Сергей Донатович Довлатов Sergej Donatovič Dovlatov, detto Mečik, nasce il 3 settembre 1941 a Ufa, dove la sua famiglia venne evacuata da Leningrado all'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Vissero per tre anni nella casa per i Commissariato del Popolo per gli Affari Interni (NKVD). Nel 1944 la famiglia tornò a vivere a Leningrado, dove i genitori erano parte attiva della comunità artistica: sua madre, Nora Stepanovna Dovlatova, donna di origini armene, si occupava della correzione delle bozze delle opere teatrali; mentre suo padre, Donat Isaakovič Metčik, ebreo, era un direttore teatrale. Dovlatov studiò al Dipartimento di lingua finlandese presso la Facoltà di Linguistica dell'Università Statale di Leningrado, che abbandonò dopo circa due anni e mezzo. Durante questo periodo ebbe occasione di entrare in contatto con alcuni poeti contemporanei, tra cui Josif Brodskij e lo scrittore Sergej Vol'f. Successivamente venne arruolato nell'esercito e per tre anni prestò servizio come guardia di prigione militare nella Repubblica di Komi. Questa esperienza verrà in seguito narrata nell'opera “Regime speciale. Appunti di un sorvegliante” (Зона: Записки надзирателя, 1982). Iniziò poi a lavorare come giornalista: prima in alcune riviste e giornali di Leningrado, poi trasferitosi a Tallin, in Estonia, lavorò come corrispondente per i giornali "Sovetskaja Estonia" e "Večernij Tallin". Durante la stagione estivsa integrò il suo stipendio facendo la guida nella Riserva di Puškin, un museo nei pressi di Pskov, nella Russia nordoccidentale. Su questa esperienza verrà incentrata l'opera “Il Parco di Puškin” (Заповедник, 1983). Nel 1975 tornò a Leningrado, dove scrisse per il giornale "Kostër". Numerosi furono i tentativi di pubblicare i suoi romanzi nell'Unione Sovietica, ma nessuno andò a buon fine. Decise quindi di pubblicare attraverso copie clandestine (самиздат), riuscendo a pubblicare nel 1976 le sue prose in alcune riviste occidentali in lingua russa, come “Kontinent” e “Vremja i my”. Tutto ciò gli costò l'espulsione dall'Unione dei Giornalisti dell'URSS. L'edizione del suo primo libro venne inoltre distrutta dal Comitato per la Sicurezza dello Stato (KGB). Nel 1978 emigrò a Vienna con la madre Nora. L'anno successivo si recò negli Stati Uniti, a New York, per raggiungere la moglie Elena e i figli Katherine e Nicholas. Qui lavorò con un giornale di emigrati ebrei in lingua russa di ispirazione liberale, il "Novyj amerikanec". A metà degli anni ottanta ricevette finalmente un riconoscimento come scrittore, in seguito alla pubblicazione nella famosa rivista “The New Yorker”. Dovlatov muore il 24 agosto 1990 a New York, a causa di un arresto cardiaco. E' stato sepolto al cimitero ebreo Mount Hebron Cemetery di New York. Durante i vent'anni trascorsi all'estero come immigrato, Dovlatov riuscì a pubblicare dodici libri in Europa e negli Stati Uniti. Numerose sue raccolte di racconti brevi vennero pubblicate in Russia solo dopo la morte e la dissoluzione dell'Unione Sovietica, grazie all'avvento della Perestroika, diventando molto popolare e apprezzato. Prima di allora, infatti, lo scrittore era noto solo per le sue opere samizdat e per la collaborazione con l'emittente radiofonica Radio Liberty. La peculiarità delle opere di Dovlatov sta nella forte ironia e l'umorismo con cui l'autore rappresenta il mondo. Vi è infatti, secondo lui, un legame inscindibile tra realtà e assurdo. L'umorismo diviene lo strumento attraverso il quale conoscere la realtà. Da questo punto di vista, nelle sue opere possiamo trovare un largo uso della battuta umoristica. Dovlatov è stato definito da alcuni uno scrittore realista, in quanto attraverso uno stile semplice, chiaro e preciso, descrive la realtà che lo circonda ed il suo rapporto con essa. Tuttavia non si limita a riproporla così come gli si presenta davanti, ma filtrata dal suo sguardo critico. Ad esempio, nell'opera “Regime speciale. Appunti di un sorvegliante” (Зона: Записки надзирателя, 1982) l'autore-narratore fornisce una