LA MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI © BOLLETTINO D’ARTE Estratto da SCULTURA LIGNEA PER UNA STORIA DEI SISTEMI COSTRUTTIVI E DECORATIVI DAL MEDIOEVO AL XIX SECOLO Volume Speciale (2011 - Serie VII) ANGELA CERASUOLO ESTOFADO E POLICROMIE: OSSERVAZIONI SULLA TECNICA ATTRAVERSO LA TESTIMONIANZA DI FRANCISCO PACHECO D E L UCA E DITORI D ’A RTE S . R . L . ANGELA CERASUOLO ESTOFADO E POLICROMIE: OSSERVAZIONI SULLA TECNICA ATTRAVERSO LA TESTIMONIANZA DI FRANCISCO PACHECO ArTE DE lA pinTurA. FRANCISCO CROMIA DELLE SCULTURE LIGNEE El PACHECO E LA POLI- La letteratura artistica è sempre una fonte di primaria importanza per la storia dell’arte. Quando chi scrive è un artista, l’interesse è accresciuto dall’autorità di un testimone che è anche attore di quella storia. Le occasioni, non molto frequenti, in cui l’artista descrive materiali e mezzi del suo operare, diventano opportunità di conoscenza di assoluta rilevanza, a mio avviso ancora non adeguatamente considerate. È questo il caso del terzo libro de El arte de la pintura di Francisco Pacheco (1564–1644), artista sivigliano noto principalmente per essere stato il suocero e maestro di Velázquez, pittore colto, amico di umanisti e letterati, autore di un’opera ponderosa (pubblicata postuma nel 1649, ma resoconto di una carriera iniziata nell’ultimo quarto del ‘500) in cui riversa con profusione e talvolta disordinatamente tutte le conoscenze sulla teoria dell’arte del secolo che lo ha preceduto, ma anche, nel terzo libro, delle particolareggiate istruzioni sulla pratica dell’arte che illustrano con intento didattico i procedimenti dei vari tipi di pittura sui diversi supporti.1) Artista attardato e di non grande talento creativo, Pacheco era però un accurato artefice, e un’indiscussa perizia gli è riconosciuta nell’esecuzione delle policromie di sculture — prevalentemente lignee, anche se non ha mancato di dedicarsi ad altri materiali, come terracotta e metalli — avendo, come lui dice, «aiutato con la sua mano» le opere dei più importanti scultori sivigliani, come Gaspar Nuñez Delgado e il grande Juan Martínez Montañés.2) Le sue istruzioni per l’esecuzione della policromia delle sculture sono dunque una testimonianza diretta della tecnica adottata per una produzione che in Spagna assume — qualitativamente e quantitativamente — dimensioni straordinarie. La trattazione che ci interessa appare curiosamente slegata e suddivisa in più capitoli: sulle dorature3) si dilunga, con profusione di dettagli — e la descrizione appare riferita prevalentemente all’allestimento di grandi macchine d’altare — solo alla fine, pur riconoscendo che questa trattazione sarebbe stata opportuna prima di introdurre l’estofado. Questo è invece descritto in uno dei primi capitoli: il terzo, dedicato «alla miniatura, l’estofado e l’affresco».4) INCARNATI LUSTRI, INCARNATI MATTI Un’interessantissima descrizione di due diverse modalità per eseguire gli incarnati è trattata nell’ambito della pittura ad olio su vari materiali.5) Questa degli incarnati è presentata come una vera e propria specialità del trattatista sivigliano, che non nasconde il suo orgoglio per averne perfezionato la tecnica, introducendo quelle che definisce le «encarnaciones de mate», gli incarnati matti eseguiti con colori ad olio su un’imprimitura contenente «un poco di minio o litargirio per siccativo»,6) che l’autore considera un progresso soprattutto perché perfettamente idonei a rendere in maniera illusionistica il dato naturale, consentendo inoltre i più sapienti e raffinati accorgimenti pittorici che fanno sì che la policromia della scultura non abbia niente da invidiare alla pittura “maggiore”.7) Per tutte le tecniche che illustra, Pacheco manifesta precisi giudizi, indicando le sue preferenze: l’inclinazione dell’artista appare però oscillante, sembrerebbe quasi combattuta, fra l’adesione ad una moderna ricerca in direzione del naturalismo (non dimentichiamo i giudizi entusiastici che enuncia sui caravaggeschi e su Ribera) e l’amore per la sontuosa ornamentazione e l’astruso gioco ornamentale che, derivatogli dalla formazione tardo manierista e dalle frequentazioni umanistiche, sembra proiettarsi verso le astrazioni decorative del barocco. Per gli incarnati delle sculture, Pacheco non manca così di illustrare anche la tecnica delle encarnaciones de polimiento, gli incarnati lustri, che grazie all’uso di olio ispessito e di una sapiente politura effettuata sul colore fresco strofinandovi dei pezzetti di pelle di guanto bagnati, consentiva di ottenere una lucentezza preziosa e risplendente quanto poco naturale.8) L’autore la dichiara ormai sempre meno praticata e quasi del tutto soppiantata dalle encarnaciones de mate, ma sottolinea alcuni innegabili pregi dei carnati lustri, fra cui quello non trascurabile di ovviare ai difetti di un modellato non troppo rifinito: indica questa tecnica come adatta anche alla policromia delle sculture in terracotta, rimarcando come sia «buona da usarsi su una cattiva scultura perché, con la lucentezza e i riflessi, se ne dissimulano i difetti».9) A proposito degli incarnati matti, nota invece che «se le cose migliori di scultura si dipingono de mate essendo meglio rifinite e levigate nel legno risparmieranno al pittore molte preparazioni, almeno questo è il caso delle sculture di 147 Delgado e Montañés»,10) e infatti è sufficiente un sottile strato di preparazione a base di colla, “gesso morto” e biacca dati a pennello in due o tre mani: il pittore non lo dice, ma una preparazione sottile è anche indispensabile per esaltare e non ottundere le raffinatezze del modellato di questi valenti scultori. Ricordiamo a questo proposito il giudizio ammirato del Summonte per il ‘Crocifisso’ di Giovanni da Nola «tanto ben fatto che non have avuto bisogno di gipsamento né di altro colore»; e se in quel caso la perfezione dell’intaglio aveva reso superflua ogni forma di finitura, anche in sculture policrome del Marigliano abbiamo riscontrato come la stesura pittorica fosse limitata ad uno strato estremamente esiguo.11) La tecnica delle encarnaciones de polimiento non era però destinata a scomparire, e nel XVIII secolo tornerà a conoscere una grande diffusione, come dimostra il rinvenimento di incarnati lustri eseguiti conformemente alle istruzioni di Pacheco da parte di esponenti della scultura rococò tedesca, come Ignaz Günter.12) Una tecnica affine si può supporre venisse usata anche nell’arte presepiale napoletana — ne è indizio il perdurare di una pratica tramandata dai ‘segreti’ di bottega — e potrebbe essere all’origine dell’effetto porcellanato degli incarnati di tante sculture — lignee o in terracotta — del XVII e XVIII secolo.13) Le osservazioni di Pacheco sull’aspetto di superficie delle sculture — un altro riferimento di grande interesse è il consiglio di verniciare con chiara d’uovo i soli occhi nei volti che hanno ricevuto l’incarnato matto14) — sono indicazioni preziose, trattandosi di un dato estremamente problematico da valutare, anche in sede di restauro, per le inevitabili manomissioni che le opere hanno subìto. È singolare come lo stesso Pacheco sia disorientato nell’individuare la tecnica delle sculture più antiche e finisca per attribuire all’effetto di verniciature la lucentezza che pur esibiscono, poiché, accogliendo il racconto vasariano sull’‘invenzione’ di van Eyck, le crede precedenti all’introduzione della pittura ad olio. Oggi sappiamo come uno degli usi più antichi dell’olio in pittura — un olio ispessito del tutto analogo a quello descritto da Pacheco — fosse destinato proprio alla policromia delle sculture.15) La grande diffusione della scultura lignea in Spagna — sotto forma di retablos, di sculture isolate, o di pasos — ha dato origine a specializzazioni molto settoriali, al punto che si rileva l’esistenza non solo di doradores, ma anche di estofadores e encarnadores.16) Pacheco rivendica la competenza del pittore per l’esecuzione delle policromie rispetto agli estofadores, come artigiani incapaci quando necessario di attingere dalle competenze del pittore per «aiutare» una scultura: fa per questo l’esempio di artisti, lui compreso, che con accorgimenti tutti pittorici sono in grado di migliorare l’effetto dei rilievi su cui eseguono la policromia, ombreggiando panni e carnati, e anche aggiungendo «teste e mezze figure, figure intere in lontananza, architetture e paesi alle storie di scultura e di mezzo rilievo altrimenti povere».17) Sul fronte opposto, Pacheco entra in polemica con pittori più dotati che tendono a sminuire la perizia dei 148 colleghi che si dedicano abitualmente all’esecuzione di policromie. Agli artisti che sostengono di essere in grado «anche coi piedi di far meglio di coloro che vi si dedicano sempre» il trattatista risponde orgogliosamente che « si ingannano in questo, perché quando lo fanno, non hanno la grazia e la pulizia di quelli del mestiere».18) Un’ultima notazione che colpisce fra le righe delle pagine dedicate alle encarnaciones è un’ennesima dimostrazione di quello che Alessandro Conti definiva «un