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Diritto europeo dei contratti

ECONOMIA
DIRITTO EUROPEO
DEI CONTRATTI
prof. D'Adda
S C
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INDICE
INDICE
2
Modulo 1 Il contratto P2P (prima parte)
3
1.0. CONTRATTO P2P - LEZIONE IN CLASSE
3
1.1. RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE
8
1.2 IL DANNO
10
1.3 NATURA
12
1.4. RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE NUOVE FRONTIERE
14
1.5. WEBINAR
17
Modulo 2 Il contratto P2P (seconda parte)
20
2.0. LEZIONE IN CLASSE
20
2.1. INVALIDITÀ CONTRATTUALI (NULLITÀ)
24
2.2. ANNULLABILITÀ
27
2.3. INVALIDITÀ CONTRATTUALI: LA DISCIPLINA
31
2.4. RESCISSIONE
35
2.5. WEBINAR
38
MODULO 3 - La contrattazione B2C
40
3.0. CLAUSOLE VESSATORIE E ABUSIVE
40
3.1. NULLITÀ PARZIALE
47
3.2. NULLITÀ DI PROTEZIONE
51
3.3. NULLITÀ’ DI PROTEZIONE: EFFETTI
56
MODULO 4 - La contrattazione B2C (seconda parte)
59
4.0. CONTRATTI STIPULATI A DISTANZA
59
CONTRATTI DI SERVIZIO TURISTICO
62
LA VENDITA DEI BENI DI CONSUMO - DIFETTO DI CONFORMITÀ
64
LA RESPONSABILITÀ DEL PRODUTTORE
67
4.1. PREMESSA: LA TUTELA DEI DIRITTI
77
4.2. TUTELA COLLETTIVA RISARCITORIA
83
4.3. TUTELA COLLETTIVA
89
MODULO 5 - Contratto B2B
95
5.1. ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: CONDOTTE
104
5.2. ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: RIMEDI
108
5.3. ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: PRESUPPOSTI
112
MODULO 6 - Contratto B2B (seconda parte)
118
6.1. DIRITTO CONCORRENZA - CONDOTTA
118
6.2. DIRITTO CONCORRENZA - PUBLIC ENFORCEMENT
124
6.3. DIRITTO CONCORRENZA - PRIVATE ENFORCEMENT
127
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Modulo 1
Il contratto P2P (prima parte)
1.0. CONTRATTO P2P - LEZIONE IN CLASSE
1. Il primo contratto è quello disciplinato dal Codice Civile. Si postula il presupposto del contratto, come regolato dal Codice Civile,
ossia di essere stipulato tra pari. Questo ovviamente è un’astrazione, poiché il diritto comune dei contratti è scritto immaginando
fittiziamente che i contraenti siano persone con un eguale forza contrattuale. Non c’è quindi un soggetto da difendere a priori, ma
ci sono delle regole che valgono tra contraenti uguali, almeno formalmente (il diritto cerca di astrarre ed uniformare le varie
situazioni, non fa riferimento a contraenti specifici e concreti).
Il contratto asimmetrico è quello per cui il modello di contratto contenuto del Codice Civile (primo contratto) non riesce a
funzionare perché questo prevede delle regole che presuppongono un contratto tra parti in posizione di parità e che, contrattando,
riescono ad arrivare alla formazione di una volontà unitaria. Nel caso si contratto asimmetrico le parti invece si trovano in una
posizione di disparità, di disequilibrio, in cui una si trova a soggiacere rispetto all’altra.
Pertanto, in opposizione al primo contratto, regolato dal Codice Civile, distinguiamo tra:
2. Secondo contratto. Nel caso di contratto tra professionista e consumatore accade che una parte sia più debole dell’altra e si
presenta un’asimmetria: il consumatore sarà sempre più debole del professionista dal punto di vista delle informazioni a
disposizione dei due soggetti che stanno simulando il contratto. Il legislatore si rende conto che è necessario dare una risposta a
questa asimmetria informativa, regolata dal Codice del Consumo (Codice del consumo, TUF del 1998, TUB del 1993).
3. Terzo contratto, riguarda un’asimmetria anche tra imprese: le imprese fornitrici di materie prima si trovano in una posizione più
debole rispetto all’impresa produttrice. Si tratta in questo caso di un’asimmetria sostanziale, di specializzazione in determinati
componenti. L’impresa fornitrice si trova in una situazione di dipendenza economica, e tende a soggiacere a richieste abusive da
parte dell’impresa produttrice. Si hanno delle discipline speciali che vogliono far fronte a questa asimmetria (Legge sulla
subfornitura del 1998, Legge sul franchising del 2004, Legge sul ritardo del pagamento nelle transazioni commerciale del 2003).
Perché europeo? Quasi tutte le discipline speciali hanno origine da leggi dell’UE, ed in particolare in direttive comunitarie che a
partire dalla metà degli anni ’90 hanno orientato il legislatore comunitario, che ha voluto intervenire in chiave protettiva del
consumatore e dell’impresa in posizione squilibrata rispetto alla controparte. Uno degli obiettivi principe dell’UE è quello di un
mercato comune efficiente. La difficoltà di questo a radicarsi e configurarsi quando nei diversi stati e ordinamenti dell’Europa ci sono
leggi troppo diverse sul fronte contrattuale. Se ci fossero leggi troppo diverse tra i vari paesi ci sarebbero come delle barriere alla
contrattazione. L’obiettivo dell’UE è quindi quello di armonizzare in senso lato il mercato, con lo scopo di abbattere le barriere del
mercato e semplificare quindi gli scambi fra i vari paesi. Siccome l’obiettivo è quello di creare un Mercato Unico, ma anche
concorrenziale, tale disciplina di armonizzazione è volta innanzitutto a combattere le asimmetrie del mercato. Tali asimmetrie sono
sconosciute al Codice Civile dei vari paesi membri e al diritto contrattuale tradizionale. I contraenti meriteranno pertanto una
disciplina particolare, che implica delle deroghe alla disciplina normale di diritto comune.
L’Unione Europea ha emanato delle direttive volte all’armonizzazione del diritto europeo. La disciplina dell’UE è costituta da
regolamenti, ossia leggi immediatamente applicabili a tutte le nazioni dell’UE (viene ogni discrezionalità al singolo stato membro) e
direttive. Spesso la disciplina dell’UE non passa per i regolamenti poiché gli stati membri preferiscono conservare una cerca
autonomia, ma attraverso direttive che vincolano gli stati che dovranno poi obbligare i parlamenti ad applicare una legge coerente con
i contenuti della direttiva europea. Anche in questo caso c’è un’armonizzazione a livello europeo del diritto, ma è mediato e tende a
contemperare sia l’interesse dell’UE sia a mantenere l’autonomia dei singoli stati membri. Con europeo, si intende anche l’attenersi
anche a testi codificati per un’eventuale disciplina unitaria a livello europeo. I giuristi europei talora nel corso degli ultimi anni si sono
posti l’obiettivo di unificare il diritto europeo dei contratti (PECL). Sino a questo momento siamo solo al punto di elaborazione di
principi a livello “professorale”, recentemente però gli uffici giuridici dell’UE si sono posti il problema di elaborare principi comuni e
hanno incaricato un gruppo di giuristi di elaborare un quadro comune di riferimento, ai fini di migliorare la redazione di regolamenti e
direttive. Sono quindi testi che non hanno una rilevanza vincolante, ma comunque significativa.
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ELEMENTI ESSENZIALI DEL CONTRATTO
La disciplina degli elementi essenziali del contratto è contenuta all’art. 1325 del Codice Civile.
Gli elementi essenziali del contratto consistono nel:
-
Accordo: modalità di conclusione del contratto. Non vi sono radicali distonie tra primo, secondo e terzo contratto.
-
Oggetto: può essere inteso come il bene sul quale ricadono gli effetti del contratto o, in generale, il contenuto complessivo del
contratto, che deve essere lecito (non deve essere contrario a norme imperative, ordine pubblico e buon costume), determinato e
determinabile per relationem (anche se emerge da un documento diverso dal contratto il contenuto del contratto, il contratto sarà
valido). L’art. 1346 stabilisce quelli che sono i requisiti dell’oggetto del contratto: possibile, lecito e determinato o determinabile
(rinvio ad una fonte esterna al contratto stesso). Nei contratti tra professionista e consumatore, e in generale in molte fattispecie di
contratti asimmetrici, la legge pone un’eccezione a questo principio e impone la vera e propria determinatezza dell’oggetto del
contratto, non più accontentandosi della mera determinabilità dello stesso: dal contratto deve emergere in via immediata la
prestazione e la contro prestazione, diritti e obblighi delle parti. Nel secondo e nel terzo contratto, l’oggetto del contratto
dev’essere nettamente già determinato, poiché il rischio per il contraente debole è quello di non avere idea specifica di quelli che
sono i suoi diritti ed obblighi. Il tema della determinatezza dell’oggetto si lega al tema della forma scritta ad substantiam, che nel
caso di rinvio a fonti esterne per la determinabilità dell’oggetto del contratto non avrebbe senso. Solo in questo modo può essere
attivato un sistema rimediale che può essere soddisfacente contro l’asimmetria informativa.
-
Causa, funzione del contratto (es. nella compravendita la causa è la corrispettività, nel contratto di assicurazione la causa è il fatto
che il rischio si concretizzerà il soggetto sarà coperto da tale danno);
-
Forma, che il contratto può avere o deve avere (se richiesta ad substantiam-> forma a pena di nullità). Se la posta viene imposta
dalla legge a pena di nullità, la forma diventa elemento essenziale del contratto (in caso contrario non è elemento essenziale).
Nell’ambito della disciplina del cc, la normalità dovrebbe essere la forma libera. Tale norma ne caso di contratto è invertita nel
caso di contratto asimmetrico. Nel caso di contratto asimmetrico la legge prevede sempre vincoli di forma scritta ad substantiam,
almeno nella maggior parte dei casi. Se nel primo contratto l’eccezione è la forma scritta, nel secondo e nel terzo contratto
l’eccezione è la forma libera. La legge prevede la forma scritta per tutelare la parte debole, in modo tale che i diritti del contraente
siano chiaramente e nitidamente orientati. Il contraente avrà sempre una documentazione dell’insieme dei propri diritti. La forma
è quindi un elemento essenziale del contratto solo se richiesta dalla legge, pena di nullità. L’art. 1350 individua gli atti che devono
farsi per iscritto, innanzitutto i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili e i contratti che costituiscono, modificano o
trasferiscono diritti sui diritti reali. Si parla di un neo-formalismo negoziale. Solo disponendo di un testo scritto di contratto, il
soggetto che subisce l’asimmetria informativa avrà a disposizione una conoscenza concreta, persistente e sicura del contenuto
contrattuale e quindi dell’operazione economica che sta concludendo.
L’unico modo per superare l’asimmetria informativa è quello di imporre la forma scritta con riferimento preciso ai diritti e agli
obblighi delle parti.
1326 c.c. e seguenti - CONCLUSIONE DEL CONTRATTO
Quando parliamo di conclusione del contratto, l''Art 1326 c.c. afferma che il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la
proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte, accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito o in
quello ordinariamente necessario secondo la natura dell’affare, ovvero secondo gli usi.
In questo scambio proposta/accettazione: la proposta viene da un soggetto, accettazione viene dal destinatario, il contratto è concluso
nel momento in cui l’accettante accetta ma questa accettazione viene a conoscenza del proponente.
L’accettazione deve avere determinati requisiti:
- Deve essere conforme rispetto alla proposta (non deve essere una controproposta);
- Provenire entro un determinato termine oppure il termine ordinariamente necessario secondo la natura degli affari o usi quando un
termine non è stabilito (il preventivo presenta sempre una clausola in riferimento alla data entro cui scade);;
- Nella forma richiesta (es: forma scritta entro quella data).
Modalità particolari di conclusione dell’accordo:
Accettazione che avviene tramite esecuzione: esecuzione prima della risposta dell’accettante: io faccio una proposta e il contraente
destinatario della proposta invece di accettare incomincia fin da subito a eseguire l’ordine dato dal proponente. Qualora su richiesta dal
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proponente o per natura dell’affare la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel
luogo in cui ha avvenuto l'esecuzione. Può avvenire solo su
• richiesta proponente
• natura affare
• o secondo gli usi
Se la proposta diretta a concludere un contratto da cui derivino obbligazioni solo per il proponente è irrevocabile appena giunge a
conoscenza della parte alla quale è destinata. Il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell'affare o
dagli usi. In mancanza di tale rifiuto il contratto è concluso.
REVOCA DELLA PROPOSTA E DELL’ACCETTAZIONE
- Art. 1328 - REVOCA PROPOSTA:
a proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso. Tuttavia, se l'accettante ne ha intrapreso in buona fede
l'esecuzione prima di avere notizia della revoca, il proponente è tenuto a indennizzarlo delle spese e delle perdite subite per
l'iniziata esecuzione del contratto. La revoca della proposta deve quindi giungere prima che l'accettazione giunga al proponente.
es. Propongo i lavori a 100k, mi fanno un preventivo ma il cliente prende tempo per avere altri preventivi. Chi ha fatto la proposta
a 100k scopre che gli viene proposto come affare una ristrutturazione da 1MLN. Vuole revocare la proposta. Scrive una PEC a
quello del 100k con revoca. Può farlo fino al momento che il contratto è stato concluso (quindi quando destinatario manda PEC
con accettazione proposta appalto).
- Art. 1328 - REVOCA ACCETTAZIONE:
L'accettazione può essere revocata, purché la revoca giunga a conoscenza del proponente prima dell'accettazione quindi che abbia
utilizzato un mezzo di comunicazione dell'accettazione più lento del mezzo di comunicazione usato per revocare l'accettazione
medesima. Es. ho accettato con una raccomandata ma mi pento e mando una PEC quindi riesco a revocare l'accettazione.
- Art.. 1329 PROPOSTA IRREVOCABILE: Se il proponente si è obbligato a mantenere ferma la proposta per un certo tempo,
la revoca è senza effetto. Secondo due orientamenti diversi, dalla scadenza del termine può essere revocata mentre per un altro
viene proprio meno la proposta.
Es. voglio acquistare un immobile e quindi faccio una proposta irrevocabile per dimostrare la mia serietà e per quel periodo non
possono revocare la proposta.
Art. 1331 - IL PATTO D’OPZIONE: importante per i contratti asimmetrici perchè vi sono soggetti: uno in una posizione di
soggezione (debolezza) e l’altro in posizione di diritto potestativo (forza potestativa).
A volte la proposta irrevocabile non derivi da una proposta unilaterale ma che nasca all'interno di un contratto o patto d'opzione.
Il contratto d’opzione è un contratto in forza del quale io mi obbligo nei riguardi di controparte a tenere ferma una mia proposta di
vendita/acquisto di un determinato bene. Chi concede l'opzione alla controparte (es. di acquisto di un bene come delle azioni) si
vincola a venderle ma la controparte può decidere se acquistare o meno. Accettare la proposta irrevocabile è identico a dire esercitare
l'opzione.
• Opzione di acquisto -> Opzione CALL In questo caso io concedo alla mia controparte una opzione, una opzione di acquisto su un
mio bene. Sono solo io che mi obbligo a vendere, la controparte è libera di scegliere entro la scadenza dell’opzione, che è la
scadenza dell’irrevocabilità della proposta. Decidere se entro la scadenza delle opzioni acquistare o se decidere di non esercitare
l’opzione.
• Opzione di vendita-> Opzione PUT io tengo fermo la mia proposta di irrevocabile di acquistare azione dal dottor. Rossi, il Rossi a
sua volta è libero di esercitare l’opzione. Se decide di venderle decidere di esercitare opzione di vendita e io avrò acquistato queste
azioni. Se non esercita azione di vendita si tiene azioni medesime.
Può avere anche esborso patrimoniale se non eserciti l’opzione.
A differenza di un contratto preliminare dove le parti sono entrambe vincolate a concludere un successivo contratto, in questo caso è
vincolata solo una parte che propone l'opzione senza poterla revocare.
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PATTO PRELAZIONE
Anche in questo caso ci troviamo difronte a un'accordo preparatorio (come l'opzione) rispetto a un contratto finale che è ancora più
eventuale rispetto l'opzione, con la prelazione due soggetti si accordano in modo tale che se uno dei due deciderà di stipulare un
contratto lo stipulerà prima con la controparte ma nessuno si obbliga (come nell’opzione).
es- Il contratto se è partito da 500.000 prima lo offre alla controparte che ritiene prioritaria e che ha la preferenza. Io rifiuto. Li mette
allora sul mercato alle medesime condizioni ma non dovesse trovare accordi. Decide dunque di cambiare il prezzo ma prima di
rimetterlo sul mercato dovrà passare da me che ho la preferenza (se no il contratto sarebbe sempre eluso). Nel momento io rifiuto di
nuovo l’offerta allora alle medesime condizioni potrà rivendere i beni.
CRITERI DI INTERPRETAZIONE E INTEGRAZIONE DEL CONTRATTO
Quando abbiamo un contratto, abbiamo un testo contrattuale da cui derivano effetti del contratto che gravano sui contraenti.
Ma può essere complicato da due punti di vista:
1. INTERPRETAZIONE: Il testo contrattuale non è così nitido e inequivocabile, spesso reca delle incertezze (d’altronde pure la
legge deve essere interpretata) e dunque deve essere interpretato per quali sono gli effetti del contratto per le parti.
Quali regole si traggono dal contratto.
Per quanto riguarda l’interpretazione, art. 1362 afferma che si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non
limitarsi al senso letterale delle parole. Comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto. Si postula che
le parole non diano risposta chiara e univoca e quindi vada indagato il significato.
La legge da all'interprete delle indicazioni per aiutarlo a capire nel dubbio:
• Interpretazione complessiva delle clausole: se una clausola è dubbia bisogna andare a vedere l’insieme del contratto, se sono
in dubbio tra clausola A e B vedo che B è in conflitto con il senso complessivo delle clausole;
• Interpretazione sistematica: le clausola del contratto si interpretano uno per mezzo delle altre attribuendo a ciascuna il senso
che risulta dal complesso dell'atto;
• Interpretare secondo buona fede: andando a ritenere che il contratto dia fonte alle regole che in una logica di buona fede le parti
avrebbero realizzato
2. INTEGRAZIONE: Il contratto obbliga non solo a quello che c’è scritto ma obbliga anche agli ulteriori effetti che possono derivare
dalla legge, dagli usi, dall’equità. Il contratto può essere integrato da regole ulteriori che le parti non hanno inserito dal contratto
medesimo perchè spesso lacunosi e tali lacune sono riempite dalla legge (es. nel contratto non è scritto il luogo preciso in cui deve
essere consegnato il bene o eseguita la prestazione).
Spesso nei contratti non si entra nei dettagli di tutte le possibilità conflittualità che possono sorgere tra le parti successivamente, il
contratto quasi sempre nasce come potenzialmente lacunoso.
L'art. 1374 postula la lacuna e queste lacune vengono colmate attraverso l’intervento della legge, degli usi e dell’equità. La lacuna
dunque è colmata dalla legge, ovvero se manca una previsione specifica di legge, dagli usi o dall’equità.
Questa integrazione viene anche chiamata integrazione SUPPLETIVA è un’integrazione che supplisce alle parti, aiuta completando
il regolamento contrattuale. Aiuta le parti, amica dell’autonomia privata. (1374 c.c.).
Vi è una seconda e diversa modalità di integrazione del contratto: COGENTE (art. 1339) rende nulle certe clausole che le parti
hanno messo nel contratto. Questo patto è nullo. Le parti non solo non devono regolare con quel patto il contratto ma debbono
regolarlo come io legge dico e intendo. Clausole imposte ai contraenti. C’è integrazione non che supplisce alle lacune ma che
corregge le parti. Imperativa. (1339 c.c.) (es. nel contratto di locazione che afferma 2+2, la clausola non solo è nulla ma viene
integrata mediante la disciplina legale cogente con un termine di 4+4).
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RISOLUZIONE E RIMEDI FUNZIONALI
La risoluzione del contratto (cfr. artt. 1453 e ss. codice civile) è un istituto che si riferisce a una disfunzione del rapporto contrattuale
sopravvenuta e causata da una delle fattispecie espressamente indicate dal codice.
A differenza di quanto accade nei casi di nullità e annullabilità del contratto, la risoluzione opera anche se all'origine, il contratto era
stato validamente stipulato ed era esente da vizi.
In questo caso inoltre, a differenza di quanto abbiamo visto accadere nelle ipotesi di rescissione del contratto, la stipula è avvenuta in
condizioni per così dire "normali".
I tipi di risoluzione del contratto indicati dal codice sono tre e in tutti e tre i casi ci troviamo di fronte ad un vizio funzionale del
rapporto e non ad un vizio genetico del contratto:
• risoluzione per inadempimento:
il primo tipo di risoluzione è quella determinata dall'inadempimento di una delle parti (che non deve avere scarsa importanza, avuto
riguardo all'interesse dell'altra, ex art. 1455 c.c.) nel caso di contratto a prestazioni corrispettive: in tale evenienza, la parte non
inadempiente (ossia quella che ha adempiuto regolarmente le proprie obbligazioni) ha la possibilità scegliere tra la richiesta di
adempimento o la risoluzione del contratto.
In sostanza chi ha adempiuto la sua prestazione, nel caso di inadempimento dell'altra parte, potrà esperire giudizialmente due diversi
tipi di azione: quella diretta ad ottenere l'adempimento oppure quella diretta a far dichiarare risolto il contratto con contestuale
richiesta di risarcimento del danno.
Alla parte adempiente il codice riconosce anche una soluzione diversa: essa può intimare per iscritto alla parte inadempiente di
adempiere entro un congruo termine (che non potrà comunque essere inferiore a quindici giorni, salvo diversa pattuizione delle
parti o salvo che, per la natura del contratto o secondo gli usi, risulti congruo un termine minore), con dichiarazione che, decorso
inutilmente detto termine, il contratto s'intenderà senz'altro risolto. Allo scadere invano di detto termine, il contratto è risolto di
diritto (ossia senza necessità di ulteriore attivazione da parte del contraente diligente).
Per quanto concerne gli effetti, la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di
contratti a esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende le prestazioni già eseguite.
Anche se è stata espressamente pattuita, inoltre, la risoluzione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti
della trascrizione della domanda di risoluzione (cfr. art. 1458 c.c.).
• risoluzione per impossibilità sopravvenuta:
Una seconda specie di risoluzione è quella che, sempre nei contratti con prestazioni corrispettive, avviene allorché una prestazione
sia divenuta impossibile (ad esempio è andata distrutta la cosa oggetto di un negozio traslativo): ebbene, in tale circostanza, "la parte
liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che
abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito" (cfr. art. 1463 c.c.).
• risoluzione per eccessiva onerosità:
L'ultimo tipo di risoluzione, che non è applicabile ai contratti aleatori, è quello disciplinato dagli articoli 1467 e seguenti del codice
civile. Il legislatore ha previsto, all'uopo, che, quando il contratto sia a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione
differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e
imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'art. 1458". Il
codice, comunque, offre alla parte contro la quale è domandata la risoluzione una possibilità di evitarla del tutto analoga a quella
introdotta per la rescissione: può offrire di modificare equamente le condizioni del contratto.
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1.1. RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE
Vivendo in una società evoluta il tempo delle contrattazioni è piuttosto lungo: capita infatti raramente che i contraenti realizzino lo
scambio all’istante. La disciplina della proposta e dell’accettazione prevista dal Codice non basta da sola a regolare questo fenomeno,
serve infatti un tempo tecnico per le parti al fine di valutare la convenienza a realizzare la contrattazione. Servono degli strumenti
complessi per farsi carico della complessità della fase delle trattative, ed è lo strumento precontrattuale che tenta di svolgere queste
funzioni.
Parlando di responsabilità precontrattuale occorre preliminarmente introdurre il concetto di responsabilità in ambito giuridico.
Responsabilità significa rispondere per aver avuto un comportamento contrario al diritto. La responsabilità assume caratteristiche
diverse se collocata in ambito penale o civile. In ambito penale la responsabilità è personale: l’autore del reato risponde con la propria
persona dell’illecito commesso e trascorrerà un certo periodo di detenzione in carcere affinché non compia più dei comportamenti
antisociali. Ciò non significa che un comportamento antisociale, pericoloso per la collettività non arrechi un danno ad un singolo
soggetto. In ambito civile, la responsabilità è sempre patrimoniale, mai personale: l’autore di un illecito civile risponderà con il
proprio patrimonio. L’obiettivo del diritto civile non è quello di punire il danneggiante, ma è quello di restaurare la situazione
patrimoniale che ci sarebbe stata in assenza dell’illecito. Ha quindi la funzione di ristorare e compensare il danno.
Nell’ambito della responsabilità civile, occorre distinguere:
-
Responsabilità contrattuale, o da inadempimento: sorge quando c’è un patto fra due o più persone affinché uno effettui una
prestazione nei confronti dell’altro. C’è una sorta di promessa incorporata in quello che vedremo essere un contratto. Chi non
rispetta i termini del contratto, dell’accordo o del patto si macchia di una responsabilità civile contrattuale. Attraverso
l’inadempimento il debitore lede il cosiddetto interesse positivo (expectation interest) del creditore, che aveva diritto ad una certa
prestazione. L’interesse positivo all’adempimento, a ottenere quindi il bene o il servizio che era incorporato nel contratto, viene
frustrato dall’inadempimento stesso. Mentre in passato il debitore poteva anche essere colpito dal punto di vista personale
dall’inadempimento, negli ordinamenti moderni questo non accade: la responsabilità contrattuale civile è sempre patrimoniale.
Ciò significa che la pretesa del creditore rimasta insoddisfatta sarà soddisfatta attraverso un’attività che ha ad oggetto non la
persona, ma il patrimonio del debitore. In particolare, se il debitore non effettua neanche sotto la condanna del giudice la
prestazione che doveva, il pubblico ufficiale attraverso un’attività esecutiva sul patrimonio del debitore, andrà a vendere i suoi
beni e, con il ricavato, andrà a soddisfare dal punto di vista monetario la pretesa del creditore.
-
Responsabilità extracontrattuale, o aquiliana: anche in questo caso c’è un precedente patto che viene violato, qui l’incontro tra
le parti nasce con il danno. La responsabilità non sorge dalla violazione di una regola inter partes, ma nasce perché si viola un
precetto generale del diritto civile, che è quello di non ledere gli interessi altrui. Non parliamo di interessi generici, interessi di
fatto, ma si deve accompagnare al danno materiale la lesione di un interesse giuridico meritevole di tutela. Il danneggiato per
ottenere il risarcimento del danno non dovrà limitarsi a dedurre la violazione dal punto di vista oggettivo di un interesse
meritevole di tutela, ma anche un elemento soggettivo. L’elemento oggettivo è costituito dal dolo o dalla colpa: si deve quindi
dimostrare che il danneggiante o ha intenzionalmente provocato il danno, o che ha provocato il danno con la violazione di
cosiddette regole cautelari (di diligenza, di prudenza, di perizia), volte quindi ad evitare danni agli altri. Qual è l’interesse leso da
un danno extracontrattuale? Non è l’interesse positivo all’adempimento, ma il cosiddetto interesse negativo (reliance
expectation), l’interesse che ciascuno di noi nutre a non vedere la propria sfera patrimoniale oggetto di un’interferenza illecita da
parte di terzi.
Definito il concetto di responsabilità in generale, e in particola di responsabilità civile nelle sue specie, contrattuale ed
extracontrattuale, la responsabilità precontrattuale sorge prima che venga stipulato il contratto. (Gli inglesi pensano che parlare di
responsabilità precontrattuale sia un paradosso: finché il contratto non è stipulato, la parte che non ha ancora stipulato non può
macchiarsi di nessun tipo di responsabilità civile, poiché è libera, fino al minuto in cui non è concluso il contratto, di cambiare idea).
In molti ordinamenti, come quello italiano, il paradosso apparente della responsabilità precontrattuale viene risolto.
Art. 1337: Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.
Ciò significa che le parti rimangono libere di concludere o non concludere il contratto per cui è iniziata una trattativa (a meno che non
vi sia un contratto preliminare, un’opzione o una proposta irrevocabile), perché se così non fosse, questo intralcerebbe lo svolgimento
dell’attività economica. Tuttavia, ci sono dei casi una parte potrebbe rispondere del comportamento tenuto in fase precontrattuale, nel
momento in cui si possa ritenere violata la buona fede o la correttezza contrattuale.
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In quali casi sorge la responsabilità contrattuale? In quali casi risulta violata la buona fede o la correttezza nelle trattative? Il contenuto
dell’art. 1337 che prevede quest’ipotesi è abbastanza generico: dal punto di vista tecnico la norma in esame pone infatti una cosiddetta
“clausola generale”, ciò accade tutte le volte che il legislatore non vuole individuare un elenco preciso di comportamenti proibiti,
perché sa che questo potrebbe essere facilmente superato dalla varietà dei comportamenti emergenti nella società e la legge rischia
quindi di “invecchiare” presto. Attraverso quindi una clausola generale, il legislatore affida all’interpretazione dei giudici
l’individuazione dei comportamenti vietati. È importante quindi capire quali sono i criteri alla luce dei quali va interpretata la clausola
generale di buona fede e correttezza precontrattuale. Questo avviene da un lato bilanciando la tutela della libertà contrattuale (freedom
of contract) e dall’altro, tenendo presente la tutela dell’affidamento legittimo tra parti a contrarre.
Le ipotesi per cui si ritiene violata la responsabilità precontrattuale e i sarà quindi spazio per il risarcimento del danno precontrattuale
sono:
a)
abbandono ingiustificato delle trattative (si parla di abbandono e non di recesso, perché dl punto di vista tecnico il recesso
riguarda l’attività di un contraente che vuole svincolarsi da un contratto che è stato concluso; per definizione invece il
contratto ancora non sussiste). I due requisiti che devono sussistere perché sorga la responsabilità sono:
-
le trattative dovevano essere tali da determinare un ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto. Quindi non
una qualsiasi trattativa che la parte abbandona consente di richiedere il risarcimento del danno, ma solo la trattativa che ha
raggiunto uno stadio avanzato, in cui le parti si erano già messe d’accordo sulla definizione degli elementi essenziali del
contratto stesso;
-
l’interruzione della negoziazione avviene senza giustificato motivo, quindi in modo ingiustificato o arbitrario. È quindi
sempre giustificato l’abbandono delle trattative, quando è determinato da una causa estranea alla sfera di colui che
abbandona le trattative, ad esempio perché c’è un repentino cambiamento delle condizioni di mercato ed è diventato del tutto
sconveniente stipulare il contratto. Secondo una parte della dottrina non serve il requisito della giusta causa per abbandonare
le trattative, per cui sarebbe sempre possibile abbandonare la trattiva finchè non si è stipulato il contratto finale, l’importante
è che la parte recedente avverta tempestivamente l’altra, spostando la questione su un piano puramente informativo.
b) mancata informazione sulle cause di invalidità del contratto. Anche se questa ipotesi si riconduce all’interpretazione della
causa generale di buona fede precontrattuale di cui all’art. 1337, questa ipotesi è legislativamente prevista dal successivo art.
1338. Quali sono i requisiti che la legge prevede perché sorga questa fattispecie di responsabilità precontrattuale?
-
Una parte non dà notizia all’altra circa una causa di invalidità del contratto stipulato: questa responsabilità sorge soltanto se
la parte conosceva o avrebbe dovuto conoscere l’esistenza di una causa di invalidità. Risponderà di responsabilità
precontrattuale solo la parte che non avendo dato notizia all’altra parte, o conosceva la causa di invalidità e ha taciuto o
avrebbe comunque dovuto conoscerla.
-
L’altra parte deve aver confidato, senza propria colpa, nella sua validità. Ad esempio, se parliamo di cause di nullità del
contratto perché manca il requisito di forma, possiamo escludere che una delle due parti non dovesse conoscere questa regola
e quindi che possa chiedere il risarcimento del danno precontrattuale.
c)
dolo contrattuale (non c’entra nulla con l’elemento soggettivo dell’illecito civile extracontrattuale, che è appunto l’elemento
soggettivo in cui un soggetto intende nuocere ad un altro). Il dolo contrattuale è costituito dagli artifici o dai raggiri con cui
una parte riesce a carpire il consenso dell’altra parte, senza i quali l’altra parte non avrebbe contrattato.
In queste ipotesi c’è un dato comune: non c’è un contratto valido. Nel primo caso infatti il contratto non viene proprio stipulato
perché c’è un abbandono ingiustificato delle trattative (a), negli altri casi il contratto viene stipulato (b, c), ma per diverse ragioni esso
non è valido e non è quindi in grado di produrre effetti. In queste ipotesi il contraente non potrà vedere soddisfatto il proprio interesse
positivo all’adempimento, non potrà quindi godere del bene o del servizio che il contratto avrebbe dovuto garantire. Si parla di
violazione dell’interesse negativo, dell’interesse che ciascuno ha nel non perdere tempo e occasioni attraverso una trattativa che non
porterà a nulla.
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1.2 IL DANNO
La responsabilità precontrattuale è un tipo di responsabilità civile. C’è un nesso molto forte tra la responsabilità e il risarcimento del
danno: l’obiettivo della responsabilità civile, rispetto a quella penale, è quello di riparare un danno e quindi, dal punto di vista
patrimoniale, restaurare la situazione che ci sarebbe stata se l’illecito civile non avesse avuto luogo.
Il danno è una condizione necessaria, se non c’è un danno non ci si pone il problema se il soggetto debba rispondere del risarcimento
dello stesso (ad esempio, se un soggetto ha tentato di carpire il segreto industriale da parte di un concorrente ma non ci è riuscito). In
ambito penale invece viene punito anche il tentativo e la persona verrà perseguita ai sensi del diritto penale.
Il danno è condizione necessaria, ma non sufficiente: al danno materialmente deve accompagnarsi la lesione di un interesse giuridico
meritevole di tutela, dal punto di vista tecnico si parla di ingiustizia del danno per indicare questo requisito (ad esempio, il danno non
sarebbe ingiusto nel caso in cui il soggetto subisca delle perdite per l’attività concorrenziale del proprio competitor).
In generale, il presupposto della responsabilità in ambito civile è che l’attività causativa del danno sia un’attività illecita e si parla
quindi di illecito civile. A seconda che si faccia riferimento dei diversi tipi di responsabilità, si parla di illecito extracontrattuale,
illecito contrattuale e illecito precontrattuale.
-
Illecito extracontrattuale: serve una deduzione esplicita di una posizione giuridica meritevole di tutela, si tratta di due soggetti
(danneggiante e danneggiato) tra i quali non c’era una previa relazione, pertanto occorre individuare una precisa posizione
giuridica meritevole di tutela che viene violata da un danno.
-
Illecito contrattuale: laddove c’è un patto precedente tra due soggetti che viene violato, non bisogna dedurre una specifica
posizione giuridica meritevole di tutela poiché avendo il creditore diritto ad una certa prestazione, se questa rimane inadempiuta è
chiara la meritevolezza di tutela dell’interesse sotteso.
-
Illecito precontrattuale: avremo illecito civile solo nei casi in cui vedremo violata la buona fede (ad esempio, l’abbandono
ingiustificato delle trattative). Dipende dall’interpretazione della clausola generale dell’art. 1338.
Dal punto di vista logico, è necessario individuare prima l’illeceità dell’atto e in secondo luogo ragionare in termini di responsabilità e
di risarcimento del danno. Dal punto di vista pratico avviene però tutto l’opposto: prima ci si trova di fronte alla causazione di un
danno e successivamente ci si potrà domandare se il colpevole dovrà risarcire il danno, se si individua appunto l’illeceità del suo
comportamento. Il danno è dunque quel fenomeno che attiva quel procedimento logico, che porta a ragionare in termini di liceità e
quindi di risarcibilità del danno stesso.
Il danno è anzitutto il danno patrimoniale, definito dall’art. 1223 del Codice Civile, che si colloca nell’ambito della responsabilità
contrattuale e richiamato anche dall’art. 2056, in ambito della responsabilità extracontrattuale.
Ai sensi dell’art.1223, il danno patrimoniale è costituito da:
-
Danno emergente (o perdita patrimoniale): l’illecito civile, sia esso di tipo contrattuale o extracontrattuale, deve aver condotto ad
una depauperazione, ad una riduzione del patrimonio del soggetto che ha subito il danno. Ad esempio, in ambito contrattuale non
mi viene fornito come stabilito dal contratto un certo macchinario produttivo, il danno emergente sarà quindi costituito dal denaro
che esborso per comprare tempestivamente un altor macchinario analogo. Nel caso di responsabilità extracontrattuale, è possibile
pensare ad un incidente stradale prodotto da un terzo in cui viene distrutto il furgone aziendale. In questo caso il danno emergente
sarà costituito dalle spese atte a consentire di ricomprare quel furgone.
-
Lucro cessante (o mancato guadagno): guadagno che non c’è stato in ragione dell’illecito. Ad esempio, nell’ambito della
responsabilità contrattuale, il debitore che non ha fornito il macchinario tempestivamente deve risarcire il creditore anche del
danno che egli ha patito per non aver utilizzato quel macchinario per ottenere un certo profitto, e quindi deve ristorarlo del profitto
che non ha ottenuto in ragione dell’inadempimento. In ambito extracontrattuale, colui che ha distrutto il furgone dell’azienda deve
risarcire anche quanto avrebbe guadagnato il titolare se avesse ricevuto tempestivamente la merce.
In generale, parlando di danno patrimoniale, concetto che vale sia in ambito contrattuale che extracontrattuale, parliamo di un danno
che riguarda l’integrale riparazione di quelle che sono state le conseguenze patrimoniali dell’illecito, sia in termini di danno emergente
sia in termini di lucro cessante per riportare il patrimonio a quello che sarebbe stato in assenza dell’illecito stesso.
Quali conseguenze dannose vanno prese in considerazione alla luce del criterio del danno emergente e del lucro cessante? Questa
domanda trova risposta nella seconda parte dell’art. 1223, dove si parla delle conseguenze dannose che “siano conseguenza
immediata e diretta” dell’illecito stesso. Il legislatore pone in questo modo la teoria della regolarità causale: non tutte le
conseguenze che, dal punto di vista materiale, possono ricollegarsi all’illecito vanno prese in considerazione come oggetto di
risarcimento. Ad esempio, possiamo pensare che il creditore che non riceve tempestivamente il macchinario produttivo o al quale
viene distrutto il furgone, già si trovava in una situazione finanziaria difficile e, in ragione di quell’inadempimento o di quel danno
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extracontrattuale, fallisce. Questo dal punto di vista materiale è sicuramente ricollegabile all’illecito civile rappresentato
dall’inadempimento ovvero dall’illecito civile extracontrattuale tuttavia, in ragione del principio di regolarità causale, è necessario
porre dei limiti a quelle che sarebbero le conseguenze irrazionali dell’applicazione rigorosa e stretta della cosiddetta teoria
condizionalistica (o condicio sine qua non), per cui ogni antecedente logico del fatto è considerato causale. Dal punto di vista
materiale, è una condizione del fallimento dell’imprenditore l’inadempimento del contratto o l’illecito extracontrattuale però, dal punto
di vista giuridico, questo non basta per far considerare quella una conseguenza dannosa risarcibile.
In generale quindi il risarcimento del danno patrimoniale deve comprendere sia il danno emergente sia il lucro cessante, che siano
conseguenza immediata e diretta dell’illecito (contrattuale o extracontrattuale).
Danno precontrattuale, come operarne la quantificazione? L’interesse leso dai comportamenti lesivi della buona fede precontrattuale
è il cosiddetto interesse negativo a non incorrere in trattative inutili, o perché non conducono alla stipula di alcun contratto o perché
conducono alla stipula di un contratto invalido. In ogni caso, la parte che ha perso tempo nelle trattive non potrà vedere soddisfatto il
suo scopo originario, cioè quello di ottenere un bene o un servizio dal contratto stesso. Questo non significa che, alla stregua della
responsabilità precontrattuale, la parte delusa possa domandare ristoro dell’interesse positivo. Infatti, se la parte delusa, il cui
affidamento legittimo è rimasto frustrato, potesse chiedere risarcimento dell’interesse positivo, allora avrebbe lo stesso diritto che
avrebbe avuto se il contratto fosse stato validamente stipulato.
Premesso che la quantificazione del danno precontrattuale dev’essere parametrata all’interesse negativo, andiamo a vedere come si
può concretizzare tale quantificazione:
-
Danno emergente (o perdita patrimoniale): in ambito precontrattuale, possiamo immaginare che esso coincida con le spese che la
parte ha sostenuto in vista della stipulazione del contratto (ad esempio, costi per consulenze o per viaggiare al fine di incontrare la
controparte o per intrattenere con essa una certa corrispondenza). La quantificazione del danno emergente risulta abbastanza
semplice, e coincide con le spese che la parte (non ancora) contraente ha sostenuto in vista della contrattazione. Oppure, se il
contratto c’è stato ma era invalido, è necessario considerare le spese sostenute per eseguire un contratto che poi si è rivelato essere
invalido, e quindi privo di qualsivoglia effetto.
-
Lucro cessante (o mancato guadagno): di quanto si sarebbe arricchito il patrimonio del danneggiato se non ci fosse stato l’illecito
civile? Dal punto di vista pratico, bisogna però calare questo concetto nell’ambito precontrattuale, e questo è molto più difficile. Si
parla in generale di occasioni perdute a causa della trattativa fallita: la parte delusa da una trattativa che non è andata a buon
fine dovrebbe dimostrare che ha rinunciato ad alcune trattative che avevano raggiunto uno stadio avanzato, in ragione della
trattativa che poi è fallita. Se riesce a dimostrare questo, allora la parte che si è macchiata di una slealtà precontrattuale nei suoi
confronti dovrà risarcirlo anche del lucro cessante, ossia del profitto al quale la controparte ha rinunciato perché confidava
legittimamente nella bontà di quelle trattative.
Esempio:
Un soggetto A acquista al prezzo di 100 da un altro soggetto, ma è in trattativa con un terzo soggetto B per rivendere a 120 il bene che
ha acquistato. A rinuncia, in ragione dell’affidamento legittimo che la trattativa posta in essere con B vada a buon fine, alla possibilità
di contrattare con C al prezzo di 110. Le trattative hanno raggiunto un certo livello, ma B abbandona ingiustificatamente la trattativa.
Dal punto di vista della buona fede precontrattuale, A potrà chiedere a B quanto avrebbe guadagnato con C, e quindi 10 (la differenza
tra 110 e 100). In questo caso, un soggetto rinuncia a una trattativa meno vantaggiosa per portare avanti una trattativa più vantaggiosa,
che però finisce male. Dal punto di vista della responsabilità precontrattuale, il soggetto A potrà dunque richiedere ristoro del danno
precontrattuale (lucro cessante), ossia quello che sarebbe stato il lucro ricevuto dalle trattative alle quali ha rinunciato. Nell’esempio il
lucro era 10, mentre se fosse andato a buon fine il contratto che il contraente sperava di portare avanti, il lucro sarebbe stato di 20.
Il risarcimento dell’interesse negativo è minore del ristoro dell’interesse positivo. Infatti, secondo l’insegnamento tradizionale, il
risarcimento dell’interesse negativo non può mai eguagliare o superare quello dell’interesse positivo. Tuttavia, nel nostro ordinamento
non c’è una norma che ponga questo limite: dal punto di vista teorico, potrebbe anche darsi che il risarcimento dell’interesse negativo
eguagli o superi quello dell’interesse positivo. In un mercato trasparente e concorrenziale, i due interessi tendono a equivalere perché
le trattative alle quali il contraente ha rinunciato, in teoria, dovrebbero coincidere con le altre possibilità che il mercato offre.
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1.3 NATURA
L’obiettivo è quello di identificare la corretta qualificazione della responsabilità precontrattuale e la sua collocazione sistematica
rispetto alla responsabilità civile contrattuale o extracontrattuale. Sarà necessario capire quali sono le caratteristiche dei due tipi
fondamentali di responsabilità civile
Il problema della qualificazione della natura della responsabilità precontrattuale si pone dal momento che non ci sono norme che ne
disciplinano il regime. Ci sono invece delle norme, gli artt. 1218 e seguenti per quanto riguarda la responsabilità contrattuale (o da
inadempimento) e gli artt. 2043 e segg. per quanto riguarda la responsabilità extracontrattuale (o aquiliana), che delineano due modelli
diversi. È quindi fondamentale capire, per quanto riguarda la responsabilità precontrattuale, se essa si collochi in uno o nell’altro
genere, dal punto di vista della sua disciplina. Non è possibile infatti ravvisare un terzo genere, dal momento che il Codice Civile non
dà questa disciplina terza.
Responsabilità contrattuale (o da inadempimento)
Art. 1218: il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno.
La responsabilità, e quindi il dovere di risarcire il danno, segue in modo automatico al momento dell’inadempimento, che coincide con
la mancata, inesatta o ritardata esecuzione della prestazione dovuta. Il creditore che vuole ottenere il risarcimento del danno,
dovrà provare da un lato il danno, e dall’altro dovrà dimostrare di essere creditore (la fonte dell’obbligazione), di avere quindi diritto a
quello che era l’adempimento. Per quanto riguarda l’inadempimento, il creditore deve solo affermare che inadempimento c’è stato: la
partita si sposta quindi dal creditore al debitore, che se non vuole difendersi e risarcire il danno, dovrà o dimostrare che c’è stato esatto
adempimento oppure che, pur essendo mancata la prestazione, questo non era dovuto al suo comportamento, ma all’impossibilità
sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore stesso (ad impossibilia nemo tenetur).
Esempio: il debitore non ha effettuato la prestazione perché l’autorità amministrativa ha disposto la chiusura dei suoi impianti. Questo
potrebbe integrare gli estremi dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione e fa si che il debitore pur non avendo effettuato la
prestazione, non dovrà rispondere dei danni subiti al creditore. Tuttavia, se questa impossibilità fosse dovuta e imputabile al
comportamento del debitore stesso, quindi ad esempio se la chiusura degli impianti fosse stata disposta perché il titolare dell’attività ha
lasciato che fossero emanati dei fumi abusivi, allora si tratterebbe si una impossibilità imputabile al debitore, che quindi dovrebbe
risarcire il creditore dell’inadempimento secondo le regole normali.
La regola che si evince da tale articolo in tema di responsabilità contrattuale è questa: spetta al debitore fornire la prova liberatoria, a
fronte dell’inadempimento. Grava quindi sul debitore il rischio dell’inadempimento, di regola il debitore risponderà sempre nel caso in
cui il creditore non abbia fruito della prestazione come era dovuta. Il creditore ha un vantaggio dal punto di vista probatorio, ma anche
ha anche il vantaggio di fruire di una prescrizione ampia, la prescrizione ordinaria decennale: il creditore avrà dieci anni, a partire
dal momento del fatto, per chiedere in giudizio il risarcimento del danno. Nel complesso, date queste due caratteristiche, si capisce
come la posizione del soggetto che chiede risarcimento del danno contrattuale, sia piuttosto favorevole sia per l’onere della prova,
estremamente leggero, sia per una prescrizione piuttosto lunga, decennale.
Responsabilità extracontrattuale (o aquiliana)
L’obbligo di risarcire il danno in ambito civile sorge non soltanto quando c’è una prestazione dovuta che il debitore non esegue nei
confronti del creditore, ma anche quando, in assenza in un previo rapporto giuridico rilevante fra i soggetti, c’è una relazione che nasce
con l danno. È questo il caso della responsabilità extracontrattuale, regolata dall’ art. 2043, alla stregua del quale qualunque fatto
doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. Gli elementi
rilevanti perché sorga la responsabilità extracontrattuale, sono:
-
dal punto di vista oggettivo, la lesione di un interesse giuridico meritevole di tutela. Questo è fondamentale perché non si parli
di un danno meramente patrimoniale. È il caso di un imprenditore che non pretendesse il risarcimento del danno per la riduzione
del suo fatturato, perché un competitor produce gli stessi beni o servizi a un prezzo inferiore o ad una qualità superiore. Questo
non integra una responsabilità extracontrattuale, perché non c’è un interesse protetto, è anzi interesse della collettività che la
concorrenza avvenga in modo normale e che si possano produrre beni e servizi a prezzi inferiori. Si parla di danno ingiusto.
-
dal punto di vista soggettivo, il fatto in questione deve essere un fatto almeno colposo: se non c’era intenzionalità (dolo) di
danneggiare ci deve essere almeno la colpa, ossia la violazione di regole cautelari volte a impedire fatti dannosi (regole di
diligenza, prudenza e di perizia). Tali regole possono essere sia scritte come le regole del Codice della strada, sia regole non
scritte, di buon senso, volte ad evitare la causa di danni.
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Dalla lettura dell’articolo 2043 si evince dunque che gli elementi che devono sussistere perché sorga responsabilità extracontrattuale,
quello oggettivo dell’ingiustizia del danno e quello soggettivo della colpa o del dolo, gravano sul danneggiato, cioè su colui che ha
subito il danno e vuole chiedere al danneggiante il ristoro degli stessi. Ciò significa che la situazione, dal punto di vista probatorio, è
capovolta nell’ambito extracontrattuale, rispetto a ciò che accadeva in ambito contrattuale: non c’è qui un patto violato o un precedente
vincolo giuridico, sta quindi al danneggiato creare i presupposti e mettere in luce che esiste una posizione giuridica violata ed esistono
la colpa o il dolo. Dal punto di vista della prescrizione, la situazione del danneggiato è meno favorevole, la prescrizione è
quinquennale. Il tempo in cui il diritto al risarcimento del danno può essere esercitato è la metà di quello che era in ambito
contrattuale. Nel complesso, si capisce che il quadro è molto più favorevole nel caso che abbia subito un danno il creditore in ambito
contrattuale, che il danneggiato in ambito extracontrattuale. Dal momento che su quest’ultimo grava l’onere di provare tutti gli
elementi costitutivi del fatto illecito, è chiaro che sarà lui stesso a sopportare il rischio di questa mancata prova.
Responsabilità precontrattuale (art. 1337)
Qual è l’esatta qualificazione della responsabilità precontrattuale?
La tesi tradizionale è quella più scontata, ossia che la responsabilità precontrattuale sia una responsabilità aquiliana, quindi
extracontrattuale. Questo sembra ovvio perché, proprio per definizione, il danno precontrattuale sorge quando non c’è un valido
contratto (o perché non è stato stipulato o perché è stato stipulato, ma è invalido). La teoria dell’inquadramento extracontrattuale della
responsabilità precontrattuale si fonda su un’altra considerazione: è stato violato il principio racchiuso nell’art. 2043, che è quello di
non ledere le posizioni giuridiche meritevoli di tutela dei terzi. Sarebbe quindi un terzo, il soggetto con il quale si è avviata una
trattativa poi finita male, del quale si sarebbe violato un suo interesse giuridico meritevole di tutela, che è quello dell’affidamento
legittimo a proseguire e portare a termine una trattativa iniziata.
Da tempo, una buona parte della dottrina ha proposto una ricostruzione diversa della responsabilità precontrattuale. È la tesi
minoritaria che qualifica la responsabilità precontrattuale come responsabilità contrattuale. Come è possibile che si parli di
responsabilità contrattuale, quando in realtà un contratto non c’è stato (e se c’è stato era invalido)? Parlare di responsabilità
contrattuale è in parte improprio, bisognerebbe parlare più correttamente di responsabilità da inadempimento di una precedente
obbligazione, cioè di una prestazione che il debitore deve eseguire nei confronti del creditore. Le fonti di obbligazione non sono solo il
contratto e la legge stessa può far sorgere questi obblighi. Alla stregua di questa ricostruzione, si può qualificare come responsabilità
da inadempimento, la violazione della buona fede, che non è qui un dovere gravante verso tutti i soggetti (erga omnes), ma la buona
fede come oggetto di uno specifico obbligo che riguarda soltanto le due parti che hanno avuto un contatto sociale e qualificato volto
alla stipula di un contratto. L’incontro delle parti fa nascere tra di loro uno specifico obbligo, quello della buona fede: se questo
obbligo rimane inadempiuto c’è spazio per la responsabilità precontrattuale, intesa come responsabilità contrattuale, che segue quindi
la disciplina della responsabilità da inadempimento.
Se propendiamo, come fa la giurisprudenza tradizionale e anche buona parte della dottrina, per la qualificazione aquiliana come
conseguenza pratica avremo che il soggetto che chiede risarcimento del danno precontrattuale dovrà provare la colpa, quindi
l’elemento soggettivo dell’illecito, secondo lo schema che abbiamo visto essere proprio dell’art. 2043. L‘elemento oggettivo
dell’ingiustizia del danno, o della cosiddetta antigiuridicità della condotta, sarà invece implicito se sussistono le ipotesi considerate
applicative dell’art. 1337, ossia della buona fede precontrattuale. La seconda conseguenza applicativa è che il tempo che sarà
disponibile per il danneggiato per chiedere il risarcimento è di 5 anni, secondo appunto lo schema della responsabilità
extracontrattuale.
Se invece propendiamo per la qualificazione contrattuale, come fa una buona parte degli studiosi, avremo come prima conseguenza
applicativa che colui che ha subito il danno non dovrà provare la colpa, cioè l’elemento soggettivo dell’illecito e, in secondo luogo, si
potrà giovare della prescrizione decennale ordinaria.
Dopo decenni in cui i giudici non avevano mai dubitato della natura extracontrattuale o aquiliana della responsabilità precontrattuale
(in contraendo), sopraggiungono due recenti sentenze che hanno proposto una ricostruzione diversa, prestando attenzione a quelle che
sono le prospettive della dottrina più autorevole.
Si tratta di sentenze della Corte di Cassazione, alla quale si rivolgono i soggetti dopo aver ricevuto una sentenza di primo grado presso
un tribunale e una sentenza di secondo grado presso una corte d’appello. La Corte di Cassazione, con unica sede a Roma, ha una
funzione nomofilattica, ossia di salvaguardare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge. Ciò significa che il soggetto
che chiede tutela, non soltanto avrà una risposta che riguarda la sua situazione soggettiva, ma quello che diranno i giudici della
cassazione nella sentenza che lo riguarda sarà un qualcosa in grado di esprimere un’efficacia persuasiva, anche rispetto alle scelte
interpretative che effettueranno i giudici in futuro.
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L’ambito civile della corte di cassazione è diviso in sei sezioni, che si occupano di diverse materie. Potrebbe sorgere un contrasto fra le
sezioni civili, e in tal caso la questione viene rimessa alle sezioni unite della Corte di Cassazione che cercano di dirimere il contrasto.
Le sentenze in esame, del 2011, sono state emesse dalla sezione prima, detta anche semplice, della Corte di Cassazione e hanno
proposto una ricostruzione del tutto innovativa della responsabilità precontrattuale come responsabilità da inadempimento,
sconvolgendo quello che era l’orientamento tradizionale. Si può pensare che in futuro la questione venga posta all’attenzione delle
sezioni unite e in tal caso si potrà parlare, se le sezioni unite seguiranno anch’esse la sezione semplice e muteranno l’orientamento
tradizionale, di un cosiddetto revirement, ossia di un cambiamento di rotta nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Caso:
Tale caso è stato affrontato dalla prima delle due sentenze, di cui si è parlato in precedenza, della corte di cassazione e ci permetterà di
saggiare qual è la portata applicativa della configurazione contrattuale, anziché extracontrattuale della responsabilità precontrattuale
stessa. Il caso vedeva un privato A che doveva concludere un contratto con la Pubblica Amministrazione. Stipulato questo contratto, un
altro soggetto B era interessato all’aggiudicazione, ma era stato ritenuto non idoneo ottiene l’annullamento dell’aggiudicazione stessa
per l’illegittimità della procedura con cui era stato selezionato il primo soggetto. Anche il contratto stipulato tra il primo soggetto e la
PA viene travolto. Quindi il soggetto che aveva confidato nella legittimità di quel contratto, senza sua colpa, chiederà il risarcimento
del danno precontrattuale. Si tratta di un’ipotesi espressamente prevista dal Codice Civile all’art. 1338, secondo il quale: la parte che,
conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte. In
particolare, nel caso di specie il privato che aveva contrattato con la PA lamentava che, nonostante il soggetto B avesse fatto ricorso,
questo non gli fosse stato notificato e comunque non era stato ostativo alla stipula del contratto. Se i giudici, nel caso di specie,
avessero propeso per una qualificazione extracontrattuale sarebbe stato molto più facile che il soggetto A non avrebbe ricevuto alcun
risarcimento perché oltre a provare antigiuridicità del fatto, coincidente con l’integrazione della fattispecie dell’articolo 1338, avrebbe
dovuto provare anche la colpa della PA. In questo caso invece, ottiene il risarcimento facilitato dal fatto che i giudici propendano per
una qualificazione contrattuale (o da inadempimento). Per cui c’è un’inversione dell’onere della prova e spetta ala PA dimostrare
l‘assenza della propria colpa.
Dando uno sguardo comparatistico, possiamo renderci conto che la qualificazione aquiliana è ancora prevalente nei paesi dell’UE
seguendo il modello francese. La corte di giustizia europea, chiamata a pronunciarsi su questo tema, all’inizio del secondo millennio
ha ricostruito la responsabilità precontrattuale in termini extracontrattuali. La qualificazione contrattuale è proprio del modello tedesco
anche se nei modelli anglosassoni si riconosce un alleggerimento della prova gravante sul danneggiato. In Italia, con queste sentenze
del 2011, propende in maniera ancora debole per una qualificazione contrattuale, possiamo pensare che se in futuro anche le sezioni
unite della Corte di Cassazione italiana propenderanno per una qualificazione contrattuale della responsabilità precontrattuale,
potrebbe darsi che la corte di giustizia europea in futuro sarà meno decisa a guardare al fenomeno della responsabilità precontrattuale,
in termini strettamente aquiliani.
1.4. RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE NUOVE FRONTIERE
Le singole ipotesi in cui la buona fede precontrattuale risulta violata e sorge la relativa responsabilità sono:
-
abbandono ingiustificato delle trattative: una parte in modo arbitrario, quando le trattative hanno già raggiunto uno stadio
avanzato, le abbandona;
-
mancata informazione sulle cause di invalidità del contratto: art. 1338, che si riconduce alla clausola generale di buona fede
dell’articolo precedente;
-
induzione a stipulare un contratto attraverso l’inganno: è il caso di un contratto invalido, annullabile, perché la parte che ha subito
dei raggiri non avrebbe stipulato il contratto.
In ognuno di questi casi, una parte può chiedere all’altra il risarcimento del danno precontrattuale.
È possibile ora valutare il tratto comune di queste ipotesi di responsabilità precontrattuale: manca un contratto valido (o il contratto
non c’è proprio o, se stipulato, è invalido). Non c’è un contratto che sia in grado di assicurare i suoi effetti, quindi la parte delusa non
potrà mai chiedere la soddisfazione del cosiddetto interesse positivo, ossia l’interesse all’adempimento, ad ottenere la prestazione che
è dedotta nel contratto. Resta da risarcire soltanto l’interesse negativo, ossia l’interesse a non perdere tempo e occasioni verso trattative
inutili, che non garantiranno le prestazioni alle quali una parte mira.
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La responsabilità precontrattuale potrebbe sorgere anche in presenza di un contratto valido ed efficace?
La posizione tradizionale era negativa: si riteneva infatti che se le trattative avevano portato alla stipula di un valido contratto, lo scopo
per cui le trattative erano instaurate, erano state raggiunte e quindi si aveva una sorta di sanatoria per il raggiungimento dello scopo
riguardante tutto quello che era avvenuto nella fase precontrattuale. Le trattative, in altre parole, erano giunte alla loro naturale
conclusione e non possono dirsi inutili. Di conseguenza, dato che un contratto è stato stipulato, manca l’interesse negativo da risarcire
(interesse a non perdere tempo in trattative inutili perché non conducono alla stipula di un valido contratto). Mancando l’interesse
negativo, è anzi presente l’interesse positivo perché il contratto valido dà alla parte contraente la possibilità di pretendere la
prestazione dedotta nel contratto stesso. Il fatto che ci fosse una totale incompatibilità tra interesse negativo e interesse positivo e che
qui, nel caso di stipula di un contratto valido ed efficace, si potesse parlare di interesse positivo, faceva si che ci fosse una totale
incompatibilità tra la responsabilità precontrattuale volta a soddisfare l’interesse negativo e quella contrattuale, diretta a soddisfare
l’interesse positivo. Si negava quindi spazio applicativo alla responsabilità precontrattuale, quando il contratto, valido ed efficace, era
stato stipulato.
C’è almeno una ipotesi, espressamente prevista dal Codice Civile, in cui il risarcimento del danno precontrattuale sembra convivere
con un contratto valido ed efficace. È il caso del dolo incidente, previsto dal Codice Civile all’art. 1440: se i raggiri non sono stati
tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse. Se la parte in
assenza di raggiri avrebbe comunque stipulato il contratto, il contratto non può dirsi annullabile, anche se lo avrebbe stipulato in
condizioni diverse, più vantaggiose.
Ad esempio, attraverso un raggiro un soggetto cerca di vendere un telefono cellulare che la controparte avrebbe comunque comprato,
ma avendo delle caratteristiche diverse e peggiori rispetto a quelle che ha mostrato esistere nella trattativa, l’altra parte avrebbe pagato
un prezzo inferiore.
L’articolo conclude: il contraente in mala fede risponde dei danni. Il Codice Civile offre all’interprete un caso chiaro ed
inequivocabile in cui da un lato, c’è il contratto valido e dall’altro, c’è il diritto al risarcimento dei danni per una parte. Si tratta di un
risarcimento del danno precontrattuale, perché fa riferimento a delle scorrettezze che sono avvenute nella fase delle trattive.
Norme analoghe sono previste nella parte speciale del Codice, cioè in quella parte che disciplina non già il contratto in generale, ma i
singoli contratti. In particolare, facciamo riferimento agli artt. 1812 e 1821, in tema dei danni che ha subito il comodatario (soggetto
che ha preso una cosa in prestito d’uso o comodato d’uso) o il mutuatario (soggetto che ha ricevuto la cosa a mutuo) per i vizi che sono
stati sottaciuti, nascosti pur essendone a conoscenza, da parte del comodante o mutuante. C’è da un lato la presenza di un contratto
valido ed efficace, e dall’altro l’espressa previsione della possibilità di richiedere il risarcimento del danno precontrattuale. Il titolo
della responsabilità sarà precontrattuale perché si tratta di vizi che sono stati sottaciuti, la cui esistenza andava contro una regola della
buona fede precontrattuale, ossia quella di informare l’altra parte su tutte le caratteristiche dell’operazione che si ad effettuare.
Guardando al diritto positivo, quindi al diritto posto dal legislatore, bisogna dare una risposta affermativa alla domanda iniziale, e cioè
se la responsabilità precontrattuale possa convivere con un contratto valido ed efficace. Questo smentisce la teoria tradizionale, per cui
la responsabilità precontrattuale sarebbe superata e assorbita dalla valida stipula di un contratto. In base allo stesso contratto si può
avere un cumulo di responsabilità precontrattuale da un lato, e cioè la possibilità in base a un contratto stipulato e valido di chiedere
comunque il risarcimento del danno precontrattuale, e dall’altro, nel caso in cui quel contratto non sia adempiuto, chiedere a titolo di
responsabilità contrattuale, l’adempimento dello stesso, cioè il risarcimento e ristoro dell’interesse positivo.
La possibilità di applicare la buona fede precontrattuale anche con un contratto valido ed efficace è limitata a queste ipotesi? Occorre
delimitare l’ambito di applicazione di questa possibilità di cumulo.
per delimitare l’ambito di applicazione della buona fede precontrattuale in presenza di un contratto valido ed efficace occorre
domandarsi circa il carattere eccezionale o meno delle singole previsioni degli artt. 1440, 1812 e 1821. Nel diritto esiste una regola
interpretativa, detta interpretazione analogica, e quindi la possibilità di applicare una regola anche ai casi che non sono previsti dalla
regola stessa, ma che sono improntati alla stessa logica. Questa possibilità e prevista dall’articolo 12 delle Preleggi, o disposizioni
preliminari al Codice Civile. All’art. 14 esiste una regola, sempre contenuta nelle Preleggi, in base alla quale l’interpretazione
analogica non può essere utilizzata se la norma alla quale si fa riferimento e che si vuole applicare ai casi previsti è una norma
eccezionale, che fa quindi eccezione alle regole generali. Alla luce di questa regola interpretativa, un tempo l’interpretazione
prevalente era ritenere eccezionale le norme che danno la possibilità di ricorrere alla responsabilità precontrattuale anche in presenza
di un contratto valido perché il principio, rispetto al quale queste norme farebbero eccezione, era quello dell’incompatibilità della non
cumulabilità della responsabilità precontrattuale e di quella contrattuale. Successivamente, a partire dalla metà degli anni ’90, gli
studiosi hanno accettato un’idea diversa per cui il principio non è quello della non-cumulabilità, ma anzi, in base alla teoria dei
cosiddetti “vizi incompleti”, queste singole norme, che prevedono la possibilità di cumulare i due tipi di responsabilità e di utilizzare
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la responsabilità precontrattuale anche in presenza di un contratto valido, fossero delle norme non eccezionali, ma espressive esse
stesse di un principio generale.
