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LA CONCEZIONE OGGETTIVISTICA

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LA CONCEZIONE OGGETTIVISTICA
È possibile un insegnamento della filosofia? E come? Il dubbio sulla possibilità appare legiBmo già
anche soltanto per quella ragione per cui Socrate contestava a protagora il suo insegnamento della
virtù se filosofia e la complessiva saggezza con cui si aHua ed in cui si risolve la vita e questa
volgarmente espressa è sempre stata e sarà l'essenza della filosofia da chi mai potremmo prendere
lezione? L'incontro si crede spesso e qualche volta è più saggio del doHo nei diversi casi del vivere
umano. E i doB poi son tanL e di tanto diversa doHrina e tuB si credono e sono saggi.
Apprenderemo la saggezza dal vago vivere sognante del poeta o dal preciso misurare del
matemaLco? In faHo di saggezza ognuno dappertuHo con o senza mesLere come già in Atene a
deHa di Socrate in faHo di moralità civile sentesi in diriHo e in dovere di esprimere e far valere la
propria opinione. In faHo di saggezza: e quindi in quelle che sono le fondamentali quesLoni
filosofiche quando siano espresse in modo che tuB le intendano. Che ci sia o non ci sia Dio che le
cose siano conosciute o non verità bellezza bontà quali cose siano vere belle e buone; son
quesLoni dinanzi alle quali tuB prendono in praLca un aHeggiamento. E ciò per quanto legiBmo è
sicuro indizio della essenza universale della filosofia implica però ha ragione il dubbio che si possa
mai prendere lezione di qualche cosa di cui tuB sono aHori. Pure l'umano pensare ha sempre
prodoHo un qualcosa che si è deHo filosofia e l'umanità ha sempre espresso dal suo senso di egli
degli uomini che essa ha deB filosofi e che si sono adoperaL ad iniziare altri nei misteri di questo
pur comune sapere. Che tuHo ciò che si è deHo per il momento filosofia sia sempre stata saggezza
che siano staL saggi tuB coloro che a lor tempo filosofi furono deB e che veramente iniziazione a
saggezza si è sempre stata l'opera loro verso gli altri noi non diciamo ma è un faHo che c'è nella
filosofia che ci sono dei filosofi che c'è l'insegnamento di filosofia. È però un faHo tale che si dubita
della sua possibilità anche quando lo si riconosce reale. Questo dubbio sulla possibilità di un
faHoriale si esprime praLcamente con la incredulità al faHo stesso. E perciò molL non credono alla
filosofia ed ai filosofi e tantomeno quindi ad un insegnamento di filosofia. La prima infaB nello
sforzo di chiudere in un sapere parLcolare la conoscenza universale pare loro contraddiHoria ed
assurda i secondi appunto per questo sforzo di aHuare il contraddiHorio par che finiscano nelle
nuvole l'ulLmo infine pare un vano perditempo perché in verità non insegna nulla di determinato
di praLco di uLle. Ma se ha degli increduli che non si rendono punto ragione di quel mare magnum
di vere e non solo contraddizioni in cui sono per questa loro incredulità la maggior parte degli
uomini se ne rendano conto o no esaHo crede alla filosofia. Di qui loro rivolgersi direHamente o in
persona dei loro figliuoli alla ricerca di questa saggezza. E perciò come la filosofia conLnua a vivere
l'insegnamento di essa. Gli uomini tuHavia che desiderosi di tal saggezza ricercandola si rivolgono
ad altri non si rendono conto della contraddiHoria natura che essa in tal caso manifesta si tolgono
d'ogni imbarazzo andando mandando da coloro che di tal saggezza si dicono doHori. Ma
l'imbarazzo che non sente chi chiede deve senLre colui che deve dare. Non senLrlo e indizio che il
docente di filosofia e nella stessa aBtudine spirituale dell'ignaro che la chiede ad altri: aBtudine di
inconscia contraddizione spiegabile in quest'ulLmo come punto di partenza ma intollerabile nel
primo. Siamo dunque nel pieno Regno della contraddizione. ContraddiHoria la filosofia che è
sapere universale e determinato sapere contraddicendosi chi non crede alla filosofia perché nega
insieme ed afferma di cogliere ed aHuare lui proprio in quanto non credente alla filosofia la
universale saggezza contraddicendesi chi ha la filosofia crede ma chiede che gliela insegnino coloro
che la professano perché chieda ad altri e quindi suppone solo in essi quella complessiva saggezza
che complessiva non può essere in quanto posta in altri: esclude almeno quella sia pur minima
saggezza di chi chiede. Se il filosofo ha dunque a cui l'ignaro s'è rivolto deve senLre l'imbarazzo di
quanto gli si chiede non deve senLre altro che la contraddiHorietà della propria e dell'altrui
posizione dinanzi a tale richiesta. In questa coscienza si disLngue la posizione sua da quella del