sereno rapporto dell’artista con i suoi materiali» che l’induceva a prevederne le naturali alterazioni in vista di un assestamento ottimale: a proposito dei pigmenti con cui comporre le carni «hermosas» di sante e Bambini, Pacheco consiglia di mescolare «il bianco e il vermiglione fra loro solamente; perché il tempo fa nell’olio l’effetto dell’ocra, che ingiallisce un po’ [el tiempo hace en el aceite el efecto del ocre, que es tantica de amarillez]».19) PREMESSE PER L’ESTOFADO È invalsa la consuetudine di adottare correntemente il termine spagnolo estofado per ogni forma di imitazione dei tessuti preziosi come damaschi e broccati intessuti di fili d’oro.20) In realtà, come vedremo dalla lettura di Pacheco, ma come è testimoniato anche da altre fonti, con estofado in Spagna si designa un procedimento tecnico più che un effetto, definendo con questo termine una molteplicità di forme decorative eseguite a tempera sull’oro.21) L’enorme diffusione in Spagna della scultura lignea e di questa particolare tecnica decorativa ha fatto sì che il termine estofado finisse per essere accolto anche al di fuori dei confini della nazione iberica, ma è un uso relativamente recente.22) Nei documenti d’archivio riferiti alla doratura e decorazione policroma delle sculture, a Napoli come in Sardegna, non compare il termine estofado, ma si parla di «indoratura, graffiatura, coloritura»,23) definizioni riferite alla modalità d’esecuzione, che prevedeva l’asportazione con una punta di parte del colore per far affiorare l’oro sottostante. D’altro canto, la pratica di imitare i tessuti preziosi dipingendo e «graffiando» sull’oro conosce una diffusione che, capillare per distribuzione geografica, antica quanto la pittura stessa — una dettagliata descrizione è nel “classico” libro dell’arte di Cennino Cennini — non si era mai disgiunta completamente dal patrimonio di conoscenze tecniche del pittore, anche quando, venuto a cadere l’uso dell’oro all’interno della raffigurazione pittorica, il prezioso materiale e le tecniche decorative ad esso connesse venivano riservati agli elementi di incorniciatura ed “ornamento” della pittura, finendo talvolta per divenire competenza di maestranze specializzate. Tutta ancora da scrivere la storia di questi importanti complementi dei dipinti, vittime peraltro, molto più dei dipinti stessi, dei mutamenti del gusto e delle trasformazioni espositive. In Lombardia, in particolare, ancora ricca di testimonianze — fin dal XV e per tutto il XVI secolo — di una copiosa produzione di preziose ancone composte di rilievi ed elaborate incorniciature in cui erano incastonati i dipinti, si vede dispiegare con profusione l’uso di oro e decorazioni policrome applicate o incise sull’oro — anche qui il termine usato per definire la tecnica è quello di «sgraffito» — che dalle cornici si estendono sulle figure scolpite simulando tessuti preziosi.24) Prima di analizzare la trattazione di Pacheco dell’estofado è dunque opportuno riesaminare brevemente il testo cenniniano che descrive una tecnica del tutto analoga a quella riscontrabile nei trattati spagnoli di oltre due secoli successivi.25) Cennino per indicare lo sgraffito usa il sinonimo «grattare», e non definisce questa operazione con un termine specifico, ma parla semplicemente di «fare alcun drappo d’oro». La base è costituita da una doratura a guazzo su tutta la superficie da decorare, che viene anche brunita, per poi campirla con una stesura di colore a tempera d’uovo.26) Il procedimento si può seguire utilizzando diversi colori, ma, per l’azzurro, viene consigliato un accorgimento particolare, cioè l’applicazione di uno strato preparatorio, sopra l’oro, eseguito con biacca, evidentemente per fornire all’azzurro una base più adeguata dell’oro per esaltarne il colore.27) Interessante è l’uso di «modani», cioè di pattern, di modelli su carta dei moduli ripetitivi del disegno, da riportare con la tecnica dello spolvero, per cui bisogna «disegnarli prima in carta, e poi forargli con agugella gentilmente», e quindi battervi sopra un sacchetto pieno di colore in polvere.28) La traccia così trasferita si segue quindi per grattare il colore secondo il disegno e far affiorare l’oro, utilizzando un apposito strumento accuratamente descritto: «uno stiletto di scopa, o di legno forte, o d’osso» appuntito da un lato e piatto dall’altro.29) L’operazione può servire tanto a scoprire un disegno d’oro su fondo colorito, che al contrario, a ritrovare grattando il fondo d’oro su cui fare emergere il disegno del colore prescelto: «E gratta qual tu vuoi, o vuo’ il campo, o vuo’ l’allacciato». Infine l’oro va ulteriormente impreziosito «granando» il disegno con un punzone («la rosetta») o con un punteruolo.30) Segue un elenco di diverse varianti per panni dorati e coloriti, che prevedono anche l’esecuzione del motivo decorativo stendendo il colore a pennello sul campo dorato e brunito. È interessante che fra le varie soluzioni faccia la sua comparsa anche l’olio, come legante del verderame o della lacca, che, come è noto, si ritrovano utilizzati con questo legante anche in dipinti a tempera molto anteriori alla “scoperta” della pittura ad olio.31) L’ESTOFADO. LA TRATTAZIONE DI PACHECO Pacheco, come si diceva, tratta dell’estofado nello stesso capitolo, il terzo, dedicato «alla miniatura, l’estofado e l’affresco». L’insolito raggruppamento di generi non sembrerebbe casuale: oltre ad un’affinità di materiali e di effetti, denota una relazione più profonda, anche se in qualche modo sorprendente. Il trattatista offre una sua interpretazione dell’origine dell’estofado, che mette in rapporto con la diffusione della grottesca.32) Egli indica anche una precisa circostanza per l’introduzione in Spagna — o meglio in Andalusia — di questa forma decorativa. Dopo averne rievocata l’origine dallo studio dei dipinti della Domus Aurea da parte di Raffaello e Giovanni da Udine, afferma che la grottesca si era poi diffusa in tutta Europa, e in Spagna in particolare ne riconduce l’introduzione all’attività di due pittori, Julio e Alejandro, venuti dall’Italia per dipingere gli appartamenti di Francisco de los Cobos, segretario dell’Imperatore, nella città di Ubeda e da lì nella Casa Real del Alhambra a Granada.33) La diffusione dell’estofado era quindi stata innescata dall’arrivo dei nuovi modi della maniera, portati in Spagna direttamente dall’Italia da Julio e Alejandro — il primo identificato con il romano Giulio Aquili (figlio di Antoniazzo documentato in Spagna dal 1533 al 1545), il secondo con Alejandro Mayner, documentato a Granada nel 1537, di origini fiamminghe — e l’entusiasmo degli artisti locali per la grottesca ne aveva provocato l’adozione in maniera estensiva, al punto da indurne la trasposizione del repertorio decorativo sulle cornici e finanche sulle figure dei retablos: «Alcuni si affezionarono tanto alle grottesche che, non contentandosi di adornare i retablos nei fregi, pilastri e cornici, rivestirono tutte le figure di rilievo, e le vesti di quelle, di questo genere di ornamenti, senza tralasciare cosa alcuna [...]».34) Contrariamente al significato che siamo abituati a conferire alla definizione di estofado, Pacheco assegna questo termine a una vasta gamma di forme decorative e ornamentali che prevedono l’utilizzo dell’oro come base per i colori e anzi individua una precedenza anche cronologica del suo uso nell’ornamentazione dei retablos, da cui solo successivamente sarebbe stato esteso ai panneggi delle figure scolpite. D’altra parte il verbo estofar comprende fra i suoi significati anche quello di rivestire di bianco una scultura in legno da dorare35) e non implica neanche necessariamente un riferimento ai tessuti damascati, se il nostro autore ne segnala la derivazione dalla foga decorativa associata alla diffusione delle grottesche — un orror vacui che in Spagna non aveva conosciuto neanche il freno del rigore rinascimentale — repertorio inesauribile riversato come segno distintivo della buena manera nei retablos che ereditavano direttamente la ricchezza ridondante delle macchine d’altare gotiche. A questo proposito, Pacheco opera anche una distinzione fra diversi repertori decorativi, l’uno attinto dal repertorio fantastico e “antico” delle grottesche ed eseguito prevalentemente a punta di pennello, l’altro, meno prestigioso e di più facile esecuzione, che comprende una varietà di motivi maggiormente pertinenti alla riproduzione di tessuti — «disegni geometrici, fiori, arabeschi, incisioni» — a suo dire più diffusi in Castiglia, dove, diversamente che in Andalusia, «si seguono altri generi di ornamento, fuori della buona maniera».36) 149 Il trattatista introduce quindi la descrizione più prettamente tecnica del procedimento: «Venendo, dunque, alla pratica, dico: che i colori devono essere tali e così selezionati come quelli che si usano nella miniatura e si devono macinare in acqua con la stessa pulizia che abbiamo detto, salvo che, al posto della tempera di gomma, bisogna usare del tuorlo d’uovo fresco».37) Colpisce nella trattazione di Pacheco il riferimento alla