Questo principio, principio della possibilità di cumulare i due tipi di responsabilità e di ricorrere alla responsabilità precontrattuale
anche in presenza di un contratto valido, è stato sancito dalla giurisprudenza. In particolare, la sentenza pilota è una sentenza di una
sezione semplice della Cassazione del 2005. Tale sentenza riguardava un caso di intermediazione finanziaria: un soggetto privato
stipula con una banca, intermediario finanziario, dei contratti per l’acquisto di valori mobiliari. La banca, contravvenendo a una serie
di regole normative espressione della buona fede precontrattuale, non informa il privato sui rischi connessi alle operazioni finanziarie
in esame. Addirittura, consiglia in positivo delle operazioni spregiudicate, che non rispettavano quello che era il profilo di rischio del
soggetto e, a seguito delle ingenti perdite subite, il privato chiede al giudice il risarcimento del danno. La sentenza dà una risposta
estremamente innovativa rispetto a quello che è il panorama tradizionale: la Cassazione nega la tesi della banca, e quindi quella del
principio tradizionale per cui on si può ricorrere alla responsabilità precontrattuale in presenza di un contratto valido, e quindi accoglie
la teoria dei “vizi incompleti” proposta dalla dottrina circa dieci anni prima. In quell’occasiona la Corte di Cassazione ha sancito tale
principio: la responsabilità per violazione di buona fede durante le trattative o di più specifici obblighi precontrattuali (ad esempio,
informativi) non è limitata ai casi in cui alla trattativa non segua la conclusione del contratto o segua la conclusione di un contratto
invalido ed inefficace (posizione tradizionale), ma si estende ai casi in cui la trattativa abbia per esito la conclusione di un contratto
valido ed efficace ma pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto. L’effetto della decisione in esame è quindi
quello di allargare il novero di ipotesi riconducibili all’art. 1337 (clausola generale di buona fede precontrattuale), andando ad
aggiungere alle ipotesi già viste (abbandono ingiustificato delle trattative, mancata informazione sulle cause di invalidità del contratto,
induzione a stipulare un contratto attraverso l’inganno), un’ipotesi di induzione a stipulare un contratto valido ma svantaggioso. La
slealtà precontrattuale non è tale da carpire il consenso, ma conduce alla stipula di un contratto svantaggioso che ha un contenuto
diverso e peggiore per la parte che ha subito le slealtà contrattuali di quello che avrebbe potuto avere se tali slealtà non avessero avuto
luogo.
Ragioniamo ora sulla quantificazione del danno precontrattuale subito in questa quarta fattispecie di responsabilità in contraendo,
caratterizzata dalla presenza di un contratto valido ma parimenti sconveniente. La sentenza della Cassazione del 2005 e anche le
sentenze successive che si pongono sulla stessa linea chiariscono che: la quantificazione di questo danno non deve essere commisurata
all’interesse positivo (cioè al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto, questo è fondamentale per distinguere la
responsabilità contrattuale da quella precontrattuale), e nemmeno all’interesse negativo in senso stretto (cioè l’interesse della parte a
non perdere tempo in trattative rivelatesi poi inutili, quindi parametrando il risarcimento del danno alle spese sostenute e alle occasioni
perse, perché in questo caso la trattativa non è stata inutile poiché ha condotto comunque a un contratto valido).
La sentenza della Cassazione fa riferimento, come criterio alla luce del quale ragguagliare l’ammontare del risarcimento del danno, al
minor vantaggio o al maggior aggravio economico subito per il comportamento sleale della controparte.
Esempio:
-
Vr: valore reale del bene o della controprestazione Vr=50
-
Vi: valore ipotetico, ossia il valore della controprestazione o del bene che appariva al contraente a causa della falsa
rappresentazione indotta dalla slealtà precontrattuale commessa Vi=100
-
P: corrispettivo, prezzo pagato dalla parte vittima delle slealtà precontrattuali P=70
Tenendo conto di questi numeri, possiamo individuare almeno due strade da seguire per quantificare il danno precontrattuale subito.
i) Out of pocket. La prima via, tipica degli ordinamenti di common law, e fa riferimento alla riduzione del prezzo. Si mantiene
ferma la prestazione il bene ottenuto dalla parte, ma si va a ridurre il prezzo pagato attraverso lo strumento del risarcimento
precontrattuale. Si dà alla parte vittime di slealtà precontrattuale, a titolo di risarcimento del danno, una somma x, pari alla
differenza tra il prezzo pagato e il valore reale del bene o della controprestazione. Nel nostro esempio, il risarcimento del danno
ammonta a x=70-50=20. Attraverso questa strada, si mette la parte vittima di slealtà precontrattuale nella stessa situazione in cui si
sarebbe trovata se non ci fosse stata la falasa rappresentazione, cioè se la parte avesse potuto percepire in modo trasparente quello
che era il valore del bene o della contro prestazione.
ii) Loss of bargain. Attraverso tale strada non si riduce il prezzo, ma si assicura il profitto atteso. Attraverso il meccanismo del
risarcimento del danno, si va ad incrementare, per equivalente, quello che è il valore del bene o della controprestazione stessa. Il
risarcimento x sarà quindi pari alla differenza tra il valore ipotetico del bene o della controprestazione e il prezzo pagato. In questo
caso, andremo a quantificare il risarcimento precontrattuale in questo modo: x=100-70=30. È chiaro che applicando questa strada
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andremo a porre la parte vittima delle slealtà precontrattuali nella situazione in cui si sarebbe trovata se il bene avesse avuto le
caratteristiche rappresentata, quindi come se la rappresentazione falsa fosse stata vera. Seguendo questa via di quantificazione,
andremo a risarcire qualcosa che si avvicina molto di più a un interesse positivo virtualmente inteso, rispetto a quello che è il
tradizionale interesse negativo oggetto di responsabilità precontrattuale.
Rispetto all’esistenza della legittimità stessa della responsabilità precontrattuale in presenza di un contratto valido, una parte della
dottrina risulta e rimane perplessa. Questo perché, attraverso l’applicazione di una norma generica come la clausola generale di buona
fede precontrattuale, si va a incidere su quello che è il contenuto del contratto, quindi a riequilibrare, attraverso lo strumento del
risarcimento, le prestazioni dedotte nel contratto in assenza di una normativa espressa che autorizzi i giudici a fare questo.
1.5. WEBINAR
In generale, responsabilità significa rispondere delle conseguenze per aver tenuto un comportamento contrario al diritto. Il tipo di
responsabilità giuridica può essere di tipo personale o patrimoniale. Con responsabilità personale intendiamo quel tipo di
responsabilità giuridica che incide direttamente sulla persona e sulla sua libertà personale (arresto), mentre la responsabilità
patrimoniale va a incidere indirettamente sulla persona e direttamente sul suo patrimonio. La responsabilità personale non viene
contemplata nel diritto privato, ma viene in rilievo nell’ambito del diritto penale, in cui la responsabilità tocca la persona stessa perché
sono in gioco delle fattispecie di reato, ossia di condotte che sono lesive sia di interessi privati, ma anche e soprattutto di interessi
pubblici. L’attivazione non è solo privata, ma pubblica. A sua volta la responsabilità civile, e quindi patrimoniale, si scinde in:
-
Responsabilità contrattuale. Non riguarda solo la violazione del contratto, ma qualsiasi obbligazione che rimane inadempiuta.
L’obbligazione è un rapporto tra due soggetti, creditore e debitore, nell’ambito del quale il debitore deve effettuare una
prestazione nell’interesse del creditore. L’obbligazione non nasce solo dal contratto: all’art. 1173 vi è infatti una norma dal titolo
“fonti delle obbligazioni”, la quale afferma che le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto
idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico. La responsabilità contrattuale è quindi, più in generale, un
inadempimento di una pregressa obbligazione. La responsabilità civile contrattuale tutela l’interesse positivo, ossia l’interesse del
creditore a ricevere ciò che l’obbligazione gli prometteva. Se il debitore non adempie, il creditore può richiedere il risarcimento
del danno, che corrisponde a quello che avrebbe dovuto dare la controparte, cioè tutto quello e proprio quello che l’obbligazione
avrebbe dovuto comportare. Ovviamente, Se si tratta di una prestazione già di denaro, rimaniamo ad avere una prestazione in
denaro anche come risarcimento del danno, se invece il debitore avrebbe dovuto compiere un’obbligazione di fare, sarà necessario
valutare dal punto di vita patrimoniale il tipo di danno ricevuto. Una volta che è stato quantificato il danno, anche se il debitore
non adempie, il creditore potrà andare ad intaccare il patrimonio del debitore, e quindi compiere atti esecutivi sul suo patrimonio.
La norma cardine che va ad esplicitare la responsabilità da inadempimento è l’art. 1218 del Codice Civile, responsabilità del
debitore (parte passiva dell’obbligazione): il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta (inadempimento) è tenuto
a risarcire il danno se non prova che tale inadempimento o ritardo è stato determinato da un’impossibilità della prestazione
derivante da causa non imputabile. Se la prestazione che il debitore doveva effettuare non è diventata impossibile e il debitore non
la effettua come promesso, allora dovrà risarcire il danno. Si parla di un diritto relativo, tra due persone.
-
Responsabilità extracontrattuale. Un fatto illecito è una condotta extracontrattuale con cui un soggetto danneggia un altro, per
cui lede la sfera giuridica soggettiva di un altro soggetto e in questo caso sorge la responsabilità extracontrattuale. Vi sono due
soggetti che si incontrano al momento della produzione del danno. Il danneggiato chiede i danni a colui che ha causato il danno, e
tale danno si parametrerà rispetto all’interesse negativo, ossia all’interesse del danneggiato a non subire una lesione della propria
sfera giuridica. Affinché il danno possa essere qualificato come risarcibile vi devono essere almeno la colpa (violazione prudenza,
perizia e diligenza) o il dolo (intenzione di ledere), come elemento soggettivo, e il danno ingiusto (deve essere stato leso un
interesse giuridico meritevole di tutela), come elemento oggettivo. In questo caso, la norma cardine è l’art. 2043, responsabilità
extracontrattuale: qualunque fatto doloso o colposo (elemento soggettivo) che cagiona ad altri un danno ingiusto (elemento
oggettivo), obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. In questo caso non c’è un automatismo: il fatto dev’essere
doloso o colposo e il danno dev’essere ingiusto, non vi è quindi una pregressa prestazione che non è stata rispettata, il rapporto tra
le parti nasce appunto con il danno. Si parla i questi casi di diritti assoluti (vita, salute…) che vengono fatti valere verso tutti, e
rispetto ai quali ogni soggetto vanta il diritto a non subire un’interferenza da parte di altri.
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Responsabilità precontrattuale
Sorge prima della stipula di un contratto e in relazione a comportamenti tenuti nelle fasi che precedono la stipula di un contratto. È
importante distinguere tra diligenza e buona fede.
Diligenza, art. 1176. È un parametro di valutazione dell’adempimento del rapporto obbligazionario: vi un debitore che deve compiere
una prestazione nei confronti del creditore. Il debitore deve effettuare tale prestazione con la diligenza del buon padre di famiglia. La
diligenza è un parametro elastico della condotta del debitore. Come il debitore ha effettuato la prestazione? Se ha rispettato la diligenza
del buon padre di famiglia, non può essere considerato inadempiente. Diligenza si riferisce unicamente al comportamento tenuto dal
debitore nell’eseguire la prestazione.
Buona fede, art. 1337: le parti nello svolgimento delle trattative devono comportarsi secondo buona fede. La buona fede è quindi un
criterio di condotta che vale per entrambi i contraenti. Con buona fede si indica uno stato soggettivo di ignoranza di ledere l’altrui
diritto. Questo è un elemento che talvolta è decisivo affinché certe fattispecie si realizzino. ci sono delle ipotesi in cui essere o meno in
buona fede, quindi ignorare o meno che il proprio comportamento stia ledendo l’altrui diritto, è cruciale. Ad esempio, possesso vale
titolo, art. 1153: colui al quale sono alienati i beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante
possesso purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo (contratto valido) al trasferimento della
proprietà. Ciò significa che un soggetto sta acquistando da un altro che non è proprietario, la cosa è un bene mobile e viene consegnata
al soggetto che ne acquista il possesso materialmente ed è in buona fede. Quindi nel caso del possesso vale titolo si parla di buona fede
soggettiva, mentre all’art. 1337 ci si riferisce alla buona fede oggettiva. La buona fede soggettiva non è una regola di condotta, è uno
stato soggettivo (sapere/non sapere di ledere l’altrui diritto), mentre comportarsi secondo buona fede significa uniformare la propria
condotta a una regola di comportamento. La buona fede soggettiva è quindi l’ignoranza di ledere l’altrui diritto e rileva per alcune
fattispecie, altre volte si parla di comportarsi secondo buona fede, quindi una regola di condotta non precisa o determinata. È infatti un
criterio piuttosto elastico che si adatta alle varie situazioni. Si parla di comportarsi secondo buona fede, in tutti i casi in cui il
legislatore sceglie liberatamene e consapevolmente di non dare una normazione, una disciplina precisa e puntuale, sente di non poter
raccogliere in modo efficace in certe norme più precise i comportamenti delle persone e sceglie pertanto di adottare come tecnica
legislativa la cosiddetta clausola generale. Una norma elastica di comportamento che spetta al giudice andare a identificare nei suoi
tratti costitutivi. Il giudice non è quindi un mero applicatore del diritto, la sua è un’attività che ha sempre un carattere valutativo e un
margine di discrezionalità significativo.
L’ipotesi più classica e tradizionale che si riporta come espressione della violazione di buona fede precontrattuale, quindi come ipotesi
di concretizzazione della clausola generale di buona fede precontrattuale, è il caso in cui le parti abbiano a che fare per un certo lasso
di tempo nel quale sorge un affidamento. Nel caso di abbandono ingiustificato delle trattative la parte che non si comporta secondo
buona fede è chiamata a rispondere e quindi a risarcire i danni causati.
L’art. 1223 è questa una norma dettata nell’ambito della responsabilità da inadempimento ma che vale anche nell’ambito della
responsabilità extracontrattuale: il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita
dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenze immediate e dirette. In altre parole, si parla rispettivamente
di danno emergente 8perdita subita) e lucro cessante (mancato guadagno). Questi concetti vanno declinati anche nel caso di
responsabilità precontrattuale: il danno emergente riguarda quindi le spese sostenute per portare avanti le trattative (spese di
consulenza, di viaggi per incontrare la controparte…) e il lucro cessante che fa riferimento alle occasioni perdute.
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DOMANDE MODULO 1
-
Che cos’è la responsabilità? E in che modo quelle civile differisce da quella penale?
-
In che modo si caratterizza la responsabilità precontrattuale rispetto a quella contrattuale e aquiliana?
-
Quali sono le ipotesi di responsabilità precontrattuale e cosa hanno in comune?
-
Quali sono i presupposti del risarcimento del danno e di quali voci si compone?
-
Che cosa s’intende per danno precontrattuale?
-
Come si quantifica e quali profili critici puoi individuare?
-
In che termini si pone il problema riguardante la natura della responsabilità precontrattuale?
-
Qual è la struttura e la funzione della responsabilità aquiliana e di quella contrattuale? Quali ricadute applicative?
-
Come viene qualificata la responsabilità contrattuale nel nostro ordinamento e negli ordinamenti circostanti?
-
Che cos’è il dolo incidente e qual è la caratteristica peculiare di questa figura?
-
Come veniva interpretata tradizionalmente la norma sul dolo incidente e come si è evoluta?
-
Come si liquida il danno precontrattuale da contratto valido, ma sconveniente? Quali dubbi sollevano le nuove frontiere della
responsabilità precontrattuale?
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Modulo 2
Il contratto P2P (seconda parte)
2.0. LEZIONE IN CLASSE
Con riferimento alle trattative funzionali alla conclusione del contratto, le fonti di un’eventuale responsabilità precontrattuale sono:
-
abbandono ingiustificato delle trattative;
-
mancata informazione sulla possibile invalidità del contratto;
-
dolo contrattuale: artificio e raggiro induce la controparte a stipulare un contratto che senza artificio e raggiro non sarebbe stato
stipulato. In questo caso il contratto è annullabile.
Nel caso dei contratti asimmetrici, nella fase delle trattative è prevista una serie di obblighi informativi e non una clausola generale di
buona fede e correttezza (art. 1337), come nel caso dei contratti tra privati. Il legislatore prevede che, già nella fase delle trattative, la
parte professionista dia una serie di analitiche informazioni alla controparte, con finalità di trasparenza. Questo perché uno dei grandi
problemi dell’asimmetria contrattuale è di tipo informativo, dunque un ruolo cruciale è giocato dalla fase delle trattative, detta fase
anche pre-negoziale. Vi è quindi necessità che la parte che subisce l’asimmetria, cioè quella meno informata, sia edotta, il più
specificatamente possibile, dei contenuti che il contratto andrà ad acquisire. Rispetto al modello tradizionale, dove la responsabilità
precontrattuale si fonda su una formula generale di buona fede nelle trattative, nel modello speciale del contratto asimmetrico, al
contraente professionista è imposta dalla legge una seria di obblighi informativi, molto più incisivi e di dettaglio. Registriamo
un’evoluzione dalla disciplina generale del contratto alla disciplina del contratto asimmetrico (secondo e terzo contratto).
Un secondo momento in cui la disciplina generale viene superata dalle regole speciali è quello dei contratti per adesione.
Il legislatore del ’42 aveva sempre pensato ad un modello contrattuale in base al quale vi sono due parti, in posizioni tendenzialmente
paritarie, che pongono in essere le loro trattative e giungono ad un accordo equilibrato, sulla base del quale stipulano il contratto. Già
al tempo molto spesso i contratti non si concludevano mediante questa modalità di scambio di proposta e accettazione all’esito di
specifica e approfondita trattativa, ma vi era che un contraente che predisponeva il regolamento contrattuale, lo offriva alla controparte
e questa poteva decidere se concludere o meno il contratto. Quindi, il contratto si conclude non mediante proposta ed accettazione, ma
mediante una proposta e una mera adesione ad un contratto già integralmente predisposto dalla controparte (ad esempio, contratto con
una società che gestisce servizi di telefonia o per la fornitura di gas). Non c’è un modello di discussione sulla proposta, al fine di
indurre il proponente a modificare la proposta e le condizioni, ma c’è un testo predisposto e un “prendere o lasciare”. Quindi, ad
esempio, chi vuole accedere al servizio di telefonia, semplicemente aderisce alle condizioni contrattuali già predisposte. Dietro tale
modello, potrebbe nascondersi quell’asimmetria informativa che il legislatore ha poi regolato. Già il Codice del ‘42 si rendeva conto
che la contrattazione potesse essere asimmetrica e aveva previsto degli interventi normativi, ma molto prudenti e moderati, che la
troviamo all’art. 1341. Tale norma, al secondo comma, sostiene che se nei contratti predisposti il predisponente ha previsto (e quindi
imposto alla controparte) delle cosiddette clausole vessatorie, quindi che tolgono diritti all’aderente oppure aggiungono diritti e
facoltà al predisponente, queste clausole devono essere specificamente approvate dalla parte aderente: la parte aderente non si può
limitare a firmare il contratto, ma dovrà specificamente sottoscrivere le singole clausole vessatorie. Una tutela formale di questo tipo è
funzionale ad indurre l’aderente a concentrare il suo sguardo su quelle clausole (si presuppone che il contraente, dovendo firmare la
singola clausola, ne prenda anche visione), ma non ha dispiegato effetti sostanziali significativi. Tale norma non ha dato quella
particolare protezione al consumatore che il legislatore si era prefigurato: l’aderente, nella maggior parte dei casi, non controlla
effettivamente il contenuto delle clausole e anche se lo facesse, non avrebbe la possibilità di contestarlo e impostare quindi una
trattativa funzionale a far cambiare al predisponente il contenuto di quella clausola, poiché il consumatore non ha sufficiente potere
negoziale. Inoltre, sempre prendono ad esempio la somministrazione di servizi telefonici, è molto probabile che gli operatori utilizzino
lo stesso schema contrattuale, con clausole vessatorie molto simili.
Il legislatore europeo su questo tema interviene radicalmente: la direttiva 93/13 della Comunità europea regola la disciplina delle
clausole vessatorie o abusive nei contratti tra professionista e consumatore. Tale norma sostiene che se il contratto è predisposto e
l’altra parte solo aderisce ed in più la parte che aderisce è un consumatore (l’aderente potrebbe essere anche un’impresa), allora si
applicano delle regole molto diverse e radicali nel tutelare l’aderente. Vi è pertanto la regola che prevede la nullità della clausola
vessatoria o abusiva se ricorrono requisiti di abusività della clausola, anche se le clausole vengono sottoscritte dal consumatore. Ciò
non significa che venga meno l’art. 1341 del Codice Civile, poiché continua ad essere l’unica tutela nel caso in cui l’aderente non sia
un consumatore, ma sia un altro soggetto (ad esempio, un’impresa). In ogni caso, la regola della doppia sottoscrizione rimane
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vincolante: se il consumatore non sottoscrive specificamente la clausola abusiva o vessatoria, in automatico vi è la nullità per mancata
sottoscrizione. Se invece l’aderente è un consumatore e la clausola viene sottoscritta (salva dal punto di vista formale), può essere
reputata nulla dal punto di vista sostanziale, poiché reputata abusiva (se ricorrono i requisiti di abusività).
Forza di legge
L’art. 1342 afferma che il contratto ha forza di legge tra le parti. Ciò significa che, una volta concluso il contratto, le parti sono ad esso
vincolate: non possono sottrarsi unilateralmente agli effetti negoziali del contratto, ovviamente rimane sempre possibile il mutuo
consenso/dissenso. Il problema si pone quando una sola delle parti, dopo aver stipulato il contratto, intende sciogliersi dal vincolo
contrattuale. Ad esempio, se le parti stipulano un contratto di subfornitura di servizi e concordemente decidono di scioglierlo, non si
pone alcun problema perché, come l’autonomia e la volontà delle parti può far nascere contratti, così l’autonomia e la volontà delle
parti può liberamente scioglierli. Invece, nel caso in cui una sola delle parti, dopo aver stipulato il contratto, intende unilateralmente
sciogliersi dal vincolo contrattuale, si parla di recesso dal contratto. Il recesso unilaterale normalmente non è ammesso, perché in
contrasto con la forza di legge del contratto stesso, ma ci sono due casi particolari:
-
Recesso legale: è la legge stessa che autorizza una delle parti a recedere unilateralmente dal contratto. La legge di solito lo
permette nei casi di contratti di durata, che costituiscono un rapporto negoziale prolungato nel tempo, ad esecuzioni differite o
periodiche continuative (ad esempio, il contratto di lavoro). La legge consente in molti casi, per uno dei due contraenti o entrambi,
di recedere dal contratto. Tanto più lo consente nel caso di contratti di durata a tempo indeterminato (ad esempio, il licenziamento
e le dimissioni). La legge subordina queste fattispecie di recesso legale a determinate condizioni, che possono riguardare: il modo
in cui si recede o anche le condizioni cui il recesso è subordinato. Ad esempio, è possibile recedere dal contratto solo se c’è giusta
causa, quindi una ragione oggettiva e giustificata. In altri casi, il recesso può non essere motivato, ma è possibile che la legge
ponga dei limiti nelle modalità con cui si recede (ad esempio, i termini di preavviso).
-
Recesso volontario. È possibile nel caso in cui nel contratto sia scritto che se una delle due parti recede dal contratto, questa
dovrà pagare una somma di denaro a titolo di risarcimento.
Il recesso è un altro grande tema rispetto al quale registriamo interventi normativi che allargano significativamente le fattispecie di
recesso legale, e quindi la facoltà per il contraente debole di esercitare un diritto di recesso a scopi di protezione. I recessi hanno la loro
ragion d’essere soprattutto nel caso di contratti di durata, ma nei nuovi recessi di protezione vi sono delle fattispecie di recesso legale
anche rispetto a contratti ad esecuzione istantanea. Mentre i contratti di durata sono contratti a prestazioni periodiche continuative,
quindi gli effetti del contratto si protraggono a lungo (ad esempio, il contratto di locazione o il contratto di lavoro), nei contratti ad
esecuzione istantanea, il contratto esaurisce immediatamente i suoi effetti e le parti non sono più legate da alcun tipo di rapporto
contrattuale (ad esempio, il contratto di compravendita). Normalmente, da contratti di questo genere non si può recedere
unilateralmente, perché ormai il contratto ha esaurito i suoi effetti: infatti, il recesso ha senso se il contratto è ancora in vita.
Eccezionalmente, nei nuovi recessi di protezione si prevedono fattispecie di recesso anche per contratti ad esecuzione istantanea. Il
caso classico è l’acquisto di un bene mediante piattaforme digitali (commercio elettronico): l’acquisto è immediato ma la legge, in una
logica di protezione del consumatore non ha la possibilità di vedere e toccare materialmente il bene, concede un certo periodo di tempo
per recedere dal contratto, restituire il bene ed essere rimborsato.
Si vede come il recesso sia un altro degli istituti fortemente innovati dal diritto dei contratti.
Gli effetti del contratto tra le parti discendono da ciò che è scritto nel contratto, ma sorgono due problemi:
i)
Interpretazione. È possibile che il contenuto negoziale non sia chiaro e sia quindi da interpretare. L’interpretazione del
contratto può essere un’operazione complessa, soprattutto su certe clausole, ma è essenziale per comprendere gli effetti che
discendono dal contratto stesso: solo una volta che è stato interpretato correttamente l’oggetto del contratto, è possibile
stabilire quali siano gli effetti vincolanti per le parti. L’art. 1362 afferma che nell’interpretare il contratto bisogna indagare
quale sia stata la comune intenzione delle parti, e non limitarsi al senso letterale delle parole: il criterio di interpretazione deve
essere il più possibile sostanziale, non meramente formale o letterale. L’art. 1363 sostiene che le clausole del contratto si
interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto. Ancora: il
contratto dev’essere interpretato secondo buona fede e, nel dubbio, il contratto e le singole clausole devono interpretarsi nel
senso che possano avere qualche effetto, anziché quello secondo cui non ne avrebbero alcuno. Inoltre, le espressioni che
possono avere più sensi devono essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto (l’espressione
dev’essere quindi contestualizzata rispetto al contratto preso in considerazione). Infine, le clausole inserite nelle condizioni
generali di contratto in moduli e formulari predisposti da uno dei contraenti, si interpretano, nel dubbio, a favore
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dell’aderente. Quindi, ha forza di legge ciò che è stato inserito dal contratto, ma per come è interpretato: se le parti ne danno
un’interpretazione differente, sarà il giudice a decidere quale sia l’interpretazione corretta.
ii)
Integrazione. Il contratto non obbliga solo a quel che nel contratto c’è scritto, ma obbliga anche a tutti gli effetti che ne
possono derivare secondo la legge, gli usi o l’equità. L’art. 1374 afferma che il contratto obbliga le parti non solo a quanto
nel medesimo è espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano, secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e
l’equità.
L’integrazione si distingue in due grandi modelli:
-
Suppletiva (o dispositiva). Molto spesso i contratti sono lacunosi: ad esempio, nel caso di un contratto di
compravendita, potrebbero non specificare dove il bene dev’essere consegnato, potrebbero non prevedere entro
quando il bene dev’essere consegnato o tutta una serie di dettagli con riguardo alla descrizione della qualità del bene. I
contratti quindi possono essere validi, ma incompleti. La legge supplisce alle lacune, riempendo le lacune stesse. Ad
esempio, se il contratto non specifica il luogo dove deve essere consegnato il bene, in una norma del Codice Civile si
afferma che, se le parti non hanno specificato nulla, il luogo dev’essere consegnato nel luogo in cui era al momento
della conclusione del contratto. La legge può quindi completare il contratto in coerenza con quello che le parti hanno
scritto nel contratto, si dice che la legge sia “amica” della volontà privata. Ciò significa anche che la forza di legge tra
le parti non deriva solamente da ciò che le parti hanno pattuito nel contratto, ma anche da ciò che afferma la legge,
qualora integri in logica suppletiva la volontà negoziale.
-
Cogente. L’integrazione subentra contro ciò che hanno pattuito le parti quando la legge disapprova, con norma
imperativa, talune pattuizioni (ad esempio, tassi d’interesse usurai). Tale pattuizione sarà nulla. Alla nullità di questa
clausola potrà sostituirsi una clausola legale (interessi ordinari).la clausola pattuita tra le parti è nulla e viene sostituita
da una clausola imposta dalla legge in via inderogabile. Si ha in questo caso un’integrazione del contratto che realizza
una correzione dello stesso, attraverso un meccanismo per cui una clausola viene estirpata dal contratto, rendendola
nulla, e sostituita da un’altra clausola ex lege. Nei contratti asimmetrici ci sono ipotesi in cui, il legislatore non si
limita a informare e rendere il contratto trasparente per superare le asimmetrie informative, ma corregge intervenendo
direttamente sul contratto con una norma imperativa (è questo il caso delle clausole vessatorie o abusive). Ci sono due
modi in cui può avvenire l’integrazione cogente: il legislatore toglie la clausola disapprovata e il resto del contratto
rimane valido (sottrazione della clausola disapprovata); il legislatore, ancora più preciso e analitico, specifica come
deve essere pattuito un certo regolamento e pone una norma inderogabile che deve entrare nel contratto e, se le parti
non mettono all’interno del contratto quella previsione inderogabile, la clausola si inserisce automaticamente nel
contratto al posto delle pattuizioni difformi (sostituzione della clausola disapprovata). L’art. 1339, a tal proposito,
afferma che le clausole, i prezzi di beni o di servizi imposti dalla legge, sono di diritto inseriti nel contratto anche in
sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti.
Esempio. Nell’ambito della disciplina delle locazioni, vi sono dei limiti nella durata del contratto (i termini ordinari
sono di 4 anni con 4 anni rinnovabili). Poniamo il caso in cui venga stipulato un contratto di locazione di 2 anni, le
parti hanno quindi pattuito in modo difforme dalla norma inderogabile. Dopo 2 anni, l’affittuario decide di mandare
via l’inquilino. L’inquilino, che pure ha sottoscritto un contratto di locazione di 2 anni, decide di andare dal giudice:
la clausola dei 2 anni è nulla, perché contraria alla norma inderogabile dei 4 anni e questa si sostituisce alla
pattuizione difforme. Pertanto, ai sensi dell’art. 1339, tale contratto è integrato in via cogente dalla legge, che impone
un termine di 4 anni al contratto di locazione.
Elementi accidentali
Gli elementi accidentali del contratto sono quelle pattuizioni che sono state poste in essere dalle parti, ma che non sono essenziali per
il contratto: sono clausole che nei contratti possono non esserci, ma in taluni casi le parti hanno ritenuto di inserirle. In generale sono
accidentali anche se nel singolo contratto per le parti erano fondamentali: un contratto può quindi essere validamente stipulato senza
che vi sia clausole penali, caparre o altri patti che condizionano gli effetti del contratto.
1.
Condizione. Le parti stabiliscono che gli effetti di un contratto in realtà si producono solo in dipendenza dell’avverarsi,
dell’accadere o meno di un avvenimento futuro ed incerto: gli effetti del contratto sono quindi ricollegati al verificarsi o meno di
un accadimento futuro ed incerto. Ad esempio, viene stipulato un contratto di acquisto di una certa società e l’acquirente stabilisce
che gli effetti dell’acquisto sono sospensivamente condizionati al fatto che la società ottenga l’autorizzazione alla quotazione in
borsa: il contratto è quindi stato stipulato, ma diviene efficace solo se entro un certo periodo di tempo la Consob autorizza la
quotazione in borsa della società oggetto di acquisto. Un altro esempio: un soggetto acquista un immobile, ma tale acquisto non
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produce effetti fino a che non venga risolto una questione urbanistica legata all’immobile, quindi se il comune dove è situato
l’immobile non sblocca una determinata causa urbanistica sullo stesso, regolarizzandolo. In questi casi si ha già un contratto, ma
gli effetti si produrranno automaticamente e retroattivamente solo nel momento in cui accadranno questi accadimenti futuri e
incerti. La condizione può essere sospensiva, come negli esempi fatti, oppure risolutiva. Nel caso di condizione sospensiva, gli
effetti non si producono fino a che non si verifica un certo fatto. Con la condizione risolutiva, in riferimento all’esempio
precedente dell’acquisto dell’immobile, l’immobile passa subito di proprietà ma gli effetti di trasferimento verranno meno se il
Comune non concede entro un certo periodo di tempo quell’autorizzazione urbanistica.
2.
Clausola penale. La clausola penale è una pattuizione con cui le parti stabiliscono che, nel caso in cui il contraente debitore di
una determinata prestazione sia inadempiente egli sarà tenuto ad una certa somma di denaro predeterminata nel contratto. con la
clausola penale le parti addivengono ad una liquidazione preventiva e forfettaria del danno risarcibile, quindi del risarcimento
dovuto. L’obbligazione risarcitoria nasce a prescindere dal fatto che ci sia o meno la clausola penale, nasce dall’inadempimento.
-
Penale da ritardo: ad esempio, viene stabilito che se il l’immobile che ha incaricato una certa ditta di costruire, non viene
consegnato entro il 31 gennaio 2020, allora per ogni giorno di ritardo l’appaltatore dovrà pagare 3000 euro. Tale clausola non
fa nascere l’obbligazione risarcitoria, ma la quantifica. Il soggetto potrà comunque insistere per chiedere la consegna del bene.
-
Penale da inadempimento definitivo: ad esempio, viene stabilito che qualora un determinato bene non venga consegnato
entro il 31 gennaio 2020, allora il contratto si intenderà risolto e il debitore sarà tenuto a pagare 50.000 per il proprio
inadempimento. Il creditore non potrà più insistere per avere il bene, perché il valore del risarcimento è dato dal fatto che il
contratto si chiude e il debitore è inadempiente in via definitiva.
Se non ci fosse la clausola penale, chi è danneggiato dovrebbe provare il danno ricevuto e andare a quantificarlo. La clausola penale è
quindi un grande vantaggio per il creditore, perché non vi è la necessità di addivenire alla prova del quantum del danno risarcibile.
Inoltre, se c’è una clausola penale nel contratto, il debitore tenderà più facilmente ad adempiere correttamente: dal punto di vista
psicologico ha un notevole effetto deterrente rispetto all’inadempimento. La clausola pensale potrebbe avere una leggera
compensazione anche a favore del debitore: la norma infatti afferma che, una volta fissata la clausola pensale, quello è il massimo
valore risarcibile. Il creditore non può chiedere un risarcimento del danno che sia superiore alla penale. In questo caso, la clausola
pensale funziona come un limite alle pretese risarcitorie.
La clausola penale potrebbe essere eccessivamente onerosa, c’è quindi una sproporzione tra il valore della penale e il valore in gioco ai
sensi del contratto. La legge, a tal proposito, afferma che il giudice è autorizzato a ridurre la penale manifestamente iniqua: la clausola
penale rimane, ma viene ridotta nel suo ammontare da parte del giudice.
Nel caso di contratto tra professionista e consumatore, la clausola penale iniqua è addirittura nulla e quindi il patto sulla penale risulta
nullo: il creditore che ha posto nel contratto una penale eccessiva dovrà chiedere il risarcimento del danno secondo le regole ordinarie
e quindi dare piena prova del risarcimento del danno.
3.
Caparra, distinguiamo:
-
Caparra confirmatoria, riguarda l’inadempimento. Ad esempio, viene stipulato un contratto preliminare per acquistare un
immobile e il contratto definitivo è previsto tra 9 mesi. Nel frattanto, al momento del contratto preliminare, il venditore
chiederà un acconto e quindi il promissario acquirente versa al promittente venditore un acconto di 10 mila euro (quando poi
si arriva al contratto definitivo, al prezzo verranno detratti i 10 mila euro). In questi casi, normalmente, questo acconto viene
qualificato anche come caparra confirmatoria: si darà applicazione alla regola di cui all’art. 1385. Tale norma afferma che la
caparra confirmatoria, se una somma è data al momento della conclusione del contratto titolo di caparra, allora questa in caso
di adempimento verrà detratta dal valore (acconto), nel caso di inadempimento la caparra resterà in capo a chi l’ha ricevuta a
titolo di risarcimento del danno. Ovviamente, se il promittente venditore ritiene di ver subito un danno superiore al valore
della caparra confirmatoria, potrebbe rinunciare alla caparra e procedere all’azione per il risarcimento del danno complessivo.
Se fosse il promittente venditore a non voler rispettare quanto stabilito nel contratto preliminare? In questo caso, colui che ha
dato la caparra ha diritto alla restituzione di una somma doppia a titolo di risarcimento del danno. Altrimenti, potrà anche
attivare i rimedi ordinari per ottenere il risarcimento del danno. In quest’ultima ipotesi, è molto più simile ad una vera e
propria clausola penale.
-
Caparra penitenziale, riguarda il recesso. Si parla di caparra penitenziale quando una parte versa anticipatamente una somma
di denaro per avere il diritto di recedere dal contratto: quindi, sin dal momento della stipula del contratto, viene dato alla parte
il diritto di recedere dallo stesso. Se la parte non recede anticipatamente, una volta chiuso il contatto tale somma di denaro
verrà restituita. Invece, se tale somma di denaro viene versata se e solo quando la parte recede dal contratto, si parla di multa
penitenziale. Quindi, tra caparra e multa penitenziale cambia la modalità di dazione della somma di denaro. Nel caso di
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caparra penitenziale, la somma di denaro viene versata anticipatamente mentre nel caso di multa penitenziale, la dazione
avviene se e solo quando effettivamente la parte decide di recedere dal contratto.
2.1. INVALIDITÀ CONTRATTUALI (NULLITÀ)
Le parti stipulano un contratto perché vogliono giovarsi degli effetti da esso derivanti. Ad esempio, una parte vuole ottenere
temporaneamente il godimento di un bene ed è disposta a pagare un canone mensile, oppure vuole diventare titolare del bene stesso ed
è disposta a pagare un prezzo maggiore. Nel primo caso, il proprietario sarà disposto a privarsi temporaneamente ella cosa e nel
secondo, sarà disposto a privarsene per sempre. La forza del contratto risiede nella sua efficacia. Infatti, una volta stipulato, entrambe
le parti sanno che il contratto produrrà i suoi effetti ed essi potranno essere fatti valere davanti a un giudice. Ad esempio, la parte che è
diventata titolare (proprietaria) del bene potrà ottenerne la consegna forzata se la controparte, stipulato il contratto di compravendita,
spontaneamente non consegna la cosa. Lo stesso vale se la cosa è data in locazione, quindi in godimento.
Dunque, il contratto è fisiologicamente in grado di produrre effetti giuridici, ossia effetti protetti dall’ordinamento. Ciò non accade
nella misura in cui è possibile sussistano delle patologie che rendono il contratto inidoneo a produrre i suoi effetti.
L'invalidità contrattuale è la categoria che raccoglie i vizi che impediscono al contratto di acquisire pieno valore giuridico.
L’invalidità fa riferimento in particolare ai cosiddetti vizi originari o genetici del contratto, non riguarda quindi i vizi e le
problematiche che possono affliggere il contratto nel suo svolgimento. In quest’ultimo caso si parlerebbe di vizi sopravvenuti o
funzionali, ad esempio nel caso in cui ci sia inadempimento è chiaro che il contratto presenta un malfunzionamento, che presuppone
però la validità iniziale del contratto. È pertanto un vizio che riguarda, non già la nascita o la genesi del contratto, ma la sua
esecuzione. Nel primo caso, si è soliti parlare di contratto come atto, quindi il contratto presenta una patologia a monte come atto; nel
secondo caso, invece, parliamo di contratto come rapporto, ossia come quella serie di obblighi e diritti che dal contratto derivano, e
quindi a valle del contratto validamente stipulato. Dunque, parlando di invalidità si fa riferimento al contratto come atto, ossia ai vizi
che si manifestano dall’inizio.
Inefficacia
Il fatto che il contratto sia fisiologicamente in grado di produrre i propri effetti, significa che le parti hanno il potere di dare veste
giuridica a quelli che sono i rapporti e gli assetti di interessi consegnati al contratto. Ad esempio, potranno dare veste giuridica, e
quindi ottenere dall’ordinamento, la consegna forzata del bene di cui hanno trasferito la proprietà o di cui si sono impegnati a far
godere nel tempo. Questo è vero con i contratti validi, che sono appunto genericamente efficaci. Quando il contratto è invalido
l’idoneità a produrre gli effetti non è garantita. Vi è però il caso di contratti, che pur essendo invalidi, producono immediatamente i
propri effetti. Pertanto, è sbagliato pensare che l’invalidità comporti automaticamente l’inefficacia: inefficacia e invalidità sono infatti
due categorie differenti.
Il caso del contratto invalido ma inefficace è quello di un contratto affetto da una specie di invalidità meno grave, l’annullabilità. Per
converso, vi è anche il caso di un contratto che sia valido ma inefficace, questo può accadere anche quando risponde alla fisiologia
dell’accordo tra le parti, per esempio se entrambe si sono impegnate per far godere di un’immobile fra tre mesi, quindi il contratto
produrrà effetti fra tre mesi. Ciò significa che la validità non automaticamente si riconnette all’immediata e automatica efficacia.
Invalidità e inefficacia sono quindi concetti diversi, che coincidono soltanto nei casi di validità più grave ed è il caso della nullità in cui
l’invalidità si accompagna all’automatica e radicale inefficacia.
Riassumendo, avremo quindi tre casi:
-
Contratto invalido ma efficace: affetto da una forma di invalidità meno grave, l’annullabilità;
-
Contratto valido ma inefficace: dipende anche dall’accordo stipulato dalle parti;
-
Contratto invalido e inefficace: affetto da una forma di invalidità più grave, la nullità.
NULLITÀ
Un contratto nullo è un contratto radicalmente inidoneo a produrre i propri effetti giuridici. Ad esempio, una vendita nulla è una
vendita che non ha mai prodotto di trasferire il bene. Proprio perché comporta la privazione degli effetti, è considerata la sanzione più
grave proprio perché si oppone e ostacola il raggiungimento dello scopo, quello per cui le parti stipulano il contratto. Poiché gli effetti
del contratto nullo non si producono, si può dire che il contratto nullo è inesistente? No, questa sarebbe una conseguenza eccessiva.
Infatti, la categoria dell’inesistenza esiste nel diritto per indicare una situazione ancora più anomala. La distinzione tra contratto nullo e
contratto inesistente serve, perché in taluni specifici casi la legge riconnette alla stipula di un contratto nulla qualche effetto per
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proteggere determinati interessi. Ad esempio, in tema di contratto di lavoro, il Codice disciplina che la nullità non ha effetto per le
prestazioni già effettuate. Questo per tutelare il lavoratore, in modo che egli possa richiedere la retribuzione anche per le prestazioni
che ha già effettuato, prima che la nullità fosse dichiarata.
Cause di nullità del contratto (art. 1418, primo comma)
Sono le ipotesi in cui il contratto risulta nullo e quindi inidoneo a produrre i propri effetti. Innanzitutto, si distingue tra le cosiddette
nullità strutturali e nullità politiche.
In particolare, le nullità strutturali sussistono in due casi distinti:
-
quando mancano gli elementi essenziali del contratto (art. 1325: accordo, causa, oggetto e forma quando prevista a pena di
nullità);
-
quando l’oggetto del contratto esiste, ma è impossibile o indeterminato/indeterminabile;
Il contratto affetto da nullità strutturali è un contratto inidoneo a produrre i propri effetti. Vediamo dunque la prima ipotesi di nullità
strutturale del contratto per difetto degli elementi essenziali del contratto.
-
Manca la forma scritta ad substantiam. Ciò accade quando il legislatore richiede per la stipula di un contratto la forma scritta,
per atto pubblico o per scrittura privata. Dunque, se le parti stipulano il contratto in una forma diversa, ad esempio verbale, il
contratto non produrrà alcun effetto. È prevista la forma a pena di nullità nel caso di compravendita immobiliare: se vengono
trasferiti dei diritti sui beni immobili il contratto deve rivestire di necessità la forma scritta, altrimenti sarà nullo e l’effetto
traslativo non si sarà verificato.
-
Mancanza dell’accordo. È questa un’ipotesi residuale, infatti se l’accordo mancasse del tutto si parlerebbe di contratto inesistente.
Se invece l’accordo (il consenso) esiste, ma presta alcuni vizi, ci troviamo in un caso meno grave di invalidità, ossia quello
dell’annullabilità. Lo spazio applicativo che rimane per mancanza di accordo è quello della costrizione fisica a contrarre
(prendendo la mano dell’altro con la forza per fargli apporre la firma o falsificarla) oppure il caso delle dichiarazioni rese per
scherzo, per finzione scenica o per scopi didattici. Sono ipotesi residuali che hanno più un significato teorico di ricostruzione del
sistema.
-
Mancanza della causa. Questa ipotesi si può suddividere in due casi: i) causa non indicata: il soggetto A traferisce al soggetto B
un immobile per iscritto. Viene rispettato il requisito di forma, esiste l’oggetto, esiste l’accordo ma non emerge dalla scrittura il
motivo del trasferimento. Non emerge una causa di scambio perché non è pagato un prezzo, non emerge una causa di liberalità
perché non è una donazione fatta con lo spirito di arricchire colui che la riceve e non emergono altre cause, come quella di
estinguere un debito o porre fine a una lite. Non si capisce quindi perché il trasferimento della proprietà viene posto in essere. ii)
causa indicata, ma irrealizzabile. È il caso del contratto con cui si acquista una cosa propria: il soggetto è inconsapevole di essere
il vero erede e acquista da colui che è l’erede apparente. Altri casi, che si possono avvicinare a questa ipotesi, sono: contratto di
assicurazione per un bene che risulta già distrutto al momento della stipula e quindi non c’è alcun rischio da coprire e alcuna causa
di scambio oppure fideiussione prestata per un debito che non esiste.
-
Mancanza dell’oggetto, ogniqualvolta non viene individuata la prestazione oggetto del contratto.
A parte il caso in cui la nullità strutturale è determinata dall’assenza dell’oggetto, vi sono dei casi in cui la nullità è determinata dalla
presenza dell’oggetto, ma dall’assenza di talune caratteristiche, elencate all’ art. 1346:
-
Possibilità. L’oggetto del contratto, inteso come la prestazione ivi prevista, dev’essere possibile sia da un punto di vista materiale
che da un punto di vista giuridico. Sarebbe impossibile, dal punto di vista materiale, la prestazione di attingere da una falda una
certa quantità di acqua quando già al momento della stipula, questa quantità di acqua non era presente. Si fa riferimento in questo
caso all’impossibilità originaria perché, se l’impossibilità della prestazione sorge in un momento successivo a quello della stipula,
saremmo nell’ambito di un vizio sopravvenuto o funzionale che riguarda l’esecuzione di un contratto validamente sorto. Il caso di
impossibilità sopravvenuta on imputabile al debitore è uno di quei casi in cui, anche se il debitore non effettua la prestazione
dovuta, è liberato dal risarcimento del danno derivante dall’inadempimento. Tale possibilità, oltre ad essere intesa in senso
materiale o naturalistico, può essere intesa anche in senso giuridico. Ad esempio, viene stipulato un contratto per dare vita a una
società per azioni per seguire degli scopi che la legge riconnette invece ad una S.r.l. In questo caso si parlerà di impossibilità
giuridica. In entrambi i casi, l’assenza di possibilità nell’oggetto del contratto condurrà alla sua nullità.
-
Determinatezza. L’oggetto dev’essere determinato: ciascuna parte deve sapere con precisione che cosa può pretendere e cosa
deve prestare, in forza del contratto. Ad esempio, nel caso in cui due parti si accordano per il trasferimento della proprietà di un
appartamento di proprietà del venditore. Se il venditore ha la titolarità di più appartamenti nella stessa città, l’oggetto c’è ma non è
identificato. Se l’oggetto non è determinato il contratto sarà nullo.
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-
Determinabilità. Quindi se l’oggetto non è determinato, dev’essere almeno determinabile. La determinabilità è sia convenzionale
sia legale. Nel primo caso, le parti al momento della stipula potrebbero non aver determinato l’oggetto ma potrebbero aver
individuato i criteri in base al quale esso possa essere determinato. Ad esempio, le parti hanno venduto delle azioni e hanno
stabilito che il prezzo da pagare, quindi la prestazione, sarà determinabile in base al valore che avrà acquisito quell’azione alla fine
del mese. La determinabilità, se non individuata dalle parti, può essere legale, quindi individuata dalla legge: ad esempio, l’art.
1474 in tema di vendita prevede che se le parti non hanno determinato né il prezzo e né i criteri per individuarlo, la legge fornisce
dei criteri legali (ad esempio, il prezzo normalmente praticato al venditore o il prezzo di listino) che consentono di determinare
l’oggetto in via legale, salvando il contratto dalla possibile nullità.
Vi sono poi le cosiddette nullità politiche. A differenza dei contratti affetti da nullità strutturali, il contratto affetto da nullità politiche
è strutturalmente idoneo a produrre e a supportare i propri effetti, ma questi sono disapprovati dall’ordinamento giuridico, che quindi si
rifiuta di dargli veste giuridica. Il contratto può dirsi affetto da nullità politiche se si parla di un contratto illecito. L’illiceità può
riferirsi a diversi elementi del contratto:
-
Oggetto illecito: quando la prestazione in sé considerata e a qualunque titolo effettuata va a contrastare gli interessi
dell’ordinamento. Ad esempio, la cessione di sostanze stupefacenti configura un caso di contratto nullo per illiceità dell’oggetto
perché la prestazione di dare sostanze stupefacenti, a qualunque titolo effettuata (gratuito o oneroso), è vietata dall’ordinamento.
-
Causa illecita, che l’incontro delle prestazioni e il modo in cui queste si svolgono. La singola prestazione potrebbe, dal punto di
vista statico, essere considerata lecita, ma contrastare gli interessi dell’ordinamento il senso dell’operazione contrattuale, cioè
come la prestazione viene dedotta nell’ambito del contratto. Ad esempio, donare un rene è lecito ma la vendita del rene potrebbe
essere riprovata dall’ordinamento, quindi la prestazione assistita da una causa di scambio. In questo caso si parlerà di contratto
nullo.
-
Motivo comune illecito. Mentre la causa è unica e riguarda il contratto dal punto di vista oggettivo, i motivi sono soggettivi e
riguardano ciò che spinge la singola parte a stipulare il contratto. Di norma, non hanno alcuna rilevanza, anche quando sono
illeciti (se un soggetto prende una somma a mutuo a scopo criminale questo non rende automaticamente invalido e nullo il
contratto, anche se il motivo soggettivo della parte è chiaramente illecito). La situazione cambia non solo quando il motivo illecito
è noto all’altra parte, ma soprattutto se l’altra parte ne trarrà vantaggio. Ad esempio, nel caso i cui il tasso del mutuo è
particolarmente elevato perché l’attività criminale risulta molto remunerativa e c’è quindi un interesse illecito da parte di entrambe
le parti a stipulare il contratto, questo rende illecito il contratto e quindi nullo. Sono questi casi particolari in cui il motivo, dacché
è irrilevante, diventa fondamentale per il diritto e invalida pertanto il contratto.
Illiceità
L’illiceità può derivare per contrarietà a:
-
Norme imperative: sono norme inderogabili, che non possono quindi essere derogate dalla diversa volontà dei privati. Molte
norme di diritto privato sono derogabili come, ad esempio, la norma che prevede l’onerosità del mutuo, cioè che il mutuo produca
degli interessi, le parti possono accordarsi perché il mutuo sia gratuito e non produca interessi e non verrà sollevata alcuna
questione. Le norme inderogabili pongo invece delle prescrizioni insuperabili dalla diversa volontà delle parti, per cui se parti
provano a derogare questo precetto, la loro operazione sarà nulla e non produrrà gli effetti giuridici ai quali aspiravano. È il caso
di un contratto che ha un oggetto impossibile, indeterminato o indeterminabile, la norma che prevede questi requisiti è una norma
imperativa, quindi non superabile dalla volontà dei privati.
-
Ordine pubblico. Non si fa riferimento a singole norme, ma a quella che è una clausola generale, ovvero un concetto elastico in
cui il legislatore demanda al giudice di andare a individuare una serie di parametri in cui racchiudere il concetto di ordine
pubblico. Sono tutti quei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico. Ad esempio, vi è il principio per cui il voto è libero: un
contratto che obbligasse a votare un certo soggetto, un certo partito o a non votare affatto, sarebbe un contratto affetto da nullità
per illiceità derivante dal contrasto con l’ordine pubblico. Non esiste quindi una singola norma imperativa che impedisce la stipula
di un tale contratto, tuttavia il ricorso ai principi dell’ordinamento ai quali l’ordine pubblico fa riferimento consente al giudice di
dedurre comunque la nullità per illiceità dell’operazione.
-
Buon costume. È anche questa una clausola generale, un concetto elastico che chiede al giudice, non di interrogare l’ordinamento
giuridico e i suoi principi fondamentali, ma la coscienza sociale. È questo un criterio extralegale, ovvero ciò che i cittadini sentono
in un certo periodo storico. Ad esempio, potrebbe essere considerato per illiceità contraria al buon costume un contratto di
prostituzione o, fuori dalla morale sessuale, un contratto contrario all’etica professionale, coi cui, ad esempio, un giocatore di
calcio si impegna a non giocare al meglio e quindi a far vincere l’altra squadra.
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Sia l’ordine pubblico che il buon costume sono quindi concetti elastici che vanno ad integrare le mancanze o le previsioni puntuali
della legge che non impediscono la stipula di un certo contratto, ma questa illiceità può derivare comunque dal sistema giuridico e
sociale.
Precisazione: abbiamo parlato di contratto illecito e non di fatto illecito. Il fatto illecito è la fonte della responsabilità extracontrattuale,
quando un soggetto con un’attività antigiuridica produce un danno nei confronti di un terzo. Quindi, in ambito extracontrattuale, con la
nozione di fatto illecito richiamiamo quei requisiti che devono essere presenti perché uno risponda del danno extracontrattuale
cagionato ad altri mentre, in ambito contrattuale, il contratto illecito è quello contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al
buon costume.
Dai contratti illeciti si è soliti distinguere i contratti illegali (art. 1418, secondo comma), puramente e semplicemente contrari a
norme imperative. Emerge quindi una nuova e diversa categoria di nullità politiche, non per illiceità, ma per illegalità del contratto.
Un contratto è illegale tutte le volte in cui il contrasto con la norma imperativa riguarda altri profili, diversi dalla causa, dall’oggetto o
dal motivo comune. Anche se posto in apertura dell’art. 1418 dedicato alle cause di nullità, quella del contratto illegale è un’ipotesi
residuale rispetto a quella dell’illiceità. In questi casi si parla di nullità virtuale che, a differenza delle ipotesi di nullità testuale, non è
prevista espressamente dalla norma imperativa. Un esempio di nullità testuale è fornito da una legge speciale, ossia una legge esterna
al Codice che prevede la nullità della vendita di un edificio nella quale non vengono menzionati gli estremi della concessione edilizia.
Un esempio di nullità virtuale, quindi per contrarietà di norme imperative ai sensi del primo comma dell’art. 1418, si trova nella
giurisprudenza: il caso di una fornitura di confezioni di caffè prive della data di scadenza. Non c’è una norma che preveda la nullità in
questi casi, ma si desume l’imperatività della norma e la conseguente nullità del contratto. Tuttavia, potrebbe darsi che la nullità
virtuale venga esclusa, la norma afferma infatti che il contratto contrario a norme imperative è nullo, salvo che la legge disponga
diversamente. Il fatto che la legge dispone diversamente può avvenire secondo due schemi differenti:
-
La legge espressamente riconnette una conseguenza diversa dalla nullità. C’è un divieto imperativo, ad esempio il divieto di
alienazione di cui all’art. 1471, tuttavia in alcuni di questi casi il Codice prevede la sanzione dell’annullabilità, una specie meno
grave di invalidità. In questi casi, l’interprete non è legittimato a dedurre dalla violazione di una norma imperativa la sua nullità,
perché semplicemente il legislatore prevede una conseguenza diversa.
-
Il legislatore esclude la conseguenza della nullità per violazione di norme imperative in modo tacito. Ciò accade quando, attraverso
l’interpretazione, l’interprete si accorge che non sono gli effetti del contratto direttamente a violare interessi protetti dalla norma e
quindi la conseguenza della nullità e della rimozione degli stessi sarebbe una conseguenza eccessiva. Ciò accade, ad esempio,
quando in un contratto si violano delle norme fiscali: in tal caso il contratto sarà dal punto di vista civilistico non nullo, quindi
valido, e si applicheranno le sanzioni fiscali del caso.
2.2. ANNULLABILITÀ
Il contratto, pur non essendo nullo, è affetto da una patologia di invalidità meno grave, denominata annullabilità. Il contrasto con
l’ordinamento giuridico è meno profondo: non si tratta di un contratto che si oppone ad un interesse generale, non è quindi
strutturalmente inidoneo a produrre i suoi effetti e gli effetti che produce non sono contrari agli scopi dell’ordinamento. Quella
dell’annullabilità è una normativa tesa a difendere una parte, a tutelare un contraente e il suo patrimonio da contrattazioni avventate o
comunque affette da una qualche anomalia, perché la libertà del contraente non si può esplicare in modo libero ed esente da vizi.
Il rimedio dell’annullabilità non è posto esclusivamente a tutela della parte la cui libertà e consapevolezza rispetto al contratto risulta
compromessa e viziata. Infatti, una regola contrattuale libera, ossia liberamente accettata dal suo destinatario, è normalmente giusta,
ma anche efficiente dal punto di vista del sistema: una parte è disposta a rinunciare ad un certo bene soltanto se il beneficio che gli
deriva dalla controprestazione è maggiore, nella sua prospettiva soggettiva, rispetto a quello che perde. Quindi, la regola della libertà
contrattuale, quando si tratta di libertà e consapevolezza effettiva rispetto alla regola contrattuale, porta a degli scambi e quindi a dei
contratti che, sotto una prospettiva soggettiva, sono mutualmente vantaggiosi. Ciò fa si che, se a livello micro è consentita un’effettiva
libertà e consapevolezza nella trattazione, a livello macro questo porta a scambi reciprocamente vantaggiosi e quindi nell’ottica del
sistema e del mercato, ad un aumento dell’efficienza. È questa la ragione principale per cui il diritto dei contratti è improntato ad un
principio di libertà.
Analizziamo i casi in cui, secondo la legge, una parte la cui libertà e consapevolezza al contratto è fortemente ridotta può ottenerne la
rimozione attraverso l’annullamento. Il primo caso è quello della cosiddetta incapacità del contraente. Per comprendere il concetto di
incapacità, occorre partire dal concetto di capacità. La capacità giuridica si acquista dalla nascita ed è la capacità di essere titolari di
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diritti e di doveri: ad esempio, un neonato può diventare erede di un patrimonio miliardario, ma non può gestirlo fino al
raggiungimento della maggiore età. È infatti soltanto con la maggiore età che si acquista la cosiddetta capacità di agire, ovvero la
capacità dinamica di esercitare i diritti e i doveri che, da un punto di vista statico, sono già nel patrimonio giuridico del soggetto sin
dalla nascita. Distinguiamo:
i) Incapacità legale. L’incapacità che rileva come ragione di annullamento del contratto è l’incapacità di agire, che pertanto difetterà
nei soggetti minori di età. La capacità di agire si può perdere anche successivamente al compimento della maggiore età, è questo il
caso degli interdetti giudiziali, ovvero di quei soggetti maggiori di età che però sono infermi di mente abituali. Tali soggetti, per
ragioni di protezione, vengono interdetti da una sentenza del giudice che accerta che il loro stato psichico permanentemente gli
impedisce di contrattare in modo consapevole e libero. È invece improntata a fini punitivi, la cosiddetta interdizione legale, che
colpisce quei soggetti che hanno subito una condanna penale di anni cinque o superiore (anche l’ergastolo). Sotto queste ipotesi, si
parla pertanto di incapacità legale di agire, perché ha la caratteristica di essere facilmente accertabile: è facile infatti andare a
verificare l’età del contraente e la presenza di eventuali sentenze d’interdizione a suo carico. Non si crea pertanto un problema di
tutela dell’affidamento di chi contrae con il soggetto incapace: il soggetto che contratta con l’incapace ha sempre la possibilità di
accertare facilmente il suo stato di incapacità, e quindi non potrà opporre nulla a sua discolpa nel caso in cui l’altra parte chieda e
ottenga l’annullamento del contratto.
ii) Incapacità naturale. Viene definita dal legislatore come l’incapacità della persona non interdetta che risulta per qualsiasi causa,
anche transitoria, incapace di intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti. Sono ritenuti incapaci naturali: gli
infermi di mente abituali, con le stesse caratteristiche dei soggetti che possono essere interdetti ma che, di fatto, non sono stati
interdetti; gli infermi di mente in via temporanea, ovvero tutti i soggetti che, al momento della contrattazione, per cause anche
passeggere, non sono in grado di intendere, quindi comprendere, il significato della contrattazione o di volere, quindi manifestare
la loro volontà in maniera libera (basti pensare agli effetti provocati dall’assunzione di alcol o di sostanze stupefacenti). Tale
incapacità ha delle caratteristiche opposte rispetto all’incapacità cosiddetta legale: non è accertabile in via documentale attraverso
la consultazione di registri, ma dipenderà dalla possibilità concreta del contraente di avvedersi che aveva dinnanzi un soggetto
incapace di intendere o di volere al momento della stipula del contratto. Si pone quindi un problema di tutela dell’affidamento del
soggetto che contrae con l’incapace naturale, perché non sarebbe giusto dare la possibilità di annullare il contratto se chi contratta
con l’incapace non aveva la possibilità di avvedersi di questo stato. Il legislatore per soddisfare tale esigenza individua il criterio
della mala fede: per annullare il contratto l’incapace dovrà dimostrare la conoscenza da parte della controparte della situazione di
incapacità. Tale situazione può essere accertata indirettamente (ad esempio, attraverso il fatto che il contratto risulta
particolarmente svantaggioso per il soggetto incapace), ma oggetto della prova deve essere la mala fede, ovvero la conoscenza
dell’altra parte della situazione di incapacità naturale.
A parte l’incapacità legale e naturale, determinano l’annullabilità del contratto anche i cosiddetti vizi della volontà. Si tratta di
situazioni in cui l’accordo esiste, ma la volontà è viziata da una serie di situazioni perturbanti:
i) Errore. Consiste in una falsata ed erronea rappresentazione della realtà: un contraente dà l’assenso al contratto ipotizzando che
una serie di elementi siano diversi da quello che in realtà sono. L’errore per lasciare spazio all’annullabilità del contratto deve
avere alcune caratteristiche:
•
Essenzialità. La legge non definisce l’essenzialità attraverso un criterio elastico, ma la definisce attraverso un’elencazione di
ipotesi tipiche. La prima di queste è l’errore che cade sulla natura e l’oggetto del contratto: ad esempio, un soggetto è convinto
di stipulare un contratto di vendita, ma in realtà è un contratto di leasing con effetti traslativi eventuali e successivi; oppure il
soggetto pensa di obbligarsi a dipingere una facciata, ma invece deve ristrutturare tutto l’edificio. Una seconda ipotesi errore
essenziale riguarda l’oggetto della prestazione: ad esempio, un soggetto pensa di comprare un certo fondo, ma in realtà ne sta
acquistando un altro. Vi è poi un’ipotesi di errore essenziale che riguarda la qualità dell’oggetto della prestazione: non basta
accertare che l’errore ricada sull’oggetto della prestazione, ma anche che sia stato in concreto determinante del consenso. Ad
esempio, possiamo pensare al soggetto che ha ritenuto di acquistare un fondo edificabile, laddove il fondo edificabile non era.
Tralasciando altre ipotesi meno rilevanti di errore essenziale, bisogna precisare il fatto che non ha alcun rilievo l’eventuale
errore sul valore: se per esempio un soggetto acquista un bene ritenendo che abbia un certo valore di mercato, ma questo in
realtà ha un altro valore di mercato questo non potrà essere causa di annullamento del contratto anche se sia stato in concreto
determinate del consenso. Infatti, il valore non è una qualità dell’oggetto e vige nel nostro sistema un principio di tendenziale
insindacabilità dell’equilibrio economico del contratto.
•
Riconoscibilità da parte dell’altro contraente. Qui, a differenza del caso di incapacità naturale, non è richiesta la mala fede,
ovvero la conoscenza effettiva della situazione perturbante, ma la conoscibilità. La regola tende ad essere quindi più severa per
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chi contrae con la parte che cade in errore: la controparte potrà infatti subire l’annullamento anche se, pur non riconoscendo in
concreto il fatto che la controparte fosse in errore, avrebbe potuto rilevarlo come una qualsiasi persona di normale diligenza.
ii) Dolo contrattuale. Si fa riferimento in questo caso al dolo contrattuale, contrapposto al dolo extracontrattuale, ovvero l’intenzione
di ledere che costituisce un possibile atteggiamento dell’elemento soggettivo del fatto illecito: si risponde per aver cagionato ad
altri un danno ingiusto soltanto se sussiste l’elemento soggettivo dato dalla colpa o dal dolo, cioè l’intenzione di ledere.
Il dolo contrattuale è invece la causa di annullabilità di un contratto. Il dolo contrattuale è l’inganno o il raggiro con il quale una
parte carpisce il consenso dell’altra, convince quindi l’altra parte a concludere un contratto che altrimenti questa non avrebbe
concluso. Ad esempio, possiamo pensare ad un contraente che ha prodotto un falso permesso di costruire per indurre la controparte
ad acquistare un terreno non edificabile, che non avrebbe quindi acquistato se fosse stata a conoscenza della reale non edificabilità
del terreno. Il dolo quindi consiste sostanzialmente in un errore, non già spontaneo ma indotto illecitamente da una condotta
precontrattuale dall’altra parte. Proprio perché si tratta in questo caso di una condotta illecita di controparte, la tutela è maggiore:
non bisogna infatti che si tratta di un errore essenziale, ma è rilevante, ai fini dell’annullamento per dolo, qualsiasi errore (ad
esempio, anche un errore che riguardasse il valore del contratto, purché questo sia stato in concreto determinante del consenso). A
differenza del caso di errore, non si pone un problema di tutela dell’affidamento dell’altra parte: se è vero che l’altra parte ha
compiuto dei raggiri e degli artefici per ottenere il consenso dell’altro contraente, è chiaro che è a conoscenza della situazione
anomala che affligge la contrattazione. Si può però dare il caso che a compiere l’artificio o il raggiro non sia la controparte della
vittima del dolo, ma un terzo: in questo caso, si pone ovviamente un problema di affidamento dell’altro contraente e quindi la parte
che ha subito il dolo potrà chiedere l’annullamento del contratto, soltanto se l’altra parte è a conoscenza degli artefici o raggiri
compiuti dal terzo. Si pone un problema nel caso del cosiddetto dolo omissivo, ossia la reticenza. Il dolo non deve consistere
solamente in un comportamento positivo, ma può consistere anche in un comportamento omissivo, come quello di chi tace alcune
informazioni rilevanti. Il dolo omissivo dev’essere considerato nei casi in cui c’era anche un obbligo di informare, quindi
soprattutto nell’ambito dell’intermediazione finanziaria.
