rappresentavano due azioni contemporanee.
- analitico. Suddivisone di uno spazio unico in inquadrature diverse. Spesso si trattava di “inserti” visti
dal punto di vista dello spettatore.
- contiguo. Suddivisione di un’azione, ad esempio un inseguimento, in varie inquadrature, suggerendo
la continuità di movimento. Uno stacco di questo tipo è il raccordo di sguardo. Il doppio raccordo di
sguardo, ad esempio due personaggi che si guardano, segue il principio del campo/controcampo,
associato alla regola dei 180 gradi.
Board of censorship (1909), l’autocensura.
Un gruppo di cittadini newyorchesi, nel marzo del 1909, formò il Board of Censorship, un'organizzazione
privata che mirava a migliorare il contenuto dei film. Questa e altre forme di autocensura fecero in modo
che nell'industria cinematografica americana non venisse mai approvata una legge di censura nazionale.
L'immagine pubblica del cinema fu migliorata distribuendo film che miravano ad attirare spettatori delle
classi medio-alte. I gestori cominciarono a costruire nuove sale o a trasformare quelle già esistenti. Gli
accompagnamenti musicali da parte di orchestre o di organi a canne avevano lo scopo di creare
un'atmosfera diversa e più elegante. Nel 1930, la Motion Picture Producers and Distributors of America
creerà il celebre codice Hays.
Nascita del lungometraggio
Già nel 1907, il pubblico, assuefatto dalla novità dell’immagine in movimento, diventa più esigente. Si
passa dalle real-life (le vedute dei fratelli Lumière) ai fiction based films. Allo stesso tempo, costruire questo
tipo di cinema significa razionare la produzione: ciò comporterà una rivoluzione a livello produttivo.
La nascita del lungometraggio si costituisce attorno ad alcune forme narrative fondamentale, per abituare il
pubblico a concentrarsi di più. L’opera principale dell’epoca della transizione è Le passioni di Gesù Cristo.
Essa funzionò in quanto tutti conoscono la storia delle passioni di Gesù: si poteva spezzare l’azione senza
fornire troppe spiegazioni al pubblico. I lungometraggi erano costituiti da inquadrature fisse che
costituivano dei quadri; il riferimento è sempre teatrale.
I cinema nazionali
Ad un primo livello, un cinema nazionale mette in scena la storia nazionale del paese. Griffith ad esempio
mette in scena l’uccisione di Abramo Lincoln e la fondazione degli stati uniti. Il cinema fascista metterà
spesso in scena il mito di Roma in chiave propagandistica e identitaria. In modo più sofisticato, il cinema
nazionale si riferisce ai tratti e ai temi che caratterizzano una cinematografia. Negli anni ’30 il cinema si
afferma come un linguaggio sovranazionale. Infatti, inizialmente il cinema parla quasi esclusivamente
attraverso le immagini, per cui i confini nazionali sembrano a prima vista venire meno. Un film estero avrà
dei caratteri formali e culturali che sono il frutto di logiche produttive, di una cultura e di una mentalità
nazionali.
Oggigiorno, le logiche nazionali sono molto diluite, e alcuni fenomeni si comprendono meglio in una logica
di cinema europeo. Si sta andando nella direzione di diminuire le culture nazionali e verso un cinema
globale.
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LE AVANGUARDIE EUROPEE DEGLI ANNI ’20
L’Impressionismo francese (1918-1923)
Fra il 1918 e il 1923, in Francia, una nuova generazione di autori esplora le possibilità del cinema come
forma d’arte. Alla fascinazione per la bellezza pittorica si unisce l’indagine psicologica. Il primo ad
allontanarsi fu Abel Gance con La decima sinfonia (1918), prodotto dalla Pathé.
L’obiettivo dell’impressionismo era l’evocazione di “impressioni”, emozioni transitorie. L’immagine
cinematografica rivendica una sua logica iconica, una logica emozionale ed espressiva che si manifesta
attraverso l’immagine, riducendo al minimo le didascalie e gli intrarticoli.
Gli impressionisti consideravano il cinema come una sintesi delle altre arti, in grado di stabilire relazioni
spaziali e temporali. Dall’altro, il cinema aveva delle possibilità uniche. Il cinema era diverso dal teatro, e gli
impressionisti sottolinearono questo aspetto con la recitazione naturalistica e contenuta.
Il concetto di photogénie fu diffuso da Louis Delluc. La photogénie è la qualità che distingue l’immagine dal
reale. L’immagine rivela la natura intima e poetica delle cose, che possono diventare “fotogeniche” tramite
le proprietà della macchina da presa. Questa è una concezione lirosofa, vagamente spiritista, poiché
rimanda all’idea che sia il cinema ad animare le cose. ll reale cinematografico si manifesta con un linguaggio
intimamente poetico. Questa deriva dipende anche da un fattore pratico: per la prima volta al cinema si
possono vedere sullo schermo i dettagli, gli oggetti piccoli amplificati.
La matrice principale del film è il “ritmo visivo”, che sorge dall’attenta contrapposizione tra i movimenti e le
inquadrature. Questa idea avvicina la forma filmica alla musica piuttosto che a qualsiasi altra arte.
Caratteri formali:
1) Ripresa (soggettività, filtri, sovrimpressioni, ralenti, variazioni di messa a fuoco, movimenti di macchina).
I film impressionisti contenevano un gran numero di effetti ottici che comunicavano la percezione
soggettiva.
2) Montaggio (ritmo veloce). I veloci flash di fotogrammi conferivano ai film un caratteristico ritmo veloce. I
teorici raggiunsero così il “ritmo visivo” teorizzato nei loro scritti.
3) Messa in scena. La cura principale dei film era all’aspetto fotografico, mentre la messa in scena era
relativamente convenzionale.
4) Narrazione (trame subordinate alla psicologia). Anche le storie erano convenzionali, mentre le situazioni
emotive erano esacerbate.
Nel 1925, Leon Moussinac pubblicò Naissance du cinéma, in cui delineava i tratti stilistici fondamentali
dell’impressionismo. Esso tuttavia non si sviluppa più. Le soluzioni stilistiche diventano convenzionali: Jean
Epstein afferma la necessità di liberarsi dei dispositivi ormai banalizzati e fare film più semplici. Iniziarono a
fare concorrenza all’impressionismo le altre correnti sperimentali, ad esempio il dadaismo o il surrealismo.
Alla fine degli anni ’20, la grande distribuzione perse interesse per i film impressionisti. L’introduzione del
sonoro decretò la fine della stagione impressionista.
Jean Epstein
Jean Epstein realizzò alcuni dei film più sperimentali del periodo, attraverso la sua casa di produzione, Les
Films Jean Epstein. Egli è un regista ma anche un teorico il cui apporto principale fu il saggio Espirit du
cinéma. Negli anni ’20, i registi riflettono sui film che hanno realizzato; i film sono spesso la messa in pratica
delle loro idee teoriche.
La chute de la maison Husher (1928) di Jean Epstein
I racconti di Poe sono una tavolozza sulla quale costruire la sua proiezione. Tema dei fantasmi: la
dimensione della spettralità trova nel cinema un forte equivalente figurativo. L’esigenza di Epstein è di
realizzare un cinema puro, le inquadrature diventano un campo di forze al cui interno i segni si intersecano
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fra di loro per esigenze liriche: farci entrare nell’atmosfera di Poe. Una messinscena che annulla la distanza
fra spettri, fantasmi, realtà.
Le avanguardie artistiche. Il cinema d’arte
Fra il 1916 e il 1930, l’Europa vide il sorgere di molte avanguardie artistiche che toccarono anche il cinema.
Il cinema è già diventato un’industria; la costruzione del prodotto cinematografico si basa già sulle star e le
storie, e gli artisti ambiscono a riappropriarsi del mezzo cinematografico con la cancellazione di questi due
elementi. Questo è possibile a patto di uscire dal panorama del cinema industriale, allontanandosi dalle
logiche narrative convenzionali. Fra le avanguardie spiccano il dadaismo, il surrealismo, il futurismo, il
cubismo: esse mobilitano tutte le arti, e negli anni ’20 si avvicinano al cinema. Nascono cineclub, sale e
riviste specializzate nel cinema artistico.
Il cinema non sopravvive a lungo nell’ambito delle arti, poiché esso ha bisogno di finanziamenti ingenti. I
budget sono azzerati oppure i fondi sono ricercati fra personaggi che non sono dei produttori. Esiste un
sistema di sale estremamente piccolo (sale d’essai), presenti a Parigi, Berlino (per l’esperienza del Bauhaus)
e Zurigo. Questi fenomeni rimangono un’esperienza principalmente intellettuale, ma rappresentano una
fase fondamentale della storia del cinema.
Il Novecento vide alcune grandi ondate delle arti avanguardiste:
Anni 20: resistenza alla logica industriale delle arti, spesso vicino ai partiti comunisti.
Anni 60/70: il 68 fu una replica carnevalesca e fantasiosa della rivoluzione di ottobre. Carmelo Bene rientra
in questa seconda ondata (es. Salomè). Queste avanguardie spesso si rifanno alle avanguardie degli anni
20.
Il surrealismo.
È nel contesto delle avanguardie artistiche che si colloca il surrealismo cinematografico. Il tempo e il luogo
sono quelli dell’inconscio, evocati tramite una scrittura automatica, che risulta in uno stream of
consciousness in stile joyciano. L’inconscio è uno strumento di lettura e rielaborazione del reale. Fra il
surrealismo e il cinema si crea un matrimonio perfetto; sin dall’apparizione del dispositivo cinematografico,
la metafora del sogno è usata da molti cronisti e intellettuali che assistevano alle pellicole nelle sale. Il
cinema è come “sognare ad occhi aperti”, infatti Hollywood verrà chiamata “la fabbrica dei sogni”. I
surrealisti hanno decretato che l’arte debba essere condizionata dalle logiche irrazionali del sogno.
I lavori surrealisti sono in stretto rapporto con il dadaismo, i cui film erano proiettati alle soirées. Il
surrealismo fu un movimento anche politico, legato al partito comunista francese, che mira alla
riappropriazione delle arti.
Duchamp, anémic cinema
Man Ray
Un chien andalou (1926) di Luis Buñuel
Eloquente esempio di scrittura automatica surrealista applicata al linguaggio cinematografico, che evoca il
tempo e il luogo dell’inconscio. Il modello di scrittura è, se non antinarrativo, proprio oltrenarrativo. I Le
inquadrature si susseguono senza rispettare le convenzioni narrative, ricordando un’atmosfera onirica.
Buñuel scrisse il copione assieme a Salvador Dalì, ispirato sui sogni fatti dai due. Il filo conduttore sembra
essere il tentativo di un uomo di possedere sessualmente una donna. L’eros è legato alla pulsione di morte,
l’amore dell’uomo sembra essere un amor fou. Tuttavia, le molteplici interpretazioni del film, spesso di
chiave psicanalitica e simbolica, sono fini a se stesse, in quanto il film è volutamente ambiguo e organizzato
come la proposta di molteplici sensi. Le convenzioni narrative sono volutamente sabotate, ad esempio le
didascalie danno indicazioni cronologiche completamente slegate da ciò che si vede.
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Buñuel non faceva parte del movimenti surrealista. Rispetto ai surrealisti, il cui focus nel cinema era l’effetto
di spaesamento, Buñuel voleva esplorare fino a fondo tutte le potenzialità del mezzo artistico. Il successo
del film lo irritò profondamente, il quale intendeva fare una proposta radicale usando il cinema come mezzo
sovversivo e poetico. Egli intendeva disturbare gli spettatori. La scena dell’occhio è il manifesto, la sintesi,
l’allegoria di tutto ciò a cui ambisce il cinema d’avanguardia: tagliare l’occhio al vecchio spettatore per
riportare un cinema veramente artistico, che riprenda la logica romantica delle arti.
Il cinema in Germania durante e dopo la prima guerra mondiale
In Germania, il cinema diventò un settore fiorente proprio durante una grave crisi economica. Infatti,
l’inflazione portava i salariati a voler spendere i loro soldi, e il cinema era fra i prodotti più accessibili.
L’Autorenfilm si propone l’obiettivo di innalzare il cinema a forma d’arte, come era successo
precedentemente in Francia. I suoi film anticiparono alcuni moduli stilistici poi usati dal cinema
espressionista, ma incontrarono uno scarso successo di pubblico. Si configurò un piccolo star system grazie
a Asta Nielsen, e il divieto di importazione di film stranieri rese fiorente la produzione nazionale almeno fino
al Nazismo, la quale era seconda solo a Hollywood.
Nel 1917 nacque la UFA, casa di produzione statale tedesca, l’azienda di riferimento di stato al cui nome
sono legate tutte le superproduzioni tedesche. L’UFA nasce come operazione economico-militare voluta
dall’alto (ben prima del nazismo) per dotarsi di un apparato propagandistico efficace. L’UFA accorpò tutte le
piccole realtà produttive in un progetto a base statale, capitalizzando il parco di tecnici di assoluto rilievo.
Ernst Lubitsch lavorò per la UFA prima di trasferirsi negli Stati Uniti. La UFA puntò inizialmente su film
storico-spettacolari. In seguito, la produzione girò intorno al cinema espressionista e alcuni film del
Kammerspielfilm. che divennero dei classici.
Quando il mercato smise di beneficiare degli alti tassi di inflazione, il cinema tedesco si dovette
modernizzare. La UFA ingrandì le sue strutture: un vecchio hangar di dirigibili diventò lo studio pù grande
del mondo. Nel 1921, la Paramount fece un tentativo di produzione a Berlino, fornendo tecnologie più
moderne e avviando la diffusione dell’illuminazione artificiale. Il perfezionamento della “macchina da presa
slegata” avviò alla sperimentazione di elaborati movimenti di macchina (ad esempio L’Ultima risata di
Murnau).
Nel 1925 la UFA ebbe dei gravi problemi economici, ma rimase in piedi grazie a un accordo con gli studios
americani, di fatto aprendo al mercato americano. Nel 1927, la UFA vedette alcuni stabilimenti e la gestione
passò ad un magnate dell’editoria di destra. La UFA divenne così il punto di riferimento del regime nazista
sul controllo del cinema.
L’espressionismo tedesco
L'espressionismo si era manifestato intorno al 1908 in Germania principalmente nel campo della pittura e
del teatro; esso presentava una reazione al realismo e il tentativo di esprimere, le emozioni più vere e
profonde, nascoste al di sotto della superficie della realtà. In pittura, gli artisti facevano uso di ampie
campiture di colori irrealistici, in figure caratterizzate da espressioni grottesche e prospettive deformate. Il
cinema ambiva a ricostruire in studio le stilizzazioni pittoriche. L’espressionismo tedesco vide la produzione
di circa due dozzine di film fra il 1920 e il 1927. “Espressionismo” era inteso in modo opposto
all’impressionismo: esso era il tentativo di imprimere nella realtà esterna uno stato d’animo interno. La
realtà è modificata in modo spesso irrazionale, allucinato e onirico, filtrata dalla soggettività dei personaggi.
Aspetti formali dell’espressionismo:
1) Importanza della composizione. L’espressionismo puntava sulla messa in scena: l’immagine
cinematografica doveva diventare grafica. Si dà grandi importanza alle singole inquadrature, di cui
erano protagoniste le scenografie. L’azione era a servizio della messa in scena, per cui poteva
procedere a sbalzi o subire delle pause. Era comune il ricorso a superfici stilizzate e forme geometriche
deformate. Elementi diversi della messa in scena erano messi in relazione, ad esempio i costumi di Jane
e le superfici dietro in Il gabinetto del dottor Caligari.
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2) Esasperazione e ripetizione. L’interpretazione e l’espressività degli attori era volutamente esasperata e
antinaturalistica, con tratti coreografici, scatti gesti improvvisi.
3) Movimenti di macchina e montaggio. Il montaggio era semplice e il ritmo lento, per permettere allo
spettatore di soffermarsi su elementi dell’inquadratura.
4) Narrazione. Le storie valorizzavano i caratteri stello stile. Gran parte delle opere sono riconducibili a un
passato ricco di elementi esotici e di fantasia.
Il modello di cinema espressionista rifletteva l’inquietudine dell’anima tedesca, sospesa fra la tirannia e il
caos.
Il gabinetto del Dottor Caligari
Considerato il prototipo del film espressionista, ma anche un’opera cardine del cinema horror e fantastico. Il
film apre con un flashback, nel quale si scoperte vicende di Cesare, un individuo mostruoso che commette
degli omicidi soggiogato dalla volontà dell’illusionista Caligari, il cui mondo è deformato dal suo inconscio.
Le prospettive antinaturalistiche e stilizzate sono state interamente effettuate in studio. Predominano le
linee irregolari e sghembe, che comunicano un senso di angoscia insopprimibile.Il lavoro di radicale
stilizzazione della scena e dello spazio avviene soprattutto a livello del profilmico (tutto ciò che c’è davanti
alla macchina da presa), mentre i movimenti di macchina sono abbastanza tradizionali. I protagonisti sono
pesantemente truccati, e gli oggetti subiscono un effetto di antropomorfizzazione. Il copione originale non
prevedeva il prologo e l’epilogo, i quali normalizzano un plot altrimenti straordinario.
Nosferatu (1922) di Friedrich Murnau
Nosferatu (1922) e Metropolis (1923) si collocano nell’orizzonte espressionista in modo molto diverso. La
critica ha posizioni diversificate sulla loro appartenenza all’espressionismo, ma in ogni caso rappresentano
delle punte artistiche e tecnologiche del cinema tedesco degli anni ’20, l’unico che riesce a fare
concorrenza a Hollywood.
Nosferatu rispecchia principalmente il rapporto non solo con la pittura espressionista, ma riflette anche la
pittura tardo romantica del secolo.
Esso fu il primo tentativo di successo di portare al cinema l’immaginario dei vampiri, ed è considerato uno
dei primi horror della storia. Il film si muove su un doppio binario: la presenza del vampiro è comunicata
attraverso a un gioco di ombre. La volontà di inquietare lo spettatore non fa ricorso solo agli aspetti classici,
ma anche utilizzando giochi di luce senza sfruttare sempre il cliché notturno di horror. La presenza del
vampiro è associata all’epidemia di peste: egli è un non morto che viene collocato all’interno di una forza
minacciosa della natura, nella quale si sviluppa la dimensione della paura. Il rapporto con la natura è
sviluppato attraverso un dialogo con la grande pittura romantica tedesca, che vede nella rappresentazione
della natura minacciosa (molto diversa da quella mediterranea) la manifestazione delle forme del sublime,
pittorico e filosofico. La pittura romantica dei paesaggi, soprattutto tedesca ma anche inglese è una delle
fonti principali delle immagini di Murnau.
Il film venne girato in esterni, in estate. Sarebbe in seguito stato colorato, e le scene notturne sarebbero
state rese con tinte blu o verde. Per molti anni furono ritrovate solo copie in bianco e nero. Questo produce
un effetto straniante, poiché vediamo un vampiro che si aggira per le strade in pieno giorno. Solo nella
metà degli anni ’80 è stata rinvenuta una versione colorata che ha permesso dei restauri. Le riprese in
esterni furono dovute anche al basso budget, scarso rispetto a Metropolis.
La vedova di Bram Stoker, l’autore del Conte Dracula da cui prese spunto il film, portò avanti una campagna
legale che ottenne di distruggere tutte le copie del film. Il film sarà ridistribuito anni dopo quando la
vertenza legale sarà finita. Nel 1922, la sensibilità nei confronti del diritto d’autore non era molto presente,
e i produttori pensavano di poter farla franca cambiando i nomi dei personaggi. La Prana-Film, fondata dal
produttore Albin Grau, sparirà per sempre dichiarando bancarotta.
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Metropolis (1926) di Friz Lang
Metropolis fu l’ultimo grande film espressionista, rappresentando un grandissimo sforzo produttivo e
creativo. Esso si svolge in una città avveniristica dove gli operai lavorano in una fabbrica collocata sotto
terra e vivono in abitazioni dalle tipiche forme geometriche. Il film affronta un nodo essenziale di questi
anni: gli effetti disumani dei processi di industrializzazione. È stato spesso accostato a Modern Times (1936),
i linguaggi cinematografici siano completamente diversi, l’uno distopico e l’altro satirico. Metropolis è uno
dei primi capitoli di un lungo filone che mette in scena i rapporti dell’uomo con la macchina.
Al di là del nefasto messaggio di Metropolis, esso è una grande esperienza di messa in scena. Il primo
aspetto evidente è il grande lavoro svolto sulle scenografie. Metropolis detta legge in fatto di immaginario
futuro distopico: anche oggi, non si può che partire dal film di Fritz Lang, che a sua volta capitalizzava le
tensioni artistiche del bauhaus, del costruttivismo, ecc. che immaginavano uno scenario urbano con forme
avanzate. Lang afferma di essersi fatto ispirare dallo stato di New York, rimasto impressionato dai grattacieli.
Effetto Schufftan: Antenato rudimentale e primitivo del green screen. Viene posto uno specchio ad una
specifica distanza e gradazione davanti alla macchina da presa. In esso viene riflessa un’immagine di
sfondo, una scenografia dipinta, in modo da unire le immagini reali ad una scenografia. Esso rappresenta
bene l’ingegnosità del cinema tedesco degli anni ’20.
La ne del movimento espressionista
Il successo all’estero indusse molti registi, fra cui Murnau e Paul Leni, ad andare a lavorare a Hollywood.
Inoltre, i costi delle ultime produzioni erano diventati insostenibili per la UFA. Solo Fritz Lang rimase a
lavorare in Germania.
Molti artisti abbandonarono l’emotività dell’espressionismo per avvicinarsi al realismo e all’analisi sociale.
Questa tendenza fu chiamata Nuova Oggettività ed era legata al mutato clima culturale della Germania,
oltre che all’influenza di Brecht dal teatro.
Tuttavia, l’espressionismo può essere utilizzato come una categoria estetica e concettuale che copre periodi
molto più ampi. In modo rozzo, di può dire che David Lynch si muova nell’orizzonte dell’espressionismo
tedesco, così come Tim Burton.
Il Kammerspiel lm
Tendenza di rilievo che si andava affermando nel cinema tedesco, il cui esponente principale fu Carl Mayer.
Il nome derivava da un teatro aperto dal regista Max Reinhardt e destinato ad allestimenti di drammi
intimisti per un pubblico ristretto. Kammerspielfilm concentravano la loro attenzione su pochi personaggi,
esplorando minuziosamente gli effetti di una crisi nella loro esistenza. Questi film interessavano di più il
pubblico intellettuale e i critici del periodo. Probabilmente per acquistare il consenso di un pubblico più
vasto, Erich Pommer, produttore de L'ultima risata, insistette perché Mayer aggiungesse un finale positivo
alla storia. Il film divenne il Kammerspiel di maggior successo e fama. Verso la fine del 1924, tuttavia, il
filone cominciò ad esaurirsi.
Tentativo di creare un cinema “paneuropeo"
Per diventare più competitivi sul mercato, la UFA e alcuni distributori parigini crearono un accordo per
creare un cinema internazionale. La Germania fece spesso coproduzioni con altri paesi, grazie ai suoi studi
avanzati (ad esempio, Alfred Hitchcock lavorò in Germania ai suoi primi due film). Le formule dello stile
internazionale erano a volte delle imitazioni di poco successo delle formule hollywoodiane. Il protezionismo
incentivato dalla Grande Depressione e il passaggio al sonoro frenarono queste spinte collaborative fra
paesi.
Lo stile “internazionale”
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Dalla metà degli anni Venti si sviluppò gradualmente uno stile d'avanguardia internazionale che combinava
elementi provenienti dai tre principali movimenti d’avanguardia: l’impressionismo francese, l’espressionismo
tedesco e la scuola sovietica del montaggio. A poco a poco, le frontiere stilistiche tra l'impressionismo e
l'espressionismo diventavano sempre più indistinte. L'avanguardia sovietica nacque in seguito e i registi
russi si ispirarono frequentemente a elementi stilistici dal cinema europeo. Carl Dreyer, regista danese, nel
suo La passione di Giovanna D’Arco (1928) incarna al meglio questa tendenza. Già negli anni ’30 le
avanguardie si dissolvono grazie all’introduzione del sonoro, che cambia l’estetica del mezzo
cinematografico portandolo verso una direzione più naturalistica, ma le loro innovazioni estetiche sono
assorbite degli stili mainstream.
Effetto Kuleshov
Esperimento sull’effetto Kuleshov. Una bambina in una bara, stacco sul primo piano di un attore. Bella
donna sul divano, stacco primo piano dell’attore. A degli spettatori era chiesto che tipo di espressione
facciale avesse l’attore; la risposta era grandemente influenzata dall’immagine che aveva preceduto il volto
dell’attore. Spesso era anche esaltata l’abilità recitativa dell’attore. Le emozioni al cinema sono frutto del
montaggio: non c’è bisogno che l’attore sappia creare dei sentimenti da solo. Il montaggio riesce ad
innescare delle associazioni mentali nella mente dello spettatore. Il cinema riesce a produrre concetti, non
solo raccontare storie.
Il costruttivismo sovietico
Con “scuola sovietica del montaggio” intende il complesso di sperimentazioni che trovano terreno fertile
soprattutto a ridosso della rivoluzione di ottobre, al cui interno troviamo influenze del costruttivismo, del
cubismo, l’esaltazione del rapporto fra uomo e macchina.
Il popolo della nuova Russia è analfabeta, rappresentato da contadini che vivono in condizioni di grande
povertà. Esso è avvicinato all’indottrinamento con il cinema, che comunica visivamente, capace di portare il
mito di rivoluzione alle masse.
I rappresentanti del costruttivismo sovietico sono principalmente Vertov, Kuleshov, Pudovkin e Ejzenstein. Il
terreno comune di tutte le loro sperimentazioni è di capire qual è la specificità del cinema: essa è
individuata dal montaggio.
La differenza principale rispetto al montaggio di Hollywood è che nella scuola sovietica il montaggio non ha
meramente finalità narrative. Esso serve a creare dei contrasti visivi, ritmici dinamici e grafici fra le immagini.
Lo spazio è disgregato e ricreato: il montaggio è una nuova operazione di senso. Il cinema più costruire
delle nuove forme di pensiero.
La possibilità di accostare due inquadrature permette di creare uno scontro percettivo, uno shock poiché
non c’è un collegamento narrativo. La sintesi delle inquadrature produce un senso ulteriore.
Ejzenstejn disse che “L’arte è sempre conflitto a causa della sua metodologia”. Definire la natura del
montaggio equivale a rispondere alla natura del cinema. I primi cineasti consideravano il montaggio come
strumento descrittivo, in funzione della chiarezza espositiva del racconto. Questo concetto è falso: il ritmo
non sta dentro a ciò che succede nell’inquadratura, ma è un ritmo creato dallo scontro fra inquadrature
diverse.
1) Generi. I film russi sono dedicati alla storia del movimento rivoluzionario, per inculcare negli spettatori
la dottrina bolscevica. I soggetti sono scontri, insurrezioni, scioperi.
2) Narrazione. Il cinema è concepito come un'esperienza metanarrativa. La forza espressiva è pensata in
termini grafici piuttosto che narrativi. I rapporti formali fra le immagini sono costruiti come se le
inquadrature fossero tanti quadri. Il ruolo dell’individuo è ridimensionato: esso agisce in base a forze
sociali. Le masse fungono da protagoniste.