miniatura, a cui l’estofado è associato non solo per una affinità di materiali, ma soprattutto per un’affinità di effetti: come nella miniatura, si tratta di tinte pure, intense e luminose, deliberatamente astratte e decorative, accostate in maniera netta, senza alcun intento di imitazione del naturale. Rispetto alla miniatura, il legante è però una tempera d’uovo: «bisogna usare del tuorlo d’uovo fresco, con mezzo guscio d’acqua dolce e chiara, battuto fino a che diventi spumoso; con questa tempera si devono mescolare i colori per l’estofado sopra oro brunito, preparando con un’imprimitura di biacca tutto ciò che si deve colorire, siano grottesche sopra l’oro, o tessuti messi di vari colori».38) Pacheco, anche se parla di decori incisi, non descrive esplicitamente l’operazione di sgraffitura né lo strumento adoperato, ma lo troviamo indicato in un altro meno noto trattatista iberico, di qualche anno precedente, Felipe Nunes: «gratta via e ‘apri’ il colore con uno stilo di legno o di argento, o con qualunque strumento appuntito che preferisci, rivelando così l’oro dove ti piaccia».39) Anche Nunes, come Pacheco, suggerisce di applicare uno strato di colore bianco sopra l’oro prima delle stesure colorate; questa particolarità dell’imprimitura bianca, che si spiega con la volontà di ottenere dei toni intensamente saturi e brillanti, non condizionati dal colore dell’oro sottostante,40) non mi sembra trovi riscontro nelle opere napoletane; è stata individuata invece nell’esame effettuato su una scultura della fine del XVII secolo (1692) della scultrice Louisa Roldàn, di origine sivigliana, attiva come scultore di corte di Carlo II.41) Per quanto più tarda, la scultura corrispondeva con una certa aderenza alle caratteristiche tecniche descritte dal nostro autore, compresa la pratica di arricchire la policromia con ombreggiature e lumeggiature di tono diverso rispetto a quello di fondo nelle decorazioni modulari dipinte e incise a imitazione delle stoffe.42) Come già in Cennini, anche in Pacheco troviamo descritto l’uso di modelli per i moduli decorativi ripetitivi che ornano le stoffe: «e se avvenisse di fare qualche fogliame, o fregio, con modello [«patrón» = pattern], per garantire l’uguaglianza delle due metà, dopo averlo riportato sopra l’oro, si potrà profilare con carminio e, una volta asciutto, stendervi un’imprimitura di bianco, perché su di esso traspariranno i profili del disegno e si potrà mettere dei suoi vari colori, con più pulizia. Si tenga conto anche che se si fanno grottesche con colori sopra altri colori, sarà inevitabile prepararli anch’essi di bianco, perché così i colori si metteranno in maniera più pulita».43) 150 LE DORATURE Per quanto relegata ad uno degli ultimi capitoli, la trattazione sulle dorature è ricca di notazioni tecniche molto particolareggiate, fin nelle dosi dei componenti e con l’indicazione di numerose varianti legate alle consuetudini di scuole locali o dei singoli artisti. È un documento di grande interesse, che testimonia l’importanza conferita, ancora agli inizi del XVII secolo, a questa parte ormai accessoria e subalterna, ma tutt’altro che trascurata, della pittura: «ruscello derivato dal mare dell’invenzione dei pittori».44) Al tempo stesso, Pacheco non può mancare di censurare l’uso dell’oro nell’ambito della raffigurazione pittorica in cui l’abilità dell’artefice deve misurarsi con le sue capacità di mimesi, non certo con la preziosità del materiale usato.45) Il noto passo dell’Alberti46) in cui questo concetto veniva affermato precisamente, espressione della consapevolezza di uno status sociale e intellettuale del pittore che si vuole distinguere da quello dell’artigiano, è citato dal Sivigliano attualizzandone i contenuti che ci si aspetterebbe ormai acquisiti, ma che evidentemente, col perdurare del gusto per un’ornamentazione estenuata e sovrabbondante, non erano ancora indiscussi. Infatti il trattatista rimarca di aver utilizzato l’oro nei capelli delle figure scolpite, ma solo come massima luce della capigliatura bionda, imitata per il resto naturalisticamente, e ne riprova l’uso innaturale ed esornativo fattone da alcuni suoi colleghi — che cita esplicitamente — per concludere che anzi, in adesione al dettato albertiano, ha ormai smesso di farne uso alcuno.47) Fra le tante notizie utili, va segnalata almeno la descrizione di un espediente per «estofar sopra argento brunito, facendolo apparire come l’oro»;48) inoltre sono descritte numerose diverse maniere per dorare su vari materiali, come pietra, ferro, bronzo, terracotta, gesso e cera, tanto a oro brunito — che richiede sempre una base di gesso e bolo — che a mordente, che chiama «oro mate».49) I PROCEDIMENTI: RISCONTRI E DIVERGENZE IN ALCUNE OPERE NAPOLETANE. IL CONTESTO A Napoli, fra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, sono note numerose botteghe di intagliatori, intensamente impegnate nel far fronte alle richieste di una committenza che non è limitata al territorio cittadino, ma anzi estende i suoi confini in tutto il meridione e nelle isole, per raggiungere anche la Spagna.50) La produzione di queste botteghe, pur su un elevato livello qualitativo, si può supporre parzialmente seriale e suddivisa fra i diversi componenti, spesso consanguinei. A questo dato, che già rende problematica l’attribuzione a un singolo artista delle opere superstiti, è da aggiungere un’altra costante caratteristica che mette in crisi i consueti criteri d’autografia: le dorature e la policromia sono realizzate da altri artigiani — variamente denominati pittori, doratori, toccatori d’oro, ma sempre afferenti alla categoria dei pittori — che prestano la loro opera per diverse botteghe di intagliatori. È comunque un dato da tenere sempre presente questa suddivisione dei compiti — analoga a quanto avveniva in Spagna — che però non impedisce, anzi forse favorisce, l’individuazione di caratteristiche costanti che connotano in maniera distintiva la produzione delle botteghe di doratori–pittori napoletani. Volendo sintetizzare queste peculiarità, vediamo che ci troviamo di fronte ad una modalità esecutiva in qualche modo schematica, pur nella sua ricchezza e raffinatezza, rispetto alla descrizione dell’estofado di Pacheco, che fa riferimento ad una vasta gamma di motivi decorativi di diversa natura e ad un’articolata modulazione della loro stesura. Un dato che colpisce è l’uso, oltre che della tempera a uovo, conforme alle indicazione dei trattati spagnoli, di due colori: la lacca rossa e il verderame, legati ad olio. Quest’uso dell’olio per la lacca e il verderame — due pigmenti poco coprenti, che esaltano il loro effetto traslucido con i leganti oleoresinosi — è uno degli usi documentati più antichi dell’olio in pittura, ed è consigliato anche da Cennino, come abbiamo visto, proprio nelle istruzioni sui «drappi d’oro». I trattati spagnoli che abbiamo esaminato non prevedono invece l’uso di olio o vernice fra i leganti dei colori da applicare sull’oro, anzi prevedono degli accorgimenti ulteriori per eliminare del tutto il trasparire dell’oro sottostante attraverso le già opache campiture a tempera.51) A Napoli l’uso di lacca e verderame traslucidi è stato riscontrato anche in sculture più antiche di quelle che stiamo considerando, per esempio nelle decorazioni su oro — del tutto analoghe all’estofado — presenti sulla scultura rappresentante una ‘Madonna col Bambino’ proveniente da Sant’Agostino alla Zecca,52) o in quelle del “presepe” degli Alemanno un tempo a San Giovanni a Carbonara, dove i preziosi accorgimenti esecutivi prevedevano «fondi dorati graffiti, dipinti o incisi per imitare tessuti arabescati».53) A questo proposito è di grande interesse ricordare l’esistenza di documenti che attestano come l’esecuzione della policromia e della doratura delle sculture, già realizzate nell’intaglio da Pietro e Giovanni Alemanno con contratto del il 30 giugno 1478, risulti poi affidata il 22 marzo 1484 al maestro Francesco Felice, con un dettagliato contratto.54) Non sembra allora azzardato ipotizzare l’esistenza a Napoli di una tradizione — anche di mestiere — già radicata fin dalla fine del XV secolo, di artisti specializzati nell’esecuzione di dorature e policromie sull’oro non necessariamente derivata da apporti oltremontani — le sculture citate sono intagliate da artisti di cultura nordica — ma neanche spagnoli. Anche in pittura, d’altronde, l’uso poliedrico delle tecniche di doratura, comprendente i «drappi d’oro», si vede dispiegato da tutti gli artisti attivi a Napoli nella seconda metà del XV secolo, e non stupisce quindi trovare la commissione a Pietro Befulco della doratura di una carpenteria lignea fra i documenti raccolti dal Filangieri.55) LE OPERE Le opere prescelte, particolarmente rappresentative della produzione napoletana fra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, sono state analizzate da vicino per individuarne le peculiarità tecniche raffrontandole con le indicazioni del pittore sivigliano, avvalendosi anche della documentazione prodotta in occasione dei restauri e delle