credente e del non credente. E in questo appunto stata la sua aBtudine filosofica. Qual è invece
l'aBtudine spirituale del credente alla filosofia il quale chiede ad altri di esserne isLtuito? Quella di
credere che vi sia una filosofia che egli deve imparare come una matemaLca, una chimica, e cioè in
breve la credenza nell'esistenza di una oggeBva filosofia da altri saputa e da lui ignorata. In questa
credenza appunto il discituro, che non ne sa nulla e vuole impararla si presenta a colui che fa
professione di insegnarla e gli chiede che colmi questa sua lacuna. Ora che questa credenza in una
oggeBva filosofia sia fondamentalmente errata non è il caso di dimostrare ancora una volta tuHo
lo sviluppo della filosofia da Socrate in poi si può dire una conLnua dimostrazione di ciò. Ogni
modo noi presupponiamo ciò come dimostrato e in generale almeno a parole si conviene che una
filosofia schieHamente oggeBva e quindi astraHa non sarebbe filosofia. Eppure di solito
l'insegnamento della filosofia è concepito in modo che di questa si presuppone un'esistenza
oggeBva. Il maestro se veramente non facesse che ricercare rievocare e presentare al discepolo
quel che egli ha preso o ha creduto di apprendere da altri credendo così di colmarne la lacuna non
supererebbe lo stato d'animo del suo allievo e la lacuna rimarrebbe tale e quale. Egli dinanzi alla
richiesta non avrebbe quella coscienza della contraddiHoria posizione coscienza che abbiam deHo
cosLtuisce la sua aBtudine filosofica. Il più evidente indizio di tal concezione dell'insegnamento
della filosofia ed il principale fruHo della sua aHuazione sono i cosiddeB manuali, principii,
elemenL di filosofia. Tali libri mentre sono il fruHo dello sforzo che i docenL di filosofia hanno per
rendere conclusivo è pieno il loro insegnamento in realtà indicano assenso o almeno deficienza di
consapevolezza del vero imbarazzo filosofico e presenza di una beata tranquilla fede in un sapere
già conquistato. Si pensa infaB: c'è una filosofia in tali secoli e elaborata filosofia che non può non
esser faHa di determinate nozioni successivamente scoperte aHraverso contraddizioni ritorni lavori
d'ogni sorta. Prendiamo queste nozioni risultanL da tuHo il lavorio filosofico o solo da un
determinato indirizzo di pensiero così come fanno il fisico e il naturalista, per le loro scienze ed
avremo messo insieme per elemenL della filosofia. Prenderemo un servizio a questa e faremo il
bene della scuola dando all'insegnante il mezzo indispensabile per compiere il proprio ufficio. Con
tale premessa ciascuno ha sperato di poter fare meglio dell'altro perfezionando la qualità che
facevano la fortuna di un certo manuale togliendo i difeB notaL in un'altro. Ad oHenere ciò non si
riteneva necessario fare nuove indagini filosofiche come non occorre scoprire nuove verità fisiche
o matemaLche per esporre in un traHato quelle già scoperte: bisognava soltanto essere informato
delle indagini già compiute e Dei risultaL già oHenuL. Non è il caso di insistere nel dimostrare
ancora una volta che appunto per l'assenza di queste indagini originali tuHe queste filosofie
elementari dai lievi catechismi delle biblioteche per studenL ai gravi polpeHoni insipidi delle varie
case editrici sono come ben dice il genLle degli assurdi. Sono tuB libri morL che non dicono e non
possono dire proprio nulla e che servono soltanto ad essere per un tempo più o meno lungo lo
strumento per misurare la pazienza e lo spirito di sacrificio di giovani intelligenze. Giacché la
filosofia posta come oggeBvo sapere non può non ridursi ad un ammasso di nozioni disperate e
contraddiHorie ad un sapere che è sapere di nulla perché manca proprio del caraHere che lo rende
un qualche cosa: lo sforzo perché sia trovato. E perciò nel sapere filosofico non troviamo teoremi
né leggi né principii né definizioni da meHere insieme. Trasportare di peso i teoremi spinoziani
nella vostra oggeBva filosofia ed essi avranno perduto ogni valore che pure hanno insomma grado
come cosLtuLvi di quelli Insigne monumento che è l'eLca di spinoza. E proprio come voler vedere
per esempio il valore poeLco dell'inferno dantesco nella pura favola del viaggio soHerraneo tra
dannaL o tuHo il valore eroico. Bisogna persuadersi che filosofia non c'è punto senza il pensiero
che la scopre e proprio nell'aHo in cui lo scopre già che essa sta proprio in questo scoprire e non
solo nel pensiero scoperto. In tal senso il cosiddeHo storicismo è essenziale alla filosofia sia che
essa si disLngua dalla sua storia sia che invece si risolva in questa. Filosofare e pensare in aHo e
filosofia non è il pensato in quest'aHo ma è l'aHo in questo pensare.