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3) Montaggio. Le inquadrature erano sovrapposte in modo netto ed energico, per raggiungere un alto
dinamismo visivo. I tagli creavano relazioni temporali ellittiche o sovrapposte.Si faceva uso
dell’overlapping editing (soprattutto da parte di Ejzenstejn), per cui la stessa scena veniva ripetuta. Il
jump cutting, o montaggio ellittico, prevedeva il taglio netto di un evento. I ritmi erano molto
accelerati. Il montaggio poteva anche istituire collegamenti spaziali confliuttuali. Ne La corazzata
Potëmkin, il marinaio steso a terra cambia posizione a ogni inquadratura. Il “montaggio delle attrazioni”
prevedeva l’utilizzo di due azioni per esprimere un concetto, creando un’analogia fra l’immagine della
narrazione e un’immagine non diegetica. In montaggio intellettuale, in generale, spingeva gli spettatori
a formulare concetti per attribuire ad essi un senso.
4) Effetti speciali. I registi sovietici sperimentarono con sovrimpressioni e split-screen, per esprimere
significati simbolici.
5) Movimenti di macchina. Era importante studiare la composizione delle singole inquadrature, attraverso
angoli di ripresa dinamici, come le inquadrature dal basso.
6) Messa in scena. Le messe in scena, tendenzialmente realistiche, avevano tuttavia al loro interno
contrasti di forme, volumi, colori o strutture, ad esempio le bande orizzontali della maglia del marinaio
in opposizione alle linee verticali presenti sul muro. La recitazione spaziava dal realismo all’estrema
stilizzazione, sulla scia della biomeccanica teatrale. Spesso erano inclusi attori non protagonisti.
Sergej Ejzenstejn
Ejzensteijn fu il teorico che fornì la concezione del montaggio più articolata e complessa. Egli intendeva il
montaggio come principio formale presente anche nel teatro, nella poesia e nella pittura. Il montaggio era
inteso come una collisione di elementi: le inquadrature erano collegate per creare drammaticità attraverso il
loro conflitto. A questo tipo di montaggio era associato un cinema “intellettuale”, non destinato a
raccontare una storia ma a comunicare idee astratte.
Gli studi sul montaggio di Ejzenstejn propongono un montaggio intellettuale in contrapposizione al
montaggio “invisibile” dello stile hollywoodiano. Se Griffith ha inventato il “nel frattempo” cinematografico,
con due linee narrative destinate ad unirsi, Ejzensein lavora nel “come se”, dell’allegoria cinematografica
(es. la scalinata di Odessa). Il montaggio più esprimere idee, che contrapponendo spazi e tempi diversi si
crea un significato nuovo e intellettuale.
La prima fase dell’operato di Ejzensein è costellato di sperimentazioni e ricerca. Egli è influenzato dal
cubismo, una delle influenze visive più importanti della Russia rivoluzionaria. Per Ejzensein, il montaggio che
può portare la realtà su un piano astratto. Si tratta di scomporre le sequenze in una molteplicità di punti di
vista che riportano al cinema la stessa tensione spaziale e temporale di un quadro cubista, in modo
simultaneo. Se fossimo in un film di Griffith, vedremmo varie inquadrature e ogni tanto qualche primo
piano, ma senza la consapevolezza della molteplicità di inquadrature (con degli establishing shots).
Ejzenstejn, invece, vuole renderci consapevoli del lavoro di montaggio, che non ha intenti narrativi, per
esprimere i concetti dietro alla narrazione.
Il linguaggio del montaggio non raccorda le scene, ma le disarticola.
Molte di queste tensioni sperimentali si trasferirono più verso l’arte contemporanea piuttosto che verso la
scena del cinema.
Allo stesso modo, le idee di Ejzenstein hanno nutrito tutta la storia dei videoclip musicali, a partire dagli
anni ’80 ad oggi , che fa leva su un’idea di tipo visivo, contrastato e intellettuale. Inoltre è presente in molti
spot pubblicitari. Ogni volta che il linguaggio audiovisivo usa le immagini per disarticolare la narrazione,
quelle idee fanno capo a Sergej Ejzenstein.
La scuola sovietica del montaggio rientra nell’ambito delle avanguardie artistiche di questo periodo, anche
se essa va inevitabilmente collocata nell’ambito della rivoluzione di ottobre e prima della svolta totalitaria
del comunismo staliniano. Lo stato comunista aveva cancellato ogni forma di concorrenza, lasciano ampio
spazio per le sperimentazioni.
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Le derive sperimentali tramontano con l’introduzione del sonoro, che cancella la maggior parte delle
conquiste del linguaggio cinematografico fino ad allora; inoltre, la svolta sovietica repressiva con l’ascesa di
Stalin riduce le possibilità espressive del cinema. Gli artisti che non si allineano ai dettami del regime di
Stalin, che nel cinema richiede semplicità narrativa, sono visti con grande sospetto dal regime, in quanto
troppo complicati e incomprensibili da parte del popolo. Ejzenstein sarà costretto ad adeguarsi verso una
produzione sempre più realistica.
La corazzata Potëmkin (1925) di Sergej Ejzenstejn
Commemorazione della prima rivoluzione di Ottobre: il film è un tributo storico dell’ammutinamento dei
marinai del Potemkin. Egli non è preoccupato solo di raccontare l’evento; egli vuole mettere in scena i
processi e la dimensione del conflitto che sta dietro alla rivoluzione. Per fare ciò, Ejzensein sperimenta il
ritmo grafico dinamico come costruttore di senso, es. la scena della scalinata di Odessa. Il montaggio è a
servizio dell’emozione e del senso, con una concezione più vicina alla sensibilità del videoclip. Infatti, in
un’inquadratura sembra che dei leoni di gesso, siano pronti a scattare e aggredire qualcuno: la seguente
apparizione di folla non è più composta da persone anonime, ma diventa un collettivo, cosciente di se
stesso, che ha la forza di un leone.
La ne del cinema d’avanguardia
Dal 1927, il cinema costruttivista fu accusato di “formalismo”, cioè di essere troppo complesso per essere
compreso dalle masse. Il regime esercitò un controllo sempre più stretto sulle produzioni, e tutti i registi
furono costretti ad attenuare il loro sperimentalismo.
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THE ROARING TWENTIES
Le grandi conquiste del cinema negli anni ’20
Il grande fervore delle avanguardie artistiche comportò lo sviluppo di stili e tecniche che gradualmente
furono assimilati nel cinema mainstream.
1. L’inquadratura diventa un luogo di sperimentazione radicale sulle possibilità espressive di un linguaggio
puramente visivo. L’inquadratura è l’equivalente di un quadro, qualcosa che può essere sottoposto ad
una radicale stilizzazione formale.
2. L’illuminazione artificiale: impiego sistemato di lampade artificiali. Essa permette di trattare la luce in
termini più artistici, capace di definire stati d’animo, in una luce pittorica. inizialmente l’illuminazione
naturale era prediletta. Quella artificiale permette però un salto di qualità notevole, per esempio
permette giochi di chiaroscuro (espressionismo tedesco). Le inquadrature sono a tutti gli effetti
disegnate. Il modello di riferimento non è tanto la letteratura, quanto la grafic novel. La luce esprime
senso. L’arrivo dell’illuminazione artificiale permette di lavorare in termini visivi in modo più raffinato.
3. Uso di sovrimpressione ed effetti ottici, per suggerire sogni, proiezioni mentali, stati d’animo. I cineasti
cercano di comunicare attraverso le immagini. L’assenza di suono non è un handicap. Oggi le
sovrimpressioni sono poco comuni nei film tradizionali, e rimanda all’immaginario dei film artistici degli
anni 20. Divisione dello schermo dove vengono visualizzate più azioni contemporaneamente, simile ad
una performance artistica (es. Napoleon di A. Gance, (1926). Si inizia ad usare il rallenti. Dimensione
onirica, fantasmatica, spettrale; potenza simbolica e iconologia delle immagini. Con il sonoro, non ci
sarà più il bisogno poetico di suggerire gli stati d’animo, diventando un’arte prevalentemente realistica.
4. Pellicole pancromatiche. Nel cinema delle origini, l’attore ha un trucco molto pesante, per imprimere in
modo netto la luce nelle prime pellicole cinematografiche. La diffusione delle pellicole pancromatiche
permettono il diffondersi di un modello di recitazione un po’ più simile alla nostra sensibilità. La passion
de Jeanne D’arc (1928), fra i primi esempi di pellicola pancromatica.
5. Le scenografie. Grande sforzo creativo e produttivo che definiscono la natura molto grafica del cinema
degli anni 20.
6. Dinamismo della macchina da presa. Karl Freund, il principale operatore di Murnau, creò l’antenato
della steadycam utilizzata per la prima volta in The Shining (1980). Rispetto alla stendi di Garreth Brown,
Freund non poteva vedere cosa stesse girando.
7. Effetti speciali. Già negli anni 20 gli effetti speciali mostrano una grande consapevolezza artistica,
spazzata via dall’avvento del sonoro. es. Dr. Caligari.
La nascita dello studio system
Accanto ad un cinema artistico che si sviluppa principalmente in Europa, esteticamente significative ma
minoritarie rispetto all’interesse pubblico, gli anni 20 vedono anche la grande accelerazione di Hollywood
sul piano economico e culturale. Alla fine di questo decennio, Hollywood esce come l’industria
incontrastata del cinema, il modello egemone di riferimento in tutto il mondo. Ci si pone o in sintonia o in
feroce contrapposizione con il cinema americano, che si fonda sulle storie e le star.
La scena hollywoodiana era rappresentata da Laemmle (Universal), Fox (20th Century Fox), Goldwyn, (MGM)
Warner (Warner Bros.), Mayer (MGM) e Zukor (Paramount). Tutti questi signori erano immigrati dell’Europa
orientale, ebrei che scappavano dalla condizione di segregazione e dalla povertà.; alcuni non parlavano una
parola d’inglese. “Ultimately, American values came to be defined by the movies Jews made” (Neil Gabler,
1988). Essi intuiscono che nel cinema c’è la possibilità di sviluppare un nuovo tipo di affari. Il fatto di non
essere nati in America li metteva nelle condizioni di avere una visione immaginaria degli Stati Uniti, il
“sogno americano”. Questi soggetti costruiranno un oligopolio, di fatto un altro trust che si basa sulla
saturazione del mercato, dando poco spazio ai piccoli produttori, distributori ed esercenti. Essi inizialmente
operano in una condizione di presunta illegalità, seppur incerta. Solo nel 1949 con la sentenza Paramount,
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gli Stati Uniti d’America denunciano la Paramount, poiché la condizione di oligopolio è dichiarata illegale.
Da allora si apre un nuovo capitolo di Hollywood, il rilancio di un nuovo assetto.
L’oligopolio
L’oligopolio è composto dalle Big Five (MGM, Warner Bros., Paramount, 20th Century Fox, RKO) e dalle
Little Three (Columbia, Universal e United Artists) Le Big Five possedevano delle strutture per realizzare i
film, un proprio stile personale e una propria politica. Le Little Three funzionavano in modo diverso. La
Columbia e la Universal avevano un’ottima capacità produttiva, ma non disponevano di una propria rete di
sale. La United Artists, fondata nel 1919 da Griffith, Charlie Chaplin, Douglas Fairbancks e Mary Pickford, si
occupava della distribuzione dei film indipendenti. Accanto alle majors e alle minors, erano presenti altri
marchi come la Monogram e la Republic, specializzate in film a basso costo.
I B-movies
I B-movies erano film a basso costo, con meno investimento di risorse di tempo e umane. Essi erano
l’occasione per sperimentare nuove tecniche o affrontare temi controversi. Alcuni B movie ebbero molto
successo, ad esempio gli horror della RKO.
Block booking
Le majors potevano imporre le loro condizioni ai proprietari delle sale. Uno dei vincoli più evidenti era il
block booking: la majors noleggiavano le loro pellicole a blocchi, costituiti sia da film di richiamo, sia da B
movie di minor interesse che gli esercenti erano costretti a pagare.
Le caratteristiche dello studio system
Lo studio system era un impianto industriale il cui obiettivo era produrre più film possibile. Rimase operativo
dagli anni ’20 sino all’inizio degli anni ’50. Si basava su alcuni meccanismi:
1) catena di montaggio.
Il modello di riferimento è l’industria dell’automobile basato sulla catena di montaggio, che diversifica le
fasi dell’assemblaggio di un prodotto ai fini di ottenere un incremento della produttività: una produzione
manifatturiera di tipo seriale. Le mansioni erano scomposte, con una rigida specializzazione orizzontale dei
ruoli. Ogni fase della produttività era vigilata, e i budget erano rigorosamente rispettati. Tuttavia, quando il
pubblicò diventò più selettivo, la produzione non poteva più essere eccessivamente standardizzata: ogni
film doveva contemporaneamente assomigliare agli altri ma deve essere unico e originale.
2) continuity system.
La comparsa della sceneggiatura degli anni ’10 nasce da un’esigenza produttiva, non creativa. Il continuity
sheet/shot logging form era uno strumento concreto di controllo del set, che permetteva una pianificazione
del lavoro giorno per giorno, attraverso un razionamento e una razionalizzazione della produzione.
3) Dal central producer system al producer-unit system.
La figura centrale è il produttore, una figura in cui si sintetizzano responsabilità creative e manageriali. Il
produttore ha una visione d’insieme non solo del film ma di tutta la produzione della casa. I manager fanno
la loro comparsa a Hollywood già dagli anni 310, e diventano importanti negli anni 320. I produttori degli
anni 20 erano dei grandi uomini di cinema, lo hanno di fatto inventato. Negli anni ’30, il lavoro degli studios
non è più controllato da un unico produttore: l’organizzazione diventa più complessa, e gli studios
ingaggiano più produttori, ognuno dei quali si concentra su un particolare tipo di film con lo stesso team.
4) Stars and stories.
Lo star system è la parte decisiva della costruzione di un’industria cinematografica, e riguarda ogni parte del
processo produttivo. Infatti, le star permettono la diversificazione dei film. Le trame sono causa-effetto e
hanno ritmi coinvolgenti. La regia è a servizio della storia.
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5) le catene di sale.
Hollywood punta su grandi costruzioni faraoniche per poter aumentare il prezzo del biglietto. Es. Brooklyn
Paramount Theatre, la cui estetica prende ispirazione dai teatri dell’opera. Già negli anni 20 c’era l’aria
condizionata. Questi luoghi diventano delle cattedrali della modernità. Il cinema americano non si sarebbe
mai sviluppato così bene se non si fosse sviluppato questo sistema di sale. Le sale più importanti offrivano
un ricco programma di cinegiornali, numeri musicali e teatrali.L’architettura ricercata affascinava gli
spettatori offrendo un ambiente lussuoso.
6) l’integrazione verticale della produzione.
Negli anni ’20, le società iniziarono a concentrare tutti gli step dell’industria cinematografica. Fra le più
celebri, Zukor battezzò il circuito Publix Theatres, e Marcus Loew, già proprietario di sale, diede vita alla
MGM acquistando altri produttori. Le major arrivarono a controllare i tre tasselli dell’industria del cinema: la
produzione, la distribuzione e l’esercizio.
7) sistema di generi.
I generi si configurano nella dialettica di standardizzazione/differenziazione. Il pubblico voleva farsi
raccontare la stessa storia in forme sempre diverse. Ogni casa di produzione si specializza in alcuni generi.
Nel tempo i generi si modificano, passando dalla serie B alla A (come fece il western), oppure articolandosi
in sottogeneri. I generi ogni tanto si ibridano fra di loro, soprattutto nel caso in cui un film abbia una doppia
linea narrativa. Il materiale narrativo era riutilizzato sistematicamente dal writing department.
Big budget movie
Il fenomeno più importante degli anni ’20 fu la crescita dei budget di produzione, dovuta al consolidamento
delle esportazioni dei film di Hollywood. Inoltre, gli investimenti di Wall Street nell’industria cinematografica
fecero aumentare le produzioni con budget elevati. I nomi di Rex Ingram, Cecil DeMille, David Griffith, King
Vidor e Erich von Stronheim sono associati a film di alto budget.
Gli spettatori dell’epoca erano ampiamente affascinati dalle epiche e di massa. Il cinema bellico, a tema
militare, ricorreva spesso nella storia del cinema come un campo si sperimentazione tecnologica e visiva.
Alcuni esempi sono Ben Hur (1925) della MGM, girato in Italia per conferire maggiore autenticità (dove tra
l’altro il costo delle maestranze era più basso); The Ten Commandments (1923) di Cecil DeMille della
Paramount; Wings (1927) della Paramount (le scene degli aerei furono realizzate davvero, con centinaia di
stunt-man e comparse). Wings è considerato la sintesi dell’ultimo periodo del cinema muto hollywoodiano.
Non sempre questi film rientrarono nell’investimento, ma servirono per dare popolarità al brand. Le
esperienze di visione ricordano più un parco a tema che le nostre sale.
La MPPDA e il codice Hays
Molti film realizzati nel dopoguerra avevano come soggetto i “ruggenti anni ’20”: musica jazz, liquori, feste,
adulterio come passatempo ecc. Inoltre, gli anni ’20 videro una lunga serie di scandali a sfondo sessuale. Il
codice Hays, del 1930, fu una forma di autocontrollo proposto dalla Motion Picture Producers and
Distributors of America e condiviso dagli studios per evitare la censura federale e difendersi dalla
legislazione antitrust. La MPPDA, o Hays Office, era una struttura pensata per gestire i rapporti fra
Hollywood e il potere politico. Hays fu incaricato di ripulire l’immagine di Hollywood da sesso e violenza. Il
suo obiettivo era di far tornare la borghesia al cinema, censurando tutto ciò che non era in linea con i valori
della famiglia e della coppia tradizionale. Alcuni precode film, precedenti al codice Hays, sono sbalorditivi
in termini di licenziosità dei costumi. Un film conforme al codice Hays era contraddistinto da un bollino,
senza il quale il film non andava in sala. Hays riceveva delle forti pressioni dalla politica per non far passare
nulla. Il codice Hays vigilava sul messaggio complessivo del film, che in sostanza doveva essere l’esaltazione
dell’american way of life. Inizialmente fu volontario, poi divenne “obbligatorio” nel 1934. Fu sostituito nel
1967 MPAA rating system.
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L’MPPDA svolse anche altre funzioni, ad esempio i rapporti con il mercato estero, o la creazione di un
dipartimento per l’industria cinematografica nel ministero del commercio. Divenne chiaro il peso del cinema
nell’economia americana.
Adolph Zukor
Adolph Zukor (1873-1976) iniziò vendendo pellicce, poi aprì dei penny arcade, un primo investimento nel
campo delle sale cinematografiche. In seguito, investì nei nickelodeon e nei Hale’s Tour, per poi aprire una
vera e propria sala cinematografica. Egli guardò con grande attenzione all’Europa e importò negli Stati Uniti
alcuni dei film più importanti, per poi introdurre alcuni lungometraggi.
Come gli altri, Zukor era un imprenditore che vide nel cinema la possibilità di fare tanti soldi da trasformare
poi in potere mediatico. Alla gestione della Paramount tentò di intercettare il più ampio pubblico possibile.
Pubblicherà negli anni ’50 la sua biografia dal titolo “il pubblico non ha mai torto”. Questa idea di cinema
completamente diversa dall’idea artistica di cinema europeo. A Hollywood il successo iniziò a misurarsi in
termini di box office. Zukor copiò dai francesi il sistema verticale integrato: importando i film si rese conto
che il business poteva essere più vantaggioso concentrando nella Paramount le produzione, la distribuzione
e l’esercizio. Il sistema verticale integrato, di lì a pochi anni, diventerà la norma.
Zukor, come i grandi produttori degli inizi, frequenta le sale cinematografiche per capire quali film arrivano
al pubblico oppure no. Studiava le reazioni di pubblico. Quando vide il pubblico piangere alla vista di The
Passion, egli trovò l’algoritmo di Hollywood. “I was sure that personalities and a good story were all that
was needed to make a good film” (stars and stories).
Cambiamenti tecnologici e di stile negli anni ‘20
L’uso del montaggio analitico si fece sempre più sofisticato. Si passò definitivamente all’uso della luce
artificiale, divisa in tre punti d’illuminazione: key light, fill light e backlighting. Cambiò la fotografia, che
andò verso il soft lighting dell’immagine, che prevedeva di condurre l’attenzione verso gli elementi in primo
piano. Le pellicole pancromatiche, diffuse dalla Eastman Kodak, registravano l’intero spettro dei colori e
divennero lo standard in tutto il mondo. Grazie a queste tecniche, lo stile hollywoodiano riuscì ad essere
molto fluido.
Il cinema popolare: la slapstick comedy
Il cinema popolare si può considerare in antitesi al cinema artistico. Traducibili come “commedie svitate”,
esse sono legate all’uso del corpo dell’attore. Sono frenetiche, caratterizzate da cadute, torte in faccia,
inseguimenti ecc, una successione ininterrotta di gag a ritmo serrato. Si affermano in tutto il mondo come
commedie di successo perché sono veloci e garantiscono tante risate semplici per il pubblico, rifacendosi
agli archetipi della comicità.
La slapstick esisteva negli anni ’10 sotto forma di cortometraggi. Charlie Chaplin, Buster Keaton e Harold
Lloyd si sforzarono di consegnare narrazioni nelle quali inserire le gag elaborate.
Centrale è il ruolo di Mark Sennet, fondatore della Keystone Film Company, casa di produzione dentro alla
quale prendono vita due protagonisti del cinema comico: Buster Keaton e Charlie Chaplin. Mark Sennet era
un ottimo produttore e scrittore, il primo a comprendere le possibilità commerciali del cinema comico. Egli
capisce l’algoritmo del cinema comico: il ritmo deve essere veloce, il corpo deve quasi sfidare le leggi della
gravità. La comicità è apparentemente rozza ed elementare, che ha dalla sua la possibilità di costruire film
dal grande impatto ritmico e estremamente veloce. Fra le sue produzioni maggiori ci sono i Keystone Cops,
una serie di film che vedono come protagonisti dei poliziotti svitati ai quali capita un po’ di tutto. Il successo
e la popolarità sono straordinari. Mark Sennet capisce che l’inseguimento in automobile ha una grande
componente comica. L’altro genere su cui si specializza la Keystone sono le bathing beauties, che sfruttano
il corpo femminile e la comicità demenziale affidata al corpo snodabile degli attori.
Con l’avvento del sonoro, la Keystone coltivò una nuova generazione di star, fra cui Stanlio e Ollio.
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Charlie Chaplin. Il suo stile divenne subito riconoscibile per l’uso paradossale degli oggetti, le elaborate
coreografie di risse e fughe, le acrobazie. Il suo aspetto, con la bombetta, il bastone e le scarpe troppo
grosse divenne iconico. Egli introdusse un elemento di pathos sconosciuto nella slapstick comedy.
L’ascesa di Charlie Chaplin con il suo personaggio Charlot gli permise di dirigere i suoi film, non solo alla
Keystone. Dal 1923 al 1952, la United Artists, fondata da Chaplin stesso insieme ad altre star, produsse tutti
i film più importanti di Chaplin.
Il circo (1928) fu il primo progetto narrativo coerente del personaggio di Charlot. In esso apparte
l’importanza della pantomima, che fa leva su una precisa codificazione gestuale e un’iper-espressività
corporea. I codici espressivi, anche a livello astratto e simbolico, sono condivisi con lo spettatore. Nel film
appare il tema del rapporto con il potere, che sarà centrale in Tempi Moderni (1936). Il percorso di Charlot
nel film sembra riprendere il tragitto operato dal cinema nella storia delle forme di rappresentazione.
L’icona di Charlot diventa inscindibile dal fascino mitopoietico del cinema.
Buster Keaton. Riconoscibile per la mancanza assoluta del sorriso sul suo volto, che gli fece guadagnare il
soprannome di Great Stone Face. La sua comicità era bizzarra e surreale. La complessità dei suoi
lungometraggi rendevano i suoi film meno popolari rispetto a Chaplin e Lloyd. Con l’avvento del sonoro,
Keaton non tornò mai alla ribalta, interpretando ruoli di contorno.
L’arrivo di registi stranieri a Hollywood
Negli anni ’20, le case di produzione americane iniziano la caccia per scovare talenti stranieri. L’impatto dei
registi immigrati sulla cinematografia americana è rilevante, poiché Hollywood si mette al riparto dalla
concorrenza sul mercato mondiale. Oltre a Greta Garbo, Lars Hansen, Mauritz Stiller e Michael Curtiz, la
maggior parte dei registi proveniva dalla Germania, che era l’industria più fiorente di quegli anni. In
generale, il cinema americano fece propri molti elementi stilistici e tecniche introdotte dalle avanguardie
europee.
Friedrich Murnau. Il più prestigioso fra i registi europei, fu chiamato dalla Fox nel 1925. Egli girò Sunrise
(1927), un film pienamente tedesco, ricco di elementi espressionisti, ma realizzato a Hollywood con un alto
budget. Seppur non ebbe un grande successo, il film influenzò John Ford.
I registi scandinavi. Mauritz Stiller non riuscì ad adattarsi ai metodi di lavorazione hollywoodiani, e tornò in
Svezia. Victor Sjöström fece alcuni film di discreto successo, ma tornò in Svezia dove ebbe una lunga
carriera come attore nel cinema sonoro.
Paul Leni. L’influenza di Paul Leni alla Universal fu determinante, in quanto diede inizio alla tradizione dei
film horror in cui la Universal si specializzò.
Il passaggio dal muto al sonoro
Convenzionalmente, si ritiene che il primo film sonoro fosse The Jazz Singer (1927), distribuito dalla Warner
Bros., ma il processo del passaggio dal muto al sono fu lungo ed elaborato, ed ebbe ripercussioni sul
linguaggio filmico, lo stile di ripresa e i sistemi cinematografici.
Fu un trauma di proporzioni colossali; moltissime figure professionali fecero la loro scomparsa, fra cui molti
attori che non avevano una voce piacevole o non erano più in grado di svolgere il proprio lavoro, che
cambiò drasticamente (Greta Gabro fu tra le poche che continuò ad avere successo). La transizione fu
osteggiata, poiché negli anni ’20 il cinema aveva assunto una perfezione legata ad un linguaggio
universale. Questa dimensione del cinema è spazzata via; il cinema inizia ad essere un’arte fondata anche
sulla parola.
Le sperimentazioni per sonorizzare il film avevano accompagnato la storia del cinema quasi fin da subito,
ma il cinema funzionava bene con il primato dell’immagine, del corpo e del gesto. Nel 1929, il crollo di Wall
Street si abbatté anche sul consumo di film, e l’industria del cinema accelerò le sperimentazioni per
rivitalizzare l’industria. Dal 1927 al 1935, la transizione definitiva dal muto al sonoro era quasi compiuta.
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Il primo sistema di registrazione su disco fu collaudato dalla Western Electric, e la Warner lo perfezionò
chiamandolo Vitaphone. Nonostante l’esistenza di alternative, le Big Five scelsero il Vitaphone come
standard. A causa delle difficoltà tecniche della nuova tecnologia, il cinema fece numerosi passi indietro in
termini di stile. I movimenti di macchina diventarono impossibili con il sonoro, poiché per registrare il suono
le macchine da presa vengono insonorizzate con delle grosse imbracature (emettevano un ronzio molto
forte). I microfoni erano ingombranti, e il mixaggio delle piste sonore era complesso. I cineasti scelsero
spesso di usare la cinepresa multipla per non perdere i sincrono fra il suono e il movimento delle labbra. I
microfoni erano poco sensibili e gli attori parlavano lentamente, in dizione, al ché molti dialoghi
procedevano a ritmi molto lenti. Il cinema tornò ad essere teatro filmato: il lessico visivo si impoverì. Da un
punto di vista visivo, i film della fine degli anni ’20 erano più ricchi dei film degli anni ’30. Solo dal 1931 fu
possibile registrare diverse piste sonore e mixarle in seguito, o usare il playback.