visione del mondo secondo la quale non si riesce ad individuare un confine netto tra bene e male, spesso risultano confusi, la morale è distorta. Non è così semplice come la divisione tra innocenti e colpevoli. Tra le opere più famose e apprezzate di Dovlatov, troviamo “Il Parco di Puškin” pubblicato nel 1983, un romanzo autobiografico, in quanto nasce dall’esperienza diretta dello scrittore. Il protagonista è Boris Alichanov, uno scrittore fallito che decide di andare a lavorare durante l’estate come guida turistica nel parco-museo di Puškin. Viene così introdotto il tema del culto organizzato, in cui sembra che la cosa più importante non è conoscere a fondo le opere di Puškin, quanto apprezzarlo e venerarlo: ai turisti non importano le sue opere o ciò che ha fatto, ma poter dire di aver visitato quel luogo. Per questo Alichanov può sbagliare o cambiare citazioni di Puškin senza che nessuno se ne accorga. Tuttavia è bene sottolineare che con quest’opera Dovlatov non vuole fare un omaggio letterario, bensì usa il culto organizzato come espediente per parlare di sé stesso, riflettere sulla vita, e presentare le diverse personalità che incontra durante questa esperienza. Dovlatov lascia che questi personaggi si presentino attraverso le loro parole, più che dandone una descrizione dettagliata. Non si tratta di personaggi inventati dalla fantasia dello scrittore, bensì frutto dell’osservazione attenta e diretta dell’umanità stessa, filtrata attraverso l’ironia e l’autoironia: così Dovlatov può utilizzare la figura di Boris Alichanov per esprimere il suo senso di smarrimento in una vita percepita come un campo minato e le proprie insicurezze: “Uno scrive racconti per vent’anni. E’ convinto di avere delle buoni ragioni per tenere in mano la penna. […] Non ti pubblicano, non stampano quello che scrivi. Non ti accettano in loro compagnia. […] Ma era quello il traguardo a cui aspiravi quando buttavi giù le prime righe?” Infatti, così come Dovlatov, anche ad Alichanov venne impedita la pubblicazione a causa del Comitato per la Sicurezza dello Stato (KGB). In quest’opera la realtà non viene descritta in modo epico o idealizzato, bensì rappresentata nella sua dimensione più intima, con imperfezioni e contraddizioni. I personaggi stessi del romanzo sono contraddittori: ad esempio, Michail Ivanovič, l’ubriacone che affitta all’eroe una stanza in una vecchia casa squallida, viene presentato come un uomo rozzo e violento, che minaccia e tenta di sparare alla moglie più volte, che giustifica i tedeschi dicendo che “non facevano niente di male”, ma che passa una notte intera fuori casa perché rimasto chiuso fuori ed aveva paura di svegliare il suo nuovo ospite. Ancora, Volodja Mitrofanov, un ex compagno di studi di Boris, considerato un genio per la sua memoria fotografica. Grazie a questa e ad una grande curiosità, aveva una conoscenza approfondita di pressoché qualsiasi argomento. Tuttavia, la sue capacità si limitava solo a questa qualità, in quanto incapace e pigro in qualsiasi altro aspetto della vita. Come accade in altre sue opere, anche qui Dovlatov muove una riflessione su cosa sia in realtà la morale. Grazie all’umorismo riesce a ribaltare la logica tradizionale secondo la quale la morale sia la divisione tra bene e male. In realtà non è così semplice: questa si definisce in base all’esperienza del soggetto, alla natura umana, che è creativa e soggettiva. Se da una parte l’uomo contemporaneo deve essere tolto dalla sua posizione antropocentrica per tornare alla sua vera natura, cioè un essere fragile in balia del caos della vita, dall’altra parte lo scrittore attraverso l’espediente umoristico permette all’uomo un riscatto dalla sua drammatica e contraddittoria condizione umana, giustificando così anche le affermazioni più assurde dei personaggi. Tornando alla trama, il momento più importante che stravolge la quotidianità e la fragile stabilità che il protagonista cerca di ricostruirsi, è l’arrivo inaspettato della ex moglie Tanja, per la quale Dovlatov ha preso ispirazione