LA CONCEZIONE SOGGETTIVISTICA
Se adunque una oggeBva verità filosofica non c'è se quindi non c'è un determinato sistema di
cognizioni a costruire appunto con tali nozioni la filosofia che cosa offriremo a coloro che ci
chiedono di essere ammaestraL in filosofia? Se il filosofia è pensare in aHo per uscire da quel tale
imbarazzo che come docenL di filosofia dobbiamo senLre non dovremmo finire col negare ogni
specifico insegnamento di filosofia per la semplice ragione che filosofia insegna a chiunque e ogni
volta che pensi? Non dovremmo cioè rinnegare noi stessi come docenL di filosofia e meHerci a far
qualcosa d'altro? Io non credo che si debba come poi si mostrerà venir senz'altro a questa
conclusione. Ma non è neppure adeguata soluzione del problema il rifugiarsi in una concezione che
potremmo dire soggeBva dell'insegnamento della filosofia in contrapposto alla combaHuta
concezione oggeBva. Per tale concezione soggeBva il maestro di filosofia dice: io insegno quel che
io in aHo penso e perciò mentre salvo la natura concreta della filosofia non rinnego la specificità
filosofica del mio insegnamento. Contro tale concezione non ci fermeremo ad obieHare che nel
faHo molte volte l'unica differenza che si ha nell'aHuare questa invece della precedente concezione
sta solo nel ripetere oralmente anno per anno interamente o in parte quelle oggeBve nozioni in
cui si ripone la filosofia ripeterle oralmente invece di averle stampate una volta per sempre. Così in
fondo si finisce col fare forse in forma peggiore quel che fanno i manuali o i traHaL: si ha una
doHrina e la si insegna. E non ci fermeremo neppure ad osservare che anche quando l'insegnante
eviL ciò e cerchi Nell'aHo del suo insegnamento di far proprio della filosofia pur egli non potrà mai
essere sicuro che il suo lavoro abbia veramente valore filosofico per quanto grande e anche
fondata fiducia egli possa avere in sé stesso. Egli corre perciò pericolo di presentare come filosofia
ciò che non è. La filosofia sarà quel che sarà e avrà in sé tuHe le difficoltà di esistenza che si
vogliano ma c'è e nel riconoscerla si può dire che sono concordi anche quelli che si accaniscono nel
contraddirsi e magari vituperarsi a vicenda. Ma questa Concordia di riconoscimento sia quando il
lavoro che la tua passa alla storia. Della nostra presente filosofia non possiamo esser sicuri che
quello sforzo di pensiero in aHo che noi compiamo sia realmente tale ciò raggiunga nel pensiero
quel nuovo punto che ogni sforzo reale deve raggiungere. Se questo nuovo manca il Nostro sforzo
si fa a vuoto cioè è fiBzio e la nostra opera non ha valore filosofico. Su queste obiezioni non ci
fermeremo perché noi vogliamo ricercare fissare il conceHo di insegnamento della filosofia e si sa
che le azioni non valgono ed infirmare i conceB che l'essere non vale contro il dover essere.
Ammessa vera le sposta concezione i faB che mal la realizzassero la rinnegherebbe non
l'aHuerebbero. Ma il vero è che questa inadeguata realizzazione dipende proprio dalla falsità
intrinseca della concezione. Con questa infaB noi avremmo si superata l'astraHezza della filosofia
oggeBva ma ne avremo da altra parte perduto l'insegnamento. Per l'aHeggiamento oggeB o dello
spirito noi insegniamo ben si qualcosa ma che non è filosofia bensì cultura storica ovvero dogma
scienLfico o religioso ovvero qualcos'altro filosofia no perché manca lo sforzo della soggeBva
ricerca per l'aHeggiamento soggeBvo noi forse sì filosofia ed è filosofia per quel lavoro che
compiamo ma non insegniamo.
Infatti l'insegnare una disciplina, in quanto insegnare (cioè in quanto fare, sì, ma fare
determinato e specifico) importa entrambe le dualità fondamentali che ci si presentano
nella realtà: la dualità soggetto-soggetto in quanto puro insegnare; la dualità soggettioggetto in quanto insegnamento di una disciplina. Sopprimere la prima è senz'altro
sopprimere l'insegnamento in quanto specifica attività, e ridurre l'insegnare ad un
indeterminato fare, ammesso che il fare per sé, non importi questa dualità. O
l'insegnamento è qualche cosa (una certa determinata attività) e l'assoluta unicità del
soggetto non ce lo spiega, ma lo rinnega; o non è qualche cosa, e allora non dobbiamo
parlarne specificamente. Quando parliamo di insegnamento come tale, non possiamo
rinnegare le condizioni che proprio l'essenza dell'insegnare richiede. Perciò la unicità del
soggetto che culmina nell'insegnante, sarà forse un mezzo per spiegare la possibilità della
relazione tra i termini richiesti dall'insegnamento stesso; ma è un mezzo tale che sopprime
questi termini, e quindi non spiega, ma toglie la possibilità della relazione.
Né d'altra parte ad intendere l'insegnamento nella sua specificità, possiamo sopprimere
l'altra dualità soggetti-oggetto, riducendola alla prima. Questa riduzione potrà forse esser
valida per una razionale concezione della realtà nella sua essenza concreta; ma potremo
intendere l'insegnamento nel suo valore, solo quando distinguiamo dai soggetti, tra i quali
questa relazione si afferma, l'oggetto, col quale appunto essa si afferma: insegnare
importa la nozione insegnata, cioè un oggetto saputo come tale, una disciplina. Il primo dei
due rapporti richiede nella scuola la presenza del maestro come soggetto distinto dagli
scolari, il secondo richiede la presenza del libro come oggetto di conoscenza distinto dalla
scuola. Come senza maestro, così senza libro non v'è insegnamento. Senza maestro si ha
lo studio, non la scuola. Senza libro vi è conversazione o apostolato, disputa o dogmatica
fede settaria, non insegnamento: manca l'austera e calma autorità di un già conquistato
diritto nel campo del sapere; manca la disciplina dell'insegnamento. Il maestro in quanto
tale, come non è facile conversatore, così non dev'essere scopritore o apostolo o
propagandista; è maestro, cioè insegnante di un sapere già riconosciuto come tale. Chi
crede di poter assicurare anch'egli tale diritto al proprio personale pensiero, ha come
mezzo atto a ciò non la scuola in cui egli insegna, ma il libro, che abbia una sua propria
vita fuori dalla scuola. Per nostra fortuna la necessità della tradizione orale è tramontata
da millenni; e anche quando a questa si fosse ridotti, altra sarebbe l'opera del maestro
sapiente della fatta tradizione, altra l'opera dello scopritore, che contribuisce a formare o a
trasformare questa tradizione.