N.B. Occorre precisare la distinzione tra dolo determinante e dolo incidente. Il dolo determinante è quello che determina il
consenso, è il dolo di cui abbiamo parlato fin ora: senza l’artificio o il raggiro la parte non avrebbe stipulato alcun contratto ed è
quindi ragionevole che essa possa ottenere l’annullabilità del contratto, ovvero la possibilità di rimuovere il contratto dal mondo
giuridico. Una seconda caratterizzazione del dolo determinante del consenso è quella di un risarcimento del danno precontrattuale,
che sarà commisurato alle spese occorse e alle occasioni mancate in ragione di una trattativa che non è andata a buon fine.
Ricordiamo che la responsabilità precontrattuale è volta a tutela un interesse negativo, ovvero l’interesse che una parte ha a non
impiegare tempo ed energie in una contrattazione inutile, che non porta ad un contratto valido. Di tutt’altra connotazione è il dolo
incidente, che incide soltanto sul contenuto: la vittima del dolo avrebbe comunque contrattato, però a condizioni diverse e più
vantaggiose di quelle che sono state in ragione degli artifici o dei raggiri. Si è già parlato di questa figura in riferimento alla
responsabilità precontrattuale, precisando che in questo caso il risarcimento sarà possibile e riguarderà il cosiddetto interesse
positivo. Il contratto affetto da dolo incidente non potrà essere rimosso attraverso l’annullamento perché è un contratto valido,
l’unico rimedio è quello della tutela risarcitoria.
iii)
Violenza. In questo caso, si fa riferimento alla violenza psichica. Si parla invece di violenza fisica quando un soggetto fa
firmare a un altro un certo contratto oppure alza fisicamente la sua mano ad un’asta pubblica. In particolare, violenza fisica
significa assenza di accordo e quindi nullità del contratto. si ha invece violenza psichica e quindi annullabilità del contratto
quando la volontà è manifestata dal soggetto, ma è viziata. Il vizio consiste in una minaccia: un soggetto minaccia il
contraente di firmare, altrimenti esporrà lui o altri soggetti ad un male ingiusto. Pertanto, la violenza psichica consiste nella
minaccia di un male ingiusto volto a spingere la controparte a contrattare. Servono dei requisiti per cui la minaccia sia
rilevante per l’annullabilità del contratto.
-
Credibilità della minaccia stessa. Il Codice prevede espressamente che si deve trattare di una minaccia tale da
impressionare una persona sensata, cioè una persona media senza però omettere di considerare anche quelle che sono le
situazioni concrete e soggettive della persona (età, sesso e in generale le sue condizioni). Un male che può fare
impressione ad un 80enne non farà la stessa impressione ad un 40enne così come un male minacciato nei confronti di
un’analfabeta può non fare impressione nei confronti di un laureato. Bisogna quindi combinare la connotazione oggettiva
della persona media con le connotazioni più soggettive del singolo individuo.
-
Deve contemplare la minaccia di un male ingiusto e notevole. La minaccia potrebbe essere del tutto credibile ed essere
effettiva la possibilità che il male minacciato sia inflitto se la parte non contratta, ma si potrebbe trattare di un male lieve, e
quindi non tale da giustificare il comportamento del contraente che si piega e contratta. Il male oltre ad essere notevole,
dev’essere anche ingiusto: ad esempio, non sarebbe ingiusto il male che deriva dalla minaccia di far valere un diritto
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(pensiamo ad un proprietario che minaccia di sfrattare l’inquilino se questo non paga le rate del canone di locazione).
Anche la minaccia di far vale un diritto può diventare rilevante ai fini dell’annullamento, se mira ad ottenere un vantaggio
ingiusto (il proprietario della casa di cui l’inquilino non paga le rate minaccia di sfrattarlo se questo non cederà, ad
esempio, un quadro prezioso che è nel suo patrimonio).
-
La direzione della minaccia deve riguardare il contrente e i suoi familiari più stretti (può riguardare anche altre persone,
ma in questo caso si rimette al prudente apprezzamento del giudice). Anche in questo caso, si pone un problema di
affidamento del terzo nello stesso senso in cui si pone nell’ambito del dolo. Non si tratta di un’incapacità o di un errore,
ma è la stessa controparte che ha causato una situazione anomala di dolo, di minaccia e quindi di violenza psichica. Non
c’è quindi il problema di tutelare l’affidamento incolpevole dell’altra parte. Cosa accade se a porre in essere la violenza
non è la controparte del soggetto minacciato, ma un terzo? In questo caso, poiché la condotta minacciosa è considerata più
grave di quella semplicemente ingannatoria, il Codice non pone nessun requisito: anche se il contraente di chi ha subito la
minaccia da un terzo non sapesse nulla, potrà comunque subire l’annullamento da parte del soggetto minacciato.
Riassumendo:
Nella prima riga vediamo i requisiti che la legge pone per ciascun vizio, riguardanti la consistenza oggettiva del vizio stesso (il vizio
che perturba la volontà non può essere uno qualsiasi, ma deve essere sufficientemente consistente). Nella seconda riga si trova raccolto
il profilo dell’affidamento del terzo, ovvero il problema di tutelare la mancata conoscenza da parte di chi contratta con un soggetto la
cui volontà è viziata, quindi quale requisito è necessario provare per tutelare questo affidamento.
Incapacità (legale e naturale):
Nell’incapacità legale la consistenza del vizio è data dalla minore età oppure da un’infermità mentale permanente che viene accertata
da una sentenza. In questi casi, non si crea un problema di affidamento dei terzi, poiché la situazione anomala dell’incapacità è
accertabile dai documenti. Chi chiede l’annullamento del contratto non dovrà quindi provare nulla, perché l’altra parte aveva l’onere di
informarsi. L’incapacità naturale è invece un’incapacità di intendere o di volere che si manifesta al momento della stipula del contratto
e non è accertabile altrove. Da un lato, il vizio dovrà essere sufficiente da escludere la capacità di comprendere la situazione o di
esplicare la propria volontà e dall’altro, è necessario dimostrare la malafede dell’altra parte, ovvero la conoscenza della situazione di
incapacità. Vizi della volontà (errore, dolo, violenza):
Per quanto riguarda la consistenza dell’errore, questo dev’essere essenziale e quindi ricadere in una di quelle situazioni che la legge
tipizza. L’errore dev’essere poi riconoscibile: qui la tutela dell’affidamento del terzo è affidata non già al metro della conoscenza, ma
al metro della riconoscibilità. Il dolo, senza dover ricorrere ad alcuna elencazione, è rilevante tutte le volte in cui risulta determinante
del consenso. Il dolo va quindi ben oltre quelle che sono le ipotesi di errore essenziale, perché c’è una condotta ingannatoria che quindi
amplia la tutela garantita al soggetto la cui volontà è viziata. Non c’è in questo caso un problema di affidamento dell’altra parte, poiché
normalmente è l’altra parte che pone in essere la condotta ingannatoria. Se però è un terzo a porre in essere il dolo, per chiedere
l’annullamento serve la conoscenza della controparte del dolo esercitato da un terzo.
La violenza deve avere la consistenza di una minaccia credibile di un male ingiusto e notevole nei confronti del contraente o dei suoi
congiunti. Dal punto di vista dell’affidamento, qui la condotta è talmente grave che, se fosse anche un terzo ad aver minacciato
all’insaputa del contraente che contrae con il soggetto minacciato, comunque il soggetto minacciato potrebbe ottenere l’annullamento
del contratto.
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2.3. INVALIDITÀ CONTRATTUALI: LA DISCIPLINA
Abbiamo visto in quali casi il contratto è invalido perché nullo e in quali è invalido perché annullabile. Abbiamo indicato la nullità
come una specie più grave di invalidità, e l’annullabilità come una specie di invalidità più lieve. Questo è chiaro per quanto riguarda i
presupposti, ovvero le ipotesi in cui il contratto risulta nullo o annullabile. Il contratto nullo è strutturalmente inidoneo a produrre i
propri effetti oppure, pur essendo strutturalmente idoneo a produrre degli effetti, questi però si pongono in contrasto con l’ordinamento
che ne impedisce la realizzazione. I presupposti dell’annullabilità riguardano invece una compromissione della libertà contrattuale, si
parla quindi di un contratto che è di per sé idoneo a produrre i suoi effetti non riprovevoli per l’ordinamento, tuttavia vi è stata una
menomazione della libertà contrattuale di una parte. Mentre la nullità è posta a tutela di un interesse generale dell’ordinamento,
l’annullabilità è posta a presidiare la libertà contrattuale che è si un valore dell’ordinamento, ma è volta a tutelare una singola parte la
cui volontà è viziata. Resta da analizzare la disciplina giuridica del contratto nullo e del contratto annullabile.
La prima grande differenza tra contratto nullo e contratto annullabile è che il contratto nullo, non solo è invalido, ma è
automaticamente inefficace sin dall’origine, non produce quindi i suoi effetti. Ad esempio, un contratto teso a trasferire la proprietà su
un immobile stipulato oralmente è nullo per vizio di forma e non produrrà alcun effetto traslativo, per cui la proprietà dell’immobile
rimane in capo al venditore. Allo stesso modo, il sicario che si impegna contrattualmente ad uccidere un’altra persona, avrà assunto
quest’obbligo attraverso un contratto nullo per illiceità: non avrà un’azione giudiziale per chiedere l’adempimento della prestazione (la
contropartita in denaro), nel caso in cui la controparte spontaneamente non l’abbia pagato.
Ciò ovviamente non impedisce che sul piano fattuale, anche se sul piano giuridico gli effetti non ci sono, il contratto nullo sia
effettivamente eseguito (ad esempio, che l’immobile venga materialmente trasferito al soggetto che immagina di acquistarlo attraverso
un contratto nullo o che il sicario esegua l’omicidio). Da un lato, il contratto nullo può essere materialmente e fattualmente eseguito;
dall’altro, potrebbe però sorgere una controversia tra le parti circa la nullità o non nullità del contratto. Quindi, seppure il contratto è
automaticamente invalido e improduttivo di effetti sin dall’inizio, le parti possono presentarsi davanti a un giudice, il quale si troverà a
dover accertare se il contratto sia o meno nullo. Il giudice esprimerà il suo giudizio attraverso una sentenza dichiarativa, che non
modifica la situazione giuridica preesistente ma si limita ad accertare e dichiarare che il contratto era effettivamente nullo sin
dall’inizio, quindi improduttivo di effetti. Una situazione diversa si ha nel caso di contratto annullabile, che è pur sempre un contratto
invalido, ma è temporaneamente e precariamente efficace, quindi automaticamente esso produce gli effetti che sono propri del
contratto dal momento in cui è stato stipulato. Questo ha un’influenza sulla successiva sentenza: il contratto annullabile produce gli
effetti, quindi per rimuoverli occorrerà ottenere una sentenza non dichiarativa, ma costitutiva. Una sentenza costitutiva produce degli
effetti giuridici e modifica la situazione giuridica preesistente, rimuovendo gli effetti.
Quindi, riassumendo:
-
Contratto nullo, invalido e inefficace – sentenza dichiarativa
-
Contratto annullabile, invalido ed efficace – sentenza costitutiva
Oltre alla natura della sentenza collegata all’efficacia/inefficacia originaria del contratto nullo o annullabile, occorre affrontare alcuni
altri profili che distinguono la disciplina del contratto nullo dalla disciplina del contratto annullabile. Tali profili sono:
1.
Legittimazione a far valere l’invalidità: chi può domandare una sentenza che accerti la nullità o che annulli il contratto?
2.
Rilevabilità d’ufficio dal giudice: il giudice può emettere una sentenza che dichiari la nullità o annulli il contratto annullabile,
senza che le parti abbiano fatto una specifica richiesta?
3.
Prescrizione dell’azione: quanto tempo si ha per domandare una sentenza che accerti la nullità o che annulli il contratto?
4.
Sanabilità del vizio di invalidità: la nullità e l’annullabilità costituiscono dei vizi che, a certe condizioni, possono essere
rimossi e gli effetti del contratto consolidarsi? Possono essere salvati gli effetti di un contratto nullo originariamente
inefficace ovvero possono essere stabilizzati gli effetti di un contratto annullabile precariamente efficace?
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In particolare:
1.
Legittimazione.
Per quanto riguarda la nullità occorre far riferimento all’art. 1421 per cui la nullità può esser fatta valere da chiunque ha
interesse. La legittimazione a far valere la nullità e quindi a domandare una sentenza dichiarativa della stessa è fortemente
allargata che spetta, non solo a entrambi o tutti i contraenti, ma persino a terzi, ovvero a coloro che sono estranei al contratto e non
hanno partecipato alla stipula dello stesso. Tuttavia, tali soggetti devono avere un interesse giuridicamente rilevante, che dalla
dichiarazione di nullità del contratto possa quindi ottenere un concreto vantaggio. È questo il caso del fideiussore, ovvero di colui
che si è impegnato a garantire il debito assunto da un altro soggetto. Il fideiussore è un soggetto terzo rispetto al contratto con il
quale il debitore garantito ha assunto il suo debito tuttavia, se quel contratto fosse nullo il fideiussore avrebbe un interesse
giuridicamente rilevante a far valere il vizio, proprio perché lo liberebbe dal vincolo di dover garantire quel debito. Il fideiussore è
uno di quei casi in cui un terzo rispetto al contratto può domandarne l’accertamento della nullità. Con riferimento alla nullità si
parla di legittimazione assoluta, per indicare una legittimazione allargata a più soggetti.
Per quanto riguarda invece l’annullabilità, ai sensi dell’art. 1441 l’annullamento del contratto può essere domandato solo dalla
parte nel cui interesse è stabilito dalla legge. La parte tutelata è quella incapace o il cui consenso è viziato da errore, dolo o
violenza. Non può chiedere l’annullamento del contratto l’altra parte, che ha approfittato dell’errore, che non ha rilevato la
capacità, che ha minacciato o ingannato l’altro contraente. Non sarebbe infatti giusto che una parte, essendosi approfittata o
avendo addirittura dato causa all’annullabilità con l’inganno o con le minacce, possa anche a piacimento liberarsi del contratto,
domandando il suo annullamento. Con riguardo all’annullabilità, si parla di legittimazione relativa: può chiedere la sentenza
costitutiva di annullamento soltanto la parte protetta, non il contraente o terzi soggetti.
2.
Rilevabilità d’ufficio.
Premessa: come funziona il processo civile. Il processo civile funziona ad iniziativa privata, quindi in base all’impulso che il
soggetto il cui diritto è leso (o che ritiene di avere un diritto che è stato leso) ha di rivolgendosi a un giudice, attraverso un
avvocato. Per esempio, un soggetto che è creditore di una somma di denaro e che non riceve la somma di denaro dal debitore
inadempiente, si rivolgerà al giudice (attraverso un avvocato) per chiedere la tutela del suo diritto. Non solo il giudice subisce
l’iniziativa delle parti (l’inizio del processo), ma l’iniziativa delle parti determina anche l’oggetto del processo. Il giudice è quindi
chiamato a pronunciarsi, in modo affermativo o negativo, su quelle che sono, da un lato, le richieste della parte che chiede di
essere tutelata e, dall’altro, le cosiddette eccezioni, ossia le difese che chi è chiamato in giudizio può opporre per difendere la
propria situazione. Ad esempio, nel caso in cui un soggetto non abbia adempiuto ad un contratto, l’altro potrà rivolgersi al giudice,
chiedendo che il contratto sia adempiuto. L’altra parte risponderà che invece l’adempimento c’è stato e il giudice non potrà non
condannare il debitore a pagare, non già perché ha adempiuto, ma perché il contratto in base al quale aveva assunto il suo debito
era annullabile per dolo.
Per quanto riguarda l’annullamento vale il principio generale che vale per il processo civile, ovvero il principio della non
rilevabilità d’ufficio: il giudice non può di sua iniziativa prendere una decisione che non era stata prospettata dalle parti.
La nullità, ai sensi dell’art. 1421, può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Questo crea una deroga, un’eccezione rispetto alla
struttura del processo civile: anche se due parti stanno litigando, una chiede l’adempimento e l’altra controbatte che adempimento
c’è già stato, il giudice potrebbe di sua iniziativa rilevare che il contratto, per svariate ragioni, è nullo e quindi concludere il
processo con una sentenza che dichiara la nullità del contratto. L’ordinamento, rispetto ad un vizio grave come quello della nullità,
vuole moltiplicare le chances (come è per la legittimazione assoluta, allargata) di far valere un vizio così rilevante.
3.
Prescrizione.
Premessa: la maggior parte dei diritti è soggetta a prescrizione. Ciò significa che con il decorrere del tempo, la maggior parte dei
diritti non può più essere esercitata. Questo ovviamente non vale per i diritti della personalità o della proprietà, ma pensiamo, ad
esempio, ad un diritto di credito: se il debitore non esegue spontaneamente la sua obbligazione, il creditore ha un tempo limitato
per domandare l’adempimento. In questo caso, il periodo di tempo per fare valere il proprio di diritto di credito è di 10 anni, si
tratta della prescrizione ordinaria decennale. Se questi 10 anni trascorrono invano, il creditore quindi la possibilità di far valere il
proprio diritto.
L’annullabilità segue la regola generale, infatti l’art. 1442 dispone che l’azione di annullamento si prescrive in cinque anni. Ciò
non significa che il contraente la cui volontà è viziata o il contraente incapace, non possa difendersi illimitatamente oltre il tempo
della prescrizione. Se il contraente protetto, incapace o incorso in un vizio del volere, non ha eseguito il contratto annullabile che
comunque era efficace, può difendersi illimitatamente dalla pretesa dell’altro contraente di far valere quel contratto: questo per
evitare che chi contratta con un soggetto incapace o che incorre in un vizio del volere possa tacere e non chiedere l’adempimento,
aspettare che trascorrano i cinque anni della prescrizione e, a quel punto, domandare l’adempimento del contratto stesso. Ciò
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significa che non c’è limite di prescrizione: l’eccezione di annullabilità può essere sempre fatta valere dalla parte protetta. Qual è
il momento dal quale il momento prescrizionale inizia a decorrere? Il dies e quo, ovvero il giorno dal quale decorre la
prescrizione, è quello della scoperta (errore) o cessazione (minaccia) del vizio invalidante.
La nullità deroga alla regola generale: l’art. 1422 afferma che l’azione per far dichiarare la nullità non è soggetta a prescrizione.
Le parti potranno sempre chiedere l’accertamento della nullità. Questa regola, sicuramente molto ampia, patisce in concreto delle
limitazioni: si prescrivono infatti le azioni conseguenti alla dichiarazione del vizio di nullità. Passati 20 o 30 anni dalla stipula del
contratto, è possibile ottenere una sentenza che lo dichiari nullo, ma l’azione di ripetizione (l’azione volta a recuperare e ripetere
quello che è stato prestato in esecuzione del contratto) ha l’ordinaria prescrizione decennale. Non potrà essere chiesta la
restituzione di quanto prestato in base al contratto nullo illimitatamente, e lo stesso vale per tutte le altre azioni legate a quel
contratto.
4.
Sanabilità.
Per quanto riguarda il contratto annullabile, è possibile stabilizzarne gli effetti. L’annullabilità è infatti una forma di invalidità
meno grave, che risulta sanabile. Solo la parte legittimata (che può far valere l’annullamento) può sanare il contratto annullabile.
La parte esprime la cosiddetta convalida. La convalida del contratto annullabile essere espressa (art. 1444, comma 1), quindi
avvenire attraverso una dichiarazione della parte legittimata che, consapevole del vizio, decide di precludersi la possibilità di
domandare l’annullamento anche prima che trascorrano i cinque anni della prescrizione ovvero di eccepirla anche
successivamente. Gli stessi effetti si hanno anche nel caso di convalida tacita (art. 1444, comma 2), ossia nel caso in cui, senza
una dichiarazione, la parte legittimata, consapevole del vizio che affligge il contratto, abbia dato volontaria esecuzione allo stesso.
Un’ulteriore modalità per sanare il contratto annullabile, che riguarda solamente il caso del contratto annullabile per errore, è la
cosiddetta rettifica: il contratto, che pure è convalidabile, può essere rettificato da parte del soggetto che ha trattato con il
contraente caduto in errore. Non è il soggetto protetto che unilateralmente convalida e salva il contratto, ma è l’altra parte che, per
evitare che il contraente protetto domandi l’annullamento, si tutela rettificando il contratto nel modo i cui il soggetto errante se lo
era rappresentato. La rettifica è quindi una modalità di recupero degli effetti del contratto annullabile, che riguarda solamente il
contratto annullabile per errore.
Ai sensi dell’art. 1423, il contratto nullo non può essere convalidato: nessuna delle parti, né tanto meno i terzi, possono con una
loro dichiarazione di volontà salvare il contratto. il vizio che affligge il contratto nullo non è infatti un vizio della volontà, ma è un
vizio che riguarda la struttura del contratto o i fini che esso persegue: nemmeno se fossero d’accordo tutti i soggetti legittimati,
questo vizio non può essere superato. Vi è però una clausola: se la legge non dispone diversamente. Vi sono infatti dei casi
(marginali) nel quali il contratto nullo può effettivamente produrre qualche effetto. Ad esempio, è il caso del contratto di lavoro
nullo (non perché illecito, ma per altre ragioni) dove la nullità non produce effetto per il tempo in cui il rapporto ha avuto
esecuzione. Questo ovviamente per tutelare il lavoratore che avrà quindi diritto alla retribuzione. Salvo questo caso, e altri casi
marginali, resta vera la regola generale per cui il contratto nullo non può essere sanato.
Effetti dell’invalidità
Tali effetti possono riguardare da un lato le parti, dall’altro i terzi.
Tra le parti: nullità e annullabilità presentano delle omogeneità e delle affinità notevoli.
In questo caso, sia il contratto nullo dall’origine sia il contratto annullato in forza della sentenza costitutiva non producono effetti
retroattivamente (ex tunc), cioè da quando il contratto è stato stipulato. Nel primo caso per effetto automatico, nel secondo caso in
ragione della sentenza costitutiva ma il contratto nullo o annullato non produce effetti sin dall’origine questo dà spazio alle cosiddette
restituzioni: ogni contraente può domandare all’altra la restituzione, attraverso un’azione giudiziale, di quanto aveva prestato in forza
del contratto, quindi in forza di un titolo invalido sin dall’origine o che è stato invalidato in forza di una sentenza. Tali restituzioni
hanno il limite della prescrizione ordinaria decennale.
Verso i terzi (sub acquirenti): le differenze tra nullità e annullabilità del contratto sono evidenti. Se un soggetto A trasferisce ad un
altro B, attraverso un contratto, la titolarità di un bene, potrebbe darsi che il soggetto B alieni ad altri (C) lo stesso bene: vi sono quindi
due contratti, quello tra il soggetto A e il soggetto B e quello tra il soggetto B e il soggetto terzo C. Se il contratto stipulato tra A e B è
nullo oppure viene annullato da una sentenza, che cosa accade per il soggetto C sub acquirente? La disciplina diverge notevolmente
nel caso di nullità e di contratto annullato.
-
Nel caso di nullità vale la regola di opponibilità ai terzi. La nullità è un vizio molto grave e preclude ogni possibile sub acquisto
da parte di terzi: se il contratto tra A e B è nullo e viene dichiarato tale, C non può fare salvo il suo sub acquisto che viene travolto
e si dovrà restituire il bene al legittimo proprietario A.
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-
Nel caso di un contratto che viene annullato, vige la regola dell’inopponibilità: non si può opporre al terzo il vizio invalidante.
Questo in particolare succede quando il terzo ha acquistato in buona fede e a titolo oneroso. Il soggetto che ha acquistato, non
sapendo che stava acquistando un bene che derivava da un contratto invalido e l’ha acquistato attraverso l’esborso di un
corrispettivo potrà dire di essere il legittimo proprietario del bene, anche se il sub acquisto è avvenuto a valle di un contratto
invalido che è stato annullato da una sentenza. Questo non vale in altri casi che costituiscono una deroga a questa regola generale:
è il caso di incapacità legale, il caso in cui il primo contratto sia stato stipulato e poi annullato per incapacità legale oppure nel
caso in cui il terzo sub acquirente fosse in mala fede, quindi sapesse che stava acquistando un bene a valle di un contrato invalido,
o comunque abbia acquistato a titolo gratuito, senza un corrispettivo. In questi casi non c’è una tutela del sub acquisto effettuato
dal terzo.
Riassumendo:
Il contratto nullo non è efficace sin dall’inizio, mentre il contatto annullabile è efficace, seppur precariamente. La sentenza di nullità è
di tipo dichiarativo, quindi di accertamento che non innova la situazione giuridica preesistente, ma dichiara che il contratto era nullo;
la sentenza di annullamento è invece costitutiva che annulla il contratto che era meramente annullabile prima dell’intervento della
sentenza stessa, privandolo degli effetti. Vi sono poi quattro profili che riguardano l’azione di nullità rispetto all’azione di
annullabilità:
-
Legittimazione: chi può far valere il vizio? La nullità è soggetta ad una legittimazione allargata o assoluta: entrambi o tutti i
contraenti, ma anche i terzi purché abbiano un interesse, possono chiedere la nullità del contratto. La legittimazione a far valere
l’annullamento riguarda invece solamente il soggetto protetto. Si tratta quindi di una legittimazione ristretta o relativa che sorge in
capo soltanto al soggetto la cui volontà era viziata o che era incapace.
-
Rilevabilità d’ufficio dell’invalidità. L’invalidità è rilevabile d’ufficio nel caso della nullità, non è invece rilevabile d’ufficio nel
caso dell’annullabilità.
-
Prescrizione, il tempo che non deve trascorrere per poter chiedere la sentenza dichiarativa o sostitutiva. La prescrizione non
decorre nel caso della nullità, la cui azione è imprescrittibile mentre per l’annullabilità la prescrizione decorre in cinque anni.
-
Sanabilità, se si possono stabilizzare gli effetti di un contratto nullo o annullabile. Non è possibile sanare gli effetti di un contratto
nullo, poiché la nullità è un vizio insanabile. L’annullabilità è invece un vizio sanabile, attraverso la convalida della parte
legittimata (rettifica nel caso di contratto viziato da errore).
Rispetto alle parti, le conseguenze della nullità e dell’annullabilità sono le stesse: si ha un’inefficacia ex tunc retroattiva, che comporta
quindi la restituzione di quanto prestato con il limite della prescrizione dell’azione di restituzione. Per quanto riguarda i terzi, vi è una
differenza disciplinare: la nullità può essere sempre opposta ai terzi sub acquirenti, mentre per il contratto annullato faranno salvo il
loro acquisto coloro i che hanno acquistato in buona fede e a titolo oneroso.
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2.4. RESCISSIONE
Le figure più tradizionali di invalidità sono la nullità e l’annullabilità, la cui disciplina è rigidamente contrapposta. Anche la
rescissione può essere considerata una terza specie di invalidità, come le altre figure di invalidità riguarda un vizio originario o
genetico, che è quindi accertabile che si verifica nel momento in cui il contratto è concluso. La rescissione non riguarda quindi il
contratto come rapporto che viene eseguito, ma come atto. In particolare, la rescindibilità offre e presenta delle affinità soprattutto con
l’annullabilità: il contratto rescindibile, come il contratto annullabile, è precariamente efficace finché non interverrà una sentenza di
rescissione.
PRESUPPOSTI
Genericamente, il contratto rescindibile può essere assimilabile al contratto annullabile. Questo è vero per quanto riguarda i
presupposti, i fatti 2 dei 3 presupposti della rescissione possono essere accomunati ai presupposti dell’annullabilità.
1.
Anomala condizione di minorata libertà contrattuale di una parte.
In particolare, l’analogia tra le due figure può essere costituita, non tanto per quanto riguarda l’errore e il dolo che concernono una
limitata capacità del soggetto di rappresentarsi la realtà per quella che è, ma soprattutto con riguardo alla violenza, vi è quindi
un’effettiva costrizione dell’esplicazione della libertà del soggetto. Occorre precisare che due sono i tipi di rescissione e si
fondano su presupposti differenti. Il primo tipo di rescissione riguarda il contratto stipulato in stato di pericolo, definito dal Codice
all’art. 1447 come la necessità di salvare sé o altri da un pericolo grave alle persone. È il caso del genitore che vede allontanarsi
il parente per andare in montagna e questo viene sorpreso da una tormenta. Il genitore sarà disposto a pagare una cifra molto
anche molto alla guida alpina, che si impegnerà quindi a salvare la persona. Il contratto in stato di pericolo riguarda una situazione
piuttosto rara e difficilmente verificabile nella pratica. Più frequente è il presupposto del secondo tipo di rescissione, che riguarda
il cosiddetto stato di bisogno, disciplinato all’art. 1448. Esso fa riferimento, non già a un pericolo o a una situazione personale, ma
a una difficoltà economica, anche momentanea, che riguarda il patrimonio del soggetto e non la persona. È il caso, ad esempio,
dell’imprenditore sull’orlo del fallimento che, per accontentare i creditori più impazienti, vende beni di un certo valore ad un
prezzo estremamente basso, pur di avere una liquidità immediata. Sono queste situazioni anomale in grado di menomare la libertà
di scelta e di costringere il contraente a contrarre
2.
Consapevolezza dell’altra parte.
Chi contratta con il soggetto la cui volontà è menomata da una serie di fattori perturbanti diversi dai vizi del volere, dev’essere a
conoscenza della situazione anomala. In questo caso, si può creare un parallelismo con la mala fede, cioè con la conoscenza che è
richiesta nel caso di incapacità naturale nell’ambito della disciplina dell’annullabilità.
Il secondo presupposto della rescissione riguarda, sempre dal punto di vista soggettivo, la persona dell’altro contraente che deve
essere, nel caso dello stato di pericolo, a conoscenza dello stesso e, nel caso dello stato di bisogno, ci dev’essere stato un
approfittamento della difficoltà economica del soggetto. Dal punto di vista pratico, i due requisiti tendono ad appiattirsi: anche se
l’approfittamento sembra fare riferimento a un qualcosa di più della semplice conoscenza, viene poi interpretato come un fattore
analogo alla conoscenza stessa. È quindi sufficiente accertare la consapevolezza della parte che contratta con la persona in stato di
pericolo o in stato di bisogno, che può essere accertata anche dal carattere fortemente squilibrato che costituisce il terzo e ultimo
presupposto della rescissione.
3.
Squilibrio contrattuale.
A differenza dell’annullabilità, nella rescissione l’effettivo squilibrio dello scambio del contratto entra a far parte dei presupposti.
Non è tanto un indice dal quale desumere, come nel caso di incapacità naturale, la mala fede dell’altro contraente, ma è oggetto di
un vero e proprio presupposto che andrà dimostrato. È questa la caratteristica più propria della rescissione.
Ratio: la rescissione tutela la liberta contrattuale: non la libertà generica del contraente, ma la specifica libertà di evitare contratti
dannosi. Questo, in via indiretta, ha un effetto positivo per quanto riguarda il funzionamento del mercato: non già perché si
impone o si impedisce alle parti di decidere quello che è l’equilibrio economico del contratto, ma si vuole evitare che in casi
estremamente anomali una libertà contrattuale distorta porti a degli effetti che non sono propri della libertà contrattuale e che
contrastano con il funzionamento del mercato.
Quest’ultimo presupposto differenzia fortemente la disciplina della rescissione rispetto agli altri rimedi contrattuali invalidatori.
Per quanto riguarda il contratto concluso in stato di pericolo, il Codice si accontenta di una generica definizione, cioè quella delle
condizioni contrattuali inique. La sproporzione può essere qualunque: per ottenere la rescissione non bisogna dimostrare uno
specifico e predeterminato livello di sproporzione, basta una sproporzione generica. Per quanto riguarda il contratto stipulato in
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stato di bisogno, il Codice richiede la lesione ultra dimidium: una sproporzione specifica, di “oltre la metà”. Ciò significa che
l’imprenditore sull’orlo del fallimento può ottenere la rescissione soltanto se ha venduto un bene che valeva 100, al prezzo di 40.
La situazione sottesa allo stato di bisogno, che riguarda i patrimoni, è infatti meno grave rispetto a quella sottesa allo stato di
pericolo che riguarda la persona, pertanto il Codice detta una regola più severa, evitando che poi ogni soggetto possa contestare e
impugnare il proprio contratto considerandolo rescindibile soltanto perché si trattava di un contratto genericamente sconveniente.
Per accertare la sproporzione che è alla base della rescissione si farà riferimento ai valori di mercato accertabili nel momento e nel
luogo in cui le parti concretamente contrattano: la rescissione è un vizio di invalidità del contratto come atto, che riguarda il
momento della stipula e non le oscillazioni del mercato successive. Ciò non toglie che, nel caso di contratto concluso in stato di
bisogno, la domanda di rescissione possa essere effettuata soltanto se la sproporzione perdura fino al momento in cui c’è la
domanda. Ad esempio, se il bene venduto dall’imprenditore a un prezzo estremamente basso ha nel frattempo diminuito il suo
valore e quindi la sproporzione non è più di oltre la metà, l’imprenditore non potrà domandare la rescissione.
DISCIPLINA
Andiamo a considerare il trattamento giuridico del contratto rescindibile, dove emergeranno forti analogie con la disciplina
dell’annullabilità.
Efficacia
Come il contratto annullabile e a differenza di quello nullo, il contratto rescindibile è immediatamente efficace e quindi produce i suoi
effetti. La sentenza che farà valere la rescissione sarà una sentenza costitutiva, che priva di effetti il contratto che fino a quel
momento era considerato idoneo a produrli, anche se precariamente.
1) Legittimazione. La rescissione può essere domandata solamente dalla parte protetta, si assiste quindi a una legittimazione relativa
o ristretta, in conformità con l’idea che la rescissione sia un rimedio posto a tutela della parte.
2) Rilevabilità d’ufficio. Non è ammessa la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice, che se avrà un contratto rispetto alle quali due
parti stanno litigando non potrà rilevare di sua iniziativa il vizio della rescindibilità, a meno che le parti non lo domandino
espressamente o eccepiscano a riguardo qualcosa.
3) Prescrizione. L’azione di rescissione, come quella di annullabilità, si prescrive (a differenza dell’azione di nullità che è
imprescrittibile), ma la prescrizione dell’azione di rescissione è molto più breve. L’annullamento può infatti essere richiesto in 5
anni, mentre la rescissione può essere domandata solamente entro 1 anno dalla stipula del contratto. Inoltre, vi è un altro elemento
che va a differenziare il regime del contratto rescindibile da quello annullabile e riguarda l’eccezione. Nel caso di contratto
annullabile, ancorché l’azione è volta a far valere a far valere l’annullamento si prescrive in 5 anni, la parte se non ha dato
esecuzione al contratto poteva comunque sempre difendersi dalla richiesta di adempimento della controparte, anche trascorsi i 5
anni, eccependo l’annullabilità del contratto. Nel caso di contratto rescindibile, la regola della sopravvivenza dell’eccezione alla
prescrizione dell’azione non vale. Infatti, l’art. 1449 afferma che la rescindibilità non può essere opposta in via di eccezione
quando l’azione è prescritta. Alla parte che ha subito un contratto, che è stata costretta da uno stato di bisogno o di pericolo a
stipulare un contratto, per difendersi dalle conseguenze negative conseguenti ad esso, non può che chiedere entro 1 anno dalla
stipula del contratto, la rescissione dello stesso. Questa rigidità di presupposti viene parzialmente temperata nel caso in cui, oltre
ai profili civilistici, la condotta della controparte costituisca reato. È questo il caso, ad esempio, dell’usura: se ci sono gli estremi
del reato allora la prescrizione civile non è di 1 anno, ma si allunga e coincide con quella prevista in ambito penale.
4) Sanabilità (art. 1451). Il contratto rescindibile non è, a differenza del contratto annullabile, in grado di essere sanato per
convalida. Non è quindi la parte protetta in grado di sanare il contratto, perché oltre alla menomazione della libertà del volere, vi è
anche una oggettiva sproporzione del contratto. il regolamento contrattuale non può quindi essere salvato e convalidato. Quindi, il
contratto rescindibile non è oggetto di convalida e non può essere sanato perché oggettivamente squilibrato.
5) È però possibile recuperare gli effetti del contratto rescindibile attraverso la cosiddetta riduzione a equità. L’art. 1450 dispone
che il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente per
ridurlo ad equità. La riduzione ad equità è un diritto della parte che si è avvantaggiata del contratto rescindibile di proporre
all’altra parte che vuole ottenere la rescissione una modifica dei termini contrattuali, tale da superare la sproporzione alla base del
vizio. Non basta però l’iniziativa unilaterale di un singolo soggetto, come era nel caso della convalida, ma è necessaria
l’accettazione di tale offerta da parte del contraente protetto. Quindi, se c’è accettazione allora si ha la riduzione ad equità e il
risanamento del vizio della rescindibilità. Le differenze con la convalida sono notevoli: da un punto di vista soggettivo, la
convalida è unilaterale e spetta soltanto dalla parte protetta mentre, nel caso di riduzione ad equità, essa è bilaterale, perché è
ricondotta ad un incontro di volontà; l’iniziativa della riduzione ad equità spetta non già alla parte protetta dalla rescissione, ma
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alla parte avvantaggiata; infine, la rescissione implica un mutamento dei termini contrattuali per cui il contratto, come nel caso
della rettifica del contratto annullabile per errore, viene modificato e il vizio eliminato.
Effetti
Anche le conseguenze della rescissione differiscono in parte da quelle dell’annullamento. In particolare, per quanto riguarda i rapporti
tra le parti, queste conseguenze sono analoghe: il contratto rescisso, come il contratto annullato, diventa inefficace retroattivamente (ex
tunc), cioè dal momento della stipula. Ciò comporta l’obbligo delle parti di restituire quanto prestato in forza del contratto. ad esempio,
la guida alpina che ha salvato il parente del contraente sarà costretta a restituire la somma di denaro ricevuta per il servizio offerto. Il
contraente che ottenuto la salvezza del proprio parente stipulando il contratto non potrà restituire nulla, perché ha ottenuto un servizio
e non un bene materiale suscettibile di restituzione. La legge, per tutelare la situazione dell’altra parte (la guida alpina), dispone la
possibilità per il giudice di imporre a carico della parte protetta il pagamento di un equo compenso a favore dell’altra parte.
Per quanto riguarda gli effetti della rescissione sui terzi, la disciplina si differenzia fortemente rispetto a quella dell’annullamento. Se A
vende a B attraverso un contratto nullo, abbiamo visto che se B vende a C, l’acquisto di C non è mai fatto salvo, perché il vizio della
nullità è particolarmente grave; se A vende a B attraverso un contratto annullato e B vende a C, C farà salvo il suo acquisto soltanto se
era in buona fede e aveva acquistato a titolo oneroso. Nel caso di contratto rescisso, se il contratto tra A e B viene rescisso da una
sentenza, l’acquisto di C è invece sempre fatto salvo: nella rescissione vale la regola dell’inopponibilità ai terzi. Viene quindi dettata
una regola più severa per la parte protetta dalla rescissione. Ad esempio, se anche l’imprenditore in stato di bisogno ottenesse una
sentenza di rescissione, il terzo sub acquirente potrà far salvo l’acquisto, anche se aveva acquistato in mala fede o a titolo gratuito.
Riassumendo, rescissione e annullabilità:
Analogie:
-
Efficacia. Il contratto rescindibile, come il contratto annullabile, è immediatamente efficace. Gli effetti possono essere
rimossi attraverso una sentenza che avrà natura costitutiva, che innova e modifica la precedente situazione giuridica.
-
Legittimazione. Anche la rescindibilità, come l’annullabilità, può esser fatta valere in modo ristretto soltanto dalla parte
protetta.
-
Rilevabilità d’ufficio. In entrambi i casi, non è ammessa la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice.
Differenze:
-
Prescrizione. Nel caso dell’annullabilità, è di 5 anni mentre, nel caso della rescindibilità, è di 1 anno. È diverso anche il
profilo dell’eccezione del vizio: nel caso dell’annullabilità, l’eccezione può essere opposta senza limiti di tempo anche
quando è spirato il termine della prescrizione, mentre nel contratto rescindibile, non si può eccepire il vizio una volta spirata
la prescrizione annuale.
-
Sanabilità. Il contratto annullabile è sanabile mediante convalida, mentre il contratto rescindibile è sanabile attraverso una
riduzione a equità, che consiste in una modifica dei termini contrattuali per eliminare il vizio.
-
Effetti (opponibilità ai terzi). La rescissione non è mia opponibile ai terzi, che faranno sempre salvo il loro acquisto. Nel caso
di contratto annullato, è richiesta invece la buona fede del terzo e che l’acquisto sia avvenuto a titolo oneroso.
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2.5. WEBINAR
Responsabilità precontrattuale
La buona fede è una regola di comportamento, una clausola generale che non ha quindi una fattispecie precedentemente individuata
dal legislatore, ma sta all’interprete di definirne i contenuti. In quali casi si intende comunemente violata la buona fede
precontrattuale? L’ipotesi in cui la parte si sia comportata in modo scorretto nelle trattative e deve quindi rispondere e risarcire il
danno.
-
Abbandono ingiustificato delle trattative;
-
Manca informazione;
-
Dolo contrattuale.
Che cosa hanno in comune queste ipotesi? Il risarcimento dell’interesse negativo: non è presente un contratto valido (è impreciso dire
che il contratto non è valido). Poiché in tutti i casi, per diverse ragioni, non è presente un contratto valido, il contraente non ha una
pretesa giuridicamente fondata a vedere soddisfatto il suo interesse positivo. Anzitutto in via primaria, non può chiedere la prestazione
dovuta, perché non essendoci un contratto valido, non c’è la fonte della prestazione.
N.B. Nella responsabilità contrattuale (da inadempimento), l’oggetto della prestazione è l’obbligo primario che grava sul debitore, cioè
la soddisfazione dell’interesse positivo non è tanto e soltanto l’oggetto del risarcimento, che eventualmente il creditore si trova a
domandare, ma l’interesse positivo è anzitutto quell’interesse che sarà soddisfatto attraverso l’adempimento della prestazione dovuta.
La prestazione dovuta non è che l’oggetto dell’obbligo primario del debitore, solo in caso di inadempimento di quest’ultimo, l’obbligo
primario, tramuta in obbligo secondario, ovvero l’obbligo di risarcire. L’obbligo risarcitorio, nella responsabilità contrattuale, è
sostitutivo, che viene in rilievo solo in seconda battuta e in sostituzione del primo, quando c’è l’inadempimento.
Tutte queste ipotesi, ricondotte alla buona fede precontrattuale, postulano un principio secondo il quale o c’è un contratto valido, o c’è
una violazione della buona fede, quindi responsabilità precontrattuale e risarcimento del danno. In altre parole, o c’è il contratto o c’è
il danno precontrattuale. La funzione del risarcimento del danno precontrattuale tradizionalmente è quella di ristorare l’interesse
negativo, che sporge in assenza di un contratto valido, quindi in assenza della pretesa del creditore di far valere il proprio interesse
positivo. Ovviamente, mancano la pretesa, il risarcimento non può riguardare il risarcimento di questo interesse, ma soltanto
l’interesse negativo, ovvero il tempo, le occasioni, i soldi che il contraente ha perso per impegnarsi in una trattativa che non ha portato
alla conclusione di un contratto valido.
Nel Codice, vi è almeno una ipotesi in cui la presenza di un contratto valido e la pretesa di far valere l’altrui responsabilità
precontrattuale convivono, sussistono quindi allo stesso tempo. Quindi, quali sono le ipotesi che nel Codice Civile prevedono la
coesistenza di un contratto valido e al contempo la pretesa di uno dei due contraenti di far valere la responsabilità precontrattuale
dell’altro, e quindi ottenere un risarcimento? Facciamo riferimento alla norma sul dolo incidente, art. 1440. In assenza di dolo
incidente, il contratto sarebbe stato stipulato ugualmente, ma a condizioni differenti. Il dolo incidente incide sul contenuto del contratto
e non è determinante del consenso. Il contratto sarà comunque valido e il contraente in mala fede risponde dei danni e sarà tenuto al
risarcimento del danno. Tale norma prevede la coesistenza tra un contratto valido e il diritto di una parte a chiedere il risarcimento del
danno, a titolo di responsabilità precontrattuale perché ha a che vedere con una condotta che, dal punto di vista fattuale, si colloca nella
fase delle trattative (non sono danni che derivano dall’inadempimento - art. 1218). La norma di cui all’art. 1440, in tema di dolo
incidente, è tradizionalmente interpretata come norma eccezionale, che pone quindi un’eccezione rispetto alla regola generale che
desumiamo interpretando gli articoli 1337 e 1338, i quali escludono la presenza di un contratto valido e la pretesa di vedere
risarcimento il proprio danno precontrattuale. È importante ricordare che le norme eccezionali, che fanno eccezione a regole generali,
non si applicano per analogia. All’art. 12 delle Preleggi, si afferma che quando un caso non può essere risolto sulla base di una certa
norma, si può applicare, in forza del rapporto di analogia, una norma che regola un caso diverso, ma simile. A partire da una nota
sentenza della Corte di Cassazione 19024 del 2005, la Cassazione ha aperto la possibilità che si ottenga il risarcimento del danno
precontrattuale anche quando il contratto è valido ed efficace, ma più sconveniente di come sarebbe stato in assenza di raggiri. La
novità è che non si potrà chiedere il risarcimento in presenza di un contratto valido solo quando la scorrettezza è tale da integrare gli
estremi del dolo incidente, ma anche in ipotesi che si riconducono alla violazione della buona fede precontrattuale, ma non consistono
in veri e propri raggiri. Questo ha particolare significato nei rapporti tra investitori e intermediari finanziari.
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N.B. La violenza contrattuale è sinonimo di minaccia, violenza psichica (ad esempio, si ha un’ipotetica esposizione a un male ingiusto
e notevole alla parte o ai suoi stretti familiari - minaccia). In questo caso, il contratto è annullabile. Invece, nel caso di violenza fisica,
il contratto è nullo.
Il dolo contrattuale è un inganno, un artificio o un raggiro al fine di stipulare il contratto ed è causa di annullabilità di un contratto. tale
artificio può essere, ad esempio, una rappresentazione errata della realtà, della cornice fattuale che porterebbe la controparte a prendere
una decisione piuttosto che un’altra. È possibile che se un soggetto raggira la controparte per stipulare un contratto, lo fa per ottenere
un vantaggio: la legge non richiede però che il giudice, per valutare l’annullabilità di un contratto, debba verificare la presenza di un
vantaggio. A differenza dell’errore, la distorsione della realtà e della rappresentazione della stessa è frutto dei raggiri di una parte.
È importante distinguere il dolo contrattuale dal dolo extracontrattuale. Il dolo contrattuale è il dolo oggettivo, si ha un comportamento
volto a carpire il consenso dell’altra parte, mentre il dolo extracontrattuale è l’intenzione di ledere, ha quindi una connotazione
soggettiva. A seconda dell’intensità che il dolo contrattuale assume, vi sono due diverse conseguenze giuridiche: dolo incidente e dolo
determinante. Il dolo determinate, più intenso, è quello che determina il consenso, senza di esso il contratto non si sarebbe stipulato.
Nel caso di dolo determinante, si ha l’annullabilità del contratto (rimozione degli effetti del contratto).
Invalidità contrattuali
In che rapporto le invalidità contrattuali si pongono rispetto al rimedio della risoluzione? Quali sono le analogie e le differenze tra le
ipotesi di invalidità del contratto e le ipotesi di risolubilità?
Il contratto è invalido quando è nullo, annullabile ovvero rescindibile.L’invalidità riguarda vizi originari o genetici del contratto, che
sono riscontrabili nel momento in cui il contratto viene stipulato: nel caso di nullità, manca uno degli elementi essenziali del contratto
oppure questo persegue fini contrari all’ordinamento (illiceità); nel caso di annullabilità, se il contratto è affetto dai vizi della volontà
(dolo, errore, violenza) e nel caso di rescindibilità, se un contraente si è trovato in uno stato di bisogno o di pericolo e l’altro se n’è
approfittato, con un conseguente squilibrio delle prestazioni. Queste ipotesi si distinguono pertanto dalla risoluzione, dove il contratto
è valido ma nello svolgimento si creano dei problemi sopravvenuti e successivi al sorgere del vincolo contrattuale.
Sia nel caso di invalidità (nullità, annullabilità, rescindibilità) che di risoluzione si ha un rimedio caducatorio (o delimotorio). Ciò
significa che in presenza di una serie di presupposti, il contratto la cui forza sta negli effetti (forza di legge) e vincola le parti, una parte
avrà il potere di far valere e ottenere la rimozione degli effetti del contratto.
DOMANDE MODULO 2
-
Che cos’è l’invalidità del contratto? come si distingue la nullità dall’inesistenza e quali sono i suoi rapporti con l’inefficacia?
-
Quali sono le due grandi famiglie di nullità rispetto agli scopi perseguiti dal legislatore?
-
In base a quali parametri il contratto può risultare illecito o illegale? Quando il contratto è meramente irregolare? Esempi.
-
Che cos’è l’annullabilità del contratto? Quali sono le ragioni che la giustificano?
-
Quali sono le specie di incapacità che fondano l’annullabilità del contratto?
-
Quali sono i vizi del volere e quale la loro disciplina?
-
Quali differenze presenta il contratto nullo rispetto a quello annullabile in tema di efficacia e della sentenza che fa valere il
vizio?
-
In che modo la nullità e l’annullabilità differiscono per quanto riguarda la legittimazione, la rilevabilità d’ufficio, la
prescrizione, la sanabilità?
-
Quali sono gli effetti della nullità e dell’annullamento per le parti e per i terzi?
-
Perché la rescissione è un vizio di invalidità? In quali casi il contratto è rescindibile?
-
Chi può chiedere la rescissione e in base a quali regole? Quali sono gli effetti del contratto rescisso verso le parti e verso i
terzi?
-
Che cos’è la riduzione a equità e che differenze presenta rispetto alla convalida?
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MODULO 3 - La contrattazione B2C
3.0. CLAUSOLE VESSATORIE E ABUSIVE
L’obiettivo del Codice del Consumo è quello di raggruppare tutte le discipline a tutela consumatore sino a lì emanate in unico testo
normativo coerente, razionale e sistematico.
Vi è una parte introduttiva che evoca delle disposizioni generali e le finalità del Codice del Consumo e disciplina inoltre gli obblighi
generali di informazione a carico del professionista e a favore del consumatore (artt. 4-31: obblighi di informazione e divieto di
pratiche commerciali scorrette/ingannevoli/aggressive). Le pratiche commerciali tenute d’occhio dal legislatore si modulano secondo
modalità differenti: la mera scorrettezza, l’inganno e l’aggressività.
Le pratiche commerciali sulle quali presta particolare attenzione il Codice del Consumo sono innanzitutto le pratiche commerciali
aggressive. È considerata aggressiva una pratica che, mediante molestie e coercizioni (compreso il ricorso alla forza fisica), è idonea a
limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore, tenendo conto dei tempi, dei luoghi e della
persistenza dell’offerta. Ad esempio: creare l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla
conclusione del contratto; effettuare visite presso l’abitazione del consumatore, ignorando gli inviti dello stesso a lasciare la sua
residenza; effettuare ripetute e non richieste sollecitazioni commerciali per telefono, via fax o posta elettronica. Mentre nelle pratiche
commerciali scorrette o ingannevoli può essere che sia il consumatore stesso a decidere di acquistare quel bene, subendo poi artifici o
raggiri circa la qualità del bene che sta andando a scegliere (si comprendono anche le omissioni ingannevoli), nelle pratiche
commerciali aggressive vi è invece una coazione psicologica alla conclusione del contratto. In questi casi, non vi è solo un problema
della sorte del singolo contratto ma il Codice del Consumo prevede anche una serie di tutele amministrative e giurisdizionali per le
quali scattano delle sanzioni e potrebbero essere integrate anche delle fattispecie di carattere penale.
Il codice civile contempla uno speciale controllo di quei contratti il cui contenuto sia unilateralmente predisposto da uno dei contraenti.
È infatti frequente che il regolamento contrattuale non sia il risultato di una trattativa tra le parti ma piuttosto si perfezioni mediante
l'adesione di un contraente ad un regolamento integralmente predisposto dalla controparte.
Art. 1341 - Condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti
In questi casi il legislatore si preoccupa che il contraente predisponente posso inserire nel regolamento pattuizioni squilibrate a suo
favore ed in pregiudizio dell'aderente.queste clausole sono definite vessatorie e non hanno effetto a meno che non siano
specificatamente approvate per iscritto.di conseguenza tali clausole favorevoli al predisponente sono valide solo se l'aderente non si
limiti a sottoscrivere il contratto nella sua interezza ma formi una seconda ed autonoma sottoscrizione con cui approvi le specifiche
clausole contrattuali del contenuto vessatorio.
La disciplina in esame si applica a tutti i contratti predisposti a prescindere dal peculiare status dei contraenti: tante e che le condizioni
contrattuali siano state formulate da uno solo di essi, di regola in modo uniforme per un determinato tipo di operazione negoziale
(contratto tra impresa distributrice e consumatore finale, contratto tra imprese ed altri). Quello che conta è la predisposizione del
regolamento da parte di uno solo dei contraenti.
Tuttavia la disciplina codicistica delle condizioni generali di contratto si rileva inadeguata a causa del diffondersi di una contrattazione
di massa sempre più sofisticata in cui la tutela di tipo formale della doppia firma (sottoscrizione specifica della clausola vessatoria e
quella dell'intero contratto) non tutela se non marginalmente nei riguardi delle clausole vessatorie. In particolare nella contrattazione
tra imprese e consumatori, la sottoscrizione specifica si rivela un filtro solo formale poiché non sollecita di fatto un particolare
controllo in capo al contraente non professionale questa parentesi che di regola pone in via automatica l'approvazione specifica, inoltre
il consumatore anche se è consapevole dei contenuti vessatorie il contratto non avrebbe nemmeno la possibilità di rinunciarvi cercando
alternative sul mercato e ciò in ragione della tendenziale omogeneità delle condizioni generali predisposte dei diversi operatori in un
medesimo mercato.
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Clausola generale di abusività
Analoghi limiti di tutela attraverso le clausole vessatorie si riscontravano inoltre nell'ordinamento degli Stati membri dell'Unione
Europea e per farmi fronte è intervenuta la direttiva comunitaria 93/13/CEE che ha regolato in modo assai più severo le clausole
vessatorie contemplate nei contratti predisposti, se conclusi tra professionisti e consumatori.la direttiva comunitaria è stata recepita nel
nostro ordinamento dalla legge 6 febbraio 1996 numero 52 e poi collocato nel codice del consumo non è disciplinato agli articoli 33 e
seguenti.
Le clausole vessatorie nei contratti tra professionisti e consumatori sono nulle né possono essere salvate da specifiche sottoscrizioni e
quindi non hanno modo di essere fatte valere dal professionista nei riguardi del consumatore aderente.mentre il contratto resta valido
per il resto: il che significa che il consumatore riesce a conservare l'affare intrapreso tuttavia depaupera dei contenuti abusivi.
La disciplina delle clausole vessatorie introdotte dalla direttiva comunitaria a pertanto quale presupposto operativo lo status dei
contraenti: essa non opera come nell'articolo 1341 in ogni caso di predisposizione unilaterale del contratto ma solo quando l'aderente
sia il consumatore vale a dire non concluda abitualmente il contratto nell'esercizio della propria attività professionale.
Abbiamo dunque due figure:
I.
il professionista: colui che agisce e quindi ai nostri fini stipula il contratto nel quadro della propria attività professionale o di
impresa;
II. il consumatore: colui agisce per finalità estranee alla propria attività professionale, ad esempio l'avvocato che acquista in un
grande magazzino una lavatrice è in relazione a quel contratto un consumatore.
La direttiva 93/13/CE regola una tecnica di protezione del consumatore attraverso clausole amplificate come abusive; nel recepire le
scelte comunitarie però il nostro legislatore ha utilizzato invece la locuzione clausole vessatorie richiamando quindi il sintagma in uso
alla nostra dottrina per descrivere le clausole di cui all'articolo 1341 secondo comma che sia contemplata in condizioni generali di
contratto sono valide solo se specificatamente sottoscritte dall'aderente.
Art. 33 codice del consumo - Clausole vessatorie nel contratto
1. Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona
fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Con una definizione così generale, si rischia che la tutela contro le clausole vessatorie non sia sostanziale. Allora il legislatore ha
affiancato alla definizione del primo comma una lista di clausole che si ritengono vessatorie, fino a prova contraria. Tale lista viene
definita grey list: non è detto che siano sicuramente vere, perché si presumono vessatorie fino a prova contraria e quindi è sempre data
la possibilità al professionista di giustificarle e quindi di salvarle. È questa una lista molto analitica: nel momento in cui un
consumatore contesta davanti al giudice una determinata clausola che ritiene abusiva, se questo riesce a collocarla in una delle
fattispecie di clausole della “lista grigia”, più facilmente riuscirà a dichiararne la nullità.
Pertanto, il comma 2 enuclea una serie di fattispecie singole e specifiche di pattuizioni che si presumono essere vessatorie.
Raggruppiamo in sottogruppi omogenei alcuni di questi tipi di clausole che sono presunte vessatorie.
Gruppo 1: clausole che riguardano l’inadempimento dell’obbligazione o da parte del professionista o da parte del consumatore.
Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di:
a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da
un fatto o da un'omissione del professionista;
b) escludere o limitare le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di
inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista.
Tali lettere si occupano di clausole vessatorie che riguardano l’inadempimento e regolano pertanto clausole di esonero da
responsabilità. Le clausole di esonero da responsabilità sono regolate nel Codice Civile dall’art. 1229: è nullo qualsiasi patto che
esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave. Ciò significa che clausole di esonero
dalla responsabilità dei danni che vengono cagionati dal debitore sono ammesse solo nel caso di colpa lieve o normale. Quindi, in
astratto sono possibili clausole che esonerano o limitano la responsabilità per l’inadempimento. Ad esempio, nel caso di contratti
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da trasporto vi sono clausole che esonerano la responsabilità per il ritardo, che può non dipendere dalla condotta del trasportatore.
Rispetto a questa regola generale, nel Codice del Consumo emerge chiaramente che le clausole di esonero da responsabilità non
sono valide perché si presumono vessatorie. Quando la clausola di esonero è contenuta in un contratto tra professionista e
consumatore e non è oggetto di trattativa, allora la clausola è nulla.
c) escludere o limitare l'opportunità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti del
professionista con un credito vantato nei confronti di quest'ultimo.
Normalmente, quando si hanno crediti reciproci è possibile la compensazione. Clausole che limitano la compensazione sono
considerate vessatorie perché tolgono al consumatore un diritto che ordinariamente la legge gli attribuisce. Non è propriamente
inadempimento, ma riguarda la fattispecie di esecuzione finale della prestazione. È quindi sempre possibile la compensazione
perché è invalida la clausola che ne esclude l’operatività.
p) riservare al professionista il potere di accertare la conformità del bene venduto o del servizio prestato a quello previsto nel
contratto o conferirgli il diritto esclusivo d'interpretare una clausola qualsiasi del contratto.
Poniamo che il professionista fornisca un servizio/venda un bene e che ci sia una clausola imposta dal professionista per cui la
conformità del bene o del servizio verrà attestata in via definitiva, senza possibilità di contestazione ulteriore, da tecnici
dell’impresa venditrice del bene o fornitrice del servizio. Sono quindi i tecnici del professionista a verificare che la qualità del
servizio sia quella effettivamente assicurata. Una clausola che dà la possibilità ai tecnici del professionista di certificare la
conformità della prestazione è invalida.
q) limitare la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai
mandatari o subordinare l'adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalità.
Spesso il professionista potrebbe vendere il bene per il tramite di agenti o rappresentanti.
r) limitare o escludere l'opponibilità dell'eccezione d'inadempimento da parte del consumatore.
Potrebbe esserci una clausola per la quale il consumatore non potrà mai sospendere l’esecuzione della propria prestazione
eccependo l’inadempimento del professionista. Si parla di eccezione da inadempimento nei contratti a prestazioni corrispettive,
l’art.1460 consente a chi subisce l’inadempimento altrui di eccepirlo e non effettuare la propria controprestazione. È questo un
mezzo di autotutela da parte del consumatore. È possibile che le parti escludano tale tutela, che è valida ai sensi del Codice Civile,
ma non nel caso di Codice del Consumo, se l’esclusione era favore del consumatore: il consumatore può sempre sospendere
l’esecuzione della sua prestazione nel caso in cui ci sia inadempimento da parte del professionista.
Le successive due clausole riguardano elementi accidentali del contratto, clausola penale e caparra confirmatoria:
f) imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il pagamento di una somma di denaro a
titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d'importo manifestamente eccessivo.
La clausola penale è quel patto per cui se una parte è inadempiente questa deve pagare una somma predeterminata. Una clausola
penale può essere prevista a carico del consumatore (ad esempio, la mora) o del professionista. La clausola penale può essere
eccessivamente onerosa, irragionevole rispetto al tipo di contratto in questione. Si parla pertanto di penale iniqua: nella disciplina
generale del Codice Civile (art. 1384), nel caso di penale eccessivamente onerosa, il giudice può procedere alla riduzione
equitativa della stessa; invece, se la clausola penale iniqua è a carico di un consumatore, questa sarà nulla. Ovviamente, se il
consumatore è inadempiente, il professionista può chiedere il risarcimento del danno secondo le regole ordinarie, dando la prova
del pregiudizio subito.
e) consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il
contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma
corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere.
Con la caparra confirmatoria (art. 1385) si paga una somma di denaro a titolo di anticipo, di acconto: se ci sarà l’adempimento,
la somma di denaro è un acconto e l’intera prestazione verrà pagata per differenza (soprattutto nel caso di contratti preliminari); se
invece c’è inadempimento, la controparte potrà trattenere la caparra a titolo di risarcimento del danno. Tuttavia, la disciplina della
caparra confirmatoria prevede altresì un’altra regola: se ad essere inadempiente è invece la controparte (che ha incassato la
caparra), è tenuta a versare il doppio della caparra a favore di chi l’aveva data. Nel caso di un contratto stipulato tra professionista
e consumatore, qualsiasi clausola per la quale il professionista ha diritto, in caso di inadempimento del consumatore, a tenere la
caparra a titolo di acconto e il consumatore non ha diritto, in caso di inadempimento del professionista, a ricevere il doppio, è
abusiva e quindi nulla. Si darà luogo alla disciplina ordinaria dei rimedi risolutori per il risarcimento.
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Gruppo 2: clausole relative al recesso e le disdette/rinnovi automatici.
d) prevedere un impegno definitivo del consumatore mentre l'esecuzione della prestazione del professionista è subordinata ad una
condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volontà.
g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al
professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora
adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto.
h) consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso, tranne nel caso di giusta
causa.
i) stabilire un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta al fine di evitare la
tacita proroga o rinnovazione.
Lista nera e Lista grigia
Oltre alla clausola generale di abusività il legislatore italiano ha previsto altresì:
- lista grigia: una lista analitica di clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria;
- lista nera: clausole certamente in ogni caso vessatorie persino se oggetto di trattativa individuale.
Art. 36 cod. cons. - Lista nera
Ha ad oggetto clausole di esclusione della responsabilità del professionista nel caso di lesione di diritti inviolabili ovvero di radicale
inosservanza dell'obbligazione del professionista.così sono nulle le clausole che escludono la responsabilità:
• In caso di morte o di danno alla persona del consumatore risultante da un fatto o da un'omissione del professionista;
Tale scelta non sorprende poiché conforme alla disciplina generale delle clausole di esonero da responsabilità prevista dall'art. 1229
il quale prevede che i patti con cui le parti escludono o limitano la responsabilità sono validi solo quando l'inadempimento del
debitore non sia doloso (e quindi si faccia questione della scelta consapevole di non adempiere) o gravemente colposo (dovuto a
grave negligenza) oppure se l'inadempimento non costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico
(ovviamente a tal proposito un inadempimento che sia all'origine di danni alla persona del contraente consumatore non può in alcun
modo trovare copertura in clausole di esonero).
• In caso di inadempimento totale o parziale o di inadempimento in capo dell'obbligazione assunta dal professionista.
Mentre la possibilità nel c.c. all’articolo 1229 che la responsabilità da inadempimento sia escluso da un patto dalle parti: clausola di
esonero dalle responsabilità salvo dolo o colpa, non è prevista nel codice del consumo: se il professionista è inadempiente egli non
potrà vedere esclusa la propria responsabilità/risarcimento.
• Le clausole che prevedono l'adesione del consumatore estesa a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima
della conclusione del contratto.
Sempre fissatori i patti che prevedono l'adesione a clausole, richiamate per relationem, nel contratto che il consumatore non aveva
avuto modo di conoscere prima della conclusione del contratto stesso. La ratio della regola postula che tra le parti si è svolta una
trattativa e quindi la spiegazione è quella di far fronte alla simmetria informativa strutturalmente è correlata al rapporto di consumo.
Via le clausole previste dalla lista nera (art. 36 cod. cons.) trovano sorprendentemente collocazione anche nella lista grigia (art. 33 cod.
cons.). Il motivo di una tale singolare scelta del legislatore, che considera i tre tipi di clausole contenute all'interno della lista nera
prevede due diversi orientamenti:
1. Si tratterebbe solo di un errore di coordinamento da parte del legislatore.i tre tipi di clausole in esame sarebbero a tale stregua
nulle: il loro inserimento anche nell'elenco della lista grigia sarebbe appunto frutto di trascuratezza
2. Secondo dopo studente mento, la doppia collocazione avrebbe un senso: anche le clausole in discorso si presumono vessatorie, di
qui la collocazione nell'art. 33. Tuttavia, la presunzione della lista grigia può superarsi essenzialmente dando prova che il clausole
sono state oggetto di specifica trattativa da parte dei contraenti, tale prova non sarebbe qui sufficiente.sarebbe invece necessario
dimostrare in un altro modo che la clausola in concreto non è abusiva a danno del consumatore.un trattamento più severo per il
professionista, nel caso di clausole come quelli in esame ma non una loro nullità in assoluto.