Il miglioramento della tecnologia permetterà la ripresa del movimento delle macchine, e il cinema scopre la
sua vocazione audiovisiva. Si impongono nuovi generi, come il musical, che si afferma negli anni ’30 come
riferimento di Hollywood. Lubitsch aggirò gli ostacoli tecnici in The Love Parade (1929), e King Vidor nel
suo Hallelujah! (1929).
Il superamento delle barriere linguistiche
La lingua divenne una barriera che rischiava di essere uno ostacolo alle esportazioni. Doppiare una colonna
sonora era costoso e difficile. Alcuni film furono doppiati grossolanamente, e i sottotitoli erano rifiutati dal
pubblico. Nel 1929 la MGM avviò un programma di produzione multilingue, per realizzare lo stesso film in
lingue diverse, ma il mercato si rivelò troppo limitato per giustificare la spesa. L’introduzione di mixaggio
audio rese il doppiaggio possibile, e i sottotitoli iniziarono a essere accettati.
Modern Times (1936) di Charlie Chaplin
prodotto da Charlie Chaplin
Charlie Chaplin fu uno dei più strenui avversari del cinema parlato. Fu in grado di continuare a fare film privi
di dialoghi fino a Tempi Moderni, un film per metà muto con delle sequenze sonorizzate.
Modern Times è l’ultimo film in cui compare Charlot. Chaplin vuole congedarsi da questo personaggio; egli
capisce che tutto è cambiato e nel cinema sonoro non c’è più spazio per Charlot. Per omaggiare il
personaggio del tramp, nel film sono sonorizzate soltanto le macchine. L’uomo sta dentro il cinema muto, le
macchine parlano. In pieno cinema sonoro, vuole ricorde a tutto il mondo il linguaggio dirompente
dell’immagine e della pantomima. Chaplin si può permettere un film così, può essere produttore di se
stesso e può permettersi di creare un prodotto tanto singolare.
Il film può essere visto come un campo di battaglia fra gesto e parola, che trova una sintesi formidabile nel
no-sense song finale, in cui il personaggio deve esibirsi improvvisamente in un locale. La sua compagna gli
scrive il testo sui polsini, ma per sbaglio li perde; Charlot è costretto a improvvisare e per la prima volta,
parla; tuttavia, le parole che dice sono prive di senso. Questa scena è un manifesto del cinema di Charlie
Chaplin. Sono importanti i gesti, la musicalità delle parole, non le parole stesse.
Chaplin vuole portare al cinema un tema serio e importante, il tema della spersonalizzazione del lavoro, del
rapporto uomo-macchina, che gli provocherà dei problemi con il governo dopo la guerra. Il film mette in
scena una sfida: da un lato c’è il cinema muto, dall’altro c’è il nuovo cinema moderno, sonoro, affidato
esclusivamente alla macchina.
Il primo film parlato di Chaplin sarà The Great Dictator (1940), una commedia sulla Germania nazista.
Innovazioni tecniche degli anni ’30 a Hollywood
1) registrazione del suono. Nel corso degli anni ’30, i metodi di registrazione migliorarono in modo
significativo. Furono introdotti i microfoni direzionali, giraffe leggere, e il mixaggio audio. Fu introdotta
la colonna sonora, e gradualmente si fissarono le consuetudini musicali in studio. La musica doveva
aiutare la narrazione. Una delle prime colonne sonore sinfoniche è quella di King Kong (1933) di Max
Steiner (che lavorò anche su Casablanca).
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2) movimenti di macchina. Furono perfezionati le gru e i dolly. Dal 1932 il Panoram Dolly permetteva di
fare spettacolari carrellate e panoramiche che furono tipiche del cinema degli anni ’30 e ’40.
3) technicolor. Fu inventato all’inizio degli anni ’30. Le macchine da presa possedevano dei prismi che
suddividevano la luce in tre colori primari, ognuna che imprimeva una pellicola. I colori chiari e brillanti
erano associati a fantasia e spettacolo, e non ambivano al realismo.
4) effetti speciali. Gli studios aprirono reparti dedicati agli effetti speciali. Le immagini filmate
separatamente venivano combinate attraverso la retroproiezione (solitamente usata per le scene in
automobile) e la stampa ottica (matte painting e travelling mattes). Si usavano spesso i modellini.
5) stili di ripresa. Rispetto agli anni ’20, il ricorso a filtri vistosi diminuì, e si utilizzarono pellicole più grigie e
sfumate, per conferire fascino o atmosfere romantiche. Si sperimentò con la profondità di campo:
Orson Welles utilizzò ampiamente la stampante ottica, per rendere tutti gli elementi in profondità a
fuoco.
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CINEMA AMERICANO CLASSICO
Hollywood come “fabbrica dei sogni”
• Durante la sua “golden age”, Hollywood è
• una potenza economica
• uno strumento politico
• un centro di produzione culturale, un nuovo modello “classico” che fonda una nuova civiltà culturale, con
una “pienezza di elementi stilistici e linguistici.
Lo stile classico
1. Linguaggio autonomo. Il cinema classico hollywoodiano riesce a creare un proprio linguaggio che non
dipende dal teatro e dalla letteratura. Hollywood fornisce delle forme narrative, delle tecniche
linguistiche, degli schemi talmente coerenti e riconoscibili dal creare un modello “classico”. Molti
studiosi ritengono che la cultura “nuova” incarnata da Hollywood è depositaria della cultura
tradizionale europea o che l’abbia sostituite. Infatti, molti individuano nella forza degli schemi narrativi il
forte carattere di intertestualità programmatica. In questo senso, Hollywood è un meeting pot il cui
risultato è la serializzazione e l’omogeneizzazione di tradizioni diverse.
2. Schemi narrativi. Gli schemi narrativi di Hollywood rientrano in precisi schemi stilistici, caratterizzati da
efficacia ed eleganza. Tale modello coincide con una (1) narrazione forte, portata avanti da una serie di
(2) collegamenti causa/effetto chiari, guidati da (3) ruoli e tipi ben definiti. Si segue il principio dell’(4)
economia espressiva: tutto ciò che non è funzionale è eliminato. Normalmente, il film classico prevede
un (5) double plot, la combinazione di due linee narrative organizzate in un rapporto gerarchico; il plot
dominante definisce il genere del film. I tratti personaggi dei personaggi sono funzionali al genere della
narrazione. Il fascino dei film classici risiede proprio nella loro (6) prevedibilità.
3. Strutture spazio-temporali convenzionali. L’articolazione delle strutture spazio-temporali segue una
logica complessivamente lineare-progressiva. Le discontinuità sono giustificate, ad esempio i flashback
sono ben marcati all’inizio e alla fine da procedimenti ben codificati. La macchina da presa mostra lo
spazio necessario al racconto, conferendo una sensazione di naturalezza e “trasparenza”. Gli spazi
devono essere più verosimili possibile.
4. Il découpage classico. I processi di scrittura e produttivi sono invisibili. Lo spettatore non coglie
l’artificio: egli è lector in fabula, in quanto ricopre un ruolo implicito al racconto in base a desideri,
supposizioni e attese ben orchestrati dalla macchina narrativa e produttiva. Questa dinamica
identificatoria richiede la sospensione della consapevolezza e la perdita delle coordinate spaziotemporali reali.
5. Il montaggio invisibile. La frammentazione organizzata del montaggio deve avere tre caratteristiche
essenziali: la motivazione, la chiarezza e la drammatizzazione. Una punteggiatura convenzionale di
raccordi serve per mascherare i tagli: (1) raccordo di sguardo; (2) raccordo sul movimento; (3) raccordo
sull’asse; (4) raccordo di posizione; (5) raccordo di direzione. La colonna sonora “aiuta” il montaggio a
livello sia diegetico che extradiegetico.
6. Star system. Le star, impiegate degli studios, confondono la loro fisionomia con quella del personaggio
che mettono in scena. Gli attori sono legati a due ruoli ricorrenti. Da una star ci si aspetta un certo
personaggio, ad esempio da Humphrey Bogart ci si aspetta il “good bad boy” come è Rick Blayne in
Casablanca (1942).
7. Sospensione dell’incredulità. Il cinema classico si basa su una sospensione dell’incredulità; lo spettatore
non fa obiezioni di tipo realistico. Egli accetta di abitare nelle regole del film. Il cinema americano è
tutto di finzione, anche quando si muove in un contesto reale. Tutto il cinema classico è realizzato in
studio; Hollywood porta il pubblico ovunque. L’aereo nella scena finale di Casablanca è costruito di
cartone, nascosto dalla nebbia, davanti al quale camminano persone di bassa statura, scelte apposta
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per motivi di proporzione, e la regia direziona l’attenzione sui volti dei due attori: fu a partire da questa
esigenza tecnica che nacque il cliché della nebbia durante un addio..
Drammaturgia della forma classica
La forma a classica è messa a punto negli anni ’30, trovando la sua forma compiuta con il sonoro. Questa
forma funziona ancora oggi, con tutte le trasformazioni tecnologiche.
• schema a domino del racconto. Rapporto di causa-effetto tra le scene e le inquadrature. I pezzi del
domino sono le sequenze del film, o addirittura le inquadrature dei film. Essi rappresentano i rapporti di
causa-effetto fra le inquadrature. Il film noir, con molti flashback, è già meno classico; esso ha uno schema
a puzzle.
• centralità dell’azione. La macchina da presa è a servizio dei personaggi, senza farsi vedere. Essa non
abbandona mai i personaggi.
• ruoli e tipi ben definiti. Le motivazioni e le azioni dei personaggi sono prevedibili per lo spettatore.
• centralità del personaggio (arco di trasformazione). Un film è la storia di qualcuno a cui succede qualcosa
che gli cambia la vita per sempre; egli cambia interiormente o esteriormente. Esempio: storia di Oscar
Schindler.
• motivazione dei personaggi. Le motivazioni dei personaggi sono chiare e limpide e muovono l’azione
• costruzione di una trama centrale e una serie di subplot. I film classici hanno sempre un double plot.
Casablanca ha un plot da war movie, e un plot romantico, che si intrecciano tra loro. Essi spesso
appartengono a due generi narrativi diversi.
• suddivisione (schema) in tre atti. Gli sceneggiatori si rifanno in modo consapevole o meno alla Poetica di
Aristotele. Tutte le storie devono avere un inizio, uno svolgimento e una fine. Nella parte centrale, l’eroe
affronta un numero più alto di prove. Gli sceneggiatori di Hollywood incanalano questa suddivisione nelle
pagine di sceneggiatura (30, 60, 30). Un buon esercizio è di vedere alcuni film classici guardando
l’orologio, facendo attenzione a come i turning point corrispondono allo stesso orario. Questo schema
funziona ancora oggi, riadattato nel caso della serialità televisiva.
Il rapporto tra cinema e società
Il cinema era sì “evasione”, ma spesso anche i film più leggeri presentano tracce di problemi sociali, politici
ed economici della loro epoca. Ad esempio, un’analisi storico-ideologica di Il bacio della pantera (1942)
rivela il tema del “male” come qualcosa di esterno, che proviene dalla vecchia Europa, in contrapposizione
all’ingegno e alla laboriosità dell’America. La commedia lavora sempre in controluce con la società del suo
tempo; il movimento della commedia, da un punto di vista sociologico, va da un certo tipo di società a un
altro. Leggere una commedia in un modo chiuso, solo all’interno della trama del film, significa perdersi la
posta in gioco. Tuttavia, la “teoria del rispecchiamento” non deve essere intesa in senso diretto: il cinema è
piuttosto uno specchio deformante della società. Il cinema non è una fonte della storia, non per la storia.
Prima del codice Hays, alcuni film attingevano in modo esplicito dall’attualità, ad esempio Io sono un evaso
(1932) della Warner affronta il tema dei forgotten men della Grande Guerra. Dopo il codice Hays, ci fu un
boom di film di propaganda e war movie.
Il sistema dei generi
L’altra grande forza di Hollywood è legata al sistema dei generi, costruito su un delicato equilibrio di norma
e infrazione, di routine e di invenzione, di ripetizione e sorpresa. Ogni film è uguale agli altri ma è percepito
come unico. Chi è fan del war movie si aspetta quanto mento una scena sul campo di battaglia di 20 minuti;
se non c’è questa scena, sono deluso come spettatore. Se c’è, c’è la gratificazione spettatoriale del patto di
genere, fra il film e il suo spettatore. Hollywood traduce i generi che già esistevano, a teatro e nel romanzo,
in un’ottica industriale. Nelle commedie romantiche, gli spettatori sanno già che i personaggi si metteranno
insieme, ma non sanno quale ostacolo li separerà. Lo sceneggiatore elabora un conflitto che è sempre
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diverso all’interno dello stesso schema. La possibilità di anticipare i cliché dà una gratificazione allo
spettatore.
Questo non succede solo con il cinema di genere: succede anche con i film di Woody Allen. Lo spettatore
di Woody Allen si aspetta un film simile all’ultimo, con un determinato sguardo sui personaggi che
attraversa tutta la sua filmografia. Anche un film di Sorrentino si lega a un patto con lo spettatore.
La teoria di genere è molto complessa. Si può riassumere in sei punti chiave:
1. Ogni film doveva essere percepito come unico. Lo studio system non consisteva in pura e semplice
produzione industriale in serie di film. Ogni film doveva essere percepito come unico, altrimenti il
mercato si sarebbe saturato in pochi anni.
2. Archetipi narrativi. Come ogni tipo di cinema popolare, la Hollywood classica lavorava utilizzando i
grandi modelli di racconto dei generi (archetipi narrativi), attorno ai quali articolava una complessa
dialettica di standardizzazione e differenziazione. Lo star system diventa utile a Hollywood anche come
elemento di differenziazione del prodotto.
3. La prevedibilità è gratificante. I generi servivano (e servono) ad appagare il desiderio del pubblico di
farsi raccontare più volte la stessa storia ma in forme sempre diverse. Gli spettatori tornano bambini, e
provano gratificazione e rassicurazione a riascoltare la stessa storia. I generi permettono di riproporre
gli stessi archetipi.
4. Tensione fra norma e variazione. Possiamo concepire il genere come un campo di tensione tra la norma
e la variazione o infrazione a quella stessa norma. Più il pubblico è sofisticato, più prevarrà la variazione.
Esempio del film noir: esso è caratterizzato da 1) una vicenda criminale 2) una ambientazione
metropolitana, di notte 3) una donna seducente e spietata (dark lady), archetipo che deriva da Lady
Macbeth. Con questi tre elementi si possono scrivere infiniti noir, come se fossero delle note musicali
con le quali comporre una canzone. Tutti i generi sono riducibili a tre elementi.
5. Specializzazione nei generi. Nella Hollywood classica, le case di produzione si erano specializzate in
alcuni generi. Ad esempio, la 20th Century Fox era specializzata in musical e biografie.
6. I generi si modificano e si ibridano. I generi si modificano e si ibridano nel corso del tempo. Star Wars è
un film western ambientato nello spazio (lo dice anche George Lucas). Ogni genere si può analizzare
osservando un ciclo vitale; un’ascesa, una trasformazione e un declino.
Negli anni ’30 si impongono i generi per standardizzare la produzione, per alimentare l’esercizio
cinematografico. Inventare una storia dal nulla non è produttivo; standardizzare la produzione è più efficace
ed efficiente.
In Italia, il cinema si è sviluppato intorno a due madreforme: la commedia per il mercato interno, e il film
d’autore per i festival. La stessa commedia romantica è poco praticata in Italia, così come il fantasy e la
fantascienza.
I generi sono meno codificati oggi, ma la loro forza resta intatta.
Fra i generi caratteristici degli anni d’oro di Hollywood, troviamo il musical, la screwball comedy, il film
horror (appannaggio della Universal e dal reparto “B” della RKO), il cinema sociale (in cui era
particolarmente impegnata la Warner Bros.), i film di gangster, i film noir e i war movie.
Il musical
L’introduzione del sonoro promosse il musical a genere di primo piano. Il musical era frequentato da tutti gli
studios, ma negli anni ’30, si distinsero i musical della RKO con Fred Astaire e Ginger Rogers, riconoscibili
grazie alle coreografie in stile déco (Top Hat, 1935), e quelli della Warner, caratterizzati dalle complesse
coreografie di Busby Berkley (42nd Street, 1933), che puntavano sullo spettacolo di massa. 42nd Street fissò
molte convenzioni del genere, rendendo celebre il musical “dietro le quinte”. Vincente Minelli, che lavorò
spesso con Busby Berkley, diventò il regista di punta del musical.
Nel dopoguerra il musical diventò appannaggio soprattutto della MGM, che puntava sulla spettacolarità dei
film con colori sgargianti e splendidi costumi, ad esempio in The Wizard of Oz (1939) con Mickey Rooney e
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Judy Garland. Gene Kelly introdusse alla MGM una coreografia atletica moderna. Kelly seppe fare del
musical il veicolo di un aspro commento sulle frustrazioni maschili dell’America del dopoguerra.
The Wizard of Oz (1939)
prodotto da MGM
Il mago di Oz è considerato un classico anche da un punto di vista produttivo: esso rappresenta la
quintessenza del modello produttivo americano. Esso è “senza autore”, frutto di un lavoro collettivo. Nello
studio system, l’individualità dell’autore non era valorizzata; gli sceneggiatori spesso non avevano neanche
interesse ad essere citati nei credits (per questioni di prestigio), e i registi erano solo una parte
dell’ingranaggio.
La MGM decise di produrre Il mago di Oz principalmente per fare concorrenza a Snow White and the Seven
Dwarfs (1937), il primo lungometraggio della Disney, attraverso una favola in Technicolor, che con colori
brillanti e antinaturalistici evocasse un mondo fiabesco simile. Inoltre, il soggetto fiabesco su ibridato con il
pattern del musical.
Il progetto del Mago di Oz era affidato al produttore Mervyn LeRoy. La sceneggiatura viene affidata in
primo luogo a Mankiewicz, autore dello script di Quarto Potere. Nel frattempo, furono messi a lavorare sullo
stesso strip altri scrittori. In tutto, furono dieci gli scrittori a lavorare al film, spesso senza sapere
dell’esistenza degli altri. Sul set si alternarono quattro registi diversi, anche se nei credits è citato Fleming,
che lavorò al film per più tempo. La stesura dei credits era sempre oggetto di lunghe trattative.
Il Mago di Oz diventerà redditizio molto più avanti, grazie al passaggio all’home video. è soprattutto
attraverso questo passaggio che il film dispiega al massimo la sua capacità mitopoietica. Hollywood,
soprattutto prima della seconda guerra mondiale, ha avuto la capacità di generare miti “classici”, a tutti noti
e continuamente citati.
Singin in the Rain (1952) di Stanley Donen e Gene Kelly (185)
prodotto da MGM
Singing in the Rain è considerato uno dei film più importanti del periodo d’oro di Hollywood. Le
performance di Gene Kelly propongono un virtuosismo coreografico e cinematografico destinato a fare
storia. Come era tipico a Hollywood, Singing in the Rain nasce grazie al confluire di materiali che
appartenevano alla MGM: la canzone che dà il titolo era stata scritta per un altro musical, e altri brani furono
recuperati da Nacio Herb Brown e Arthur Freed, che lavoravano per la MGM.
Il musical fu scritto per risaltare le abilità di Gene Kelly, ma anche per richiamare le origini stesse del
musical, attraverso una storia da backstage musical. La trama infatti segue il backstage di una casa di
produzione fittizia, che decide di girare il primo film musicale per stare al passo con le innovazioni del
sonoro. Il film tematizza, in chiave ironica, i problemi produttivi legati alla transizione al sonoro, allo stesso
tempo enfatizzando il passato mitico di Hollywood.
Singing in the Rain è un ottimo esempio dell’elogio della finzione della Hollywood classica. Gli artefici della
macchina produttiva hollywoodiana sono posti sotto una lente di ingrandimento. Gene Kelly è un attore del
muto alle prese con la trasformazione dei film al sonoro, e vuole spiegare a Debbie Reynolds il fascino del
cinema e dichiararle il proprio amore. Entrando negli studios, con le luci, il vento e le scenografie, crea il
setting ideale per la sua dichiarazione.
Gli sceneggiatori mirano a integrare il più possibile le canzoni e i numeri coreografici all’interno della
narrazione, in linea con la ricerca di una coesione drammatica negli spettacoli di Broadway. I momenti
musicali sono legati alle continue trasformazioni delle relazioni tra i personaggi. Il ballo diventa espressivo,
lo strumento privilegiato per esprimere gli stati d’animo dei personaggi. Il tip-tap si unisce ai suoni generati
dalla pioggia, che ricreano un clima di esuberanza quasi infantile che enfatizza la spettacolare naturalezza
dell’atletismo di Gene Kelly.
La commedia
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Il termine comedy è molto ampio e contiene molte differenziazioni interne.
1) comedian comedy. Film che si basa sulla performance di un attore. Il genere deriva dal vaudeville, e si
basa su una comicità visivo-cinetica legata allo slapstick, vale a dire l’azione violenta, gagà,
inseguimenti ecc. I due più grandi interpreti furono Bustor Keaton e Charlie Chaplin. La vicenda
canonica della comedian comedy vede un individuo le cui avventure comiche derivano innanzitutto
dall’incapacità di inserirsi nella propria società. La rappresentazione più emblematica è Charlot, il
vagabondo che alla fine delle sue vicende riprende la vita da vagabondo.
2) romantic comedy. I protagonisti sono un uomo e una donna, le cui vicissitudini sentimentali portano al
lieto fine. Essa è erede di una lunga tradizione che risale al teatro greco. Ricorrono alcuni cliché
narrativi: la differenza di classe che a volte risulta con l’agnizione (ad esempio Sabrina di Billy Wilder,
1954); il rimatrimonio; personaggi che si odiano che finiscono col sposarsi. La comicità è verbale, basata
sul ritmo incalzante delle battute e sul wit. L’elemento comico leggero è più sullo sfondo rispetto
all’elemento sentimentale. La rom-com è ancora oggi uno dei generi prediletti dai produttori, poiché
costa poco e punta tutto su una buona sceneggiatura.
3) screwball comedy. “commedia svitata”. Il genere si impone a metà degli anni ’30. Solitamente è una
romantic comedy che si avvicina al comico. La screwball risente ancora delle forme della comedy del
muto, in particolare la slapstick. I personaggi sono dei lunatics, degli adulti che si comportano da
bambini. La screwball è connotata da uno spirito anarchico, una rivolta contro le regole sociali e dei
ruoli sessuali. Si verificano situazioni paradossali e i cliché del linguaggio amoroso è sovvertito. Sono
ricorrenti le figure femminili che hanno il ruolo di “pal”, coppie di “compagni”. Cary Grant è un icona
del genere, e Howard Hanks è il regista di riferimento. Il genere declina negli anni ’50-’60: l’America
della guerra fredda predilige un’ironia meno graffiante.
4) sophisticated comedy. Il termine fa riferimento più all’ambientazione che all’arco narrativo.
Caratterizzata da personaggi alto-borghesi, con scene girate prevalentemente in interni e dialoghi
brillanti che prevalgono sull’azione propriamente detta. Il focus sui dialoghi fu una conseguenza della
limitatezza dei movimenti di macchina nel primo periodo del sonoro. I dialoghi differenziano la
commedia sofisticata dalla slapstick sono la narrazione e l’intreccio, molto più complessi e ”sofisticati”,
caratterizzati da uno stile allusivo e ricco di sottintesi. Esiste in carie forme: si va da quella
“aristocratica” di Lubitsch a quella ”sociale” di Frank Capra. Un altro rappresentante è George Cukor (A
Philadelphia Story, 1940).
The Women (1939) di George Cukor
prodotto da Hunt Stromberg
Commedia satirica con un cast stellare interamente al femminile (sono femmine perfino gli animali che vi
compaiono), il film è diretto da Cukor, "regista delle donne" per eccellenza. Esempio di scrittura classica
hollywoodiana. Il film mantiene intatta una grande freschezza di scrittura, cn un’abilità narrativa
sorprendente.
Howard Hawks
Nella Hollywood classica, i registi tendevano a specializzarsi in alcuni generi. Howard Hawks è un caso
anomale: nella sua lunga carriera egli si confrontò con moltissimi generi diversi, una modalità lavorativa che
solitamente apparteneva ai registi di serie B. Egli fu sempre riconosciuto come un buon regista
commerciale, ma fu in seguito riscoperto come autore, con un suo stile personale e temi ricorrenti. La
struttura narrativa che ricorre nei suoi film vede un gruppo di uomini distaccati dalla società, che mettono
alla prova le loro capacità. I temi sono l’amicizia virile, il professionismo, e le figure femminile “anomale”
che si comportano come “pal” (amiche). Il suo cinema era caratterizzato da racconti e recitazione asciutti, e
un uso sapiente del ritmo veloce e del montaggio analitico.
Hawks dichiaratamente “rubava” da altri film e anche da se stesso, al punto di fare remake dei suoi stessi
film. Rispetto agli originali, egli aggiunge delle innovazioni originali e spiazzanti.
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This Girl Friday (1940)
prodotto da Columbia Pictures
This Girl Friday è un esempio chiave della screwball comedy, soprattutto da un punto di vista di scrittura
classica hollywoodiana, legata in particolare ai dialoghi veloci. Hildy è una “pal”: nella versione teatrale
originale, The Front Page, il personaggio era un uomo. La brillantezza dei dialoghi risente della lezione dei
commediografi del tempo; inoltre, al film lavorarono alcuni scrittori che venivano dal giornalismo.
La storia è una tipica commedia del rimatrimonio. Walter è un personaggio esuberante e spregiudicato, che
non ha remore nel mettere in difficoltà il goffo Bruce, il futuro marito di Hildy, la sua ex moglie. Walter
riconquisterà Hildy con il lavoro. Hildy è una donna che lavora, libera intelligente, che rifiuta la vita
domestica che pure vagheggia. Quando si decide a scrivere l’articolo, cambia il suo cappellino in un
cappellaccio da cowboy, rinnegando la sua femminilità. In una scena, Hildy fa un placcaggio da giocatore di
football. Da subito si nota la sintonia fra Hildy e Walter, i quali si scambiano battute sferzanti e rapidissime,
anche con allusioni sessuali, ed è proprio parlando che si ri innamorano. Tipico della romantic comedy è
l’ambientazione urbana, che è lo sfondo naturale della commedia degli anni ’30.
Al di sotto del registro frivolo, si fa allusione a dei temi sociali, in particolare la corruzione e l’incombenza
della morte. A un certo punto, Molly, la ragazza legata al condannato Williams, si butta dalla finestra
piuttosto che rivelarne il nascondiglio.
La mancanza di musica durante tutto il film è anomala, ma è un fattore legato alla disarticolazione della
retorica amorosa: Walter e Hildy non hanno bisogno di un motivetto romantico per accompagnare la loro
storia.