Ci si potrebbe obbiettare: «Voi dimenticate che trattasi dell'insegnamento della filosofia, la
quale, per vostra stessa confessione, non ha e non può avere una schietta esistenza
oggettiva. Perciò per essa devesi nella scuola sopprimere quel rapporto con un
presupposto oggetto, che sarà forse necessario per ogni altro insegnamento, ma è non
solo superfluo ma impossibile per la filosofia. Sopprimendo perciò nella scuola il libro per
quanto riguarda la filosofia, noi sopprimeremo sì l'oggetto, ma lasceremo integra la
relazione tra soggetti, e perciò vivremo schiettamente quella soggettività della scuola, che
dal nostro speciale insegnamento è richiesta. Avremo così un concretarsi della filosofia
nella persona del maestro e un immediato contatto di questa viva persona filosofica con
altre perso-ne, vive nell'aspirazione al possesso della filosofia». Or tutto questo potrebbe
anche essere esatto se la scuola fosse luogo di disputa tra dottori, fosse scuola dove si
presentasse Socrate ad accompagnare Ippocrate alle lezioni di Protagora, se la scuola
non fosse più scuola, ma congresso di dotti o comizio di opinanti. Il che non è, e non deve
essere. La scuola rimane scuola qualunque cosa si insegni, e come è impossibile che si
riduca a puro studio, cioè a puro contatto con l'oggetto, così è impossibile che si riduca a
pura disputa, cioè a puro rapporto tra soggetti. Anzi, per questa presenza del libro nella
scuola, la filosofia non solo non fa eccezione, ma la richiede più di qualunque altro sapere.
Infatti quanto meno parziale, quanto meno astrattamente oggettivo è il sistema di
cognizioni che si insegna, tanto più esso richiede la presenza del libro, tanto più esso deve
porsi come disciplina da insegnare. Giacché allora maggiore è il pericolo che il libro
soppresso sopprima senz'altro l'insegnante, il quale sarà appreso soltanto come un libro;
allora, cioè, maggiore è il pericolo che il soggetto singolare sia scambiato con l'oggetto
universale, che la scuola rimanga scuola senza maestro. Scuola senza maestro, che è un
assurdo, perché non è né scuola né studio. Non è studio, perché la scuola rimane scuola;
e il maestro, quindi, in realtà, non è soppresso, ma è, dirò, pietrificato nel libro che egli ha
voluto sopprimere; la sua soggettività è posta come l'oggetto della scuola, come disciplina
da apprendere. Una tal pietrificazione si avrebbe al grado massimo nell'insegnamento
della filosofia che è il sapere di massima integrità, del quale disponiamo. Nell'oggettivar-si
che un insegnante faccia in un sistema parziale di cognizioni, la personalità sua continua a
rimanere, in gran parte, vivo soggetto tra soggetti vivi, appunto per la parzialità del sapere
in cui si oggettiva; ma quando questo sapere è l'universalità sua ed altrui,
necessariamente la sua persona svanisce, ed egli non vive più come soggetto tra soggetti.
Perciò quelle persone anelanti al possesso della filosofa, in contatto con le quali noi
insegnanti crederemo di porre la nostra persona viva nella nostra viva fede, si troveranno
ad assorbire solo, come l'oggettivo sapere a cui anelano, quella nostra fede viva.
E la fede viva, appresa come oggettivo sapere, diventa necessariamente dogma. Avremo
formato tutt'altro che l'attitudine filosofica nella mente. Saranno, sì, gli allievi a contatto con
una persona; ma con una persona che ha rinunziato alla propria soggettività proprio per
volerla porre là dove ci doveva essere l'oggettività, e che si è quindi trasformata in oggetto,
in rigida disciplina.
La relazione tra soggetti, in scuola, ricordiamolo bene, è di insegnamento non di disputa.
Ed ecco perché, quindi, traducendosi in pratica questo concetto dell'insegnamento di una
filosofia soggettiva, diventa apprendimento dogmatico anche se non pappagallesco; ecco
a che cosa si riduce un insegnamento che pare il prototipo della soggettività concreta e
quindi della personalità nell'insegna-mento. La concreta coscienza, come sempre, si
vendica delle sopraffazioni, facendo sì che queste procurino proprio il trionfo di ciò che si
voleva sopraffare. Si volevano formare persone pensanti con uno sviluppato senso
filosofico nella vita o con una propria attitudine a filosofare e si formano invece menti
dogmatiche che quel senso e quella attitudine filosofica non hanno appresa, perché hanno
elevato il loro maestro a libro di verità, il soggetto, che insegnava e che per quanto loro
maestro era pur sempre un soggetto, ad oggetto di insegnamento.
È forse solo questo il motivo di verità che sta sotto alle generiche e spesso grossolane ed
acri invettive che si lanciano contro la filosofia della scuola o delle università, che si chiami
colui che le lanci
Schopenhauer o Croce.
La concezione soggettiva dell'insegnamento della filosofia, se non è un peggioramento,
non è certo un miglioramento sulla concezione oggettiva. Essa sopprime la disciplina da
insegnare; laddove è appunto questa, che, con la sua oggettività, condiziona il rapporto
vivente tra i vari soggetti della scuola, giacché quella sua essenza universale, di cui è
nutrita la mente del maestro, viene, poi, mediante l'opera di questo, a vivificare gli scolari.