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Art. 33 cod. cons. - Lista grigia
Lista di clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria da parte del professionista (ad es. E che la pattuizione del
contenuto vessatorio in realtà è stato oggetto di trattativa tra le parti e magari fa da contrappunto sacrifici previsti pure in capo al
professionista). Non è possibile esaminare analiticamente tali fattispecie, tuttavia si può pensare ad un loro raggruppamento in classi in
qualche misura omogenee:
1. Che regolano il diritto di recesso oppure le disdette:
attribuendo tali diritti al professionista e non anche al consumatore,
escludendo il preavviso in caso di recesso del professionista,
stabilendo termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta da parte del
consumatore allo scopo di evitare la tacita proroga;
2. Clausole che prevedono penali eccessivamente onerose:
caparre solo a favore del professionista non tenuto alla restituzione del doppio nel caso di proprio inadempimento
3. Clausole che rendono meno trasparente il regolamento contrattuale:
consentendo al professionista di modificare unilateralmente il contenuto del contratto senza un giustificato motivo indicato nel
contratto stesso,
stabilendo che il prezzo dei beni di servizi sia determinato al momento della consegna o della prestazione,
consentendo al professionista di aumentare il prezzo del bene senza che il consumatore possa recedere se il prezzo finale
eccessivamente elevato,
infine, anche se non perfettamente coincidenti nella ratio, le ipotesi per cui si presumono vessatorie le clausole che riservano al
professionista il potere di accertare la conformità del bene venduto o del servizio prestato
4. Clausole che limitano i diritti del consumatore:
che escludono o limitano l'opponibilità da parte del consumatore della compensazione, limitano o escludono l'opponibilità
dell'eccezione di inadempimento,
sanciscono a carico del consumatore decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni,
all'adozione di prove, inversione dell'onere della prova,
deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria ed ancora limiti alla libertà contrattuale.
Art. 34 cod. cons. - Accertamento della vessatorietà delle clausole
Tale norma detta i criteri dei quali il giudice si avvarrà per accertare la vessatorietà delle clausole.
Comma 1
La vessatorietà di una clausola è valutata tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo riferimento
alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui
dipende.
Le singole clausole devono essere valutate nel contesto generale del regolamento contrattuale. Per capire se una determinata
clausola è abusiva e quindi determina un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi ovvero se la presunzione di vessatorietà
regge, tale clausola non deve essere interpretata di per sé stessa considerata ma deve essere interpretata sistematicamente, nel contesto
della pluralità delle clausole presenti nel contratto. Nel caso in cui ci sia una clausola piuttosto favorevole per professionista, si
potrebbe ritenere che questa sia abusiva perché squilibrante. Se nello stesso contratto ci sono altri articoli che sono chiaramente e
nettamente orientati a favore del consumatore, allora può essere che, leggendoli tutti insieme, si ritorni ad un equilibrio. Pertanto,
quella clausola che sembrava abusiva a danno del consumatore in realtà trova in concreto giustificazione, perché nello stesso contratto
c’erano tante altre clausole che invece negavano un significativo squilibrio a danno del consumatore.
Comma 2
La valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell'oggetto del contratto, né all'adeguatezza del
corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile.
Potrebbe esserci un equivoco per cui la protezione del consumatore passa anche un intervento a sua tutela se si duole di un prezzo
troppo alto del bene acquistato: in questo modo, la tutela del consumatore potrebbe servire anche per calmierare i prezzi. La tutela del
consumatore non è mai rispetto al prezzo, allo squilibrio economico della prestazione di consumo: il legislatore comunitario non è
contro il libero mercato, non è un calmiere dei prezzi imposti e non demanda la determinazione dei contenuti economici di un contratto
alla legge piuttosto che alla libertà delle parti e delle imprese, ma vuole favorire un mercato libero ed efficiente. Questa efficienza
passa anche per un controllo del legislatore in termini regolatori: si parla di libero mercato regolato, affinché funzioni in modo più
efficiente. La tutela del Codice del Consumo rispetto alle clausole vessatorie è una tutela contro lo squilibrio normativo e
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regolamentare e non contro lo squilibrio economico del singolo contratto: non possono quindi essere valutate in termini di vessatorietà
le clausole che riguardano il corrispettivo. Questo perché nel contratto tra professionista e consumatore si registra un’asimmetria
informativa e non di determinazione dell’equilibrio economico della singola operazione contrattuale. Se il prezzo non si comprende e
quindi le condizioni economiche del contratto sono opache a ambigue, allora si potrebbe attivare un giudizio di vessatorietà: non
perché il prezzo è alto, ma perché non si capisce. Infatti, l’opacità delle condizioni economiche del mercato determina dei fallimenti
dello stesso, poiché gli operatori economici non sono in grado di compiere una scelta efficiente.
Comma 3
Non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge ovvero che siano riproduttive di disposizioni o attuative di
principi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell'Unione europea o l'Unione
europea.
Se certe clausole in un contratto sono aderenti a quel che dice la legge è difficile individuarne la vessatorietà. Può accadere infatti che
alcune clausole recepiscano un provvedimento delle autorità amministrative indipendenti (ad esempio, l’AGCM), che talvolta
hanno il potere di regolamentare alcune condizioni contrattuali. Nel caso in cui una parte contesti la vessatorietà di clausole che
semplicemente recepiscono un provvedimento di autorità amministrative indipendenti, è possibile difendersi appellandosi a tale
norma.
Comma 4
Non sono vessatorie le clausole o gli elementi di clausola che siano stati oggetto di trattativa individuale.
L’art. 1341 si basa sul presupposto che un soggetto predisponga il contratto e che l’altro aderisca, indipendentemente dal loro status
soggettivo di professionista/consumatore: il punto fondamentale è quindi la predisposizione unilaterale di clausole, non c’è una
trattativa. Il modello della disciplina delle clausole vessatorie del Codice del Consumo non si interessa di predisposizione o meno, ma
il punto centrale è che siano coinvolti un professionista e un consumatore, anche se con tale norma torna a rilevare il tema della
predisposizione: nella gran parte dei casi il contratto tra professionista e consumatore per essere regolato da tali norme è un contratto
predisposto. Se il consumatore riesce a instaurare una trattativa sulla singola clausola e riesce magari a modificare l’idea iniziale del
professionista allora è chiaro che viene meno la predisposizione. Quindi, anche in questo caso gioca un ruolo fondamentale l’assenza
di trattative: se quella singola clausola appartenente alla “lista grigia” è stata oggetto di trattativa, allora la presunzione di vessatorietà
viene meno.
Comma 5
Nel contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati
rapporti contrattuali, incombe sul professionista l'onere di provare che le clausole, o gli elementi di clausola, malgrado siano dal
medesimo unilateralmente predisposti, siano stati oggetto di specifica trattativa con il consumatore.
Il professionista può provare la trattativa persino in contratti che partono da moduli.
Sul piano dell’intendere come concretamente funziona il sistema di accertamento della vessatorietà delle clausole, l’art. 34 gioca un
ruolo fondamentale.
Art. 35 - Forma e interpretazione
Nel caso di contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per iscritto, tali clausole devono sempre
essere redatte in modo chiaro e comprensibile.
In caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l'interpretazione più favorevole al consumatore.
Questa disciplina la troviamo in tutta la parte introduttiva sugli obblighi di informazione, di pubblicità e di trasparenza del regolamento
contrattuale. Vi sono poi delle discipline protettive specifiche per particolari tipi contrattuali (disciplina del contratto degli intermediari
finanziari con gli investitori, disciplina dei contratti dei clienti con la banca, disciplina dei contratti di credito al consumo) o per
particolari contratti conclusi secondo particolari modalità (disciplina dei contratti conclusi a distanza o fuori dai locali commerciali).
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Art. 36 – Nullità di protezione
Insieme agli artt. 33 e 34 è il cardine del sistema di protezione del consumatore rispetto alle clausole vessatorie. La grande novità della
disciplina delle clausole abusive nei contratti tra professionista e consumatore rispetto alla disciplina generale del Codice Civile di cui
all’art. 1341, comma 2 è la tutela del soggetto che subisce la clausola vessatoria, il soggetto vessato. Nel Codice civile, il contraente
vessato non ha una grande tutela, perché se sottoscrive specificatamente la clausola, questa è efficace. Pertanto, tale sistema è
inadeguato.
Tale norma sostiene invece che le clausole considerate vessatorie sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto: da un lato
non si potranno opporre al consumatore le clausole vessatorie perché sono nulle; dall’altro, il contratto, nonostante la nullità della
singola clausola abusiva, continuerà ad essere produttivo di effetti e il consumatore potrà ottenere egualmente la prestazione di servizi.
Il consumatore potrà quindi continuare a beneficiare del servizio del professionista, ma neutralizza la clausola ritenuta abusiva (ad
esempio, una clausola che esclude il risarcimento del danno).
Il tema della nullità parziale, regolata dal Codice Civile all’art. 1419, è fondamentale per il diritto dei consumatori: la nullità parziale
di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero
concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità. Ciò significa che se ad essere nulla è una clausola che anche
solo per uno dei due contraenti era decisiva nella stipulazione del contratto, allora tutto il contratto è nullo. Quindi, solo le clausole
accessorie del contratto, non essenziali per quell’operazione negoziale voluta dalle parti, determinano la nullità parziale; altrimenti, se
viene meno una clausola che era importante per anche uno solo dei contraenti, allora tutto il contratto può essere nullo. Applicare tale
regola al contratto tra professionista e consumatore potrebbe determinare che effetto della nullità della singola clausola abusiva sia la
distruzione dell’intero contratto, perché il professionista può difendersi dicendo che la clausola vessatoria era per lui essenziale: la
nullità delle clausole vessatorie è sempre parziale, a protezione del consumatore. Si parla di nullità parziale necessaria.
In alcuni casi (molto limitati), senza quella clausola vessatoria il contratto non funziona più: ad esempio, è il caso di una clausola sul
corrispettivo. La vessatorietà non attiene al prezzo, salvo che non vi sia opacità a riguardo. In tal caso, la nullità potrebbe essere totale
e quindi il contratto potrebbe nullo.
La peculiarità di una nullità con finalità di protezione di una parte incide non solo sul fronte parziarietà o meno della nullità, ma anche
sul fronte della legittimazione a far valere la nullità. Se normalmente la legittimazione a far valere la nullità è in capo a chiunque ne
abbia interesse (art. 1421), in questo caso la legittimazione a far valere la nullità è in capo solamente al contraente protetto, il
consumatore. Viene tuttavia fatta salva la possibilità del rilievo d’ufficio: il giudice può di sua iniziativa, proprio per la finalità di
protezione del consumatore, dichiarare che quella determinata clausola è abusiva e che quindi non può esser fatta valere.
Clausole in punto di recessi e disdette
Un contratto può prevedere un diritto di recesso unilaterale a favore anche di uno dei contraenti secondo quanto previsto dall'art.
1373: se a una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto.
Nei contratti conclusi tra un professionista ed un consumatore le cose funzionano diversamente: ai sensi dell'articolo 33 si presume la
vessatorie età della clausola che attribuisca al solo professionista, e non anche al consumatore, il diritto di sciogliersi unilateralmente
dal vincolo contrattuale.
- La legge nel disciplinare un diritto di recesso in favore di un contraente, prevede anche le modalità del suo esercizio, considerando
anche il cosiddetto preavviso che il contraente recedente deve accordare alla controparte la quale ha necessità di tempo per
riorganizzarsi, un certo periodo di tempo per la prosecuzione del rapporto contrattuale.
A tale riguardo l'articolo 33 presume la vessatorie ta dei patti che consentano al professionista di recedere da un contratto a tempo
indeterminato senza assicurare alla controparte un adeguato preavviso, prima del decorso del quale il contratto continua a produrre
effetti.l'eventuale esercizio del recesso senza preavviso non produce allora effetto: tuttavia si discute se il professionista che intende
sciogliersi dal vincolo contrattuale debba emettere una nuova dichiarazione di recesso (contemplante un termine di preavviso)
ovvero se la prima dichiarazione produca comunque effetto sebbene solo decorso un termine ragionevole.
- Inoltre, l'articolo 33, I contratti di durata a tempo determinato soggetto e rinnovo automatico: in assenza di una disdetta anticipata
alla prosecuzione del rapporto per un ulteriore periodo contrattuale (di norma corrispondente a quello originario) da parte del
contraente consumatore. Al riguardo la previsione di legge in esame presume la vessatorie ta delle clausole imponga un termine per
manifestare la disdetta significativamente anticipato rispetto alla prima scadenza contrattuale.anticipare troppo significa anticipati di
conseguenza il termine entro il quale il consumatore deve decidere se proseguire o meno il rapporto contrattuale, rischiando di
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minare la sua libertà in quanto potrebbe non avere tutti gli elementi per valutare.
- Il medesimo articolo prevede inoltre la vessatorie ta di quelle clausole contrattuali che prevedono che il consumatore inadempiente
alle proprie obbligazioni sia tenuto ad una prestazione pecuniaria predeterminata, quindi a titolo di clausola penale, di importo
manifestamente eccessivo.in tal caso, alla nullità del patto consegue che il consumatore debitore non sia in alcun modo tenuto alla
prestazione pecuniaria predeterminata in via forfettaria nel contratto pure ad una somma ridotta in via giudiziale, come accadrebbe
nel caso di applicazione della riduzione equitativa della clausola penale eccessivamente onerosa prevista in via generale dall'articolo
1384. Il consumatore, sei inadempiente, sarà tenuto al risarcimento se le contro le regole ordinarie: il professionista dovrà fornire
prova del danno non potendosi avvalere del vantaggio probatorio della pattuizione di una penale, che consente di domandare il
pagamento della somma determinata senza dare prova del pregiudizio subito. La giurisprudenza quindi ritenuto nulla, perché
vessatorio, la clausola che imponeva ad esempio al consumatore acquirente di un autoveicolo, reso sì tuttavia inadempiente ai propri
obblighi di corrispondere il prezzo, il pagamento a titolo di penale di una somma pari al 15% del valore del bene venduto. Il
professionista venditore ha quindi dovuto dare prova dell'effettivo danno conseguente a ritardato pagamento.
3.1. NULLITÀ PARZIALE
Finora è stato affrontato il tema della nullità dando per scontato che il contratto fosse nullo nella sua interezza: abbiamo visto l’ipotesi
di un contratto nullo per vizio di forma, perché viene ad esempio venduto un appartamento attraverso un contratto verbale (nullità
strutturale) oppure di un contratto nullo per illiceità dell’oggetto in cui, ad esempio, si compravende una sostanza stupefacente. In
questi casi il contratto è completamente nullo, non è quindi in grado di produrre alcun effetto.
In altri casi, potrebbe darsi che la nullità colpisca il contratto solo in parte: il contratto si conserva nella parte che non è nulla oppure
cade nella sua interezza?
Esempio
Si ha il caso di un imprenditore che si accorda con un altro, che ha acquistato una delle sue aziende, perché non gli faccia concorrenza.
Stipulano quindi un patto di non concorrenza, un contratto che di per sé è valido ed è disciplinato nel Codice Civile dall’art. 2596, a
norma del quale il patto che limita la concorrenza è valido se circoscritto a una determinata zona o a una determinata attività. Ciò
significa che un patto di non concorrenza potrebbe essere valido solo in parte, ossia nella parte in cui risulta circoscritto a una
determinata area geografica o a una determinata attività. Di fronte a un contratto di questo tipo, nel quale un imprenditore si è
accordato con un altro per non farsi concorrenza in una zona eccessivamente ampia o rispetto ad attività varie e numerose, ci si deve
domandare, data la nullità di questo patto nella misura in cui eccede la parte geografica e le attività consentite, se esso si mantiene in
parte oppure cade nella sua interezza.
Disciplina generale
Nell’ordinamento italiano, tale questione è risolta dall’art. 1419, comma 1 il quale stabilisce che:
la nullità parziale importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte
del suo contenuto che è colpita dalla nullità.
Da tale norma si evince che la regola è nel senso della conservazione del contratto parzialmente nullo e che solo eccezionalmente si
avrà la caducazione del contratto, ossia la nullità totale. Tale nullità totale, in deroga alla regola generale, non sarà rilevabile d’ufficio:
la regola della rilevabilità d’ufficio, che vale in generale per la nullità, è legata al fatto che alla nullità sono sottesi interessi generali. In
questo caso, la possibilità per la parte di ottenere la nullità totale è legata alla protezione dei suoi propri interessi, è infatti un rimedio
che viene affidato alla parte che non avrebbe stipulato il contratto senza la parte nulla e quindi può difendersi chiedendo, piuttosto che
la conservazione parziale, la nullità totale del contratto e quindi di non rimanere vincolato a nessuno degli effetti del contratto.
A differenza della nullità totale che in quanto forma di invalidità più grave colpire il contratto è rilevabile d'ufficio dal giudice anche
qualora le parti del processo non mettono in discussione la validità del contratto oggetto e la loro lite, la nullità parziale non è
rilevabile d'ufficio. Una deroga alla regola generale si giustifica poiché in questo caso l'interesse protetto non è quello individuale
quindi evitare con contratto radicalmente nullo produca qualche effetto ma quello di tutelare la parte interessata a non rimanere legata
a un contratto che non avrebbe stipulato senza la parte nulla.
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Perché è stata definita la conservazione parziale del contratto come regola, se la prima affermazione della norma è che “la nullità
parziale importa la nullità dell’intero contratto”? Leggendo la norma attentamente si evince che l’esito caducatorio, cioè che il
contratto sia interamente nullo, è un’eccezione: la caducazione del contratto è condizionata al fatto che la parte interessata a
svincolarsi completamente dal contratto dimostri che non avrebbe stipulato il contratto senza la parte invalida. Dato che per ottenere la
nullità totale serve un fatto positivo (una concreta dimostrazione), la nullità totale del contratto è un’eccezione e invece la regola è
quella della conservazione. Quindi, nell’esempio fatto, l’esito normale è quello della conservazione del patto di non concorrenza con
riferimento però a un’area geografica minore o a un settore merceologico più ridotto di quello che le parti avevano stabilito, è invece
eccezionale l’esito caducatorio, ossia che il patto cada completamente e che non vincoli le parti a nessun effetto giuridico. Questo
accade condizionatamente al fatto che, ad esempio, la parte obbligata a non fare concorrenza dimostri che non avrebbe stipulato il
contratto con un’area geografica o un settore merceologico più ridotti.
L’esito conservativo, che è la norma nell’ambito di questa disposizione, è l’esito più anormale rispetto alla volontà manifestata dalle
parti al momento della stipula del contratto: il contratto si conserva con effetti diversi da quelli voluti, continua quindi ad obbligare le
parti ma con un assetto di interessi modificato rispetto a quello originario. Viceversa, l’esito caducatorio, che è eccezionale e rimesso
alla dimostrazione concreta, è più rispettoso della volontà contrattuale delle parti: è più naturale voler essere completamente svincolati
da un contratto che avrebbe prodotto altrimenti degli effetti diversi da quelli voluti, piuttosto che rimanere vincolati ad esso.
Tornando all’esempio del patto di non concorrenza parzialmente nullo, possiamo immaginare che sorga un conflitto di interessi tra le
due parti: colui che è obbligato a non fare concorrenza potrebbe essere infatti maggiormente interessato a svincolarsi da ogni obbligo,
quindi a preferire l’esito caducatorio (nullità totale), mentre l’altra parte potrebbe essere invece interessata alla conservazione del
contratto (nullità parziale). Dipende dal meccanismo dell’art. 1419, che si presta ad essere letto in due chiavi:
a)
Lettura soggettiva: è la tesi più antica. Tale teoria si basa sulla volontà contrattuale: oggetto della valutazione del giudice è la
volontà contrattuale originaria che le parti hanno manifestato al momento della stipula del contratto, e non quella che le parti
hanno quando sorge il conflitto d’interessi rispetto al contratto che scoprono essere in parte nullo (se così fosse, il contratto
sarebbe sempre nullo perché se sorge un conflitto d’interessi tra le parti significa che almeno una è interessata alla nullità totale,
asserendo che non avrebbe stipulato il contratto senza la parte nulla). La tesi soggettiva si suddivide, a sua volta, in due altri
orientamenti:
-
Oggetto della valutazione è la volontà reale, ossia la volontà effettivamente espressa dalle parti al momento della stipula. Il
rischio di ragionare in questi termini è di optare sempre per la nullità totale: se le parti hanno inserito una certa clausola nel
contratto è perché l’hanno effettivamente voluta, altrimenti non l’avrebbero inserita. Ragionando in termini di volontà reale, si
rischia di capovolgere la logica conservativa della regola generale della nullità parziale e quindi di abrogare la norma di cui
all’art. 1419. Per queste ragioni, la lettura soggettiva in termini di volontà reale della norma è stata ormai superata.
-
Oggetto della valutazione è la volontà ipotetica, che sembra rispondere in modo più fedele all’art. 1419. La norma
effettivamente si esprime in termini ipotetici ma come è possibile accertare una volontà soltanto ipotetica? Si dovrebbe
convenire che oggetto della valutazione non è la volontà ipotetica che in quanto tale è inaccertabile, ma questa dev’essere
ricostruita attraverso altri elementi che conducano lontano al campo della volontà.
b) Lettura oggettiva: (prevalente) premesso che la volontà reale non è effettivamente accertabile, nel senso che l’unico dato reale è
che le parti hanno inserito una clausola nel contratto, e che la volontà ipotetica non è oggetto di accertamento in modo diretto,
occorre quindi utilizzare una lettura che utilizzi elementi oggettivi. Il giudice deve domandarsi se il contratto parzialmente nullo
può ancora funzionare rispetto allo scopo pratico originario che le parti perseguivano attraverso la stipula del contratto: se il
contratto può ancora funzionare e quindi garantire lo scopo pratico perseguito originariamente dalle parti, allora il contratto si
deve conservare in parte; in caso contrario, il contratto deve cadere nella sua interezza. Quindi, oggetto del giudizio della regola
sulla nullità parziale è il perdurante funzionamento del contratto confrontando da un lato il programma che le parti si erano
prefissate all’inizio, reso in parte irrealizzabile per l’intervento della nullità, e gli originari interessi dei contraenti. A seconda
dell’esito di questo confronto, si avrà la conservazione oppure la nullità totale del contratto. Questo conduce a spostare
l’attenzione dagli elementi soggettivi, legati alla volontà, agli elementi oggettivi. In particolare, si avrà l’esito della nullità totale e
quindi della non conservazione del contratto, se la parte del contratto che è colpita da nullità risulta essere essenziale:
i)
In astratto: verificare quanto il contratto, al netto della parte colpita da nullità, possa tenere dal punto di vista strutturale e
quindi conservi i propri elementi essenziali. Se, ad esempio, la nullità parziale, colpisce l’oggetto o la causa del contratto,
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il contratto sarà totalmente nullo e mancheranno proprio i presupposti per poter discutere di nullità parziale. Non si potrà
neanche ragionare quindi in termini di essenzialità in concreto.
ii)
In concreto: il giudice dovrà analizzare se nell’economia di quella concreta operazione o assetto di interessi sotteso al
contratto stipulato, la clausola colpita da nullità e che quindi non può più spiegare i suoi effetti, era in concreto essenziale.
Sostituzione automatica di clausole
La previa indagine sulla tenuta strutturale del contratto volta a valutare che la nullità parziale non colpisca elementi essenziali del
contratto, non è necessaria se opera il meccanismo di cui all’art. 1419, comma 2:
la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme
imperative.
È una nullità parziale che non opera per sottrazione (una parte del contratto viene rimossa), ma per sostituzione: alcune clausole
vengono aggiunte al contratto e si sostituiscono prevalendo sulle clausole che le parti avevano stabilito. La regola è quindi quella della
conservazione della nullità parziale, è una regola assoluta che non lascia spazio ad alcuna dimostrazione per condurre all’esito della
nullità totale.
Esempio, patto di non concorrenza.
Per quanto riguarda l’ampiezza geografica e merceologica del patto di non concorrenza, opera la regola generale della nullità parziale
e bisognerà nel concreto andare a considerare l’essenzialità o meno dell’ampiezza della parte nulla per verificare se il contratto può
salvarsi rispetto a un ambito di non concorrenza più ridotto oppure se è destinato a cadere nella sua interezza. L’art. 2596 prende in
considerazione l’arco temporale: al comma 1 afferma che il patto che limita la concorrenza non può eccedere la durata di cinque anni,
mentre al comma 2 precisa che se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è
valido per la durata di un quinquennio. Qui la norma è perentoria e assoluta: il patto di non concorrenza che eccede la durata
temporale consentita è valido, ma si riconduce alla soglia legale (cinque anni). Si tratta di una regola che applica il meccanismo
dell’art. 1419, comma 2 e che consente la sostituzione automatica di clausole (in questo caso, la clausola riguardante la durata
temporale del patto). Tale regola si applica in modo incondizionato: non è data la possibilità alla parte di dimostrare che non avrebbe
stipulato il contratto se avesse saputo che era ridotto a un tempo inferiore a quello pattuito. Nel caso di specie, potrebbe darsi che la
parte obbligata a non fare concorrenza e interessata ad essere svincolata da qualunque effetto voglia dimostrare che non avrebbe
stipulato il contratto per un ambito più ridotto ma, nonostante questa opposizione, il contratto si conserverà con una riduzione del
tempo della non concorrenza a quello legale.
L’art. 1419, comma 2 si concentra soprattutto sugli effetti della sostituzione, cioè sul fatto che la nullità totale è esclusa. Si parla infatti
di sostituzione di diritto attraverso norme imperative. Anche l’art. 1339 (Inserzione automatica di clausole) interviene nello stesso
ambito e precisa quali sono i presupposti. Ai sensi di questa norma, le clausole e i prezzi di beni o di servizi imposti dalla legge sono di
diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti. Quindi, oggetto di sostituzione possono
essere le clausole (ad esempio quelle riguardanti la durata del patto di non concorrenza o la durata delle locazioni), ma anche i prezzi
di beni o di servizi. In particolare, ci sono dei settori in cui lo Stato non lascia al libero mercato l’individuazione di un certo prezzo
attraverso il meccanismo della domanda e dell’offerta, perché sussiste un interesse generale a che il prezzo sia ad un certo livello. È il
caso, ad esempio, di settori riguardanti beni di prima necessità (pane, latte, farmaci): per garantire l’accesso a tutti si stabilisce un
prezzo massimo, che non può essere superato e che si sostituisce in caso di pattuizione difforme. Questo regime, detto dei prezzi
imposti o amministrati, che opera in ambito privatistico nei contratti attraverso il meccanismo dell’inserzione automatica di clausole, è
sempre meno adoperato anche sull’influsso dell’UE. Infatti, in molti settori si è passati al regime dei prezzi sorvegliati: è il caso del
settore farmaceutico, dove vengono comminate sanzioni se ci si discosta dal prezzo medio europeo, ma non c’è più l’automatismo e la
sostituzione che erano propri dell’art. 1339. In altri settori, come quelli dei beni di prima necessità (pane, latte), ormai non si ha
nemmeno un regime di prezzi sorvegliati, ma si è passi ad un regime completamente liberalizzato. Per quanto riguarda i prezzi, per le
ragioni evidenziate, il meccanismo dell’art. 1339 è sempre più recessivo: un ambito nel quale tale norma perdura e continua ad avere
significato è quello che riguarda il prezzo massimo nella cessione di immobile in regime di edilizia popolare agevolata.
Quali sono i presupposti per cui tale norma possa operare?
1.
La prima regola che si evince dalla lettura di queste norme è che la sostituzione sia disposta dalle norme di legge, si parla della
cosiddetta riserva di legge relativa. Ciò significa che solo la legge può intervenire a disporre delle clausole o dei prezzi imposti,
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solo la legge infatti può prevalere su una diversa determinazione dell’autonomia privata. Tuttavia, tale riserva di legge è relativa:
impone che nella legge vi sia la fonte del potere. Quindi, ad esempio, se la legge non impone direttamente il prezzo o la clausola
da sostituire, può delegare e attribuire questo potere, stabilendo i presupposti minimi, ad alcuni soggetti o enti (è il caso
dell’Autorità Amministrativa Indipendente dell’Energia).
2.
Il secondo presupposto che si evince dalla lettura delle norme indicate è quello delle norme imperative. Ricordiamo che le norme
si dividono in: norme dispositive, suscettibili di essere derogate da una diversa volontà delle parti (ad esempio, l’art. 1183 in tema
di tempo dell’adempimento dispone che se non è determinato il tempo in cui la prestazione dev’essere eseguita, il creditore può
esigerla immediatamente) e norme imperative, si impongono e prevalgono sulla diversa determinazione dell’autonomia privata
della quale generano la nullità (è il caso della nullità del contratto per contrasto a norme imperative). L’effetto dell’operatività di
una norma imperativa è quello della nullità della pattuizione contrattuale difforme o, nel caso dell’art. 1339, la sostituzione o
cosiddetta integrazione cogente.
3.
L’ultimo requisito riguarda l’espressa determinazione della sostituzione. Ci si è posti il problema: la norma imperativa che
prevede una clausola imposta deve dire espressamente che essa è destinata a sostituirsi alla pattuizione privata difforme o no? La
lettura attualmente più accreditata è che non serve che la norma imperativa dica espressamente che ci sarà una sostituzione. Anzi,
il significato sistematico dell’art. 1339 è proprio quello di dare una regola che consenta alle clausole imposte previste da norme
imperative di sostituirsi automaticamente alle diverse pattuizioni dell’autonomia privata, anche in assenza di un’espressa
disposizione.
L’art. 1419
-
Comma 1: la regola generale comporta, in linea di massima, la conservazione del contratto ma può portare anche alla nullità
totale, condizionatamente al fatto che le parti non avrebbero contratto se avessero conosciuto la parte nulla. È questa una regola
rispettosa dell’autonomia privata, che salvaguarda l’interesse originario delle parti: propone come regola generale l’esito
conservativo, quello di per sé più anomalo rispetto all’intenzione originale delle parti (il contratto si conserva con degli effetti
diversi da quelli che erano stati pattuititi) tuttavia, questo esito conservativo viene bloccato se necessario al rispetto
dell’autonomia della volontà delle parti. Secondo la lettura soggettiva o oggettiva, le parti possono bloccare l’effetto della nullità
parziale se dimostrano l’importanza della clausola colpita da nullità e quindi che non avrebbero stipulato senza quella parte.
-
Comma 2: la nullità parziale opera per sostituzione e l’esito conservativo è automatico, anche se una parte potesse validamente
sostenere che non avrebbe contrattato se avesse conosciuto la parte nulla. Quindi, l’effetto conservativo si ha incondizionatamente
ed è questa una regola disposta a comprimere l’autonomia contrattuale. È una regola dettata nella logica della cosiddetta
eteronomia, che si impone e prevale sull’autonomia privata: si vuole tutelare non già l’autonomia come interesse e libertà
contrattuale delle parti, ma un interesse generale.
Riassumendo, l’art. 1419:
Il primo comma detta una regola generale che contempla un intervento per sottrazione: il contratto può rimanere valido senza una sua
parte? Dipende se la parte nulla non era essenziale in concreto nell’economia dell’operazione, il contratto sarà parzialmente invalido e
si conserverà per il resto; se invece la parte nulla era in concreto essenziale, il contratto è destinato a cadere nella sua interezza.
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Il secondo comma detta una disciplina che deroga alla regola generale del primo comma e opera quando sussistono i presupposti della
sostituzione. La nullità parziale deriva non già da una norma imperativa che sottrae, ma da una norma che aggiunge: la clausola voluta
dalla legge prevale, sostituendosi a quella voluta dalle parti secondo la logica della cosiddetta eteronomia. In questo caso, la
conservazione del contratto è incondizionata: non ci sarà mai una nullità totale, perché c’è un interesse generale sotteso alla previsione
delle clausole imposte. La sostituzione si impone non solo quando le parti senza la parte nulla non avrebbero contrattato (essenzialità
in concreto), ma anche quando il contratto senza la parte nulla non potrebbe restare valido (essenzialità in astratto): l’interesse generale
è così forte da garantire comunque la conservazione del contratto. Il primo comma, invece, è rispettoso dell’autonomia: se la nullità
parziale significa comportare uno squilibrio del contratto tale da danneggiare un contraente che altrimenti non avrebbe stipulato il
contratto, questo può difendersi domandando e ottenendo la nullità dell’interno contratto. Tale rimedio è dettato nel suo interesse
particolare, quindi non è rilevabile d’ufficio e né adoperabile dall’altro contraente.
3.2. NULLITÀ DI PROTEZIONE
La disciplina generale in tema di nullità parziale viene dettata dal Codice Civile, ma regole analoghe sono dettate e vigono negli altri
ordinamenti civilistici degli stati membri dell’UE. Che cosa succede se applichiamo la regola generale prevista dall'art. 1419 ad un
contratto stipulato tra un professionista e un consumatore? Si parla quindi di un contratto B2C che contiene delle clausole abusive. Ad
esempio, possiamo pensare ad un contratto tra un professionista e un consumatore che prevede un limite nella responsabilità del
professionista nel caso di danno al consumatore. Tale clausola è abusiva e quindi nulla: la regola generale prevede che la nullità
parziale importa la nullità dell’intero contratto, se i contraenti non avrebbero concluso senza la parte colpita da nullità.
Verosimilmente, una clausola di questo tenore riveste un ruolo notevole dal punto di vista del professionista: è infatti interesse del
professionista stipulare contratti standardizzati limitando i propri costi. Anche dal punto di vista oggettivo, la clausola sul limite di
responsabilità del professionista riveste un’importanza significativa. Nel caso di un contratto stipulato tra un consumatore e un
professionista che contiene clausole abusive, applicare la regola generale pone il rischio di comportare la nullità totale del contratto.
È necessario guardare la vicenda dal punto di vista del consumatore: qual è l’interesse del consumatore? È forte il rischio della
nullità se si applica la regola generale.
Ad esempio, possiamo immaginare il caso di un consumatore che abbia acquistato un elettrodomestico e che il contratto indichi anche
una limitazione di responsabilità nel caso in cui l’elettrodomestico esploda e cagioni un danno o addirittura la morte del consumatore.
L’effetto dell’applicazione della regola generale sarebbe quello della nullità totale, della totale inefficacia del contratto, come se non
fosse mai stato stipulato. Il consumatore che faccia valere la nullità della clausola abusiva potrebbe trovarsi di fronte a un contratto
nullo, con l’effetto di dover riconsegnare il bene ottenuto: essendo il contratto nullo, l’effetto traslativo della proprietà
dell’elettrodomestico non si è mai verificato. Il consumatore riceverà il prezzo che ha versato ma dovrà restituire il bene. Questo
risultato non è conforme all’interesse del consumatore di conservare l’affare (il bene) con un contratto depurato dalle clausole abusive.
Nella logica del consumatore protetto, il suo interesse sarà sempre quello di conservare e mantenere il contratto in vita al netto delle
clausole abusive.
La direttiva europea 93/13
L’applicazione della regola generale sulla nullità parziale vigente in Italia e in molti altri ordinamenti civilistici degli stati membri
dell’UE non è idonea a garantire l’interesse del consumatore: infatti, il professionista conserva sempre la possibilità verosimile di
dimostrare l’importanza della clausola nulla e quindi di svincolarsi interamente dal contratto. La direttiva europea 93/13 in tema di
contratti contenenti clausole abusive stipulati dal consumatore pone una regola precisa per tutelarlo.
L’art. 6, comma 1 afferma che:
Gli Stati membri prevedono che le le clausole abusive contenute in un contratto stipulato tra un consumatore e un professionista
non vincolano il consumatore e il contratto resta vincolante per le parti secondo i medesimi termini.
La direttiva è uno strumento normativo attraverso cui l'Unione Europea impone agli Stati membri di raggiungere determinati risultati,
non vincolando i cittadini nazionali a individuare i meccanismi tecnici più adatti a perseguire quei risultati attraverso la legislazione
interna.tramite le direttive l'ordinamento comunitario produce così l'effetto di armonizzare i diritti nazionali, più che la loro
un'informazione. Il linguaggio di tale norma non è tecnico e lascia spazio agli stati membri di recepire secondo le regole del proprio
diritto interno quella che è l’obbligazione di scopo prevista a livello europeo: gli stati sono quindi liberi di scegliere quali siano le
tecniche attuative più consone e coerenti con il loro ordinamento. Attraverso le direttive, il diritto europeo non ottiene il risultato
dell’uniformazione del diritto (che può ottenere con i regolamenti immediatamente efficaci), ma l’armonizzazione dello stesso.
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Questo discorso si riflette nel tenore letterale dell’art. 6, comma 1 della direttiva europea, il quale afferma che le clausole abusive non
vincolano il consumatore alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali. È evidente l’intento unitario di lasciare spazio e
discrezionalità agli stati membri di attuare, con i propri strumenti di diritto interno, quello che è l’obbligo di risultato previsto a livello
europeo.
L'obiettivo della direttiva 93/13 è quello della tutela, ovvero di eliminare le clausole abusive conservando il contratto per il resto,
senza individuare una sanzione civilistica, che compete invece a ciascun ordinamento nazionale individuare il sintonia con la propria
tradizione giuridica.
Occorre quindi domandarsi quali sono gli strumenti e le modalità con le quali l’ordinamento italiano ha attuato e recepito la regola
comunitaria.
1. Inefficacia.
Tre anni dopo l’emanazione della direttiva 93/13, nel 1996 l’ordinamento italiano ha recepito all’interno del Codice Civile e
precisamente all’art. 1469-quinques, la regola per cui:
le clausole considerate vessatorie sono inefficaci mentre il contratto rimane efficace per il resto
In un primo momento, la scelta effettuata dall’ordinamento italiano è quella di utilizzare per attuare l’obbligazione di scopo
comunitaria lo strumento dell’inefficacia. Attraverso l’inefficacia si aggira il riferimento alla nullità e così l’applicazione
dell’art.1419, comma 1. La logica dell’intervento italiano attuativo della direttiva 93/13 è quindi quello di non nominare la nullità,
per non innescare l’applicazione della regola generale sulla nullità parziale, che è inadeguata agli scopi di protezione.
2. Nullità parziale necessaria.
In un secondo momento, il legislatore italiano nell’attuare la direttiva 93/13 si trova a modificare l’originaria determinazione. Con il
Codice del Consumo, adottato nel 2005, all’art. 36, comma 1 si prevede che le clausole vessatorie sono nulle.
le clausole vessatorie sono nulle
Non si parla più di inefficacia, ma di un’inefficacia che indirettamente deriva dall’applicazione della nullità. Questo modello viene
considerato sistematicamente più coerente: la clausola abusiva viene vietata da una norma imperativa. Nel nostro ordinamento il
contrasto tra una norma imperativa e una clausola difforme è idoneo a generare la nullità della clausola stessa. La qualificazione in
termini di nullità, e non di inefficacia in senso stretto (non derivante dall’invalidità), è sistematicamente più coerente ma pone un
problema: chiamare in causa la nullità di singole clausole implica l’applicazione della regola generale sulla nullità parziale dell’art.
1419, comma 1.
Per scongiurare un simile esito, l'art. 36 precisa che le clausole considerate vessatorie sono nulle, mentre il contratto rimane efficace
per il resto, il che equivale escludere in radice l'applicazione della disciplina codicistica della nullità parziale.
Ciò significa mettere fuori gioco espressamente, non più aggirare, la regola generale della nullità parziale. In questo caso, si parla
infatti di nullità parziale necessaria: è una nullità automatica e non è condizionata da alcun presupposto.
Deroghe alla disciplina generale
L'art. 36 cod. cons. Prevede dunque una nullità di protezione: una specie di nullità ed è via dalla logica della disciplina generale
dell'invalidità parziale, ispirata dall'esigenza di tutelare l'autonomia di ciascuno dei contraenti su un piano di parità.una nullità,
necessariamente parziale, il cui scopo è proteggere gli interessi del contraente consumatore a conservare il contratto senza la clausola
abusivo, a prescindere dalle ricadute eventualmente pregiudizievoli per la controparte professionista.
Il risultato è quindi un intervento correttivo sul contratto, affidato a meccanismi diversi dal modello classico di integrazione cogente in
base al quale la clausola invalidata viene sostituita da condizioni o prezzi imposti dalla legge. Il contratto è poi sempre destinato a
rimanere in vita con un regolamento diverso da quello delineato dei contraenti ma in virtù della nullità parziale necessaria, che assicura
un adattamento del regolamento contrattuale voluto dalle parti attraverso la caducazione della clausola con conservazione per il resto.
Non è tuttavia solo in punto di estensione della nullità della clausola arresto del contratto che la disciplina speciale della nullità di
protezione distingue da quella comune. Questa è caratterizzata dalla legittimazione allargata assoluta, potendo essere fatta valere da
chiunque vi ha interesse e dalla rilevabilità d'ufficio da parte del giudice quando anche gli interessati non lo facciano valere e infine B
imprescrittibili ta della sanzione e dalla insanabilità, ossia dalla inammissibilità della convalida.
Al contrario invece l'articolo 36 dispone le seguenti tecniche:
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1) Legittimazione:
l'art. 36 3° co. completa l'opera tesa a rimodellare per finalità di protezione alla disciplina ordinaria della nullità stabilendo altresì
che la nullità della clausola abusiva opera soltanto a vantaggio del consumatore. La norma viene letta come indicata circoscrivere
la legittimazione a far valere la nullità, in deroga a quanto previsto all'articolo 1421, al solo consumatore ed escludere
correlativamente il professionista;
2) Rilevabilità d’ufficio:
l’art. 36, comma 3 del Codice del Consumo precisa che tale nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Quella della
rilevabilità d’ufficio, ricalca quindi la disciplina generale dettata dall’art. 1421 del Codice Civile.
Come possono convivere la legittimazione relativa (tipica dell'annullabilità), che è propria di rimedi posti a tutela di una parte (in
questo caso il consumatore) e il profilo della rilevabilità ufficiosa da parte del giudice, che invece è tipico di un rimedio posto a
tutela di interessi generali (della nullità)?
La risposta sta nella natura ibrida della nullità di protezione: da un lato protegge il consumatore, cioè l’interesse particolare della
parte protetta e dall’altro è idonea ad assicurare la tutela del funzionamento del mercato, ossia l’interesse generale sotteso a questa
finalità. Ma anche l’annullabilità, posta a tutela dell’integrità del consenso di un contraente, tutela degli interessi generali,
garantendo il funzionamento e la libertà della contrattazione; nell’ambito delle nullità protettive, l’interesse a tutelare il mercato è
forte ed è maggiormente rilevante. A differenza dell’annullabilità, non si tratta di tutelare casi sporadici nei quali il consenso non è
completamente libero perché ci sono dei vizi particolari, ma si tratta di vizi diffusi che riguardano intere categorie di contraenti,
come nel caso dei consumatori che contrattano con professionisti. Infatti, il rapporto tra queste due categorie di contraenti
(consumatori e professionisti) è afflitto dalle cosiddette asimmetrie informative: l’interesse sotteso alla nullità protettiva del
consumatore è più marcatamente un interesse generale, rispetto a quello che opera nel caso di annullabilità del contratto.
Nella disciplina della nullità di protezione convivono i profili della legittimazione relativa e della rilevabilità d’ufficio da parte del
giudice. Questo potrebbe apparire contradditorio: da un lato, il consumatore può scegliere di non avvalersi della nullità perché è
impedito al professionista di domandarla e dall’altro, un soggetto che è terzo al consumatore ha il potere di far valere
eventualmente, contro gli interessi del consumatore, questo rimedio. Come si dirime l’apparente contraddizione tra un
consumatore che è libero solo nei confronti dell’altra parte di non avvalersi della nullità, ma che può subire questo rimedio nel
caso in cui sia il giudice e non l’altra parte? A tal proposito, alcuni giudici si sono rivolti alla Corte di Giustizia Europea di
Lussemburgo chiedendo delucidazioni sulla direttiva. In particolare, dei giudici ungheresi si sono avvalsi del potere di invocare la
Corte di Giustizia dell’UE per chiedere di pronunciarsi in modo vincolante su come va interpretato l’art. 6 della direttiva 93/13.
Tale norma non parla di rilevabilità ufficiosa che è una regola posta in attuazione di quell’articolo dal Codice del Consumo
italiano. Tuttavia, ai sensi di quella norma, ci si deve domandare come eventualmente debba operare la rilevabilità ufficiosa. La
Corte si è espressa con il caso Pannon del 2009 e ha stabilito: il giudice nazionale deve esaminare d’ufficio la natura abusiva di
una clausola contrattuale, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine. Se esso
considera abusiva una siffatta clausola non la applica, tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga. Emerge quindi una
rilevabilità d’ufficio che viene adattata alle regole e alle specificità della normativa di protezione del consumatore. La convivenza
tra un interesse generale e un interesse particolare si riflette non solo nella giusta apposizione della legittimazione relativa e della
rilevabilità ufficiosa, ma anche all’interno della stessa modulazione della regola della rilevabilità ufficiosa da parte del giudice.
Quindi, a differenza dell’annullabilità, la nullità parziale necessaria può essere rilevata d’ufficio dal giudice, il quale ha il potere e
il dovere di indicare al consumatore la possibilità di far valere a suo favore una regola che eliminerebbe le clausole abusive dal
contratto che egli ha stipulato con il professionista (per compensare le asimmetrie informative). Inoltre, una volta che il
consumatore è stato informato dell’esistenza di tale rimedio a suo favore e quindi quando le asimmetrie sono state a valle colmate,
il consumatore conserva il potere di non avvalersi di tale rimedio. Si tratta quindi di una rilevabilità ufficiosa che opera a
vantaggio del consumatore;
3) Sanabilità:
Quindi, il consumatore informato dell’abusività di una certa clausola che ha stipulato nel contratto con il professionista può
consapevolmente scegliere di non avvalersi di quel rimedio. Questo significa che il consumatore ha sanato la nullità protettiva, ha
quindi convalidato, come avviene nel caso di contratto annullabile, il vizio. Se questo fosse vero saremmo di fronte a una deroga
all’art. 1423, ovvero la regola generale in tema di nullità per la quale la convalida è inammissibile, a meno che la legge non
disponga diversamente. A tale proposito, la direttiva 93/13 e il Codice del Consumo attuativo della stessa, non stabiliscono nulla:
occorre quindi domandarsi, dal punto di vista interpretativo, se viene o meno introdotta una deroga alla regola generale. Secondo
una parte della dottrina la regola viene derogata: il consumatore, nel momento in cui può non avvalersi della nullità e rifiutare gli
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effetti della rilevabilità d’ufficio, potrebbe anche sanare il contratto. Anzi, il fatto che il consumatore si rifiuti di avvalersi
consapevolmente del rimedio della nullità di protezione sanerebbe il vizio, che non potrebbe più esser fatto valere
successivamente. La maggioranza della dottrina ritiene invece che non c’è alcuna deroga alla regola generale dettata in tema di
nullità: opporsi al rilievo d’ufficio non equivale a una convalida. Infatti, il consumatore, conserva il potere di far valere in un
giudizio successivo e illimitatamente il vizio. Questa regola dovrebbe essere quella che si ricava interpretativamente ed è la più
corretta, perché garantirebbe in modo più efficace la protezione del consumatore: infatti, la possibilità perdurante del consumatore
di far valere la nullità anche successivamente avrebbe un effetto dissuasivo nei confronti del professionista;
4) Imprescrittibilità.
Da questo punto di vista, la disciplina della nullità protettiva non si discosta dalla regola generale e ricalca quindi, in assenza di
deroghe espresse o anche tacite, la regola generale dell’imprescrittibilità dell’azione.
Differenti tecniche di protezione contro le asimmetrie informative
Quindi, la nullità di protezione deroga al regime generale ogniqualvolta è necessario per tutelare gli interessi del consumatore. Ci sono
però altre tecniche attraverso le quali l’ordinamento persegue l’obiettivo di mitigare le asimmetrie informative che affliggono i rapporti
tra consumatore e professionista. In particolare, se da un lato commina la nullità delle clausole abusive con salvezza del contratto per
il resto, attraverso la nullità protettiva parziale necessaria e quindi genera un riequilibrio a valle di quello che è l’esito della
contrattazione; dall’altro, l’ordinamento va ad incidere non solo sul risultato della negoziazione, ma in modo indiretto agisce sulla
formazione del consenso. Di fronte alle asimmetrie informative, l’ordinamento impone degli obblighi informativi a carico del
professionista. Un esempio è quello dell’intermediazione finanziaria, dove si protegge la figura dell’investitore (risparmiatore,
consumatore): anche qui si tratta di una disciplina protettiva di una categoria rispetto ad un’altra afflitta da asimmetrie informative.
Il bagaglio conoscitivo oggetto dell’obbligo informativo deve spesso refluire in un contratto che ha la forma scritta ad substantiam (a
pena di nullità), dando vita al fenomeno del neoformalismo contrattuale, cioè del moltiplicarsi di forme nuove di nullità che non sono
dettate nell’interesse generale per garantire la conoscibilità da parte dei contraenti che stanno stipulando un contratto, ma per
proteggere solo una parte, quella che ha meno conoscenze rispetto all’altra e che quindi deve poter vedere per iscritto una serie di
informazioni. Se una copia del contratto non viene inviata alla parte protetta, il contratto è nullo. Un’ulteriore tecnica con la quale
l’ordinamento interviene per rendere più informato e consapevole il contraente è quella dei recessi di pentimento. Quando la
contrattazione avviene in certe ipotesi particolari (fuori dai locali a commerciali, a distanza), consentono al consumatore di svincolarsi
dal contratto anche dopo averlo stipulato. Questo per riequilibrare nella formazione del contratto le asimmetrie informative che
affliggono le parti. In questi casi, l’esito sul contratto è quello della nullità totale del contratto, che non vincolerà né il consumatore né
il professionista. È questo un esito più leggero sull’autonomia privata. Invece, nel caso di nullità parziale necessaria, il contratto si
conserva con un assetto diverso da quello previsto e quindi si ha un esito più aggressivo per l’autonomia privata. Sono queste le due
tecniche che il legislatore comunitario adotta per riequilibrare le asimmetrie informative: una tecnica più leggera nel caso in cui voglia
intervenire sulla formazione del consenso e indirettamente sull’esito della contrattazione, il che avviene tutte le volte che il legislatore
ritiene di poter incidere in modo significativo sull’esito del contratto; e, in casi estremi, la nullità parziale necessaria, quando il
legislatore non ha fiducia nella possibilità di poter riequilibrare le asimmetrie informative durante la formazione del consenso e quindi
va incidere sull’esito delle contrattazioni in modo diretto.
Protezione e sostituzione
La nullità parziale necessaria è quindi un rimedio fortemente limitativo dell’autonomia privata. Da questo punto di vista, è forte
l’assonanza con la sostituzione automatica di clausole, ossia il meccanismo previsto dall’art. 1419, comma 2 e dall’art. 1439. In
entrambi i casi, c’è infatti una deroga alla regola di cui all’art. 1419, comma 1: la conservazione del contratto, al netto delle clausole
abusive o comunque reputate nulle, è automatica e non c’è quindi la possibilità per le parti di far valere la nullità totale del contratto.
L’assetto diverso da quello stabilito in origine si impone a entrambi contraenti.
Andiamo ad indicare le differenze tra la figura della nullità di protezione necessaria e quella più classica e tradizionale
dell’inserzione automatica di clausole.
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Dal punto di vista materiale o descrittivo, nel primo caso si ha una nullità che opera per sottrazione, in cui una clausola viene
tolta dall’assetto di interessi pattuito. Nel caso di inserzione automatica di clausole, si opera per sostituzione: una clausola si
aggiunge e si sostituisce. In entrambi i casi, proprio perché la conservazione del contratto è automatica, si può parlare di
integrazione legale del contratto.
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Dal punto di vista dei presupposti, nell’integrazione parziale necessaria sono richiesti dei presupposti soggettivi. La nullità di
protezione sussiste e opera sempre nei rapporti tra un professionista e un consumatore. In questo rapporto soggettivo la nullità di
protezione ha una portata illimitata. Nel caso di sostituzione, essa opera sul piano generale a prescindere dalla caratterizzazione
soggettiva delle parti. Opera in generale se sussistono dei presupposti oggettivi, ossia la presenza di norme imperative che
impongono una clausola o un certo prezzo.
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Dal punto di vista degli scopi, la ratio che persegue la nullità protettiva è quella di rendere il mercato più efficiente andando a
rimuovere o limitare gli effetti delle cosiddette asimmetrie informative, che rappresentano un fallimento del mercato. Nel caso
della sostituzione automatica di clausole, la logica è ispirata ad un dirigismo economico e quindi all’intenzione di intervenire sul
mercato in moto autoritativo, e non di rimuovere gli ostacoli al buon funzionamento del mercato stesso.
Riassumendo:
La nullità protettiva è una nullità speciale, che deroga al regime generale della nullità codicistica. Le deroghe sono dovute ad un
mutamento della funzione della nullità: non quella di sanzionare l’oggettiva contrarietà di un certo assetto di interessi rispetto
all’ordinamento, ma quella di costituire un rimedio per la parte protetta. La nullità di protezione, dal punto di vista soggettivo, presta
attenzione al contraente (ad esempio, il consumatore nel suo rapporto con il professionista). Ciò non significa che la nullità protettiva
tuteli solo gli interessi di una parte, come è nel caso di annullabilità: infatti, la nullità protettiva tutela l’interesse particolare il
consumatore, ma anche l’interesse generale ad un mercato concorrenziale, nel quale viene limitata l’incidenza delle asimmetrie
informative che ne determinano il fallimento. Per queste ragioni, la nullità prevista dal Codice Civile è solo eventualmente parziale,
rispettando così l’autonomia di entrambe le parti che vengono poste e tutelate sullo stesso piano. La nullità di protezione invece è
necessariamente parziale per avvantaggiare una parte rispetto all’altra, tutelando il suo interesse a conservare l’affare depurato dalle
clausole abusive. A differenza della nullità tradizionale, la nullità di protezione può esser fatta valere solo dalla parte protetta e in
questo senso si ricalca la disciplina dell’annullabilità. A differenza di quest’ultima però, la nullità di protezione può essere rilevata
d’ufficio ma solo a vantaggio del consumatore che, reso consapevole dal giudice, può scegliere consapevolmente di non avvalersi della
nullità. Il fatto che il consumatore consapevolmente si opponga alla nullità non equivale, secondo la dottrina più condivisibile, a
convalidare e a sanare il vizio. Il consumatore conserverà, secondo le regole generali, il potere di far valere la nullità protettiva anche
successivamente secondo l’ordinario regime di imprescrittibilità.
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3.3. NULLITÀ’ DI PROTEZIONE: EFFETTI
La nullità di protezione lascia il contratto invariato per il resto. Occorre domandarsi che cosa significa rimuovere le clausole abusive
dal contratto stipulato tra il consumatore e il professionista, per capire a quali obblighi restano vincolate le parti e quindi qual è il
diritto applicabile in forza del contratto parzialmente nullo.
L’art. 6, comma 1 della direttiva 93/13 stabilisce che il contratto resta vincolante per le parti secondo i medesimi termini, tolte le
clausole abusive: tuttavia la direttiva si limita ad imporre un vincolo di scopo, ma non parla dello strumento tecnico da adottare; infatti
il contratto, al netto delle clausole abusive, deve rimanere per il resto vincolante tra le parti. Questa conseguenza non è così ovvia e in
taluni casi si pongono delicati problemi operativi.
Quando una clausola abusiva viene espunta dal contratto, si possono avere conseguenze diverse: la conseguenza non è unica,
automatica ed univoca. Le norme del diritto civile si dividono in:
• norme imperative, che non possono essere derogate da una diversa volontà privata e quindi la pattuizione difforme sarà nulla e
improduttiva di effetti;
• norme dispositive, che sono derogabili dalla volontà privata (i contraenti possono accordarsi per darsi una regola difforme dalla
regola di default che viene data dal legislatore).
Riespansione disciplina dispositiva
Le clausole abusive tra consumatore e professionista sono tali proprio perché derogano a regole normalmente dispositive (derogabili).
Quindi, in tutti i casi in cui le clausole sono abusive perché derogano a una disciplina normalmente dispositiva, si parla di riespansione
della disciplina dispositiva che è stata abusivamente derogata dal contratto tra consumatore e professionista.
Ad esempio, viene considerata abusiva la clausola che limita la responsabilità del professionista in caso di danno alla persona del
consumatore ovvero di sua morte e la clausola cosiddetta solve et repete, che impone di adempiere e di contestare l’illegittimità della
richiesta di inadempimento da parte del creditore in un secondo momento e quindi, nel caso, di restituire quanto è stato prestato (se
disposta a favore del professionista, è abusiva). Nel momento in cui viene espunta dal contratto la prima clausola, quella che limita la
responsabilità del professionista ovvero la seconda, solve et repete, la conseguenza è che si riespande la normale regola dispositiva.
Quindi, nell’ipotesi in cui la responsabilità del professionista sia stata limitata, egli dovrà comunque corrispondere, in caso di danno al
consumatore o di sua morte, il risarcimento secondo le normali regole. Allo stesso modo, nel caso di clausola solve et repete, se erano
state limitate le eccezioni che il consumatore poteva opporre al professionista e la clausola abusiva è nulla, si riespande la possibilità
normale di opporre le eccezioni.
Codice civile
Nelle clausole che escludono o limitano la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore,
ovvero che escludono o limitano le azioni di diritti del consumatore in caso di inadempimento del professionista, esistono già dei limiti
dettati in generale dal codice civile che sanziona ad esempio con la nullità il patto che limita o esclude la responsabilità del debitore
per dolo o colpa grave (art 1229), in ragione del fatto che il diritto del creditore si ridurrebbe a poca cosa se il debitore potesse non
risarcire il danno. Un secondo ordine di limiti generali riguarda la clausola solve et repete, per cui all’art. 1462 restano comunque
opponibili le eccezioni diverse da quella di invalidità: non si può impedire al debitore di rifiutare il proprio adempimento se il contratto
è nullo, annullabile o rescindibile. Queste sono norme imperative e quindi inderogabili, che pongono dei limiti invalicabili dalla
diversa volontà privata.
Codice del consumo
In relazione a un contratto concluso tra professionista e consumatore, il codice di consumo dette limiti più stringenti finalizzate a
tutelare il secondo più incisiva. Così, non si può in alcun modo circoscrivere la responsabilità del professionista in caso di danno alla
persona del consumatore nemmeno per colpa lieve, nella facoltà del consumatore di opporre eccezioni fondate su ragioni diverse dalla
invalidità del contratto. Le clausole che dovessero introdurre tali limiti sono ritenute abusive, perché determinerebbero un significativo
squilibrio di diritti e di obblighi a danno al consumatore. Una disciplina normalmente dispositivo (stando alle regole del codice civile)
diventa pertanto inderogabile in ambito B2C essendovi una norma imperativa che determina la nullità della clausola abusiva di rogante
la disciplina dispositivo.e la deroga abusiva, si espande allora elasticamente la disciplina derogata.
Per quanto riguarda la clausola di limitazione o esonero della responsabilità, essa non è ammessa (è abusiva e quindi nulla) anche se
riguarda la colpa lieve del professionista, quando da questa sia derivato un danno alla persona del consumatore o addirittura la sua
morte. Per ciò che concerne la clausola solve et repete, nell’ambito di un contratto stipulato tra professionista e consumatore,
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diventano inopponibili anche le eccezioni diverse dall’invalidità: il professionista non può limitare l’opponibilità di qualsiasi eccezione
da parte del consumatore. La disciplina che normalmente è dispositiva e quindi derogabile diventa, in forza di previsione della nullità
delle clausole abusive appartenenti a queste categorie, inderogabile dalla volontà del consumatore e del professionista. Qual è la
conseguenza dell’operare della nullità? La nullità priva la pattuizione di qualsiasi effetto, quindi rende priva di effetto la deroga alla
disciplina dispositiva. L’effetto naturale è quindi quello della riespansione, in maniera elastica, della disciplina dispositiva stessa: la
deroga è inefficace e rimane quindi la disciplina dispositiva. Il contratto valido per il resto, secondo la regola della nullità parziale
necessaria che deroga alla regola generale dell’art. 1419, comma 1 del Codice Civile.
Soluzioni alternative all'integrazione dispositivo: la claudicazione pura e la correzione giudiziale
Ci sono casi in cui la conseguenza dell’operatività della nullità parziale necessaria non è così ovvia, e in particolare occorre
domandarsi quale sia la disciplina dispositiva suscettibile di riespansione.
È il caso, ad esempio, della clausola sugli interessi nel mutuo (il mutuo è un contratto con il quale una parte, il mutuante, dà all’altra,
il mutuatario, una somma di denaro con la somma di corrispondere la stessa somma dopo un certo periodo di tempo).
L'ex art. 1815 c.c. "salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante". Sulla base di tale
norma dispositivo, il mutuo e di carattere oneroso.i due contraenti stipulano mutui indicando soltanto la somma è il momento della
restituzione si intende che essi non abbiano derogato la norma dispositivo: il mutuo sarà concesso a titolo oneroso e in particolare
dietro pagamento degli interessi legali.
• Il testo originario del 2° co. 1815 prevedeva che se sono contenuti interessi usurari la clausola è nulla e gli interessi sono dovuti solo
nella misura legale. La legge disponeva quindi l'effetto più naturale della nullità di protezione: se il limite consentito viene
travalicato Siri espande la disciplina dispositivo degli interessi legali (gli stessi che si applicherebbero sulle parti nulla avessero
precisato);
• A partire dal 1996, al fine di inasprire la lotta all'usura, una legge a modificato il testo stabilendo che qualora siano stati convenuti
interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi. In questo caso di usura il mutuo oneroso si trasforma quindi in
gratuito e chi ha prestato denaro a tassi usurari non avrà diritto chiedere nessun interesse al tasso legale.
L'ordinamento italiano detta quindi una disciplina specifica riguardante la determinazione degli interessi del mutuo usurario: una
disciplina che sanciva dapprima una cosa ovvia (la riconduzione del tasso convenzionale eccessivo a quello legale) e che in seguito
all'intervento e legislatore sancisce oggi una conseguenza meno scontata (mutuo gratuito). Cioè la pura caducazione della clausola
sugli interessi senza alcun integrazione.
Oltre all'integrazione dispositiva e alla caducazione ora e poi ipotizzabile una terza via: quella della correzione giudiziale degli
interessi del mutuo. Si tratta di una terza via perché in forza della correzione giudiziale la disciplina contrattuale degli interessi e poi
sempre sostituita da un'altra disciplina (no pura caducazione) senza che trovi tuttavia applicazione il regime legale degli interessi
(integrazione dispositiva), bensì una diversa misura fissata dal giudice: il minore del tasso soglia dell'usura è maggiore del tasso legale.
In quest'ultima direzione si è orientata la disciplina del mutuo in amento spagnolo.la scelta della correzione giudiziale e con tutta
evidenza meno radicale delle altre due e costituisce la scelta più rispettosa della volontà delle parti perché è diretta a conservare un
contratto del contenuto il più possibile vicino a quello voluto dalle stesse ma anche la scelta che comporta l'applicazione della regola
più vantaggiosa per chi concede finanziamenti a tassi usurari
Banco Espanol de credito
Un giudice spagnolo si era rivolta la corte di giustizia dell'Unione Europea affinché chiarisse una questione relativa all'interpretazione
della legge spagnola adottata in attuazione della direttiva 93/13.
La questione sollevata riguardava la compatibilità della regola della correzione giudiziale di tassi usurari gli interessi articolo sei della
direttiva, in forza del quale le clausole il contratto resta vincolante per le parti.
La risposta della Corte Europa si è basata sul testo dell’art. 6, comma 1, a detta del quale: le clausole abusive non vincolano il
consumatore e il contratto resta vincolante secondo i medesimi termini. Leggendo questa norma, in modo piuttosto formalistico, la
Corte di Giustizia dell’Unione Europea fornisce risposta negativa: una regola nazionale che consente l’applicazione degli interessi
giudiziali in luogo degli interessi usurari che erano stabiliti tra consumatore e professionista, non è compatibile con l’art. 6 della
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direttiva 93/13. La ragione principale che muove la scelta della Corte di Giustizia europea è quella per cui non è possibile intervenire
in modo manipolativo sul contratto: per rispettare maggiormente la volontà privata non è possibile al giudice modificare il livello di
interessi in modo discrezionale. Stabilendo però che non sono dovuti interessi, è evidente che la conseguenza è ben più aggressiva nei
confronti dell’autonomia privata: la scelta di trasformare il mutuo oneroso in mutuo gratuito è in realtà frutto di una scelta “politica”.
Occorre considerare le ragioni della scelta politica compiuta dalla Corte di Giustizia europea, nel caso Banco Espanol de credito.
Lo scopo perseguito dai giudici comunitari è quello di garantire un’effettiva tutela alle ragioni del consumatore. L’opzione
interpretativa perseguita dai giudici comunitari non si basa sull’effettività, ma su una precisa disposizione della direttiva 93/13 in tema
di clausole abusive nel contratto tra consumatore e professionista: in particolare, si basa sulla disposizione di cui all’art. 7, comma 1.
Ai sensi di tale articolo, gli Stati membri provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole
abusive. In base a questa disposizione, i giudici comunitari traggono la conseguenza della conversione del mutuo oneroso in mutuo
gratuito per facilitare la tutela e per rendere maggiormente gravoso nei confronti del professionista, e quindi della banca, l’inserzione
di clausole abusive nei confronti del consumatore. si tratta quindi di una finalità punitiva che certamente è anche preventiva, perché
dissuade la banca dall’inserzione di simili clausole. La conseguenza della caducazione pura, cioè della conversione del mutuo oneroso
in mutuo gratuito che limita la riespansione della disciplina dispositiva degli interessi legali, è una strada anomala ed eccentrica
rispetto a quella più ovvia della riespansione della disciplina dispositiva, e non è quindi facilmente desumibile da una semplice norma
che dispone la prevenzione e l’effettività della tutela del consumatore.