The Philadelphia Story (1940) di George Cukor
prodotto da MGM
The Philadelphia Sotry è un ottimo esempio di sophisticated comedy, in cui sono presenti il fast dialogue e
l’ambientazione glamorous. La trama fa parte del genere della commedia del “ri-matrimonio”, che vede
una coppia che deve reinnamorarsi.
Il film innestano un gioco di specchi fra la società americana e il dibattito sul divorzio. Nel corso degli anni
’30, per il pubblico americano, la commedia è una grande compensazione alla grande depressione.
A Philadelphia Story è un buon esempio di quanto Hollywood deve a Broadway. Nella cultura americana,
cinema e teatro sono parte della stessa industria. Quando un testo di Broadway funzionava, diventava un
film (es. Carnage di Polanski). Broadway era un banco di prova per vedere se una storia funzionava: il lavoro
di riaddattamento delle storie, in particolare delle commedie, era centrale e diverso da chi ne inventava.
A Philadelphia Story fu costruito interamente sullo stardom. Esso fu venduto e costruito intorno a tre star:
Carey Grant, Katharine Hepburn e James Stewart. Il compito di Cukor fu lavorare nel modo più invisibile
possibile, poiché lo spettatore doveva apprezzare la storia e la performance dei tre divi. Katharine Hepburn
era la star del testo teatrale, protagonista della commedia di Philip Barry. L’attrice veniva da un pessimo
periodo della sua carriera: era definita “veleno al botteghino”, poiché non era femminile nel modo in cui si
era femminili secondo i cliché di Hollywood degli anni ’30. I suoi pantaloni erano segno della sua grande
indipendenza. Ha molto a cuore la battaglia per l’emancipazione femminile, e si fa scrivere delle parti con
“atteggiamenti da uomo”. Questa immagine divistica, spiazzante per il pubblico, iniziò a funzionare con il
grande successo di A Philadelphia story: la trasgressione dei codici visivi maschili-femminili funzionò
all’interno di un’ottima storia di successo.
Ernst Lubitsch
Arrivato nel 1923 attirato dalle condizioni economiche vantaggiose della MGM, imparò ad armonizzare il
suo stile con quello classico hollywoodiano. Le commedie sofisticate prodotte dalla Warner analizzavano la
società dell’epoca. Il “tocco di Lubitsch” era l’abilità del regista di suggerire gli appetiti sessuali e le rivalità
nascoste sotto il velo delle buone maniere, attraverso un’estrema fluidità del racconto. Lo stato d’animo dei
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personaggi era suggerito anche solo dal loro cambiamento di posizione nella scena. Egli si affermò come
uno dei principali registi hollywoodiani. La sua cultura era meno puritana di quella americana, in quanto
proveniva da un paese è profondamente decadente. Aggirò la cultura americana, inserendo dei “messaggi
trasgressivi” tramite i dialoghi intelligenti. Lubitsch veniva dal teatro, e pensava a se stesso come uno
scrittore prestato al cinema. Il successo a Hollywood di Lubitsch fu dovuto alla sua specializzazione nella
scrittura di commedie“poco americane”. Esse sanno di Europa, di vecchio mondo, che le rende più
attraenti al pubblico americano.
To Be or Not To be, 1942, di Ernst Lubitsch
prodotto da Romaine Film Corp.
To be are not to be è una delle vette del cinema di Lubitsch. Esso è una delle rare commedie sulla
Germiana nazista, scritta con intelligenza attraverso una sceneggiatura moderna, brillante e iconica.
Attraverso la commedia, Lubitsch si prende gioco del nazismo (suscitando scandalo, poiché era più
“corretto” denunciare il nazismo attraverso i documentari e l’inchiesta). I dialoghi sono rapidi e incalzanti, e
il ritmo è legato alla capacità di Lubitsch di fare ironia attraverso delle battute taglienti e memorabili.
Lubitsch apre la strada alla possibilità di ironizzare su qualsiasi cosa, affrontando un grande tema eticoestetico: ridere del nazismo si rivela non solo possibile, ma anche estremamente utile.
To Be or Not To Be permette di riflettere sul rapporto fra Hollywood e la seconda guerra mondiale. Il film
rientra nell’attività anti-nazista di Hollywood. Fino alla fine degli anni ’30, Hollywood aveva tutto l’interesse a
penetrare nel mercato tedesco: la priorità era far girare i film, mantenendo un profilo cordiale con il
nazismo. Con l’avvio della seconda guerra mondiale, Hollywood non rimane neutrale e partecipa alla
campagna per sostenere gli alleati e raccogliere fondi. Anche Il grande dittatore di Chaplin si colloca in
questo movimento.
Per Lubitsch i temi di To Be or Not To Be erano legati alla profonda ammirazione per il mondo del teatro,
fatto di cliché e di finzione che esaltano il lavoro dell’attore. La finzione era considerata dal regista più
potente di qualsiasi denuncia su basi realistiche.
Dal punto di vista della performance, nel film spicca Carole Lombard, che morirà lo stesso anni del film.
Lombard è una delle poche attrici comiche dotate di un’enorme potenza scenica, in grado di usare il corpo
nella screwball comedy.
Frank Capra
Frank Capra si presta come case study d’elezione per analizzare lo stile classico hollywoodiano. Il caso di
Capra è importante anche da un punto di vista storico, in quanto regista più famoso e premiato agli Oscar.
Egli incarna il rapporto fra stile e ideologia nel cinema americano classico.
La vita di Capra rappresenta la quintessenza del sogno americano: nasce in un paesino vicino Palermo,
arriva negli stati uniti senza parlare una parola d’inglese, ma già a 35 anni è uno dei registi più importanti di
Hollywood. Egli è il regista di riferimento dei valori del sogno americano a partire dalla sua biografia (un
caso simile è quello di Rodolfo Valentino).
La forza del cinema di Frank Capra è nella sua abilità di incarnare perfettamente il New Deal rooseveltiano.
Dopo la crisi di Wall Street del ‘29, l’America deve ripensare il proprio sistema capitalistico su nuove basi, la
ricchezza è da ridistribuire. Il “liberismo sfrenato” è ritenuto responsabile della crisi del ’29, per cui
Roosevelt avvia in grande progetto di ingresso dello stato nell’economia. Questo implica un nuovo
rinnovato rapporto fra individuo e società. Se gli anni ’20 sono legati a un’economia che incarna
l’affermazione dell’individuo sopra a ogni cosa, gli anni ’30 sono il ripensamento di questo concetto
all’insegna di un nuovo rapporto armonico fra individuo e società, una rinnovata economia di stato. Lo stato
ridiventa importante.
Frank Capra diventa molto influente, e afferma se stesso e le proprie capacità contrattuali. Il suo successo è
collegato al successo della Columbia, la quale comincia a far parte del sistema delle major.
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Capra si occupa di raccontare delle storie, nelle quali è possibile osservare in filigrana il progetto del New
Deal. I suoi personaggi vengono spesso dalla piccola provincia americana, arrivano in città e si fanno
portatori dei valori del senso comune. C’è una certa idea di “populismo”, un ritorno ai valori del senso
comune di cui sono portatori gli americani autentici e genuini, che non sono “corrotti” dal sistema delle
grandi città. Frank Capra dà voce agli americani “dal basso”. Il suo genere prediletto è la commedia a
sfondo sociale, legata al racconto del paese uscito martoriato dalla grande depressione, che deve rimettersi
in piedi con un nuovo patto sociale.
Al nome di Capra è legata la forma della screwball comedy (tipo Tutti pazzi per Mary), la “commedia
svitata”, legata anche alle forme della commedia romantica. La screwball comedy mette insieme coppie che
provengono da classi sociali distanti. Negli anni ’30, questo non era ancora un cliché. In questo modo, si
inseriscono discorsi legati alle classe sociali all’interno di intrattenimento leggero.
Clark Cable e Claudette Colbert It happened one night (1935), uno dei film più importanti degli anni ’30,
che ha tutte le forme del racconto romantico collocato nella scoperta dell’America della grande
depressione.
Il film di Frank Capra più “film di Frank Capra” di tutti è proprio la sua biografia.
Capra è uno dei primi registi ad imporre il suo nome nei titoli di testa, in un contesto fortemente
impersonale legato allo stile delle case di produzione. Egli dà un’impronta personale ai suoi film, grazie
principalmente alle storie e al successo al box office.
“Non ero interessato alla gloria, ma a fare film. Non volevo esibire la macchina da presa; volevo il pubblico
coinvolto nella storia. La macchina da presa si muove in funzione del movimento dei personaggi. Quei
registi che si fanno belli con le inquadrature spettacoli, alla fine mostrano solo se stessi.” Se lo spettatore
non entra nella storia, è colpa del regista; il pubblico non ha mai torto (concezione opposta a quella
autoriale, tipicamente “europea”, in cui “il pubblico non ha capito il film”.) Se il pubblico non segue il film,
è perché il film non è venuto bene. I film sono fatti per chi paga il biglietto.
“I thought drama was when the actors cried. But drama is when the audience cries”.
La golden age del cinema classico americano ha in Capra uno dei suoi massimo esponenti proprio perché
Capra sposa completamente l’ideologia di Hollywood del sogno americano (incarnato da lui stesso e dai
fondatori di Hollywood). Il cinema d’autore europeo, a partire dagli anni ’60, si manifesta invece con l’idea
di “fare film contro il pubblico”; se il pubblico esce dalla sala scanalizzato, l’obiettivo è raggiunto.
Nel contesto produttivo di Carpa il film è visto come un prodotto collettivo, che segue la logica della
catena di montaggio; la figura del produttore è centrale, mentre il regista è considerato un ingranaggio
della macchina. In questo sistema omogeneo e tendente alla standardizzazione, i registi tentano di
rivendicare una maggiore autonomia rispetto ai produttori. Capra fu il presidente della Screen Directors
Guild (SDG), e nel 1936, scrive una lettera aperta al New York Times in cui esprimeva le sue rivendicazioni
autoriali in un contesto in cui “il novanta per cento dei registi non ha voce in capitolo né sul soggetto, né
sul montaggio”. In ogni caso, Capra, così come Cukor, condividevano a pieno i principi stilistici e narrativi
del cinema classico: non proponeva alcuna alternativa all’estetica.
It's a Wonderful Life (1946) di Frank Capra
prodotto da Liberty Films (casa di produzione di Frank Capra)
Siamo già nella fase finale dell’opera di Capra. It’s a Wonderful Life è l’incarnazione perfetta della nuova
filosofia del sogno americano, una mistura di commedia domestica e di melodramma spietato. Anche qui lo
sfondo è sociale; il mondo di fantasia è attraversato dalle stesse tensioni sociali dell’America degli anni ’30,
anche se letto dentro al sistema dei generi.
Film drammatici
Casablanca (1942)
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prodotto da Warner Bros.
Casablanca è considerato il film classico per antonomasia. Umberto Eco, nel 1975, vede in Casablanca una
spudorata rielaborazione di infiniti stereotipi letterari, una “citazione di mille altri film”. Infatti, Casablanca è
il prodotto più puro dell’industria del cinema i cui schemi sono ormai collaudati.
Casablanca si configura come una storia romantica innestata in un war movie. Le due trame sono
intrecciate: la risoluzione della storia d’amore simboleggia la vittoria della guerra. Ricorrono inoltre motivi
del genere noir. Humphrey Bogart riprende il suo ruolo del good-bad boy. Egli è un outlaw hero, in
contrapposizione Lazlo, l’officiai hero: l’eroe al di fuori dalla legge è un motivo tipico del western. Il suolo di
Bogart è assolutamente centrale, tanto che Michael Wood definisce il film una “sineddoche della
personalità cinematografica di Bogart”. La logica del découpage rende mitiche le fattezze di Bogart, la
quale è consegnata al mondo del mito. Le gerarchie e i ruoli del sistema stilistico sono rispettati anche
esteticamente: infatti, i primi piani sono riservati solo ai protagonisti.
I molti richiami all’attualità sono in linea con la propaganda ideologica del momento, che racconta la
necessità dell’intervento americano nel conflitto mondiale e la fine della politica isolazionista degli Stati
Uniti. Infatti, Rick compie un sacrifico amoroso a favore dell’impegno alla resistenza contro il nazismo. Il
processo ideologico è simbolicamente rappresentato dai luoghi e dagli eventi: Rick e il suo café
rappresentano l’America, e la scelta finale di Rick rappresenta la tradizione americana più profonda.
Casablanca esprime perfettamente il sistema di valori della cultura degli anni ’40: il film è un prodotto
pensato esclusivamente per il pubblico in sala, non per i posteri.
Il processo produttivo di Casablanca rispecchia i metodi industriali del sistema classico. Il produttore
esecutivo, Hal Willis, omogeneizza gli apporti al film, che è chiaramente privo di un unico autore. Infatti, il
copione fu riscatto più volte, la prima volta per premere il pedale sull’aspetto politico e ideologico della
trama, la seconda per meglio sottolineare l’aspetto romantico della storia. Sulla locandina, il nome del
regista poco in evidenza: il richiamo per il pubblico sono le star e la casa di produzione, la Warner Bros, di
cui il pubblico conosce lo stile. Inoltre, Casablanca subì dei tagli di budget durante la sua produzione (a
causa dell’entrata in guerra degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale), ma il progetto riuscì a resistere
esemplarmente, risolvendo i problemi riciclando scenografie usate in altri film o utilizzando altri espedienti,
quali l’utilizzo della nebbia nella sequenza finale.
Casablanca è un ottimo esempio della suprema arte del riciclaggio hollywoodiano. Hollywood infatti, non
ha interesse per l’originalità. La storia era un testo teatrale mai andato in scena, di nome Everybody comes
to Rick’s (1940). Inizialmente si costruisce un war movie, per poi rendersi conto che la storia non sta in piedi,
e il copione iniziale è mescolato con una storia d’amore, pensata da Howard Koch, un esperto di romantic
comedy. Il set è riciclato da un altro film, e Parigi è ricostruita con pezzi di cinegiornale rimontati. Il tema del
film, As time goes by, è un pezzo scritto per un musical. A Hollywood non si buttava via niente; si
mescolavano le carte e si creavano nuovi film.
All About Eve (1950) di J. Mankiewicz
prodotto da 20th Century Fox
Il noir
Il genere noir si costruisce attorno ad una serie di archetipi e convenzioni ben presenti nell’immaginario del
pubblico degli anni ’40. In genere, il noir è legato al crime, in un’ambientazione metropolitana, in
particolare la città di Los Angeles e New York, e alla presenza di una dark lady o femme fatale, immagine
che è fatta risalire al personaggio di Lady Macbeth.
Negli anni ’40 non si utilizzava il termine “noir”, nonostante esso fosse una realtà consolidata nell’industria
cinematografica. In termini lessicali, il noir si sviluppò successivamente al suo ciclo vitale. “Noir” è un
termine francese, grazie all’influente libro Panorama du film noir americain (1955), che canonizzerà il genere
retrospettivamente. Essi individuano nel noir elementi onirici, strani, erotici, ambivalenti e crudeli. I
personaggi non hanno una morale. Gli autori del saggio erano vicini al movimento surrealista, e in effetti
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individuano nei film noir dei caratteri vicini allo stile del surrealismo. Ogni noir, tuttavia, interpreta i topos
del genere in modo diverso, rendendolo più vicino ad una tendenza narrativa che a un vero e proprio
genere.
Il noir si fa risalire al romanzo poliziesco hard-boiled, le cui storie erano portate sullo schermo con uno stile
simile all’espressionismo tedesco (non a caso molti registi sono di origine europea). Il ciclo noir si apre con
Citizen Kane, il quale sarà estremamente influente in quanto a atmosfera, espedienti narrativi e tratti
stilistici. Un’ulteriore influenza determinante è esercitata dalla popolarità della psicanalisi negli Stati Uniti
negli anni ’40. I produttori diventano dei grandi appassionati di psicanalisi, che suggeriscono agli
sceneggiatori di inserire rimozione, sogni e la dimensione dell’inconscio nelle storie. Spesso i personaggi
sono scritti intorno ad un trauma, e la struttura a flashback riprende la seduta psicanalitica.
L’appartenenza del noir al cinema classico americano è ambivalente. I rapporti di causa-effetto non sono
sempre chiari: spesso, e difficile stabilire la veridicità della sintassi narrativa e visiva. Il racconto è non-lineare
grazie all’uso del flashback. Prevale una visione soggettiva, con un fortissimo uso della voice over. Il finale
tragico è spesso preannunciato dall’incipit, che frequentemente vede la morte di un personaggio. Lo stile
traduce in termini visivi questo tipo di racconto, in quando riflette la soggettività del racconto. Lo stile è
opaco, si fa uso di angolazioni anomale. L’illuminazione è espressionista, dietro l’influenza delle maestranze
del cinema tedesco che si trasferirono a Hollywood.
Il noir, in termini produttivi, è all’interno dello studio system; ma in termini di estetica, narrazione e messa in
scena, il noir mette in crisi le forme del cinema classico. Dopo la seconda guerra mondiale, il noir si rivela
più efficace per riflettere al ricambio culturale dovuto al trauma che la guerra ha portato.
Il 1944 è considerato l’anno del noir (basti pensare a Laura e a Double Indemnity).
Nel dopoguerra, si spinse sugli aspetti stilistici del noir: essi diventarono sempre più barocchi, con
un’illuminazione improntata al chiaroscuso, inquadrature inclinate e vari livelli di quinte visive.
Orson Welles
Nel contesto produttivo di Orson Welles, il film è visto come un prodotto collettivo, che segue la logica
della catena di montaggio; la figura del produttore è centrale, mentre il regista è considerato un
ingranaggio della macchina. è in questo contesto che Orson Welles si presenta come un iconoclasta: nella
sua carriera breve ma intensa, la sua esigenza di autorialità e individualità si pone in antitesi assoluta con la
serializzazione produttiva di Hollywood.
Orson Welles aveva a Hollywood la fama di enfant prodige, oltre che di provocatore eccentrico. Ricevette
un’educazione complessa e non tradizionale. Le sue esperienze teatrali salirono agli onori delle cronache, in
particolare per Voodoo Macbeth, ambientato a Harlem e interpretato da attori afroamericani perlopiù non
professionisti, e da un Giulio Cesare in chiave antinazista. La sua esperienza radiofonica era ancora più
degna di nota: fu decisiva l’esperienza di First Person Singular, su CBS, in repertorio di radiodrammi in cui
già si colgono alcuni elementi del suo linguaggio, fra cui un tempo narrato non convenzionale, un insieme
di monologhi interiori e voci individualizzate, una rappresentazione sonora stratificata e complessa. Ma
Welles diventò celebre grazie alla beffa della Guerra dei mondi, nel 1938. Non convinto del canovaccio che
stava provando con gli attori, sceglie di dargli un taglio giornalistico, e racconta attraverso una radiocronaca
giornalistica dell’arrivo delle astronavi con gli alieni in America. Quando va in onda, tutti stanno ascoltando
uno spettacolo comico. Attraverso all’aiuto dei tecnici, Welles va in onda in più canali. Il programma destò
panico e inducendo circa due milioni di persone a riversarsi in strada o correre in chiesa.
Il 21 luglio 1939, la RKO propone a Welles un contratto straordinario, che dava autonomia quasi completa a
Welles che aveva 24 anni. La RKO mirava a lanciare una nuova immagine di sé puntando sulla qualità. La
casa di produzione aveva una house esthetic orientata al fantastico, con un notevole reparto per gli effetti
speciali, e Welles lo sfruttò per il suo film. Il contratto incrina la storia di Hollywood: le altre case di
produzione lo guardano a grande sospetto, pensando che potesse creare un precedente. Tuttavia, il
progetto di rilanciò non riuscì: Citizen Kane ebbe un buon successo di critica ma un scarso successo di
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pubblico. Anche il suo secondo film fu un insuccesso al box office, e il produttore Schaefer, che aveva
sempre sostenuto Welles, fu costretto a dimettersi.
Citizen Kane (1941) di Orson Welles
prodotto da RKO
Citizen Kane fu un film dirompente dal punto visivo e registico; la sua carica espressiva si coglie bene
ancora oggi, pur non conoscendo le modalità di produzione della sua epoca. Welles scelse di raccontare la
figura di Randolph Hearst, un editore e imprenditore molto influente politicamente e mediatamente negli
Stati Uniti. Hearst era proprietario di cinema, di giornali, e aveva appena tentato una scalata politica
fallimentare. La storia era estremamente rischiosa, poiché di fatto lanciava una sfida al personaggio più
influente d’America. Welles vuole denunciare le manipolazioni del sistema mediatico; un film sull’America
non può che essere un film su chi detiene il potere dei media. Negli anni ’30, tutto questo era
estremamente trasgressivo.
L’impatto di Citizen Kane fu di tipo narrativo e stilistico, ma anche produttivo:
1) sul piano industriale, fu il primo film d’autore, con il quale si aprì la possibilità per i registi di esprimere
una poetica personale con la macchina da presa: Welles era la figura principale che dirigeva i lavori.
2) sul piano tematico, Welles racconta una vicenda dilatata sul piano storico-realistico
3) sul piano drammaturgico, Welles reinventa il linguaggio classico nella rappresentazione di una realtà
stilisticamente prospettica, sfaccettata, parziale, anche inaffidabile in quanto lo spazio-tempo sono
dilatati. Questi aspetti influenzarono notevolmente i cineasti che lo ammiravano, fra cui quelli della
nouvelle vague e il cinema postclassico. Citizen Kane non era un film propriamente noir; eppure, le sue
invenzioni stilistiche alimentano gran parte del cinema noir successivo.
La storia narrata in Citizen Kane si presta a molteplici chiavi di letture, che ancora oggi sono solo parziali.
Borges definì il film un’”avventura ermeneutica”, un “labirinto senza centro”. I frammenti della vita di
Charles Foster Kane non hanno un’unica unità: Kane è un simulacro, un caos di apparenze.
1) Interpretazione allegorica-nichilista. Borges vede in Citizen Kane l’allegoria dell’impossibilità di cogliere
un’unica verità. La tematica esistenziale del film (il significato di “Rosebud”), destrutturata in una forma
frammentaria, rimandano al tema della relatività della verità, della dissolubilità delle cose nel nulla. La
ricerca metafisica e poliziesca del significato di Rosebud si conclude quando l’enigma svelato perde
importanza. Il fatto che “Rosebud” fosse una scritta su uno slittino non spiega al pubblico chi era Kane.
2) Realismo storico-sociale. Attraverso la vita del cittadino Kane vengono inquadrati 50 anni di studoia
americana. L’approccio di Welles mette a nudo le contraddizioni dell’ideologia del New Deal, attraverso
la figura di Kane, che è allo stesso tempo un riformista autoritario e riformistico, dall’altro un capitalista
aggressivo. Il giudizio su Kane è il giudizio su una società. Citizen Kane appare anche come un’analisi
spietata del mondo della stampa e del sistema dei media. Inoltre, c’è chi vede nella perdita dell’infanzia
di Kane, affidato a un banchiere, la perdita dell’innocenza degli Stati Uniti, da un’età “pura” e
incontaminata dei pionieri a Wall Street. In questa visione, la madre di Kane rappresenta l’etica puritana
del sacrificio. C’è chi vede nel suo nome, “Mary Kane”, un’assonanza con la pronuncia di “American”.
3) Lettura psicologica: perdita dell’infanzia. La dimensione storica e sociale si intreccia con un’aspetto
psicologico: la perdita dell’infanzia di Kane. L’ossessione per il potere di Kane appare legata a una
mancanza, a un’infanzia perduta, alla quale Kane rimane legato ossessivamente attraverso “Rosebud”.
C’è chi vede in questo un parallelismo con la vita dello stesso Welles, il quale era “invecchiato
precocemente”. Kane è ossessionato anche dalla vecchiaia: l’infanzia e la vecchiaia conducono al tema
della morte, che apre il film e lo accompagna. Il tema stesso del potere, legato a una corruzione fisica e
morale, sembra avvicinare il personaggio alla morte ancora più velocemente. Non a caso, il leitmotiv
musicale della morte è un riarrangiamento del leitmotiv di Rosebud.
Ricorrono nel film il tema del doppio, nella personalità di Kane, nel sistema dei personaggi, negli oggetti (ci
sono due slitte), nella struttura narrativa e di scrittura. Vi sono molti riferimenti alla dimensione fiabesca, ad
esempio nell’allontanamento da casa di Kane, nella’aurea onirica che circonda Xanadu, negli elementi di
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soggettività marcatamente onirica e allucinatoria. Nel film si colgono riferimenti a Cuore di tenebra e Il
grande Gatsby, ma nessuno di questi riferimenti è quello centrale.
La struttura narrativa e lo stile
Il film presenta vari aspetti di originalità:
1) l’organizzazione cronologica dell’intreccio. Il tempo è frantumato attraverso i flashback e la molteplicità
dei punti di vista diegetici. Il film non ha un climax, nel senso classico del termine.
2) la svalorizzazione dei narratori. Ciascun testimone della vita di Kane rimanda al successivo: nessun
narratore risolve il mistero, anzi, lo infittisce. L’unico “vero” narratore è l’istanza narrante del cinema, che
beffa tutti gli altri: la sola dimensione estetica capace di arrivare alla verità sul piano drammatico è
quella dell’artificio, del gioco di prestigio anche audiovisivo. La narrazione falsificante mette in crisi la
nozione stessa di narrazione. La dimensione falsificante è conferita dal rapporto fra scelte formali e
semantiche. Le riprese in profondità e i piani sequenza mettono in risalto le relazioni particolari fra gli
elementi, e lo spettatore non è guidato. Il film oscilla fra realismo drammatizzato e astrazione, rendendo
difficile stabilire la veridicità di ciò che accade.
3) il funzionamento testuale complesso. La struttura del film è a puzzle, e comprende:
1) un prologo. Il prologo, privo di narratori e forte sull’aspetto visivo, vede la morte di Kane e la
pronuncia di “Rosebud”. L’aspetto descrittivo e quello diegetico della sequenza iniziale si fondono
nel creare uno spazio immaginario ed evocativo. L’enigma esplicito del film, il significato di
“Rosebud”, è “svelato” fin dal subito al pubblico attraverso il veto “no trespassing”. Il film apre con
il suo finale, una scelta trasgressiva che diventerà un classico nei noir degli anni ’40 e ’50.
2) un cinegiornale diegetizzato.
3) l’avvio dell’inchiesta
4) i diversi racconti visualizzati in flashback
5) l’epilogo. Insieme al prologo, l’epilogo offre la chiusura di una “cornice”. Questa struttura visibile
indica la narrazione stessa come unico narratore sovrano.
Il senso del film è trasmesso attraverso 1) piani sequenza 2) riprese in profondità di campo 3) profondità e
montaggi peculiari, anche a livello sonoro 4) realtà scenograficamente complesse. Il linguaggio di Citizen
Kane è pienamente audiovisivo: esso stravolge il decoupage classico anche in termini di relazioni
audiovisive.
Citizen Kane non fu costruito sullo stardom, ma sul fascino del suo autore: fuori dai cinema, il nome “Orson
Welles” era gigante. Welles era una celebrity, finito sulle copertine di tutti i giornali dopo la notizia dello
scherzo della CBS. Welles era un divo intermediale, che attraversa la radio, il teatro e la stampa.
Le motivazioni dell’insuccesso di Citizen Kane furono molteplici: innanzitutto, il pubblico dell’epoca “non
era pronto”; inoltre, Hearst, il magnate dell’editoria su cui si basava il personaggio di Kane, portò avanti
una campagna di boicottaggio, innescando un clima di polemica e isteria collettiva.