Mentre il libro, quindi, è l'unificatore oggettivo nel rapporto tra i soggetti della scuola, il
maestro nella sapiente sua concretezza è il conduttore di tal rapporto soggettivo a detta
sua unità oggettiva. Il libro (l'oggettiva disciplina) è l'unità della scuola; il maestro è la
guida dei molti in questa unità. Questa essenza di guida che ha il maestro viene
soppressa, quando questi ponga come suo insegnamento il sapere da lui stesso scoperto
nell'attimo stesso in cui lo insegna.
Per intendere bene ciò, bisogna por mente a quella che è la natura specifica
dell'insegnare. Insegnare non è vivere, ma rivivere, appunto perché deve preparare a
vivere. Chi è intento a vivere non si cura della altrui preparazione alla vita. Il poeta
nell'estasi della visione, lo scienziato nell'ansia laboriosa della scoperta, il filosofo nel
tormento di superare le linee della propria individualità, non si curano, in questi loro
speciali atti di vita, degli altri che vogliano compierli anch'essi. Il maestro invece, maestro
d'ogni arte e d'ogni sapere, deve sentire come maestro l'ansia di altri spiriti anelanti
anch'essi alla conquista; deve sentire il pulsare di cuori, che non sono il suo cuore, ma che
alla stessa pulsazione anelano. L'uomo comune, in breve, non si preoccupa che di
concretarsi nella oggettività del suo vivere; l'uomo maestro ha invece la sua concretezza
nel mettere in grado altri di raggiungere il concreto. E in questo «mettere in grado» la
natura misteriosa e sublime dell'insegnare; essere buoni maestri vuol dire far bene questa
opera di guida a persone, subordinando la nostra personalità alla formazione della loro.
Potrebbe quindi il lavoro che noi verremmo facendo col nostro insegnamento essere un
capolavoro di filosofia e pur potremmo noi non essere stati affatto insegnanti di filosofia,
cioè non avere sviluppato nelle menti il senso filosofico. Se la nostra scoperta filosofica
avviene nell'atto stesso dell'insegnamento, in realtà non insegniamo, perché
dimentichiamo - e dobbiamo dimenticare, se veramente scoperta in atto è la nostra - il
rapporto che ci lega agli altri soggetti, ai quali vogliamo insegnare; non sentiamo più il
vibrare dell'anima loro in sviluppo, sentiamo soltanto l'impeto divino del nostro lavoro
filosofico, non quello, altrettanto divino ma diverso dal primo, per cui afferriamo
consapevolmente, con la nostra, l'anima altrui, e nella nostra sentiamo il germoglio che in
essa provochiamo. Se poi la nostra scoperta filosofica avviene già prima
dell'insegnamento, avrem perduto quell'unico vantaggio che ci ripromettevamo da questa
concezione soggettiva, cioè l’attualità. Ci ripeteremo freddamente, e non faremo né della
filosofia, né dell'insegnamento.
LA CONCEZIONE CRITICA: RICREATIVITÀ STORICA
L'insegnamento adunque importa il libro, in quanto richiede una disciplina da insegnare;
ma d'altra parte non è possibile che la filosofia diventi libro, cioè oggettività determinata e
non universale.
E allora? O la filosofia è insegnabile, e l'insegnamento non richiede una disciplina; o
l'insegnamento richiede una disciplina e la filosofia non è insegnabile. Pare un rompicapo,
che pure ciascuno di noi in pratica risolve, se insegna e in quanto insegna davvero
filosofia, qualunque concezione teorica dica di professare.
Ma anche teoricamente la posizione forse non è poi così disperata come a prima vista
sembra. L'imbarazzo che noi docenti dobbiamo sentire, ricordiamolo, è di fronte alla
richiesta che vien fatta a noi di fornire ad altri un sapere che invece non può non essere in
loro. La nostra disciplina è già disciplina dei nostri alunni, e perciò non può esser soltanto
da noi fornita. Il nostro imbarazzo perciò non deve esser altro che l'esplicita coscienza
della natura universale della filosofia, di questo sapere incomunicabile, perché già
comune.
Sentire la universalità della filosofia è sentire la propria individualità come individuazione
dell'universale, e perciò in essenziale contatto con le altre individuazioni. Insegnar quindi
filosofia non può voler dire altro che suscitare questa coscienza in altre persone in quanto
individuazioni dello stesso universale, cioè far sì che ciascuno scopra la propria essenza
universale. Questo «far sì» è il nostro insegnare;
questa scoperta è la disciplina insegnata. Giacché se filosofia è pensiero in atto, essa si
fissa come tale sempreché come tale si scopre.
E fissarsi come attuale non vuol dire aver perduta l'attualità, per averla fissata, ma averne
scoperto un momento nella speciale sua vita. Questa scoperta, se non la più difficile delle
opere umane, certo è una delle più difficili; ma è scoperta tale, in compenso, che, una
volta avvenuta, non va più perduta, non può più esser messa in dubbio. E ora che si
abbandoni il comune pregiudizio volgare che la filosofia consista in un successivo e
comune disdirsi. Le conquiste della filosofia sono conquiste che non si perdono mai più. E
perciò in realtà sono poche, molto poche e non sono concettualizzabili, cioè non sono
fissabili in astratte nozioni.