Non si può ragionare nel modo in cui fanno i giudici comunitari nel caso Banco Espanol de credito: essi infatti ragionano come se la
caducazione pura, cioè l’eliminazione della clausola sugli interessi senza che essi siano ricondotti al livello legale, sia la conseguenza
più ovvia e automatica, quasi che sia l’unica di quelle prospettate che non richiede un’opzione legislativa espressa. Tutte e tre le
possibili strade (riconduzione agli interessi legali, applicazione di interessi giudizialmente stabiliti e caducazione pura) sono forme di
integrazione del contratto, di compromissione delle originarie scelte della parti e anzi, se si vuole stabilire una gerarchia tra di esse,
quella più ovvia e naturale non è certo quella più aggressiva per l’autonomia privata, ma è quella della riespansione della disciplina
dispositiva e quindi della riconduzione al livello legale degli interessi.
DOMANDE MODULO 3
-
Quando si verifica la nullità parziale del contratto e quali problemi solleva?
-
Qual è la regola generale sulla nullità parziale e come va interpretata?
-
Quando opera, in deroga, la sostituzione automatica di clausole?
-
Perché la regola sulla nullità parziale è inadatta per scopi protettivi?
-
Quali deroghe introduce il legislatore europeo al regime della nullità?
-
Quali altre tecniche ha sviluppato il sistema per proteggere il consumatore?
-
In che senso la riespansione della disciplina dispositiva è l’effetto normale della nullità parziale necessaria? Fai qualche
esempio.
-
In quali ipotesi tale esito non risulta scontato? Quali sono le possibili alternative?
-
Illustra la pronuncia Banco Espanol de credito individuando possibili criticità.
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MODULO 4 - La contrattazione B2C
(seconda parte)
4.0. CONTRATTI STIPULATI A DISTANZA
Se la disciplina delle clausole abusive opera per tutti i contratti conclusi tra professionista e consumatore, prescinde dal tipo negoziale
il contratto, il codice del consumo detta ulteriori regole a tutela del contraente consumatore che invece sono imposte dalle speciali
modalità contrattuali con cui le parti arrivano alla conclusione dell'accordo. Si tratta quindi di discipline in apparenza più settoriali
massa e significative data la frequenza con cui i contratti dei consumatori tradizionali.
Particolarmente significativa è la disciplina:
• ART. 45 lett. h - Contratti a distanza e contratti conclusi fuori dai locali commerciali:
È considerato un contratto negoziato fuori dei locali commerciali quello:
-
Concluso alla presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore in un luogo diverso dai locali del professionista
(porta a porta);
-
Concluse nei locali del professionista ma solo dopo che il consumatore è stato avvicinato personalmente in questi locali;
-
Concluso durante un viaggio promozionale organizzato dal professionista per promuovere la vendita dei propri beni o servizi
(visita gratuita a una cantina vinicola salvo successivo acquisto).
• ART. 45 lett. g - gcontratto a distanza:
come qualsiasi contratto concluso tra il professionista e il consumatore nel quadro di un regime organizzato di vendita o di
prestazione di servizi a distanza senza la presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, mediante l'uso esclusivo
di uno o più mezzi di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso.
È il caso della vendita su catalogo: prima dell’avvento della società telematica e quindi del mondo di Internet, i contratti a distanza
erano stipulati con vendita su catalogo. A distanza, si poteva operare l’acquisto di uno dei prodotti selezionati sul catalogo. Ormai
tale tipologia di contratto è stata assorbita dall’e-commerce (contratti telematici).
Sono essenzialmente diversi i problemi dei due contratti:
• Nel primo caso il problema è legato al fatto che il consumatore non aveva in animo la volontà di concludere operazione negoziale
consumo.
• Nel secondo caso ho in animo la volontà di concludere l’operazione ma tuttavia non sono in grado e non ho immediata contezza
delle qualità, natura, consistenza del bene.
Rispetto a questi problemi il legislatore interviene a diverso livello:
INFORMAZIONI PRECONTRATTUALI: art. 49 cod. cons.- PRIMO LIVELLO DI TUTELA:
disciplina delle informazioni precontrattuali
L’art. 49 prevede una serie di obblighi di informazione nei contratti a distanza e nei contratti negoziati fuori dei locali commerciali
particolarmente stringenti, più stringenti di quelli previsti nei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore che non siano a
distanza e fuori dei locali commerciali. Quest’ultimi sono disciplinati dall’art. 48, invece ai sensi dell’art. 49 molti di più sono gli
obblighi informativi in capo al professionista e a favore del consumatore che la disciplina pone in essere. Gli obblighi informativi a
carico del professionista sono più stringenti perché nel caso di contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali l’asimmetria
informativa è più forte e quindi maggiori sono gli sforzi necessari per compensarla.
Alcune delle informazioni che il professionista fornisce al consumatore in maniera chiara e comprensibile sono:
• le caratteristiche principali dei beni o servizi, nella misura adeguata al supporto e ai beni o servizi;
• l'identità del professionista;
• l'indirizzo geografico dove il professionista è stabilito e il suo numero di telefono, di fax e l'indirizzo elettronico, ove disponibili, per
consentire al consumatore di contattare rapidamente il professionista e comunicare efficacemente con lui e, se applicabili, l'indirizzo
geografico e l'identità del professionista per conto del quale agisce;
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• il prezzo totale dei beni o dei servizi comprensivo delle imposte o, se la natura dei beni o servizi comporta l'impossibilità di calcolare
ragionevolmente il prezzo in anticipo, le modalità di calcolo del prezzo e, se del caso, tutte le spese aggiuntive di spedizione,
consegna o postali e ogni altro costo oppure, qualora tali spese non possano ragionevolmente essere calcolate in anticipo,
l'indicazione che tali spese potranno essere addebitate al consumatore.
• Le informazioni sui costi di trasporto devono essere il più trasparenti possibili: il consumatore per sapere se vi è convenienza a
concludere un contratto a distanza deve sapere chiaramente e in modo trasparente l’incidenza del costo di trasporto.
• il costo dell'utilizzo del mezzo di comunicazione a distanza per la conclusione del contratto quando tale costo è calcolato su una base
diversa dalla tariffa di base.
• le modalità di pagamento, consegna ed esecuzione, la data entro la quale il professionista si impegna a consegnare i beni o a prestare
i servizi e, se del caso, il trattamento dei reclami da parte del professionista;
• in caso di sussistenza di un diritto di recesso, le condizioni, i termini e le procedure per esercitare tale diritto;
Un primo livello di speciale tutela per il contratto del consumatore che sia altresì concluso a distanza o fuori dai locali commerciali lo
si ritrova all’art. 49 del Codice del Consumo dove si evidenzia che gli obblighi informativi in capo al professionista, che pur ci sono in
tutti i contratti dei consumatori, sono molto più accentuati quando il contratto del consumatore sia concluso a distanza ovvero fuori dai
locali commerciali.
Sanzioni
Si ipotizza che il professionista sia responsabile per l'inadempimento di obbligazioni fonte legale, con corrispondente delitto per il
consumatore di domandare il risarcimento dei danni e la risoluzione del contratto.
FORMA E CONTENUTO: art 50 e 51 cod. cons.- SECONDO LIVELLO DI TUTELA
Requisiti formali per i contratti conclusi fuori dai locali commerciali e contratti a distanza.
• Art 50: Per i contratti conclusi fuori dai locali commerciali il professionista fornisce al consumatore le informazioni di cui abbiamo
visto (art 49) e poi il contratto per l’appunto deve essere concluso in forma scritta, ulteriormente deve fornire una copia del contratto
firmato o la conferma del contratto su supporto cartaceo. Ci deve essere un contratto scritto, nel contratto ci debbono essere tutte le
informazioni determinate (non determinabile) che per l’appunto sono state rese al consumatore in fase precontrattuale e trasportate
nel contenuto del contratto. Il consumatore avrà così in mano un documento come prova con diritti- obblighi-identificazione del
bene, la tutela passa per questo ulteriore livello. Tutela orientata ai problemi di asimmetria informativa.
• Art. 51: stabilisce i requisiti formali che devono sussistere nei contratti a distanza e in particolare:
-
il professionista fornisce o mette a disposizione del consumatore le informazioni di cui all'articolo 49, comma 1, in modo
appropriato al mezzo di comunicazione a distanza impiegato in un linguaggio semplice e comprensibile. Nella misura in cui
dette informazioni sono presentate su un supporto durevole, esse devono essere leggibili.
Se un contratto a distanza che deve essere concluso con mezzi elettronici impone al consumatore l'obbligo di pagare, il
professionista gli comunica in modo chiaro ed evidente le informazioni di cui all'articolo 49, comma 1, lettere a), e), q) ed r),
direttamente prima che il consumatore inoltri l'ordine. Il professionista garantisce che, al momento di inoltrare l'ordine, il
consumatore riconosca espressamente che l'ordine implica l'obbligo di pagare.
-
I siti di commercio elettronico indicano in modo chiaro e leggibile, al più tardi all'inizio del processo di ordinazione, se si
applicano restrizioni relative alla consegna e quali mezzi di pagamento sono accettati.
-
Se il contratto è concluso mediante un mezzo di comunicazione a distanza che consente uno spazio o un tempo limitato per
visualizzare le informazioni, il professionista fornisce, su quel mezzo in particolare e prima della conclusione del contratto,
almeno le informazioni precontrattuali riguardanti le caratteristiche principali dei beni o servizi, l'identità del professionista, il
prezzo totale, il diritto di recesso, la durata del contratto. È il caso dell’acquisto di un biglietto aereo, in cui si ha un tempo
limitato per visualizzare le informazioni. Il professionista fornisce su quel mezzo e prima della conclusione del contratto
almeno le informazioni precontrattuali riguardanti le informazioni principali dei beni e dei servizi.
-
Quando un contratto a distanza deve essere concluso per telefono, il professionista deve confermare l'offerta al consumatore, il
quale è vincolato solo dopo aver firmato l'offerta o dopo averla accettata per iscritto; in tali casi il documento informatico può
essere sottoscritto con firma elettronica. Dette conferme possono essere effettuate, se il consumatore acconsente, anche su un
supporto durevole (registrazione del consenso).
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Sanzioni
La legge, diversamente da quello che occorre nel caso di contratti bancari quelli dell'intermediazione finanziaria, non prevede
espressamente la nullità del contratto, tanto che gli interpreti si dividono Sulla sorte del contratto che non rispetti i requisiti di forma.
Talora si propende per la nullità del contratto privo di requisiti formali indicati dalla legge, a volte si ritiene invece che si potrebbe
ipotizzare un inadempimento e l'obbligazione, con conseguente diritto ed eventualmente alla risoluzione del contratto.
RECESSO art 52 e ss. cod. cons.- TERZO LIVELLO DI TUTELA
La tecnica con cui il legislatore tutela il consumatore parte di un contratto a distanza o fuori dai locali commerciali e tuttavia quella
che assicura al medesimo uno speciale diritto di recesso (recesso di protezione) e consente di sottrarsi agli effetti di un contratto già
concluso ed eseguito.
Nel C.C.: Il diritto di recesso consiste nello sciogliersi unilateralmente dal vincolo negoziale. Il problema che normalmente un
soggetto non può liberarsi, perché contratto è vincolante e ha forza di legge tra le parti. Il recesso però può essere unilaterale, può
essere un istituto operante quando si ha la legge che attribuisce ad una o entrambe le parti di decidere o quando le parti stesse si
attribuiscono reciprocamente il diritto di recedere. Generalmente le previsioni di recesso riguardano sempre contratti di durata, a
prestazioni periodiche continuative. Molto spesso quando una clausola concede il recesso o la legge concede il recesso ai contraenti, si
prevede che chi recede paghi una somma di denaro quali la caparra penitenziale o multa penitenziale.
Una delle ipotesi di legge in cui la legge consente ad uno dei contraenti il diritto di recedere è esattamente quella dei contratti a
distanza o di quelli conclusi fuori dai locali commerciali: il consumatore dispone di un periodo di quattordici giorni per recedere da un
contratto a distanza o negoziato fuori dai locali commerciali senza dover fornire alcuna motivazione e senza dover sostenere costi.
L'art. 52 disciplina nel seguente modo il diritto di recesso:
1. Termine: E oggi stabilito in 14 giorni sia per i contratti a distanza sia per quelli conclusi fuori dei locali commerciali. Tuttavia, a
seconda della tipologia negoziale interessata, diverso è il momento da cui tale termine prende a decorrere. Nei contratti che hanno
ad oggetto beni di consumo e quello in cui il consumatore acquisisce il possesso fisico dei beni (nei contratti a distanza quando
arriva a casa il bene), negli altri casi dal giorno in cui è stato concluso il contratto,
2. Modalità: È sufficiente che il consumatore trasmetta al professionista una dichiarazione da cui si evinca nitidamente la volontà di
recedere dal contratto senza dover fornire alcuna motivazione , che deve essere inviata prima del decorso del termine legale di 14
giorni poiché il consumatore che deve provare di aver provveduto al recesso nei termini previsti;
3. Obbligazioni restitutorie (art. 56 e 57): il professionista si vedrà restituito il bene eventualmente già consegnato al consumatore
acquirente che sarà a sua volta tenuto a risarcire il venditore per eventuali danni arrecati al bene solo quando questi risulti alterato il
da un utilizzo improprio e a sostenere costi legati . Il consumatore dovrà essere rimborsato dei pagamenti effettuati. Il recesso è
senza costi, no caparre o multe penitenziali. A meno che il professionista abbia offerto di ritirare egli stesso il bene, il consumatore
restituisce il bene o lo consegna al professionista o a un terzo autorizzato e in ogni caso entro quattordici giorni dalla data in cui ha
comunicato di voler receder;
4. Eccezioni: il codice del consumo prevede alcune eccezioni il diritto a sciogliersi unilateralmente dal vincolo, operanti in casi
particolari: ad esempio per l'acquisto di beni confezionati su misura e personalizzati, giornali e riviste e beni deteriorabili.
Perché c’è diritto di recesso in questi contratti?
-
Per i contratti a distanza il consumatore prende l'iniziativa negoziale ma tuttavia non vede il bene e le tecniche di comunicazione
non gli danno accesso diretto al bene, quindi appena arriva al bene può essere vittima di una sorpresa e chiedere il recesso, senza
dover fornire giustificazioni o pagare penali.
-
Per i contratti conclusi fuori dai locali commerciali il consumatore non si attiva nella ricerca del bene di consumo, come invece
fa quando si reca da un rivenditore per l'acquisto di beni di cui evidentemente ha necessità o interesse. Il consumatore e quindi
coinvolto a sorpresa nell'iniziativa contrattuale altrui e può quindi prendere scelte non ponderate, compiute dietro l'insistente
pressione a cui non è in grado di far fronte ai venditori. Il codice del consumo dunque lo speciale diritto di recesso che consente al
consumatore di non restare vincolato ad un contratto non consapevolmente o ponderatamente voluto.contratto da cui, prima della
disciplina in esame poteva liberarsi solo provando, con notevole difficoltà, un eventuale dolo di controparte e quindi un vizio della
volontà ragione di annullamento.
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La disciplina in esame evidenzia poi la preoccupazione del legislatore di assicurare un'effettiva informazione al consumatore circa
l'esistenza del diritto legale di recesso: solo in questo modo la tutela assicurata accordando un diritto di recesso ai fini di protezione
raggiunge l'obiettivo. A tal scopo il giudice non solo impone che il contratto come già le informazioni precontrattuale contempli una
specifica informativa sul cesso ma prevede anche che nel caso di inosservanza di tale obbligo uno speciale dispositivo volare
l'esercizio da parte del consumatore. Questi infatti in difetto di informazione e non essendo a conoscenza della disciplina legale,
qualora non abbia receduto nel termine ordinario di 14 gg. Avrà diritto ad esercitare il proprio diritto di recesso sino a 12 mesi e 14
giorni.
CONTRATTI DI SERVIZIO TURISTICO
Obblighi informativi
Il codice del consumo, il titolo quarto, prevede alcune disposizioni relative a singoli contratti che vedono protagonisti il consumatore e
i contratti aventi ad oggetto servizi turistici. Questi sono regolati dal d.lgs 23 Maggio 2011 n. 79 recante il Codice del Turismo.
Il legislatore fa ampio uso in questa sede delle diverse tecniche protettive del consumatore anche in deroga alla disciplina ordinaria del
contratto. In particolar modo tutelando il consumatore turista che conclude contratti relativi a pacchetti turistici, definiti quali negozi
con cui quest'ultimo acquisti da un professionista del settore del turismo la combinazione di almeno due tipi diversi di servizi turistici
ai fini dello stesso viaggio della stessa vacanza.
In quest'ipotesi il consumatore programma il proprio viaggio rinunciando ad un ruolo attivo di selezione e controllo dei singoli servizi
(volo albergo, eccetera) e preferisce affidarsi ad un operatore del settore che provvede all'organizzazione complessiva della
vacanza.tale scelta ha il vantaggio di affidarsi a un operatore esperto ma comporta anche la rinuncia ad un controllo sui dettagli
organizzativi del viaggio. Da qui la scelta del legislatore comunitario e nazionale di prevedere regole che tendono a riequilibrare le
posizioni tra i contraenti, mirando in particolare a colmare alla simmetria informativa strutturalmente caratterizzante siffatti modelli
contrattuali.
A tal fine, il codice del turismo prevede stringenti obblighi di informazione precontrattuale in capo all'organizzatore. La disciplina è
particolarmente analitica, la trasmissione delle informazioni deve infatti avvenire attraverso la compilazione di uno speciale modulo
che indirizza il professionista fornire tutta una serie di informazioni che mirano a rendere pienamente consapevole il consumatore
turista del profilo del pacchetto turistico acquistato. In particolare, le informazioni devono avere ad oggetto:
• Le caratteristiche del servizio: destinazioni, mezzi di trasporto, alloggio, visite ed escursioni previste, dimensioni del gruppo, pasti
compresi nel prezzo;
• Identificazione dell'organizzatore;
• Prezzo comprensivo di accessori e le modalità di pagamento;
• Numero minimo di persone alla cui adesione è subordinata all'attivazione del programma;
• Le informazioni sul diritto di recesso attribuito dalla legge.
Le informazioni devono essere resi disponibili in formato durevole prima della conclusione del contratto (in particolare relativamente
a servizio, prezzo, diritto di recesso, il numero minimo di aderenti) entrano a far parte del contratto eventualmente stipulato e senza il
consenso del consumatore le condizioni rappresentate in fase di trattative non possono essere modificate all'atto della loro
trasposizione nel regolamento contrattuale. E si discute dunque se il diritto del consumatore a ricevere una copia scritta comporti una
forma scritta ad sustantiam; tuttavia prevale la soluzione negativa per cui tali adempimenti formali sono strettamente funzionali a
completare il programma informativo già iniziato nella fase della trattativa.la loro inosservanza integra allora un inadempimento
dell'organizzatore proprio obblighi contrattuali, che può essere tenuto a risarcimento del danno in favore del consumatore turista.
Recesso (art. 41)
Il recesso è possibile ma se l’organizzatore ha sostenuto delle spese ci dovrà essere un rimborso al professionista sino al giorno
previsto per la fruizione del pacchetto.
Una fattispecie speciale di recesso senza spese e tuttavia accordata nel caso in cui nel paese di destinazione (e quindi quello previsto
dal programma turistico) occorrano accadimenti che incidono in modo sostanziale sull'esecuzione del pacchetto.la disciplina prevede
altresì un diritto di recesso in favore dell'organizzatore, previo rimborso integrale dei pagamenti ricevuti; in tal caso egli è
normalmente tenuto altresì ad un indennizzo retta parentesi risarcimento) salvo i casi in cui il recesso dipende da circostanze
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straordinarie ed inevitabili, nella logica generale l'articolo 1218 (ovvero quando il numero di iscritti al programma di viaggio inferiore
a quello minimo previsto dal contratto)
Sopravvenienze e ius variandi (art. 39 e 40)
Le sopravvenienze sono quegli eventi che sopravvengono successivamente alla stipula del contratto e alterano le condizioni originarie
del contratto. Questo richiede una disciplina particolare per i contratti di durata (in quanto questo contratto si protrae nel tempo e si
prevengono possibili alterazioni del contratto stesso). Si da la possibilità all’organizzatore di modificare le condizioni contrattuali e in
questo caso alla componente economica nel caso di: cambio dei costi di traporto, variazioni significative di cambio di valuta…
Da un lato interesse del consumatore alla stabilità del prezzo e dall’altra parte la volontà dell’organizzatore di non subire integralmente
queste sopravvenienze che potrebbero rendere anche antieconomica l’esecuzione del servizio.
C’è la possibilità per l’organizzatore di rivedere il prezzo a due condizioni:
1. Che fosse previsto originariamente nel contratto (a tutela della consapevolezza del consumatore)
2. Avvenga 20 giorni prima della partenza e ad una misura limitata dell’8% (se oltre il consumatore può recedere dal contratto con
facoltà di chiedere il rimborso delle prestazioni già eseguite in favore dell'organizzatore)
Analogamente, uno ius variandi in favore dell'organizzatore con riguardo a clausole diverse da quelle relative al prezzo e attribuito nel
caso in cui tale diritto sia previsto nel contratto e la modifica sia di scarsa importanza.
Qualora invece le correzioni del regolamento originario siano più significative, ed abbia riguardo ad uno o più delle caratteristiche
principali dei servizi turistici, il turista può scegliere se accettare tali modifiche (anche mediante la riduzione del prezzo e se le
modifiche la comportano) oppure se recedere senza penalità (con il rimborso degli acconti già versati all'organizzatore) del contratto.
Anche in questo caso il legislatore, pur in un contesto di disciplina orientato superare asimmetrie informative e che quindi dovrebbe
guardare con sospetto di ogni modifica unilaterale in itinere del contratto, prende atto di come l'organizzazione di un pacchetto
turistico sia soggetto a variazioni, dipendenti dalla complessità delle combinazioni operative postulati del pacchetto, le quali rendono
ragione all'attribuzione di un moderato ius variandi unilaterale. Tuttavia compensa tale scelta accordando al consumatore un diritto
speciale di recesso più favorevole di quello in via generale attribuita al turista dall'art. 41.
Risarcimento del danno
Il d.lgs 79/2011, disciplina analiticamente il diritto alla riduzione del prezzo non che risarcimento del danno in favore del viaggiatore
per il caso di difetto di conformità della prestazione dovuta dall'organizzazione (art. 43). La responsabilità è esclusa solo se il
difetto è imputabile al viaggiatore oppure ad un terzo estraneo all'organizzazione, sono altresì possibili nel rispetto dei regolamenti
comunitari e delle convenzioni internazionali che vincolano l'Italia e l'Unione Europea, clausole di limitazione della responsabilità
(in linea con quanto previsto dall'art. 1229)per il caso di danni alla persona del viaggiatore o per dolo o colpa grave. In ogni caso la
limitazione non può essere inferiore al triplo del costo del pacchetto.
Il codice del consumo prevede infine la risarcibilità del cosiddetto danno da vacanza rovinata, cioè di quel pregiudizio (tipicamente
non patrimoniali) derivante nel caso di vacanza caratterizzata da inconvenienti e difficoltà imputabili all'organizzatore, dal tempo di
vacanza inutilmente trascorso ed all'irripetibilità dell'occasione perduta.si tratta di un danno che non consiste in un diretto pregiudizio
patrimoniale o alla persona del viaggiatore ma attiene alla perdita in sé nell'occasione di vacanza, il cui risarcimento era difficilmente
configurabile, specie nel passato alla luce dei principi generali in punto di danno risarcibile. Danno che quindi in assenza di una
previsione specifica che consenta di superare i limiti al risarcimento del pregiudizio non patrimoniale (di cui all'art. 2059) avrebbe
potuto trovare difficoltà ad affermarsi come risarcibile anche alla luce della giurisprudenza più recente in tema di danno non
patrimoniale che richiede, ai fini della risarcibilità, la lesione di interessi tutelati come inviolabili dall'ordinamento giuridico.
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LA VENDITA DEI BENI DI CONSUMO
- DIFETTO DI CONFORMITÀ
Il d.lgs 19/02 2004 n. 24 recependo la direttiva 99/94/CEE, hai introdotto nel nostro ordinamento la disciplina sulla garanzia legale di
conformità nella vendita dei beni di consumo. Il punto di partenza della disciplina e l'inadeguatezza delle azioni tradizionali a tutelare
il consumatore compratore che acquisisca la disponibilità di beni dalla qualità non corrispondente a quella rappresentata nel contratto
di vendita.
Mentre la tutela tradizionale postula la prova dell'esistenza di un vizio nella cosa (art. 1495 c.c.) ed è soggetta a termini di decadenza
particolarmente stringenti (otto giorni), consente solo di attivare rimedi redibitoria (riduzione del prezzo della compravendita) ma non
rimedi specifici volti alla riparazione ovvero alla sostituzione del bene (art. 1492 c.c.).
La nuova tutela (art. 128 e seguenti) invece prevede che la mancata conformità del bene rispetto alle caratteristiche declinate nel
contratto di compravendita permetta l'attivazione di una garanzia legale per il compratore, garanzia che ha una durata più estesa
(biennale) ed è soggetta a termini di decadenza meno stringenti di quelli previsti dalla disciplina generale della compravendita.
Non serve allora dare prova dell'esistenza di un vizio che rende il bene acquistato inidoneo all'uso cui è destinato oppure ne
diminuiscono in modo apprezzabile il valore. La tutela inoltre non viene meno per il caso in cui i vizi possono essere facilmente
riconosciuti ma ciò che conta è che il bene non sia conforme a quello delineato nell'accordo contrattuale.
Difetto di conformità - art. 129 cod. cons.
L'art. 129 presume la conformità del bene acquistato dal consumatore quando questo sia:
1) Idoneo all'uso ordinario di quel tipo di bene;
2) Conforme alla descrizione del venditore o al campione o modello esibito all'acquirente in trattativa;
3) Abbia qualità ed assicuri prestazioni proprie di un bene dello stesso tipo, che il compratore si può attendere anche ragione delle
dichiarazioni pubbliche fatte dal venditore o dal produttore sulle caratteristiche del bene;
4) Risulti dono ad un eventuale particolare uso portato dal consumatore a conoscenza del venditore al momento della conclusione del
contratto.
Perché il bene sia idoneo deve presentare tutte queste caratteristiche, se ne mancasse anche solo una il consumatore potrà rivalersi
della disciplina della garanzia prevista dal codice consumo.
Il vizio tuttavia non ricorre se il consumatore al momento della stipula del contratto era a conoscenza del vizio o non poteva ignorarlo
con l’ordinaria diligenza.
Rimedi del consumatore - Art 130 cod. cons.
Nel momento in cui il bene di consumo acquistato dal consumatore non risulti conforme, la garanzia legittima l'acquirente ad attivare
in via alternativa una serie di rimedi la cui scelta non è tuttavia nella sua piena disponibilità.infatti legislatore delinea un ordine tra i
rimedi attivabili, dipendenti da una serie articolata di variabili.
Rimedi specifici
Il consumatore in primo luogo può scegliere tra riparazione o sostituzione, quindi esclusivamente nell'ambito di rimedi specifici la
scelta in prima battuta libera e nel caso in cui uno dei due rimedi sia eccessivamente oneroso rispetto all'altro oppure oggettivamente
impossibile la scelta del consumatore è vincolata verso il rimedio specifico meno oneroso oppure verso l'unico possibile.
La disciplina dei rimedi specifici per il caso di difetto di conformità e si completa con la previsione delle modalità con cui il venditore
deve assicurare il ripristino: infatti riparazioni e sostituzioni devono avvenire in un tempo congruo rispetto alla richiesta del
consumatore e non devono arrecare a quest'ultimo inconvenienti, e tenuto conto della natura del bene e dello scopo di acquisto.
Riduzione del prezzo/Risoluzione del contratto
Il consumatore può scegliere la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto solo quando ricorrano in via alternativa alcune
condizioni ed in particolare nelle tre seguenti fattispecie:
1. Quando entrambi i rimedi specifici si configurino come eccessivamente onerosi. Possono quindi essere attivati i cosiddetti rimedi
per equivalente di riduzione del prezzo, ovvero quelli volti allo scioglimento del contratto di acquisto del bene di consumo;
2. Quando la riparazione e la sostituzione più richiesta non sia stata effettuata nel termine congruo, il consumatore avrà il diritto di
sciogliersi dal vincolo contrattuale originario restituendo il bene ed ottenendo la ripetizione (rimborso) del prezzo già pagato al
venditore;
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3. I rimedi per equivalente possono essere attivati quando il ripristino sia stato effettuato entro un termine ragionevole ma se si è
rivelato non risolutivo e anzi abbia recato notevoli inconvenienti al consumatore. In questo caso il consumatore non è prigioniero di
un ripristino soddisfacente e può liberarsi del contratto.
Il rimedio della risoluzione non può essere invocato nell'ipotesi in cui il difetto di conformità sia di lieve entità.solo così si riesce ad
evitare il rischio di un utilizzo abusivo della tutela che non può essere invocata per sciogliersi da un vincolo negoziale di cui per
ipotesi ci sia sia pentiti.
In ogni caso, una volta che si ottenga la risoluzione del contratto, l'ammontare della somma che deve essere restituita al consumatore
(gliel'aveva pagato all'atto dell'acquisto) deve essere calcolato tenendo conto dell'eventuale uso che il consumatore abbia fatto del bene
pure il risultato non conforme.lo stesso criterio si dovrebbe applicare nel determinare il quantum della riduzione del prezzo.
Una volta che il consumatore effettua la scelta, il venditore deve attivare il rimedio indicato a meno che il consumatore non è più
rimedio alternativo degli proposto.il legislatore si preoccupa tuttavia di disciplinare pure la fattispecie in cui il consumatore non
eserciti la propria scelta invitando il venditore a proporre da sé il rimedio per lui preferibile.il consumatore potrà comunque accettare o
respingere il rimedio prospettato proponendo agli stessi un rimedio alternativo
Diritto di regresso art. 131
La responsabilità da prodotto difettoso attiene al danno del produttore, quindi per i danni che il prodotto arreca all’integrità fisica del
consumatore o ad altri beni del consumatore è responsabile il produttore. Invece, per i danni da vizio in sé del prodotto, il focus è sulla
responsabilizzazione del soggetto venditore. Spesso però questi difetti di conformità sono anch’essi causa del produttore, tuttavia
l’azione è data direttamente verso il venditore perché per il consumatore è più facile avere come riferimento il venditore, piuttosto che
il produttore. Quindi, il venditore potrà rivalersi verso il produttore dal momento che il difetto di conformità è legato ad un problema
di produzione/distribuzione? La risposta la dà l’art. 131: il venditore finale, quando è responsabile nei confronti del consumatore a
causa di un difetto di conformità imputabile ad un'azione o ad un'omissione del produttore, di un precedente venditore della medesima
catena contrattuale distributiva o di qualsiasi altro intermediario, ha diritto di regresso, salvo patto contrario o rinuncia, nei confronti
del soggetto o dei soggetti responsabili facenti parte della suddetta catena distributiva. Inoltre, il venditore finale che abbia
ottemperato ai rimedi esperiti dal consumatore, può agire, entro un anno dall'esecuzione della prestazione, in regresso nei confronti
del soggetto o dei soggetti responsabili per ottenere la reintegrazione di quanto prestato.
Rimedi del consumatore - Art 132 cod. cons.
La disciplina generale dell’art. 1495 del Codice Civile stabilisce che il compratore decade dal diritto alla garanzia se non denunzia i
vizi al venditore entro 8 giorni dalla scoperta. La denunzia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l’esistenza del vizio o l’ha
occultato. L’azione si prescrive in un anno dalla consegna.
Tali termini sono ritenuti troppo stringenti, per cui si fa riferimento alla disciplina speciale del Codice del Consumo, all’art. 132.
Innanzitutto, il venditore è responsabile quando il difetto di conformità si manifesta entro il termine di due anni dalla consegna del
bene quindi ci sono due anni di tempo dalla consegna del bene perché possa sorgere un difetto di conformità: tutti i difetti che sorgono
entro due anni dalla consegna del bene possono essere fatti valere.
Quando il difetto emerge, deve essere denunciato entro due mesi: infatti il consumatore decade dai diritti previsti dall'articolo 130,
comma 2, se non denuncia al venditore il difetto di conformità entro il termine di due mesi dalla data in cui ha scoperto il difetto.
La denuncia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l'esistenza del difetto o lo ha occultato.
Si vuole evitare che alla scadenza della garanzia un soggetto faccia valere un difetto che, se fosse stato originario al momento
dell’acquisto del bene, si sarebbe manifestato sin da subito. Quindi, la prescrizione finale è di 26 mesi (per il caso di vizio che si
manifesti e si renda conoscibile all'ultimo giorno utile si hanno ulteriori due mesi di tempo per far valere il difetto).
Inoltre, si presume che i difetti di conformità che si manifestano entro sei mesi dalla consegna del bene esistessero già a tale data, a
meno che tale ipotesi sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità: se il difetto si manifesta nei
primi sei mesi (e quindi è denunciato nei primi otto mesi al massimo), allora si presume che siano effettivamente riconducibili al bene
per come consegnato.
Il consumatore-acquirente potrà avvalersi di questa presunzione e sarà il venditore-professionista a dover provare che quel difetto non
è un difetto di produzione. Viceversa, se i vizi sono successivi al sesto mese, operando questa presunzione, sarà il consumatore a dover
dare prova che si stratta di vizi originari. Per capire se il difetto c’era già alla consegna ovvero è insorto dopo con l’utilizzo del bene, il
giudice potrà avvalersi di un consulente tecnico d’ufficio.
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Riassumendo:
• Quando c’è vizio? Quando il bene non è come era stato descritto. Si usa il concetto di difetto di conformità: il bene non è conforme
alle caratteristiche che erano state descritte dallo stesso professionista all’atto della vendita al consumatore.
• Tecniche di tutela molte più articolate rispetto a quelle previste dal Codice Civile e centrate su tutele specifiche.
• Termini per far valere la garanzia molto più ampi per il consumatore.
Garanzia convenzionale art 133
La garanzia convenzionale può pertanto attribuire al consumatore una "copertura" ulteriore rispetto a quella prevista dalla legge, ad
esempio è possibile che il venditore offra delle garanzie ulteriori di vario tipo (ad esempio, una garanzia Kasko per il danneggiamento
accidentale del bene per colpa del consumatore (ampliamento del contenuto) oppure un’estensione della garanzia a 5 anni).
Si parla, in questo caso, di garanzie convenzionali che vengono stabilite tra le parti e sono regolate all’art. 133 del Codice del
Consumo.
Mentre la garanzia legale è gratuita, quella convenzionale potrebbe essere onerosa, in base a quanto stabilito tra le parti.
Infatti, il venditore potrebbe chiedere un corrispettivo per l’ampliamento nei contenuti o l’estensione temporale della garanzia. La
garanzia convenzionale dev’essere tenuta ben distinta dalla garanzia legale.
La garanzia convenzionale vincola chi la offre secondo le modalità indicate nella dichiarazione di garanzia medesima o nella relativa
pubblicità.
La garanzia deve, a cura di chi la offre, almeno indicare:
• la specificazione che il consumatore è titolare dei diritti previsti dal presente paragrafo e che la garanzia medesima lascia
impregiudicati tali diritti (garanzia legale di due anni);
• in modo chiaro e comprensibile l'oggetto della garanzia e gli elementi essenziali necessari per farla valere.
Il fatto che una disposizione di legge abbia carattere imperativo significa che le parti non vi possono derogare. In questo caso, il
contratto di compravendita di beni di consumo è come se fosse integrato dalla legge. L’effetto per cui vi è una garanzia gratuita del
venditore nei riguardi del consumatore opera come se le parti l’avessero stabilito nel contratto. Vi è pertanto un’integrazione cogente
del regolamento contrattuale, perché il contratto produce come effetto anche l’insorgere della garanzia a favore del consumatore. Non
è quindi possibile che nel contratto vi sia una clausola per cui si escludano le garanzie di cui agli artt. 128 e seguenti del Codice del
consumo. Attesa la natura imperativa della disciplina considerata, una clausola di questo tipo sarà una clausola nulla per contrasto con
norma imperativa e inderogabile. Infatti, ai sensi dell’art. 134, è nullo ogni patto, anteriore alla comunicazione al venditore del difetto
di conformità, volto ad escludere o limitare, anche in modo indiretto, i diritti riconosciuti dal presente paragrafo. La nullità può essere
fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice (come la nullità parziale necessaria, art. 36 del Codice del
Consumo).
Carattere imperativo delle disposizioni art.134
E' nullo ogni patto anteriore alla comunicazione al venditore del difetto di conformità, volto ad escludere o limitare anche in modo
indiretto i diritti riconosciuti dal presente paragrafo. la nullità può essere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata
d'ufficio dal giudice.
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LA RESPONSABILITÀ DEL PRODUTTORE
Se la disciplina sulla garanzia legale per difetto di conformità regola una fattispecie in cui l'esecuzione dell'obbligazione contrattuale si
rileva difettosa e vincola (seppur in termini di granaria) le parti di un rapporto contrattuale, la disciplina della responsabilità del
produttore per il danno da prodotto regola invece una fattispecie di responsabilità extra contrattuale che grava il produttore a
prescindere da qualsivoglia legame di carattere contrattuale con il consumatore danneggiato.
Il consumatore che acquista un bene normalmente non lo acquista dal produttore, ma un rivenditore. Tuttavia, può accadere che il bene
di consumo sia difettoso: questo difetto potrebbe arrecare un danno al consumatore, inteso come persona fisica (danno alla salute),
ovvero ad altri beni dello stesso. Trattandosi di un danno cagionato da una difettosità del prodotto, il risarcimento del danno è
imputabile al produttore del bene difettoso. Si tratta di un risarcimento del danno da inadempimento o da fatto illecito
extracontrattuale? Nella maggior parte dei casi, non c’è una diretta relazione contrattuale tra consumatore e produttore, pertanto si
parla di risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale.
L’art. 2043 del Codice Civile stabilisce che il danneggiato (consumatore), per chiedere il risarcimento del danno, è necessario provare
il dolo o la colpa del soggetto danneggiante (produttore): quindi, il consumatore dovrà provare la circostanza per cui il danno è stato
causato da una negligenza da parte del produttore nella creazione del prodotto.
Non sarebbe però agevole per il singolo consumatore provare la negligenza del produttore, il rischio sarebbe stato che il consumatore,
non potendo entrare nella logica del processo produttivo, rinunciasse all’azione. Invece a seguito della direttiva comunitaria
374/1985, uno dei primi modelli di intervento comunitario a protezione del consumatore, lo Stato italiano ha approvato una propria
legge (d.p.r 224/1988) che introduce delle regole che, nel caso di danno da prodotto difettoso, vogliono agevolare la posizione del
consumatore e incentivarlo a cercare di ottenere il risarcimento del danno.
La prima regola orientata a facilitare l’azione del consumatore è l’art. 114 del Codice del Consumo, in tema di responsabilità
oggettiva del produttore: il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto. Già da questa norma si presume
che il consumatore non debba provare la negligenza (colpa) del produttore. Tale norma dev’essere però letta anche in connessione con
una norma successiva, l’art. 120: il danneggiato deve provare il difetto, il danno, e la connessione causale tra difetto e danno.
Il consumatore non deve quindi provare il dolo o la colpa, la negligenza del produttore. La responsabilità in questo caso è una
responsabilità oggettiva, senza necessità di dare prova del dolo o della colpa del produttore.
Nozione di prodotto difettoso
Ai sensi dell’art. 117, si parla di prodotto difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto
di tutte le circostanze, tra cui:
-
il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le
avvertenze fornite.
Quindi il consumatore segue le istruzioni e utilizza il bene nel modo ordinario.
-
l'uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono
ragionevolmente prevedere.
Il danno non è ricollegabile a un difetto del prodotto, ma ad un uso inadeguato dello stesso da parte del consumatore.
-
il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.
Poniamo il caso di un prodotto di 5 anni fa ancora legittimamente sul mercato che ovviamente avrà un sistema di sicurezza meno
sofisticato di quello di un altro prodotto simile immesso nel mercato sei mesi fa. Il bene dev’essere ovviamente conforme ai livelli
minimi di sicurezza previsti dalla legislazione di settore, avrà magari un livello tecnologico meno elevato, ma sarà comunque
funzionante e non difettoso. Quindi per valutare e un prodotto sia o meno difettoso, bisogna tenere conto anche del tempo in cui è
stato messo in circolazione.
Conferma di ciò la troviamo al secondo comma: un prodotto non può essere considerato difettoso per il solo fatto che un prodotto più
perfezionato sia stato in qualunque tempo messo in commercio. Un prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente
dagli altri esemplari della medesima serie.
Per difendersi il produttore deve provare la sussistenza di una delle esclusioni della responsabilità, stabilite all’art. 118 del Codice
del Consumo.
La responsabilità è esclusa:
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se il produttore non ha messo il prodotto in circolazione.
Ad esempio, il produttore non aveva ancora deciso di mettere il bene in produzione perché doveva fare delle verifiche di sicurezza,
ma qualche dipendente infedele ha rubato alcuni esemplari di questo prodotto e li ha messi sul mercato nero. Di questo il
produttore non è responsabile.
-
se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione.
Ad esempio, il difetto è stato determinato dalla difettosa manutenzione da parte del distributore del bene, il rivenditore. Quindi, il
difetto nasce in una fase successiva a quella della produzione.
-
se il produttore non ha fabbricato il prodotto per la vendita o per qualsiasi altra forma di distribuzione a titolo oneroso, né
lo ha fabbricato o distribuito nell'esercizio della sua attività professionale.
Il bene è stato venduto senza il consenso del produttore.
-
se il difetto è dovuto alla conformità del prodotto a una norma giuridica imperativa o a un provvedimento vincolante.
-
se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non
permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso.
Se il produttore non prova una di queste circostanze, è responsabile in via oggettiva.
Il produttore è colui che produce il bene, mentre il fornitore è colui che lo vende: spesso chi vende è un imprenditore indipendente. Il
fornitore non è responsabile della difettosità del bene. C’è però un caso in cui il fornitore potrebbe essere coinvolto: il fornitore occulta
al consumatore-compratore chi è il produttore del bene. In tal caso, il fornitore sarà responsabile di un vizio del prodotto. Questa
norma serve a stimolare e incentivare il fornitore a non omettere nulla quando deve dichiarare chi è il produttore.
Danno risarcibile
Ai sensi dell’art. 123, è risarcibile in base alle disposizioni del presente titolo:
-
il danno cagionato dalla morte o da lesioni personali;
-
la distruzione o il deterioramento di una cosa diversa dal prodotto difettoso, purché' di tipo normalmente destinato all'uso
o consumo privato e così principalmente utilizzata dal danneggiato.
Inoltre, il danno a cose è risarcibile solo nella misura che ecceda la somma di euro 387.
Il legislatore ha dettato una regola a favore del consumatore, che si ritiene operante nei casi di danno importante, ossia danni alla salute
e alla vita del consumatore e il danno a cose solo se supera un valore minimale di franchigia, pari a 387 euro. Il legislatore vuole
evitare uno stillicidio di continue azioni più o meno pretestuose per micro-danni fondate su presunzioni di negligenza del produttore.
Siccome qui si presuppone la negligenza del consumatore, tale presunzione vale solo per i danni più gravi. È quindi un regime
risarcitorio favorevole al consumatore, ma solo per i danni più seri. Ciò non toglie che se il consumatore subisce un danno di valore
inferiore a 387 euro, potrà fare al produttore applicando la disciplina generale e provando il dolo o la colpa del soggetto danneggiante.
Ai sensi dell’art. 122, il danno risarcibile potrebbe essere ridotto se il prodotto era già difettoso ma poi i danni si sono aggravati per un
errore da parte del consumatore che ha continuato ad utilizzare il bene, incrementando il danno in modo significativo.
Ai sensi dell’art. 124, è nullo qualsiasi patto che escludi o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità
prevista dal presente titolo. L’art. 1229 del Codice civile ammette la possibilità di pattuire clausole di esonero da responsabilità: ad
esempio, in un contratto di trasporto può essere sottoscritta una clausola per cui nel caso di ritardo rispetto ai tempi di consegna (per
causa non imputabile al trasportatore), il trasportatore non sarà tenuto al risarcimento del danno. Queste clausole sono parzialmente
ammesse nel Codice Civile, purché non ci sia dolo o colpa grave.
Questa regola non si applica nel caso di contratti tra professionista e consumatore: all’art 33 del Codice del Consumo si presume
abusiva la clausola che esonera il professionista dalla responsabilità per inadempimento delle proprie obbligazioni. Già nel 1985, si
prevedeva che è esclusa la validità della clausola di esonero da responsabilità per il danno da prodotto difettoso. Se il produttore, per
tramite del fornitore, conclude con il consumatore un contratto con una clausola di esclusione da responsabilità per danno da prodotto
difettoso, quella clausola è comunque nulla e non attivabile.
Prescrizione: ai sensi dell’art. 123, il diritto al risarcimento si prescrive in 3 anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe
dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell’identità del responsabile. (deroga rispetto alla disciplina generale). Questa è
un’eccezione alla regola generale, perché la prescrizione per l’azione di risarcimento del danno aquiliano è di 5 anni. Se sono passati
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più anni, il consumatore non ha perso alcun diritto al risarcimento generale, ma si applicherà la disciplina generale dovendo provare la
negligenza del produttore.
Decadenza: ai sensi dell’art. 126, il diritto al risarcimento si estingue alla scadenza di dieci anni dal giorno in cui il produttore o
l'importatore nella Unione europea ha messo in circolazione il prodotto che ha cagionato il danno. Se il bene è in commercio da oltre
dieci anni non si applica questa legge, ma si fa riferimento alla disciplina generale: c’è il rischio che, nel caso di beni più vecchi, il
danno sia cagionato dal fatto che il consumatore utilizzi il bene ormai obsoleto come se fosse nuovo. In realtà, il difetto è
semplicemente il minore livello tecnico-scientifico del modello vecchio rispetto al modello nuovo. Si vuole pertanto evitare la
presunzione di difettosità del prodotto e si vuole imporre la prova della negligenza del consumatore.
Ovviamente, secondo quanto stabilito dall’art. 127, la responsabilità resta secondo altre disposizioni di legge: le disposizioni del
presente titolo non escludono né limitano i diritti attribuiti al danneggiato da altre leggi.
CONTRATTO DI CREDITO AL CONSUMO
Si tratta ancora di contratti squilibrati tra un professionista e un non-professionista, la posizione di debolezza è analoga a quella del
consumatore. Si ha in questi casi un contratto tra la banca e il cliente-risparmiatore ovvero tra l’intermediario finanziario e
l’investitore. In entrambi i casi è cruciale la questione dell’asimmetria informativa. Anche in quest’ambito ci troviamo di fronte ad un
modello di disciplina protettiva per il cliente/investitore (è chiaro che il cliente o l’investitore può essere anche un consumatore,
soprattutto il cliente della banca che stipula un contratto di accesso al credito al consumo).
Vi sono due fonti diverse e ulteriori a quella del Codice del Consumo:
• per quanto riguarda i contratti bancari, la fonte è il Testo Unico Bancario (TUB) del 1993 (decreto legislativo n. 385 del 1°
settembre 1993);
• per la fonte per i contratti di intermediazione finanziaria è il Testo Unico della Finanza (TUF) del 1998 (decreto legislativo n. 58
del 24 febbraio 1998). Questi testi normativi sono stati soggetti ad una significativa e continua evoluzione, per cui risultano soggetti
a reiterate novelle (integrazioni o correzioni). L’evoluzione normativa è stata incessante e molti interventi sono di origine
comunitaria che talora rendono il testo anche difficilmente leggibile. Ci sarà un momento in cui si procederà ad una
razionalizzazione successiva.
Le discipline sono molto ampie, ci concentreremo sui requisiti dei contratti ossia sulla regola generale della stipulazione dei contratti
bancari dell’intermediazione finanziaria.
Contratti dell’intermediazione finanziaria, TUF
Vediamo all’art. 21 i criteri generali nello svolgimento di servizi di attività finanziarie, dove emerge con chiarezza la primaria
preoccupazione del legislatore, l’asimmetria informativa.
Nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori i soggetti abilitati devono:
-
comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l'interesse dei clienti e per l'integrità dei
mercati;
La doppia finalità della regolazione del settore bancario consiste nella protezione del consumatore e nella stabilità dei mercati.
-
acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati.
Vediamo la possibilità di enucleare alcuni profili fondamentali della disciplina degli obblighi in capo all’intermediario finanziario.
Innanzitutto, si richiede una correttezza, diligenza e trasparenza in via generale e soprattutto obblighi informativi. Il livello di
informazione è doppio: per riuscire a regolare in modo razionale il mercato dell’intermediazione finanziaria, in primo luogo si richiede
la trasparenza dell’intermediario finanziario verso i consumatori. In secondo luogo, la correttezza e la trasparenza nel mercato
dell’intermediazione finanziaria si giocano anche e soprattutto nel disporre di prodotti che siano compatibili con il profilo
dell’investitore che si ha davanti. Non solo l’intermediario è gravato dall’informare l’investitore, ma dovrà anche trarre le informazioni
e capire chi è l’investitore per essere certo di vendergli un prodotto che sia compatibile e funzionale all’orizzonte delle sue finalità di
investimento.
Vi è un modo totalmente diverso di accedere alle informazioni del soggetto finanziato. Ad esempio, centrale è capire il profilo di
rischio dell’investitore: l’intermediario finanziario deve capire se ha a che fare con un soggetto che vuole acquisire un rischio
moderato, più forte oppure tenue. Di conseguenza, le proposte di investimento dovranno essere in linea con il profilo di rischio
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dell’investitore. La tutela dell’investitore che non conosce in buona parte il mercato degli strumenti finanziari passa per
un’informazione, ma anche per una responsabilizzazione rispetto al profilo di rischio.
-
utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti;
-
disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l'efficiente svolgimento dei servizi e delle attività.
Il doppio livello informativo lo si esplica a livello precontrattuale anche attraverso imposizioni di modelli di comunicazione
pubblicitaria e promozionali corrette che siano chiare e non fuorvianti. Già nel Codice del Consumo vi è una regolazione a farsi
pubblicità, qui vi è un modello di pubblicizzazione ancor più riccamente regolato.
Vediamo all’art. 23 come devono essere stipulati i contratti dell’intermediario finanziario.
I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori,
sono redatti per iscritto, in conformità̀ a quanto previsto dagli atti delegati della direttiva 2014/65/UE, e un esemplare
consegnato ai
clienti. La Consob, sentita la Banca d’Italia, può̀ prevedere con regolamento che, per motivate ragioni o in relazione alla natura
professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma, assicurando nei confronti dei
clienti al dettaglio appropriato livello di garanzia. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto nullo.
Il contratto in questione è un contratto che richiede la forma scritta ad substantiam: nei casi di inosservanza della forma prescritta,
il contratto è nullo. È questo uno dei casi previsti dalla legge in cui vige un vincolo di forma scritta pena di nullità. Non opera quindi il
principio di libertà delle forme di cui all’art. 1325 del Codice Civile: la regola generale del sistema italiano è quella per cui se non
richiesta, la forma è libera. Nell’ambito dei contratti asimmetrici questa regola si inverte per una logica di protezione del soggetto più
debole. Se c’è un problema di asimmetria essenzialmente informativa, per capire quali sono i diritti e gli obblighi di ciascuno soggetto
è importante avere un supporto stabile per accedere al contratto e alle informazioni che vi sono collocate. Il primo testo normativo che
si è occupato di intermediazione finanziaria era la legge SIM 1/1991, la prima legge regolante delle Società di Intermediazione
Mobiliare, e già aveva previsto un vincolo di forma. La legge non aveva però stabilito espressamente che la forma era prescritta a pena
di nullità, mancava quindi la sanzione nel caso di inosservanza della forma scritta. Ciò aveva determinato una serie di discussioni tra
gli interpreti: molti sostenevano che non essendo prevista la sanzione della nullità, la forma era prescritta non a pena di nullità ma che
magari ci fosse solo qualche obbligo risarcitorio in capo all’intermediario finanziario che non ha osservato la prescrizione di forma, ma
il contratto restava valido; altri autori sostenevano che la previsione della forma scritta fosse centrale nell’ambito della disciplina
protettiva e quindi il contratto doveva essere nullo.
Inoltre, è nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo
carico. In tali casi nulla è dovuto.
Il contratto non solo deve essere in forma scritta, ma nel documento scritto sul quale l’investitore può valutare l’assetto dei propri
diritti ed obblighi, dev’essere anche chiaramente indicato il corrispettivo dovuto dal cliente e ogni altro onere a suo carico. Dev’essere
chiaro il tipo di corrispettivo che l’intermediario finanziario lucra rispetto al cliente. Accadeva che il corrispettivo non fosse indicato
nel contratto perché si rinviava a norme interne o a discipline generali dell’ABI: il contratto era sì determinabile (andando a verificare
le Norme Bancarie Uniformi dell’ABI), ma l’investitore non aveva ben chiaro quale fosse il piano degli obblighi che gravavano su di
lui in termini di corrispettivo e di pagamento di oneri per i servizi prestati dall’intermediario. Ecco allora la tecnica individuata dal
legislatore per cui è nulla la pattuizione se rinvia agli usi. In questo caso, nulla è dovuto. È questa una tecnica che disincentiva la
pattuizione non espressa: l’intermediario che pera in maniera non trasparente non riceverà alcun corrispettivo per il servizio prestato e
quindi è incentivato a fare in modo che vi sia assoluta trasparenza con riguardo a queste condizioni.
Legittimato a far valere la nullità del contratto è solamente il cliente: la nullità̀ può̀ essere fatta valere solo dal cliente. Siamo quindi
nel classico contesto delle nullità di protezione (parziali e fatte valere unicamente dal soggetto protetto).
Nell’ambito della disciplina dei contratti bancari e di intermediazione finanziaria assistiamo ad una regolazione ad un doppio livello:
una fonte primaria (la legge, TUB e TUF) e una fonte secondaria. Infatti, queste materie sono estremamente tecniche e di dettaglio e
necessitano di una raffinatezza tecnica. Il legislatore primario per i dettagli demanda ad un livello normativo secondario: Consob,
Banca d’Italia, Autorità Amministrative Indipendenti e Comitati Ministeriali che entrano nel dettaglio delle discipline.
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Contratti bancari, TUB
L’art. 117 si occupa della disciplina dei contratti in generale introducendo una serie di principi e di regole che rispondono alla
necessità di tutelare il contraente non professionista, come anche nei casi di contratti tra professionista e consumatore e tra
intermediario finanziario e investitore.
Tale norma al primo comma afferma che i contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. Al comma terzo si
precisa che nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo. Quindi, anche nel caso di contratti bancari è prevista
una forma scritta ad substantiam: la prima tecnica protettiva del contratto bancario è la nullità del contratto se questo non è redatto
in forma scritta. La previsione della forma scritta ad substantiam serve per superare le asimmetrie informative e quindi a fare in modo
che il cliente della banca abbia un documento che possa provare i propri diritti e i limiti dei propri obblighi. Infatti, solo avendo un
documento scritto vi è la possibilità di una consapevolezza e di provare quello che era l’accordo concluso con la banca.
Oltre ad essere redatto per iscritto, il contratto deve contenere tutti gli elementi contrattuali di rilievo ed illustrare i contenuti essenziali
del contratto concluso tra la banca e il cliente. A tal proposito, i contratti indicano il tasso d’interesse e ogni altro prezzo o condizione
praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora. Il cliente deve avere piena consapevolezza
del costo del rapporto bancario e quindi nel contratto scritto dev’esserci una nitida indicazione dei costi del contratto bancario. Viene
così superato il profilo di asimmetria informativa.
A conferma di ciò, al sesto comma si stabilisce che sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi
per la determinazione dei tassi d’interesse e di ogni altro pezzo e condizione, nonché quelli che prevedono tassi, prezzi e condizioni
più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati. La chiara presa di posizione sui costi non può avvenire attraverso una clausola che
regoli i costi rinviando a una fonte esterna al contratto scritto. Nel sistema italiano l’oggetto del contratto deve essere determinato ma
potrebbe essere anche solo determinabile, si deve però capire cosa le parti intendevano regolare nel contratto. determinabilità significa
che le parti potrebbero stabilire che per un determinato aspetto si rimanda a un documento esterno, come le norme bancarie uniformi
previsti dall’ABI. Questo avveniva con molta frequenza prima delle discipline protettive del TUB: stante anche la complessità tecnica
della materia, le banche facevano sottoscrivere dei contratti molto essenziali e che poi facevano rinvio alle condizioni d’uso praticate
dalle banche e, in particolare, alle norme bancarie uniformi dell’ABI. Il cliente della banca non andava certo a chiedere copia delle
norme bancarie uniformi dell’ABI e restava in una condizione di asimmetria informativa. In ragione di questa prassi si spiega quindi
tale norma: la clausola dedicata ai tassi d’interesse e agli altri costi non può in alcun modo essere strutturata con un rinvio a fonti
esterne. Inoltre, anche se il contratto prevede una clausola esplicita ed espressa sul tasso d’interesse e altri prezzi e condizioni, questa
clausola non deve contemplare prezzi e condizioni diversi da quelli pubblicizzati.
Il legislatore si preoccupa non solo di disciplinare il contenuto del contratto, ma anche di regolare tutta una serie di obblighi
precontrattuali di informativa. L’art. 116 disciplina infatti la pubblicità: le banche e gli intermediari finanziari rendono noti in
modo chiaro i tassi d’interessi, i prezzi e le altre condizioni economiche relative alle operazioni e ai servizi offerti, ivi compresi gli
interessi di mora e le valute applicate per l’imputazione degli interessi. Vi è poi una disciplina più analitica della Consob (l’Autorità
Amministrativa Indipendente che vigila sulle attività bancarie) e del CICR (il Comitato Interministeriale del Credito e del Risparmio)
che prevedono specificamente i modelli di pubblicità che devono essere somministrati alla potenziale clientela. La legge non entra
quindi eccessivamente nel dettaglio, i dettagli più strettamente operativi sono demandati alle autorità amministrative indipendenti e
governative che, costituendo una commissione di esperti, regolano in modo preciso tali questioni (ad esempio, fornendo l’elenco di
informazioni pubblicitarie che devono di volta in volta essere trasmesse al potenziale cliente).
La seconda parte del comma 6 si occupa del caso in cui tassi d’interessi, prezzi e altre condizioni sono stati previsti ma in modo
difforme rispetto a quelli pubblicizzati. Il legislatore interviene con una nullità: se fosse possibile pattuire delle clausole con condizioni
gravanti sul cliente difformi da quelle pubblicizzate, non avrebbe senso l’attività di pubblicità. La pubblicità è un’attività
precontrattuale che deve consentire la necessaria ponderazione di un’offerta contrattuale da parte di un soggetto che non ha una
competenza tecnica specifica su quella determinata operazione, è uno degli elementi con cui si intende combattere l’asimmetria
informativa. In questo caso vi è quindi nullità delle clausole difformi rispetto a quelle pubblicizzate.
Se è nulla la clausola sul tasso d’interesse del finanziamento o sui costi dell’operazione contrattuale, che cosa succede al contratto?
Rispondendo a questa necessità e a questa esigenza, il legislatore detta precisamente quali sono gli effetti della nullità della clausola
difforme o di rinvio. In caso di inosservanza del comma 4 (quando non è stato previsto il tasso d’interesse) oppure nelle ipotesi di
nullità indicate nel comma 6 (quando le condizioni sono difformi rispetto a quelle pubblicizzate oppure rinviano ad una fonte esterna),
la legge detta delle norme dispositive e quindi sostitutive. Sul tasso d’interesse, si applica il tasso nominale minimo e quello massimo,
rispettivamente per le operazioni attive e per quelle passive, dei buoni ordinari del tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente
indicati dal Ministro dell’economia e delle finanze, emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto o, se più̀ favorevoli
per il cliente, emessi nei dodici mesi precedenti lo svolgimento dell’operazione. Si va a vedere il tasso dei BOT dei dodici mesi
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precedenti e se il cliente della banca è debitore e deve pagare gli interessi, allora si applica il tasso d’interesse minimo degli ultimi
dodici, quindi un tasso d’interesse favorevole per il cliente; se invece il cliente è creditore della banca (ad esempio in un rapporto di
conto corrente la banca potrebbe pagare degli interessi sul deposito), allora la banca sarà tenuta a pagare il tasso d’interesse massimo
degli ultimi dodici mesi di BOT. Sui tassi d’interesse abbiamo una regola dispositiva suppletiva.
Per i tassi d’interesse ci sono dei criteri per una determinazione del tasso interesse generale e il criterio è il tasso d’interesse BOT degli
ultimi dodici mesi, per gli altri prezzi e condizioni e quindi per le commissioni da pagare alla banca non c’è un indicatore oggettivo ed
astratto che possa essere utilizzato. Si deve quindi trovare un altro criterio alternativo: si applicano gli altri prezzi e condizioni
pubblicizzati per le corrispondenti categorie di operazioni e servizi al momento della conclusione del contratto o, se più̀ favorevoli per
il cliente, al momento in cui l’operazione effettuata o il servizio viene reso. Si applicano quindi le condizioni pubblicizzate che erano
nelle brochures informative.
Potrebbe tuttavia capitare che le condizioni non siano state pubblicizzate e quindi che la banca si sia resa protagonista di una
violazione dell’imposizione degli obblighi pubblicitari. Per quest’ipotesi, in cui sarebbe impossibile trovare i prezzi e le condizioni da
applicare e quindi una disciplina sostitutiva, la legge stabilisce che in mancanza di pubblicità̀ nulla
dovuto. Tale sistema ha
un’efficacia deterrente per la banca: se resta omertosa sia in fase di pubblicità sia in successiva fase contrattuale assicura un servizio
bancario sostanzialmente a titolo gratuito. Il contratto resta valido ma gratuito per il soggetto cliente, che sarà tenuto a pagare il tasso
d’interesse BOT minimo, ma non pagherà commissioni.
Contratti di credito al consumo
Si tratta di contratti bancari prestati a favore dei consumatori: la banca stipula un contratto bancario di finanziamento destinato a un
consumatore che deve acquistare beni di consumo.
Questa disciplina ha una fonte comunitaria: ben due direttive comunitarie negli anni ’90 e negli anni 2000 sono intervenute per
introdurre, nell’ambito della disciplina generale del contratto bancario, la disciplina speciale del contratto bancario di credito al
consumo. Agli albori di questa legislazione protettiva del consumatore cliente della banca, vi era stata una discussione: alcuni
ritenevano che la disciplina del credito al consumo dovesse essere inserita nel Codice del Consumo; mentre altri sostenevano che i
contratti di credito al consumo dovessero essere disciplinati nell’ambito del TUB e che quindi prevalesse l’aspetto di specialità dato
dalla stipulazione di un contratto con la banca. Oggi la disciplina del credito ai consumatori la troviamo nel TUB, Capo II: l’aspetto
tecnico della normazione bancaria è centrale e quindi l’attenzione di una disciplina coerente nell’ambito della disciplina generale dei
contratti bancari è la preoccupazione più stringente del legislatore.
L’art. 121 comincia con delle definizioni:
• contratto di credito: indica il contratto con cui un finanziatore concede o si impegna a concedere a un consumatore un credito sotto
forma di dilazione di pagamento, di prestito o di altra facilitazione finanziaria. La nozione di contratto di credito sembra una
definizione molto ampia, che sembra contenere quasi tutto il novero dei contratti di finanziamento. Sarà importante vedere come,
nelle norme successive, fondamentale è il concetto di esclusione (ad esempio, il mutuo ipotecario per l’acquisto di un immobile). Al
netto delle esclusioni, la disciplina di credito al consumo è una disciplina di portata piuttosto larga.
• contratto di credito collegato” indica un contratto di credito finalizzato esclusivamente a finanziare la fornitura di un bene o la
prestazione di un servizio specifici se ricorre almeno una delle seguenti condizioni: i) il finanziatore si avvale del fornitore del bene
o del prestatore del servizio per promuovere o concludere il contratto di credito; ii) il bene o il servizio specifici sono esplicitamente
individuati nel contratto di credito.
Si parla di mutuo di scopo, finalizzato quindi ad uno scopo determinato. Spesso è lo stesso soggetto venditore che indica il soggetto
finanziatore, la società finanziaria, si pensi all’acquisto di un’automobile. Il soggetto finanziatore sarà ovviamente un soggetto
diverso da quello che vende il bene, perché dev’essere abilitato all’esercizio dell’attività bancaria. Il finanziatore dà i soldi solo con
un vincolo di destinazione: quel denaro dev’essere utilizzato per acquistare quello specifico bene indicato nel contratto.
In adempimento delle direttive comunitarie, il legislatore detta tutta una serie di norme che si applicano a tutti i contratti di credito al
consumo in senso generale e alcune regole che si applicano solo ai contratti di credito al consumo collegati.
Siccome la definizione di credito al consumo è molto ampia, allora è importante l’art. 122 che delinea tutta una serie di esclusioni ed
eccezioni che tolgono dall’area applicativa protettiva molti casi di finanziamento della banca al consumatore.
Le disposizioni del presente capo si applicano ai contratti di credito comunque denominati, a eccezione dei seguenti casi:
• finanziamenti di importo inferiore a 200 euro o superiore a 75.000 euro. Ai fini del computo della soglia minima si prendono
in considerazione anche i crediti frazionati concessi attraverso pi contratti, se questi sono riconducibili a una medesima
operazione economica.
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Sotto i 200 euro il finanziamento è talmente esiguo che sarebbe antieconomico imporre una serie di obblighi particolari per un micro
contratto; sopra i 75.000 viene meno la logica protettiva del contratto del consumatore.