eventuali indagini diagnostiche. Il riferimento del termine estofado ad una maggior varietà di forme ornamentali eseguite dipingendo sull’oro spinge a riconsiderare le decorazioni presenti in maniera estensiva nei due soffitti napoletani di San Gregorio Armeno e Santa Maria di Donnaromita. I due soffitti, come è noto, sono dovuti all’attività di un’articolata maestranza affiancata al pittore fiammingo Teodoro D’Errico, a cui Lina Vargas ha dedicato uno studio fondamentale.56) Mentre però l’attività dei pittori delle pale principali e l’intreccio delle diverse mani in esse impegnate sono state ampiamente indagate e approfondite, molta meno attenzione è stata destinata allo straordinario tessuto decorativo in cui sono inserite, che pure le connota in maniera distintiva. Il soffitto di San Gregorio Armeno è databile agli anni 1580–1582 in base ad una memoria anonima secentesca sul monastero. Per il soffitto di Donnaromita esiste invece una ricca documentazione dei pagamenti effettuati fra il 1587 e il 1589 da parte della badessa del convento Isabella Capece, ai vari artisti e fornitori, che risulta di grande interesse per comprendere la complessa articolazione del lavoro. Dai documenti si desumono, oltre ai nomi dell’autore del progetto decorativo, Giovanni Andrea Magliulo57) e dei pittori principali, Teodoro D’Errico e Girolamo Imparato, nomi e funzioni di tutte le altre figure coinvolte, nonché una precisa indicazione dei materiali impiegati col relativo costo: «200 tavole di chiuppo [pioppo] parte grandi e parte piccole … per la intempiatura della chiesa»58) destinate evidentemente alla struttura del soffitto, e 290 «tavole de teglia [tiglio]…parte piccole et parte grandi» che dovevano servire per gli intagli, per i quali risultano pagati Nunzio Ferraro e Giovanni Battista Vigliante per il considerevole importo di 430 ducati (quasi tre volte il corrispettivo ricevuto dal D’Errico per le tre tavole principali, 150 ducati).59) È citato anche un oscuro Joanne Gralovo pittore, a cui sono riferite le «figurette piccole» su tavola che circondano i dipinti principali. Ma quello che più interessa in questa sede è la descrizione del lavoro eseguito da un ancora più oscuro «Pomponio pittore», che riceve ben 120 ducati «per fattura de la pittura che ha fatto alle strade dela detta intempiatura», più altri 126 «per la fattura deli campi fatti nella detta intempiatura cornici friso et anco pittura fatta nel cornicione et nel friso».60) Credo di poter interpretare come «la fattura deli campi» l’applicazione dell’oro sui fondi, nonché sui rilievi («cornici friso»), mentre la pittura «alle strade dela detta intempiatura» è certamente l’esecuzione delle eleganti decorazioni a tempera sull’oro che in Spagna si sarebbero definite a 151 1b 1a 1c 2b 2a 152 2c 2d 2e b a c d a–b – 3 – NAPOLI, CHIESA DI SAN GREGORIO ARMENO, CORNICIONE DEL SOFFITTO SANTA MARTIRE E SANTO VESCOVO, LEGNO INTAGLIATO, DORATO, DIPINTO E GRAFFITO; c–d – INSIEMI E PARTICOLARI estofado, nell’accezione che ora stiamo mettendo a fuoco. Tutte le policromie che decorano sia le partiture decorative che gli intagli dei due soffitti napoletani hanno l’aspetto opaco e intenso della tempera all’uovo, funzionale all’effetto di gigantesca pagina miniata che connota gli eleganti fregi (figg. 1 e 2).61) Le figure scolpite che decorano il cornicione in entrambi i soffitti — veri e propri piccoli reliquiari che vogliono simulare l’oro e lo smalto — sono anche arricchite di piccoli dettagli incisi, un lavoro a ‘sgraffito’ che definiremmo estofado anche nell’accezione più consueta (fig. 3). L’‘Angelo custode’ che si conserva nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli è certamente una delle opere di questo soggetto di maggior qualità e pregio nella decorazione. Pierluigi Leone de Castris lo ha recente- 1 – NAPOLI, CHIESA DI SANTA MARIA DI DONNAROMITA, SOFFITTO LIGNEO – a) VEDUTA D’INSIEME; b) MOTIVI DECORATIVI A GROTTESCHE, TEMPERA SU ORO A GUAZZO; c) SANTA MARTIRE, LEGNO INTAGLIATO, DORATO, DIPINTO E GRAFFITO 2 – NAPOLI, CHIESA DI SAN GREGORIO ARMENO, SOFFITTO LIGNEO a) VEDUTA D’INSIEME; b–e) MOTIVI DECORATIVI A GROTTESCHE, TEMPERA SU ORO A GUAZZO mente collegato ad un documento del 9 settembre 1621 in cui Aniello Stellato (intagliatore) riceveva per Orazio Buonocore (doratore) un pagamento relativo ad un’opera destinata alla chiesa dei Cappuccini di Lucera, oggi perduta, per la «indoratura, saraspratura e pittura di un ‘Angelo Custode’ che li fa come quello della casa Professa del Gesù».62) Il documento testimonia il ruolo di prototipo di questa scultura per la lunga serie di ‘Angeli custodi’ affini a noi noti, anche proprio per la ricca e raffinata policromia, di cui evidentemente Orazio Buonocore era uno dei più esperti specialisti. Come per le botteghe di intagliatori, anche per quelle di pittori–doratori i documenti ci restituiscono numerosi nomi a cui, ancor più che per gli scultori, è quanto mai disperante pensare di collegare opere, per una notevole uniformità, tanto nella ripetizione dei moduli decorativi che nella tecnica esecutiva, che le connota. Un altro ‘Angelo custode’ frequentemente accostato a quello del Gesù è attualmente conservato presso il Museo di Capodimonte (fig. 4); proviene, come due statue di ‘Dolenti’ anch’esse oggi a Capodimonte, dalla chiesa dei Santi Filippo e Giacomo. Con l’esame analitico di queste quattro sculture si è cercato di individuare i caratteri comuni alla produzione napoletana, che presenta caratteristiche costan- 153 4 a–b – NAPOLI, MUSEO DI CAPODIMONTE (DALLA CHIESA DEI SANTI FILIPPO E GIACOMO) – ANGELO CUSTODE, LEGNO INTAGLIATO, DORATO, DIPINTO E GRAFFITO, INSIEME E PARTICOLARE ti, anche negli esemplari esportati in altre regioni meridionali o in Sardegna.63) Per quanto concerne i motivi, si riscontra una gamma relativamente non molto varia di tipologie, già esemplificata nelle ricognizioni sistematiche effettuate in occasione della mostra Estofado de oro e recentemente da parte di Patrizia Staffiero.64) Questa studiosa ha anche individuato due cornici nella Pietà dei Turchini a Napoli che presentano una decorazione 5 – NAPOLI, CHIESA DI SAN DOMENICO MAGGIORE CAPPELLA GESUALDO – CORNICE LIGNEA INTAGLIATA DORATA, DIPINTA E GRAFFITA (PARTICOLARE) 154 dorata e sgraffita con la stessa tecnica adottata per la policromia delle sculture.65) Un altro interessante esemplare di cornice di questo tipo da segnalare è nella chiesa di San Domenico Maggiore, Cappella Gesualdo (già Brancaccio), nella pala rappresentante la ‘Madonna che appare a San Giacinto’ di Giovan Vincenzo Forli, databile al 1595 (fig. 5).66) L’uso di pattern per il trasferimento dei moduli decorativi, se è facilmente ipotizzabile per il ricorrere delle tipologie, non si può affermare con certezza, in assenza di tracce materiali evidenti; va notato, comunque, che non si riscontra la profilatura con lacca dei contorni dei disegni trasferiti dal modello di cui parla Pacheco. Inoltre, diversamente da quanto indicato dal trattatista, le stesure colorate campite sull’oro risultano piatte, senza ulteriori modulazioni di chiaroscuro. Infine nelle opere analizzate non è presente l’imprimitura di colore bianco che tanto Pacheco che Nunes raccomandano di interporre fra l’oro e le stesure colorate, mentre, oltre all’uso di colori opachi, presumibilmente a tempera, si riscontra l’adozione di stesure di lacca rossa e verderame traslucide. In alcuni casi — distesamente sulla ricchissima policromia dell’‘Angelo’ del Gesù (fig. 6), in alcuni dettagli di quello ora a Capodimonte (fig. 4) — sono presenti punzonature eseguite con un semplice strumento dalla punta arrotondata, che paiono imitare più un lavoro di oreficeria che delle stoffe intessute d’oro. Tutto il lavoro di coloritura, sgraffiatura, punzonatura, sembra in effetti tendere più ad un astratto impreziosimento — costantemente condizionato dall’ambizione di simulare i materiali più nobili — che ad un’imitazione naturalistica delle stoffe, su cui in qualche modo Pacheco pone l’accento. Non a caso solo recentemente la datazione di queste sculture è stata ricondotta ai primi 6 a–b – NAPOLI, CHIESA DEL GESù NUOVO ANGELO CUSTODE, LEGNO INTAGLIATO, DORATO, DIPINTO E GRAFFITO: PARTICOLARI DI MOTIVI PUNZONATI CON UNA PUNTA ARROTONDATA 7 – NAPOLI, CHIESA DEL GESù NUOVO ANGELO CUSTODE, LEGNO INTAGLIATO, DORATO, DIPINTO E GRAFFITO: a – PARTICOLARE DI TOBIOLO; b – DETTAGLIO DEI CAPELLI DI TOBIOLO decenni del XVII secolo, mentre precedentemente veniva anticipata alla seconda metà del XVI, per una persistente aderenza ai modi del tardo manierismo.67) Un ultimo dettaglio — anche questo individuato sia nell’‘Angelo’ del Gesù che nelle due ‘Dolenti’, con una notevole identità di caratteristiche esecutive — che si discosta dalle prescrizioni di Pacheco riguarda l’esecuzione della policromia dei capelli, per la quale il trattatista mostra di ricercare la massima naturalezza dell’effetto, rifuggendo l’uso dell’oro, e soprattutto da un suo uso decorativo e innaturale. Nel contestarlo, implicitamente testimonia però la diffusione