Ancora oggi, è vivo il dibattito sulla questione della “paternità” di Citizen Kane, in quanto lo sceneggiatore
Mankiewitz la rivendica.
Laura (1944) di Otto Preminger
prodotto dalla 20th Century Fox
Laura esce lo stesso anno di The Lady in the Window di Lang e Phantom Lady di Siodmak. I tre film rinviano
al soggetto femminile intorno al quale si sviluppa la narrazione. La figura femminile elabora una dialettica di
presenza/assenza che trova il suo luogo simbolico diegetizzato nel ritratto di Laura. Laura è un simulacro, un
personaggio-spettro, che vive in uno statuto di incertezza per cui lo spettatore si insospettisce al suo
ritorno, che potrebbe essere frutto di un sogno, di una proiezione, di un’aspettativa. In questo, Laura è la
quintessenza del noir onirico e misterioso; i confini fra sogno e realtà sono labili.
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Com’è tipico dei film noir, Laura poggia su una struttura narrativa complessa, e il racconto poggia sul
flashback, sulla modificazione del punto di vista, sulle narrazioni soggettive, sulla confusione e sull’onirismo.
I confini fra bene e male sono sfumati.
Laura, come altri film noir, sta a fatica nella forma classica, a causa dello statuo narrativo incerto. La voice
over sconosciuta dell’incipit preannuncia un lungo flashback: “non mi dimenticherò mai il giorno che Laura
morì”. Questo incipit è spaesante per il pubblico degli anni ’40. L’incipit non troverà mai una sua
spiegazione, poiché il personaggio narrante verrà ucciso. La voce di Waldo è senza origine, rimane in un
tempo indeterminato, in qualche modo eternizzato (simile al voice over dell’incipit di Sunset Boulevard).
Questa ambiguità non ci permette di individuare la dimensione temporale della storia di Laura: lo
spettatore è incerto rispetto allo statuto di verità narrativa di ciò che vede.
Preminger porta lo spettatore in una zona oscura del senso. Diventa complicato stabilire i confini fra il
flashback veritiero e il flashback menzognero, più simile al sogno. Viene il dubbio che Laura non sia altro
che una proiezione del protagonista, McPherson, in quanto la sua apparizione è preannunciata da delle
convenzioni che solitamente preannunciano i sogni (doppio movimento di macchina e allontanamento
all’ingresso di Laura). Laura è anche e soprattutto un’immagine, un “simulacro”.
Laura è fortemente influenzato dai principi della psicanalisi. La dimensione dell’inconscio e del sogno è
prevalente, una dimensione in cui è complicato interpretare la veridicità della sintassi narrativa e visiva.
Laura apre la strada al filone più psicanalitico nel noir.
Da un punto di vista produttivo, Laura ebbe una lavorazione tormentata. Fra queste, il film passò da film di
serie B a film di serie A, e Preminger cambiò ruolo da produttore a regista. Rispetto al ruolo convenzionale
del regista nella produzione, Preminger controlla pienamente e direttamente tutte le fase di realizzazione
del film, in particolare il lavoro sulla sceneggiatura. Quest’ultimo vide la disapprovazione dell’autrice del
romanzo originale, a causa di alcune modifiche a livello di oggetti (l’arma del delitto era una pistola
nascosta nel bastone di Waldo), di personaggi (Laura era caratterizzata diversamente, e Waldo aveva
fattezze estetiche ben diverse da Clifton Webb) e di struttura narrativa. Il romanzo originale costruisce la
storia di Laura intorno a cinque diverse narrazioni, mentre il film le sostituisce a una nuova, volutamente
ambigua, che diventa il perno strutturale del film. Il punto di vista del narratore, che si scoprirà essere il
colpevole, è inaffidabile tanto quanto il punto di vista del detective, che nella struttura classica del giallo
corrisponde alla storia dell’inchiesta. In Laura, la storia dell’inchiesta è inaffidabile tanto quanto la storia del
(falso) delitto.
Le scelte stilistiche riflettono quelle narrative. La gli effetti illuministici che imbiancano il contorno degli
oggetti e dei corpi, insieme ai movimenti fluidi e agili della macchina da presa conferiscono uno “sguardo
fantastico” che rimanda all’onirico. La recitazione brillante e accademica del personaggio di Waldo rimanda
a ciò che lui è, di fatto-un attore.
Double Indemnity (1944) di Billy Wilder
prodotto da Paramount Pictures
Double Indemnity (1944) di Billy Wilder è considerato dalla critica il primo noir della storia. Wilder lavora in
grande armonia con lo studio system e non si discosta completamente dal classicismo.
Il film inizia con la confessione dell’omicidio da parte del protagonista. La trama si articola in una serie di
flashback. La narrazione in voice over, l’uso delle luci, le ombre delle veneziane e di altri elementi
scenografici, la cupa ambientazione urbana e la storia d’amore che finisce tragicamente sono tutti elementi
tipici del noir.
Il film apre la strada al crime americano completamente privo di valori, quasi sempre privo di happy ending.
Tutti i personaggi, tranne l’assicuratore, sono spietati e crudeli, e vivono in un universo “rotten”. C’è una
forte dimensione erotica. Phyllis è la perfetta incarnazione della dark lady.
Sunset Boulevard (1950) di Billy Wilder
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prodotto da Paramount Pictures
Sunset Boulevard mette sotto esame le convenzioni tipiche di Hollywood. La protagonista, interpretata da
Gloria Swanson, è una diva del muto che non riesce a continuare a lavorare dopo il passaggio al sonoro. La
maschera della protagonista, che continua a comportarsi come una diva nonostante il suo isolamento
pressoché totale, finisce per annientarla.
Sunset Boulevard è un esempio perfetto della messa in pratica delle innovazioni stilistiche della Hollywood
del secondo dopoguerra. Il film ha una complessa narrazione a flashback e sapore di semi-documentario. La
trama è raccontata dal voice over di un uomo morto, e utilizza le vere scenografie di Hollywood.
In Sunset Boulevard (1950), il narratore stesso è mostrato morto in piscina, e il film racconta la sua morte.
L’idea di iniziare i film dalla fine diventa consuetudine a Hollywood grazie a Sunset Boulevard.
Billy Wilder, registra tra due mondi
Originario della Germania, Billy Wilder si trasferisce a Hollywood nel 1934. Scrive soggetti per Lubitsch e
Howard Hanks, per poi entrare permanentemente all Paramount. Fra i suoi film spiccano Giorni perduti
(1945) e Viale del tramonto (1950). Emerge una doppia attitudine drammaturgica: da un lato il noir, e
dall’altro la commedia apparentemente “leggera”, entrambi i generi campo d’elezione per mettere in luce
le contraddizioni del sogno americano. La dimensione a volte farsesca dei film vuole mettere a nudo le
contraddizioni della contemporaneità. I suoi film sono popolati da vinti ed emarginati, vittime
dell’individualismo. La risoluzione moralistica è solo apparente. Ricorre il tema della maschera, alla base
della complessa caratterizzazione dei personaggi.
Wilder aveva iniziato come allievo sceneggiatore di Lubitsch, che rimase il suo modello per tutta la sua
carriera. Si dice che sopra alla sua scrivania avesse una grossa scritta che recitava “How would Lubitsch do
it?”.
Alfred Hitchcock
Hitchcock fu uno dei registi più popolari del pubblico del dopoguerra. Sin dai primi film, egli si distince
come un regista capace di inquadrare e montare le scene in modo da far intuire i pensieri dei personaggi.
Fra i suoi tratti distintivi c’erano un’oculata manipolazione del suono, l’impiego delle prospettive dei
personaggi e lo humor. I suoi film erano contraddistinti dalla volontà di sconcertare il pubblico, utilizzando
mezzi appresi dalla scuola sovietica del montaggio ed espedienti stilistici ingegnosi. Il titolo di “maestro del
brivido” gli fu conferito grazie alla sua abilità di conferire suspense. La sua immagine pubblica diventò parte
del fenomeno di cui fu protagonista: i suoi commenti salaci, la sua caratteristica flemma e il suo humor nero
divertivano gli spettatori. La continuità di stile, di trame e di soggetti e l’enorme fiuto nel cogliere i desidri
del pubblico gli valsero l’appellativo di “autore” delle sue opere, pur operando all’interno dello studio
system.
Rear Window (1954) di Alfred Hitchcock
prodotto da Patron in collaborazione con Paramount Pictures
Una delle sfide tecniche di Rear Window è l’uso dei molteplici stacchi che spingono lo spettatore a
condividere la convinzione del protagonista che il suo vicino di casa abbia commesso un omicidio.
Psycho (1960) di Alfred Hitchcock
prodotto da Paramount Pictures
Dopo Intrigo internazionale (1959), Psycho si presenta come un film a basso costo dall’impianto quasi
minimalista. Egli rivisita il genere thriller attraverso l’unione strategica di musica e immagine: la colonna
sonora si discosta dalle sonorità tipiche della prassi hollywoodiana, e assume una valenza drammaturgica
che rovescia l’impatto sullo spettatore, generando un senso di instabilità angosciante grazie ai suoni
“prosciugati” di soli archi, impiegati come strumenti ritmici.
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La famosa sequenza della doccia risente della lezione di Ejzenstein, ormai integrata nel linguaggio del
cinema internazionale. Creare una tensione visiva che ruota attorno al tema della sfera, grazie a un alto
numero di inquadrature, che servono per suggerire l’omicidio senza mostrare il coltello che entra nella
carne, vietato dalla censura. La macchina da presa insiste sui primi piani, che rende inaspettato l’omicidio
della protagonista. La forza è caratterizzata da un’implacabilità ritmica di tre note, che si fanno sempre più
regolari e invadenti nella scena. Gli archi rappresentano le coltellate. La sequenza della doccia è stata
eletta a un vero e proprio topos audiovisivo dell’irrazionalità e della minaccia.
Psycho scatenò diversi cicli di film su folli assassini, fino agli “slasher film” degli anni ’80.
Il western
Il western è il genere americano per eccellenza, paradigmatico per comprendere la cultura americana. Esso
si sviluppa in un paesaggio prettamente americano, la Monument Valley. Inoltre, esso traduce la maggior
parte degli archetipi narrativi più efficaci e ricorrenti (ritorno a casa, mito della frontiera). Per gli europei, la
frontiera indica un limite fra paesi; negli Stati Uniti, esso indica il confine fra civiltà e natura. è un mito di per
sé epico; esso significa sottomettere e conquistare la natura attraverso l’opera della civiltà industriale. Lo
spazio è conquistato ingaggiando una lotta senza fine con la natura, la wilderness. La natura è minacciosa e
selvaggia, che non si riuscirà mai a sottomettere del tutto. Il western racconta l’impossibilità di avere la
meglio sulla wilderness. King Kong (1933) mostra la wilderness che entra nel cuore della civiltà. Il western è
la mitologia americana per eccellenza.
Il western fu, nel cinema classico, il genere maggiormente sfruttato per elaborare metafore della
contemporaneità. Inoltre, fu uno strumento con cui i registi edificarono un’epica nazionale. Infatti,
Hollywood produceva pochi film sulla guerra d’indipendenza americana e la guerra civile, in quanto non si
voleva sottolineare la rivalità con l’Inghilterra o far emergere un passato “imbarazzante”. La riflessione sul
passato è affidata alla conquista del West.
Il mio della Frontiera è il principio chiave della storia degli Stati Uniti. La frontiera occidentale divideva uno
spazio tame da uno spazio wild, con l’ambizione di spostarsi progressivamente verso l’Ovest. è in questo
spazio vergine che, secondo l’immaginario, nasce la democrazia americana. Il dualismo tame vs. wild è
affiancato a quello di white man vs. wilderness.
I film western sono eredi della tradizione del grande romanzo americano, il quale è fondamentalmente
maschilista. Mancano veri personaggi femminili. L’eroe americano fugge dalle donne e dalla civiltà, verso la
wilderness. Spesso, le donne incarnano il tame, mentre il wild è associato al maschio. L’unica forma d’amore
possibile è l’amicizia virile fra gli uomini.
Il western nacque con la nascita del cinema, e all’epoca del muto fu rappresentato da William S. Hart, il
quale incarnò il ruolo del cattivo tipico di molti personaggi successivi; il suo alter ego era Tom Mix, cowboy
acrobatico. I western fu relegato all’ambito dei B-movie fino agli anni ’40, in quanto l’establishment
hollywoodiano li considerava incapaci di esprimere valori artistici. Infatti, il western derivava dai temi della
cultura “bassa”, come i dire novella, la musica folk, e il Wild West Show. John Ford riuscì a portare il
western fra i generi di prima grandezza, attraverso film come Stagecoach (1939), dove per la prima volta usa
il potere suggestivo della Monument Valley. L’uso originale che Ford faceva della profondità di campo
influenzò Orson Welles.
Gradualmente, la new Hollywood porterà avanti un processo di demistificazione del mito della frontiera: i
film saranno sempre più “dalla parte degli indiani”. Negli anni ’30 e ’40 i nemici della civiltà sono i nativi
americani. Già negli anni ’50, questo cliché cambia, e negli anni ’70, è l’occidente che ha ucciso la natura e
sterminato i nativi americani.
The Searchers (1956) di John Ford
prodotto da Whitney Pictures a seguito di un accordo con la Warner Bros.
Sentieri Selvaggi fu diretto da John Ford, il maggior regista di western, e vede come protagonista John
Wayne. Esso si presenta come la quintessenza del cinema fordiano e del genere western. Il film è una
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captivity tale: Ethan, ex sudista nella guerra di secessione, è alla ricerca degli indiani Comanche che hanno
rapito sua nipote Debbie. Insieme a Martin, un ragazzo di “sangue misto”, vaga per anni nelle plaghe del
West.
La location è la Monument Valley, una zona desertica in grado di conferire grande epicità agli avvenimenti.
Il formato panoramico, il movimento orizzontale e il Technicolor contribuiscono alla creazione di uno spazio
fortemente stilizzato, associato al mito del wilderness. Il tempo è altrettanto astratto, simbolico, interiore: la
trama fa un percorso circolare per poi tornare al punto di partenza, con una chiusura speculare all’incipit.
Ethan rappresenta il wild: egli è un guerriero di professione, poiché dopo la guerra ha fatto il bandito e il
mercenario. Egli rappresenta il cliché del maschio fuggiasco. Il suo fascino è associato al suo essere eroe in
bilico fra due mondi: egli è ossessionato dalla purezza razziale, ma è diventato più simile a loro che ai
“bianchi” attraverso la sua sete di vendetta. Tuttavia, Ethan è un personaggio complesso: si impietosisce di
fronte all’uccisione gratuita della Comanche Look, e finisce per “redimersi” risparmiano dal vita alla nipote
Debbie.
Il mito della Frontiera è incarnato dalle figure femminili e materne, che rappresentano il diritto dell’uomo
bianco a conquistare l’intero continente. Le donne “addomesticano” gli uomini. Il film di fatto finisce con la
“vittoria” della miscegenation. Infatti, la famiglia finale è mista, e Ethan è l’unico che ne rimane fuori. Come
l’Ulisse di Dante, Ethan torna a casa solo per ripartire.
Sentieri selvaggi incarna molti dei grandi temi dell’immaginario e della cultura degli Stati Uniti:
1) la costruzione della civiltà in uno spazio vergine
2) il mito del viaggio oltre la Frontiera e l’incontro con i selvaggi
3) l’amicizia virile
4) il fascino della violenza
5) il terrore della miscegenation attraverso lo stupro della donna da parte dell’uomo “di colore”.
Il lm di animazione
Con film d’animazione si intende ogni film che utilizzi la tecnica del “passo uno”. La forma più diffusa negli
Stati Uniti erano gli animated cartoons, della durata di circa 7 minuti, proiettati prima dei lungometraggi.
Esistevano anche altre forme di animazione, fra cui cut-out animation e l’animazione sperimentale
(principalmente in Europa). Il primo cartone animato, Little Nemo (1911) fu realizzato da Windsor McCay.
L’animazione era anche presente all’interno dei lungometraggi, sotto forma di effetti speciali, titoli di testa o
sequenze ibride (ad esempio il famoso personaggio di The Pink Panther, 1963).
I primi studios nacquero a New York e video il passaggio da una tecnica artigianale a un impianto
commerciale, basato sul modello seriale. Durante il periodo del muto, l’animazione rimane ai margini
dell’industria, tranne per Felix the Cat di Otto Messmer. Felix the Cat presenta già molte delle
caratteristiche dell’animazione che si svilupperà, ad esempio le avventure surreali, la sovversione delle
regole fisiche e sociali, gli oggetti che si animano e gli animali umanizzati.
Gli animatori furono fra i primi cineasti a sfruttare pienamente il sonoro. Steamboat Willie (1928) fu il primo
cartoon sonoro con Topolino. L’altra serie Disney, le Silly Simphonies, ebbero un grande successo.
L’animazione si rivolgeva sia agli adulti che ai bambini. Con il sonoro, l’animazione entra a pieno titolo
nell’industria e alcune majors hanno degli animation departments, oppure distribuiscono produzioni
indipendenti. Dal 1929 al 1956, la Disney si appoggerà ad altre compagnie fino a fondare la Buena Vista.
Fra i cartoni più popolari ci furono Betty Boop e Braccio di Ferro dei fratelli Fleischer, i Looney Toons e
Merry Melodies della Warner, e Tex Avery della MGM. Insieme ai cartoni con Mickey Mouse, tutti erano
accomunati da una serie di caratteristiche:
1) vocazione antirealistica
2) invischiamento dei confini fra oggetti animati e inanimati
3) la musica e le “parole” sono un flusso unico, con un rifiuto della centralità della musica
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4) un rifiuto sistematico del modello narrativo-rappresentativo classico delle convenzioni hollywoodiane.
Willie Coyote era caratterizzato da una struttura narrativa minimale, in cui si ripeteva sempre lo stesso
sketch.
5) un trionfo del nonsense e dell’immoralità. Betty Boop era una ragazza sexy se spesso doveva difendersi
dalle avances dei maschi; Tex Avery viveva avventure caratterizzate da violenza e pulsioni sessuali. In
questo, i cartoons sono vicini alla screwball comedy.
Con la crisi dello studio system, i cartoons diventano troppo costosi e negli anni ’60 smettono di essere
prodotti. Sopravvivono solo sotto forma di intrattenimento televisivo per bambini. Rimane in piedi solo la
Disney, che si rivelerà un caso molto particolare.
La Disney si omologa ad uno stile “classico”: i disegni sono stilizzati, i fondali complessi, i movimenti sono
fluidi; le storie sono coerenti e prevedono un insegnamento etico alla fine. Topolino diventa “buono” e
viene introdotto Paperino come personaggio anarchico. Il colore è usato in modo mimetico, e la tecnica
diventa più raffinata e “realistica”. In particolare, per guadagnare competizione sul mercato, la Disney passa
ai lungometraggi con Biancaneve e i sette nani (1937).
Biancaneve ha un grande successo della critica e del pubblico. La trama fu ripresa dai fratelli Grimm con
l’inserimento di elementi “moderni”, come l’orario di fine lavoro dei nani, e Biancaneve rappresentata come
una donna di casa perfetta. I personaggi hanno fattezze “normali” tranne i nani, che sono intenzionalmente
comici, introducendo la dicotomia ricorrente del protagonista serio accompagnato da figure secondarie
comiche. Il montaggio e i “movimenti di macchina” erano a favore dello stile classico: svolgevano una
funzione narrativa, guidavano l’attenzione e creavano suspense. La Disney si stava avventurando in modo
audace in un terreno completamente vergine, e decise di proporre personaggi “realistici” con cui ci si
potesse identificare e uno stile familiare al pubblico.
La Disney scelse il genere musical in stile MGM, che abbondava di sequenze oniriche, fornendo
all’animazione ricche possibilità. Inoltre, il musical aveva una narrativa debole, un ritmo sincopato con
momenti in cui la narrazione “si ferma”. Disney rimane legata allo spettacolo per famiglie,
all’intrattenimento infantile.
Walt Disney si affermò come autore-produttore brillante, che seppe sempre sperimentare da un punto di
vista artistico ma anche produttivo-industriale. La Disney punta da subito sul merchandising, si specializza
orizzontalmente con Disneyland ed è oggi una conglomerate fra le più potenti al mondo.
Innovazioni stilistiche nel secondo dopoguerra
1) la soggettiva. Sulla scia di Orson Welles, iniziò a farsi un più ampio uso della soggettiva.
2) costruzione narrativa intricata. La struttura investigativa attraverso il flashback divenne un modello, ma
non andò a minare la “linearità” prevista dallo stile classico.
3) nuovo realismo nell’ambientazione. La tendenza di fare le riprese on location iniziò durante la guerra e
riguardò principalmente il semi-documentario.
4) Uso di long takes e immagini composte in profondità. La possibilità di girare lunghi piano sequenza fu
facilitata dalla messa a punto di nuovi dolly.
5) Il montaggio veloce. In contrasto con la tendenza al piano sequenza, iniziò andare di moda un
montaggio più spettacolare e veloce, ad esempio nei film A Hard Day’s Night (1964) e Help! (1965) di
Richard Lester.
6) Integrazione di intere canzoni nei film. Negli anni ’60, gli studi cinematografici si legano alle etichette
musicali, scoprendo la possibilità della pubblicità reciproca.
Nessuna di queste innovazioni minò le basi della narrazione cinematografica classica che si fondeva su una
catena di cause ed effetti centrata che andava verso una conclusione
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IL DECLINO DEL SISTEMA VERTICALE INTEGRATO
Comunismo a Hollywood (1947-1960). La HUAC
Dopo la seconda guerra mondiale, a partire dal 1947, il House Un-American Activites Committee (HUAC)
iniziò a indagare sulle attività comuniste a Hollywood, individuate nei contenuti troppo “progressisti” e
negli artisti che li proponevano. Molte figure di spicco denunciarono le persone simpatizzanti o legate al
partito comunista. Furono colpiti in particolare gli sceneggiatori. Alcuni cineasti finiti sulla lista nera
dovettero emigrare per continuare a lavorare. La linea post-guerra che affrontava i problemi sociali fu
bruscamente interrotta, in quanto associata alla “sovversione rossa”.
Il clamore della protesta pubblica costrinse il Congresso a sospendere le udienze per quattro anni, ma da
quel momento i dieci testimoni “ostili” furono emarginati dai produttori: per la maggior parte di loro
divenne impossibile lavorare ufficialmente nel mondo del cinema. Emigrarono in europa Charlie Chaplin,
Jules Dassin, Joseph Losey e altri.
La lista nera cominciò a sgretolarsi solo a partire dal 1960 quando Otto Preminger, nei titoli di testa di
“Exodus”, riconobbe a Trumbo la paternità del soggetto, e lo stesso fece Kirk Douglas nella sua qualità di
produttore di “Spartacus”. Tuttavia, il conformismo ideologico lascia un segno, soprattutto nella crisi dovuta
alla concorrenza della televisione e alla sentenza Paramount.
La sentenza Paramount (1938-1948)
Nel 1938 il Ministero della giustizia avviò una casa “il caso Paramount”: il governo accusava le Cinque
Grandi e le Tre Piccole di violare le leggi antitrust e di monopolizzare il mercato cinematografico. Nel 1948,
la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò le otto società colpevoli di condotta monopolistica e ordinò alla
major di rinunciare alle sale. Le Cinque Grandi rimasero attive nella produzione e distribuzione, rinunciando
però la possesso delle sale. Le sale indipendenti, ebbero accesso ad una gamma molto più vasta di
materiale; gli studios minori, poterono produrre i film a budget più alto. Nonostante ciò, Hollywood si
riconfigurò e gli otto studios continuarono a dominare il mercato.
Il declino dello studio system americano
Dopo il 1946, le fortune di Hollywood sul mercato interno subirono una battuta d'arresto. La produzione e i
profitti crollarono e una delle Cinque Grandi, la RKO, passo di mano diverse volte prima di cessare l'attività
nel 1957. Le cause furono varie:
1) concorrenza della televisione. Nel 1954, 30 milioni di americani avevano un televisore.
2) mutamenti sociali e culturali. Gli spettatori divennero più selettivi.
3) mutamenti urbanistici. Nei primi anni del cinema, le sale erano state costruite nelle zone centrali delle
città. Tuttavia, dopo la guerra si verificò un consistente sviluppo dell’edilizia suburbana, e le famiglie
difficilmente si spostavano.
4) la sentenza Paramount (1948), che tolse potere agli studios e rese il block booking illegale
5) riduzione dei proventi dall’estero a causa dei blocchi doganali
Le risposte di Hollywood al declino del cinema
1. Focus sulla qualità piuttosto che la quantità. Tutti i film dovettero diventare attraenti, poiché non era più
assicurato che la loro produzione sarebbe stata distribuita e proiettata. Il mercato richiedeva un numero
minore di film per i quali le major erano disposte a spendere più soldi.
2. Passaggio al package-unit system. Piuttosto che affidare sei-otto titoli all’anno ad un produttore, si
passa al focus su singoli progetti. Un produttore mette insieme una squadra ad hoc per un certo film,
combinando risorse delle majors e degli indipendenti.
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3. Sfruttamento della televisione. Hollywood seppe adattarsi all'era televisiva traendo vantaggio dalla sua
nuova concorrente. Nei primi anni Cinquanta circa un terzo del materiale teletrasmesso consisteva in
vecchi film, ma nel 1955 anche gli studi maggiori iniziarono a vendere i diritti televisivi dei loro titoli.
L'aumento delle tariffe per queste programmazioni fece delle vendite televisive una parte significativa
dell'incasso di un film. Gli studi di Hollywood cominciarono a creare serie televisive. Quando nel 1953 i
network passarono dagli sceneggiati in diretta ai telefilm girati su pellicola, la richiesta di materiale si
intensificò e i produttori indipendenti furono pronti a soddisfarla. I grandi studios generarono profitti
affittando le loro strutture a produzioni indipendenti, destinate sia al cinema sia alla televisione.
4. Migliorie tecnologiche ed estetiche.
1. il technicolor. L’immagine televisiva dei primi anni Cinquanta era piccola, opaca e in bianco e nero;
così i produttori valorizzarono l’aspetto visivo e il suono dei film. Il colore si sviluppò nei primi anni
Cinquanta: molti utilizzavano il Technicolor, una tecnica costosa che veniva ceduta a condizioni
favorevoli solo agli studios. Nel 1950 la Eastman introdusse una pellicola a colori monostriscia,
l’Eastman color, che nel 1967 era lo standard.
2. il formato panoramico. Prima del 1954 i film americani erano quasi sempre girati e proiettati in un
rettangolo con un rapporto tra base e altezza di 1,37:1; ma le innovazioni dei primi anni Cinquanta
allargarono di molto l’immagine. Il più popolare tra i formati panoramici fu il CinemaScope,
introdotto dalla 20th Century Fox: la cinepresa era munita di una lente anamorfica che catturava
un’inquadratura molto ampia comprimendola in una normale pellicola 35mm.
3. formati audio più moderni. I produttori esigevano anche il suono stereoscopico su base magnetica.
Durante i primi anni Cinquanta, gli studi di Hollywood si convertivano gradualmente dalla
registrazione ottica del suono e quella su pista magnetica.