Se la scoperta dell'universale è la disciplina da insegnare; quello che abbiam detto
«procurare», «far si», sarà la nostra opera di insegnanti. Il nostro scolaro deve scoprire in
sé l'universalità. Che cosa potremo far noi adunque per questa scoperta, se non farla
anche noi? Ma limiteremo questa comune scoperta a quella che l'allievo potrà fare da sé
ripensando quel che egli stesso dice? Se in ciò risolvessimo il nostro insegnamento, noi
faremmo forse delle utili, dilettevoli, interessanti conversazioni, non insegneremmo.
Cadremmo, oltre tutti gli altri inconvenienti, nella stessa impossibilità didattica notata nella
sostituzione del maestro al libro; l'oggettività sarebbe perduta, nella scuola non ci sarebbe
una disciplina filosofica. Perciò non v'è altro modo di attuare questa comune scoperta se
non quella di riviverla in un momento già vissuto. Cogliere un tale momento non è difficile:
difficile è riviverlo come tale, e sta in questo la genialità lità dell'insegnante, giacché
insegnare è proprio rivivere il passato come presente. Non è difficile coglierlo, perché,
bene o male che sia, una filosofia c'è, e da tutti, anche da quelli che le negano valore,
riconosciuta come tale. C'è nell'atto presente di vita, e c'è nella storia. C'è nella storia, in quanto ci sono dei monumenti di pensiero, nei quali e coi quali un
pensante si è sforzato di cogliere l'univer-salità, che egli vive. In questo sforzo sta tutto il
valore filosofico dei monumenti stessi. Togliere ad essi questo sforzo è proprio ridurli a
nulla, o almeno ridurli ad altro. Insegnar filosofia, adunque, vorrà dire porre la filosofia
esistente - e per esistente intendo: già storica, passata - come oggetto dell'insegnamento.
Ma oggetto in atto, cioè sforzo nella sua concretezza, che sia insieme atto filosofico e atto
di insegnamento. Altrimenti avremo un travasamento di sapere, che rinnega tutto quel che
abbiam detto. Or questo porsi dell'oggetto dell'insegnamento come atto vivo
dell'insegnamento è possibile solo quando si ponga proprio nella sua essenza di scoperta
in atto.
Allora soltanto la scuola rimane scuola nella sua pienezza, se in essa, dominatore di
maestro e scolari, vive concretamente un atto filosofico; allora soltanto quindi si ha vero
insegnamento di filosofia: non il caldo ma soggettivo sapere del maestro, che per lo
scolaro diventa dogma; ma neppure la oggettiva ma astratta nozione, che non è
l'universale vissuto nel concreto pensiero. Allora soltanto l’oggettiva nozione si presenta
nella soggettività in cui è nata e vive, senza della quale è nulla. Entrino adunque vivi, con
la loro tormentosa personalità, i filosofi nella scuola, e scaccino con la loro presenza sia
quella scolastica vendita di filosofia che non è ricreazione dello spirito, ma falso
arricchimento con morte e insipide nozioni, il cui vantaggio maggiore sarà la fatica che ci
imporranno per esser cacciate via tutte, quando avremo aperto gli occhi alla luce; sia
quella calda e viva ma solo creduta dottrina, che diviene cieca fede in un verbo, che,
accettato dogmaticamente, smorza la spontaneità del pensiero.
Ricreazione dello spirito adunque è l'insegnamento della filosofia: ricreazione, che può alle
volte esser dura, faticosa, amara; ma che, da una parte, non mancherà mai dell'attrattiva
che ha ogni ricreazione, anche quando come le più interessanti ricreazioni corporee
presenti pericolo e richieda sommo sforzo; e dall'altra non si proporrà mai, proprio come
ogni ricreazione, un tangibile risultato utile. Nella scuola la filosofia si deve insegnare
ricreando, nei grandi spiriti già vissuti, gli spiriti che alla vita anelano. Nient'altro si può e si
deve fare.
E per ricreare io intendo qui, fusi in uno, i due significati fondamentali della parola: creare
di nuovo e distrarsi dalle abituali solite occupazioni per portare poi ad esse nuova e fresca
lena. L'insegnamento della filosofia non può essere che ricreativo nel senso più nobile ed
alto, ed insieme più pieno, della parola. Non v'è altro modo di formare a saggezza gli spiriti
che di far loro di tanto in tanto dimenticare le singole nozioni, con cui lo spirito si
arricchisce e la persona si fa attiva e utile, per fermarsi a questo processo stesso del
pensiero, senza proposito di utilità, senza scopi a cui mirare, senza fini da conseguire.
Dall'insegnamento della filosofia non dobbiamo chiedere nessuna utilità immediata e
determinata. La saggezza che s'insegna è veramente tale quando non esce fuori di sé,
quando a nulla viene asservita. Non dobbiamo perciò all'insegnamento della filosofia
chiedere neppure che formi l'attitudine a regolarsi con saggezza nella vita. Questa
attitudine sorgerà, proprio soltanto se non avremo costretta la nostra disciplina a
proporsela come fine. Chi con l'etica formale di Kant, o con qualsiasi altra etica non
formale, sia d'amore sia di potenza, si proponga d'insegnare ai propri allievi come
debbano regolarsi nel vivere, avrà da una parte perduta l'etica ch'egli vuol insegnare, e
metterà dall'altra i suoi scolari in un mondo di dubbi, che toglieranno loro la spontaneità e
l'efficacia dell'azione. Così chi da una qualunque logica, sia di Aristotele sia di Hegel, vorrà
indicata ai propri scolari la via del vero che essi dovran battere, darà opera perché la
perdano. Chiedere all'insegnamento della filosofia l'attitudine a regolarsi con saggezza è
chiedere che esso si snaturi e si smarrisca in un inesauribile numero di elementi.