• finanziamenti nei quali escluso il pagamento di interessi o di altri oneri;
• finanziamenti a fronte dei quali il consumatore
tenuto a corrispondere esclusivamente commissioni per un importo non
significativo, qualora il rimborso del credito debba avvenire entro tre mesi dall’utilizzo delle somme;
• finanziamenti garantiti da ipoteca su beni immobili;
Le esclusioni riguardano o contratti molti esigui per il consumatore oppure contratti che postulano un’operazione che non è
riconducibile ad un’ordinaria operazione di consumo meritevole di protezione.
Gli artt. 123 e seguenti si occupano delle questioni relative alle tecniche di tutela in capo al consumatore che stipula un contratto di
credito al consumo. È questo uno dei casi più plastici e chiari di come la tutela del contratto asimmetrico si muove su canoni
eterogenei, a diversi livelli: ci sono diversi rimedi a tutela del consumatore.
Primo livello di protezione
Il primo livello di tutela è la pubblicità, vi è un obbligo di pubblicità. La pubblicità è il momento in cui viene immesso sul mercato il
prodotto. La pubblicizzazione deve essere funzionale a superare le asimmetrie informative proprie di queste stipulazioni contrattuali.
L’art. 123 afferma che fermo restando quanto previsto dalla parte II, titolo III, del Codice del consumo, gli annunci pubblicitari che
riportano il tasso d’interesse o altre cifre concernenti il costo del credito indicano le seguenti informazioni di base, in forma chiara,
concisa e graficamente evidenziata con l’impiego di un esempio rappresentativo:
a) il tasso d’interesse, specificando se fisso o variabile, e le spese comprese nel costo totale del credito;
b) l’importo totale del credito;
c) il TAEG;
d) l’esistenza di eventuali servizi accessori necessari per ottenere il credito o per ottenerlo alle condizioni pubblicizzate, qualora i
costi relativi a tali servizi non siano inclusi nel TAEG in quanto non determinabili in anticipo; quindi se ci sono delle condizioni
particolari, anche di tipo soggettivo (ad esempio, crediti agevolati per giovani di età inferiore a 30 anni);
e) la durata del contratto, se determinata;
f) se determinabile in anticipo, l’importo totale dovuto dal consumatore, nonché́ l’ammontare delle singole rate.
g) Alcune di queste informazioni postulano già un contratto con il singolo cliente. Vi è quindi una sovrapposizione tra due livelli di
pubblicità, uno più generale e uno individuale.
Inoltre, la Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del CICR, precisa le caratteristiche delle informazioni da includere negli
annunci pubblicitari e le modalità della loro divulgazione. Quella dell’intermediazione finanziaria è una disciplina molto tecnica e
analiticamente complessa, per cui legislatore non può mettere tutto questo eccesso di analisi in un testo di legge che deve avere la sua
efficacia anche nella brevitas. Ecco perché in questi ambiti il legislatore prevede che, per quel che riguarda la regolamentazione
attuativa più di dettaglio, intervengano altri soggetti: autorità amministrative indipendenti o autorità ministeriali e governative che,
delegate dal legislatore primario, sono incaricate di dettare regole specifiche in coerenza con la disciplina generale di legge. La Banca
d’Italia, la Consob e il CICR si occupano esclusivamente delle tematiche dell’intermediazione finanziaria e dei particolari tipi di
contratto bancario. Pertanto, la delega del legislatore primario si impone anche per ragioni di efficienza della normazione.
Secondo livello di protezione
Il secondo livello di tutela è sempre di tipo precontrattuale e riguarda gli obblighi precontrattuali. È questo un livello più avanzato
perché, mentre la pubblicità viene svolta anche se non è stato individuato un soggetto con cui trattare e ha quindi destinatari
indeterminati (sembra quasi un’offerta al pubblico, anche se poi non si è vincolati a stipulare il contratto), l’adempimento degli
obblighi precontrattuali si ha quando l’intermediario entra in trattativa con il soggetto interessato. Una volta concretizzato il
destinatario dell’operazione, si prevedono all’art. 124 degli obblighi contrattuali molto intensi: se nel Codice Civile abbiamo obblighi
precontrattuali basati sulla clausola generale di buona fede, il modello del TUB è totalmente diverso perché si prevedono una serie di
obbligazioni analiticamente determinate in capo al professionista. In quest’ambito, il finanziatore o l’intermediario del credito è tenuto
ad assicurare un livello ed una completezza delle informazioni di assoluto rilievo. A tal proposito, il finanziatore o l’intermediario del
credito, sulla base delle condizioni offerte dal finanziatore e, se del caso, delle preferenze espresse e delle informazioni fornite dal
consumatore, forniscono al consumatore, prima che egli sia vincolato da un contratto o da un’offerta di credito, le informazioni
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necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato, al fine di prendere una decisione informata e
consapevole in merito alla conclusione di un contratto di credito.
Si vuole consentire una compiuta comparazione tra le diverse offerte sul mercato in modo tale che si consolidino sul mercato solo le
offerte migliori e che il sistema complessivo di scelte di mercato da parte del consumatore abbia una maggiore efficienza. Ciò migliora
anche l’offerta del prodotto. Le informazioni sono fornite prima della stipulazione del contratto e sono fornite dal finanziatore o
dall’intermediario del credito su supporto cartaceo o su altro supporto durevole attraverso il modulo contenente le “Informazioni
europee di base sul credito ai consumatori”. Anche in questo caso il legislatore delega autorità amministrative ad elaborare, con
componenti tecniche significative, un modulo dove punto per punto sono illustrati i diversi livelli di informazione necessari per una
scelta efficiente del consumatore. Il fatto stesso che ci sia questo modulo fa sì che sia più facile la comparazione: il modulo è il
medesimo per i diversi finanziatori e quindi il consumatore ha modo di confrontare per ogni punto la diversità di offerta che proviene
tra diversi intermediari o finanziatori. Inoltre, gli obblighi informativi di cui al comma 1 si considerano assolti attraverso la consegna
di tale modulo. Il finanziatore o l’intermediario forniscono qualsiasi informazione aggiuntiva in un documento distinto, che può̀ essere
allegato al modulo.
Su richiesta, al consumatore
fornita gratuitamente copia della bozza del contratto di credito, salvo che il finanziatore o
l’intermediario del credito, al momento della richiesta, non intenda procedere alla conclusione del contratto di credito con il
consumatore.
È possibile che il consumatore chieda chiarimenti o informazioni aggiuntive rispetto a quelle presenti del modulo: il finanziatore o
l’intermediario del credito forniscono al consumatore chiarimenti adeguati, in modo che questi possa valutare se il contratto di
credito proposto sia adatto alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria. Si passa da un piano di informazione generalizzata ed
oggettiva ad un adeguamento di questa informazione rispetto ad eventuali esigenze specifiche rappresentate dal consumatore al
finanziatore. Viene quindi tutelato anche questo profilo di soggettività.
Infine, per dettagli ulteriori c’è quindi un rinvio alla disciplina della Banca d’Italia che, in conformità̀ alle deliberazioni del CICR,
detta disposizioni di attuazione del presente articolo, con riferimento a:
-
il contenuto, i criteri di redazione, le modalità̀ di messa a disposizione delle informazioni precontrattuali;
-
le modalità̀ e la portata dei chiarimenti da fornire al consumatore, anche in caso di contratti conclusi congiuntamente;
-
gli obblighi specifici o derogatori da osservare nei casi di: comunicazioni mediante telefonia vocale; aperture di credito regolate in
conto corrente; dilazioni di pagamento non gratuite e altre modalit agevolate di rimborso di un credito preesistente, concordate tra
le parti a seguito di un inadempimento del consumatore; offerta attraverso intermediari del credito che operano a titolo accessorio.
All’art. 124 bis si tratta un tema molto importante che riguarda la verifica del merito creditizio. Solitamente, i flussi informativi vanno
dal professionista al consumatore. Nel caso di contratti di credito, vi è una particolarità che è legata alla particolarità del prodotto che
si sta vendendo: il soggetto finanziato è obbligato ad una restituzione delle somme ricevute. Il legislatore vuole evitare che la
concessione del credito avvenga anche fra soggetti che realisticamente non meritano il credito, nel senso che non sono in grado
economicamente di sostenere gli obblighi restitutori. Ecco che allora si impone un obbligo informativo che va nella direzione opposta:
il finanziatore non solo deve dare informazioni sul proprio prodotto, ma deve acquisire informazioni dal potenziale cliente finanziato
per capire se questo meriti o meno quel credito. Prima della conclusione del contratto di credito, il finanziatore valuta il merito
creditizio del consumatore, sulla base di informazioni adeguate fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute da una Banca
Dati pertinente. La verifica del merito creditizio nel caso di contratti a tempo indeterminato può essere anche continuativa. Qui
l’intento non è punitivo per il consumatore, è anzi quello di evitare che il finanziatore venda prodotti di finanziamento a soggetti che
non sono in grado di gestire quel prodotto. Questo determinerebbe dei problemi per il soggetto finanziato, ma anche dei problemi più
generali di sistema del credito. C’è una preoccupazione per la tutela della posizione del consumatore, per la tutela del mercato del
credito e, indirettamente, anche del soggetto finanziatore. Le Banche dati, di cui all’art. 125, consentono di verificare efficacemente il
merito creditizio.
Terzo livello di protezione
Il terzo livello di tutela riguarda i contratti e si applicano, in termini generali, la disciplina dell’art. 117 che riguarda i contratti bancari:
norme sulla forma scritta ad substantiam, il contenuto dev’essere determinato, non ci possono essere contenuti negoziali diversi da
quelli negoziati, no rinvio agli usi. L’art. 125 bis stabilisce che i contratti di credito sono redatti su supporto cartaceo o su altro
supporto durevole che soddisfi i requisiti della forma scritta nei casi previsti dalla legge e contengono in modo chiaro e conciso le
informazioni e le condizioni stabilite dalla Banca d’Italia, in conformità̀ alle deliberazioni del CICR. Una copia del contratto
consegnata ai clienti. Inoltre, nei contratti di credito di durata gli obblighi informativi continuano per tuta la durata del rapporto: il
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finanziatore fornisce periodicamente al cliente, su supporto cartaceo o altro supporto durevole una comunicazione completa e chiara in
merito allo svolgimento del rapporto. Infine, per quanto riguarda la nullità del contratto si stabilisce che sono nulle le clausole del
contratto relative a costi a carico del consumatore che non sono stati inclusi o sono stati inclusi in modo non corretto nel TAEG
pubblicizzato nella documentazione predisposta. La nullità̀ della clausola non comporta la nullità̀ del contratto. Una disciplina simile
la troviamo all’art. 36 del Codice del Consumo, secondo cui la nullità della singola clausola non comporta la nullità dell’intero
contratto perché questo rimane valido per il resto. Il contratto sarà invece nullo se non contiene le informazioni essenziali su:
-
il tipo di contratto;
-
le parti del contratto;
-
l’importo totale del finanziamento e le condizioni di prelievo e di rimborso.
Se è nullo un contratto di finanziamento, colui che paradossalmente ci perde è il soggetto finanziato che dovrà restituire il denaro. A tal
proposito, si stabilisce che In caso di nullità̀ del contratto, il consumatore non può̀ essere tenuto a restituire più̀ delle somme utilizzate e
ha facoltà̀ di pagare quanto dovuto a rate, con la stessa periodicità̀ prevista nel contratto o, in mancanza, in trentasei rate mensili.
Questa è una norma fondamentale perché tutela il consumatore dall’eventualità di dover restituire integralmente in unica soluzione le
somme di denaro ricevute in prestito.
Quarto livello di protezione
Vi è poi un quarto livello di tutela che svolge un ruolo fondamentale: il recesso. Nei contratti a distanza e conclusi fuori dai locali
commerciali, la ragione del recesso era strettamente correlata alla modalità di conclusione del contratto, per cui era necessario dare al
consumatore un periodo di valutazione e ripensamento dell’affare. Il contratto di credito al consumo è oggetto di recesso speciale di
protezione a favore del consumatore: si ritiene che la particolare delicatezza del credito al consumo e il rischio di pratiche, da parte
delle società finanziarie, volte ad indurre il consumatore alla stipulazione di contratti sui quali non ha particolare consapevolezza
dell’eventuale peso economico che comporterebbero, consente un periodo di valutazione anche successivo alla stipulazione del
contratto. L’art. 125 ter riguarda il recesso di protezione del consumatore che si applica ad ogni tipo di contratto tra professionista e
consumatore: il consumatore può̀ recedere dal contratto di credito entro quattordici giorni; il termine decorre dalla conclusione del
contratto o, se successivo, dal momento in cui il consumatore riceve tutte le condizioni e le informazioni previste. Inoltre, consumatore
che recede:
-
ne d comunicazione al finanziatore inviandogli, prima della scadenza del termine previsto, una comunicazione secondo le
modalit prescelte nel contratto; (modulo di recesso)
-
se il contratto ha avuto esecuzione in tutto o in parte, entro trenta giorni dall’invio della comunicazione), restituisce il capitale e
paga gli interessi maturati fino al momento della restituzione, calcolati secondo quanto stabilito dal contratto. Inoltre, rimborsa al
finanziatore le somme non ripetibili da questo corrisposte alla pubblica amministrazione (ad esempio, le imposte di bollo).
Il finanziatore non può̀ pretendere somme ulteriori: il contratto non è in alcun modo soggetto ad una muta o caparra penitenziale.
Si tratta necessariamente di un recesso gratuito. Il recesso da quel contratto si estende ai contratti correlati.
Molti di questi contratti di credito al consumo, potrebbero essere contratti di durata, anche a tempo indeterminato. Può essere il caso,
ad esempio, di un’apertura di credito o di scoperti di conto corrente. Nei contratti di credito al consumo a tempo indeterminato il
recesso è quello ordinario e spetta a entrambe le parti. L’art. 125 quater riguarda il recesso ordinario dei contratti a tempo
indeterminato. In quest’ultimo caso, il legislatore vuole però porre dei limiti alle modalità di esercizio del recesso da parte della banca:
la banca può recedere, ma secondo certe regole. Nei contratti di credito a tempo indeterminato il consumatore ha il diritto di recedere
in ogni momento senza penalità̀ e senza spese. Il contratto può̀ prevedere un preavviso non superiore a un mese. Eventuali clausole che
nel contratto stabiliscano un preavviso (a meno che non sia superiore ad un mese) per recedere o il pagamento di somme di denaro a
titolo di penalità, sono nulle.
I contratti di credito a tempo indeterminato possono prevedere il diritto del finanziatore a:
-
recedere dal contratto con un preavviso di almeno due mesi, comunicato al consumatore su supporto cartaceo o altro supporto
durevole; il preavviso è ex lege, anche se non c’è nel contratto.
-
sospendere, per una giusta causa, l’utilizzo del credito da parte del consumatore, dandogliene comunicazione su supporto cartaceo
o altro supporto durevole in anticipo e, ove ci non sia possibile, immediatamente dopo la sospensione.
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Nei contratti di credito al consumo collegati c’è un nesso forte tra finanziamento e vendita del bene o servizio di consumo. Il caso
classico è quello dell’acquisto di un’automobile, per cui si potrebbe avere un ulteriore sconto se acquistata tramite finanziamento,
perché c’è anche il lucro della società finanziaria e non solo dell’impresa che vende il prodotto o servizio. Si pone un problema di
inadempimento del fornitore nel contratto di credito collegato, disciplinato dal TUB all’art. 125 quinquies. Se il bene è difettoso o non
viene consegnato, il consumatore si troverebbe paradossalmente senza bene e a dover restituire il finanziamento alla società
finanziaria. Inoltre, anche a chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno all’impresa venditrice del bene, resta
comunque valido il finanziamento e ha l’obbligo di restituire gli interessi. Persino nel caso in cui si ritenga che la risoluzione del
contratto di vendita del bene comporti anche la risoluzione del contratto di finanziamento, in quanto il contratto di finanziamento è un
contratto collegato ed accessorio, il consumatore dovrà comunque restituire integralmente il finanziamento. La norma vuole
intervenire su questo sistema dettando la regola per cui l’acquirente è liberato e sarà il venditore inadempiente obbligato a restituire il
finanziamento con gli interessi pattuiti. È questa una regola speciale perché tra l’impresa venditrice e la società finanziaria non c’è un
rapporto obbligatorio. Nei contratti di credito collegati, in caso di inadempimento da parte del fornitore dei beni o dei servizi il
consumatore, dopo aver inutilmente effettuato la costituzione in mora del fornitore, ha diritto alla risoluzione del contratto di credito se
ricorrono i requisiti della risoluzione. Inoltre, La risoluzione del contratto di credito comporta l’obbligo del finanziatore di rimborsare
al consumatore le rate già̀ pagate, nonché́ ogni altro onere eventualmente applicato. La risoluzione del contratto di credito non
comporta l’obbligo del consumatore di rimborsare al finanziatore l’importo che sia stato già̀ versato al fornitore dei beni o dei servizi.
Il finanziatore ha il diritto di ripetere detto importo nei confronti del fornitore stesso.
Nei contratti di credito al consumo è molto frequente che il consumatore decida di rimborsare anticipatamente il capitale. Le banche,
interessate a percepire gli interessi, inserivano clausole con riferimento al rimborso anticipato che prevedevano il pagamento di una
sanzione per tenere vincolati i soggetti al contratto di durata fino alla scadenza. Oggi, nel contratto di credito al consumo in altri
contratti di finanziamento, ai sensi dell’art. 125 sexies, il consumatore può rimborsare anticipatamente. Il consumatore può̀ rimborsare
anticipatamente in qualsiasi momento, in tutto o in parte, l’importo dovuto al finanziatore. In tal caso il consumatore ha diritto a una
riduzione del costo totale del credito, pari all’importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto. In caso di
rimborso anticipato, il finanziatore ha diritto ad un indennizzo equo ed oggettivamente giustificato per eventuali costi direttamente
collegati al rimborso anticipato del credito. L’indennizzo non pu superare l’1 per cento dell’importo rimborsato in anticipo, se la vita
residua del contratto
superiore a un anno, ovvero lo 0,5 per cento del medesimo importo, se la vita residua del contratto
pari o
inferiore a un anno. In ogni caso, l’indennizzo non pu superare l’importo degli interessi che il consumatore avrebbe pagato per la vita
residua del contratto
Il grande vantaggio del rimborso anticipato è che gli interessi sono pagate fino alle rate che sono state corrisposte, mentre sulle rate
successive che vengono rimborsate in unica soluzione e anticipatamente non vengono conteggiati gli interessi.
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4.1. PREMESSA: LA TUTELA DEI DIRITTI
Storicamente i diritti spettano agli individui come singoli: a ciascuno spetta il potere di decidere se tutelare il proprio diritto e come
agire a difesa dello stesso. In generale, viene considerato il singolo titolare del diritto il migliore arbitro dei propri interessi: nessun
soggetto, diverso dal titolare del diritto, è normalmente abilitato per decidere come e se agire per la tutela di quei diritti che non gli
appartengano. Tali premesse sono importanti per avvicinarci a un discorso che tratta dei diritti in modo diverso.
La ragione, per cui di norma spett aal titolare decidere della tutela giurisdizionale dei suoi diritti, e non ad altri, è che l'ordinamento
considera il titolare il miglior arbitro dei propri interessi (secondo quanto previsto dall'art. 81 c.p.c.).
In particolare, si pone un caso: un’impresa che produce bevande gasate inserisce in ciascuna bottiglia che mette sul mercato un
quantitativo di bevanda leggermente inferiore rispetto a quello che è pubblicizzato sull’etichetta. In casi di questo genere, sempre più
frequenti in un mondo globalizzato e in mano ad imprese multinazionali, il singolo patisce un danno molto piccolo, tale per cui non ha
interesse e non è incentivato ad agire per ottenere il ristoro di quel pregiudizio. L’impresa che acquisisce un vantaggio illecito non
pagherà mai il danno e continuerà un comportamento di questo tipo, a discapito dei consumatori.
Si pone quindi il problema di come tutelare i casi in cui ci siano danni di lieve entità ma che valgono per una grande quantità di
soggetti. Lo schema tradizionale della tutela individuale, del diritto del singolo tutelato a iniziativa del singolo stesso, non funziona.
In America
A questo tipo di problemi, ha risposto per primo l’ordinamento degli Stati Uniti d’America come paese più evoluto dal punto di vista
economico. E ha risposto con una norma, introdotta già nel 1938, nota come Rule 23 e intitolata Class Action (azione di classe o, più
propriamente, azione di gruppo).
Ai sensi di questa norma, uno o più membri di un gruppo può agire in giudizio in nome di tutti i membri. Tale regola implica una
deroga forte al principio tradizionale, per cui solo il soggetto interessato può agire per tutelare i propri diritti ed è giustificata dal
criterio della comunanza di fatto o di diritto, cioè una questione di fatto o di diritto che è in comune ai membri di uno stesso gruppo.
Questo giustifica quindi la tutela dei cittadini o dei consumatori nei casi in cui vi è una comunanza di fatto.
• es. Un esempio di una comunanza di fatto può essere un incidente aereo nel quale il fatto è unico e ci sono diversi feriti e vittime. I
vari soggetti potranno agire non già ciascuno per il proprio caso singolo per il risarcimento ma un membro della classe per tutelare
tutti gli altri danneggiati nell’incidente aereo in quanto è comune la circostanza di fatto.
• es. Un esempio di comunanza nella questione di diritto è il caso di regolamenti discriminatori e razzisti che erano stati emanati negli
anni ’50 negli USA, per contrastare i quali il padre di un ragazzo nero aveva agito non soltanto per tutelare il proprio figlio, ma
anche per tutti gli altri figli di persone di colore. Un altro esempio in cui è presente la questione di diritto (ma non di fatto) è quella di
un’impresa che mette sul mercato delle automobili difettose. Anche in questo caso, negli anni ’70 in America agirono dei soggetti
non solo per tutelare il diritto al risarcimento della propria situazione, ma anche quella di tutti gli altri soggetti. In questi casi il fatto
non è unico, ma è comune la questione di diritto, ossia il carattere discriminatorio dei regolamenti scolastici ovvero la vendita
dell’auto difettosa.
La Class Action in America si è rivelata uno strumento estremamente potente per tutelare i consumatori, e in generale i cittadini, contro
la grande industria. Si può dire che esso rappresenti l”incubo” delle multinazionali, sulla base di tre considerazioni:
-
La forza principale della Class Action è quella di consentire un risarcimento nei confronti di tutti i membri della classe. Ad agire
è il singolo, quindi la sua attività è estremamente snella, tuttavia la portata e gli effetti della sentenza non sono limitati al soggetto
che agisce, ma a tutti i membri della classe che si trovano in una situazione di fatto o di diritto comune. Ciò significa ottenere il
diritto a risarcire cifre milionarie che coprano l’intero danno commesso dall’impresa e non solo il singolo danno;
-
Il giudice non condanna soltanto a risarcire i danni effettivi, i cosiddetti danni compensativi, cioè quelli idonei a ristorare il
danno emergente e il lucro cessante (il pregiudizio economico effettivamente patito), ma anche i cosiddetti danni punitivi, che
hanno un effetto deterrente (danni sovracompensativi). In questo modo, l’impresa potrebbe essere dissuasa dal compiere
comportamenti analoghi in futuro. Questa è una caratteristica propria dell’ordinamento statunitense.
-
Incentivo alle transazioni. Le imprese preferiranno quindi pagare una somma elevata, accordandosi con i danneggiati, senza
attendere l’esito del processo per evitare condanne ancor più disastrose. Questo avvantaggia non solo l’impresa, ma anche i
cittadini e i consumatori che avranno una risposta molto più rapida e snella.
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In Italia
Sull’onda della fortunata esperienza della Class Action statunitense, anche in Italia, a partire dagli anni ’70, si comincia a discutere
dell’opportunità di introdurre strumenti analoghi nell’ordinamento italiano. Tuttavia, il primo strumento che vagamente assomiglia a
quello statunitense viene introdotto negli anni ’80, attraverso una legge del 1986 istitutiva del Ministero dell’Ambiente che si riferisce
soltanto agli illeciti ambientali: non è una tutela generalizzata, ma riguarda solamente le lesioni all’ambiente.
Soltanto lo Stato è legittimato ad agire per il risarcimento del danno ambientale (in un primo tempo, anche gli enti territoriali, Comuni
e Regioni, erano legittimati ad agire per il risarcimento del danno, ma questa possibilità è stata successivamente abolita) non i singoli
cittadini appartenenti al gruppo dei danneggiati: lo Stato in un certo senso risulta titolare del bene pubblico “Ambiente”.
Ai singoli rimane soltanto la possibilità di agire in modo indiretto stimolando il Ministero ad intervenire.
La prima forma di tutela propriamente collettiva viene introdotta nell’ordinamento italiano nel 1996, in attuazione della direttiva
europea 93/13 sulle clausole abusive nei contratti tra consumatore e professionista. In forza di tale direttiva è stato introdotto
nell’ordinamento italiano il rimedio della nullità protettiva, previsto dall’odierno art. 36 del Codice del Consumo che ha carattere
individuale, perché ad agire per far valere la nullità è il singolo consumatore e successivo, nel senso che il singolo consumatore può
agire soltanto quando è stato stipulato da parte sua un contratto contenente una clausola abusiva.
Tuttavia, la direttiva europea non si limita a prevedere questo tipo di rimedio, ma ne prevede anche un altro: l’art. 7, comma 1 della
direttiva 93/13 impone agli stati di fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti tra
professionista e consumatore. Tale norma impone quindi agli stati di prevedere strumenti diversi da quello individuale e successivo
della nullità, ossia strumenti che cerchino di prevenire il fenomeno. L’attuale art. 37 del Codice del Consumo prevede il cosiddetto
rimedio inibitorio, ossia una tutela:
• generale, non attivata dal singolo consumatore ma che avvantaggia la categoria dei consumatori nel suo complesso;
• preventiva, perché non vale soltanto per i contratti già stipulati nei quali è collocata una clausola vessatoria, ma può essere attivata
anche contro quei professionisti che non abbiano ancora stipulato quel contratto ma adottano delle condizioni generali di contratto
contenenti clausole abusive. È questo quindi uno strumento preventivo che vuole anche impedire la stipula successiva di contratti
abusivi con i consumatori.
TUTELA COLLETTIVA INIBITORIA
Direttiva 93/13
L’art. 7, comma 2 della direttiva 93/13 precisa che per contrastare l’inserzione di clausole abusive, gli stati membri possono
permettere a persone o organizzazioni di adire le autorità giudiziarie o gli organi amministrativi affinché stabiliscano se le clausole
contrattuali, redatte per un impiego generalizzato, abbiano carattere abusivo ed applichino mezzi adeguati ed efficaci per far cessare
l’inserzione di siffatte clausole.
La direttiva 93/13 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, interviene in seguito a delineare una delle
prime forme di tutela propriamente collettivo. In attuazione di tale direttiva viene prevista dal 1996, come abbiamo visto in passato,
l'inefficacia e poi la nullità delle clausole abusive vessatorie.
Quella invalidatoria è una tutela:
• individuale: avvantaggia il singolo consumatore che la esercita;
• successiva: postula la già avvenuta stipula di un contratto contenente la clausola abusiva di cui si fa valere la nullità.
La direttiva non si limita a stabilire che le clausole abusive non vincolano il consumatore e il cui il contratto rimane valido per il resto
ma impone agli Stati membri di tutelare i consumatori in modo completo provvedendo anche nell'interesse dei consumatori e dei
concorrenti professionali a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di clausole abusive.
In attuazione di tale previsione, il legislatore ha introdotto con l'art. 37 cod. cons. (in aggiunta a quella invalidatoria prevista dall'ex.
art. 36) una tutela generale e preventiva denominata "azione inibitoria":
• generale: perchè avvantaggia la categoria dei consumatori ne suo complesso);
• preventiva: può essere fatta valere ance prima della conclusione del contratto.
Il carattere generale preventivo dell'azione collettiva inibitoria dell'uso di clausole abusive nei contratti dei consumatori bensì adatta
all'obiettivo fissato a livello comunitario di contrastare la diffusione di clausole di questo genere.
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Il legislatore ha ritenuto di legittimare non i singoli interessati ma soltanto le associazioni di categoria portatrici di interessi collettivi.
Secondo l'art. 37 cod. cons. Sono legittimati a far valere la tutela collettiva inibitoria dell'uso di clausole abusive:
-
Le associazioni rappresentative dei consumatori, perché rappresentano a livello esponenziale l’interesse leso dai destinatari
immediati della direttiva, protetti contro qualsiasi tipo di clausola abusiva anche in via preventiva;
-
Le associazioni rappresentative di professionisti, perché anch’essi sono colpiti da un comportamento abusivo dal momento che
un’impresa che stipula con clausole vessatorie con un consumatore, acquisisce un vantaggio concorrenziale rispetto ad altri
professionisti, che sono quindi lesi. La legittimazione della CCIAA (Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura)
è stata abolita nel 2016.
Legittimazione
Legittimati a chiedere l’inibitoria sono le associazioni rappresentative dei consumatori a livello nazionale, che siano inclusi in un
apposito elenco istituito presso il ministero sviluppo economico. Per ottenere l'iscrizione le associazioni di consumatori e utenti
devono documentare il possesso dei seguenti requisiti:
-
Avvenuta costituzione e svolgimento di un’attività continuativa da almeno 3 anni e il possesso di uno Statuto a base democratica
che preveda come scopo esclusivo la tutela dei consumatori.
-
Tenuta di un elenco degli iscritti aggiornato annualmente, con l’indicazione delle quote versate direttamente dall’associazione per
gli scopi statutari.
-
Numero di iscritti non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione nazionale e una presenza sul territorio di almeno 5 regioni
(almeno 30.000 iscritti su una popolazione di 60 milioni).
-
Bilancio annuale delle entrate e delle uscite, con indicazione delle quote versate dagli associati e la tenuta dei libri contabili
conformemente alle norme vigenti in materia di contabilità delle associazioni non riconosciute.
-
Non avere tra i propri rappresentanti legali soggetti che hanno subito una condanna definitiva in relazione all’attività
dell’associazione e che essi non rivestano la qualifica di imprenditori o di amministratori d’impresa di produzione e servizi in
qualsiasi forma costituite per gli stessi settori in cui opera l’associazione. Quindi, è richiesta assenza di condanne e assenza di
conflitti d’interesse.
Ne consegue che sono legittimati ad esercitare l'azione inibitoria dell'uso di clausole abusive nei contratti dei consumatori le
associazioni sufficientemente partecipate e con una certa diffusione sul territorio, che operino da tempo allo scopo esclusivo di tutelare
i consumatori e gli utenti, offrendo garanzie di democrazia, trasparenza, legalità e imparzialità.
Contenuto della tutela
Il contenuto della tutela che tali soggetti possono attivare è l'azione inibitoria, un'azione volta a ottenere un provvedimento giudiziale
con il quale si ordina un soggetto (il professionista o l'associazione di professionisti) di astenersi da un comportamento antigiuridico
(consistente qui nell'impiego di condizioni generali di contratto abusive nei rapporti con i consumatori).
Si comprende allora in che senso presenti tale tutela in natura collettiva, in quanto l'astensione dall'utilizzo di clausole abusive
contenute in condizioni generali di contratto giova indistintamente alla collettività dei consumatori.si comprende anche perché a
differenza della tutela invalida Torio che il singolo consumatore può attivare dopo aver stipulato un contratto contenente clausole
abusive, l'inibitoria collettiva valga soltanto per le condizioni generali di contratto. Infatti la nullità colpisce le clausole abusive inserite
nel contratto concluso tra professionista e consumatore, a prescindere dalla natura standardizzata delle stesse.
Inoltre, per rafforzare l'effetto deterrente delle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, l'art. 8-ter impone agli Stati
membri di prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive da applicare in caso di violazione delle disposizioni nazionali
attuative della direttiva stessa. Tali sanzioni dovranno essere irrogate tenendo conto di una serie di indicativa di criteri, come la natura,
gravità, entità e la durata della violazione.
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Legge 281/1998
Soltanto con la legge 281/1998 viene introdotta nell’ordinamento italiano anche una tutela collettiva che non riguarda soltanto il
fenomeno delle clausole abusive, ma che può essere in generale azionata a tutela di tutti gli interessi della collettività dei consumatori.
La disciplina, poi rifluita nel codice di consumo agli artt. 139 e 140 è stata di recente abrogata dalla legge 31/2019 che ha regolato
l'inibitoria collettiva nell'ambito del codice di procedura civile, all'art. 840-sexiesdecies con l'intento di soddisfare le esigenze di
effettività della tutela giurisdizionale a livello comunitario..
Tratti caratteristici dell'azione inibitoria collettiva di cui agli abrogati art. 139/140 (che tuttavia continua ad applicarsi alle condotte
illecite poste in essere prima del 19 novembre 2020) sono una legittimazione ad agire esclusiva degli enti esponenziali è un ambito di
applicazione circoscritto i consumatori ed utenti: limiti che sono venuti meno nel segno appunto dell'effettività della tutela
L’art. 139 del Codice del Consumo faceva riferimento tramite il rinvio agli interessi elencati all’art. 2 dello stesso Codice del
Consumo, ai sensi del quale sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori, ne è
promossa la tutela in sede nazionale e locale anche in forma collettiva e associativa. I diritti tutelati erano: il diritto alla tutela della
salute, alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi; a un’adeguata informazione e a una corretta pubblicità; all’esercizio delle
pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà; all’educazione al consumo, alla correttezza, trasparenza ed
equità dei rapporti contrattuali; alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra ii
consumatori; all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza. La tutela collettiva interviene dunque ad
inibire le condotte che si pongono in contrasto con questi fondamentali diritti.
La disciplina dell'inibitoria collettiva è stata oggi trasferita nel codice procedura civile: una scelta che de nota l'intenzione legislativa di
sottrarre lo strumento al settore del consumo per promuoverlo istituto del diritto comune.non a caso è scomparso ogni riferimento è
diritti collettivi, si parla infatti di una inibitoria di atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o
enti. Ciò consente di immaginare un impiego della tutela collettiva infatti specie nelle quali essere pregiudicati non sono i consumatori
anche al di fuori dell'ipotesi tipiche contemplate in precedenza tramite il riferimento alla violazione di discipline specifiche poste a
tutela degli utenti.
Legittimazione
Mentre inizialmente la disciplina indicava soltanto gli enti esponenziali e le sensazioni di consumatori e utenti rappresentative a livello
nazionale, alla luce della nuova disciplina sono legittimati a proporre l'azione collettiva le organizzazioni o le associazioni senza scopo
di lucro i cui obiettivi statuari comprende la tutela degli interessi pregiudicati dalla condotta purché iscritti nell'elenco pubblico istituito
presso il ministero della giustizia a cui fa riferimento l'art. 840-bis c.p.c.
I requisiti sono la verifica:
• Delle finalità programmatiche e dell'adeguatezza rappresentare tutelare i diritti omogenei azionati dalle organizzazioni associazioni
• Della stabilità e della continuità delle stesse
• Delle fonti di finanziamento utilizzate
Non essendo prevista alcuna forma di coordinamento anche le associazioni di consumatori utenti rappresentative a livello nazionale,
legittimati a esercitare la vecchia inibitoria collettiva, dovranno chiedere l'iscrizione nel nuovo elenco istituito presso il ministero della
giustizia.Sono altresì legittimati ad agire, e questa è la significativa novità, i singoli membri della categoria alla quale fa capo
l'interesse collettivo, a fronte del fatto che la norma ammette ora di agire chiunque abbia interesse alla pronuncia di una inibitoria di
atti e comportamenti.l'azione può dunque dirsi collettiva anche sotto il profilo della legittimazione, con il venir meno del monopolio
degli enti esponenziali.
Queste novità se da una parte faciliterà l'emersione di violazioni di rilevanza locale che rischierebbero altrimenti di sfuggire
all'attenzione dell'organizzazione nazionale, potrebbe del Paris intasare il sistema di richieste pretestuose avanzate da individui che si
fanno portavoce di interessi non aventi in realtà natura collettiva.
Contenuto della tutela inibitorio/riparatorio
Che cosa possono chiedere al giudice i soggetti legittimati? Quali rimedi possono ottenere?
A tale domanda risponde l’art. 140 del Codice del Consumo che prevede in tre lettere quello che è il contenuto dell’inibitoria:
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a)
Inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti. L’essenza della tutela inibitoria è quella
di un ordine rivolto alle imprese interessate di cessare il comportamento adottato in violazione delle norme legislative. È quindi
una tutela che guarda al futuro e che vuole impedire il replicarsi della condotta lesiva dei consumatori.
b) Ottenere l’adozione di misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate: Fa parte della
tutela collettiva anche un contenuto non propriamente inibitorio, ma riparatorio o ripristinatorio che serve a riparare gli effetti
dannosi che si sono prodotti nel passato in ragione della condotta illecita.
c)
Ordinare la pubblicazione del provvedimento con cui accerta l’infrazione da parte delle imprese coinvolte. Ciò avviene nei casi
in cui la pubblicità dello stesso può contribuire a eliminare o correggere gli effetti delle violazioni accertate.
L'art. 840-sexiesdecies propone ora la bipartizione fra tutela inibitoria (ordine di cessazione ovvero divieto di reiterazione della
condotta omissiva o commissiva) e tutela ripristinatore/riparatoria (adozione su richiesta delle parti di misure idonee ad eliminare o
ridurre gli effetti delle violazioni accertate).
.Per essere effettiva la tutela inibitoria e postula qualche meccanismo che renda coercibile l'ordine di cessare le condotte antigiuridiche.
Diversamente il destinatario del provvedimento che già avrebbe dovuto uniformare la propria condotta alle prescrizioni normative,
potrebbe continuare a violare la legge anche in presenza di una condanna inibitoria a lui specificatamente rivolta.
In tal senso il giudice, al co. 7 dell'abrogato art. 140, dopo aver fissato un termine per l'adempimento degli obblighi stabiliti può, anche
su domanda della parte che ha agito in giudizio, disporre il pagamento di una somma di denaro da 516 € a 1032 € per ogni
inadempimento o ogni giorno di ritardo rapportata alla gravità del fatto. Questo deriva dal fatto che non potendosi in un ordinamento
democratico impedire materialmente al professionista di comportarsi in un certo modo, si ricorre a un meccanismo indiretto di
dissuasione obbligandolo a versare una certa somma di denaro per ogni giorno in cui egli continua essere inottemperanti: obbligo,
quest'ultimo, in grado di essere direttamente eseguito dall'ufficiale giudiziario anche contro la volontà dell'obbligato tramite
l'espropriazione forzata dei suoi beni.
Tale meccanismo a partire il 2009 è stato previsto in generale dall'articolo 614-bis per cui salvo che ciò sia manifestamente iniquo il
giudice fissa con il provvedimento di condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, la somma di
denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento.
Ulteriore differenza è la mancata previsione di un tetto massimo per le misure di coercizione indiretta che invece era prevista nella
vecchia inibitoria collettiva.nelle nuove versioni viene definito che nel quantificare la somma dovuta dall'obbligato il giudice dovrà
tener conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza
utile.
Si pongono ora due interrogativi finali:
-
A che cosa serve ottenere una condanna inibitoria, cioè una condanna che specifica un dovere generale già gravante sui
professionisti di non ledere gli interessi dei consumatori? In concreto, che vantaggio può avere la collettività dei consumatori, dato
che l’impresa potrebbe, subita la condanna, continuare ad adottare lo stesso comportamento lesivo?
La risposta è fornita dall’attuale art. 140, comma 7 del Codice del Consumo, ai sensi del quale il giudice dispone, in caso di
inadempimento, il pagamento di una somma da 516 euro a 1032 euro per ogni inadempimento o ogni giorno di ritardo. Tale
somma crescerà nel tempo e quindi induce l’impresa a conformarsi all’ordine inibitorio, che quindi assume una forte valenza
pratica. Questa è una norma molto importante dal punto di vista pratico, si tratta della cosiddetta coercizione indiretta (o
astreinte, secondo il sistema francese). Se un soggetto è obbligato a pagare una somma, ad esempio per risarcire un danno, può
facilmente essere spinto ad adempiere perché, nel caso in cui non estingua spontaneamente il proprio debito, può ottenere una
esecuzione diretta di quel diritto attraverso l’espropriazione dei propri beni. Quindi, il soggetto avvantaggiato potrà rivalersi sul
patrimonio del debitore. Se il soggetto non è chiamato a pagare una somma, ma solo a smettere di comportarsi in un certo modo,
non c’è modo di impedirglielo con la forza. Pertanto, in assenza di una possibile esecuzione diretta, si attua una cosiddetta
coercizione indiretta.
-
Il secondo interrogativo riguarda le cosiddette misure riparatorie o ripristinatorie. Ci si è infatti domandati se tra le misure che il
giudice può adottare accogliendo l’azione inibitoria, rientra la possibilità di condannare al risarcimento del danno o alla
restituzione di somme. Queste ipotesi riguardanti somme monetarie rientrano fra quelle che sono le misure riparatorie che può
ordinare il giudice?
La risposta data dalla giurisprudenza è negativa: dal punto di vista concettuale, la tutela inibitoria è una tutela collettiva che
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guarda alla protezione di un interesse collettivo, ossia di un interesse indifferenziato di tutti i consumatori. Tutti i consumatori in
modo indifferenziato hanno interesse a che un certo comportamento che lede la comunità dei consumatori stessi cessi, anche i
soggetti, ad esempio, che non hanno acquistato un certo bene difettoso. La tutela risarcitoria è per sua natura una tutela che non
ristora un interesse collettivo, ma un interesse individuale: anche se la condotta fosse unica, ognuno ha il diritto al ristoro di diritti
che sono inevitabilmente diversi, perché riguardano quel preciso pregiudizio che ha colpito la sua sfera personale. Si esclude
pertanto che tra le misure riparatorie o ripristinatorie che possono essere adottate ci sia quella del risarcimento del danno,
che è invece la forma di tutela principale ed è la ragione della forza della Class Action negli USA.
Ciò non significa che sia del tutto inutile esperire l’azione collettiva inibitoria, rispetto allo scopo di tutelare il diritto al risarcimento
del danno o alla restituzione vantati dai singoli: il singolo che possa avere una condanna inibitoria nei confronti di una certa impresa,
che è stata quindi resa sulla base di un’attività dell’associazione rappresentativa dei consumatori, potrà avvalersi di quel giudizio
collettivo per far valere con estrema facilità il proprio diritto conseguente al risarcimento del danno o alla restituzione di somme. Il
soggetto non dovrà individualmente provare l’illiceità del comportamento dell’impresa, che è già stato provato dal giudice che ha
accolto l’inibitoria, ma dovrà semplicemente dimostrare la quantificazione del danno che lo riguarda.
Riassumendo:
La tutela collettiva nasce negli USA come possibilità di un membro della classe o gruppo dei danneggiati per chiedere il risarcimento a
nome di tutti, la cosiddetta Class Action. Si tratta di una tutela pensata per i casi in cui un danno colpisce numerosi soggetti (ad
esempi, un episodio di inquinamento). In Italia, dal 1986 vi è una disciplina specifica degli illeciti ambientali: la tutela è risarcitoria,
come in America, ma legittimati ad agire davanti al giudice non sono i singoli danneggiati, ma soltanto lo Stato. si tratta di una tutela
piuttosto limitata dal punto di vista della legittimazione. Dal 1996, in attuazione della direttiva 93/13, esiste un’azione effettivamente
collettiva per tutelare i consumatori contro le clausole abusive proposte dai professionisti. In questo caso, la legittimazione è molto più
ampia: non i singoli, ma le associazioni di consumatori rappresentative a livello nazionale e persino le associazioni di professionisti e
le Camere di Commercio. La tutela non è risarcitoria, ma inibitoria. Le stessa caratteristiche presenta la tutela collettiva generale dei
consumatori, che è stata introdotta nel 1998, con la differenza che legittimati a ricorrere di fronte all’autorità giudiziaria sono soltanto
le associazioni di consumatori rappresentative a livello nazionale e restano sempre esclusi dalla legittimazione i singoli.
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4.2. TUTELA COLLETTIVA RISARCITORIA
Abbiamo visto che la forza della Class Action negli Stati Uniti è quella di consentire, a favore dei consumatori e dei cittadini in
generale dei risarcimenti milionari contro le grandi imprese. La tutela collettiva sorta in Italia a metà degli anni ’90 ha invece un
carattere meramente inibitorio: non è infatti possibile, dal punto di vista tecnico, riconnettere conseguenze risarcitorie da un’azione
inibitoria.
Successivamente, alcuni episodi significativi nell’esperienza italiana hanno fatto emergere l’esigenza di rendere più forte la tutela
collettiva anche nell’ordinamento italiano. In particolare, occorre fare riferimento al noto caso del Banco di Lodi che si era reso
famoso per aver prelevato di nascosto e indebitamente piccole somme di denaro da 60.000 suoi correntisti per un prelievo totale di
circa 2 milioni: un indebito vantaggio decisamente consistente ma un piccolo danno in capo a ciascun danneggiato. Questo è un tipico
caso in cui servirebbe lo strumento della Class Action perché nessun correntista ha di per sé interesse ad agire per somme così piccole,
al massimo si tutela cambiando banca.
Nel sistema italiano dell’epoca, un avvocato che avesse voluto tutelare le ragioni di tali soggetti avrebbe dovuto ottenere 60.000
diversi procure individuali, deleghe con cui ciascuno chiedeva all’avvocato di intervenire per tutelare i propri diritti individuali.
Questo è un problema quasi insormontabile che sta alla base dell’esigenza di avere una Class Action. Successivamente, anche in forza
di altri episodi simili, si comincia a discutere seriamente in ambito parlamentare di un disegno di legge nell’ambito della Class Action:
il progetto è stato lento e farraginoso anche per le resistenze dovute al timore delle banche di altri soggetti simili che potevano essere i
futuri convenuti chiamati a risarcire i danni. Viene emanato un decreto-legge nel 2007, la cui efficacia resta sospesa e si continua a
lavorare a questo progetto.
All’esito del farraginoso iter legislativo, la norma sulla tutela collettiva risarcitoria (Class Action italiana) viene disciplinata dall'art.
40 della legge 99/2009 d'entrata in vigore nel 2010 che ha introdotto l'art.140 bis del Codice del Consumo, l’articolo immediatamente
seguente a quello che riguarda la tutela collettiva inibitoria ed è questo un unico articolo composto da 15 commi.
Tuttavia la disciplina dell'azione di classe viene rinnovata anch'essa dalla legge 31/2019 con l'obiettivo di incrementare l'effettività
della tutela collettiva in linea con le raccomandazioni alla commissione europea. Ad oggi si trova disciplinata dall'art. 840-bis e in tal
senso il superamento della limitata gamma di diritti tutelabili attraverso l'azione di classe istituto nell'ambito del codice procedura
civile l'azione di classe così diventata al pari dell'inibitoria collettiva, un istituto generale posto a tutela di qualsiasi soggetto.
L’intento è quello di seguire il modello americano, infatti l’art. 140 bis, comma 1 stabilisce che ciascun componente della classe può
agire per l’accertamento della responsabilità per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni.
Alla luce di questo comma, comparando il modello italiano e il modello americano, si capisce che le analogie dal punto di vista
strutturale sono due:
-
Legittimazione: attraverso l'azione di classe si fanno valere cumulativamente posizioni soggettive riconosciute ai singoli, come
tali già azionabili a titolo individuale piuttosto che l'interesse indifferenziato di categoria, diverso dalla sommatoria di interessi di
cui sono portatori i singoli. L'abrogato art. 140-bis prevedeva che ciascun componente della classe potesse proporre l'azione
collettiva risarcitoria anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa. L'art. 840-bis fa invece riferimento
anche alle organizzazioni associazioni i cui obiettivi statuari comprendono la tutela dei diritti individuali omogenei iscritte
nell'elenco pubblico istituito presso il ministero della giustizia;
-
Tutela: è risarcitoria e restitutoria: accertamento della responsabilità e condanna risarcimento del danno e alla restituzione.
Diritti omogenei tutelabili
L’art. 140 bis, comma 2 stabiliva quali sono i diritti tutelati: i diritti individuali omogenei dei consumatori sono tutelabili anche
attraverso l’azione di classe. L’avverbio “anche” sta ad indicare che spetta al singolo titolare del diritto decidere se tutelarsi in maniera
individuale, secondo lo schema di tutale tradizionale ovvero attraverso lo strumento alternativo della tutela di classe. Attraverso
l’azione di classe, erano tutelabili:
a)
Diritti contrattuali di una pluralità di consumatori versanti nella stessa identica situazione verso la stessa impresa. Ad
esempio, può essere il caso di diversi consumatori che hanno acquistato dalla stessa impresa un bene difettoso e fanno valere le
loro prerogative nei confronti del venditore. Si fa riferimento alla responsabilità contrattuale e, in generale, alla totalità dei
rapporti di consumo, poiché la lettera a) non pone alcun limite.
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b) Diritti identici dei consumatori finali di un certo prodotto o servizio verso un produttore. Si fa implicitamente riferimento ad
una responsabilità extracontrattuale, cioè al caso del consumatore che non abbia una pretesa da far valere nei confronti del
venditore, la controparte contrattuale che risulta essere inadempiente, ma verso il produttore. Ad esempio, il soggetto ha comprato
un bene o acquistato un servizio attraverso intermediari: non ha alcun tipo di rapporto contrattuale diretto con il produttore che si
torva a monte eppure può agire per far valere la responsabilità extracontrattuale nei suoi confronti per il danno derivante da un
particolare rapporto, quello relativo alla vendita di un prodotto o di un servizio. A differenza della lettera a), non si fa riferimento a
qualsiasi pretesa ma soltanto alla pretesa dei consumatori finali che possono far valere il loro diritto nei confronti di un produttore
di un prodotto o di un servizio.
c)
Diritti identici al ristoro del pregiudizio che derivano da Pratiche Commerciali Scorrette e da comportamenti
anticoncorrenziali.
Qual era quindi il criterio in forza del quale si crea un gruppo, quindi la classe dei soggetti danneggiati che possono far valere
congiuntamente i propri diritti? In ambito statunitense, la Rule 23 faceva riferimento a “questioni di diritto o di fatto comuni al
gruppo”.
Il legislatore italiano, pur ispirandosi a quel modello, fa riferimento a “situazioni e diritti identici”: richiama non tanto il criterio della
comunanza, dell’omogeneità ma un criterio piò stretto, quello dell’identità. Tale criterio, se preso alla lettera, diventa praticamente
inapplicabile, perché non consente di aggregare posizioni diverse: quando il fatto anche è lo stesso (come nel caso, ad esempio, di un
unico incidente aereo), le pretese risarcitorie di ciascuno sono diverse, per il semplice fatto che avranno subito danni diversi.
Ciò è vero a maggior ragione se il fatto non è comune e se è comune soltanto la questione di diritto (ad esempio, uno stesso modello di
frullatore che viene venduto a più soggetti). Quello dell’identità è un criterio malfunzionante. Ecco perché la somiglianza dev’essere
superata da un criterio di diverso tenore, perché a livello interpretativo lascia poco spazio alle pretese risarcitorie dei gruppi.
Il legislatore con il d.l. c.d. liberalizzazioni 1/2012 ha introdotto modifiche tali da modificare il criterio aggregante: non più quello
dell’identità, troppo rigoroso ma quello dell’omogeneità, più facilmente applicabile. Per il resto, il testo dell’art. 140 bis è rimasto o
stesso:
a)
Diritti contrattuali di una pluralità di consumatori che versano verso la stessa impresa in una situazione omogenea.
b) Diritti omogenei dei consumatori finali di un certo prodotto o servizio verso il produttore.
c)
Diritti omogenei al ristoro del pregiudizio derivante da Pratiche Commerciali Scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.
Il mutamento della norma dovrebbe indurre, nelle intenzioni del legislatore, un più ampio ricorso alla Class Action rendendo più
facilmente applicabile il criterio aggregante, in base al quale si forma il gruppo dei soggetti danneggiati che possono agire
congiuntamente.
Il secondo profilo per cui la classe action italiana appariva carente rispetto a quella statunitense riguarda il novero dei diritti tutelabili:
rimane escluso ad esempio il fondamentale diritto alla salute che potrebbe essere leso dalla condotta inquinante di un'impresa.
Ecco perchè con il trasferimento della disciplina nell'ambito del codice di procedura civile è scomparso ogni riferimento ai
consumatori e non si velenano più categorie di diritti tutelati ma si discorre in generale di diritti individuali omogenei tutelabili
anche attraverso l'azione di classe.
Formazione della classe
Un altro aspetto cruciale della disciplina della Class Action riguarda il modo in cui si forma la classe, cioè il gruppo di soggetti
danneggiati che può agire insieme.
Il criterio sostanziale è quello dell’omogeneità, tuttavia occorre considerare, sotto il profilo procedurale, qual è la modalità con cui tale
classe si forma. L’art. 140 bis, comma 3 del Codice del Consumo stabiliva che i consumatori che intendono avvalersi della tutela
aderiscono all’azione di classe: il Codice parla quindi di adesione e specifica che aderendo si rinuncia alle eventuali azioni individuali.
Quindi, con la tutela di classe il soggetto protegge i propri diritti in modo alternativo rispetto alla tutela tradizionale. Ciò significa che
se si aderisce a un’azione di classe e la sentenza finale esclude che vi sia stata una responsabilità dell’impresa, il singolo consumatore
non potrà poi agire per lo stesso fatto in modo individuale, sperando di far accertare dal giudice la responsabilità di quell’impresa. I
l modello dell’adesione è il cosiddetto modello dell’opting-in: è richiesta un’attività del singolo che vuole agire. Dal punto di vista
procedurale, il processo per la Class Action si svolge nel seguente modo:
1.
C’è un consumatore danneggiato che agisce come singolo: agisce individualmente e si presenta come possibile rappresentante
dell’intera categoria;
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2.
Ammissione della Class Action: il giudice ammette che quell’azione venga considerata un’azione di classe;
3.
Il giudice stabilisce dei termini perché venga data pubblicità del fatto che è stata intentata un’azione di classe e dà un termine
entro il quale i consumatori possano aderire.
Con l'optin-in l'azione diventa collettiva solo a seguito della pronuncia giudiziale di ammissibilità, cioè del superamento di un filtro
preliminare che precluderebbe altrimenti al giudice di valutare nel merito la fondatezza della domanda.
1.
Ammissibilità della Class Action
Quali criteri il giudice deve seguire una volta che si trova di fronte a un soggetto che ha agito come membro della classe e deve
decidere se ammettere o meno l’azione in forma collettiva? Ai sensi dell’attuale 840-ter (ex art. 140 bis), il giudice ritiene l’azione
non ammissibile e quindi non potrà proseguire con l’accertamento per verificare se l’azione è fondata o meno, se c’è:
-
Disomogeneità dei diritti individuali, cioè se manca il criterio fondamentale aggregante. Si pone un problema pratico: in questa
fase, dal punto di vista procedurale, non esiste ancora una classe che si formerà successivamente attraverso l’adesione, solo una
volta che l’azione stessa venga considerata ammissibile in forma collettiva. Al giudice è richiesta dalla legge una valutazione
prognostica: dovrà escludere il requisito dell’omogeneità e dichiarare l’azione inammissibile in forma collettiva, se ritiene che è
fatta valere una situazione talmente peculiare da escludere in anticipo un gruppo di soggetti che appartiene e che condivide un
omogeneo diritto.
-
Conflitto di interessi. La norma non chiarisce cosa si intende ma è da escludere che possa fare riferimento a un conflitto
d’interesse tra imprese e consumatori, perché questo è evidente ed è tipico di ogni processo. Si può allora pensare che si faccia
riferimento a un conflitto d’interessi interno alla classe, tra un sottogruppo della classe e l’altro: anche questo è da escludere,
perché la classe non è ancora format. Bisogna allora pensare che come conflitto d’interessi s’intenda quello che si instaura tra la
classe e il proponente: potrebbe darsi che le imprese si avvalgano di un proprio fiduciario per intentare paradossalmente
un’azione contro di loro, con caratteristiche tali da essere meno gravosa di altre possibili iniziative. È quindi un modo per pararsi
da altre iniziative successive. Il giudice deve quindi verificare che il proponente sia un individuo della classe mosso dall’intento di
tutelare effettivamente i consumatori e, se così non è, dichiara inammissibile l’azione in forma collettiva.
-
Rappresentatività apparente del proponente. Non è chiaro il contenuto di tale requisito: significa richiedere che chi propone
deve apparire in questa fase adeguatamente in grado di portare avanti l’azione fino alla fine per tutelare i consumatori. Per evitare
il rischio di una pronuncia di inammissibilità, spesso ad agire non sono stati i singoli ma sono state le associazioni rappresentative
dei consumatori su mandato del singolo danneggiato. Per ovviare a questo rischio di fatto si va a ricalcare quella che è la
normativa dell’inibitoria, in cui ad agire possono essere soltanto gli enti rappresentativi. In questo caso, ad agire può essere il
consumatore ma per evitare questo rischio, dà mandato a un ente collettivo.
-
Manifesta infondatezza della domanda. Mentre i primi tre criteri sono posti a tutela dei consumatori, questo ultimo criterio è
posto a tutela delle imprese: per evitare che ci siano iniziative pretestuose da parte dei consumatori che blocchino l’attività
dell’impresa. In questa fase, il giudice se ritiene, a una prima lettura, che la domanda sia già manifestamente infondata, dichiarerà
inammissibile la stessa e non proseguirà con l’esame del merito.
2.
Adesione dei consumatori
Se la Class Action è dichiarata ammissibile, si apre la cosiddetta fase di adesione dei consumatori. La legge 31/2019 nel
confermare il regime di opt-in ha anche modificato il procedimento di adesione all'azione di classe.
La novità più significativa riguarda il fatto che l'adesione non deve giungere entro un certo termine decorrente dall'avvenuta
esecuzione degli adempimenti pubblicitari stabiliti dall'ordinanza di ammissibilità ma può addirittura avvenire dopo la
pubblicazione della sentenza che accerti la responsabilità e disponi risarcimento o la restituzione a favore della classe.
-
Secondo la nuova disciplina inoltre l'ordinanza di ammissibilità dell'azione di classe fissa un termine perentorio non inferiore
a 60 giorni non superiore a 150 giorni decorrenti dalla data di pubblicazione dell'ordinanza nell'aria del portale dei servizi
telematici gestito dal Ministero della Giustizia per l'adesione di soggetti portatori di diritti individuali omogenei dei quali
definisce carattere, specificando gli elementi necessari per l'inclusione nella classe (sotto questo profilo la normativa appare in
continuità con quella precedente salvo definire in anticipo le modalità telematiche della più opportuna pubblicità e dilatare il
termine massimo per la visione da 120 a 150 giorni con un minimo di 60).
-
Ulteriore novità è che la sentenza di accoglimento dell'azione di classe non liquida più le somme dovute a coloro che hanno
aderito, stabilendo quantomeno il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione. Essa si limita per ora ad accertare che le
domande risarcitorie o restitutorie proposte dal ricorrente siano fondate e che il resistente abbia leso i diritti individuali
omogenei. Per l'altro definisce i caratteri dei diritti individuali omogenei, indicando la documentazione da produrre per dare
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prova della titolarità dei diritti omogenei.
Tali adempimenti sono funzionali alla novità principale: la sentenza di accoglimento, dichiarata aperta la procedura di
adesione, fissa un termine perentorio compreso tra 60 e 150 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, per l'adesione
dei soggetti portatori di diritti individuali omogenei all'azione di classe, nonché per l'eventuale integrazione degli atti e per il
compimento delle attività da parte di coloro che avevano già aderito in precedenza entro i termini stabiliti dall'ordinanza di
ammissibilità della azione di classe.
Con la sentenza di accoglimento il tribunale nomina anche il giudice d'elevato per la procedura di adesione e il rappresentante
comune degli aderenti tra i soggetti aventi i requisiti per la nomina a curatore fallimentari (avvocati, commercialisti,
ragionieri).
-
L'adesione come già previsto dall'abrogato 140-bis può essere presentata anche senza il ministero di un difensore, infatti essa
si propone mediante inserimento della relativa domanda nel fascicolo informatico in un'area del portale dei servizi telematici
del Ministero della Giustizia. La domanda deve contenere (a pena di inammissibilità) una serie di elementi tra cui: i
conferimento al rappresentante comune dei poteri di rappresentare l'aderente e compiere nel suo interesse tutti gli atti relativi
al diritto individuale omogeneo esposto nella domanda di adesione, la determinazione dell'oggetto della domanda e
l'esposizione di fatti costituenti le ragioni della domanda di adesione. Si tratta quindi di un'operazione delicata in quanto
qualora non vengano definiti correttamente tali profili potrà essere escluso in quanto fa valere un diritto non omogeneo a
quello azionato dal ricorrente. Di conseguenza è verosimile che si debba far assistere da un avvocato secondo prudenza.
-
Successivamente alla scadenza del termine per aderire successivo alla sentenza di accoglimento:
• viene depositata una memoria difensiva da parte del resistente;
• viene depositato un progetto dei diritti individuali omogenei degli aderenti predisposto dal rappresentante comune;
• vengono depositate osservazioni scritte e documenti integrativi da parte del resistente e degli aderenti.
Solo a questo unto, il giudice delegato nell'accogliere la domanda di adesione condannerà il resistente a pagare ciascun aderente le
somme o le cose dovute a titolo di risarcimento o di restituzione, con un decreto motivato che costituisce titolo esecutivo.
Spese legali
In Italia, come in molti altri ordinamenti del mondo, chi anticipa le spese legali e rischia il rigetto dell’azione è il cliente: è il cliente
che deve pagare l’avvocato prima di sapere quale sia l’esito della vicenda e quindi si accolla il rischio di un eventuale rigetto, con cui
il giudice nega che sussista il diritto o che sussista il diritto a una certa tutela. Quindi, il cliente, sia nel caso che vinca sia nel caso che
perda, dovrà pagare l’avvocato per il lavoro svolto: nel caso in cui vinca potrà accollare le spese legali, che normalmente sono a carico
della parte concorrente. È vietato il cosiddetto patto di quota lite: patto con cui il cliente promette di pagare con una quota della somma
cui avrà diritto se la causa verrà vinta..
Viceversa, negli Stati Uniti e in generale nel mondo anglosassone, vige una struttura diversa. È infatti l’avvocato che anticipa le spese:
l’avvocato si accolla quindi il rischio di un’azione infruttuosa. Vige la regola opposta del no win no fee: l’avvocato viene pagato
soltanto se vince, con una percentuale pari a circa il 30% di quanto vince. Se invece non vince, non viene pagato e quindi ricade
sull’avvocato stesso il rischio ad aver perso la causa. Questo è un forte incentivo per gli avvocati affinchè vadano loro stessi ad
individuare delle Class Action profittevoli: sono spinti ad agire per il fatto che a risarcimenti milionari nei confronti dei consumatori
corrispondono anche compensi milionari. È questa una differenza di sistema notevole: nel sistema italiano, l’avvocato viene
considerato più un professionista che deve essere comunque pagato per l’attività professionale che svolge, mentre nel sistema
statunitense, l’avvocato sembra più un imprenditore. È però questo un sistema che, soprattutto nell’ambito della Class Action, crea
forti incentivi a tutelare i consumatori e i cittadini. Questo dato dà conto di un’ulteriore differenza strutturale che può rendere debole
l’utilizzo e il ricorso a un’azione di classe nel nostro ordinamento.
Tuttavia con l'obiettivo di accrescere il ricorso alla tutela risarcitoria, la riforma del 2019 ha previsto che il giudice delegato nel
condannare il resistente al pagamento delle somme dovute a ciascuna dereste a titolo di risarcimento o di restituzione condanna altresì
il resistente a corrispondere all'avvocato che ha difeso il ricorrente fino alla pronuncia delle sentenza di accoglimento e al
rappresentante comune degli aderenti, a titolo di compenso, una somma ulteriore a quella dovuta a titolo di risarcimento e di
restituzione di un importo abilito in considerazione del numero dei componenti della classe in misura progressiva (il compenso cresce
in misura inversamente proporzionale all'ampiezza della classe)
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Limiti del modello italiano
Dopo l’entrata in vigore della Class Action nell’ordinamento italiano nel 2010, ci si potevano aspettare moltissime iniziative dei
consumatori e sentenze che condannavano le imprese a risarcimenti milionari, come accadeva ormai da decenni negli USA. Così non è
stato: l’esordio in Italia è stato piuttosto sottotono, con poche iniziative e aderenti. Nel 2019 un nuovo intervento su più fronti è stato
orientato ad agevolare il ricorso all'azione di classe, generalizzando il suo ambito di applicazione, consentendo l'adesione anche dopo
la sentenza di accoglimento e prevedendo compensi premiali per gli avvocati e i rappresentanti comuni degli aderenti,
La Class Action italiana presenta tuttavia delle differenze strutturali piuttosto forti, aldilà delle fondamentali analogie, rispetto al
modello statunitense.
-
Criterio di aggregazione
Innanzitutto, il modello americano è basato su un sistema diverso per aggregare la classe da un punto di vista procedurale, e cioè
su un criterio opting-out: la classe, il gruppo dei soggetti che ha diritto alla tutela si crea automaticamente. Infatti, di esso fanno
parte tutti i soggetti che si trovano in una comune situazione di diritto o di fatto (ad esempio, tutti i soggetti o familiari di questi
coinvolti in un incidente aereo o tutti i soggetti che hanno acquistato quel modello di auto difettosa). È questo un criterio oggettivo
che tende ad includere: sono esclusi dalla classe soltanto i soggetti che si attivano e, attraverso un avvocato, fanno sapere che non
sono interessati alla tutela collettiva. Tutti gli altri soggetti, che hanno appreso dai canali di comunicazione nazionale che c’è una
Class Action, saranno automaticamente inclusi per il solo fatto di rientrare una situazione oggettiva rispondente a quella indicata.