5. la nascita delle agenzie. La diminuzione del numero dei film prodotti non richiedeva più che il personale
fosse sotto contratto per sette anni. Nacquero le agenzie, che fungevano da intermediari fra attori e
studios in cambio di una percentuale. Alcuni agenti arrivarono ad avere più potere degli studios. Cary
Grant fu uno delle prime star freelance.
6. focus su target specifici, in particolare il mercato giovanile. La fiorente cultura giovanile americana
cominciò a essere esportata in tutto il mondo influenzando il cinema degli altri Paesi. Dagli anni
Sessanta in poi il mercato giovanile divenne il target principale per la maggior parte dei film
hollywoodiani.
7. cinema d’essai. L’importazione di film stranieri era un buon modo per trasferire legalmente i profitti
derivati dalle esportazioni internazionali. Sorsero molte sale per un pubblico più istruito.
8. drive-in. Il terreno agricolo costava poco e il fatto che di solito il drive-in sorgesse subito fuori città lo
rendeva accessibile alla popolazione di periferia. Il primo drive-in risale al 1933.
9. film che sfidavano la censura. Molte commissioni di censura furono sciolte quando nel 1952 la Corte
Suprema dichiarò che i film erano protetti dalla libertà di espressione sancita dal primo emendamento.
Il sistema dell’autocensura dell’MPAA (Motion Picture Association of America) non era più efficace, in
quanto le sale indipendenti, non più sotto il controllo delle Major, potevano mostrare qualsiasi film. Il
cinema tentò di discostarsi dalla televisione proponendo opere più audaci. La MMPA fu costretta a
sospendere l’emissione di visti e proporre un sistema di classificazione sistematico. La sentenza
Paramount ebbe così l’effetto non voluto di liberalizzare la censura.
10. film d’exploitation. Produzioni basate su argomenti attuali o sensazionalistici che potessero sfruttare
commercialmente. I film d’exploitation erano horror, pellicole di fantascienza e di argomento erotico. In
particolare, si distinse l’American International Pictures, per la quale lavorava Roger Corman. Gli
indipendenti spesso praticavano uscite a tappeto, facevano pubblicità in televisione, distribuivano film
durante l’estate e resero i drive-in locali di prima visione.
La crescita degli indipendenti
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Con la diminuzione dei film prodotti dagli studios, le produzioni indipendenti acquistarono più spazio. I film
a basso costo diventarono una prerogativa dei produttori indipendenti che si indirizzavano a specifici target.
Negli anni ’60, quasi la totalità dei film erano prodotti da case indipendenti e distribuiti dalle major, le quali
erano impegnate nel produrre serie televisive.
Alcune case off-Hollywood erano politicizzate (Herbert Biberman riprese la tradizione del cinema di sinistra
degli anni ’30) o facevano scelte radicali (ad esempio Ombre di John Cassavetes, che produsse un film
improvvisato).
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CINEMA E TOTALITARISMI
Durante gli anni ’30, la cinematografia sovietica, tedesca e italiana si trovano sotto il controllo di regimi
autoritari. I regimi si rendono ben presto conto dell’enorme potenziale che il cinema ha come forma di
comunicazione di massa, ideale per influenzare lo spazio pubblico, un potere che pochi altri linguaggi
possono immaginare di avere. Il cinema diventa un mezzo di costruzione del consenso. Walter Benjamin
parla di “estetizzazione” della politica: prima della nascita dello stardom politico, c’era un grande
sollevamento di mezzi artistico-estetici.
Le industrie dell’URSS, della Germania e dell’Italia esemplificavano tre vie diverse di controllo del cinema:
l’URSS nazionalizzò l’industria sin da subito e la controllò in modo palese; la Germania nazista acquistarono
pacificamente le case produttrici e imposero il cinema propagandistico; l’Italia usò mezzi indiretti e puntò
sul cinema di evasione.
Tre punti chiave:
1) epica delle masse
Il cinema si rivolge sin da subito alle masse; esso è anzitutto entertainment. è una forma di massa anche ad
un altro livello: con il cinema, fanno il loro ingresso sulla scena pubblica le masse. Il cinema ha a che fare in
modo più ravvicinato alle masse rispetto agli altri linguaggi. Molti film degli anni ’20 trovano la ripresa delle
masse di persone una delle specificità del linguaggio cinematografico. Nei film di Ejzenstein, si ha a che
fare con le masse intese come soggetto della rivoluzione. Il discorso è già apertamente politico: le masse
sono coloro che hanno preso il potere in Russia, un soggetto attivo della rivoluzione. Esse possono trovare
nel cinema la loro fiera rappresentazione. Il popolo è protagonista, anche da un punto di vista figurativo,
attraverso una grande epica visiva delle masse.
I film nazisti si avvalgono di masse squadrate, ad esempio dei raduni di Norimberga. Masse coordinate in
una precisa coreografia squadrata. Il cinema, è agli occhi di Hitler e Mussolini (ma anche di Stalin) il mezzo
più adatto per raccontare in modo epico le masse, controllate dall’alto oppure soggetto attivo della
rivoluzione.
2) propaganda diretta e indiretta
Il nazismo e fascismo si basavano sui mezzi di comunicazione di massa. Essi sono due fenomeni moderni
che fanno una larga opera di strumentalizzazione dell’informazione che non si limita alla propaganda
diretta. La propaganda, infatti, può esercitarsi in modo più efficace in una chiave indiretta. Il cinema
apparentemente di “evasione” può far passare dei messaggi in modo più efficace rispetto ai cinegiornali: la
vera propaganda si articola sotto traccia nei prodotti di finzione e evasione.
Esistevano negli anni ’30 film di propaganda diretta, che veicolavano un messaggio apertamente politico
attraverso cinegiornali e documentari (as esempio Why we fight, documentario realizzato da cineasti
americani fra cui Capra, Wilder, Hitchcock, dalla parte degli alleati.
I regimi totalitari si avvalevano di propaganda indiretta, attraverso film come Scipione l’Africano (1937), che
aveva come obiettivo di conferire una continuità fra l’impero romano e l’impero fascista. Il film è ambientato
nell’antica Roma, ma ci dice tutto sul fascismo. I film storici ci dicono molto dell’epoca in cui sono stati
realizzati, che tradisce la percezione dell’epoca storica che c’è in quel momento.
3) culto della personalità
Benito Mussolini intuisce abbastanza presto l’importanza del cinema: “la cinematografia è l’arma più forte”
a servizio del potere. Mussolini è fra i primi divi della storia della politica: egli sovrappone la propria
immagine divistica alla propria immagine politica. Il culto della personalità di Mussolini si avvale dell’Istituto
Luce, e della definizione dei caratteri del personaggio di Mussolini. L’immagine di Mussolini è costruita
come quella di una star, in modo intermediale.
L’Unione Sovietica e il realismo socialista
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Le cinematografie dell’URSS furono nazionalizzate dal governo sovietico, che impose una gestione
centralizzata destinata ad irrigidirsi ulteriormente negli anni ’30. La conseguenza più immediata fu una
svolta didascalica con un linguaggio impoverito rispetto alle sperimentazioni del costruttivismo, in quanto le
ambizioni intellettuali e artistiche sono viste con sospetto dal partito comunista, che prende controllo della
produzione dei film. L’ultimo film d’avanguardia fu Dezertir (1933), il primo film sonoro di Pudovkin, che fece
del suono un elemento di spicco.
Nel 1955, il realismo socialista divenne la linea ufficiale del cinema sovietico. Esso seguiva una serie di
principi estetici decisi dal regime, che introducevano l’obbligo per gli artisti di seguire nelle loro opere gli
obiettivi del partito comunista. Le sceneggiature passavano attraverso un rigido apparato di censura, da cui
fu colpito anche Ejzenstejn. Ironicamente, qualche anno dopo, Sumjastkij, diretto rappresentante di Stalin
incaricato a supervisionare il cinema, fu giustiziato per spreco di soldi e talento legati all’interruzione del
film di Ejzenstejn, e il controllo di Stalin divenne ancora più diretto.
I dogmi del realismo socialista erano la “disposizione per il partito”, la “centralità del popolo” e la presenza
di un “eroe positivo”. I film dovevano essere comprensibili a tutti, senza complicazioni stilistiche.
Tipicamente, i film sovietici vedevano l’intrecciarsi di lavoro e romanticismo nella vita di un protagonista che
impara a subordinare i suoi desideri al bene del popolo.
I generi principali furono i film sulla guerra civile, i film biografici, i racconti di eroi comuni e alcune
commedie musicali “socialiste”.
Durante la seconda guerra mondiale, Ejzensteijn si dedicò alla figura di Ivan il Terribile, con la quale Stalin
amava identificarsi.
L’Italia: propaganda e evasione durante il fascismo
I cinema muto italiano aveva visto il successo del film in costume. Un filone popolare era rappresentato
dagli “uomini forti”, in particolare le avventure di Maciste. Tuttavia, la concorrenza dei film americani era
troppo forte. Durante il fascismo, lo Stato esercitò il controllo del cinema tramite sostegni all’industria e
commissioni di censura, senza però nazionalizzare esplicitamente il comparto produttivo. Le storie del
cinema italiano sembrano avere un buco nero negli anni ’30, dovuto all’imbarazzo verso il cinema di
propaganda. Tuttavia, il cinema degli anni ’30 fu molto popolare, con film raffinati e interessanti, ed esisteva
anche una forma di stardom italiano di una certa influenza.
Durante gli anni ’20, Mussolini lasciava spazio ai cineasti italiani, il cui obiettivo principale era di incassare.
L’unico sforzo di centralizzare la propaganda fu l’istituzione dell’Unione Cinematografica Educativa (LUCE)
nel 1924, per controllare i documentari e i cinegiornali. I produttori italiani erano alla ricerca di un prodotto
medio ben fatto, con dei bravi attori e buone sceneggiature, che fosse in grado di andare bene al
botteghino. Si ambiva a costruire una “MGM” di stato.
Alla fine degli anni ’20, l’industria italiana era in netto declino, e si fecero degli sforzi per risanarla,
attraverso leggi protezionistiche e l’inaugurazione della Mostra del Cinema di Venezia nel 1932.
Negli anni ’30, il governo riconobbe l’importanza del cinema da un punto di vista ideologico, e la Direzione
Generale per la cinematografia fu affidata a Luigi Freddi, che si distinse per il suo atteggiamento liberista.
Freddi era convinto che il pubblico non fosse interessato ai film di propaganda, e incrementò il cinema di
“evasione”, simile allo spirito hollywoodiano. Alcune leggi statali garantirono finanziamenti per film a
budget elevato, e entro il 1940 la produzione raddoppiò. La propaganda fu limitata ai documentari e ai
cinegiornali, oltre a qualche film esplicitamente fascista, legati al concetto di patria e allo spettacolo epico.
Nel 1935, Freddi sovrintese un importante progetto propagandistico di Mussolini: la costruzione di
Cinecittà e del Centro sperimentale di cinematografia, simile alla pianta della città universitaria di Roma.
Cinecittà era un progetto all’avanguardia, diventando uno dei più importanti studi cinematografici del
mondo. Gli studios di Hollywood erano già strutture vecchie di 30 anni, mentre Cinecittà era estremamente
all’avanguardia. Dal 1936 e il 1940, Cinecittà fu una delle punte più avanzate della cinematografia
mondiale. Il progetto sarà abbandonato durante la guerra, durante la quale gli spazi di Cinecittà saranno
utilizzati per gli sfollati.
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Fiorirono i generi popolari, che permettessero al pubblico italiano di identificarsi con i divi del suo tempo.
Uno dei generi più importanti è simile alla sophisticated comedy, i “film dei telefoni bianchi”, che puntava
sui set e sulle storie. Si diffonde l’umorismo dialettale e la comicità popolare, con attori come Ettore
Petrolini, Vittorio De Sica, Totò, Aldo Fabrizi e Anna Magnani. Alessandro Blasetti firmò opere di generi
molto diversi fra loro. Non si trattava di cinema fascista, piuttosto di entertainment prodotto durante il
fascismo. I ritratti delle donne erano molto moderni, poco in sintonia con il messaggio familista del
fascismo, poiché Vittorio Mussolini, figlio di Benito, era un grande fan di Hollywood e si lasciava ispirare dal
cinema americano.
Già dal fascismo, esisteva in Italia l’idea che il cinema e la televisione siano amplificatori di messaggi sociali
(concezione pedagogico-didascalica dei testi narrativi). Nei film del fascismo, questo traspare in modo
particolare attraverso l’eleganza visiva. L’obiettivo era di raccontare l’Italia moderna, la modernità
all’italiana, e in questo i set in questo avevano una funzione fondamentale. Sui set italiani lavorano i più
grandi architetti razionalisti dell’epoca. Non esiste lo scenografo, ma “l’architetto del cinema.”
Freddi riportò in vita la Cines come società semi-governativa, la quale nei primi anni ’40 rilanciò l’industria
italiana e avviò la carriera di registi giovani che sarebbero diventati famosi nel dopoguerra. Fra le
generazioni più giovani si facevano sentire spinte verso il ritorno al naturalismo e al verismo di Giovanni
Verga. Tre film dei primi anni ’40 si muovevano verso un “nuovo realismo”: 4 passi fra le nuvole (1942) di
Alessandro Blasetti, I bambini ci guardano (1944) di De Sica e Ossessione (1943) di Luchino Visconti. La
novità del realismo fu scandalosa in quanto rappresentava i problemi sociali a lungo tenuti nascosti dal
cinema leggero voluto da Freddi. La guerra fu meno traumatica per l’industria rispetto ad altri paesi.
I Grandi Magazzini (1939) di Mario Camerini
prodotto da
I Grandi Magazzini porta sullo schermo una delle coppie di riferimento dello stardom degli anni ’30: Vittorio
de Sica e Assia Noris.
Come era tipico nel cinema del fascismo, l’ambientazione trasmette un messaggio di modernità. I grandi
magazzini sono infatti una novità della modernità, un simbolo dello shopping moderno.
Il cinema tedesco durante il nazismo
Il cinema tedesco era il più importante di Europa. Già nel 1918 era stato messo a punto un sistema di
pellicola sonora, e attraverso la Tobis-Klangfilm si tentò di dar luogo a un’alternativa a Hollywood. Il mondo
si divise le tecnologie americane e quelle tedesche fino al 1939. Nel frattempo, la Germania divenne
competitiva con alcuni musical di fama internazionale. Fra i registi più importanti del sonoro vi furono Fritz
Lang, Georg Pabst e Max Ophüls.
Hitler e soprattutto Goebbels erano appassionati di cinema, e quest’ultimo esaminava personalmente ogni
film in distribuzione. Grande ammiratore della Corazzata Potëmkin, ambiva a creare un cinema tedesco che
esprimesse in modo analogo gli ideali del nazismo. Il regime nazista non volle confiscare le case di
produzione private, ma ne ottenne ugualmente il controllo acquistandole pacificamente una dopo l’altra, di
fatto nazionalizzando l’industria nell’UFI. Molti ebrei o simpatizzanti di sinistra, fra cui Billy Wilder e Fritz
Lang, lasciarono il paese. Nel 1933 furono vietati i film a cui avevano partecipato ebrei, e poco dopo
Goebbels ordinò la produzione di film antisemiti. Le esportazioni diminuirono drasticamente.
Molti film non erano destinati all’intrattenimento e non includevano aspetti politici. I primi film
propagandistici apparvero nel 1933, spesso rivolti agli adolescenti, e vedevano negli ebrei e nei comunisti
dei nemici da sconfiggere.
Leni Riefenstahl (1902-2003) fu la cineasta più celebre del nazismo, e spesso è considerata una delle più
grandi cineaste della storia del cinema occidentale. Era la regista preferita del Fürer.
Riefenstahl era un personaggio importante nel cinema tedesco prima di conoscere Hitler. Nell’agosto del
’33, Hitler le affida un grande incarico: esaltare dal punto di vista cinematografico il grande raduno di
Norimberga, che risultò nel film Il trionfo della volontà (1935). Il trionfo della volontà è un film pieno di
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soluzioni di regia interessanti, proponendo un film affascinante da un punto di vista formale, anche grazie ai
mezzi pressoché illimitati della regista. Le immagini esaltavano le masse squadrate e la svastica nazista. La
presentazione del film rimanda al lessico spettacolare hollywoodiano: l’anteprima vede la sala allestita con
bandiere enormi e un’aquila imperiale gigantesca.
Süss l’ebreo (1940) fu uno dei film antisemiti più velenosi ordinati da Goebbels. Esso era un film di finzione
che ruotava attorno all’ebreo come male della storia, rivolgendosi all’antisemitismo in forma indiretta. Hitler
sapeva che il cinema era un canale indiretto efficace con il pubblico. L’abbassamento di difese degli
spettatori, nel contesto della sala cinematografica e dell’accettazione della finzione della storia, permette ai
messaggi “subliminali” del film di penetrare più facilmente. Dopo il 1940, l’odio per gli ebrei fu contenuto
in alcune scene isolate, perché i nazisti volevano distogliere l’attenzione dallo sterminio nei campi di
concentramento.
Olympia (1938) di Leni Riefenstahl
prodotto da Olympia-Film
Olympia fu finanziato dal governo per dipingere la Germania come un membro affidabile della comunità
mondiale. Riefenstahl, a cui fu data carta bianche e mezzi pressoché illimitati, riprese l’amichevole
competizione fra gli atleti, la statuarietà dei corpi e la tensione agonistica. Olympia fu un film magnifico dal
punto di vista visivo e delle imprese registiche. I movimenti furono realizzati con dei carrelli innovativi molto
leggeri; gli operatori optarono per inquadrature dal basso scavando delle buche per gli operatori; le scene
acquatiche lavoravano sul contrasto di luce creato dal corpo umano. In questa esaltazione del corpo
perfetto, c’era l’esaltazione della razza ariana.
Olympia è un’opera d’arte, ed è molto complicato analizzare un film del genere. Da un punto di vista
tecnico, è uno dei più grandi film della storia del cinema. Esso era un poema visivo sulla bellezza del corpo
umano, con suggestioni neoclassiche e liriche. Olympia è anche il primo film sportivo, che celebrava la
cerimonia fra cinema e eventi sportivi. Oggi gli eventi sportivi sono anche una cerimonia dei media, a
prescindere dallo sporti di per sé.
Olympia fu un’impresa titanica: il girato sfiora le 200 ore, 450 mila metri di pellicola. Il montaggio fu un
lavoro mastodontico e richiese due anni. Vi erano a disposizione 45 operatori. Olympia fu uno dei più
grandi blockbuster di quegli anni.
Olympia è diviso in due parti: la prima si intitola Festa di popoli (in tedesco Fest der Völker) ed è lunga 123
minuta, la seconda Festa di bellezza (in tedesco Fest der Schönheit) e dura 94 minuti.
Nonostante il legame di Riefenstahl con il nazismo, nel 1955 Olympia fu definito da un gruppo di registi di
Hollywood come uno tra i 10 migliori film mai realizzati. Olympia è un documento storico, ma anche un film
formidabile da un punto di vista tecnico-stilistico-formale.
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IL REALISMO POETICO FRANCESE
Parigi negli anni ’20 fu il centro culturale delle avanguardie storiche più importanti. Negli anni ’20 e fino agli
anni ‘30, il cinema francese era dominato da una propensione letteraria al fantastico, al surreale, al ritratto di
figure storiche (ad esempio il Napoleon di Abel Gance). Lo scenario è fortemente marcato dalla
dominazione della riflessione estetica. René Clair era il più celebre fra i registi del primo periodo sonoro,
con film giocosi e con elementi fantastici; Jean Vigo portò avanti la tradizione surrealista imponendosi come
uno dei registi più importanti del decennio. In questo dibattito estetologico, c’è poco spazio per il realismo
“sociale”.
Negli anni ’30, le precarie condizioni produttive permisero una certa libertà ai cineasti, e registi quali René
Clair e Jean Renoir diedero il meglio di sé. Molti film francesi erano firmati da autori stranieri, soprattutto
tedeschi: fra Parigi e Berlino c’era un continuo scambio di registi, fra cui Pabst e Ophüls. Per molti, Parigi fu
una tappa verso Hollywood.
L’esperienza politica del fronte popolare francese, una coalizione di progressisti vicini al comunismo che
riuscirono a governare il paese a metà degli anni ’30, ebbe un impatto significativo sul cinema, che si
avvicina in modo più marcato alle forme del realismo popolare. Il realismo poetico francese fu una tendenza
generale più che un vero e proprio movimento. I protagonisti erano spesso dei disoccupuati, dei criminali,
degli operai, figure ai margini della società, che trovano un’occasione di riscatto in amori intensi e
idealizzati. Il tono è cupo: questi melodrammi sociali hanno spesso un finale tragico, la sconfitta definitiva
dei protagonisti. I film erano molto diversi l’uno dall’altro, ma tutti sono accomunati dalla logica
dell’impegno civile e sociale. Si inizia a raccontare la vita vera: gli eroi sono presi dalla vita quotidiana. In
questo senso, il realismo poetico francese è una delle più grandi influenze del neorealismo italiano del
dopoguerra, soprattutto nel caso di Luchino Visconti.
Questa sensibilità di tipo sociale che contrasta con l’idea di cinema come evasione. Il cinema francese
segue un impianto realistico, e concepisce delle storie che sono in grado di dire qualcosa della Francia
attraversata da grandi tensioni sociali, con un partito comunista molto potente che dà il via a dei
cambiamenti sociali. I problemi sociali sono trattati con un linguaggio poetico, lontano da quello
documentaristico, ma comunque con una grande sensibilità.
Il realismo poetico si affermò pienamente a metà degli anni ’30 con Julien Duvivier, Marcel Carné e Jean
Renoir. Jean Gabin ne fu l’attore di riferimento: bello ma dai tratti marcati, egli era plausibile anche come
esponente della classe operaia.
Quando i cineasti della nouvelle vague francese dovranno darsi una loro genealogia, la individueranno in
Rossellini e Visconti, e in Jean Renoir.
L’occupazione tedesca dal ’40 al ’44 mutò le condizioni della produzione cinematografica; molti autori
dovettero fuggire o nascondersi, ma chi restò riuscì a tenere vivo il cinema con film importati alla fantasia o
all’evasione.
Jean Renoir
Fu il più significativo dei registi francesi. La sua carriera si estese dagli anni ’30 agli anni ’60. Il suo stile
registico è caratterizzato da virtuosistici movimenti di macchina, inquadrature in profondità di campo e
improvvisi cambiamenti di tono. Era tipico del suo stile raccontare la storia partendo dai dettagli, e
alternando eventi insignificanti ad avvenimenti cruciali. La cagna (1931) è un preludio al realismo poetico;
Toni (1932) affronta i tema dell’immigrazione di operai provenienti dall’Italia e dall’Europa centrale; La
scampagnata (1936) gioca con il delicato equilibrio fra commedia e tragedia.
Nel 1936, il Fronte popolare formò il gruppo di Ciné-Liberté, di cui Renoir era il regista più importante. Egli
sovrintese le riprese di La vie est à nous, un lungometraggio di propaganda per le imminenti elezioni, a cui
accettarono di lavorare gratuitamente attori e tecnici. La Marsigliese (1938) ebbe meno successo.
La grande illusion (1937) di Jean Renoir
prodotto da Réalisations d'Art Cinématographique
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Film rappresentativo del realismo poetico francese. Il racconto è ambientato nella prima guerra mondiale, i
personaggi non sono quelli tipici del realismo poetico francese. Tuttavia, il film mantiene intatta la
sensibilità tipica del realismo poetico. Il protagonista è Jean Gabin, e anche Erich von Stroheim ha una
parte commovente.
Nel momento in cui la guerra con la Germania si faceva sempre più probabile, Renoir assunse una posizione
pacifista. Il film è ambientato in un campo di prigionia tedesco, e suggerisce che i legami di classe possano
essere più importanti della fedeltà alla propria nazione. L'ufficiale francese protagonista si intende più con
l'aristocratico comandante del campo tedesco che i suoi stessi uomini; quando egli si sacrifica per con
favorire la fuga di alcuni di essi, il comandante tedesco (interpretato da Erich von Stroheim) coglie l'unico
fiore della prigione, alludendo all'estinzione della propria classe. La speranza sorride invece ai sottoposti
Maréchal e Rosenthal, uno di origine operaia e l'altro ebreo, che riesco no a fuggire. Questo contrasto fra
un'aristocrazia in declino e la classe lavoratrice riappare in forma più sardonica nel film con cui Renoir
chiude il decennio, La regola del gioco (1939).
La grande illusion è un film fortemente pacifista e antimilitarista, che condanna gli orrori della prima guerra
mondiale come mai si era visto prima. Venne premiato alla mostra del cinema di Venezia, creando scandalo.
Nelle recensioni italiane, si carpiva la “pericolosità” di questo film, che metteva in discussione l’importanza
dell’educazione militare dei regimi. Un esempio di critica: ’…è un film caratteristicamente politico,
espressione di quella mentalità rinunciataria, quietista, antieroica che è appesa allo straccio bianco del
pacifismo [...] mentalità codarda', 'tracce di elementi disgregatori, corrosivi, che agiscono in maniera quasi
capillare, per lenta penetrazione”. Goobles lo definì “il nostro nemico cinematografico numero uno”;
fascisti e i nazisti volevano bruciare tutte le copie, riuscendoci: quando l’Armata rossa entrò a Berlino, fra i
trofei, raccolse i frammenti de La grande illusion.
Jean Renoir nel 1938, nelle presentazione del film per il pubblico americano: "Per caso, un giorno in cui i
nazisti entrarono a Vienna, nelle sale distribuivano il mio film. Senza perdere un istante, la polizia lo proibì e
si interruppero immediatamente le proiezioni. È una storia che mi riempie d’orgoglio”.
Il mondo de La grande illusion è antieroico per definizione. I primi vedi antieroi sono i militari de La grande
illusion. I valori di patria, di sangue e suolo, sono soppiantati: si esaltano non solo i valori pacifisti, ma la
libera scelta. Influenzò Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick.
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The Star System di Paul McDonald
Il libro di McDonald si focalizza sul posto delle star nell’industria cinematografica, e il modo in cui l’industria
ha creato le condizione per la produzione e l’uso delle immagini delle star. Lo stardom hollywoodiano è
inteso come un business che produce identità commerciali.
Ricerca precedente
In precedenza, la ricerca aveva posto il focus sull’analisi semiotica delle star, quindi dei loro significati, valori
e le immagini che trasmettono al pubblico in quanto fenomeno di consumo.
I prrimi testi di riferimento furono Les Stars, 1957 di Edgar Morin (filosofo) e L’élite senza potere, 1963, di
Francesco Alberoni (sociologo). Siamo nel pieno del boom economico, e alcuni filosofi e sociologi si
interrogano su quali siano i significati delle star che sembrano avere così tanto potere sulle masse. È
significativo che la prima osservazione del fenomeno divistico non venisse da cinefili.
Secondo Edgar Morin, le star sono gli archetipi della cultura occidentale, ma riletti nell’epoca della cultura
di massa. Esse equivalgono alle figure divine della mitologia greca. “Ideali inimitabili e al tempo stesso
modelli inimitabili; la loro duplice natura è analoga alla duplice natura teologica dell’eroe-dio della religione
cristiana: divi e dive sono superuomini nel ruolo che impersonano ma umani nell’esistenza privata che
vivono”. Il bisogno trascendentale-religioso di identificarci con persone che sono al di sopra di noi viene
appagato dal pantheon di star.