La filosofia così insegnata avrebbe perduta quella concretezza uni-versale, per cui tutto
deve a lei servire e a nulla invece può servir lei.
Filosofare è abbandonarsi senza fine all'oceano della realtà: senza fine, appunto perché
ogni fine è in essa.
POSSIBILITÀ DELL’INSEGNAMENTO CRITICO DI UNA FILOSOFIA STORICA:
Contro una tale concezione dell'insegnamento della filosofia come ricreativo di un
momento che questa abbia già vissuto, si potrà forse obbiettare che essa presuppone
nell'insegnante una perfetta indifferenza di opinione filosofica; sia perché egli dovrebbe
insegnare, non soltanto sotto il puro aspetto storico ma proprio nel loro valore attuale,
dottrine già vissute e diverse; sia perché, se ne avesse una propria, dovrebbe rinunciare a
porla come disciplina scolastica; sia perché non potrebbe proporsi come scopo la futura
saggezza dell'educando. Un tale insegnamento quindi si adatterebbe solo ad una filosofia
sofistica o scettica, cioè ad una filosofia, che, non trovando per conto proprio una verità, si
limiti a mostrare nella loro vita verità diverse, o aggiunga, per conto proprio, che dalle tante
verità opposte non si possa trarre che una conclusione: la verità è inattingibile. Chi questa
obiezioni facesse, mostrerebbe di non essere nello spirito della esposta concezione critica
dello insegnamento filosofico, la quale peraltro non importa a suo fondamento una filosofia
critica nel senso dottrinario tradizionale. Discutere l’obiezione è aver agio di metterlo un
po' meglio in evidenza.
È possibile che noi viviamo un momento del pensiero filosofico sorpassato, o almeno
creduto tale, dal nostro attuale pensiero? Ciò non richiederebbe in atto un perfetto nostro
agnosticismo? Rivivere un momento filosofico passato è un porsi in quel momento col
nostro pensiero attuale e quindi non averne altro. Ora io credo che non solo sia possibile
rivivere in atto un superato o diverso pensiero filosofico, senza essere per conto proprio
agnostici o, all'occasione, sofisti, ma che anzi si manifesti in ciò il valore dell'insegnante e
anche del filosofo. Per il primo non saper fare questo è senz'altro non essere insegnante,
giacché l'essenza dell'insegnare è proprio, come altrove dimostriamo, questo rivivere
presente di un momento passato. Quanto meglio ciò si sa fare, tanto più compiutamente si
è insegnanti. Pel filosofo, io credo che il non esser capace di rivivere in atto, quando sia
con coloro che devono ancora viverlo, un vivo e valido lavoro filosofico di indirizzo che si
ritiene inferiore a quello professato, riviverlo con tutta quella molteplicità di relazioni, di
contraddizioni, di consentimenti, di scoperte, di integrazioni ecc. che sempre esso importa,
sia, proprio ciò, indizio di indifferenza filosofica, anche se si riscontra in qualcuno
accanitamente attaccato ad una certa idea. È poco probabile che egli veramente viva
l'idea filosofica che professa. Un neotomista che non sappia rivivere Spinoza o Bruno sarà
neotomista quanto vuole, ma non ha mente filosofica: avrà forse una fede religiosa, non
ha una coscienza filosofica. Così un positivista che non sappia rivivere, mettiamo, Platone
o Berkeley o Hegel, sarà positivo quanto vorrà, avrà forse una coscienza scientifica, ma è
filosoficamente indifferente. Più uno ha viva la propria idea filosofica, e più sente la vita in
idee diverse che abbian veramente vissuto. Giacché se una filosofia c'è, come è
impossibile che manchi la molteplicità degli atti in cui essa si concretizza, così è assurdo
che manchi la sua unità di vita. E chi questa vita non sente negli altrui atti, non può esser
capace di sentire nel proprio: il che vuol dire che egli crederà forse dogmaticamente,
ciecamente a qualche cosa, ma non ha una filosofia. Vuol dire che la sua filosofia è una di
quelle oggettive credenze che non possono essere filosofiche né vere, appunto perché
oggettive, astratte, parziali, non filosofiche. Perciò questa pretesa ragione di indifferenza
filosofica è piuttosto ragione del contrario: per vivere, come l'insegnamento della filosofia
richiede, un già vissuto momento di essa, bisogna avere una mente ed una concezione
filosofica, bisogna veramente aver superato quel momento. Di filosofia non si può esser
soltanto insegnanti. E contro questa rovesciata obiezione non saprei in verità che cosa
rispondere. Devo solo far notare che per la filosofia, come forse per ogni attività spirituale,
potrà esserci, tra gli allievi, uno o più che sentano più filosoficamente che non il loro insegnante. E dovere dell'insegnante mettere a contatto queste anime con un vero spirito
filosofico e non col freddo suo sapere o con la opinata dottrina propria. Nel caso che in lui
sia debole la mentalità filosofica, e quindi nulla la personale dottrina, l'opera sua sarà più
che altro materiale; ma, anche ridotta a tale, sarà sempre più utile di una dottrina presa da
un trattato o faticosamente messa insieme
da lui. Non maggiore fondamento ha l'altra ragione della pretesa indifferenza filosofica,
cioè la necessità di non porre la propria indagine come dottrina, come disciplina da
insegnare. Chi ha un suo proprio credo filosofico, si dirà, bisogna che non lo rinneghi se
non vuol mentire a se stesso ed agli altri e fare così la più antipedagogica delle opere. E in
questo io son perfettamente d'accordo: ogni maestro che sia degno di tal nome non può e
non deve spogliarsi della propria personalità. Ma non per ciò dovrà mettere questa come
disciplina scolastica. Giacché proprio allora, come tale oggettivazione, egli la
sopprimerebbe, e d'altra parte snaturerebbe la scuola.