di un tale modo più arcaico di definire la capigliatura, che consiste nel «rialzare con oro macinato sopra un colore molto scuro in modo che sembrano capelli di bronzo e ottone»,68) esattamente come si riscontra nelle sculture napoletane esaminate, che presentano un’analitica quanto astratta descrizione della capigliatura con fili dorati nettamente accostati ad uno scuro colore caldo (fig. 7). In una delle ‘Dolenti’, inoltre, l’oro sottolinea in maniera ridondante i rilievi dell’intaglio e un bruno molto scuro ne campisce gli incavi, fin sulle ciocche che ricadono sulle spalle (fig. 8). L’effetto che Pacheco trova «sgradevole», sembra qui volutamente ricercato nell’emulazione dei metalli e del lavoro di oreficeria. Questa metafora del bronzo e dell’ottone — o meglio forse del bronzo e dell’oro — è ancora più palesemente presente negli stalli dell’Annunziata,69) dove l’uso dell’oro interviene a completare sapientemente l’intaglio ligneo in noce, il cui colore, appena scurito, mostra il suo profondo tono caldo. Anche se è nota dai documenti la commissione al pittore Giovan Tommaso de Fusco per «indorare e toccare d’oro le spallere dela sacristia» già realizzate,70) è evidente come le dorature si integrino strettamente con le modalità dell’intaglio, teso a descrivere minuti effetti di superficie mutuati dalle tecniche di lavorazione a sbalzo dei metalli. Punzonature dei fondi, incisioni, analitica descrizione di dettagli di natura in chiave del 8 a–b – NAPOLI, MUSEO DI CAPODIMONTE CHIESA DEI SANTI FILIPPO E GIACOMO) – DOLENTE LEGNO INTAGLIATO, DORATO, DIPINTO E GRAFFITO DUE PARTICOLARI (DALLA tutto antinaturalistica, come fiori e fili d’erba o pesci guizzanti fra le onde del mare trasformati in eleganti arabeschi di un impressionante quanto elegante arcaismo, tutto questo è prima ricercato in una finezza di intaglio tutta di superficie, e poi enfatizzato dalle dorature, applicate su una sorta di “pastiglia”, un substrato a base di gesso e colla che, oltre a predisporre il legno ad accogliere l’oro, serve anche a produrre un sensibile spessore, del tutto in sintonia con il gioco di rilievi e incavi descritto dagli intagli (fig. 9). Concludendo, in che misura le descrizioni del trattato di Pacheco possono aiutarci a comprendere la tecnica esecutiva delle sculture coeve conservate in Italia Meridionale? Premesso che non credo si possa mai immaginare che ci fossero artisti che attingevano direttamente e supinamente dai trattati le istruzioni da seguire nella loro arte, e che quindi una comparazione troppo meccanica risulta sempre ingenua e insidiosa, ritengo che il trattato di Pacheco, nel suo intento analiticamente didattico e nella ricchezza e varietà di notazioni rappresenti un documento straordinaria- 155 1638, fu autorizzata nel 1641 e realizzata postuma. Per le citazioni, la cui traduzione italiana è mia, ho consultato l’edizione moderna a cura di B. BASSEGODA I HUGAS, Madrid 1990, a cui faccio riferimento; all’introduzione e alla bibliografia di quest’edizione rimando anche per le notizie biografiche e critiche su Pacheco. Di grande utilità la parziale traduzione inglese e il commento di Z. VELIZ, in Artist’s Techniques in Golden Age Spain. Six treatises in translation, Cambridge 1986, pp. 30–106, che ho costantemente NAPOLI, CHIESA DELL’ANNUNZIATA, SAGRESTIA ARMADI LIGNEI, LEGNO INTAGLIATO E DORATO A GUAZZO SU PASTIGLIA, DUE PARTICOLARI 9 a–b – mente prezioso, soprattutto a fronte dell’assenza pressoché totale di analoghi testi italiani. La comparazione delle nostre opere con le descrizioni dei trattati è stata intrapresa anche nel tentativo di chiarire quanto la tecnica in esse adottata si possa considerare debitrice di un diretto influsso spagnolo. A questo proposito mi sembra di poter affermare che, nell’ambito degli intensissimi scambi con la Spagna, da una parte, con i paesi oltremontani dall’altra e degli indiscutibili reciproci influssi, non si possa semplicisticamente considerare la presenza in una scultura (e tanto meno in un dipinto) di tessuti damascati come il segnale di un influsso spagnolo, né fiammingo. E se è ben più che un luogo comune la straordinaria perizia nell’uso di tutti i più raffinati accorgimenti tecnici del colorire da parte degli artisti del nord Europa, l’intreccio dei loro scambi con l’Italia e con la Spagna è intricato quanto precoce. D’altra parte Cennino Cennini, che non manca di evidenziare quando una tecnica è specifica dei «tedeschi»,71) descrive i «drappi d’oro» con tutta l’analiticità che riserva alle pratiche più consuete e frequentate in Italia: e la produzione pittorica italiana dal XIV al XV secolo ne è una lampante testimonianza. Tanto l’evidenza documentaria e la letteratura artistica quanto le opere stesse testimoniano una realtà molto più complessa, in cui, se è difficile stabilire una precisa derivazione geografica per la tecnica che usiamo chiamare estofado, è ben certo come essa sia stata conosciuta e praticata sin da un’epoca molto remota ed in un’area quanto mai vasta, identificabile con tutta la cultura figurativa occidentale. referenze fotografiche: le foto delle figg. 1–3, 4a sono della Soprintendenza Speciale per il patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il polo museale della città di napoli; le figg. 4b, 5–9 sono dell’Autrice. 1) Cfr. F. PACHECO, El arte de la pintura, su Antiguidad y Grandezas, Descrivense los hombres eminentes que ha avido en ella, asi antiguos como modernos, del dibujo y coloridos [...] y enseña el modo de pintar todas las pinturas sagradas, Sevilla 1649; la pubblicazione del testo, completato nel 156 confrontato nel tradurre il testo spagnolo. Sul trattato cfr. anche S. BORDINI, materia e immagine. Fonti sulla tecnica della pittura, Roma 1991, pp. 87 e 88; Z. VELIZ, Francisco pacheco’s comments on painting in oil, in Studies in conservation, 27, 1982, pp. 49–57; cfr. L. R. RODRIGUEZ SIMON, il trattato di pacheco e la scuola pittorica di Granada, in Kermes, 36, 1999, pp. 36–43. 2) Cfr. PACHECO, op. cit., 1649, p. 498. Su Delgado e Montañés cfr. E. LAFUENTE FERRARI, un nuevo crucifijo en marfil de Gaspar núñez Delgado, in Boletín de la real Academia de Bellas Artes de San Fernando, II, 1, 1953, pp. 17–24; cfr. J. HERNANDEZ DIAZ, Juan martínez montañés, Sevilla 1987; cfr. M. T. DABRIO GONZáLEZ, martínez montañés y la escultura sevillana, Madrid 1993. 3) Cfr. PACHECO, op. cit., 1649, pp. 503–509. 4) ibidem, pp. 460–463. 5) ibidem, pp. 494–502. 6) ibidem, p. 499: «Si darà l’imprimitura con colori delle carni a olio, e un poco di minio o litargirio per siccativo su tutto ciò che deve ricevere la encarnacione de mate»; evidentemente Pacheco aveva messo a frutto anche nella policromia delle sculture l’utilizzo delle proprietà siccative di queste sostanze diffusesi all’inizio del Seicento in pittura per consentire di tornare più volte a rifinire le stesure senza ottenere una superficie eccessivamente lucida. 7) ibidem: «come si imita il naturale in una testa di un ritratto ben fatta e si fanno le tinte e i tocchi preziosi per occhi e bocca e la morbidezza dei capelli, si può sulla buona scultura fare altrettanto con ammirazione, come riconoscono tutti quelli che vedono ciò che ho dipinto en mate». 8) ibidem, pp. 494–496. Il procedimento prevede una preparazione composta da numerose mani di gesso grosso e gesso sottile, seguite da una o due mani di biacca macinata in acqua con colla di guanti, e infine una mano di colla di ritagli che serve da imprimitura. Sopra di essa, una volta asciutta, si applica l’incarnato, con biacca macinata con olio grasso [olio di lino parzialmente resinificato tramite cottura o esposizione al sole, di cui descrive la preparazione], a cui si aggiungono vermiglione ed eventualmente ocra rossa e gialla. Possibilmente, i lineamenti vanno eseguiti sul colore ancora fresco: «Se gli occhi, le sopracciglia e la bocca si «apriranno» sul colore fresco, sarà meglio, perché tutto si secca e si assesta uniformemente con lustro, ma se non si ha sufficiente destrezza in questo, si eseguiranno dopo che l’incarnato sarà asciutto. I pezzetti di cuoio [coretes] per la politura, bianchi e di guanti, si devono tenere in acqua per almeno due giorni, infilandone uno sulla punta di un dito e tenendo l’altro libero, una parte del quale si potrà avvolgere sopra un pennello per polire le cavità; prima di ciò [il colore] si distende con un pennello ruvido, spargendolo e pareggiandolo». Al posto dell’olio, si può anche usare la vernice adoperata dai guadamencileros (decoratori del cuoio), a base di olio di lino cotto e sandracca, di cui dà la ricetta assieme a quella di diverse altre vernici alla fine del capitolo (pp. 502 e 503). 9) ibidem, p. 496. 10) ibidem, p. 499. 