direttamente dalla moglie Elena. Non appena arriva all’agenzia, Alichanov la porta con sé in una visita guidata per mostrarle il suo lavoro. Tuttavia, non è questo il vero motivo per cui è arrivata fin lì: infatti, ha deciso di andar via dalla Russia per emigrare in America, portando con sé la figlia Maša. Boris Alichanov si oppone fermamente a questa decisione, dicendo che non se ne andrà, perché a doversene andare sono loro, cioè “quelli che mi avvelenano l’esistenza”. Nemmeno l’idea di finire in prigione può persuaderlo. A terrorizzarlo davvero è l’idea di perdere la sua lingua, e ciò significa non solo perdere l’ottanta percento della propria personalità, ma anche perdere la capacità di ironizzare e di scherzare. Cercherà quindi di persuadere la moglie in tutti i modi, senza successo. Alla sua partenza, conscio di aver perso per sempre la moglie e la figlia, l’unica consolazione che gli rimane è la vodka. La vodka, così come la scrittura, era per Dovlatov un vero e proprio strumento di salvezza e autoaffermazione. Ma ciò non valeva solo per lui: nella cupa e grigia Russia degli anni ‘70, l’unico modo per passare il tempo e per sopportare la vita era ubriacarsi. Viene dato un esempio perfetto nell’opera “Mosca-Petuškì, poema ferroviario” (Москва — Петушки, 1969) scritta da Venedict Erofeev. Così come Venička, Boris Alichanov alla fine dell’opera si abbandonerà ad un vero e proprio delirio etilico. Iniziò a bere in un bar sulla strada, dove incontrò un nuovo compagno di bevute: Valerij Markov, un ubriacone che spende tutta la sua fortuna guadagnata facendo foto in alcool. Dopo diverse bottiglie di vino e una rissa, dove Boris perderà una manica della camicia, scoprirà di aver ricevuto un telegramma da sua moglie, dove lo avverte che lei e sua figlia partiranno mercoledì notte. Decide quindi di raggiungerle a Leningrado, in un ultimo disperato tentativo. Prima però, viene convocato nell’ufficio del maggiore Beljaev senza nessun apparente motivo e si ritroveranno quindi a bere vodka e divagare su diversi argomenti, tra cui la vodka che diventerà la rovina della Russia e il potere del KGB di educare, ma anche punire. Boris arriva quindi a Leningrado a casa di sua moglie, dove viene accolto con freddezza dalla figlia, per salutarle e accompagnarle all’aeroporto per l’ultimo addio. Alla conclusione dell’opera, il protagonista passerà undici giorni chiuso in casa a bere, uscendo solo per comprare altro alcool. Diverse volte arrivò la milizia a casa sua, chiedendo di entrare, con un mandato di arresto per diverse accuse, tra cui parassitismo e insubordinazione alle autorità. Tuttavia si trattava di un falso, sicché il protagonista non se ne preoccupò molto. L’undicesimo giorno, iniziarono le allucinazioni. Apparvero dapprima dei gatti primitivi, bianchi e grigi, poi iniziò una pioggia di vermi e la pelle iniziò a squamare. Lungo la coperta apparvero anche delle lettere e delle cifre che delle volte si univano in frasi, come “solo la morte è irrimediabile!”. La narrazione si conclude con un finale aperto, lasciandoci con Boris Alichanov sul letto che tenterà di dormire, dopo aver ricevuto la chiamata di Tanja. Non sappiamo bene se quest’ultima scena è solo di un delirio dato dall’ubriachezza o se effettivamente è il delirio di un uomo che si abbandona alla vita, a cui non è rimasto più nulla se non cercare consolazione nel fondo delle bottiglie, dove “In ognuna di loro si nascondevano meraviglie...”. Fonti: • Wikipedia, Sergej Dovlatov; • https://russiapedia.rt.com/prominent-russians/literature/sergey-dovlatov/ • https://www.nytimes.com/1990/08/25/obituaries/sergei-dovlatov-48-sovietemigre-who-wrote-about-his-homeland.html • https://www.eurozine.com/sergei-dovlatov-dissident-sans-idea/ • Giudo Carpi, Storia della letteratura russa, II. Dalla rivoluzione d’Ottobre a oggi, Carocci Editore S.p.A, Roma, 2016, capitolo 4.4.3 • Sergej Dovlatov, Il Parco di Puškin, Sellerio editore Palermo, seconda edizione 2016, a cura di Laura Salmon, saggio “Contro la malinconia” di Laura Salmon