In Italia vige invece il modello opposto, quello dell’opting-in che richiede al singolo di attivarsi e sarà inoltre necessario l’ausilio
di un avvocato per evitare il rischio di essere esclusi dalla classe. Anche negli USA vigeva inizialmente il sistema dell’opting-in,
ma è stato successivamente tramutato in quello dell’opt-out. Si può pensare che un giorno anche la struttura della Class Action
italiana sarà modificata in questo senso.
-
Controlli di ammissibilità
Negli USA il riferimento al criterio dell’ammissibilità è rispetto a una classe già formata (in forza del criterio dell’opt-out, la
classe risulta quindi già individuata) e quindi le valutazioni sull’omogeneità/disomogeneità della stessa fanno riferimento a una
classe di soggetti attuale e non a un criterio meramente prognostico, come in Italia, nel quale il giudice deve immaginare una
classe che invece non è ancora formata.
-
Conseguenze all’inammissibilità
Anche negli USA esiste un controllo di ammissibilità: l’esito nel caso in cui non vi sia omogeneità all’interno dei diritti o della
classe, non è quello di bloccare l’azione perchè inammissibile, ma è quello di creare una sottoclasse, quindi dei gruppi diversi che
sono titolari di diritti diversi.
Aldilà delle analogie strutturali (legittimazione del singolo consumatore offeso e possibilità di richiedere il risarcimento del
danno), il modello americano è fortemente orientato alla tutela del consumatore, mentre quello italiano sembra piuttosto incline a
porre degli ostacoli a un’effettiva tutela di classe. Un’ultima differenza che rende il modello di Class Action americana molto più
forte di quello italiano, è una differenza di sistema.
-
Pagamento dei danni punitivi
Da parte del responsabile al pagamento di danni ultracompensativi, che costituiscono una somma ulteriore a quella dovuta a titolo
di ristoro dei pregiudizi effettivamente patiti dai danneggianti. In Italia al contrario i danni punitivi sono estranei al nostro
ordinamento nonostante le aperture più apparente che reale registrato gli ultimi anni.dall'altro lato la possibilità accordata dalla
nuova disciplina con il chiaro obiettivo di favorire l'inclusione degli aventi diritto, di aderire alla classe anche dopo la sentenza di
accoglimento: ciò in quanto l'adesione magari consistente ma successiva la pronunzia che accetta la responsabilità costituisce un
incentivo ormai tardivo a comporre la lite estragiudizialmente. La circostanza per cui l'adesione è possibile anche dopo la sentenza
di accoglimento dell'azione di classe, comporta che non vengono liquidate le somme dovute a titolo di risarcimento o di
restituzione non è che venga stabilito un criterio di calcolo per la quantificazione quindi il giudice provvederà alla liquidazione
delle somme spettanti a ciascun aderente in un momento successivo con buona pace della celerità del procedimento a cui la
riforma tende.
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Riassumendo:
La Class Action introdotta in Italia nel 2009, in vigore dal 2010 viene posta a confronto con il modello statunitense che esisteva già dal
1938:
Analogie
-
L’azione di classe ha due elementi strutturali che la avvicinano fortemente al modello statunitense: da un lato, il contenuto
restitutorio o risarcitorio della tutela e dall’altro, ossia il fatto che la legittimazione ad agire per classe è segnata a ciascun
danneggiato che ne fa parte.
-
È comune anche il criterio aggregante dei diritti individuali: negli Stati Uniti si richiede una questione di diritto o di fatto comune
ai danneggiati, in Italia, dopo la novella del 2012, non si parla più di diritti identici ma di diritti omogenei. È quindi un criterio
sostanzialmente omologo a quello statunitense.
Differenze
-
Per il resto, la Class Action italiana diverge dal modello americano per il meccanismo di formazione della classe dei tutelati: negli
Stati Uniti vige il criterio dell’opting-in, ossia l’automatica inclusione dei vari danneggiati; in Italia vige il criterio opposto, quello
dell’opting-out, per cui ogni consumatore che vuole essere risarcito deve dichiararlo in un atto di adesione.
-
Il controllo sull’azione di classe del giudice italiano ricalca apparentemente quello del giudice americano, perché entrambi devono
valutare se sussiste il criterio aggregante dei diritti azionati e quindi l’idoneità a tutelare la classe. Tuttavia, questa valutazione
negli Stati Uniti viene con riguardo ad una classe già formata, mentre in Italia avviene al momento dell’azione: in questa fase, la
classe ancora non c’è e bisogna quindi aspettare che il giudice ammetta l’azione e i consumatori aderiscano. È questa una
valutazione meramente prognostica.
-
Negli USA il controllo sull’idoneità a proteggere la classe riguarda non già la generica idoneità del consumatore che propone
l’azione, ma quella dell’avvocato di anticipare le spese legali. È questo un controllo ben più chiaro nei suoi presupposti, che
riguarda il sistema nel quale non vige il divieto del patto di quota lite.
-
Negli Stati Uniti, se il giudice non ravvisa la presenza del criterio aggregante, scinde la classe in sottoclassi di tutelati con diritti
risarcitori diversi; nel nostro ordinamento il giudice è chiamato a bloccare l’azione. Lo stesso deve fare se reputa il proponete
inidoneo, mentre nel caso americano se l’avvocato non risulta in grado di anticipare le spese, ne viene fatto nominare un altro.
-
L’ambito della Class Action statunitense è generale, e vale per tutti i diritti e tutti i soggetti; in Italia vale solo per i consumatori e
per certi diritti specificatamente individuati dall’art. 140 bis del Codice del Consumo.
Questi aspetti strutturali della Class Action italiana sono tali da rendere l’azione collettiva risarcitoria meno efficace di quella
americana.
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4.3. TUTELA COLLETTIVA
La tutela collettiva si è sviluppata molto più di recente rispetto alla tradizionale tutela individuale e consente di rendere giustiziabili
(enabling litigation) delle situazioni giuridiche soggettive che altrimenti rimarrebbero prive di tutela. È questo il caso paradigmatico di
un danno di lieve entità cagionato nei confronti di una pluralità di soggetti. Dal punto di vista giuridico, nel nostro ordinamento il fatto
di superare l’idea che ciascuno possa agire soltanto a tutela dei propri diritti va collegata con la previsione di cui all’art. 24, comma 1
della Costituzione Italiana: tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti. Secondo l’interpretazione corrente, ciò
significa che la tutela giurisdizionale offerta dal giudice deve essere effettiva e quindi ammettere che in situazioni “paradigmatiche” si
possa agire per soggetti anche diversi e in forma collettiva. L’effettività della tutela fa si che il Titolo II, Parte V del Codice del
Consumo sia chiamato “Accesso alla giustizia”, per indicare, in collegamento con la previsione costituzionale, che si rendono
giustiziabili posizioni giuridiche che rimarrebbero altrimenti prive di tutela.
Conviene ripercorrere le tutele collettive dei consumatori per averne un quadro chiaro.
Tutela collettiva inibitoria
Anno
Diritto tutelato
Tutela
Legittimazione
1998
Tutela collettiva risarcitoria
2010
Interesse di natura collettiva che appartiene a una
collettività indifferenziata di soggetti
Diritti individuali in maniera seriale sul presupposto della loro
(interesse dei consumatori a non acquistare un omogeneità
prodotto difettoso).
• inibitoria: volta a impedire l'adozione o
reiterazione della condotta antigiuridica
• risarcitoria
• ripristinatoria: della situazione antecedente la • restitutoria
commissione dell'illecito
Organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro Ciascun componente della classe a nome di tutto il gruppo,
ma anche singoli individui
organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro
L'ambito della tutela dei due tipi di azioni collettive, quella inibitoria e quella risarcitoria, non più poste a protezione dei soli
consumatori è oggi generale e riguarda la violazione di qualsivoglia diritto, purché si tratti rispettivamente di violazioni dovute a
condanne che rechino un pregiudizio a una pluralità di individui o enti o che ledano diritti individuali omogenei.
Esempi di come le due principali azioni collettive possono combinarsi operativamente tra di loro:
-
Prendiamo il caso di un prodotto difettoso che viene commercializzato, ossia una condotta dell’impresa continuativa e
potenzialmente dannosa per i consumatori. Di fronte a una situazione del genere, possiamo pensare che:
• tutela inibitoria collettiva: si attivino le associazioni di consumatori legittimate ad agire per la tutela inibitoria, a protezione
dell’interesse collettivo e indifferenziato della collettività dei consumatori a bloccare tali vendite e a riparare o ritirare dal
commercio i prodotti già venduti;
• tutela risarcitoria collettiva: il singolo consumatore che è rimasto leso (ad esempio, perché l’elettrodomestico è scoppiato e ha
cagionato dei danni alla persona o alla casa) si attivi come singolo o come membro della classe dei danneggiati, per ottenere la
tutela risarcitoria del pregiudizio cagionato al proprio diritto individuale. In quest’ultimo caso, il pregiudizio non è collettivo, è
singolo ma può essere alternativamente protetto anche in modo seriale.
-
Potremmo immaginare una condotta che non ha ancora cagionato un danno, pure essendo continuativa. In questo caso, per la
tutela si potrà fare riferimento alla sola inibitoria.
-
Nel caso in cui vi sia un comportamento dannoso non è reiterato o reiterabile, si farà riferimento alla sola tutela risarcitoria,
eventualmente collettiva.
Tutele dei consumatori contro la stipula di contratti contenenti clausole abusive
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Per proteggere i consumatori dalla stipula di contratti contenti clausole abusive, era stata introdotta nel 1996 la prima tutela collettiva
inibitoria, oggi regolata dall’art. 37 del Codice del Consumo e azionabile non solo da parte delle associazioni dei consumatori, ma
anche da quelle die professionisti e dalle Camere di Commercio. Si tratta di una tutela generale, in quanto protegge l’interesse
collettivo di tutti i consumatori a non stipulare contratti abusivi e preventiva, perché non riguarda solo contratti già conclusi ma anche
quelli che il professionista si limita a proporre alla collettività dei consumatori i quali non hanno ancora aderito.
A completamento di tale tutela, c’è poi quella invalidatoria della nullità di protezione, introdotta nel 1996 in attuazione della direttiva
93/13 e regolata oggi dall’art. 36 del Codice del Consumo. È questa una tutela individuale perché dev’essere richiesta dal singolo
consumatorie ed è successiva, perché riguarda una clausola inserita in un contratto già stipulato con il professionista.
L’ambito delle due tutele non è identico: l’ambito della tutela collettiva inibitoria è più ampio e fornisce una tutela preventiva, l’ambito
della tutela collettiva inibitoria è invece più ridotto. Mentre l’azione invalidatoria individuale vale sia per i contratti che il consumatore
ha stipulato aderendo a condizioni generali di contratto predisposte dal professionista, sia per quelli oggetto di trattativa individuale; la
tutela collettiva inibitoria non può invece coprire per sua natura i contratti trattati individualmente.
Così come l’inibitoria collettiva generale integra la tutela risarcitoria individuale o di classe, la tutela collettiva contro le clausole
abusive si combina con la tutela invalidatoria individuale. Questo avviene se la clausola abusiva è contenuta in contratti già stipulati,
mentre l’inibitoria sarà da sola sufficiente se alla clausola abusiva proposta dal professionista, nessun consumatore ha ancora aderito.
Ratio
Perché tutele sono necessarie?
L’asimmetria informativa ed economica che tocca le imprese e i consumatori sul piano sostanziale si traduce, sul piano del processo,
in un’asimmetria delle poste in gioco.
• Normalmente, il danno patito dal consumatore è minimo e questo non avrà quindi interesse ad agire contro l’impresa. Contando su
questo atteggiamento remissivo del consumatore, l’impresa sarà spinta ad adottare comportamenti opportunistici, cioè condotte pur
illecite che procurano, su vasta scala, un gran vantaggio indebito, senza però temere una risposta efficace nel processo da parte del
singolo consumatore.
• Quand’anche vi fosse un consumatore che ha subito un danno particolarmente consistente o comunque che sia tanto agguerrito da
voler coltivare un processo fino alla fine contro l’impresa, l’impresa stessa vanta un forte interesse ad investire tutte le proprie
risorse, sicuramente maggiori di quelle di cui può disporre il singolo consumatore, per contrastare tali iniziative, se non altro per
evitare il formarsi di un pericoloso precedente a lei sfavorevole.
La tutela collettiva permette quindi di riequilibrare, sul piano del processo, l’asimmetria indicata e quindi garantire un’effettiva tutela
dei consumatori.
Queste tutele sono sufficienti?
La risposta sembra negativa: il fatto che fino ad oggi nel nostro ordinamento non ci sia stata un’esplosione di azioni collettive fa
pensare che esse non siano da sole sufficienti.
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TUTELA AMMINISTRATIVA
Nonostante l'integrazione fra strumenti individuali e collettivi, la tutela giurisdizionale non viene ritenuta insufficiente ad assicurare i
consumatori livello di protezione adeguato. Infatti la tutela giurisdizionale postula che l'interessato a far valere i propri diritti instaura
un giudizio dinanzi a un giudice tramite un avvocato. In generale quindi il privato che lamenta una violazione di un proprio diritto
dovrà anticipare le spese per coltivare un lungo processo sopportando il rischio di soccombere in giudizio. Emerge quindi la esigenza
di affiancare alla tutela giurisdizionale (collettiva) una tutela amministrativa che viene erogata a prescindere dall'iniziativa privata da
un'autorità di natura amministrativa che a differenza di quella giudiziaria è il potere di intervenire in ufficio quindi di propria iniziativa
anche sulla base di segnalazioni dei privati.
Le autorità in questione sono le cosiddette autorità amministrative indipendenti, ovvero enti pubblici deputati dalla legge al controllo,
alla regolazione e alla tutela di interessi della collettività in ambiti sensibili o ad alto interesse tecnico.
Tali autorità amministrative sono definite indipendenti perché a differenza degli apparati amministrativi tradizionali non sono
generalmente soggetti all'indirizzo politico amministrativo del governo. Questo perché la libertà di prendere decisioni imposizioni di
autonomia e indipendenza si rende necessaria al fine di tutelare gli interessi coinvolti con la massima imparzialità o neutralità in settori
caratterizzati dalla presenza di diritti costituzionalmente garantiti sottoposti all'influenza di gruppi di interessi o lobbies.
Altra caratteristica peculiare è quella di essere formata da componenti altamente specializzati nel settore di riferimento che sono
nominati con procedure che esclude o limitano il ruolo del governo e che sono soggetti a un regime di incompatibilità a volte evitare
interferenze di natura politica.tratti comuni a tutte le autorità indipendenti sono infine l'autonomia organizzativa e regolamentare e il
potere normativo la prerogativa dell'indipendenza di tale autorità vale nei confronti del potere esecutivo, esercitato dal governo ma non
anche del potere giudiziario. Le decisioni delle autorità amministrative indipendenti possono infatti generalmente essere impugnate di
fronte al giudice amministrativo.
AGCM
L’autorità amministrativa deputata ad intervenire contro la stipula delle clausole abusive nei contratti tra consumatore e professionista
è l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. È questa un’autorità amministrativa indipendente (AAI).
I componenti dell'autorità sono nominati dai presidenti di camera e Senato e durano in carica sette anni non rinnovabili.è un organo
collegiale composto da presidente e due componenti che prende decisioni a maggioranza. Il segretario generale che sovrintende il
funzionamento degli uffici e del responsabile della struttura e nominato dal Ministro dello sviluppo economico sottoposta del
presidente dell'autorità..
L'autorità si occupa di tutelare la concorrenza e il mercato reprimendo le condotte anticoncorrenziali, come le intese restrittive della
concorrenza e gli abusi di posizione dominante ed esercitando un controllo sulle operazioni di concentrazione.inoltre valuta e sanzioni
conflitti di interessi di componenti del governo affinché essi operino nell'esclusivo interesse pubblico e attribuisce il rating di legalità
alle imprese che ne fanno richiesta per migliorare la loro reputazione. Inoltre l'autorità garante della concorrenza e del mercato oltre a
tutelare i professionisti e indirettamente i consumatori contro la pubblicità ingannevole e comparativa illecita posta in essere dai
concorrenti, tutela da un lato i consumatori e le micro imprese contro le pratiche commerciali scorrette e le discriminazioni basate sulla
nazionalità o sul luogo di residenza e dall'altro i consumatori contro le clausole vessatorie abusive e la violazione di normative come
quelle riguardanti i contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali; in quest'ultimo caso con gli stessi poteri sanzionatori
istruttori previsti per le pratiche commerciali scorrette.
Attivazione della tutela
La tutela giurisdizionale è un sistema basato sull’impulso di parte, chiamato di private enforcement (attuazione privata delle norme).
La tutela amministrativa ha una struttura totalmente diversa, si parla infatti di public enfrocement: non è il privato che deve attivarsi
per portare avanti la sua iniziativa, ma l’autorità di riferimento può attivarsi di propria iniziativa, d’ufficio, o anche su segnalazione di
chiunque sia interessato. Il procedimento, in qualunque caso, proseguirà autonomamente: quindi il privato non ha l’onere di coltivare
tutta la vicenda, ma solo quello di dare l’impulso.
I soggetti che possono chiedere la tutela contro le clausole abusive sono i soggetti interessati (un consumatore, un’associazione di
consumatori, un professionista che ha notata che un suo concorrente fa uso di clausole abusive e potrebbe subire un danno
concorrenziale e così via).
i)
Una volta apertosi il procedimento amministrativo dinnanzi all’Autorità, si apre la cosiddetta preistruttoria, ossia una fase
preliminare in cui sommariamente viene valutata la segnalazione o il procedimento, se ci sono gli estremi per analizzare a
fondo la situazione o se si può invece archiviare immediatamente, perché non ci sono gli estremi per intervenire.
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ii)
Chiusa la fase preistruttoria, si apre la fase istruttoria: l’Autorità utilizza i propri ampi poteri istruttori. Mentre il privato
dovrebbe, con il proprio avvocato, trovarsi da sé le prove di quanto afferma, l’Autorità non solo agisce anche d’ufficio, ma ha
anche dei poteri significativi per ottenere le informazioni di cui ha bisogno. In particolare, tra i poteri istruttori dell’AGCM
c’è quello di poter chiedere informazioni e documenti alle imprese implicate, disporre ispezioni e perizie o addirittura analisi
economiche, avvalendosi anche della Guardia di Finanza. Che cosa spinge un’impresa a collaborare e a dare informazioni
veritiere, potendo contribuire a creare i presupposti per una decisone ad essa sfavorevole? I poteri incisivi istruttori e
d’indagine sono coperti, in caso di mancata collaborazione da parte dell’impresa, da sanzioni pecuniarie che la stessa Autorità
può irrogare sanzioni (sanzioni da 2.000 a 20.000 euro nel caso in cui l’impresa in oggetto di rifiuti di fornire informazioni o i
documenti richiesti e una sanzione doppia se l’impresa fornisce informazioni non veritiere). Lo stimolo per l’impresa a
collaborare è piuttosto forte. In questa stessa fase si apre una fase di contraddittorio con le parti: l’avvio dell’istruttoria deve
essere comunicato al professionista sotto procedimento e anche ai denuncianti. In questo modo, si dà la possibilità al soggetto
implicato di chiarire la propria posizione attraverso memorie o eventuali audizioni, al di là di quelli che sono i risultati dei
poteri istruttori e d’indagine.
iii)
Questa fase si chiude quando l’Autorità ritiene di aver individuato tutti gli elementi per prendere la decisione finale e si ha
così il provvedimento che chiude il procedimento e che si pronuncia sull’eventuale vessatorietà o meno delle clausole
implicate. Dal punto di vista procedurale dell’Autorità che decide, è fatto obbligo di sentire le associazioni di consumatori e
professionisti rappresentative a livello nazionale e le Camere di Commercio, prima di adottare la propria determinazione
finale.
Interpello preventivo
Dare impulso alla tutela amministrativa è facile, ma possono le imprese difendersi in anticipo da una pronuncia di vessatorietà
dell’AGCM? La risposta la fornisce l’art. 37 bis, comma 3 del Codice del Consumo ed è affermativa: le imprese hanno la facoltà di
interpellare preventivamente l’Autorità in merito alla vessatorietà delle clausole che intendono utilizzare nei rapporti con i
consumatori. Si tratta del cosiddetto interpello preventivo, in forza del quale l’impresa può conoscere in anticipo l’orientamento
dell’Autorità in merito all’abusività o meno delle clausole che intenderà adottare. Si tratta quindi di un rimedio preventivo, che fa
riferimento a clausole che l’impresa non ha ancora adottato. L’effetto della pronuncia dell’Autorità a seguito di interpello preventivo è
che le clausole non vessatorie non possono essere successivamente valutate dall’Autorità. Nel caso in cui l’Autorità neghi che la
clausola in dubbio di abusività sia tale, l’Autorità non potrà successivamente dichiararla e ritenerla tale. Quello dell’interpello
preventivo è quindi uno strumento di difesa forte per l’impresa. Si tratta di uno strumento che fa riferimento a clausole che non sono
ancora state adottate, rimane in dubbio di cosa debba fare l’impresa nel caso in cui la risposta sia positiva, cioè se la clausola in esame
sia effettivamente abusiva. Nel silenzio della legge, si deve ritenere che l’impresa sia portata a non utilizzare quelle clausole nei propri
schemi contrattuali (moral suasion), rischiando altrimenti una possibile pronuncia a suo danno da parte dell’Autorità.
Esiste il cosiddetto sistema di doppio binario, per cui la tutela amministrativa e quella giurisdizionale corrono su binari paralleli. Resta
ferma in ogni caso la responsabilità dei professionisti nei confronti dei consumatori: la pronuncia a seguito dell’interpello preventivo
dell’AGCM non potrà mettere al riparo l’impresa da un’eventuale pronuncia dell’Autorità giudiziaria (ad esempio, un giudice che
accoglie una tutela inibitoria con la quale potrà legittimamente accertare l’abusività di certe clausole ancorché queste sono state
ritenute non abusive a seguito dell’interpello preventivo dall’Autorità amministrativa).
Contenuto della tutela
L’art. 37 bis, comma 1 del Codice del Consumo stabilisce che l’AGCM dichiara la vessatorietà delle clausole inserite nei contratti
tra professionista e consumatorie. È quindi questa una tutela dichiarativa, di accertamento. Il comma 2 aggiunge che il provvedimento
che dichiara la vessatorietà delle clausole abusive è diffuso mediante pubblicazione sul sito dell’AGCM e su quello dell’operatore che
adotta la clausola vessatoria. È prevista la possibilità di irrogare una sanzione pecuniaria da 5.000 a 50.000 euro, che non è dovuta
dall’impresa per il fatto di aver adottato clausole abusive, ma viene applicata da parte dell’Autorità garante nel solo caso in cui
l’impresa non ottemperi al dovere di pubblicare sul proprio sito la notizia che si tratta di un’impresa che adotta schemi contenenti
clausole abusive. Dato che le previsioni riguardanti gli effetti del provvedimento dell’Autorità garante si fermano qui, si potrebbe
ritenere che non sia una tutela sufficiente ed efficace perché il provvedimento non ha effetti giuridici rilevanti. Non è una tutela inutile:
-
Il fatto che viene diffusa la notizia dl provvedimento che accerta la vessatorietà ha un forte impatto di tipo reputazionale
sull’impresa (reputational effect), che per non perdere i consumatori dovrà conformarsi alle indicazioni dell’Autorità, ritirando
quelle clausole. Ha anche un effetto di moral suasion.
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-
Se è vero che, per il principio del “doppio binario”, il giudice civile non sarà certo vincolato a ritenere abusiva la clausola ritenuta
tale in sede amministrativa, questo ha comunque un forte influsso sulla decisione del giudice civile. Si tratta delle cosiddette
azioni civili follow-on, che vengono intentate a seguito di un accertamento in ambito amministrativo che se non vincola, esprime
comunque una certa forza di persuasione nei confronti del giudice civile.
Esiste una tutela amministrativa non solo contro la stipula di clausole abusive, ma altresì contro le Pratiche Commerciale Scorrette
(PCS). Mentre per quanto riguarda le clausole abusive la tutela è nata giurisdizionale ed è poi diventata anche amministrativa, la tutela
contro le PCS nasce già amministrativa e ciò in forza di un provvedimento del 2007 che recepisce nel nostro ordinamento la direttiva
2005/29 sulle PCS. In particolare, è da subito introdotta una competenza dell’AGCM contro tali pratiche che inducono il consumatore
medio ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso, in forza di una pratica che è ingannevole o
aggressiva. Facciamo riferimento ad alcune peculiarità del procedimento che si svolge davanti all’Autorità garante.
-
La prima differenza rispetto al procedimento contro le clausole abusive riguarda l’archiviazione con impegni, ossia la possibilità
di archiviare il procedimento nel caso in cui via sia un’assunzione, da parte dell’impresa che si ritiene abbia compiuto della PCS,
con impegni: l’impresa che voglia evitare una condanna finale può anticipatamente impegnarsi nei confronti dell’Autorità a
mutare il proprio comportamento. In questo caso l’Autorità garante può rendere obbligatori gli impegni del professionista, se
l’Autorità stessa ritiene che siano idonei a porre fine all’infrazione.
-
Il secondo profilo riguarda il contenuto della tutela: la tutela non è meramente dichiarativa con effetti di moral suasion e legati
alla pubblicazione del provvedimento stesso, ma è una tutela inibitoria con la possibilità per l’Autorità di imporre all’impresa di
porre fine all’infrazione. È una tutela anche ripristinatoria che riguarda il passato.
-
La possibilità con il provvedimento finale che accerta le PCS non solo di applicare la tutela inibitoria, ma anche di applicare
sanzioni pecuniarie che vanno da 5.000 a 5 milioni di euro. Una somma molto elevata che normalmente in caso di clausole
abusive l’Autorità non può irrogare e che invece nel caso di PCS l’Autorità è legittimata ad applicare.
Riassumendo:
L’effettività della tutela dei consumatori richiede un sistema di tutela complesso: non si basa soltanto sulla tutela giurisdizionale offerta
dal giudice civile, ancorché essa sia azionabile in forma collettiva. Il sistema si articola su un “doppio binario”:
-
tutela amministrativa erogata nell’interesse pubblico del mercato a contrastare le PCS più gravi e diffuse, nonché le clausole
abusive destinate ad un uso generalizzato (public enforcement: applicazione della normativa affidata a un’Autorità amministrativa
che opera autonomamente sostenendo da sé i costi del procedimento);
-
tutela giurisdizionale offerta dal giudice civile nell’interesse dei privati lesi a difendere i propri diritti individuali o collettivi
(private enforcement: ciascuno deve attivare tramite un avvocato e coltivare a proprie spese il processo sino alla sua conclusione).
I due tipi di tutela sono complementari. L’AGCM si attiva anche d’ufficio su semplice segnalazione e ha i poteri necessari per
individuare le infrazioni e offrire la relativa tutela (dichiarativa per le clausole abusive, inibitoria e sanzionatoria per le PCS). Ottenuta
la pronuncia dell’Autorità che accerta la presenza di PCS o di clausole abusive generalizzate, sarà più semplice rivolgersi al giudice
civile per ottenere la tutela dei propri diritti: il giudice non è vincolato a conformarsi alla valutazione dell’Autorità garante, ma dovrà
tenerne conto. C’è quindi un’interazione con la tutela amministrativa che fonda i presupposti per una più agevole azione di fronte al
giudice civile. Di fronte al giudice civile si potranno ottenere, contro le clausole abusive la tutela inibitoria attraverso l’azione
collettiva nonché la tutela invalidatoria attraverso l’azione individuale del consumatore; contro le PCS si potrà ottenere una tutela
risarcitoria mediante l’azione individuale ovvero l’azione di classe introdotta nel 2009.
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I rimedi civilistici sono disponibili anche quando manca l’interesse pubblico a procedere, come è il caso di una clausola abusiva
redatta per un singolo contratto oppure una PCS isolata e non grande, e comunque in generale in tutte le ipotesi per cui non è prevista
la tutela amministrativa. Le azioni civili che seguono la pronuncia dell’Autorità sono dette follow-on, quando invece sono proposte in
assenza di un previo pronunciamento amministrativo sono dette stand-alone.
Quando public e private enforcement possono cooperare la tutela è massima: un’impresa sottoposta al procedimento dell’Autorità
garante avrà timore non soltanto di una futura pronuncia amministrativa a suo carico, ma anche delle conseguenze che essa può
scatenare inducendo i privati ad agire collettivamente. Quindi, nell’ipotesi di una PCS, un’impresa potrebbe subire sanzioni pecuniarie
e altresì un’azione di classe risarcitoria. È quindi forte l’effetto di incentivare l’impresa a rispettare spontaneamente le norme:
nell’offrire una tutela a tutti i soggetti, si va ad implementare un sistema che tanto più è efficace, tanto più induce le imprese a
conformarsi spontaneamente alle regole del diritto.
DOMANDE MODULO 4
-
Perché viene introdotta la Class Action negli USA e come mai risulta così efficace?
-
Quali sono le caratteristiche del giudizio collettivo in Italia (legittimazione, tutela)?
-
Come viene garantita l’efficacia dell’inibitoria? Perché non include il risarcimento del danno?
-
Quale tutela offre la Cass Action e chi è legittimato ad azionarla?
-
Qual è il criterio aggregante dei diritti e come si è evoluto nel tempo?
-
Quali differenze ci sono tra opt-in e opt-out quale criterio di formazione della classe?
-
Perché sono necessarie tutele collettive dei consumatori e come si integrano le azioni inibitoria e risarcitoria?
-
Cos’è l’AGCM e come si attiva? Quali tutele offre contro quali condotto anticonsumeristiche?
-
Come si articola il procedimento dinanzi all’Autorità? Cos’è l’interpello e cosa sono gli impegni?
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MODULO 5 - Contratto B2B
Il Terzo Contratto, è “ un contratto tra imprese ( quindi b2b ) caratterizzato da una situazione di squilibrio tra le parti“.
E’ una situazione in cui assistiamo ad uno squilibrio di potere dettato dalle condizioni di mercato: una parte è dotata di maggior potere
contrattuale e ha la possibilità di imporre all’altra parte delle condizioni, senza che questa abbia la “forza” di rifiutarle.
La Contrattazione non ha un esito efficiente e lo squilibrio in questione non è tanto informativo, ma è contrattuale: la conseguenze è
che l’ abuso non risulta sempre di tipo normativo (clausola abusiva), ma può derivare anche dall’ equilibrio economico del contratto
stesso.
Le normative di riferimento che prenderemo in considerazione sono:
• Legge 192/1998 – Legge sulla subfornitura
• Decreto legislativo 231/2002 – Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali
• Legge 129/2004 – norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale (franchising)
Qui il legislatore prende atto della simmetria di potere contrattuale tra le parti disciplina del contratto in generale e pertanto delle
regole speciali.
Nonostante le somiglianze con il secondo contratto ( B2C squilibrato ) non è automatica l’ unificazione delle due branche:
• Da una parte si intende segnalare come qualora contrattuali del contratto il consumatore è quello del contratto tra imprese squilibrato
considerando i connotati aldilà del comune denominatore (contratto asimmetrico). A favore di tale teoria la circostanza per cui la
deroga alla disciplina generale del contratto investe i contratti tra imprese e consumatori, all'inasprimento delle prescrizioni di forma,
all'apertura, al carattere più articolato del procedimento per la conclusione del contratto). In questa prospettiva si ritiene che gli
ultimi anni l'ordinamento abbia di fatto preso ad estendere alcune delle tecniche di tutela previste per i consumatori all'area della
contrattazione tra imprese in posizione asimmetrica, in particolare a favore della micro impresa e dell'imprenditore debole. E ciò
proprio sul presupposto di un minimo denominatore comune: la comune debolezza negoziale che rende uno dei due contraenti
potenziale vittima dell'abuso di potere contrattuale;
• In altra direzione i tuoi modelli contrattuali pur accomunati dalla strutturale posizione di debolezza di una delle parti siano
profondamente disomogenea. In questa linea si preferisce parlare, quando i rapporti negoziali, di un modello di terzo contratto che si
contrapporrebbero non solo al contratto primo (codice civile ) ma anche al contratto secondo (tra professionista e consumatore).
-
In questa linea si evidenzia che la simmetria del secondo contratto è essenzialmente di tipo informativo mentre quella del terzo
contratto di potere contrattuale;
-
La natura abusiva è spesso presunta nei contratti dei consumatori regolato quale clausola generale a un contenuto meno
definito nei contratti tra imprese;
-
La natura dello squilibrio rilevante sarebbe disomogeneo nei due casi: il secondo contratto e anche economico nel terzo;
-
I contratti con i consumatori sono di regola contratti predisposti dal professionista, mentre quelli tra imprese possono essere
oggetto di trattativa individuale;
-
I contratti dei consumatori mentre nei contratti tra imprese contratti di durata.
Per l'insieme di tali ragioni si ritiene che la contrattazione col consumatore e quella tra imprese rispondano a modelli d radice
eterogenei e si preferisce di conseguenza parlare di secondo e terzo contratto.
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Legge 192/1998 – Legge sulla subfornitura
Con subfornitura si intende un modello economico di relazioni economico-industriali tra imprese così strutturato: vi è una grande
impresa di dimensioni medio-grandi che, per addivenire alla produzione del bene cui è deputata, delega certe attività funzionali alla
realizzazione del proprio prodotto in outsourcing. È il modello dell’indotto industriale: le piccole e medie imprese sono fornitrici di
beni, lavorazioni e servizi funzionali alla realizzazione del prodotto finale della grande impresa. La piccola-media impresa
dell’indotto, pur di non perdere la commessa, è tendenzialmente propensa ad accettare contrattuali particolarmente gravose che sono il
frutto di un abuso di dipendenza economica. In questo quadro, il legislatore interviene in una logica che è protettiva sia dell’impresa
subfornitrice sia del mercato generale: si vuole evitare che l’intervento di condotte abusive finiscano per alterare l’assetto delle
condizioni nell’indotto e che comportino, nel medio periodo, una fuoriuscita dal mercato dell’impresa dell’indotto che, soggiacendo a
condizioni sempre più inadeguate per un assetto industriale normale, finisce per non avere più liquidità e poi fallire. Inoltre, si vuole
evitare che l’abuso di dipendenza economica finisca per delle condotte anticoncorrenziali. L’intervento normativo è quindi orientato
sia a fini meramente protettivi dell’impresa debole sia a perseguire finalità di tutela del mercato e della concorrenza. La legge sulla
subfornitura è uno di quei pochi casi in cui l’intervento normativo è nazionale, non è il recepimento di una normativa comunitaria.
Art. 1 – Definizione
Con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna a effettuare per conto di una impresa committente a:
• subfornitura di lavorazione: lavorazione su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima;
• subfornitura industriale in senso stretto: si impegna a fornire all'impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o
comunque ad essere utilizzati nell'ambito dell'attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in
conformità̀ a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall'impresa committente.
Questa nozione di subfornitura implica una relazione piuttosto stretta, una dipendenza nell’organizzazione del processo di produzione
molto rilevante tra l’impresa committente e l’impresa subfornitrice.
Dalla definizione appena richiamata si rende evidente come il legislatore non descrive un tipo autonomo di contratto bensì un modello
di operazione economica negoziale che si realizza mediante la stipulazione di molteplici rapporti contrattuali: contratti di vendita, di
somministrazione, di appalto. L'impresa sub fornitrice infatti vende alla committente beni destinati ad inserirsi nel processo produttivo
di quest'ultimo o li somministra servizi funzionali a quel medesimo processo oppure esegue lavorazioni su beni della committente.
Art. 2 – Forma e contenuto
Il rapporto di subfornitura si instaura con il contratto, che deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullit . Costituiscono
forma scritta le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuate per telefax o altra via
telematica. L’assenza di un contratto in forma scritta che mettesse chiaramente in evidenza il piano di diritti ed obblighi reciproci tra le
parti, rischiava di comportare un pregiudizio per il soggetto più debole del rapporto, il subfornitore.
Per il rispetto della forma scritta è sufficiente che arrivi il testo della proposta contrattuale da parte del committente e che poi
l’accettazione avvenga per fatti concludenti mediante l’inizio dell’esecuzione della prestazione, come già prevede in generale il Codice
Civile. In questo modello di conclusione per fatti concludenti, per le clausole vessatorie si applica la disciplina generale del Codice
Civile.
Se nella proposta scritta e accettata per fatti concludenti ci fossero delle clausole vessatorie, queste non sarebbero efficaci perché si
applica la disciplina generale del Codice Civile dell’art. 1341 (non c’è un consumatore).
Se il contratto si conclude con proposta e accettazione scritta, nell’accettazione scritta il subfornitore potrebbe sottoscrivere
specificamente le clausole vessatorie che erano nella proposta; se invece il subfornitore esegue la prestazione direttamente le clausole
vessatorie sono nulle per mancata sottoscrizione.
Se è violato il precetto di forma scritta: In caso di nullit ai sensi del presente comma, il subfornitore ha comunque diritto al
pagamento delle prestazioni gi effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell'esecuzione del contratto.
Ovviamente, nei contratti conclusi in forma scritta dev’esserci un contenuto determinato su profili tipizzanti il rapporto di
subfornitura. Nel contratto devono essere espressamente determinati o determinabili in modo chiaro e preciso, tale da non ingenerare
incertezze:
a) i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente (se non indicati rende nullo il contratto in quanto è difficile
individuare una disciplina legale che supplisca alla difettosa determinazione in forma scritta);
b) il prezzo pattuito (vedi sopra);
c) i termini e le modalit di consegna, di collaudo e di pagamento.
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Art. 3 – Termini di pagamento
La grande impresa, dalla quale dipende talvolta il fatturato annuo della piccola impresa, ha la tendenza a ottenere delle condizioni a sé
particolarmente favorevoli: la grande impresa potrà determinare significativamente le condizioni contrattuali e, tra queste, soprattutto
le condizioni relative ai termini di pagamento. La piccola impresa, pur di non perdere la commessa, potrebbe accettare un pagamento
molto lontano nel tempo. Questo nel breve periodo, potrebbe causare problemi di liquidità per la piccola impresa che potrebbero, a
catena, generare un processo patologico che mette a rischio la sopravvivenza stessa della piccola-media impresa. Di fatto, può
accadere che il grande imprenditore finisca per farsi fare credito dal piccolo imprenditore abusando del modello contrattuale. In questo
modo si crea un problema sia per le singole imprese subfornitrice sia al sistema concorrenziale di mercato, legittimando dei fallimenti
di mercato. Ecco quindi una disciplina molto analitica dei termini di pagamento: il contratto deve fissare i termini di pagamento della
subfornitura, decorrenti dal momento della consegna del bene o dal momento della comunicazione dell'avvenuta esecuzione della
prestazione, e deve precisare, altres , gli eventuali sconti in caso di pagamento anticipato rispetto alla consegna.
Il prezzo pattuito deve essere corrisposto in un termine che non pu eccedere i 60 giorni dal momento della consegna del bene o della
comunicazione dell'avvenuta esecuzione della prestazione. Tuttavia, pu essere fissato un diverso termine, non eccedente i novanta
giorni, in accordi nazionali per settori e comparti specifici. La libertà delle parti è relativa, perché c’è una norma di carattere
imperativo che lascia una libertà limitata. Pattuizioni che prevedono pagamenti che eccedono i 60 giorni (o 90 giorni nei casi previsti)
sono nulli per contrasto con norma imperativa (e si ritiene operante un congegno analogo a quello della sostituzione automatica di
clausole imposte art. 1339 e 1419).
La prestazione sarà allora da ritenere dovuta in 60 giorni e da quel momento si commisura il danno da ritardo qualora il committente
non paghi il corrispettivo dovuto, magari invocando la clausola contrattuale che appunto prevedeva un termine superiore. Invece per
l'ipotesi in cui le parti non disciplinano il tempo dell'adempimento per alcuni si dovrebbe fare applicazione ancora una volta del
termine di 60 giorni previsto per i rapporti di sub-fornitura mentre per altri sarebbe invece operante la disciplina generale di settore sui
termini di pagamento che prevede un termine pagamento ordinario 30 giorni che ho per default anche nel caso di silenzio delle parti e
sul termine di pagamento. Per proteggere efficacemente il creditore debole non basta tuttavia prevedere dei limiti temporali ma è
necessario assicurare anche delle sanzioni per l'ipotesi in cui il committente debitore non osservi i termini fissati dal contratto o dalla
legge.infatti se i contraenti fossero liberi di convenire tutela assai deboli per il caso di ritardato pagamento l'intera disciplina protettiva
rischierebbe di essere compromessa.proprio per evitare un tale esito, il committente:
1. è costituito in mora in via automatica;
2. deve al subforniture interessi legali calcolati sul tasso della BCE aumentato di 8 punti;
3. nel caso di ritardo aggravato (superiore ai 30 giorni) è tenuto ad un'ulteriore penale pari al 5% dell'importo non corrisposto.
Nel caso in cui il ritardo di pagamento sia reiterato e sistematico, la condotta del committente potrebbe integrare un abuso di
dipendenza economica, consentendo così l'attivazione dei riempi previsti dall'art. 9 Legge 192 ivi compresi i rimedi risarcitori.
Art. 4 – Divieto di interposizione
La fornitura di beni e servizi oggetto del contratto di subfornitura non pu , a sua volta, essere ulteriormente affidata in subfornitura
senza l’autorizzazione del committente per una quota superiore al 50 per cento del valore della fornitura, salvo che le parti nel
contratto non abbiano indicato una misura maggiore.
Può accadere che il subfornitore deleghi a sua volta ad un altro imprenditore le prestazioni di servizi che si è impegnato a realizzare
per il committente. Questo è possibile fino al 50% del valore della subfornitura, altrimenti serve l’autorizzazione del committente.
Inoltre, il sub-sub-fornitore ha nei riguardi del subfornitore gli stessi diritti che questo ha nei riguardi del committente: il subfornitore
potrebbe tenere una condotta di interposizione abusiva nel rapporto contrattuale. Ovviamente, il subfornitore inadempiente dovrà
risarcire il danno: la norma specifica che i danni che sono imputabili a difetti di istruzioni del committente rimangono a carico de
committente stesso.
In caso di ulteriore affidamento in subfornitura di una parte di beni e servizi oggetto del con- tratto di subfornitura, gli accordi con cui
il subfornitore affida ad altra impresa l’esecuzione parziale delle proprie prestazioni sono oggetto di contratto di subfornitura, cos
come definito dalla presente legge. I termini di pagamento di detto nuovo contratto di subfornitura non possono essere peggiorativi di
quelli contenuti nel contratto di subfornitura principale.
Art. 6 - Ius variandi e potere di recesso
Lo ius variandi è la potestà di una delle parti o di entrambe di variare alcuni aspetti del regolamento contrattuale.questo tipo di
previsione normalmente non è ammesso. L'art. 6 dispone che è nullo il patto tra fornitore e committente che riservi ad uno di essi la
facoltà di modificare unilateralmente una o più clausole del contratto di subfornitura tuttavia sono validi gli accordi contrattuali che
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consentono al committente di precisare, con preavviso dentro i termini contrattualmente prefissati, le quantità da produrre e i tempi di
esecuzione della fornitura.Infine, l'art. 3 co. 5 completa la disciplina affermando che ove vengano apportate, nel corso dell'esecuzione
del rapporto, su richiesta del committente, significative modifiche e varianti che comportino comunque incrementi dei costi, il
subfornitore avra' diritto ad un adeguamento del prezzo anche se non esplicitamente previsto dal contratto.
In merito al diritto di recesso È nullo il patto che attribuisce ad una delle .parti del contratto di Sab fornitura, ad esecuzione continuata
o periodica, la facoltà di recesso senza congruo preavviso.
Decreto legislativo 231/2002 – Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali
Il Decreto Legislativo 231/2002 tenta di contrastare un Problema particolarmente frequente: spesso in determinate relazioni
commerciali, assistiamo ad un’ impresa che fornisce servizi e ad una che li acquista. Il fatto è che la prima, pur di lavorare e di ottenere
delle commesse, concede condizioni contrattuali particolarmente favorevoli, specialmente in riferimento ai termini di pagamento.
• EFFETTO 1: Grandi imprese perdono stimolo di accedere al credito -Nella prassi, questa situazione, determina a una sorta di
“finanziamento” per le grandi imprese a scapito di quelle medie / piccole;
• EFFETTO 2: Ricaduta su Imprese Fornitrici - Il secondo effetto, riguarda il fatto che il non accesso al credito della grande impresa
genera “effetti di ricaduta” sulle imprese fornitrici, che rischiano crisi di liquidità;
• EFFETTO 3: Danno sul Funzionamento del Mercato di Piccole Imprese - Spesso le piccole / medie imprese sono meno solide a
livello finanziario. Questa situazione genera un effetto pregiudizievole in relazione al funzionamento dei loro mercati.
Questa situazione incorre con particolare frequenza all’ interno dei rapporti di subfornitura, già regolati dalla legge 192 /1998.
Tuttavia, le norme relative al D. Lgs. in esame coprono un ambito decisamente più ampio: sono applicabili a tutti i rapporti tra imprese
e imprese e pubblica amministrazione.
Il decreto legislativo 231/2002 oggi modificato dal d.lgs 192//2012 è l' attuazione di due direttive comunitarie, la 2000/35/CE primae
poi la 2011/7/UE. Infatti originariamente, il testo del 2002 ha attuato la direttiva comunitaria n. 35 del 2000 con riguardo alla lotta ai
ritardi di pagamenti nelle transazioni commerciali; successivamente, in attuazione della direttiva comunitaria n. 7 del 2011 il
legislatore ha modificato il testo del 2002 in alcuni articoli.
Il legislatore avrebbe potuto abrogare il decreto legislativo 231/2002 ed emanare un nuovo decreto legislativo nel 2012 che
disciplinasse completamente la materiamo tuttavia ha deciso di intervenire sul vecchio testo e mantenerlo in vigore, modificandolo.
La preoccupazione del legislatore è la stessa che animava il legislatore della subfornitura: è possibile che nei rapporti tra imprese,
l’impresa forte ottenga dilazioni di pagamento così importanti e significative fino a farsi finanziare dall’impresa più debole.
A differenza della legge sulla subfornitura, è che tali norme hanno un raggio di applicazione molto più ampio: mentre le norme sulla
subfornitura si applicano esclusivamente a rapporti di subfornitura dove il livello di dipendenza è particolarmente forte; le norme del
decreto 231 del 2002 si applicano alle transazioni commerciali tra imprese.
All’art. 2 231/2002 troviamo la definizione di transazione commerciale: i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra
imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi,
contro il pagamento di un prezzo. Non c’è bisogno di un particolare rapporto come quello che connota la fornitura. Siccome nella
fornitura il rischio della dipendenza è molto più grave che nelle normali relazioni commerciali tra imprese, le regole sui riardi di
pagamento della subfornitura sono molto più severe e stringenti di quelle relative alle generiche transazioni commerciali. C’è quindi
una disciplina protettiva per tutte le relazioni commerciali, che non è però così severa come quella della subfornitura.
L'art. 4 231/2002 invece per quanto riguarda i termini di pagamento stabilisce che gli interessi moratori decorrono, senza che sia
necessaria la costituzione in mora, da 30 giorni dal ricevimento della fattura, dalla consegna del bene o dalla somministrazione del
servizio.
Può sembrare paradossale: nella situazione più restrittiva della subfornitura c’è un termine più ampio di 60 giorni, mentre nella
disciplina generale delle transazioni commerciali c’è un termine più restrittivo di 30 giorni.
Quello dei 30 giorni non è un termine da norma imperativa, è una norma derogabile: nelle transazioni commerciali tra imprese le parti
possono pattuire un termine per il pagamento superiore. Il termine dei 30 giorni opera se le parti non stabiliscono nulla, se invece le
parti stabiliscono diversamente: termini superiori a sessanta giorni, purché non siano gravemente iniqui (co. 3) per il creditore,
devono essere pattuiti espressamente. La clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto. Ciò significa che se c’è una
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pattuizione espressa e approvata per iscritto si possono stabilire termini superiori a 60 giorni, purché questi non siano considerati
gravemente iniqui. Mentre nel caso della subfornitura c’è una libertà fino a 60 giorni, nel caso delle transazioni commerciali tra
imprese c’è una libertà totale, salvo che non sia gravemente iniquo. Stabilire l’iniquità o meno di un termine di pagamento spetta
all’interprete, a seconda della fattispecie. Nel caso della subfornitura, con un termine superiore a 60 giorni il giudice automaticamente
stabilisce che il patto è nullo. C’è quindi un sistema di maggiore libertà nei limiti della grave iniquità, una clausola generale in cui un
ruolo fondamentale è giocato dall’interprete che deve capire se lo specifico rapporto è in concreto iniquo. Quindi, ad esempio, se nella
subfornitura un termine di 65 giorni è nullo, nel caso delle transazioni commerciali non è gravemente iniquo perché lo scarto rispetto
ai sessanta giorni è poco.
Il d.lgs 231/2002 discipline invece secondo modalità diverse i ritardati pagamenti da parte della pubblica amministrazione
committente, obbligata a pagare il corrispettivo per i beni di servizi ceduti o somministrati in favore della pubblica amministrazione
(es. forniture per un ospedale pubblico). Per quest'ipotesi il legislatore ha previsto che le parti abbiano minore libertà di definire il
termine per il pagamento: per la pubblica amministrazione in termini di 30 giorni; i contraenti possono infatti pattuire un termine
superiore solo se:
• Una tale deroga appaia giustificata dalla natura particolare del contratto o da talune speciali caratteristiche dello stesso;
• Comunque in ogni caso fino ad un massimo di 60 giorni;
• Ogni pattuizione in deroga deve comunque osservare la forma scritta. Termini superiori a quelli legali ma non pattuiti per iscritto o
in ogni caso termine superiore a 60 giorni sono pertanto noi.
La frequenza con cui il ritardo del pagamento colpisce le relazioni tra le imprese che trasferiscono beni o prestano servizi alla
committente pubblica amministrazione ha evidentemente indotto il legislatore ad una scelta di massimo rigore in tale ambito. E quindi
la disciplina sui termini di pagamento si configura qui come schiettamente imperativa rispetto a quella prevista per le transazioni
commerciali.
Art . 5 - Saggio degli interessi
Ogni disciplina sui termini di pagamento effetti dell'adempimento tardivo. In questa logica, l’art. 5, regola il saggio degli interessi che
prevede gli interessi moratori sono determinati nella misura degli interessi legali di mora quali interessi di mora su base giornaliera
ad un tasso che è pari al tasso di riferimento maggiorato di otto punti percentuali.
Le regole interessi sono inderogabili quando debitore è una pubblica amministrazione ma non anche nel caso di transazioni
commerciali tra imprese. Infatti, facendo così riguadagnare spazio all'autonomia privata, i contraenti potrebbero concordare un tasso di
interesse diverso da quello previsto con finalità sanzionatorie dalla legge. Anche in questo caso la deroga a taluni limiti: sembra dover
essere pattuita in forma scritta (non solo nel caso di interessi superiori a quelli legali su interessi inferiori) e soprattutto i patti agli
interessi legali dimora sono sottoposti al medesimo controllo legale previsto che le clausole negoziali sui termini di pagamento sicché
un'eventuale deroga si riveli gravemente iniqua,
Art. 7 - Patti sui termini di pagamento e sul saggio di interessi gravemente iniquo
L’art. 7 corregge l'iniziale impressioni per cui la disciplina legale sui ritardi di pagamento sugli effetti del ritardato pagamento del
corrispettivo sia, nelle transazioni commerciali tra imprese, derogabile. Il legislatore si affida infatti ad una clausola generale, la grave
iniquità, e sanzionare con la nullità pattuizione siffatte. La deroga alle previsioni legale non è in sé è vietata ma solo se gravemente
inique in danno del debitore.
Si tratta allora di intendere:
-
quando possa ricorrere siffatta gravi equità:
il patto che esclude l'applicazione di interessi di mora, rieduto ex se gravemente iniquo. Più frequente il caso in cui invece le parti
si limitano a modificare il tasso di mora applicabile, ovvero prevedere un termine di pagamento superiore a quello legale. In tale
circostanza per accertare la grave iniquità il giudice deve avere a riguardo tutte le circostanze del caso:
• Riguardo il grave spostamento rispetto alla prassi commerciale in contrasto con le regole di correttezza e di buona fede;
• Alla natura della merce o del servizio da prestare;
• all'esistenza di motivi oggettivi che giustifichino la deroga.
Si tratta pertanto di capire se la deroga sia ragionevole perché solo così può essere giustificata corretta e non abusiva.
Di conseguenza il creditore che vuole fare valere la nullità del patto, per lui pregiudizievole, sui termini e sugli interessi deve
quindi dimostrare che essa non trova una ragionevole giustificazione nella logica interna del singolo affare intrapreso dalle parti o
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nel contesto negoziale di riferimento.
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Cosa accade al contratto che dà origine alla transazione commerciale una volta che le pattuizioni sui termini di pagamento
di interessi sia dichiarata nulla:
Il legislatore esclude che la nullità di tali pattuizioni possa estendersi al resto del contratto, non si fa quindi applicazione del 1° co.
art. 1419 secondo cui la nullità di singole clausole del contratto con tale pattuizione invalida fossero decisive per i contraenti.
L'originaria formulazione del'art. 7 prevedeva che il giudice una volta accertata la nullità del patto potesse applicare i termini
legali, o alternativamente ricondurre ad equità il patto nullo. Oggi, a seguito della nuova formulazione prevede che nel caso in
unità delle clausole si applicano gli artt. 1339 e 1419 2° co c.c.
Art. 6 - Risarcimento delle spese di recupero
L'articolo stabilisce che nelle casistiche previste dall'articolo tre, il creditore ha diritto anche a rimborso dei costi sostenuti per il
recupero delle somme non tempestivamente corrisposte. Altri aspetti, senza che sia necessaria la costituzione in mora, un importo
forfettario di 40 € a titolo di risarcimento del danno. È fatta salva la prova che hanno che può comprendere i costi di assistenza per il
recupero del credito.
Legge 129/2004 – Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale (franchising)
Definizione generale
Il franchising è quel contratto con cui un'impresa franchisor (o affiliante) concede dietro corrispettivo il diritto ad utilizzare una
propria formula commerciale (di solito mediante la condivisione di know how o segni distintivi) ad un'altra impresa indipendente 8il
franchisee o affiliato) generalmente di dimensioni più piccole e spesso di recente costituzione proprio in funzione dell'esercizio di
attività connesse al rapporto di affiliazione commerciale.
La prassi suggerisce diverse modulazioni di quest'ultimo, si è soliti distinguere tra:
• franchising di distribuzione: ogni qual volta il franchisor sia un produttore di beni (es. abbigliamento) e il franchisee si occupi
della distribuzione degli stessi mediante un proprio esercizio commerciale che si avvale del know how e dei segni distintivi del
produttore. In tal caso il modello di distribuzione è definito come esclusivo nel senso che ci si serve di imprenditori la cui attività
è finalizzata alla commercializzazione nel mercato finale dei soli prodotti dell'affiliante;
• franchising di servizi: l'affiliato non vende i prodotti dell'affiliante ma piuttosto utilizza una formula commerciale da quest'ultimo
consolidata nel mercato per concludere (avvalendosi di segni distintivi e di altre tecniche commerciali originali ed affermate)
contratti di prestazione di propri servizi su cui si riconosce di regola un corrispettivo percentuali al franchisor (es. intermediazione
immobiliare);
• franchising di produzione: qui il franchisor si avvale (fornendo materie prime, istruzioni e assistenza) del franchisee per la
produzione di determinati prodotti a marchio dell'affiliante. Nonostante sembri essere un rapporto analogo a quello di sub
fornitura (tanto da porsi la questione della tutela prevista dalla legge 192) il proprium dell'affiliazione commerciale si conserva
quando il produttore per conto dell'affiliante si occupi anche di collocare sul mercato il bene prodotto.
Il modello della distribuzione mediante il contratto di franchising si è andato consolidando dopo gli esordi negli anni '80 soprattutto
negli anni '90 ma la disciplina legislativa è intervenuta solo nel 2004. Il franchising è un contratto che sino al 2004 era atipico, ovvero
era fuori dai tipi di contatto previsti dal Codice Civile a partire dell’art. 1470 (contratto di compravendita, di locazione, di affitto, di
trasporto, di mandato, di appalto e così via). La disciplina generale si applica a tutti i contratti e poi per i singoli contratti vi sono delle
regole speciali. Nella prassi da sempre sono stati stipulati contratti che non trovavano una disciplina tipica nella legge, si è sempre
trattato di contratti di origine anglosassone: nel Codice del ’42 non erano stati presi in considerazione perché erano contratti che non
venivano stipulati con una connotazione specifica. Questo con riferimento anche ad altri modelli contrattuali, come il leasing, che
realizzano operazioni economiche che non erano comuni nel diritto continentale. Nel Codice Civile, all’art. 1322, si afferma che
l’autonomia privata può stabilire contratti diversi da quelli previsti dal Codice Civile, purché meritevoli di tutela.
Fino all’inizio degli anni 2000, le reti di franchising che andavano formandosi hanno registrato problemi patologici, le cosiddette
“vendite di fumo”. Un soggetto diceva di aver inventato una formula commerciale adeguata al mercato, creava un’iniziale rete di 2 o
3 affiliati e poi si scopriva che la formula commerciale non aveva alcun radicamento. Ci si rende conto che l’efficienza e la capacità
attrattiva di tale formula commerciale è limitata, avendo già pagato il canone. Questo fenomeno patologico induce il legislatore ad
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intervenire per assicurare che quel che l’affiliante concede all’affiliato sia effettivamente concreto ed utile nel mercato. Il fenomeno
del franchising è un fenomeno importante e ha dato luogo ad una serie di cause, più o meno fondate. Nei primi anni del 2000 c’era
dunque una litigiosità abbastanza importante in tema di franchising, da qui la legge del 2004.
Nel 2004 il legislatore decide di disciplinare il contratto di franchising non per dettare un’analitica disciplina, ma per intervenire
laddove la prassi dei contratti di franchising in essere in Italia aveva manifestato degli abusi dell’affiliante sull’affilato. Non vuole
essere quindi una disciplina che tipicizza il contratto di franchising, bensì si innesta nel processo di protezione di un imprenditore
debole in un rapporto contrattuale in cui il rischio di debolezza è fisiologico o strutturale.
Art. 1 legge 129 - Definizione legale di franchising
L’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e
giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti
di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di
autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una
pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi.
Non si fa riferimento alla qualità di imprenditore, la quale sembra essere implicita e prevede che l'affiliato possa non aver acquisito lo
status di imprenditore commerciale al momento della stipulazione, conseguendolo in via successiva con l'instaurarsi del rapporto.
L'indipendenza tra i contraenti impone che, nonostante l’uso comune del marchio, affiliante e affiliato restino soggetti distinti.
Inoltre, l'art. 1 specifica come l'affiliante conceda all'affiliato la disponibilità di un insieme di diritti di proprietà intellettuale e
industriale ma pure servizi di assistenza e di consulenza tecnica e commerciale, di modo che il franchisee possa commercializzare beni
e servizi nel contesto di una rete di affiliati, distribuiti sul territorio, già operante.
Il vantaggio per il franchisor o affiliante è che penetra nel mercato e distribuisce prodotti ed estende quindi l’area di copertura dei
propri servizi senza dover investire in un proprio retail; il vantaggio del franchisee o affiliato è quello di avere una capacità attrattiva e
di supporto dell’affiliante molto significativa.
Obblighi affiliato
In particolare, nel contratto di affiliazione commerciale si intende per know-how, un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate
derivanti da esperienze e da prove eseguite dall'affiliante, patrimonio che è:
-
segreto: per segreto, che il know-how, considerato come complesso di nozioni o nella precisa configurazione e composizione dei
suoi elementi, non è generalmente noto né facilmente accessibile;
-
sostanziale: per sostanziale, che il know-how comprende conoscenze indispensabili all'affiliato per l'uso, per la vendita, la
rivendita, la gestione o l'organizzazione dei beni o servizi contrattuali
-
individuato; per individuato, che il know-how deve essere descritto in modo sufficientemente esauriente, tale da consentire di
verificare se risponde ai criteri di segretezza e di sostanzialità;
Poichè il know how deve avere consistenza tale da rendere il package utile per l'affiliato giustificando un'operazione negoziale che
postula uno scambio tra utilità originali e un corrispettivo che trova ragione nell'apporto dato da tali utilità nell'attività d'impresa
dell'affiliato, è bene chiedersi cosa avvenga qualora il know how non sia originale (sostanziale ed individuato).
Un primo orientamento prevede che il contratto sarebbe nullo o comunque non riconducibile allo schema del franchising. Diverso
orientamento sostiene tuttavia che il contratto non debba dirsi nullo ma piuttosto che l'affiliante sia da considerare inadempiente
rispetto l'obbligo di assicurare un know how dalle caratteristiche evidenziate e in quel caso il franchisor sarebbe tenuto al risarcimento
del danno.
Un problema analogo si verifica quando l'affiliante trasferisca all'affiliato il know how ma la rete costituita da una pluralità di affiliati
non si sia ancora costituita (nella definizione si fa riferimento all'inserimento dell'affiliato in un sistema costituito). In tal caso il
contratto non è qualificabile come franchising ma al massimo potrà essere un contratto di licenza ovvero di cessione del know how.
Diversa prospettiva prevede invece che venga fatta salva la qualificazione dia franchising e l'applicazione della disciplina protettiva,
del contratto che trasferisce per la prima volta un package fino ad allora sperimentato dal solo imprenditore affiliante ma non ancora
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da altri affiliati. In questa prospettiva l'affiliato che sia insoddisfatto potrà chiedere il risarcimento del danno e magari la risoluzione del
contratto mentre quello soddisfatto poiché la formula sta funzionando non rischierà una dichiarazione di nullità del contratto.
Ulteriore obbligo è quello di prestare ausilio al franchisee nella programmazione ed organizzazione del servizio commercializzato,
nell'allestimento degli spazi dei locali dell'affiliato, nella consulenza di marketing e pubblicitaria, nella corretta selezione e
disposizione delle insegne, nella formazione dell'affiliato, ...
In assenza di tali servizi vi è l rischio che l'affiliato non sia in grado di trarre alcuna utilità nella propria attività di
commercializzazione. Anzi, si E ritenuto che la prestazione di tali servizi sia talmente essenziale nel contesto del rapporto di
franchising che la mancata assunzione nel contratto di tali obbligazioni escluderebbe in radice la possibilità di qualificare il contratto
con il franchising.ma è preferibile ritenere che l'affiliante che omette simili servizi di assistenza sia inadempiente al contratto di
affiliazione: sarà allora l'affiliato poter chiedere in tali casi il risarcimento di eventuali danni subiti e quando lo ritenga conveniente e
ne sussistano i presupposti la risoluzione del contratto.
In questa prospettiva ad ogni affiliato è di regola reso disponibile un manuale operativo che illustra i dettagli segreti della fortuna
commerciale trasferita, ma per la sua fruizione saranno di regola sempre necessari i menzionati servizi assistenza, formazione e
consulenza.
Corrispettivo dovuto dall'affiliato
• per diritto di ingresso, una cifra fissa, rapportata anche al valore economico e alla capacità di sviluppo della rete, che l'affiliato
versa al momento della stipula del contratto di affiliazione commerciale;
• per royalties; una percentuale che l'affiliante richiede all'affiliato commisurata al giro d'affari del medesimo o in quota fissa, da
versarsi anche in quote fisse periodiche;
• sovrapprezzo sui beni acquistati dall'afflizione produttore e destinati ad essere commercializzati al dettaglio al medesimo affiliato.
Obblighi precontrattuali
Per quanto riguarda le tecniche di tutela, vi è un primo livello che fa riferimento alla forma del contratto: il contratto di affiliazione
commerciale deve essere redatto per iscritto a pena di nullità.
Ci sono poi delle disposizioni particolari: per la costituzione di una rete di affiliazione commerciale l'affiliante deve aver sperimentato
sul mercato la propria formula commerciale. Il legislatore vuole quindi evitare altri fenomeni di vendita di fumo: la formula
commerciale deve avere già avuto un consolidamento nel mercato.
Infatti, nelle bozze contrattuali che l’affiliante deve consegnare all’affiliato almeno 30 giorni prima della stipulazione del contratto,
devono essere indicate:
• principali dati relativi all'affiliante, tra cui ragione e capitale sociale e, previa richiesta dell'aspirante affiliato, copia del suo bilancio
degli ultimi tre anni o dalla data di inizio della sua attività, qualora esso sia avvenuto da meno di tre anni;
• l'indicazione dei marchi utilizzati nel sistema, con gli estremi della relativa registrazione o del deposito, o della licenza concessa
all'affiliante dal terzo, che abbia eventualmente la proprietà degli stessi, o la documentazione comprovante l'uso concreto del
marchio;
• una sintetica illustrazione degli elementi caratterizzanti l'attività oggetto dell'affiliazione commerciale;
• una lista degli affiliati al momento operanti nel sistema e dei punti vendita diretti dell'affiliante;
• l'indicazione della variazione, anno per anno, del numero degli affiliati con relativa ubicazione negli ultimi tre anni o dalla data di
inizio dell'attività dell'affiliante, qualora esso sia avvenuto da meno di tre anni;
• la descrizione sintetica degli eventuali procedimenti giudiziari o arbitrali, promossi nei confronti dell'affiliante e che si siano conclusi
negli ultimi tre anni, relativamente al sistema di affiliazione commerciale in esame, sia da affiliati sia da terzi privati o da pubbliche
autorità, nel rispetto delle vigenti norme sulla privacy.
Devono quindi esserci informazioni sulla formula in sé e sull’andamento della rete per capire se la rete commerciale c’è, è consolidata,
è in espansione/in regressione e se ci sono controversie giudiziarie.
Qualora il contratto di affiliazione sia concluso sulla base di informazioni parziali (o non veritiere) e quindi con violazione da parte
dell'affiliante degli obblighi pre negoziali, il franchisee deluso potrà domandare l'annullamento del contratto nel caso di false
informazioni, chiedendo altresì il risarcimento del danno per il tempo perduto e le spese sostenute per l'ingresso nella rete commerciale
(che si rivela avere caratteristiche diverse rispetto quella rappresentate al momento della firma del contratto).