11) Nel gruppo della ‘Vergine’ e ‘San Giuseppe’ proveniente dalla chiesa di San Giuseppe dei Falegnami a Napoli e ora nel Museo di San Martino, si rileva l’assenza di uno strato preparatorio di gesso e colla e le policromie sono limitate ad una sottilissima stesura di colore ad olio, cfr. la documentazione del restauro e delle indagini scientifiche presso il Centro documentazione restauro della Soprintendenza Speciale PSAE e per il Polo Museale della Città di Napoli. Questa scultura è stata analizzata da chi scrive nella sperimentazione della scheda di rilevamento elaborata nell’ambito del progetto ARTPAST (www.artpast.org) da Clara Baracchini con la collaborazione di alcune soprintendenze e presentata al convegno per un corpus della scultura lignea, Pisa, ottobre 2007. L’apprezzamento del Summonte sul nolano (cfr. F. NICOLINI, l’arte napoletana del rinascimento e la lettera del Summonte a marcantonio michiel, Napoli 1925, p. 169) è richiamato fra gli altri da R. CASCIARO, Due botteghe a confronto, intaglio e policromia nelle sculture di Gaetano patalano e nicola Fumo, in la statua e la sua pelle. Artifici tecnici nella scultura dipinta tra rinascimento e Barocco, a cura di R. CASCIARO, Galatina 2007, pp. 229 e 230, commentando l’esiguità degli strati di policromia osservabile negli scultori successivi. 12) Cfr. M. RICHTER, S. SCHäFER, A. VAN LOON, El tratado ‘arte de la pintura’ de Francisco pacheco y su influencia en la técnica de ejecución de las encarnaciones en la escultura alemana del siglo XViii: primeros resultados obtenidos de análisis avanzados realizados en micromuestras, in investigación en conservación y restauración, Barcelona 2005, pp. 225–234. 13) La pratica, ancora in uso presso alcuni “pastorai”, di passare un pennello morbido bagnato d’acqua sopra la stesura ancora fresca di incarnato ad olio per lucidarla, è probabile derivi da una tradizione molto antica. Questa ipotesi mi viene confortata dal parere di Teodoro Fittipaldi — che ringrazio per la proficua conversazione che mi ha concesso su questo tema — che riferisce inoltre di aver raccolto la testimonianza relativa a questa pratica da un vecchio scultore, oggi defunto, già attivo in una bottega di San Gregorio Armeno a Napoli. Lo stesso studioso mi faceva notare come la tecnica utilizzata per l’arte presepiale si identifichi con quella della scultura policroma “maggiore”, rispetto alla quale non è opportuno operare alcuna distinzione né di tecnica né di stile. Anche gli incarnati delle sculture del primo Seicento che analizzeremo più avanti è probabile siano eseguite con questa tecnica. Oil painting, I, London 1847 (ristampa anastatica con il titolo methods and materials of the Great Schools and masters, New York 1960), pp. 30–60. Cfr. C. CENNINI, il libro dell’arte, a cura di F. BRUNELLO, Vicenza 1971, pp. 99–101, che descriveva la preparazione dell’olio ispessito per cottura o per esposizione al sole in maniera del tutto analoga a quanto fa Pacheco; questo tipo di olio, poco adatto per la sua consistenza densa e per la lentezza di essiccazione ad un uso raffinato in pittura, era adoperato fin da un’epoca molto antica per vari usi decorativi. 16) Cfr. RICHTER, SCHäFER, VAN LOON, op. cit., 2005, p. 226; cfr. DABRIO GONZáLEZ, op. cit., 1993, passim; cfr. anche R. H. RANDALL Jr., Flemish influences on Sculpture in Spain, in The metropolitan museum of Art Bulletin, 10, 1956, p. 258. 17) Cfr. PACHECO, op. cit., 1649, p. 500. In polemica con gli scultori e in difesa delle prerogative dei pittori nei confronti degli scultori nella contrattazione della coloritura e doratura delle sculture Pacheco aveva pubblicato nel 1622 l’opuscolo A los profesores de la pintura, cfr. ibidem, p. 14. 18) ibidem, p. 498. 19) ibidem, p. 499. 20) Cfr. L. GRASSI, M. PEPE, Dizionario della critica d’arte, II, Torino 1978, p. 180: «Parola spagnola che si riferisce ad una particolare tecnica, per riprodurre in maniera illusiva l’effetto di una stoffa (estofa “materiale tessuto”) sulle vesti cesellate dei personaggi in una pala d’altare, o su una scultura intagliata in legno e policromata». 21) Cfr. la definizione nell’«indice de los tèrminos privativos del àrte de la pintura, y sus definiciones segùn el orden alfabetico con la versiòn latina, en beneficio de los extranjeros» in A. PALOMINO DE CASTRO Y VELASCO, El museo pictòrico y escala òptica, Madrid 1715–1724, ed. cons. reprint Madrid 1947, III, p. 1152: «ESTOFADO, par. p. – Cosa eseguita con le particolari qualità dell’estofar. ESTOFAR, v. a. – Dipingere sopra l’oro brunito alcuni rilievi a tempera, come riquadri, germogli, cariatidi [bichas], etc. E anche colorire sopra la doratura alcuni intagli [cosas de talla]. – Lat. pingere in auro». Fra le descrizioni dei procedimenti nel trattato di Palomino non ci sono invece istruzioni sull’estofado poiché la tecnica doveva essere ormai desueta. 14) Cfr. PACHECO, op. cit., 1649, p. 502: «Alla fine, quando i volti sono ben asciutti, dopo avere applicato l’incarnato matto, su qualsiasi materia, viene bene verniciare gli occhi solamente con una vernice d’ombra molto limpida; è consigliabile la vernice di chiara d’uovo per questo, data due volte, perché, essendo tutto il resto matto, le figure sembrano vive e il loro cristallino risplende». 22) Alla produzione di sculture lignee caratterizzate da sontuose decorazioni di questo genere è stata dedicata una mostra con sedi a Cagliari e Sassari, cfr. il catalogo Estofado de oro. la statuaria lignea nella Sardegna spagnola, Cagliari 2001. A questo tema sono stati dedicati diversi studi da parte di Patrizia Staffiero, cfr. P. STAFFIERO, Appunti per uno studio della scultura lignea, in Simulacri sacri: statue in legno e cartapesta del territorio c.r.S.E.c. di ugento, a cura di R. POSO, Taviano 2000, pp. 29–39; EADEM, l’Angelo custode dei mollica, in Kronos, 4, 2002, pp. 127–136; EADEM, la bottega dei mollica e la scultura lignea napoletana tra XVi e XVii secolo, in l’arte del legno in italia: esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno (Pergola 9–12 maggio 2002), a cura di G. B. FIDANZA, Perugia 2005, pp. 227–242. 15) Questa l’interpretazione più probabile per le prescrizioni di Theophilus (XII secolo) quando dice di usare colori macinati con olio di lino per le «mixturas vultuum ac vestimentorum»; cfr. C. L. EASTLAkE, materials for a History of 23) Cfr. Estofado de oro ..., cit., 2001, p. 262, documento riferito a Giuseppe De Rosa, del 17 luglio 1620: «Al governatore Giovan Domenico Silos della Compagnia di Gesù ducati 27 e per esso a Giuseppe De Rosa a compimento di 157 ducati 87 per final pagamento dell’indoratura, graffiatura, coloritura di un San Michele arcangelo con un tabernacolo e tre para di angeli colli candelieri, ogni cosa di legno, che servono per la chiesa del Collegio di Cagliari in Sardegna». 24) Una rassegna ricchissima dei notevoli esempi superstiti è in R. CASCIARO, la scultura lignea lombarda del rinascimento, Milano 2000. Estremamente significativo, oltre all’evidenza delle opere, quanto descritto nel contratto per la coloritura dell’ancona scolpita da Giacomo del Maino per la cappella dell’Immacolata in San Francesco Grande a Milano la cui notorietà è legata alla ‘Vergine delle rocce’ di Leonardo che originariamente ne faceva parte. Vi si richiedono dorature e decorazioni a sgraffito, con l’indicazione precisa dei colori e della tecnica da adottare per dorare e dipingere i diversi rilievi elencati: la veste della Vergine di «broccato doro azurlo tramarino»; «li zarafini poste de senaprio scraffiati», «lo deo padre la vesta de sopra brocato doro tramarino», cfr. ibidem, pp. 74 e 75. 25) Cfr. CENNINI, op. cit., 1971, capitolo CXLI, come dèi fare un drappo d’oro o negro o verde, o di qual colore tu vuoi, in campo d’oro; capitolo CXLII, come si disegna, si gratta, e si grana un drappo d’oro o d’argento; capitolo CXLIII, in qual modo si fa un ricco drappo d’oro o d’argento o di azzurro oltremarino, pp. 143–146. 26) ibidem, p. 143: «Se vuoi fare un mantello o una gonnella o un cuscinello di drappo d’oro, metti l’oro con bolio […]. Poi, se vuoi fare il drappo rosso, campeggia questo cotale oro brunito, con cinabro. Se bisogna dargli scuro, dagliele di lacca; se bisogna biancheggiallo, dagliele di minio, tutti temperati di rossume d’uovo». 27) ibidem: «Ma se gli volessi fare d’un bello azzurro oltremarino, campeggia prima l’oro con biacca temperata con rossume d’uovo». Vedremo che Pacheco prescrive invece questo accorgimento per tutti i colori. 28) ibidem, pp. 143 e 144: « Poi, secondo i drappi che vuoi fare, secondo fai i tuo’ spolverezzi; cioè dèi disegnarli prima in carta, e poi forargli con agugella gentilmente. S’egli è drappo bianco, spolvera con polvere di carbone legato in pezzuola; se ‘l drappo è nero, spolvera con biacca, legata la polvere in pezzuola; e sic de singulis. Fa’ i tuo’ modani, che rispondano bene ad ogni faccia». 29) ibidem, p. 144: «punzìo, come stile proprio da disegnare, dall’un de’ lati; dall’altro, pianetto da grattare. E colla punta di questo cotale stile va’ disegnando e ritrovando tutti i tuo’ drappi; e coll’altro lato dello stile va’ grattando,e gittandone giù il colore». 