Alberoni fa un discorso diverso. Il taglio della sua ricerca è sia quantitativo (con una base empirica) e
qualitativo. Egli si interroga soprattutto sui divi del cinema, ma le star sono già allora figure intermediarie
(ad esempio, i reali). “I divi possono diventare la fantasia della società, perché ad essi le vie del potere sono
sbarrate”. Ai divi si vuole bene, perché non avranno mai accesso al potere. Questa ipotesi fu smentita una
ventina di anni dopo quando la sfera delle star e della politica si sovrappongono. Ronald Reagan era un
attore di B movie prima di diventare presidente, così come Trump era una personalità televisiva. Classic
cinema-commercial television-reality-new media (non sorprenderebbe se uscissero dei politici dal mondo
degli influencer).
Stars, 1979 di Richard Dyer fu una prima elaborazione fatta da uno studioso di cinema, un’analisi teoricoanalitica dell’immagine divistica. Fino a questo momento, i film studies non si erano occupati in modo
sistematico di questo argomento (in Italia fu tradotto solo nel 2009). Dyers elabora una star theory,
identificando codici e convenzioni dell’immagine della star:
• a star is a constructed image, across a range of media and mediums
• stars are commodities that have been produced by institutions. Una star è un asset, una forma di
investimento e contenimento del rischio.
• stars represent and embody certain ideologies.
La star come immagine è l’acquisizione più fondamentale di Dyer. Precedentemente, le star si
consideravano come persone. “With stars, the terms involved are essentially images. By image here I do
not understand an exclusively visual sign, but rather a complex configuration of visual, verbal and aural
signs.” “The creation of celebrity through different parts of the media was a crucial part of gaining and
maintaining star status”. Il gossip svolge un ruolo fondamentale: “Gossip is one of the clearest examples of
how stars enter into popular culture and everyday life (as image not as persona). Rumors cannot be simply
dismissed as falsity, rumours can come to define something of the truth of a star’s image”.
Richard Dyers’s star theory is the idea that icons and celebrities are constructed by institutions for financial
gain and are constructed to target a specific audience of group of people.
1. Stardom as a system
Le star svolgono il ruolo di immagine, forza lavoro e capitale: il loro contributo all’industria cinematografica
avviene sotto forma di significati, lavoro e soldi.
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Le star come immagini
Richard Dyer definisce l’immagine di una star come una configurazione complessa di segni visivi, verbali e
aurei. Questa configurazione riguarda lo stardom in generale, ma anche un’identità particolare. Si manifesta
in tutti i tipi di testi mediatici, non solo nei film, ad esempio le forme di pubblicità e promozione, le
biografie e le interviste. L’identità di una star dipende anche dai ruoli ricorrenti che ricopre e dal tipo di
performance proposta per incarnare quel ruolo, oltre che il genere in cui la star appare principalmente.
Inoltre, il gossip svolge un ruolo importante: anche se una storia è smentita, lascia un effetto residuale che
influenza l’immagine della star.
In termini semiotici, le immagini delle star sono il prodotto di una significazione. Esse sono identità
mediate, costruzioni testuali, una collezione di immagini che rappresentano la persona. Il pubblico
comprende e crea queste immagini in base al proprio bagaglio culturale e simbolico. Il significato di
un’immagine si produce nel momento in cui avviene l’interazione fra gli individui e i testi della star, che
saranno interpretati in molti modi diversi.
Tuttavia, il range delle interpretazioni è necessariamente limitato. I testi delle star conferiscono l’immagine
di un individuo contemporaneamente ordinario e straordinario. Le star sono individui tipici, ma anche
eccezionali, in funzione della loro ricchezza, del loro potere o della loro bellezza.
La popolarità di una star è storicamente determinata. Le star sono oggetto del cambiamento dei gusti del
pubblico, e in poco tempo perdono il loro appeal. Anche l’immagine delle star che sembrano trascendere
le mode sarà comunque trasformata. La Marylin Monroe degli anni ’50 non è la stessa di oggi.
Le star come forza lavoro
L’industria cinematografica americana è inserita in un modello di economia industriale capitalista, sin da
quando nei primi anni dall’invenzione del cinema, i film divennero dei prodotti commerciabili. Tuttavia, la
storia del cinema ha visto la trasformazione di diversi sistemi produttivi strutturalmente diversi,
accompagnati da una riorganizzazione dello star system.
Janet Staiger ritiene che i pattern di organizzazione della forza lavoro siano centrali per identificare le
transizioni nei meccanismi di produzione. Hollywood prevedeva, sin dall’inizio, un sistema di organizzato su
principi strutturali della specializzazione e del potere gerarchico. La produzione è orizzontalmente divisa in
funzioni separate, secondo il modello fordiano di produzione di massa, e un rigido sistema gerarchico
prevede che il potere decisionale sia concentrato nelle figure manageriali.
Le star rientrano in questa organizzazione. Essi sono specialisti della performance, e le loro mansioni sono
imparare le battute, fare delle prove, girare le scene, e contribuire alla distribuzione del film con interviste,
apparizioni in televisione ecc.
Rispetto agli attori che non sono star, le star hanno uno status gerarchico più alto. Le star sono una classe
privilegiata all’interno del settore dei performer.
Le star come capitale
Lo status delle star deriva dal fatto che esse non sono solo manodopera, ma sono una forma di
investimento. In un sistema capitalistico, i profitti sono massimizzati con una combinazione di forza lavoro,
tecnologia e asset. Le star sono anche degli asset in quanto forniscono una garanzia rispetto alle entrate,
essendo un efficacissimo strumento di marketing. Non a caso, il salario di una star è una delle parti più
consistenti del budget di qualsiasi film.
Barry King nota che nell’industria contemporanea, le star guadagnano dalla vendita della loro immagine.
Da quando esiste lo star system, i film diventarono connotati dalla differenziazione delle star. Cathy Klaprat
argomenta che la differenziazione delle star è in grado di stabilizzare la domanda di film, permettendo ai
distributori non solo di stabilizzare il prezzi dei film, ma anche di alzarli per certi prodotti. Tuttavia, va notato
che raramente le star hanno mantenuto stabilmente il successo al box office: le star possono solo
potenzialmente manipolare il mercato in questo modo.
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Varie star individuali sembrano condividere delle caratteristiche di appartenenza ad un “tipo”, ad esempio il
“giovane maschio ribelle” è rappresentato da Marlon Brando e James Dean, e più tardi anche da Sean
Penn. Tuttavia, Hollywood ha sempre evitato la classificazione delle star in “tipi”, poiché una star che
appare come un individuo è molto più fruttuosa. Da un punto di vista economico, le star sono dei
“monopoli di personalità”, in quanto l’unico fornitore della loro personalità sul mercato.
La star come individuo e la star come immagini sono due entità separate, così come la star come lavoratore
e la star come capitale. I contratti coprono infatti due entità legali: la persona privata e l’immagine. I
contratti sono basati su condizioni di esclusività: la star vende un’identità esclusiva, e i contratti prevedono
che tale identità rimanga tale, salvo danneggiare il datore di lavoro in modi che non possono essere
compensati. I contratti definiscono il diritto e le modalità di sfruttamento dell’immagine della star, non solo
nel film ma anche in altri media destinati ad usi commerciali e promozionali. Il contratto descrive la
proprietà e il controllo dell’immagine o porti dell’immagine. L’intrattenitore stesso è il prodotto, ma è allo
stesso tempo separabile dal prodotto. Il rapporto fra personalità e immagine è motivo di conflitto legale
all’interno dello star system.
2. Making the system
Esiste un aneddoto al quale è associata la nascita dello studio system. Nel cinema delle origini, le
compagnie della MPPC non rilasciavano i nomi degli attori per evitare che chiedessero salari più alti. Carl
Laemmle, proprietario della Independent Motion Picture Corporation (poi Universal) convince Florence
Lawrence, “The Biograph Girl”, a lavorare per lui. L’evento fu pubblicizzato con un articolo in cui si smentiva
la notizia della morte dell’attrice, rilasciata da un giornale locale. Laemmle ne approfittò per definire
Lawrence la nuova “IMP Girl” e pubblicizzò i suoi progetti.
Star system nel teatro americano
In realtà, una forma di star system esisteva anche prima del cinema, nel teatro americano.
Il teatro nord americano era stato dominato da manager e attori inglesi fino alla metà dell’800. Nel 1752, il
manager inglese Hallam fondò a Williamsburg una compagnia stabile secondo il modello della stock
company system, in cui gli attori sono ingaggiati per una stagione e si specializzano in un “tipo” di ruolo.
Questo sistema non privilegiava l’importanza del singolo performer.
Pochi attori inglesi visitavano il Nord America per questioni di prestigio. Solo a partire dal 1810 l’America
diventò appetibile agli attori inglesi, e fra i primi a fare tournée ci furono George Cooke e Edmund Kean
(attore shakespeariano). Essi rappresentarono l’influenza dello star system inglese sul teatro americano.
Fra il 1820 e il 1850, nacquero varie compagnie indigene importanti. L’effetto delle star inglesi sul teatro
americano era visto come una minaccia alle stock company, in quanto gli attori regolari erano ridotti alla
condizione di servire il performer principale. Dal 1870, grazie soprattutto alla costruzione di molte tratte
ferroviarie, si passò alla combination company, in cui un attore è ingaggiato per uno specifico ruolo in un
solo spettacolo. Questo favorì la nascita di un vero star system, che servì da modello economico e
simbolico per le star del cinema.
Case study: Edwin Forrest, Bowery B’haus e la dichiarazione dello stardom americano
Edwin Forrest è considerato la prima star americana. Debuttò nel 1820 e il suo nome è associato al Bowery
Theatre in una zona malfamata di New York. Il suo stardom dipendeva dalla sua recitazione dinamica,
aggressiva e appassionata. Il suo stile venne associato ad uno “stile e tradizione americani”, in contrasto a
quello più contenuto del suo rivale inglese, William Macready. La rivalità violenta culminò nel Astor Place
riot, durante il quale un gruppo di Bowery B’hoys irruppero nel teatro durante una performance di
Macready, e la cavalleria sparò sulla folla uccidendo 22 persone. Forrest non era solo una star americana:
egli rappresentava il senso del deisderio dell’America di separarsi dal suo passato da colonia e produrre la
propria identità culturale.
Cinema delle origini - cinema senza star
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Il cinema delle origini non emulò il teatro. Il nascente business era dominato dall’hardware: le compagnie
che disponevano dei brevetti della tecnologia necessaria all’immagine in movimento dominava il mercato.
Nel “cinema delle attrazioni”, il movimento stesso era motivo di attrattiva, senza interesse per le forme
della narrazione. Le star del cinema delle attrazioni erano la cinepresa e il proiettore; gli attori non erano
neanche citati nei credits. Si nota tuttavia da subito un interesse per lo “spettacolo” umano: l’azione umana
tende a destare maggior interesse delle vedute. I primi personaggi riconoscibili nei primi film erano
performer che già godevano di una certa fama nel mondo dell’intrattenimento, spesso nel vaudeville, ad
esempio ballerini, contorsionisti ecc. Quando un pettegolezzo sulla ballerina Annabelle Moore fece
scandalo, il suoi film fu venduto al quadruplo del prezzo, anticipando un meccansimo tipico dello star
system. Tuttavia, qualsiasi tipo di fama ricevuta dai performer del vaudeville era pubblicità per il loro lavoro
al di fuori del cinema.
I tipi di performance proposti non erano orientati verso la costruzione di identità da star: la camera era
ancorata a una posizione fissa, e l’azione si svolgeva da lontano, rendendo gli individui spesso
irriconoscibili. La cornice della camera era equivalente all’arco di proscenio nel teatro. La manipolazione del
corpo umano era l’attrazione principale, e non c’era interesse in creare dei personaggi drammatici. Il cinema
delle attrazioni aveva come prerogativa di presentare corpi anonimi sullo schermo.
L’emergere dell’attore dei film
Lo sviluppo dello star system avviene attraverso tre passaggi:
1. l’organizzazione industriale del cinema basata sui sistemi di produzione di massa, e la specializzazione
del lavoro necessario a questo processo.
Dal 1903, si apre il vero business del cinema, e i distributori esigono nuovo materiale regolarmente. Nel
1904-1905 aprono moltissimi nickelodeon, e l’industria si muove verso un modello di produzione di
massa. Dal 1907 la produzione dei film si sposta a Hollywood. Si passa dal cameraman system al
director-led system, con il quale si va verso una divisione dettagliata delle mansioni.
Inizialmente, gli attori ingaggiati erano attori di teatro poco conosciuti, ingaggiati per pochi giorni con
schedule irregolari, per lavorare in più rispetto al loro contesto “legittimo”, il teatro. Essi rimanevano
anonimi sia per scelta dei produttori, che temevano il riconoscimento dei performer, sia per scelta degli
stessi attori, poiché lavorare nel cinema non era prestigioso.
L’aumento della produzione narrativa aumentò il lavoro regolare nei film, e le compagnie crearono
l’equivalente delle stock companies. Gli attori cominciarono ad essere attratti dal lavoro
cinematografico, attirati dai soldi, dall’esposizione e dalla riproducibilità delle performance. Il lavoro
cinematografico cominciò a grantire una certa stabilità. L’attore di cinema divenne una categoria
separata di lavoratore. Spesso, gli attori famosi di teatro non riscontravano lo stesso successo al cinema.
2. l’importanza crescente dei film narrativi, e i cambiamenti formali derivati da questa tendenza.
Nel 1907-1908, la produzione di film a soggetto narrativo aumentò esponenzialmente. Infatti, l’attrattiva
della tecnologia era limitata e l’interesse era di produrre film nuovi e che attraessero il pubblico. I film
narrativi erano anche più facili da produrre rispetto ai popolari film documentaristici, in quanto la
produzione poteva essere controllata e regolarizzata. L’output regolare di commedie e drammi espanse
il mercato per gli attori professionisti, che potevano lavorare regolarmente nel cinema.
Il cinema delle origini prediligeva una visuale monopuntuale, uno stile di performance frontale che
necessariamente lasciava una distanza dal pubblico, che impediva l’identificazione intima con l’attore in
grado di renderlo un elemento riconoscibile e determinante per la narrativa del film.
La produzione di film narrativi subì una radicale evoluzione fra il 1908 e il 1912. personaggi divennero
più centrali, e le didascalie ne riportavano i dialoghi. La camera fu avvicinata all’azione, tagliano l’azione
e rendendo i medium shots più frequenti (piani americani). Il continuity editing permise l’esplorazione di
convenzioni utili a porre enfasi sul volto dell’attore, ad esempio close-up, raccordi di sguardo, ecc. Lo
stile di recitazione diventò meno enfatico, e diventarono importanti i piccoli gesti e le espressioni
facciali. Le performance diventarono più intime, rivelando la complessità psicologica degli attori.
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Questa transiszione contribuì ad elevare la status del cinema in America. Il realismo nella recitazione era
associato ad una “qualità”, lontana dalle origini nel vaudeville.
3. la circolazione attiva di informazioni sulle identità degli attori
Il fattore determinante per la nascita di un vero star system era l’identificazione degli attori e la
promozione della loro immagine. Dal 1907, la stampa iniziò ad analizzare il lavoro degli attori di cinema,
creando consapevolezza nel pubblico delle caratteristiche di questo lavoro, aprendo un “discorso” su
questa nuova categoria professionale.
Prima dello star system, il focus del marketing era il brand della casa di produzione. Un film era un
“Vitograph” o un “Biograph”. Il brand era un indicatore di qualità, un segno di similarità agli altri film
dello studio e di differenza dai prodotti degli altri studios. Quando si iniziarono a pubblicare i nomi
degli attori, questi funzionarono in un modo simile. Nominare gli attori era funzionale all’individuazione
dei performer del cinema narrativo. Gli spettatori avevano un nome da associare ad un volto, e così
nacque l’immagine del performer. Il discorso sugli attori cinematografici servì a fornire una conoscenza
sovra-individuale al pubblico, mentre le personalità dei film introdussero la conoscenza individuale dei
singoli performer.
Kalem, Edison e la Pathé iniziarono a promuovere sistematicamente gli attori individuali, attraverso articoli e
pubblicità, ma anche locandine, slide da mostrare negli intermezzi fra i film e fan magazines. La Edison
incluse i nomi degli attori nei credits.
Fino al 1913, l’immagine dell’attore era limitata alla sua vita sullo schermo, e le identità delle personalità
erano legate ad un’esistenza professionale, a uno storico di apparizioni in film e recite. Solo dal 1913
iniziarono a circolare storie sulla vita off-screen dei performer. La vita dietro le quinte delle star contribuì a
creare una narrativa separata da quella della vita lavorativa. I performer avevano un’esistenza professionale
e privata.
Un argomento popolare nel discorso pubblico era la “moralità” della vita dell’attore di cinema, il quale
rispetto all’attore di teatro lavorava di giorno, regolarmente, viaggiando poco e in grado di mantenere una
vita domestica stabile. Un altro argomento riguardava lo stile di vita lussuoso delle star. L’immagine delle
ricche star andava a braccetto con i valori dell’economia dei costumi. Lo stardom e il consumismo
condividono l’elemento della fantasia e del desiderio di vivere di ciò che si vuole oltre ciò di cui si ha
bisogno, e l’esercizio della scelta diventa un atto di auto-espressione. Il lusso, la libertà e l’individualismo
sono promossi dalle star. Inoltre, molte star avevano origini umili, incoraggiando l’idea che chiunque può
vivere come una volta vivevano solo le classi più abbienti.
Attraverso il controllo dell’immagine della star, i produttori controllavano l’immagine dell’intera industria,
proteggendola dai critici che la accusavano di essere moralmente degradata. Tuttavia, dal 1921 l’immagine
positiva del cinema fu disturbata dalle storie dei divorzi di varie star, oltre che degli scandali di altro profilo
ad esempio il caso del comico Roscoe “Fatty” Arbuckle, accusato di aver ucciso un’attrice nella sua stanza
di hotel. Gli scandali entrarono a far parte del discorso sulle star: storie di trasgressione e di tradimento che
contribuirono alla narrativa drammatica dello stardom.
Case study: Mary Pickford
L’importanza di Mary Pickford nella storia industriale del cinema riguarda vari aspetti:
1. Pickford sperimentò il modo in cui una star può usare la sua popolarità per esigere aumenti sostanziosi
del salario
2. La sua carriera aprì la strada alla partecipazione delle star negli guadagni al box office
3. La formazione della United Artists mostrò i vantaggi per una star nel possedere una propria compagnia
indipendente.
4. I termini di distribuzione imposti dalla United Artists settarono un nuovo modello di business nei
rapporti fra distributori ed esercenti.
L’immagine di Mary Pickford rappresenta la diminutive child-woman, e fra i suoi soprannomi ci furono Little
Mary e Goldilocks. Tuttavia, la sua importanza nella storia industriale del cinema è legata alla sua spiccata
abilità di sfruttare la sua immagine a proprio vantaggio, svelando il valore delle star come capitale. Acquisì
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lo status di star alla Biograph e fu una delle prime attrici ad essere nominata. L’uscita dall’anonimato la rese
una personalità brandizzabile, che lei utilizzò per passare prima alla IMP, poi alla Majestic, per infine essere
richiamata alla Biograph con un contratto estremamente conveniente. Passò poi alla Famous Players
company di Zukor, il quale la pagò anche $4,000 a settimana. Nel 1916 fondò la sua compagnia personale,
della quale aveva diritto a metà dei profitti. Nel 1918, First National la ingaggiò garantendole metà degli
incassi.
Nel 1919, Mary Pickford fondò la United Artists insieme a Douglas Fairbanks, David Griffith e Charlie
Chaplin, una compagnia di distribuzione che permise ai proprietari di negoziare il rilascio dei loro film con i
loro termini, manipolandone le vendite e la pubblicità. La UA impose ai distributori una percentuale sul box
office. La UA fu venduta nel 1951 dopo decenni di crisi finanziaria, spesso attribuita al management delle
star. Tuttavia, l’esperienza dimostrò le possibilità delle star di sfruttare la propria immagine in modo
indipendente.
Oltre alle mosse di carriera, Mary Pickford manipolò la propria immagine evitandone l’infangamento
quando lei e suo marito, un altro attore, divorziarono anche per la sua relazione con Douglas Fairbanks.
Infatti, Pickford e Fairbanks furono “venduti” al pubblico come una “coppia ideale”.
Le fondamenta dello stardom hollywoodiano
Nei primi decenni del cinema si configurano più livelli di conoscenza delle star, e l’industria cinematografica
scopre molti degli strumenti di promozione e sfruttamento delle star che sono ancora in uso oggi. De
Cordova definisce una star come un attore (un manipolatore professionale di significati), una personalità del
cinema (la personalità estrapolata dai film), e una star (qualcuno la cui vita privata è distinta dall’immagine
sullo schermo). I tre livelli di identità non hanno confini netti e si confondono l’uno con l’altro. Le star
impararono velocemente a sfruttare le loro identità intesa come monopolio della propria personalità.
3. Controlling the system
Alla fine degli anni ’20, il mercato era dominato dai Big Five, e lo star system operava sotto la loro
direzione. Le Big Five erano corporazioni verticalmente integrate, in grado di generare profitti in tutte le fasi
della produzione. I Little Three, Universal, Columbia e United Artists, sfruttavano gli esercenti dei Big Five. Il
vero potere degli studios era nel controllo dell’esercizio, in cui andava il 94% degli investimenti. Le majors
sono meglio pensate come una serie di catene di sale diversificate. La proprietà delle sale variava in base
alle pratiche di movie going locali.
Solo il 25% di tutte le sale negli Stati Uniti appartenevano alle majors. Tuttavia, la gestione era
strategicamente programmata a massimizzare i profitti. Le majors noleggiavano i film delle altre per
arricchire la programmazione. Inoltre, le sale erano distribuite territorialmente, per cui a ogni major era
assegnato un territorio. In questo modo, la diffusione delle sale permetteva di controllare l’intero mercato
domestico.
Le majors facevano affari anche con esercenti indipendenti, che non potevano fare a meno delle majors per
riempire la programmazione. Le majors imponevano condizioni non competitive attraverso delle pratiche
commerciali:
1) block booking, vendere i film in pacchetti che includono sia titoli di punta sia film di serie B, di fatto
alzando il prezzo di questi ultimi;
2) blind-selling, il film erano venduti agli esercenti a scatola chiusa, fornendo solo una sommaria
descrizione
3) clearence, determinare il numero di giorni fra una proiezione e un’altra (nelle sale di proprietà delle
majors)
4) zoning, delineare determinate zone in cui le condizioni di clearence si applicano.
L’effetto principale di queste pratiche era la chiusura del mercato ai produttori indipendenti. Gli esercenti
indipendenti erano portati a riempire la programmazione con i film del block-booking, per ammortizzarne i
costi. In questo modo, il controllo dell’esercizio permise alle majors il beneficio di non avere competizione,
formando un potente oligopolio il cui potere era al culmine negli anni ’30 e ’40.
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Stars and studios
Gli studios istituirono dei meccanismi per riprodurre il fenomeno delle star in modo attivo, attraverso il
controllo legale e dell’immagine dell’attore. Gli studios proponevano contratti di sette anni, che
prevedevano dei termini per cui di fatto le star non potevano lavorare al di fuori dello studio system.
All’apice del loro potere, gli studio avevano uno “stabile” di performer a disposizione. Ogni studio aveva il
proprio dipartimento per scoprire e sviluppare nuovi talenti. I talent scout frequentavano i teatri alla ricerca
di star potenziali, alle quali era chiesto di leggere una scena e fare dei testi. I primi contratti concedevano
allo studio il diritto di non rinnovare il contratto dopo sei mesi. Una volta ingaggiato dallo studio, l’attore
subiva un apprendistato, fra cui lezioni di recitazione, dizione, a volte canto e danza, oltre a consulenze
estetiche.
La circolazione del nome del performer era fondamentale, e spesso era cambiato se non reputato adatto.
Allo stesso modo, l’aspetto fisico della star era alterato con il trucco e il hairstyle. Le nuove star erano
testate attraverso ruoli secondari o ruoli in B movies. Performer simili erano appaiati nella stessa produzione
per fare un confronto.
Le star procuravano profitti agli studi ma erano anche molto dispendiose. Con Mary Pickford e Charlie
Chaplin, diventò comune pretendere aumenti di salario. Lo stipendio delle star era simile ai manager di più
alto livello degli studio, ed era anche dieci volte quello degli altri attori.
Negli anni ’30, si vennero a formare dei sindacati per ottenere rappresentazione e ricognizione, e trattare
sulle condizioni di lavoro e gli stipendi. Già dal 1913 esisteva Actors Equity, che rappresentava gli attori di
teatro, ma non riuscì mai ad includere quelli del cinema. Nel 1927 nacque la Academy of Motion Picture
Arts and Sciences, che tuttavia rappresentava varie categorie di lavoratori del cinema. L’Academy
intervenne quando nel 1933 furono tagliati i salari come conseguenza della Grande Depressione, ed
ottenne che il taglio fosse proporzionale allo stipendio. Inoltre, quando Roosevelt passo il National
Industrial Recovery Act, l’Academy riuscì a tutelare le star contro le richieste avanzate dai manager per
approfittare dell’opportunità.
Tuttavia, l’Academy era un sindacato controllato dai produttori, non in grado di tutelare gli attori. Nel 1933
nacque il Screen Actors Guild, un’associazione piuttosto che un sindacato. Le campagne portate avanti
contro lo studio management erano spesso in supporto ad altri gruppi lavorativi, ma le dispute si
risolvevano quasi sempre a favore degli attori, anche tradendo gli altri sindacati per i propri interessi. Le star
erano comunque la quintessenza dell’individualismo, che non si conciliava bene con l’azione collettiva.
Vantavano privilegi che non erano garantiti agli altri attori. Le condizioni di negoziato non si basavano su
termini e condizioni collettivi, bensì sui bisogni specifici del monopolio personale della star.
Il caso MGM: “more stars then there are in heaven”
Negli anni ’30, MGM era lo studio di maggior successo in quanto a profitti. MGM era sinonimo di glamour,
se si diceva che avesse sotto contratto “più star di quante ce ne sono in paradiso”.
MGM apparteneva in realtà alla conglomerate Loew’s Inc. Marcus Leow aveva comprato all’inizio del secolo
una catena di sale molto lucrativa, e nel 1924 aveva acquistato Metro Pictures e Goldwyn Pictures. Irving
Thalberg, un giovane produttore, fu la figura di riferimento alla MGM, con il central producer system of
production ma anche il producer-unit system. La catena di sale della MGM era meno numerosa rispetto alle
altre major, per cui la strategia era di vendere i suoi film il più possibile alle altre sale. I film della MGM
erano spettacolari, ma soprattutto includevano le star più glamorous dell’epoca.
Fra le star più celebri, la MGM aveva Greta Garbo, Joan Crawford, Norma Shearer e Clark Gable. Marie
Dressler e Wallace Beery, più agée, rappresentavano le star “della porta accanto”. La MGM “allevò” una
serie di star bambini e adolescenti, fra cui Mickey Rooney e Judy Garland. Irving Thalberg spesso riuniva le
star in spettacoli da vetrina, ad esempio Jackie Cooper’s Christmas Party (1932), in cui molte star
interpretavano loro stesse.