Sopprimerebbe la sua personalità, perché questa è viva nel battersi per farsi valere, non
nel porsi come sapere già valido; snaturerebbe la scuola, perché di questa inevitabile lotta
la facciamo strumento cieco se bandiamo dall'alto della nostra cattedra il verbo della
nostra verità. Laddove proprio colui che legge - molto forse dovrebbe insegnare la parola
stessa che indica l'atto dello insegnamento «lezione»; e si legge non del proprio, ma
dell'altrui: il proprio vive meglio nella parola parlata, e si hanno allora discorsi, conferenze,
conversazioni ecc...
, non lezioni - ed insegna una altrui dottrina,
ha agio di mettere in iscuola nella sua vera luce la propria personalità. Nel caso infatti che
egli concordi col pensiero che egli rivive, il proprio atteggiamento personale, cioè, in fondo,
la vitalità della propria persona, balza in tutto lo sviluppo che può dare a singole
argomentazioni, nel mettere in evidenza pensieri embrionali e inviluppati e far notare
invece la poca validità di prolisse dimostrazioni, ecc. Nel caso poi che egli non concordi,
ma riconosca, ben inteso, il valore storico dell'opera che espone, come luminoso sfondo di
tal pensiero, la sua personalità si delinea viva e vivificatrice anche più che nel caso
precedente. Solo così noi saremo veramente rispettosi anche di quella personalità della
mente che ci sta dinanzi, e che come mente vogliamo formare, cioè sviluppare; come
men-te, e quindi nella sua spontaneità spirituale da una parte, nella sua necessità logica
dall'altra, cioè nella sua individualità soggettiva e nella sua universalità oggettiva. La
libertà spirituale del maestro e la severa esistenza del libro, che gli si impone anche
quando venga confutato, si fonderanno in una indivisibile armonia della mente del
discepolo. E solo così questi apprenderà veramente. Apprenderà soprattutto quell'ansia
del costruire il nuovo sul vecchio, quell'anelito alla ulteriore scoperta, quella febbre di vita,
che sprizzerà viva e scintillante da questo contatto di due vite nell'atto stesso del loro
toccarsi e trasformarsi. Non intendere ciò vuol dire non sapere che cosa sia insegnare,
aver sordo l'animo all'insegnamento. L'insegnamento deve esser critico, non dogmatico;
deve intendere, non esporre.
E questa, che è la necessità essenziale, che è il tutto dell'insegnamento della filosofia, si
ritrova a fondamento dell'insegnamento di qualsiasi disciplina. Ed ecco perché
giustamente è stato detto che tutto l'insegnamento debba essere filosofico. Ma
naturalmente nelle varie discipline questo sostrato filosofico dell'insegnamento trova la sua
limitazione nella natura delle discipline insegnate; questa limitazione non ha più luogo di
essere quando la disciplina è proprio la stessa filosofia. In questo, e solo in questo senso
può l'insegnamento della filosofia ritenersi puramente formale, cioè in quanto attua, col
suo contenuto, la pura forma dell'insegnare. Anche quando insegno una legge di fisica, so
che devo contare su un educando che pensi; perciò, qualunque cosa io insegni, allora
veramente insegno quando suscito un atto di pensiero, quando faccio intendere. Ma per la
fisica è sempre la legge fisica ch'io devo far intendere, cioè quel determinato oggetto
astrattamente pensato dalla mente. Per la filosofia invece non v'è nessun determinato
oggetto astratto da far pensare: c'è soltanto da scoprire nella sua universalità questo
pensare; c'è soltanto da intendere.
Non varrebbe forse la pena di discutere la terza ragione addotta, se non fosse comune il
pregiudizio di una, dirò così, normatività dell'insegnamento filosofico. «Se c'è, bisogna ben
che serva a qualche cosa, se diciamo che non deve servire a nulla, vuol dire che
pensiamo anche che la vita sia senza scopo». Orbene, è questo un residuo del pregiudizio
di una pedagogia utilitaristica, che tanto danno ha tentato di fare alla scuola. Si è già
cominciato a dire, ma non sarà mai detto abbastanza che chi propone alla scuola come
fine, l'utile alla vita, la snatura e la corrompe. Se il puro insegnare, in quanto puro, e
l'insegnamento della filosofia, in quanto schietta attuazione dell'insegnamento, si risolvono
nell'intendere, il loro fine si esaurisce in loro stessi. Ma di ciò più opportunatamente dico
altrove.
Qui è soltanto necessario aggiungere che ogni sistema filosofico, in quanto veramente
insegnato, cioè inteso nella sua intimità, sarà suscettibile per suo conto di saggezza nella
vita, perché sarà stato saggezza vissuta. Ma guai a voler cercare un'esteriore e superiore
saggezza a cui subordinare l'insegnata nostra dottrina; per conformarci a questa seconda,
avremo anche perduta la prima, e avremo sprecata l'opera nostra. Non avremo concluso
nulla.
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