30) ibidem, pp. 144 e 145: «e quello che scuopri, quello con la rosetta grana poi. E se in certi trattolini non puo’ mettere la rosetta, abbi solo un punteruolo di ferro che abbi punta come uno stile da disegnare». brunito, che chiamarono estofado, nella quale andarono introducendo i leggiadri capricci delle grottesche usate dagli antichi, di cui parleremo per primo; le quali sono nuove in Spagna, e anche in Italia non è da molto che furono fatte risorgere, dopo lunghi anni; benché Vitruvio le riprendesse come chimere improprie e, fra le altre ragioni, dicesse: non devono essere approvate le pitture che non sono somiglianti alla verità. Con tutto ciò, nelle parti dove le usarono gli antichi hanno ornamento e leggiadria». 33) ibidem, p. 461: «Da qui penso che si arricchirono Julio [Julio de Aquiles = Giulio Aquili, documentato in Spagna dal 1533 al 1545] e Alejandro [Alessandro Mayner, documentato a Granada nel 1537] — se pure non furono discepoli di Raffaello e Giovanni da Udine — i quali uomini valenti vennero dall’Italia a dipingere gli appartamenti di los Cobos, Segretario dell’Imperatore, nella città di Ubeda e da lì nella Casa Real del Alhambra a Granada (nell’una e nell’altra dipinsero parte a tempera e parte a fresco). È stata questa pittura che ha offerto la buona luce che oggi si tiene e dalla quale hanno tratto profitto tutti i grandi ingegni spagnoli, Pedro Raxis, Antonio Mohedano, Blas de Ledesma e molti altri che si sono beneficiati in questo senso; e anche Antonio de Arfian, che cominciò in questa città [Siviglia] a elevare il genere dell’estofado, a imitazione di quello di Julio, come si vede in molte sue opere, particolarmente in due ornamentazioni di colori sul bianco, nell’altare di San Josef della Casa Profesa». 34) ibidem, p. 462. 35) Cfr. Estofado de oro ..., cit., 2001, p. 93, nota 1. 36) ibidem: «e tutto era [decorazione eseguita a ] punta di pennello, solo punta di pennello, senza altra preoccupazione che riempirne le opere, col che a loro pareva di sopravanzare gli altri, senza servirsi di altri generi di disegni incisi, tessuti o fantasie a fiorami che imitino il naturale; altri, al contrario, hanno bandito le grottesche e germogli e cose vive, e tutto è catalufas [disegni geometrici come quelli dei tappeti], fiori, arabeschi, e incisioni, rifuggendo costoro dalla fatica e dall’impegno inventivo richiesti dalle cose basate su studio, invenzione e disegno. Questo fanno quelli di Castiglia, e io lo ho visto in Madrid (quei due anni che ho vissuto lì [1624–1625]), dove si ha pochissima conoscenza delle cose di Granada e si seguono altri modi di ornamento, fuori dalla buona maniera». 37) Cfr. PACHECO, op. cit., 1649, p. 462; più avanti aggiungerà: «Sono ammessi in questo genere di tempera tutte le differenze di tinte delle quali abbiamo parlato a sufficienza nel capitolo precedente, e tutte quelle che si usano nella miniatura». Tutte le indicazioni sulla preparazione dei colori (p. 458) ed anche per la macinatura dell’oro e dell’argento ‘in conchiglia’ (pp. 458 e 459) sono fornite nella precedente trattazione relativa alla miniatura. 38) ibidem. 31) ibidem, pp. 145 e 146: «Mettere il campo d’oro, disegnarvi il lavoro che vuoi, campeggiare ne’ campi d’un verderame ad olio […]. Mettere il vestire d’argento; disegnare il tuo drappo quando hai brunito (ché così s’intende sempre), campeggiare il campo, o vero lacci, di cinabro temperato pur con rossume d’uovo; poi di una lacca fine ad olio ne da’ una volta o due sopra ogni lavorìo, sì come laccio in campo». 39) Cfr. F. NUNES, Arte poetica, e da pintura e symetria, com principios da perspectiva, Lisbona 1615; ho potuto consultare solo la traduzione inglese di Z. VELIZ, in Artist’s Techniques, op. cit., 1986, pp. 3–19. Questa la parte sintetica ma esauriente che dedica all’estofado: «Come si lavora l’estofado su una singola figura. I disegni a estofado per figure 32) Cfr. PACHECO, op. cit., 1649, p. 460: «Splendida fu l’invenzione che trovarono i vecchi pittori per adornare le figure di rilievo e l’architettura dei retablos dorati di oro o panneggi e tutto quello che vuoi, si devono lavorare solo su oro brunito. Si fanno in questo modo: applica per prima cosa uno o due strati di bianco di piombo mescolato con 158 rosso d’uovo sopra l’oro che vuoi lavorare a estofado. Prepara il tuorlo rimuovendo l’albume; aggiungi una goccia di acqua al tuorlo e sbattilo molto bene. Mescola i colori con questo come se fosse colla o gomma. Dopo aver applicato questi strati di biacca, lasciando le figure molto bianche, colora una forma di damasco o di tessuto con fantasie di fiori e foglie, con piccoli uccelli, o qualunque cosa desideri. I colori per la miniatura mescolati con il tuorlo d’uovo ti serviranno per questo. Essi servono anche per rialzare i chiari. Quando tutto il lavoro di pennello si è asciugato, gratta via e ‘apri’ il colore con uno stilo di legno o di argento, o con qualunque strumento appuntito che preferisci, rivelando così l’oro dove ti piaccia. Per fare delle figure di carciofo come quelle dei broccati, fai uno strumento di ferro come un punzone nella forma che ti piace e realizza il disegno punzonato con esso. Se l’oro non accoglie molto bene la biacca, mescolaci dentro un poco di fiele». 40) Cennini consigliava questo accorgimento per le sole stesure azzurre, cfr. supra, nota 25. 48) ibidem, p. 508: «È anche bene sapere, fra l’altro, che si può estofar sopra argento brunito, facendolo apparire come l’oro. Sistemato il pezzo argentato al sole, gli si daranno due o più mani di doratura, finché non imiterà il colore brillante dell’oro. Poi, una volta asciutto, con un pennello morbido gli si darà una mano di urina e, quando secco, si potrà estofar come sull’oro e grattare e incidere senza timore che saltino i colori; questo si pratica in molte parti della Castiglia, o per risparmiare oro, o in sua mancanza». 49) ibidem, pp. 503–509; il procedimento per la preparazione del mordente era stato illustrato da Pacheco precedentemente a proposito della pittura su seta (pp. 492 e 493). 50) Cfr. P. LEONE DE CASTRIS, Sculture in legno di primo Seicento in Terra d’Otranto, tra produzione locale e importazioni da napoli, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, napoli e la Spagna, catalogo della mostra (Lecce, 16 dicembre 2007 – 28 maggio 2008), a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma 2007, pp. 19–47. IDEM, nomi e date per la 41) Cfr. N. kHANDEkAR, M. SCHILLING, A technical examination of a seventeenth–century polychrome sculpture of St. Gines de la Jara by luisa roldan, in Studies in conservation, 46, 2001, pp. 23–34. Sulla stessa scultura cfr. anche R. WESTMORELAND, T.A. HERMANÈS, Examination and treatment of a seventeenth–century Spanish polychrome sculpture by Jose caro, in conservation of the iberian and latin American cultural Heritage, a cura di H. W. M. HODGES, J. scultura in legno di primo Seicento fra napoli e le province: dai busti del Gesù a quelli di Tricarico, in Scultura meridionale in età moderna nei suoi rapporti con la circolazione mediterranea, Atti del convegno (Lecce, 9–11 giugno 2004) S. MILLS, P. SMITH, London 1992, pp. 175–178. 52) Cfr. la documentazione del restauro e delle indagini scientifiche presso il Centro documentazione restauro della Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Napoli. Anche questa scultura è stata analizzata da chi scrive nell’ambito della sperimentazione della scheda di rilevamento, cfr. nota 11. 42) Questa modalità si desume nella minuziosa descrizione della ricchissima policromia a estofado di cui Pacheco aveva rivestito — durante un suo soggiorno a Madrid — una scultura raffigurante la ‘Nuestra Señora de la Espectaciòn’ per la contessa de Olivares, cfr. PACHECO, op. cit., 1649, p. 463. 43) ibidem, p. 462. 44) ibidem, p. 503. 45) ibidem, p. 499. 46) Cfr. L. B. ALBERTI, De pictura, 1436, in Opere volgari, ed. a cura di C. GRAYSON, III, Bari 1973, p. 102: «Trovasi chi adopera molto in sue storie oro, che stima porga maestà; non lo lodo. Et benché dipingesse quella Didone di Vergilio ad cui era la pharetra d’oro, i capelli aurei nodati in oro et la veste purpurea cinta pur d’oro, freni al cavallo et ogni cosa d’oro, non però ivi vorrei punto adoperassi oro però che, ne i colori imitando i razzi del oro, sta più admirazione et lode al artefice». 47) PACHECO, op. cit., 1649, p. 499: «alcuni sono soliti rialzare con oro macinato sopra un colore molto scuro in modo che sembrano capelli di bronzo e ottone, poiché si deve tener conto che i lumi dei capelli devono essere della stessa specie di colore di tutta la capigliatura e che l’oro, come ultima luce, si deve unire con ciò che è sotto, come succede nei capelli biondi nella buona pittura. Io lo ho usato, non però velato, piuttosto dato a piccole pennellate [peleteado] al posto del colore chiaro; per quanto ora non userei oro per niente, potendo con i colori imitare ciò che voglio. Infatti, parlando in generale di pittori che si aiutano con l’oro nei dipinti (come faceva Roelas) [Juan de Roelas, circa 1559–1625], Leon Battista Alberti dice sapientemente: …»; a sostegno di questa affermazione, cita quindi il passo di Leon Battista Alberti. a cura di L. GAETA, II, Galatina 2007, pp. 5–16. 