La piccola catena di sale si rivelò un vantaggio durante gli anni della Grande Depressione. Infatti, poche
sale significava poco investimento e spese, quindi meno perdite. Tuttavia, con il boom degli anni ’40, la
MGM non incassò quanto le altre e perse il suo primato.
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Vendere le star
Tutti gli studio avevano un dipartimento dedicato alla pubblicità e al marketing, il cui ruolo era di costruire e
disseminare l’immagine della star attraverso poster, fotografie, giornali, riviste e radio. Ogni studio aveva un
direttore della pubblicità responsabile delle campagne di marketing. Durante la produzione di un film, un
pubblicista era assegnato per il singolo progetto, e il dipartimento preparava storie sulla produzione e sulle
star-la pubblicità non era un processo che avveniva a posteriori della creazione del film.
Esistevano anche agenti pubblicitari esterni, ai quali si rivolgevano gli attori poco famosi o le star che
volevano aver maggior controllo sulla loro immagine.
Per misurare il valore delle star, le compagnie di ricerca conducevano studi empirici per quantificarne la
popolarità. Alcuni metodi erano il calcolo della posta ricevuta, l’analisi delle statistiche del box office, o le
star ratings, interviste a cui erano sottoposti i movie-goers. Queste analisi indagavano i tipi di film di
maggior successo per la star, i dati demografici e variabili sociali del pubblico.
L’immagine di Bette Davis fu costruita e rimodellata durante la sua carriera in risposta a questo tipo di
analisi. Davis fu inizialmente presentata dalla Warner Bros. come una sex bomb bionda, un’”esperta
d’amore”. Tuttavia, il suo secondo film con lo stesso ruolo non ebbe successo al box office, e David fu data
“in prestito” alla RKO, dove la sua immagine fu trasformata in una vamp mangia-uomini. Il film ebbe
successo e la dimensione del nome di Davis sulla locandina aumentò di dimensione.
Tornata alla Warner Bros., Davis mantenne stabilmente il ruolo di vamp per molti film. Per evitare che il
pubblico perdesse interesse, la Warner sperimentò con il offcasting, la pratica di dare a una star un ruolo
che contraddice la sua immagine, per mantenere vivo l’interesse del pubblico ma anche per sottolineare la
bravura della star. Davis incarnò così il ruolo della “good woman”, che alterò al ruolo di vamp e le
guadagnò la fama di attrice poliedrica.
Lo strumento fondamentale per la pubblicità dei film era il press book, dato in dotazione agli esercenti delle
sale insieme ai film. Il press book forniva informazioni fondamentali per pubblicizzare il film, fra cui poster,
locandine, una lista del cast, una sinossi del film, le biografie delle star e delle loro foto. In questo modo, gli
esercenti avevano una versione pre-confezionata dell’immagine della star da utilizzare per il marketing.
Le star erano utilizzate anche attraverso altri mezzi di promozione, fra cui le premiere nelle grandi città. Le
star che cantavano e ballavano riscuotevano particolare successo, e a volte venivano proposte delle scene
tratte dai film che le star recitavano live. I road show prevedevano una successione di apparizioni nelle città
in cui il film era rilasciato.
Le star erano sfruttate anche per promuovere i prodotti di mercati secondari o ancillari. L’industria
cinematografica strinse accordi con l’industria della moda, dei cosmetici e di altri prodotti. Le star
rappresentavano la ricchezza, la libertà e l’individualismo tipici della società dei consumi, e Hollywood
divenne una vetrina per mode, mobili, accessori, cosmetici ecc. Nel 1930, Bernard Waldman creò il Modern
Merchandising Bureau, che produceva linee di moda basate sui vestiti indossati dalle star. Gli studios
inviavano a Waldman delle foto degli abiti prima dell’uscita del film, e Waldman li produceva e distribuiva,
anche attraverso la sua catena Cinema Fashions.
Hollywood individuò nelle donne la categoria primaria di consumatrici. Si pose enfasi nel coltivare lo stile
delle star femminili come Joan Crawford e Norma Shearer. Durante gli anni della Depressione, si diffusero
linee di abiti a basso costo che offrivano l’immagine dei film. In questo modo, la moda di Hollywood offriva
un’evasione dalle condizioni della vita vera.
Case Study: Shirley Temple e il business dell’infanzia
Per quattro anni fra il 1934 e il 1938, Shirley Temple era la star di punta del box office. Le fu anche conferito
un Oscar in miniatura creato apposta per lei. La sua forza stava nei suoi talenti precoci, nella sua
“adorabilità”, ma soprattutto nell’appeal che esercitava sia sui bambini che sugli adulti. L’immagine
dell’infanzia a lei associata diede via ad un enorme mercato di merchandising, soprattutto di bambole con
la sua immagine, che costituì la principale fonde di guadagno per l’attrice.
Mentre lavorava per la Educational Films, specializzata in cortometraggi comici, Temple fu “prestata” alla
Paramount e si affacciò al mondo delle major. La Fox Film le fece dei provini per mettere alla prova le sue
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doti canore e di danza, per poi proporle un contratto di sette anni, quando Temple aveva sei anni. La Fox
trasformò Temple in una child star. Entro un anno, il successo di Temple portò il suo salario a $4000 a
settimana.
I ruoli di Temple drammatizzavano sia le ansie dell’infanzia sia le fantasie d’evasione verso l’infanzia. Temple
era sempre un’orfanella, o la figlia di genitori trascuranti: c’era sempre un elemento strappalacrime
associato spesso a una storia di povertà. Temple evocava negli adulti amabilità. I drammi familiari arrivavano
a tutti, e propagandavano un’idea di famiglia idealizzata, come un’unità accudente. Gli adulti non volevano
solo una figlia come lei: volevano essere lei, avere qualcuno che si prendesse cura di loro, ricevere le
attenzioni, essere ascoltati.
Charles Eckert argomenta che i film di Temple sottolineavano il valore della beneficienza in contrasto con il
welfare, la bellezza del dare piuttosto che ricevere. Questa idea si adattava alla situazione della Grande
Depressione: Temple proponeva una soluzione naturale ai problemi del mondo, la forza trasformativa
dell’amore.
Graham Green pubblicò un articolo controverso in cui sottolineava i connotati sessuali della figura di
Temple. Temple gestiva in modo autorevole le figure adulte; spesso incarnava il ruolo della piccola moglie,
il tutto vestita in gonne corte. L’articolo fu molto controverso ma portò alla luce dei connotati di Temple che
erano implicitamente sempre presenti.
Il suo potere al box office cominciò a vacillare da quando compì 12 anni. Passò a Selznick International, che
non fece sforzi per rivitalizzare la sua immagine. Fece pochi film associati all’infanzia e si ritirò dal cinema a
22 anni.
Grazie a Temple, Fox riuscì a creare una chiara e diretta visione dell’infanzia che fosse markettizzabile in
molti film.
Contratti e controllo della star image
La libertà professionale delle star era limitata da termini contrattuali molto rigidi. Il rapporto professionale
fra la star e lo studio privilegiava sempre gli interessi dello studio. Gli studios avevano un controllo
pressoché totale sull’immagine, i ruoli e lo stipendio delle star, e i prestiti delle star ad altre major; le star
erano vincolate con termini di esclusività. Il controllo degli studios era tale che spesso neanche lo stardom
poteva contrastarlo. Tuttavia, la storia di Hollywood ha visto una serie di contrasti traformatisi in cause legali
fra star e studio che gradualmente cambiarono le condizioni di lavoro per le star.
Le star erano ingaggiate con contratti di massimo sette anni. Gli attori non avevano alcuni diritto di
interrompere il contratto. Lo studio management controllava il casting, aveva il diritto di dare ruoli
attraverso il typecasting (assegnare ad un attore ruoli simili in modo da creare un’immagine coerente sullo
schermo) e di prestare la star ad altri studios, guadagnando una somma per il prestito. Le star che avessero
dissentito sarebbero state sottoposte a una sospensione senza paga, che sarebbe stata poi recuperata
allungando i termini del contratto per la lunghezza della sospensione. Le star erano anche punite attraverso
il prestito a produzioni di improbabile successo.
I termini contrattuali si estendevano alla vita privata, una sorta di “assicurazione sull’immagine”. I contratti
includevano delle clausole sulla “moralità”, e la vita privata delle star era sotto un attento scrutinio da parte
degli studios.
I contratti avevano dei caratteri comuni ma non erano uniformi: ogni star negoziava dei termini individuali.
Le star che erano già popolari prima dell’ingresso in uno studio erano solitamente più potenti.
Case Study: Davis vs. Warner
Il caso di Bette Davis è uno dei casi più famosi di tentativi da parte delle star di contestare le condizioni
restrittive dei contratti. Quando la Warner rifiutò le sue richieste, Davis si rifiutò di partecipare al film che le
era assegnato e partì per l’Inghilterra. La Warner denunciò Davis per violazione del contratto, e la causa fu
portata avanti in un tribunale inglese. Davis descrisse il contratto come “una forma di schiavitù”. La stampa
britannica le offrì poco sostegno, ritraendola come strapagata e ingrata, e l’avvocato della Warner la derise.
Vinse la Warner e Davis fu costretta a lavorare fino alla fine dell’estensione del suo contratto.
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La pratica di estendere i contratti finì quando nel 1944 Olivia de Havilland vinse una causa contro Warner
Bros. Questo caso mise in discussione l’intero sistema contrattuale.
Case Study: Cagney vs. Warner Bros.
L’intera carriera di James Cagney fu connotata da contrasti con con Warner Bros. Cagney fu typecast come
gangster e dopo una serie di pellicole Cagney provò a rinegoziare i termini del suo contratto per avere ruoli
più vari e un aumento di salario. La Warner accettò, ma Cagney si mostrava sempre insoddisfatto poiché
voleva una percentuale sui profitti dei film che incassavano bene. Cagney se ne andò dalla Warner e ritornò
con termini più favorevoli, potere decisionale sulle trame dei film e il 10% dell’incasso. La Warner sfruttò
questi eventi in modo ironico nelle pubblicità dei film: “the movies’ prodigal son-of-a-gun returns!” e “All is
forgiven”. Cagney lasciò la Warner di nuovo, ma come risultato delle condizioni più favorevoli per rendersi
indipendenti da parte degli attori. Cagney e suo fratello fondarono una casa di produzione sussidiaria a
United Artists, che non riuscìì a produrre molti film e Cagney ritornò alla Warner con termini di non
esclusività e più potere decisionale.
4. Rethinking the system
Alla fine degli anni ’40, una serie di condizioni all’interno dell’industria cinematografica, e nella società
americana in generale, portarono allo smantellamento dell’integrazione verticale dello studio system. Dagli
anni ’50, gli studios divennero principalmente dei distributori. La televisione fornì nuove opportunità di
diversificazione. Negli anni ’60, le majors furono acquistate da corporazioni più grandi, andando a formare
una più ampia struttura conglomerate, e Hollywood si posizionò in un orizzonte più ampio di entertainment.
Il ruolo delle star durante la transizione verso la conglomerate Hollywood cambiò radicalmente.
Riorganizzazione di Hollywood
Il controllo oligopolistico del mercato interno portò gli esercenti e i produttori indipendenti ad esigere la
fine delle pratiche non competitive che mantenevano il potere agli studios. Le procedure antitrust iniziarono
nel 1938, ma le cause ebbero i loro effetti solo dopo la Seconda guerra mondiale. Nel 1946 furono resi
illegali il block-booking e il clearance, e nel 1948 la Paramount fu costretta a scindere il circuito delle sale
dalla produzione e distribuzione. Il caso ebbe un effetto su tutta l’industria, e entro il 1950 tutte le majors
dovettero vendere le loro sale.
Parallelamente a questo processo, una serie di fattori sociali e culturali portarono al declino della
frequentazione delle sale, che da attività regolare diventò un’occasione speciale. La popolarità della
televisione rifletteva la sua efficacia come mezzo di intrattenimento mainstream. L’aumento degli stipendi
della prosperosa economia degli anni ’50 portò gli americani a prediligere altri passatempo. Inoltre, le zone
residenziali si spostarono fuori città, lontano dalle sale principali.
L’industria cinematografica fu costretta ad adattarsi alle nuove condizioni strutturali. Nonostante il crollo del
sistema verticale integrato, gli studios mantennero il loro potere. Il business fu ri-orientato verso la
distribuzione: gli studios divennero produttori delle case indipendenti, che venivano finanziati dalle stesse
case, che in questo modo di fatto continuavano a controllare la produzione.
Il numero di film prodotti ogni anno diminuì in modo significativo. Le garanzie del block-booking e la
perdita delle sale richiedeva che gli studios vendessero i loro film individualmente agli esercenti. Hollywood
riorganizzò la produzione intorno a progetti individuale, adottando il package-unit system of production.
Piuttosto che limitare la produzione di un film alle risorse di una sola società, l’intera industria fu messa a
disposizione. Un produttore organizzava il progetto di un film attingendo da tutta l’industria. L’industria si riorganizzò intorno ai progetti piuttosto che alle case di produzione. Ogni unit reperiva delle risorse umane e
produttive ad hoc per ogni film. I l package-unit system significava un cambiamento radicale nello status
delle star.
Rielaborazione del sistema
Le star diventarono dei lavoratori freelance, ingaggiati per brevi periodi di tempo in progetti separati. Il
packaging di ogni progetto prevedeva di portare insieme un autore e la sua sceneggiatura, una o due star,
e un regista. La creazione dei package diede più potere alla figura degli agenti nell’industria. Gli agenti
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iniziarono a sostituire i produttori esecutivi nella pianificazione della produzione. Il successo al box office
permise agli agenti delle star di negoziare paghe più alte per i loro servizi. La divisione gerarchica fra star e
altri attori si fece sempre più pronunciata.
Senza il block-booking, ogni film doveva essere venduto individualmente con una campagna di marketing
separata. I produttori alzarono la qualità dei film, e la presenza di star di alto profilo era indice di qualità. I
distributori trasformarono l’immagine della star nell’immagine del film.
Senza le restrizioni del sistema contrattuale, le star iniziarono ad esplorare i vantaggi creativi ed economici
del lavoro indipendente. Alcune star che fondarono le loro società furono Burt Lancaster, Kirk Douglas, Tony
Curtis, Dean Martin, Marlon Brando. Secondo alcuni, le star e i registi divennero più interessati agli affari
piuttosto che al filmmaking. La produzione indipendente permise alle star di ottenere vantaggi in termini di
tasse, in quanto i guadagni avvenivano attraverso i capitali piuttosto che salari personali.
La televisione si rivelò un’area di crescita per gli studios. Gli studios si trasformarono in creatori di progammi
per la televisione. Inoltre, i film potevano essere venduti alle televisioni, che li mandavano in onda in
seconda visione. Quando la RKO fallì, i suoi asset furono spartiti e venduti all’industria televisiva. Le library
dei film pre-1948 furono venduti alle televisioni, un mercato secondario che si rivelò un’efficace vetrina per
le star.
I film in televisione aprirono a molti problemi riguardo al controllo legale delle immagini delle star. Due
dispute famose riguardarono gli attori Gene Autry e Roy Rogers. I due denunciarono la Republic che aveva
venduto alle televisioni i loro film. L’argomentazione riguardava il ruolo della televisione come mezzo che
sfruttava commercialmente le immagini delle star, che tuttavia erano sempre più controllate in modo
indipendente dalle stesse star o dai loro agenti. Inoltre, Autry lamentò che il taglio dei suoi film per la
televisione avrebbe manomesso la sua immagine. Entrambi gli attori persero la causa.
L’argomento dei pagamenti residuali divenne un tema caldo per il Screen Actors Guild: gli attori
pretendevano che lo sfruttamento della loro immagine in televisione fosse pagato. Il SAG indisse uno
sciopero, chiedendo che i pagamenti residuali fossero garantiti almeno per i film post 1948. La stampa non
aiutò le star, che volevano “essere pagate due volte per un lavoro”. Inoltre, molte star esperirono un
conflitto di interessi, essendo anche produttori indipendenti. I produttori accettarono di pagare i residuali
per i film post 1960.
Case study: Music Corporation of America: lo star-spangled octopus
Durante gli anni di smantellamento dello studio system, l’agenzia più potente a hollywood era la MCA. I
suoi clienti star permisero all’agenzia di reagire ai cambiamenti di Hollywood e di ritagliarsi uno spazio
potente nell’industria. La MCA si trasferì a Hollywood nel 1936, e il giovane agente Lew Wassermanla portò
al successo. La MCA ebbe un ruolo attivo nell’imporre trend che diventarono lo standard dopo la
riorganizzazione degli studios:
1. ruolo di packager, utilizzando la sua lista impressionante di star per sviluppare grosse produzioni. Film
come The Young Lions (1958) e Some Like It Hot (1959) erano package della MCA.
2. l’esplorazione di nuovi deal convenienti per le star, ad esempio il caso di James Stewart. L’appeal di
James Stewart non era molto alto; nonostante ciò, Wasserman riuscì ad ottenergli un accordo molto
conveniente con la Universal. Infatti, alla Universal erano concessi i diritti dello spettacolo di Stewart
Harvey, e in cambio a Stewart sarebbe stato concesso il ruolo principale in un film. L’accordo finì
inaspettatamente per beneficiare economicamente Harvey.
3. lo sfruttamento delle potenzialità della televisione. La MCA iniziò a produrre e distribuire programmi
per la TV attraverso la Revue Productions. Nel 1939 il SAG vietò alle agenzia di produrre film, poiché si
sarebbe verificato un conflitto di interessi fra la difesa degli interessi dei clienti e le necessità produttive.
Tuttavia, la SAG diede in seguito dei permessi alla MCA, probabilmente grazie all’intervento di Ronald
Reagan che era presidente della SAG e cliente della MCA.
La MCA estese la sua influenca diventando di fatto un multimedia conglomerate, quando acquistò la library
dei film Paramount pre-1948, la Decca Records e la Universal Pictures. Nel 1962, il Dipartimento di Giustizia
ordinò alla MCA di cessare l’attività di agenzia.
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Conglomeration e diversificazione nel business dell’entertainment
Gli anni ’60 rappresentarono un altro periodo di grande trasformazione dell’assetto industriale. La proprietà
delle compagnie di produzione/distribuzione passò a dei gruppi più grandi, dando vita alla conglomerate
Hollywood.
Hollywood si ricostruì attraverso i processi di conglomeration e diversificazione. La conglomeration era il
risultato dell’acquisto degli studios da parte da gruppi al di fuori dell’industria cinematografica. In
particolare:
• Paramount fu acquistata nel 1966 dalla Gulf and Western, esperta di finanza, la quale si specializzò in
entertainment ed editoria. Nel 1994, la Gulf and Western fu comprata dalla Viacom, Inc.
• Warner Bros. fu venduta nel 1967 al distributore televisivo canadese Seven Arts, e l’anno successivo fu
comprata dalla Kinney National Services, che cambiò il nome in Warner Communications, Inc. e si
specializzò in entertainment. Nel 1990, Warner communications fu venduta a Time Inc, attualmente il
conglomerate dell’entertainment più potente al mondo.
• MCA fu venduta nel 1990 alla Matsushita Electrical Industrial Company, e nel 1995 a una compagnia di
bevande canadese, e cambiò nome in Universal Studios, Inc.
• La Columbia fu venduta alla Coca-Cola nel 1982, che nel 1989 la vendette alla Sony Corporation, che
acquistò anche CBS Records.
• La MGM si unì alla United Artists nel 1981, ma l’assenza del supporto del conglomerate l’ha resa la major
meno redditizia.
• Twentieth Century Fox fu venduta nel 1985 alla News Corporation.
Una tendenza fondamentale che accompagnò la conglomeration fu la diversificazione dei business
conglomerati. Gli studi di Hollywood furono combinati con altri settori. La Walt Disney Company seguì
questa via senza passare per la conglomeration: divenne potente negli anni ’50 grazie alla diversificazione in
produzione televisiva, film, e parchi a tema. Nel 1996, Disney acquistò ABC Newtork, creando la seconda
compagnia di entertainment al mondo.
L’industria cinematografica americana, alla fine degli anni ’90, era inseparabile dal più vasto business
dell’intrattenimento. Gli studiosi chiamano questa tendenza “integrazione orizzontale”.
High concept, i film-evento e la markettizzabilità delle star
Hollywood continua a basarsi sul package-unit system of production. Ogni film è pubblicizzato
individualmente. Dal 1990 al 1999, il costo di produzione e di marketing dei film è raddoppiato. L’industria
contemporanea ha sviluppato dei modi per capitalizzare sulle proprietà dei film. Le ricerche di mercato
hanno analizzato il modo in cui un film promuove altro merchandise, ad esempio colonne sonore, magliette
e cibo. Per sfruttare al massimo un film, esso deve essere basato su un high concept, un’idea semplice ma
ampiamente sfruttabile in una serie di mercati ancillari. Batman (1989) è un buon esempio. Il high concept
deve essere un’idea diretta e poco complicata. Una soluzione semplice è l’impiego di una star come high
concept. Top Gun (1986) rappresenta un film in cui l’immagine di Tom Cruise si rivelò fondamentale per
vendere il film e attirare product placements.
Dagli anni ’80, il termine high concept fu sostituito negli anni ’80 da event movie, che dà l’immagine di un
film che è anche un evento globale. L’immagine della star e la premessa sono strettamente connessi per
creare un evento di marketing.
Tomas Schatz argomenta che nella nuova Hollywood, la riorganizzazione strutturale dell’industria ebbe un
impatto significativo sulla narrativa classica. I film inizarono ad essere scritti come un ibrido di diverse
convenzioni, includendo aspetti tipici di vari generi. Ad esempio, Star Wars è considerato un misto di
science fiction, western, war film e adventure movie. In questo modo, un film massimizza il suo pubblico
potenziale. Alcuni film sono appositamente scritti per lasciar spazio a diverse interpretazioni o livelli di
lettura.
L’integrazione orizzontale portò in luce il potere della “sinergia”, la forza della vendita di un singolo
concetto in più mercati in modo da sincronizzare gli sforzi promozionali. Un esempio è la promozione di
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Men in Black (1997), che sfruttava l’immagine di Will Smith attraverso il singolo del cantante e la sua
presenza nel film. Un stile uniforme è necessario per il marketing del high concept.
Tuttavia, la storia mostra che la sinergia non funziona sempre: il film successivo con Will Smith sfruttò la
stessa strategia, ma non ebbe particolare successo. La sinergia sembra funzionare molto bene nel cinema
per bambini, in particolare i cartoni animati della Disney permettono ampie opportunità di marketing.
Case study: Sony, Schwarzenegger e The Last Action Hero
L’episodio di The Last Action Hero, film della Columbia Pictures la cui riuscita puntava sull’immagine di
Arnold Schwarzenegger, mise in discussione il potere e il valore delle star, in quanto il film fallì miseramente
al box office. La Sony, proprietaria di Columbia Pictures, puntava alla produzione cinematografica per
vendere il Betamax, sistema di home video rivale del più popolare VHS. Il film fu sviluppato combinando i
vari aspetti dell’immagine di Schwarzenegger: l’action hero, la commedia e l’atteggiamento “paterno”.
Inoltre, il film aveva una forse componente autoriflessiva. Sony puntava a guadagnarsi varie audience
attraverso lo Schwarzenegger concept, ma il tentativo fallì. Le ricerche di mercato furono fatte troppo
presto; il film provava a essere “troppe cose per troppi pubblici diversi”, e, soprattutto, la Universal (casa
rivale) aveva fatto uscire Jurassic Park (1993) una settimana prima.
Star vehicle e generi
Le star possono essere “veicoli” per i generi. Lo star vehicle combina due mezzi di product differentiation: il
monopolio della personalità della star, e delle convenzioni che stabiliscono delle aspettative generiche. Un
veicolo può procurare alla star una serie di “topos” ai quali la star è associata: un tipo di personaggio, una
situazione o contesto, opportunità per la star di fare la “loro cosa” o risaltarne l’estetica. Lo star vehicle dà
al pubblico una continuità nell’iconografia, nello stile visivo e nella struttura, che crea nel pubblico
l’associazione fra star vehicle e genere. Meg Ryan lavora nei film romantici; Jim Carrey e Robin Williams
nella character-based comedy.
I generi non sono delle categorie chiuse, così come non lo sono le immagini delle star, che possono essere
usate flessibilmente per attraversare i generi e combinare influenze da generi diversi.
Agenzie e accordi
Hollywood ha tre agenzie principali: la storica William Morris Agency, la Creative Artists Agency fondata nel
1975 da cinque agenti della WMA, e la International Creative Management. Esse costituiscono la “Big
Three” di Hollywood. La CAA mantiene il record per numero di star, grazie alle quali vince i negoziati più
convenienti. La CAA fece il packaging di Jurassic Park, che si avviò con l’ingresso nell’agenzia di Spielberg.
È argomentabile che le grandi agenzie servono gli interessi principalmente delle grandi star, trascurando gli
altri attori. Per questo, molti attori preferiscono avere dei manager personali per ricevere più attenzione
individuale.
Si tende a pensare che gli agenti abbiano tutto il potere a Hollywood. In realtà, le agenzie, i clienti e gli
studios lavorano in uno scenario di dipendenza reciproca. Le agenzie devono bilanciare gli interessi di tutte
le parti. Il potere delle agenzie sulle star è limitata, per che le star non sono legate da contratti di
esclusività. Il valore delle agenzie sta nell’arte di trovare un accordo. Spesso, si stipulano delle clausole
contrattuali che prevedono per la star una percentuale dei profitti. La percentuale si può applicare agli
introiti lordi (più conveniente) o a i profitti netti (calcolati sulla base delle spese, più soggetti a variabilità).
Star e box office
Dall’inizio della conglomerate Hollywood, e in modo più palese dopo il fallimento di alcuni film star-driven
(ad esempio Fight Club, 1999, e The Story of Us, 1999), si è messo in discussione il vero valore delle star al
box office e per l’industria in generale. Il gusto del pubblico per le star è diventato più effimero: un attore
può raggiungere lo stardom dopo un solo film di successo ed essere dimenticato in poco tempo. Un
esempio degno di nota è Leonardo DiCaprio. Prima di Titanic (1998), DiCaprio aveva avuto successo solo
con Romeo + Juliet (1996), dopo il quale fece una serie di film di basso profitto. È difficile pensare che il
successo di Titanic sia dovuto al suo star status. I film immediatamente dopo Titanic ebbero solo risultati
moderati. Anche la carriera di Bruce Willis subì molte fluttuazioni. DiCaprio e Bruce Willis è un esempio di
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come le star siano un elemento instabile nel modo di produzione. Guardando agli anni ’90, vi furono molti
film di successo senza star, e molti film con star che non ebbero particolare successo.
Lo stardom degli anni ’90 è gendered e racial: l’unica in grado di competere con gli uomini è Julia Roberts,
e l’unico afroamericano è Will Smith.
Potere delle star
Va riconosciuto che anche se le lo smantellamento dello studio system aveva dato nuove libertà alle star, il
sistema verticale integrato aveva anche garantito che fossero protette in vari modi. L’abbondanza di film
prodotti significava che ci fosse una costante domanda. In alcuni casi, le star che temevano il lavoro
freelance rimanevano con gli studios. Invece, oggi lo status di una star riflette il successo del suo ultimo
paio di film. In un sistema così configurato, è possibile vedere gli esempi della rapida ascesa e declino di
star. Le star sono potenzialmente di valore per attirare pubblico, ma il loro crescente costo per i produttori e
distributori solleva il dubbio su quanto siano effettivamente necessarie.
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