51) Mi riferisco all’adozione di un’imprimitura a base di biacca da stendere sotto i colori. 53) Cfr. M. I. CATALANO, il tema dell’avvento: storiografia, tracce materiali, restauri, in il presepe. le collezioni del museo di San martino, Napoli 2005, p. 50. Anche per queste sculture la documentazione del restauro e delle indagini scientifiche è consultabile presso il Centro documentazione restauro della Soprintendenza. 54) ibidem, pp. 50–59; Maria Ida Catalano riporta per esteso e commenta l’interessante descrizione delle policromie presente nel contratto. Il documento, già ricordato da R. PANE, il rinascimento nell’italia meridionale, II, Milano 1977, p. 164, è citato anche da M. G. SCANO NAITZA, in Estofado de oro ..., cit., 2001, p. 23. 55) Cfr. Documenti per la storia le arti e le industrie delle provincie napoletane, raccolti e pubblicati per cura di Gaetano Filangieri, V, Napoli 1883–1891, p. 59: Pietro Bofulco (sic), che è definito «pittore, intagliatore e doratore», per la cappella di Santa Marta a Napoli si impegna a «costruire un tabernacolo per porvi la cona dell’altare maggiore indorandone la cornice, le figure e i campi di queste, come pure l’ornamento». 56) Cfr. C. VARGAS, Teodoro d’Errico e la maniera fiamminga nel Viceregno, Napoli 1988, passim. 57) Cfr. ibidem, appendice documentaria a cura di A. DELFINO, pp. 159 e 160. Il Magliulo, interessante figura di cui è nota l’attività di orafo e incisore, viene pagato «per tutti i disegni che ha fatto e per le sue fatighe», che forse includevano anche una sorta di supervisione nella realizzazione dell’artico- 159 lato progetto. Una messa a fuoco della poliedrica personalità del Magliulo è ora in S. DE MIERI, Girolamo imparato (1549 ca. 1607) ed altre questioni del tardo cinquecento napoletano, Tesi di Dottorato di Ricerca, XVII ciclo, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, a.a. 2004–2005, pp. 75–83; lo stesso autore ipotizza anche un protrarsi dell’esecuzione del soffitto di San Gregorio oltre il 1580–1582 (pp. 55 e 56). 58) Cfr. VARGAS, op. cit, 1988, appendice documentaria a cura di A. DELFINO, p. 159. 59) Su Ferraro e Vigliante cfr. l’intervento di Maria Ida Catalano in questo volume. 60) VARGAS, op. cit, 1988, p. 160; il compenso si riferisce alla sola mano d’opera, poiché la fornitura dell’oro (per 457 ducati) è oggetto di un diverso pagamento destinato a «mastro marino battitor de oro». 61) Anche l’accurata relazione di restauro del soffitto di Donnaromita — conservata presso il Centro Documentazione Restauro della Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Napoli — descrive il legante delle decorazioni come tempera. Ringrazio Simone Colalucci, che ha condotto il restauro, per la disponibilità con cui mi ha consigliata e mi ha fornito alcune sue foto del soffitto. Un riferimento alla miniatura, in particolare a Giulio Clovio, era stato proposto da Vargas (ibidem, pp. 34 e 47), relativamente al repertorio delle decorazioni intagliate e all’impaginazione dei dipinti entro cartigli. Va notato, inoltre, che anche questi ultimi elementi, come l’impianto complessivo dell’insieme decorativo, sono con tutta probabilità frutto dell’ideazione di Giovan Andrea Magliulo, cfr. DE MIERI, op. cit., pp. 82 e 83. 62) Cfr. Sculture di età barocca ..., cit., 2007, p. 30 e nota 43; p. 160, scheda 5. 63) Anche per queste opere, oltre ad un esame diretto, ho consultato il Centro documentazione restauro della Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Napoli. Le sculture sono state oggetto di studio da parte di STAFFIERO, op. cit., 2002, p. 133; EADEM, op. cit., 2005, pp. 235–237; per i motivi che ho esposto, preferisco non addentrarmi nella complessa e controversa problematica attributiva connessa a queste opere. 64) Cfr. Estofado de oro ..., cit., 2001, pp. 85–93; cfr. P. STAFFIERO, modelli di decorazione a ‘estofado’ nella scultura 160 lignea napoletana tra cinquecento e Seicento, in la statua e la sua pelle ..., cit., 2007, pp. 153–164. 65) ibidem; una incornicia la ‘Trinitas terrestris’ di Battistello Caracciolo, l’altra l’‘Annunciazione’ di Belisario Corenzio, già precedentemente commissionata a Giovan Vincenzo Forli, che si era rivolto a Nunzio Maresca per la fattura di una cornice nel 1621. 66) La data è stata rilevata da C. Restaino in un’iscrizione presente in cappella, cfr. C. RESTAINO, Giovan Vincenzo Forli, ‘pittore di prima classe nei suoi tempi’, in prospettiva, 48, 1987, pp. 33–51. 67) Questa la datazione individuata per le quattro sculture nelle schede redatte da Ferdinando Bologna per le due ‘Dolenti’ (scheda n. 81, pp. 181 e 182) e da Raffaello Causa per i due ‘Angeli custodi’ (scheda n. 85 e n. 86, p. 186) nel catalogo della storica mostra Sculture lignee nella campania, Napoli 1950. 68) Cfr. PACHECO, op. cit., 1649, p. 499: «Alcuni usavano dorare di “oro mate” [oro a mordente] i capelli dei santi e dei bambini, scurendoli poi con terra d’ombra d’Italia a olio; ora si è abbandonato questo modo […]. Vediamo spesso dei capelli definiti in maniera sgradevole in certi Bambini, dove alcuni sono soliti rialzare con oro macinato sopra un colore molto scuro in modo che sembrano capelli di bronzo e ottone, poiché si deve tener conto che i lumi dei capelli devono essere della stessa specie di colore di tutta la capigliatura e che l’oro, come ultima luce, si deve unire con ciò che è sotto, come succede nei capelli biondi nella buona pittura». 69) Cfr. L. GAETA, le sculture della sagrestia dell’Annunziata a napoli: nuove presenze iberiche nella prima metà del cinquecento, Galatina 2000. Rimando a questo testo per le notizie sulle complesse vicende connesse alla realizzazione dell’opera e per i relativi riferimenti bibliografici; cfr. in proposito anche l’intervento di Maria Ida Catalano in questo volume. 70) ibidem, pp. 32, 81 e 82; appendice documentaria, pp. 93–95. Il contratto è datato 24 settembre 1579. Cfr. anche l’intervento di Maria Ida Catalano in questo volume. 71) Cfr. CENNINI, op. cit., 1971, capitolo LXXXIX, pp. 97 e 98, dove a proposito della pittura a olio afferma che «l’usano molto i tedeschi». Cfr. quanto osserva F. Frezzato nella sua introduzione alla recente riedizione da lui curata, C. CENNINI, il libro dell’arte, Vicenza 2003, p. 25. SOMMARIO Introduzione di GIOvAn BAttIStA FIdAnzA, LAuRA SpeRAnzA, MARISOL vALenzueLA 1 ALeSSAndRO tOMeI, Materia e colore nella scultura lignea medievale 3 GAetAnO CuRzI, Le Madonne della Maiella: struttura e culto 15 eLISABettA SOnnInO, Il restauro di alcune sculture lignee policrome centro meridionali. 27 SILvA CuzzOLIn, Tecniche esecutive dei supporti di quattro sculture lignee marchigiane 39 peteR StIBeRC, Ricerca anatomica e innovazioni nelle tecniche costruttive della scultura lignea 49 teReSA peRuSInI, Costruzione dei supporti nelle sculture lignee friulane dei secoli XV e XVI: 63 vALeRIA e. GenOveSe, «Gangherato in modo che si snodava per tutte le bande». Note tecniche 87 CRIStInA GALASSI, La tecnica delle sculture polimateriche della bottega di Nero Alberti da Sansepolcro: 95 Note sulle decorazioni a foglia di stagno e riflessioni sulle procedure dell’intervento realizzate tra il XIV e il XVII secolo fiorentina del Quattrocento esemplari nord e subalpini a confronto sulla manipolazione cultuale di due sculture inedite d’ambiente senese della prima metà del secolo XVI indagini diagnostiche e analisi delle fonti AntOnIO CuCCIA, Francesco Trina: la singolare esperienza di uno scultore veneziano del legno in Sicilia 115 MARIA IdA CAtALAnO, Per l’Arte delli mastri d’ascia della città di Napoli: Nunzio Ferraro 133 AnGeLA CeRASuOLO, estofado e policromie: osservazioni sulla tecnica attraverso la testimonianza 147 pIeRLuIGI LeOne de CAStRIS, Verità istorica, realismo, fasto, decoro, nobiltà ed emulazione del metallo prezioso. 161 GIAnCARLO FAtIGAtI, Documenti e indagini scientifiche a confronto: la produzione dei busti reliquario 171 FRAnCeSCO FedeRICO MAnCInI, Nella bottega di «Mastro Lionardo scultore franzese» 183 GIOvAn BAttIStA FIdAnzA, Sistemi di assemblaggio e risultati formali: alcuni casi seicenteschi 199 MARIA dOnAtA MAzzOnI, Considerazioni di tecnica costruttiva e decorativa di alcune sculture lignee 211 MARISOL vALenzueLA, Il complesso presepiale settecentesco di Imperia e una scultura tardo quattrocentesca 221 dORA CAtALAnO, Virtuosismi ed invenzioni nella tecnica di uno scultore del Settecento: il caso Paolo Di Zinno 231 GIuSeppInA peRuSInI, La scultura lignea dell’Ottocento nel Friuli–Venezia–Giulia: storia e tecniche 239 ALFRedO BeLLAndI, I “materiali” in viaggio: osservazioni sulle modalità di trasporto di alcune sculture 255 nICOLA MACChIOnI, Tecnologia del legno e sistemi costruttivi e di lavorazione nella statuaria 261 Abstracts 267 e Giovan Battista Vigliante tra fine Cinquecento ed inizio Seicento di Francisco Pacheco Fortuna e caratteri di statue e busti-reliquario a Napoli e nelle province tra fine Cinquecento e inizio Seicento a Napoli all’inizio del XVII secolo napoletane tra Sei e Settecento. La tecnica degli occhi di vetro di ambito napoletano fiorentine in legno del Rinascimento