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Vi sono comunque obblighi anche in capo all'affiliato, in particolare quello di trasmettere all'affiliante ogni informazione e dato la cui
conoscenza risultati necessaria e opportuna in vista della stipulazione del contratto anche se non espressamente richiesta. Una
violazione di tal obbligo potrebbe legittimare anche l'affiliante a domandare l'annullamento del contratto e il risarcimento del danno
cagionato.
Contenuti del contratto
La legge 129 impone alle parti che il contratto oltreché scritto deve avere un determinato contenuto. La disciplina legislativa si modula
riguardo secondo due diversi canoni:
1. Impone alle parti di indicare espressamente nel contratto scritto alcune pattuizioni che seppur liberamente determinabili il loro
contenuto debbono comunque essere espressamente pattuita in forma scritta nel contratto di affiliazione;
2. Impone invece ai contraenti taluni contenuti negoziali che non possono essere derogati dei contenuti nelle esercizio della propria
autonomia negoziale;
Secondo la prima prospettiva, il contenuto libero ma necessario il contratto deve espressamente indicare una serie di elementi:
a) Ammontare degli investimenti e delle spese di ingresso che l'affiliato deve eventualmente sostenere per accedere alla rete;
b) I criteri di calcolo e di pagamento delle royalties nonché l'eventuale pattuizione di un incasso minimo da assicurare;
c) L'eventuale esclusiva territoriale a favore dell'affiliato;
d) La specifica del know how messo a disposizione dell'affiliato;
e) L'eventuale apporto di know how da parte dell'affiliato;
f) Le caratteristiche dei servizi di assistenza tecnica e commerciale, progettazione, allestimento formazione;
g) Le condizioni di rinnovo, risoluzione o eventuale cessione del contratto.
Il difetto di uno degli elementi segnati in grassetto può essere ragione di nullità dell'intero contratto.
Durata del rapporto di affiliazione
Il franchising può essere a tempo determinato con possibilità di rinnovo o a tempo indeterminato salvo recesso.
Sul tema durata c’è un aspetto particolare: l’affiliato deve fare degli investimenti e ammortizzare i costi sostenuti, è fondamentale
quindi l’acquisizione di una durata minima, che sia in grado di assicurare l’ammortamento dei costi intrapresi per iniziare l’attività.
Qualora il contratto sia a tempo determinato l’affiliante dovrà garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento
dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni. La clausola sarà nulla e sostituita automaticamente. Sarà il giudice a stabilire
se, per i costi sostenuti, una durata di tre anni sia insufficiente. È fatta però salva l’ipotesi di risoluzione anticipata per
inadempimento di una delle parti.
La legge 129 postula l'esistenza di affiliazioni commerciali prive di termine (a tempo indeterminato) ma non regola il recesso dallo
stesso. Infatti è principio generale quello per cui, se il contratto a tempo indeterminato, le parti abbiano facoltà di recedervi a
prescindere da un'espressa previsione pattuita.
Nonostante la regola generale autorizzerebbe in ogni tempo il recesso dal contratto indeterminato, nel nostro caso è necessario un
coordinamento con la disciplina che prevede una durata minima del rapporto di filiazione superiore ai tre anni: egualmente lunedì
ipotizzabile un libro recesso dal contratto a tempo indeterminato senza vincoli temporali.
La legge 129 invece reputa legittima una più breve durata del rapporto di franchising nel caso di inadempimento di uno dei contraenti:
in tal caso secondo i principi generali contraenti potranno domandare la risoluzione del contratto in via anticipata.
Obblighi dell'affiliato nella fase esecutiva del contratto
• Divieto di trasferire la sede della propria attività di affiliato quando sia indicata nel contratto senza il consenso del franchisor salva la
forza maggiore;
• L'impegno ad osservare ed a far osservare i propri ausiliari, la massima riservatezza in ordine all'oggetto della filiazione
commerciale e ciò anche dopo il venir meno del rapporto contrattuale.
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5.1. ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: CONDOTTE
Problemi di squilibrio contrattuale non si hanno soltanto nei rapporti tra professionista e consumatore, bensì anche tra imprese con
alcune importanti differenze.
La prima è che nell’ambito B2C l’asimmetria di potere contrattuale tra le parti del contratto è evidente, nel senso che le due parti
appartengono a categorie soggettive diverse: da una parte, il consumatore che opera per soddisfare i bisogni propri e quelli della
propria famiglia e dall’altra, il professionista che predispone il contratto nell’esercizio di un’attività professionale. Ciò fa si che ci sia
un’asimmetria di potere soprattutto di carattere informativo: proprio perché il professionista predispone il contratto conosce già tutti
gli aspetti, i vantaggi e i rischi che esso può comportare, mentre il consumatore non ha le competenze per capirne tutti i profili. Ciò fa
si che una serie di clausole abusive o vessatorie siano considerate non in grado di vincolare il consumatore. Altre volte tale discorso
non vale per quanto riguarda l‘oggetto del contratto ovvero il corrispettivo, ossia la quantità/qualità del bene o servizio che viene
prestato e il corrispettivo pagato dal consumatore per ottenerlo. L’attenzione del consumatore è generalmente rivolta al prezzo, che è
infatti uno degli elementi principali che il consumatore, nel compiere la sua scelta, tiene in considerazione. Il fatto che il profilo
economico del contratto non sia sindacabile subisce una deroga nel caso in cui il prezzo non sia stabilito in modo trasparente ma sia
incomprensibile, non chiaro per il consumatore.
Ciò premesso, andiamo a considerare l’asimmetria di potere che si ha nei rapporti B2B, ossia tra imprese. In questo caso l’asimmetria
è meno evidente perché le parti del contratto appartengono alla stessa categoria soggettiva business. L’asimmetria non è di tipo
informativo, perché appartenendo alla stessa categoria si ritiene che le parti abbiano le stesse risorse e competenze per valutare la
convenienza e i vari aspetti del contratto.
Come si può dire che un rapporto tra imprese è squilibrato e necessita di un controllo da parte del legislatore? La selezione dei rapporti
asimmetrici rilevanti non avviene nel modo così agevole che è quello nel rapporto tra consumatore e impresa. In questo caso, dal punto
di vista tecnico-giuridico, si tratta di una presunzione legislativa astratta: se un contratto è stipulato da un consumatore e da un
professionista, si presume automaticamente, per il solo fatto che le parti appartengano a categorie soggettive diverse, che quello sia un
rapporto che merita attenzione da parte del legislatore e un controllo su un suo possibile squilibrio. Ciò non significa che un controllo
concreto di una disparità tra uno specifico consumatore e uno specifico professionista sia irrilevante: nell’ambito nelle clausole
abusive, appartenenti alla cosiddetta “lista grigia”, è sempre fatta salva la possibilità al professionista di evitare la nullità della clausola
dimostrando che in concreto il consumatore ha avuto la forza contrattuale per trattare individualmente il contenuto di quella clausola e
quindi non può essere considerata abusiva. Si tratta però di un rilievo della disparità concreta di potere contrattuale che rileva solo in
via secondaria per il professionista che si vuole difendere, ma di base quel contratto, stipulato tra un professionista e un consumatore, è
oggetto di attenzione da parte del legislatore.
Nell’ambito dei rapporti tra imprese l’accertamento concreto della disparità di forze è indispensabile perché le parti appartengono
alla stessa categoria soggettiva e non sono rapporti che, i quanto tali, sono meritevoli di attenzione da parte del legislatore per quanto
riguarda un possibile squilibrio della contrattazione. Questo diventa rilevante se la parte che dichiara di aver subito un abuso da
un’altra impresa riesce a dimostrare di essere in concreto debole, ossia di essere colpita da un’asimmetria di potere che va ad innescare
una serie di controlli dell’ordinamento sul contenuto di quel contratto.
ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA
La norma di riferimento è l’art. 9 della legge 192/1998 che prevede il divieto di abuso di dipendenza economica.
L’articolo si divide in diversi commi che andiamo a considerare singolarmente:
-La parte prima del comma 1 enuncia in generale il divieto di abuso di dipendenza economica prevedendo che è vietato per una o più
imprese abusare dello stato di dipendenza economica in cui si trova nei confronti della prima o delle prime un’altra impresa.
-La seconda parte primo comma va a definire la dipendenza economica come una situazione di debolezza presupposta. L’importanza
per l’impresa che chiede tutela è quella di riuscire a dimostrare una situazione di debolezza rispetto all’altra, come presupposto per un
controllo legislativo;
• il comma 2 enuclea una serie di condotte abusive;
• il comma 3 individua una serie di rimedi giurisdizionali che possono essere fatti valere contro gli abusi di dipendenza economica
davanti al giudice civile;
• il comma 3-bis che prevede una competenza eventuale dell’AGCM.
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Ambito oggettivo
A quali rapporti di imprese si applica l’art. 9? La legge 192/1998 disciplina la cosiddetta subfornitura industriale dei rapporti tra
imprese e che si prefiggono di tutelare il subfornitore. La dottrina si è chiesta se il divieto di abuso di dipendenza economica riguarda
solo il subfornitore, può essere attivato soltanto a tutela dell’impresa subfornitrice o anche dell’impresa debole in generale.
In un primo tempo la risposta è stata negativa: si valorizzava la collocazione del divieto di abuso di dipendenza economica all’interno
della legge sulla subfornitura industriale e si riteneva applicabile solo nei rapporti tra imprese inquadrabili nello schema della
subfornitura. In un secondo momento, avvallato anche dalla Cassazione nel 2011, è stato affermato che l’ambito oggettivo del divieto
di abuso di dipendenza economica è di tipo generale, cioè vale per tutti i rapporti tra imprese, al di là della loro qualificazione di
subfornitura industriale, come norma che tutela in generale l’impresa debole. Come si giustifica questo assunto, dato che la norma è
in effetti collocata all’interno della legge sulla subfornitura?
I fautori di questa tesi ormai diffusa hanno sottolineato che la norma, già dal punto di vista letterale, si stacca dalla logica della tutela
del solo subfornitore che pervade l’intera normativa. Infatti, il comma 1 fa riferimento all’impresa dipendente come impresa che può
essere sia cliente sia fornitrice. Con impresa cliente si fa riferimento anche a imprese che, a differenza delle sole imprese subfornitrici,
acquistano dei prodotti (ad esempio, semilavorati) da un’altra impresa. Inoltre, si parla anche di impresa fornitrice e non
subfornitrice, quindi questa norma si pone a tutela di imprese che cedono prodotti fuori dalla logica tipica della subfornitura (ad
esempio, prodotti finali già destinati alla distribuzione). Nel complesso, già il tenore letterale della norma fa capire che si tratta di una
norma dalla vocazione allargata, che ha un’ampiezza maggiore della legge nella quale è collocata.
Ambito soggettivo
L’art. 9 si qualifica come una norma che riguarda i rapporti tra imprese, B2B. ma qual è la nozione di impresa? Dal punto di vista del
diritto italiano, è considerato imprenditore un soggetto che opera sul mercato (con una serie di requisiti), ma in questa nozione non è
compreso il professionista intellettuale (ad esempio, l’avvocato o l’architetto che non si assumono il tipico rischio di impresa). La
nozione di professionista intellettuale non è quindi rilevante nell’ambito del divieto di abuso di dipendenza economica.
In questo caso è preferibile considerare la più ampia nozione di impresa che non vale nell’ambito del solo ordinamento italiano, ma
vale, in generale, nel diritto europeo della concorrenza. Si considera impresa qualunque soggetto che offre beni o servizi sul
mercato, e quindi anche il professionista intellettuale. È questa una nozione più comprensiva, definita dalla Corte di Giustizia nel caso
Hofner: non è una definizione data da regolamenti o direttive, ma individuata dalla giurisprudenza comunitaria. La nozione di impresa
finisce quindi per coincidere con quella di professionista.
CONDOTTE ABUSIVE
Considerata l’ampiezza dell’ambito sia oggettivo sia soggettivo di applicazione del divieto di abuso di dipendenza economica,
possiamo ora considerare le condotte abusive vietate elencate esemplificativamente all’art. 9, comma 2.
1. imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie per l’impresa economicamente
dipendente. A prima vista, questa nozione richiama quella di clausola vessatoria o abusiva rilevante nell’ambito del contratto del
consumatore. Possiamo evidenziare due importanti differenze:
-
nell’ambito del divieto di abuso di dipendenza economica, non è posta una limitazione. Infatti, il diritto del consumatore pone
un limite per cui la vessatorietà non riguarda l’oggetto o il corrispettivo: non riguarda il profilo economico, ma solamente il
profilo normativo. Una tale limitazione, posta dall’art. 34 del Codice del Consumo, non è prevista dall’art. 9. Quindi la
maggioranza degli interpreti ritiene che l’abusività della clausola del contratto stipulato tra imprese possa toccare anche
l’aspetto economico, ancorché esso sia trasparente e sia chiaro all’impresa economicamente dipendente. In questo caso quindi
le asimmetrie non sono informative (i soggetti, appartenendo alla stessa categoria, hanno le risorse e le competenze per capire
il contenuto del contratto), ma c’è un’impossibilità ad accedere ad alternative. Nell’ambito del diritto del consumatore il
consumatore è debole perché non ha le competenze e le risorse per individuare alternative soddisfacente; invece, nell’ambito
dei rapporti tra imprese, l’impresa debole non ha alternative sul mercato. Questo vale a giustificare il dato giuridico sul
controllo dello squilibrio anche economico del contratto, e non solo normativo.
-
mentre nell’ambito del contratto del consumatore, la legge pone un elenco esemplificativo di clausole ritenute abusive,
nell’ambito dell’art. 9 non c’è alcun tipo di lista e ci si affida a una clausola generale di gravosità o discriminatorietà della
clausola, qualora questa sia ingiustificata. Questo perché i contratti tra imprese non sono contratti standardizzati, come è invece
nell’ambito dei rapporti tra professionista e consumatore; pertanto, risulta più difficile stilare una lista ed è inutile identificare a
priori una serie di clausole considerate abusive. Proprio perché lo squilibrio può riguardare non solo l’aspetto normativo, ma
altresì quello economico, diventa pressoché impossibile stilare una lista.
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2. rifiuto di vendere o rifiuto di comprare perpetrato a danno dell’impresa economicamente dipendente. Per riunire le due
fattispecie si parla di rifiuto di contrarre.
-
rifiuto di vendere quando l’abuso viene commesso contro l’impresa economicamente dipendente che svolga la funzione di
cliente: ad esempio, l’abuso consistente nel rifiuto di vendere perpetrato dal produttore o dal fornitore che si rifiuta di vendere
una certa quantità richiesta al distributore o al concessionario.
-
rifiuto di comprare come l’abuso perpetrato contro l’impresa fornitrice: il contraente che si pone come relativamente
dominante rispetto l’impresa dipendente può essere il distributore (ad esempio, un supermercato) che si rifiuta di acquistare
dal piccolo fornitore.
3. interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. Questa ipotesi può essere calata concretamente in un rapporto di
subfornitura nel quale l’impresa subfornitrice si relaziona con un’impresa mono-committente, nel senso che non ha altri partner e
quindi la relazione tra la prima e la seconda si qualificherà come squilibrata: il committente potrà abusivamente interrompere la
commissione stessa arrecando un danno all’impresa subfornitrice.
4. Dobbiamo poi immaginare che ci siano degli abusi atipici di dipendenza economica. Ad esempio, la condotta abusiva consistente
non già nell’interruzione ma nella contrazione di un rapporto commerciale: l’impresa che abusa dell’altrui dipendenza economica
non interrompe il proprio rapporto, ma semplicemente riduce le commesse con il danno del partner commerciale che sia
economicamente dipendente.
Anche quando il legislatore non fa riferimento a condotte che siano arbitrarie o ingiustificate (come nel caso del rifiuto a contrarre),
bisogna immaginare che questi caratteri siano esistenti e che non possa quindi considerarsi abusiva della dipendenza economica altrui
la condotta di un’impresa che sia giustificata da ragioni aziendali (ad esempio, ristrutturare la propria organizzazione).
Tali condotte possono essere raggruppate in categorie per comprenderne in modo più approfondito la natura.
• Abusi di dipendenza economica di sfruttamento.
Si fa riferimento innanzitutto alla condotta consistente nell’imposizione di condizioni contrattuali gravose o discriminatorie. In
questo gruppo di condotte abusive, l’interesse dell’impresa relativamente dominante, che abusa della dipendenza economica altrui, è
quello di intrattenere un rapporto iniquo e squilibrato e quindi trarre da quella relazione commerciale un vantaggio inatteso e
ingiustificato.
• Abusi di dipendenza economica di esclusione.
Raggruppiamo l’interruzione arbitraria della relazione commerciale in atto e il rifiuto di contrarre. Nell’ambito di questa categoria,
l’interesse dell’impresa forte è quello di sottrarsi al rapporto con l’impresa dipendente. Il vantaggio concreto per l’impresa può
essere, ad esempio, quello di sottrarsi alla relazione per poter godere di alternative più soddisfacenti del mercato, quindi un
vantaggio che può essere apprezzato in termini di libertà di movimento sul mercato.
Gli abusi di dipendenza economica, di sfruttamento o di esclusione, possono ulteriormente essere accorpati in diverse categorie a
seconda del momento in cui si verificano.
• Abusi originari, se avvengono nel momento in cui il contratto è stipulato.
Un caso di abuso di sfruttamento originario è quello in cui due imprese instaurano sin dall’inizio un rapporto squilibrato: un’impresa
ha il potere di imporre un assetto contrattuale squilibrato e gode di un rapporto che nasce asimmetrico. Per gli abusi di dipendenza
economica di esclusione originari si può fare riferimento al rifiuto di contrarre che riguarda il new comer, ossia il soggetto o
l’impresa che si affaccia in un nuovo mercato.
• Abusi sopravvenuti, se riguardano un momento successivo.
Un abuso di sfruttamento può essere sopravvenuto quando si ha una rinegoziazione abusiva o iniqua dei termini iniziali: il contratto
nasce in modo equilibrato, senza alcun tipo di abuso sindacabile, però l’impresa forte gode di una rinegoziazione, di un mutamento
dei termini contrattuali originari a proprio favore. Gli abusi di dipendenza economica possono essere sopravvenuti quando
consistono nell’interruzione della relazione commerciale in corso, quindi un rapporto già instaurato che viene abusivamente
troncato.
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L’introduzione di controlli così penetranti nell’ambito del contratto tra imprese è evidentemente una novità grande che si pone in
contrasto con la scarsità di strumenti previsti nell’ambito del contratto tra pari del Codice Civile, che considera essenzialmente il
rimedio della rescissione. La rescissione ha presupposti precisi e rigorosi che riguardano individuali situazioni di squilibrio patologico,
per cui il contratto nasce in condizioni fortemente anomale. Viceversa, nell’ambito del contratto tra imprese e del contratto tra
professionista e consumatore si ha uno squilibrio fisiologico, che viene considerato “normale” nell’ambito dei rapporti del mercato e
che riguarda non casi individuali, ma categorie di soggetti. Questo carattere fisiologico si riflette, dal punto di vista normativo e
giuridico, in una maggiore elasticità dei presupposti che consentono l’intervento del legislatore sullo squilibrio del contratto. Si
potrebbe immaginare una nuova figura emergente di contratto asimmetrico, ossia un contratto sindacabile con presupposti più elastici
che comprende sia il contratto con il consumatore sia il contratto tra imprese. Quindi un nuovo paradigma che si contrappone al
modello di contratto tradizionale.
Tuttavia, le differenze tra il modello contrattuale tra imprese e il modello contrattuale tra consumatore e imprese sono tali da impedire
il raggruppamento in un’unica categoria di queste due fattispecie. Da una parte c’è quindi il secondo contratto, tra consumatore e
impresa e dall’altra, il terzo contratto tra imprese. Nell’ambito del secondo contratto è sindacabile soltanto lo squilibrio normativo,
mentre nell’ambito del terzo contratto è sindacabile anche lo squilibrio economico senza limiti particolari. Inoltre, nell’ambito del
secondo contratto si fa riferimento a contratti spot, cioè delle transazioni immediate, mentre nell’ambito del terzo contratto, gli abusi
consistono in una serie di ipotesi più ampie, poiché i contratti tra imprese non sono immediati ma sono contratti relazionali
(relational contract), di durata in cui c’è un rapporto molto stretto tra due imprese nell’ambito del quale possono sorgere degli abusi
non solo iniziali ma anche successivi.
Riassumendo:
Abbiamo visto che anche nella contrattazione tra imprese può manifestarsi un’asimmetria di potere contrattuale. Trattandosi però di
contraenti appartenenti alla stessa categoria non può funzionare una presunzione astratta di debolezza, come quella che opera a favore
dei consumatori nei rapporti con il professionista. L’impresa che chiede una tutela più incisiva da quella prevista in generale dal
Codice Civile dovrà provare la propria concreta situazione di debolezza verso un’altra impresa. L’art. 9 della legge 192 del 1998
definisce tale condizione di debolezza “dipendenza economica”. L’asimmetria tra imprese è tanto informativa, poiché l’impresa non
ignora i profili del contratto più complessi (diversi da quelli evidenti riguardanti il prezzo e le caratteristiche del bene o servizio in
questione), il problema è che l’impresa economicamente dipendente non possiede sul mercato alternative soddisfacenti ed è quindi in
balia degli abusi compiuti dal proprio partner. Lo squilibrio contrattuale sindacabile tra imprese non è solo quello normativo, relativo
ai diritti e agli obblighi, ma è anche lo squilibrio economico, che riguarda il corrispettivo e l’oggetto del contratto.
Il carattere relazionale del contratto tra imprese, non limitato quindi ad uno scambio isolato, fa si che sul piano giuridico gli abusi
sindacabili siano più variegati rispetto alla disciplina consumeristica delle clausole vessatorie: occorre considerare condotte abusive
collocate anche nella dinamica dello svolgimento del rapporto commerciale. La tutela dell’impresa dipendente è quindi più ampia di
quella del consumatore, anche se ricorrere a tale tutela è più difficile per l’assenza di una presunzione astratta di debolezza, che
obbliga quindi l’impresa a dover dimostrare il proprio stato di dipendenza economica in concreto.
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5.2. ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: RIMEDI
Che cosa può domandare al giudice l’impresa che ritenga di aver subito un abuso di dipendenza economica?
La risposta la dà l’art. 9, comma 3 della legge 192/1998 in tema di rimedi giurisdizionali. Inizialmente nel ’98, la norma prevedeva
solamente una prima proposizione per cui il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo. È questo un
rimedio che segna una certa continuità con il contratto del consumatore affetto da clausole abusive. Nel 2001 la norma viene integrata
da una seconda e più ampia preposizione per cui il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di
dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento del danno. Mentre la previsione del rimedio risarcitorio non
innova particolarmente il panorama delle tutele azionabili dall’impresa economicamente dipendente è perchè vi è un principio generale
che garantisce la risarcibilità dei danni effettivamente patiti in conseguenza di un comportamento illecito; viceversa, di notevole
interesse è la previsione di azioni cosiddette inibitorie.
Nel complesso, dalla lettura del comma 3 dell’art. 9 emerge che, a tutela dell’impresa economicamente dipendente, sono previsti tre
ordini di rimedi: invalidatori, inibitori e risarcitori.
Rimedio INVALIDATORIO - Nullità
Il rimedio invalidatorio è efficace quando l’abuso si realizza attraverso un contratto, ossia nel caso di abusi di sfruttamento. Gli abusi
di sfruttamento possono essere originari, quando consistono nella stipula di un contratto squilibrato sin dall’origine ovvero
sopravvenuti quando consistono invece nell’imposizione di una modifica del contratto iniziale e quindi in una rinegoziazione abusiva
dei termini originari.
La nullità in quanto tale pare un rimedio adeguato e sufficiente nel caso di abusi di sfruttamento sopravvenuti: se l’abuso consiste in
una modifica dei termini contrattuali iniziali con un patto modificativo del contratto originario, la nullità del patto è un rimedio
adeguato perché cancella il patto abusivo e fa riespandere la rilevanza del contratto originario che invece non era affetto da profili
abusivi.
Per quanto riguarda la nullità di un contratto che è squilibrato sin dall’origine, non c’è un patto che può essere colpito nella sua
interezza e che fa riespandere dei termini non abusivi ma bisogna adattare questo rimedio alle caratteristiche della fattispecie. Per
capire la complessità dell’applicazione del rimedio invalidatorio nel caso di abusi di sfruttamento originari, occorre partire dalla
considerazione di quello che è l’interesse dell’impresa economicamente dipendente. Come nel caso del contratto del consumatore,
l’interesse della parte debole è quello di conservare il rapporto depurato dalle clausole abusive: non perdere l’affare, ma conservare e
proiettare nel futuro il rapporto al netto dei profili che sono abusivi. Questo interesse, tipico della parte protetta, si scontra con la
previsione generale dell’art. 1419, comma 1 del Codice Civile: c’è il rischio che il contratto sia considerato nullo nella sua interessa
perché la parte forte potrà dimostrare facilmente che non avrebbe stipulato il contratto se fosse stata a conoscenza della nullità
parziale. Questa regola è risolta espressamente nell’ambito del Codice del Consumo all’art. 36, per cui il contratto colpito parzialmente
da nullità resta valido per il resto. Una previsione analoga non è prevista nell’ambito del contratto tra imprese e quindi si pone il
problema di capire come superare le strettoie della regola generale, che in questo caso non è derogata.
A tal proposito, sono stati proposti diversi percorsi interpretativi:
-
Applicazione analogica di cui all’art. 36 del Codice del consumo che prevede una deroga alla regola generale prevista dal Codice
Civile sancendo che il contratto, depurato dalle clausole abusive, rimane valido per il resto. Di fronte a questo dato normativo,
alcuni autori hanno proposto di applicare tale norma esportandola dall’ambito consumeristico fino a quello dei rapporti tra
imprese: da un lato, l’art. 9, comma 3 non stabilisce nulla per quanto riguarda l’estensione della nullità; dall’altro, pare ci sia una
somiglianza tra le norme del Codice del Consumo e della norma prevista a tutela dell’impresa dipendente. Si supera l’idea
dell’impossibilità di applicare una norma che fa eccezione a casi generali, ragionando come se l’art. 36 non ponesse una regola
eccezionale rispetto a quella generale, ma un principio che vale solo nel settore dei contratti stipulati nell’ambito della legislazione
di protezione di uno dei due contraenti. Sulla base di questi argomenti si pratica quindi la via dell’applicazione analogica. ù
A questa teoria sono stati obiettati alcuni argomenti: se l’art. 9 non stabilisce nulla in tema di estensione della nullità si applica la
norma generale; inoltre, non sussiste una somiglianza tra la disciplina del contratto tra imprese con il contratto tra consumatore,
tanto che è preferibile parlare distintamente di secondo e di terzo contratto. Poiché questa strada viene colpita da una serie di
obiezioni, è opportuno identificarne un’altra altrettanto idonea a perseguire il risultato di una nullità parziale necessaria a favore
dell’impresa dipendente.
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Riduzione teleologica degli effetti della nullità. Tale teoria ha origine nell’ordinamento tedesco e persegue l’obiettivo di ottenere
una nullità parziale necessaria non già applicando la norma speciale, trovando quindi delle ragioni per applicare una norma
speciale, ma quello di non applicare la norma generale e quindi trovare ragioni per evitare l’applicazione della regola generale
posta dall’art. 1419, comma 1. L’idea è che si possa non applicare la disciplina generale della nullità ogniqualvolta vi sia un
contrasto tra lo scopo protettivo (nel caso della dipendenza economica, lo scopo è di proteggere una parte) e gli effetti a cui
porterebbe l’applicazione dello statuto generale della nullità. Si ottiene una sorta di adattamento della disciplina generale della
nullità giustificata dalle evidenti ragioni di protezione. In questo caso, avremo come esito la non applicazione della regola
generale dell’art. 1419, comma 1 e la non applicazione della regola generale della nullità che pone una legittimazione assoluta,
ossia la possibilità di chiedere la nullità per chiunque ne abbia interesse. Anche questa norma dev’essere infatti ridotta e non
applicata nell’ambito della legislazione di protezione e trasformarsi nella diversa regola della legittimazione relativa, che vige
invece nel contratto con il consumatore, ossia la possibilità solo per il soggetto protetto, l’impresa debole, di chiedere la nullità.
Non si ritiene che altri profili della nullità in generale siano suscettibili di essere ridotti e non applicati perché non si pongono in
contrasto con gli scopi di protezione.
Il risultato di ottenere una nullità parziale di tipo necessario non è sufficiente in alcuni casi, ossia quando le clausole colpite da
nullità sono le cosiddette clausole essenziali in astratto. Ad esempio, clausole che riguardano l’oggetto del contratto: il contratto
verrebbe privato dell’oggetto, cioè di uno di quegli elementi considerati essenziali in astratto dall’art. 1325 del Codice Civile. In
questo caso, sembra impossibile per il contratto potersi conservare: non basta infatti superare le strettoie dell’art. 1419, comma 1 e
superare quindi la difficoltà di operare un accertamento in concreto dell’essenzialità, perché rimane comunque il fatto a monte che
la clausola è essenziale e che, venendo a mancare, porta alla nullità totale dell’intero contratto. Il contratto sarà integralmente nullo
e sarà quindi frustrato l’interesse dell’impresa dipendente a conservare l’affare depurato dai profili abusivi, salvo che si possano
ipotizzare degli interventi “additivi”, integrativi che vadano a colmare quelle lacune che si sono formate e che porterebbero alla
nullità totale del contratto. Sono state proposte diverse vie per colmare la nullità che colpisce un contratto in parti essenziali in
astratto, ne ricordiamo in particolare due:
1. Utilizzare l’art. 1339 sulla sostituzione automatica di clausole per introdurre nel contratto che sia stato colpito da un
corrispettivo giudicato abusivo un valore di mercato, quindi utilizzare come parametro il valore utilizzato dal mercato per
sostituirlo al valore abusivo colpito dalla nullità evitando che il contratto debba cadere nella sua interezza perché manca
l’oggetto. Quest’ipotesi non è esente da alcune critiche: quella più rilevante è quella per cui l’art. 1339 per essere applicato è
soggetto ad una riserva di legge relativa, ossia una legge che, se non indica il valore da sostituire, indica almeno dei criteri
legali per fare riferimento ad un valore che imperativamente si sostituisca a quello stabilito dalle parti. Questa strada risulta
quindi difficilmente praticabile per le strettoie dell’art. 1339.
2. Integrazione dispositiva. Le norme dispositive sono di per sé derogabili dalla diversa volontà delle parti. Se c’è un aspetto,
come il profilo del prezzo, che riguarda un contratto stipulato con l’impresa economicamente dipendente e che è nullo in
quanto abusivo, si può immaginare che si applichi la norma dispositiva che era stata abusivamente derogata. Se si ritiene
plausibile questa strada, si può invocare, ad esempio, l’art. 1474 del Codice Civile dettato in materia di vendita: se il contratto
tra imprese tocca gli estremi della vendita con un profilo economico abusivo, si può ricorrere a questa norma (dettata per una
lacuna originaria) e compensare l’assenza di pattuizioni sul prezzo, anche nel caso diverso per cui le parti avevano
originariamente stipulato un prezzo ma che, risultando abusivo, è stato giudicato nullo. Norme come queste, se si ammette
l’integrazione dispositiva, possono andare a riempire il profilo economico che viene a mancare, evitare la nullità totale e quindi
consentire all’impresa economicamente dipendente di proseguire il rapporto commerciale sulla base di un diverso prezzo non
abusivo definito a norma di legge.
Rimedio INIBITORIO
Il rimedio invalidatorio non è in grado di tutelare l’impresa economicamente dipendente di fronte a tutti i tipi di abusi che può subire.
In particolare, l’invalidità non è rimedio idoneo contro gli abusi di esclusione che non avvengono in un contratto. Si può fare
riferimento ad abusi di dipendenza economica originari, che consistono nel rifiuto di contrarre con il new comer ovvero ad abusi di
dipendenza economica di esclusione sopravvenuti, che consistono essenzialmente nell’interruzione arbitraria di una relazione
commerciale in corso. Rispetto a queste due fattispecie, l’invalidità non può avere nessun ruolo ed è a queste ipotesi che il legislatore
ha previsto nel 2001, a integrazione del rimedio invalidatorio, il rimedio inibitorio consistente nell’ordine di cessare l’illecito.
Anche per la tutela inibitoria si pongono significativi problemi di interpretazione. Il problema è quello di assicurare, come nel caso del
rimedio invalidatorio, una tutela effettiva all’impresa economicamente dipendente. Per quanto riguarda l’inibitoria, il contenuto della
stessa consiste in un ordine negativo del giudice di astenersi da una condotta antigiuridica. Nell’ambito del diritto del consumatore, già
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dagli anni ’90, è prevista la cosiddetta inibitoria collettiva: le associazioni rappresentative dei consumatori possono domandare al
giudice di rendere un ordine rivolto ai professionisti di cessare un comportamento lesivo degli interessi collettivi dei consumatori (ad
esempio, bloccare le vendite di un prodotto difettoso). Tuttavia, l’impresa economicamente dipendente rispetto agli abusi di esclusione
esigerebbe non già un ordine del giudice rivolto all’impresa forte di non fare, ma un ordine all’impresa forte di fare qualcosa (ad
esempio, stipulare un contratto ovvero reintegrare l’impresa economicamente dipendente dal rapporto abusivamente interrotto).
Questo problema si scontra con l’inesistenza di obblighi a contrarre previsti dall’art. 9: se c’è un obbligo a contrarre, come quello
previsto da un contratto preliminare, la tutela della parte che ha stipulato il preliminare è una tutela forte perché può domandare al
giudice, nel caso in cui l’altra parte si rifiuti di vendere il bene che si è invece impegnato a vendere con il preliminare, una tutela
costitutiva che produca gli effetti del contratto non stipulato. Si pone quindi il problema se attraverso lo strumento della tutela
inibitoria si possa ottenere dal giudice un ordine che abbia un contenuto positivo, rivolto all’impresa forte che ha abusato della
dipendenza economica altrui di astenersi dal non fare. Rispetto a questo problema, l’orientamento iniziale era di tipo negativo: a cosa
serve un ordine del giudice rivolto all’impresa forte che ha interrotto abusivamente un rapporto, ordinare di integrare l’impresa
economicamente dipendente dello stesso? Non è un tipo di attività che può essere supportato da una tutela esecutiva: se una parte deve
ad un’altra una somma e non lo fa, si tratta di un dare che può essere surrogato dall’attività esecutiva dell’ufficiale giudiziario che
andrà ad espropriare i beni e il patrimonio del debitore ottenendo così la somma alla quale il creditore aveva diritto; se invece la parte
fosse obbligata ad un fare infungibile (che non può essere compiuto se non dal soggetto in questione), chi può, se non l’impresa che
ha interrotto abusivamente il rapporto commerciale, reintegrare l’impresa economicamente dipendente esclusa? Nessuno. Allora in un
primo si diceva che siccome è inutile emanare un ordine di fare all’impresa forte, quindi che il giudice le imponga di continuare il
rapporto, il contenuto della tutela inibitoria è inammissibile perché inutile. Viceversa, questo problema è stato superato da quando
nell’ambito del Codice di Procedura Civile nel 2009 è stata introdotta l’idea che se il professionista non si conforma all’ordine
inibitorio del giudice, il giudice per ottenere che il professionista si adegui effettivamente può irrogare una sanzione pecuniaria per
ogni giorno di ritardo. Questo per indurre indirettamente il professionista ad adeguarsi all’ordine inibitorio. Questo tipo di istituto
non è previsto dall’art. 9, ma dal 2009 è previsto in generale nell’ambito del Codice di Procedura Civile per il caso del fare infungibile.
Da quel momento, la strada per ritenere che l’impresa economicamente dipendente possa ottenere, se subisce un abuso di esclusione,
una tutela inibitoria consistente nell’ordine di fare è più facilmente ammesso che nel passato.
RISARCIMENTO DEL DANNO
L’ultimo ordine di rimedi previsto a favore dell’impresa economicamente dipendente è di tipo risarcitorio. Occorre segnalare una
significativa differenza rispetto agli altri rimedi: il rimedio invalidatorio e inibitorio sono cosiddetti rimedi specifici che assicurano
quindi una tutela specifica o in natura, poiché consentono all’impresa economicamente dipendente di ottenere quello a cui aveva
diritto, in generale il diritto di restare nel mercato senza subire abusi (stipulare un contratto al netto dei profili abusivi squilibrati,
proseguire o iniziare una relazione che è stata abusivamente interrotta o che abusivamente non era iniziata); il rimedio risarcitorio
assicura invece all’impresa una tutela per equivalente, non assicura all’impresa quello a cui legittimamente aveva diritto ma soltanto
una tutela quantitativa, ossia l’equivalente monetario. Mentre i primi rimedi specifici sono rivolti al futuro e consentono la
prosecuzione della relazione commerciale al netto die profili abusivi, il rimedio risarcitorio guarda invece al passato, ai rapporti
esauriti e cerca di aggiustare economicamente le pretese delle parti.
Quando l’impresa ha economicamente interesse a richiedere questo tipo di rimedio che assicura una tutela per equivalente, in luogo dei
rimedi specifici?
-Possiamo immaginare un caso in cui l’impresa dipendente non abbia interesse a chiedere rimedi specifici e quindi si avvale solamente
di quelli risarcitori perché, ad esempio, non intende proseguire la relazione commerciale: ha subito un abuso e non vuole più avere a
che fare con il partner commerciale e preferisce quindi rivolgersi a nuovi partner instaurando relazioni commerciali più soddisfacenti
con altri. In questo caso l’impresa che subito abusi chiederà la tutela risarcitoria. Questo può avvenire anche quando l’impresa
dipendente vorrebbe ottenere un rimedio specifico ma si imbatte in giudici che non ritengono opportuno perseguire le strade
interpretative viste, ossia gli adattamenti al regime generale della nullità che assicurino una nullità parziale necessaria o addirittura
l’integrazione del contratto il cui profilo economico è stato abusivo oppure non ritengono, nell’ambito degli abusi di esclusione, la
possibilità di ottenere un’inibitoria positiva.
-In secondo luogo, può darsi che l’impresa economicamente dipendente, che pure si avvale di rimedi specifici, chieda e ottenga la
tutela risarcitoria in aggiunta ai rimedi specifici. Questo può accadere, ad esempio, nel caso di un’impresa che offra dei corsi di lingua
e che ogni anno stipula un contratto di locazione con una certa altra impresa: all’ultimo l’impresa proprietaria dei locali non la dà in
affitto alla scuola di lingue e, anche se la scuola di lingue ottiene un’inibitoria positiva che le assicuri la prosecuzione temporanea del
rapporto per quell’anno (c’è stata un’interruzione arbitraria senza nessun tipo di avviso nei mesi precedenti) per assicurare la
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continuità economica della scuola, potrebbe darsi che nel frattempo, data l’incertezza, alcuni studenti si siano iscritti in un’altra scuola.
Possiamo quindi pensare che in aggiunta al rimedio specifico dell’inibitoria che consente la continuazione del rapporto commerciale
abusivamente interrotto per un certo tempo, l’impresa dipendente possa chiedere anche il risarcimento delle quote degli allievi.
Limiti all’autonomia contrattuale
Dopo aver illustrato i vari rimedi esperibili contro gli abusi di dipendenza economica, occorre una riflessione finale complessiva sui
limiti all’autonomia contrattuale che il divieto di abuso di dipendenza economica introduce nei rapporti tra imprese. Si tratta di limiti
inediti rispetto a quelli tradizionali, perché il Codice prevede la possibilità che un rapporto continui con un contenuto diverso da quello
che le parti avrebbero voluto soltanto nel caso dell’art. 1339 e consente di ottenere di proseguire dei rapporti contrattuali contro la
volontà soltanto nelle singole ipotesi in cui sono previsti obblighi a contrarre.
Nell’ambito del divieto di abuso di dipendenza economica, i limiti sono più ampi. In particolare, contro gli abusi di sfruttamento il
limite riguarda anzitutto il quomodo del contratto, ossia il contenuto. L’impresa forte che contratta con un ‘impresa economicamente
dipendente non ha la libertà di pattuire qualsiasi contenuto contrattuale ma incontra alcuni limiti. Nel caso degli abusi di esclusione, il
limite all’autonomia contrattuale dell’impresa che si relaziona con un’impresa economicamente dipendente riguarda l’an del contratto,
ossia il se del contratto. L’impresa non può sempre scegliere liberamente se proseguire o se iniziare un certo rapporto commerciale.
Anche nell’ambito degli abusi di sfruttamento, l’impresa forte patisce un limite non soltanto per la possibilità di stabilire il contenuto
del contratto, ma anche la libertà di stabilire se contrarre o no: infatti, nella misura in cui si può ritenere che si abbia una nullità
parziale necessaria, si supera il dato normativo costituito dall’art. 1419, comma 1 e l’idea che possa essere tutelato l’interesse di una
parte che non avrebbe contratto se avesse saputo della nullità parziale che lo affliggeva. Quindi anche nell’ambito degli abusi di
sfruttamento, se l’abuso riguarda cosa pattuire, c’è anche un limite che riguarda il se contrarre o meno. Inoltre, nell’ambito degli abusi
di esclusione, si ritiene che oltre al limite riguardante il se contrarre, ci sia anche un limite che riguarda cosa contrarre: l’ordine
inibitorio di fare che emette il giudice può avere anche cura di stabilire qual è il contenuto del rapporto del fare che ordina.
Riassumendo:
I rimedi previsti contro gli abusi di dipendenza economica sono essenzialmente tre: quello invalidatorio, previsto sin dall’entrata in
vigore della norma a cui si sono aggiunti quello inibitorio e risarcitorio, quest’ultimo già desumibile in via generale.
Il rimedio invalidatorio opera quando l’abuso si manifesta nel contratto, cioè nel caso di abusi di sfruttamento, a seconda che
l’imposizione di condizioni gravose avvenga quando il rapporto prende il via o in un momento successivo il rimedio della nullità si
atteggia diversamente: se l’abuso di sfruttamento è sopravvenuto la nullità non richiederà particolari adattamenti, il patto abusivo è
nullo e si riespanderanno i termini originari dell’accordo; se l’accordo è invece originario occorre giustificare l’estensione
necessariamente parziale della nullità in deroga alla regola codicistica per assicurare la tutela dell’interesse dell’impresa dipendente a
conservare il rapporto depurato dai profili abusivi, con il problema ulteriore di convenire quali siano le fonti di integrazione se abusivo
è il profilo economico del contratto, così da evitarne la caducazione totale.
Il rimedio inibitorio, anch’esso specifico, può contrastare gli abusi di esclusione che per loro natura non si manifestano nel contratto.
In questo caso, non serve la nullità bensì un ordine di fare del giudice per assicurare che la relazione commerciale abusivamente
interrotta o non iniziata si svolga o prosegua nel futuro. Il problema della tutela riguarda la possibilità di emettere l’inibitoria con un
contratto positivo, di fare infungibile coercibile indirettamente attraverso lo strumento della sanzione. Entrambi i rimedi specifici
limitano la possibilità dell’impresa forte di scegliere se concludere un contratto e quale contenuto dare. Quest’ultimo prevale
concettualmente nel caso di abuso di sfruttamento, mentre nel caso di abusi di esclusione viene limitato innanzitutto il se contrarre.
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Il rimedio risarcitorio, a differenza degli altri due, offre una tutela per equivalente monetario. Ad esso l’impresa dipendente può
rivolgersi ogniqualvolta ritenga di aver subito dei danni: sia in sostituzione di rimedi specifici sia in alternativa, con quantificazione
diversa nel primo e nel secondo caso.
5.3. ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: PRESUPPOSTI
Qual è il presupposto per applicare il divieto di abuso di dipendenza economica? Nei rapporti tra imprese non può operare, come nel
caso di rapporti tra professionista e consumatore, una presunzione astratta, ossia una regola che ex ante stabilisca che un contraente sia
debole nei confronti dell’altro in quanto tale. Nel caso dei rapporti tra imprese i due contraenti appartengono alla stessa categoria
soggettiva: non ci si può avvalere quindi di una presunzione e bisogna accertare in concreto quale sia il soggetto debole del rapporto,
in relazione al quale applicare una normativa di tutela che lo protegga a fronte degli abusi di dipendenza economica dell’altra. Che
cosa deve dimostrare l’impresa per ottenere la tutela di cui all’art. 9 della legge 192/1998?
L’art. 9, comma 1 definisce la dipendenza economica come la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare un eccessivo
squilibrio di diritti e di obblighi. Questa formula ricorda quella utilizzata nell’ambito del Codice del Consumo per dare la definizione
di clausola abusiva, che determina un significativo squilibrio di diritti ed obblighi a carico del consumatore. Nell’ambito del Codice
del Consumo serve ad indicare quali clausole sono abusive e quindi nulle, indicando un abuso già avvenuto; nell’ambito invece dei
rapporti tra imprese si tratta di una situazione di squilibrio soltanto potenziale. L’eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi non deve
essersi verificato, ma dev’essere potenzialmente ravvisabile. Con questa definizione si va ad indicare una situazione che non è ancora
abusiva e che non è quindi vietata (la dipendenza economica costituisce una condizione di debolezza di per sé legittima). Questa
definizione di dipendenza economica ha suscitato vari dubbi tra gli studiosi perché crea dei problemi applicativi: se l’abuso è di
esclusione, l’impresa che lamenta l’interruzione arbitraria di una relazione commerciale in atto domanda al giudice di essere
reintegrata in quella relazione commerciale interrotta abusivamente e dovrà dimostrare che quell’impresa aveva il potere di
determinare nei sui confronti uno squilibrio di diritti e di obblighi. Quindi nei casi di abuso di esclusione, non c’è stato in concreto
l’imposizione di un contratto squilibrato e viene difficile per il giudice immaginare che quell’impresa avrebbe potuto fare qualcosa che
in concreto non ha fatto. È un giudizio meramente ipotetico. Se invece l’abuso si è realizzato con modalità di sfruttamento e c’è stata
effettivamente l’imposizione di un contratto eccessivamente squilibrato, sarà difficile per il giudice ritenere che di fronte ad uno
squilibrio l’impresa non aveva il potere per imporre un tale contratto.
Nel primo caso, abuso di esclusione, non c’è stato in concreto un contratto squilibrato e diventa difficile per il giudice immaginare se
tale contratto avrebbe potuto essere concluso; se invece c’è stato un contratto squilibrato, è difficile pensare che il giudice possa
escludere che l’impresa aveva il potere di imporre un tale contratto. In entrambi i casi, abusi di sfruttamento e di esclusione, il criterio
che dà l’art. 9 per definire la dipendenza economica risulta inutile da applicare nel primo caso e fuorviante nel secondo (di fronte a
qualsiasi contratto squilibrato il giudice sarà tentato di dire che c’è anche una dipendenza economica). La dipendenza economica è un
fattore distinto dall’abuso, è un presupposto. Pertanto, questa porzione di definizione della dipendenza è sostanzialmente inapplicabile.
Viene allora in rilievo il secondo criterio che l’art. 9 dà per definire e individuare la dipendenza economica. Sempre l’art.9, comma 1
(ultimo periodo) fa riferimento alla reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative
soddisfacenti. Se il criterio dell’eccessivo squilibrio potenziale di diritti e obblighi pone dei significativi problemi per essere applicato,
c’è un secondo criterio che appare chiave per individuare e analizzare la dipendenza economica e che è presente in altri ordinamenti
dell’UE: il divieto di abuso di dipendenza economica non è una normativa introdotta in Italia in attuazione di una direttiva (come è
invece la normativa sul consumatore), ma è presente autonomamente in altri paesi dell’Unione (ad esempio, la Germania che è stato il
primo paese ad introdurre norme di questo tipo negli anni ‘70 o la Francia a partire dagli anni ’80). Questo criterio dell’assenza di
alternative soddisfacenti sul mercato risulta particolarmente significativo nell’ambito dell’art. 9, dati i limiti del primo criterio
(squilibrio potenziale), ma anche perché trova riscontro in ordinamenti di altri paesi.
Cosa significa accertare che non c’erano alternative soddisfacenti per l’impresa e quindi che essa dev’essere qualificata come
economicamente dipendente? Una lettera della norma suggerisce due fasi per accertare l’assenza di alternative:
-
da un lato, che le alternative non esistevano dal punto di vista oggettivo nel mercato;
-
dall’altro, che dal punto di vista soggettivo dell’impresa che si sta considerando quelle alternative non erano soddisfacenti o
comunque non erano reperibili per l’impresa.
Vi è quindi una duplice fase, oggettiva e soggettiva: l’impresa che abbia dimostrato che oggettivamente non c’erano alternative o che
queste non erano soddisfacenti per rimanere competitiva sul mercato o che comunque non erano economicamente fruibili per essa,
risulterà economicamente dipendente e potrà domandare le tutele e i rimedi visti. Dipendenza economica significa quindi richiedere
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che l’impresa non poteva tutelarsi da sé a fronte degli abusi ricorrendo ad alternative sul mercato: lo stato non offre tutela se l’impresa
avrebbe avuto la possibilità di stipulare un contratto non squilibrato con un’altra impresa, in questo modo avrebbe potuto autotutelarsi,
è auto-responsabile e risponde delle conseguenze negative che derivano dal suo comportamento. Ciò significa quindi che quella della
dipendenza economica e il relativo abuso sanzionato dall’art. 9 non vuole essere una norma che tutela le imprese che hanno compiuto
scelte sbagliate, ma si vuole invece tutelare le imprese che senza colpa sono rimaste costrette e hanno subito degli abusi in ragione
delle dinamiche selvagge del mercato.
In quali situazioni possono concretamente venire a mancare delle alternative soddisfacenti per un’impresa?
Dipendenza da investimenti specifici
Gli investimenti specifici o idiosincratici sono investimenti che un’impresa compie in vista del rapporto con un’altra e che non
possono essere facilmente riconvertiti in altri usi. Ad esempio, un’impresa in vista di un rapporto di durata con un’altra per la quale
deve costruire e fornire degli specchietti con determinate caratteristiche per un’automobile, fa degli investimenti per acquistare o
trasformare i propri macchinari per produrre proprio quei particolari pezzi. In questa situazione si fa riferimento all’insorgenza dei
cosiddetti switching cost, ossia dei costi commutativi o di transizione: una volta che sono stati compiuti quegli investimenti specifici,
l’impresa che li ha sostenuti non po' facilmente riconvertirli se non sopportando appunto ulteriori costi di commutazione. Questi costi
creano una sorta di barriera e determinano una sorta di prigionia, detta lock-in-effect, in riferimento all’impresa che sopporta tali costi
commutativi: l’impresa per riadattare i propri macchinari a produrre gli specchietti di un altro modello deve sostenere costi molto
elevati, tali che la inducono a desistere e quindi a continuare il rapporto con il partner precedente. Si parla di dipendenza da
investimenti specifici. Si può naturalmente immaginare una situazione di dipendenza reciproca, nella quale una parte ha sostenuto
degli investimenti specifici in vista del rapporto con un’altra e anche questa a sua volta ha compiuto degli investimenti specifici alla
relazione che vuole intraprendere con la prima. In questo caso, non ci saranno gli estremi per subire degli abusi, perché nessuna delle
due imprese sarà interessata a compiere degli abusi verso l’altra. Negli altri casi, si parla di monopolio relazionale non reciproco:
anche se ci sono altre imprese sul mercato, dal punto di vista soggettivo dell’impresa che ha compiuto degli investimenti specifici, si
crea un monopolio relazionale, e quindi relativo a quella relazione commerciale. La prima impresa non può fare a meno della seconda
ed è quindi economicamente dipendente, mentre la prima potrebbe rivolgersi ad altri soggetti. È questa una situazione tipica della
subfornitura in cui sarebbe tutelata, con il divieto di abuso di dipendenza economica, un’impresa subfornitrice che crea un prodotto
che si iscrive nella produzione di un prodotto che arriva poi direttamente al consumatore.
Quali sono gli abusi configurabili? Quindi, su quali condotte abusive una tale nozione di dipendenza economica può giustificare?
Nel caso in cui ci sia un’impresa che cede dei semilavorati ad un’altra impresa, possiamo immaginare che per questa impresa risulti
più conveniente rimanere legata al rapporto contrattuale anche se i semilavorati vengono pagati ad un prezzo inferiore rispetto a quello
concordato: rompere quella relazione, in ragione dei costi commutativi, può avere un prezzo troppo elevato per l’impresa in questione.
La configurabilità di questa situazione di debolezza fa si che la controparte contrattuale, quella che si giova dei semilavorati, possa
minacciare la prima parte di interrompere la relazione commerciale (termination) perché è appunto consapevole del fatto che
l’interruzione avrebbe un prezzo troppo elevato. In forza di questa minaccia, potrebbe quindi ottenere il consenso dell’altra impresa a
rinegoziare i termini iniziali e quindi avere il consenso dell’impresa che cede i semilavorati ad applicare un prezzo inferiore. In questo
modo, l’impresa che acquista i semilavorati si giova di rendite “quasi monopolistiche”, ossia di rendite che non fanno riferimento ad
un monopolio di mercato ma ad un monopolio relazionale delle utilità che non erano attese in base all’instaurazione del rapporto. Si
parla di un abuso di hold up, ossia di una rapina di queste rendite. L’abuso può consistere:
• in un abuso di dipendenza economica di sfruttamento, se appunto c’è una rinegoziazione dei termini iniziali, e in questo caso il
rimedio è quello della nullità totale che colpisce il patto rinegoziativo e fa riespandere i termini iniziali del contratto;
• in un abuso di esclusione per cui la minaccia di termination potrebbe effettivamente realizzarsi e la relazione commerciale
consolidata interrompersi. In questo caso, poteva essere una minaccia volta nell’intenzione dell’impresa che acquista i semilavorati a
indurre la controparte e rinegoziare oppure semplicemente di un interesse dell’impresa a svincolarsi da una relazione commerciale e
instaurarne una più vantaggiosa.
Questi abusi hanno in comune il fatto di essere abusi sopravvenuti, che postulano la stipula di un contratto a monte che si suppone
valido e non abusivo e si inscrivono nello svolgimento della relazione commerciale: da una parte, il patto rinegoziativo e dall’altra,
l’interruzione di una relazione già instaurata. Si fa quindi riferimento a un’estorsione post contrattuale, che appunto postulano
un’instaurazione del rapporto già avvenuta. Il limite è che è difficile immaginare abusi di dipendenza economica originari o genetici,
che hanno luogo all’inizio della relazione commerciale e che sono quindi abusi di sfruttamento che portano all’instaurazione sin
dall’inizio di un rapporto contrattuale squilibrato oppure che consistono dall’inizio in un rifiuto abusivo di contrarre con il new comer.
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Dipendenza da assortimento
Esistono nozioni di dipendenza alternative che consentano di sindacare degli abusi di dipendenza originari, che si realizzano in un
contratto squilibrato sin dall’origine o i n un rifiuto di contrarre nei confronti del soggetto appena entrato nel mercato. Si fa riferimento
quindi ad una nozione di indipendenza che riguarda i distributori che, per essere competitivi sul mercato dei distributori, hanno la
necessità di avere nel loro assortimento un certo prodotto di marca. È questa una dipendenza che tocca quindi i distributori nei
confronti dei produttori di un certo marchio. In questo caso, si può parlare di abusi originari perché si tratta di una dipendenza
precontrattuale, che non affonda le sue radici nel contratto ma nel mercato. Si tratta di una situazione di mercato che viene chiamata
dagli economisti concorrenza monopolistica, dove dei produttori, anche se non sono detentori di una quota eccessiva di mercato,
riescono attraverso la differenziazione del prodotto a ritagliarsi una nicchia. Rispetto a questa nozione, si potrebbe ipotizzare di
adottare una nozione di dipendenza economica da assortimento che, dal punto di vista giuridico, si presta a catturare gli abusi che un
tale produttore può compiere nei confronti del distributore che necessita di quel certo marchio. Di questa nozione non c’è traccia per il
momento nella giurisprudenza, si tratta soltanto di ipotesi della dottrina che saranno magari recepite dai giudici.
Dipendenza economica tipica o presunta
È forse anche per la difficoltà di individuare una forma di dipendenza economica precontrattuale che giustifichi l’intervento contro
abusi originari di sfruttamento o di esclusione, che il legislatore italiano ha introdotto delle figure di dipendenza economica tipica o
presunta. In particolare, facciamo riferimento al Decreto liberalizzazione 2012 che ha introdotto all’art. 17, comma 3 la seguente
disposizione: integrano abuso di dipendenza economica le condotte delle grandi imprese titolari degli impianti fornitrici del carburante
dirette a ostacolare, impedire o limitare le facoltà attribuite al gestore. Tra le facoltà che sono state conferite al gestore nell’ambito
della liberalizzazione del settore della distribuzione dei carburanti ci sono quella di rifornirsi liberamente da qualsiasi produttore o
rivenditore e anche quella di stipulare contratti per l’affidamento e l’approvvigionamento degli impianti di distribuzione a condizioni
eque e non discriminatorie. Ciò significa che il legislatore è voluto intervenire introducendo una presunzione astratta di dipendenza
economica. Il legislatore ha individuato un settore che è normalmente caratterizzato da squilibrio di potere contrattuale (il gestore
della pompa di benzina e le grandi imprese proprietarie o fornitrici del carburante) e ha introdotto la possibilità per il giudice di
intervenire con gli strumenti dell’art. 9, quindi la possibilità di utilizzare rimedi a favore dell’impresa economicamente dipendente per
sanzionare le condotte abusive della controparte, senza dover accertare in concreto il presupposto che l’impresa sia economicamente
dipendente. Ciò è destinato anche a facilitare il lavoro del giudice, agevolandolo in uno degli aspetti più difficili della norma, ossia
l’accertamento in concreto della dipendenza: il giudice, individuato che una parte appartiene soggettivamente alla categoria del gestore
e l’altra alla categoria di fornitore o proprietario del carburante, potrà applicare i divieti e i relativi rimedi. Il legislatore adotta una
tecnica simile a quella adottata nel caso dei rapporti tra consumatore e professionista, stabilendo ex ante che c’è una debolezza di una
parte nei confronti di un’altra. Inoltre, non potendo stabilire la debolezza di un’impresa in generale perché le imprese, nell’ambito
B2B, sono contraenti appartenenti tutti alla stessa categoria soggettiva, il legislatore ha stabilito la debolezza in relazione ad un
determinato settore, quello della distribuzione dei carburanti. In questo modo però si stacca il divieto di abuso di dipendenza
economica dalla logica che gli è propria, quello di richiedere un accertamento in concreto, e si atteggia in maniera simile a quella dei
rapporti B2C.
Quali sono le tipologie di dipendenza economica e i relativi abusi che possono configurarsi?
• Dipendenza da investimenti specifici: consente di applicare il divieto di abuso di dipendenza economica in relazione ad abusi
sopravvenuti nel corso del rapporto. Da un lato, come abuso di sfruttamento intendiamo la rinegoziazione iniqua dei termini
contrattuali originari e dall’altro, come abuso di esclusione l’interruzione arbitraria della relazione commerciale.
• Dipendenza da assortimento: tratta dall’esperienza tedesca e grazie alle presunzioni legali che il legislatore sta introducendo in
alcuni settori, è possibile idealmente configurare anche abusi di dipendenza economica originari: contratti che sono squilibrati sin
dall’inizio, con riguardo ad abusi di sfruttamento ovvero abusi di esclusione che consistono nel rifiuto a contrarre con un soggetto
che è nuovo nel mercato.
È però importante sottolineare che esiste un altro problema riguardante l’enforcement, ossia l’attuazione completa del divieto di abuso
di dipendenza economica. Se da un lato è possibile immaginare degli abusi di sfruttamento sia sopravvenuti che originari, in pratica gli
abusi di esclusione sono quelli maggiormente praticati e rispetti ai quali c’è contenzioso. È naturale infatti immaginare che la parte che
abbia subito un abuso di sfruttamento (contratto squilibrato sin dall’origine o in un momento successivo) difficilmente sia incentivata
ad agire nell’ambito del processo civile: se è vero che è interesse dell’impresa dipendente continuare la relazione (anche con un
trattamento economico deteriore rispetto a quello pattuito all’inizio) e se quindi ha un costo troppo elevato interrompere la relazione, è
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normale che l’impresa non avrà una spinta ad adire il giudice in costanza del rapporto per aprire un contenzioso nei confronti
dell’impresa dalla quale economicamente dipende. Si crea un problema di enforcement diverso e ulteriore rispetto a quello di
individuare delle nozioni di dipendenza economica adeguate a sostenere e giustificare non solo abusi di dipendenza economica
sopravvenuti ma anche originari.
TUTELA AMMINISTRATIVA
Di fronte al problema del disincentivo ad agire per l’impresa economicamente dipendente che nel corso del rapporto subisce degli
abusi di sfruttamento originari o sopravvenuti, il legislatore non è rimasto impassibile e nel 2001, dopo che nel 1998 era stato
introdotto l’art. 9 e quindi il divieto di abuso di dipendenza economica, ha modificato la norma aggiungendo il comma 3bis. In
particolare, il legislatore ha introdotto una competenza ad intervenire contro gli abusi di dipendenza economica di un ente terzo e
imparziale rispetto alle parti, sollevando quindi l’impresa dipendente dall’onere di intervenire di sua iniziativa di fronte al giudice. Il
legislatore ha quindi introdotto la competenza dell’AGCM a intervenire in questo settore.
In primo luogo, l’AGCM si attiva d’ufficio attraverso i suoi poteri di iniziativa rispetto alle informazioni che acquisisce o su
segnalazione di qualunque soggetto interessato (ad esempio, la stessa impresa economicamente dipendente che non deve in questo
caso sobbarcarsi dell’onere di chiamare un avvocato, agire in giudizio, coltivare il processo anticipando le spese ma deve soltanto
segnalare). Sarà poi l’Autorità valutare se sarà il caso di attivarsi e quindi agire autonomamente e di portare avanti il procedimento
lasciando che l’impresa dipendente possa beneficiare degli effetti del provvedimento finale.
In secondo luogo, un altro profilo da considerare è quello dell’istruttoria: è una fase che da un lato comporta la formazione del
contradditorio (le parti interessate vengono sentite e hanno la possibilità di dire la propria versione attraverso audizioni o la produzione
di documenti) e dall’altra, l’utilizzo degli ampi poteri istruttori che caratterizzano l’AGCM, ossia i poteri volti ad accertare se c’è
stata o meno l’infrazione. Sono poteri di indagine (ad esempio, chiedere la visione di determinati documenti) che sono coperti dalla
possibilità di irrogare sanzioni pecuniarie nel caso in cui l’impresa che ha compiuto abusi non produca i documenti o le informazioni
richiesti o questi siano falsi. È possibile poi attuare delle ispezioni avvalendosi del corpo della Guardia di Finanzia. Alla fine di questa
fase istruttoria, l’Autorità comunica agli interessati le risultanze entro almeno 30 giorni prima della chiusura dell’istruttoria e le parti
possono poi presentare memorie scritte fino a 5 giorni prima e hanno diritto di essere ascoltate in un’audizione finale.
In ultimo, consideriamo il profilo del provvedimento finale che accerta o meno in concreto l’avvenuto abuso di dipendenza
economica a danno di un’impresa. Qui i possibili risvolti applicativi, nel caso in cui venga accertato l’abuso di dipendenza economica,
sono due:
-
diffida: l’Autorità fissa un termine per l’eliminazione dell’infrazione stessa e, in caso di inottemperanza, può irrogare una sanzione
pecuniaria fino al 10% del fatturato dell’impresa. È quindi un forte incentivo per l’impresa ad uniformarsi alla diffida stessa. In
caso reiterata inottemperanza alla diffida, potrebbe disporre la sospensione dell’attività dell’impresa fino a 30 giorni.
-
sanzioni pecuniarie: tale sanzione riguarda il fatto in sé che è stato violato il divieto di abuso di dipendenza economica. Questo
nel caso in cui si tratta di infrazioni gravi, tenendo anche conto della durata dell’infrazione stessa.
Un simile provvedimento può essere impugnato di fronte al giudice amministrativo.
Il legislatore italiano, introducendo nel 2001 una forma di tutela amministrativa contro gli abusi di dipendenza economica, ha però
subordinato l’intervento dell’AGCM a una condizione ben precisa: l’abuso in questione deve avere rilevanza per la tutela della
concorrenza e dl mercato. Questo presupposto non è facilmente accertabile in concreto, forse anche perché la nozione di dipendenza
più diffusa è quella legata agli investimenti specifici ed ha origine in un contratto e non direttamente nel mercato (come, ad esempio
quella legata alla dipendenza da assortimento): è quindi più difficile individuare una rilevanza per il mercato per questo tipo di abusi.
Finora l’AGCM non è mai intervenuta nell’ambito dell’abuso di dipendenza economica e non ha mai ritenuto sussistente una rilevanza
per la concorrenza e per il mercato di un abuso di questo tipo.
Di fronte a questa difficoltà, il legislatore è intervenuto introducendo una presunzione di rilevanza per l’intervento dell’AGCM. In
particolare, all’art. 9, comma 3bis (modificato nel 2011) il legislatore ha stabilito che l’abuso di dipendenza economica si può attuare
senza necessità di individuare la rilevanza per la concorrenza e per il mercato nel caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina
dei ritardi di pagamento ai danni delle imprese, in particolare quelle piccole e medie. Il legislatore introduce quindi una presunzione
(come quella introdotta nei rapporti tra gestore e fornitore o produttore di carburanti) e, oltre a sollevare il giudice civile dall’incarico
di accertare in concreto la dipendenza, solleva anche l’AGCM dall’onere piuttosto gravoso di individuare una rilevanza per la
concorrenza e il mercato di questo genere di abuso. Rispetto a questi settori, basterà quindi all’AGCM rilevare che c’è da un lato una
violazione della disciplina dei ritardi di pagamento e che questa sia diffusa e reiterata. Se sussistono tali presupposti, molto più facili
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da accertare rispetto alla dipendenza economica e la sua generica rilevanza per la concorrenza e il mercato, l’Autorità potrà intervenire
contro gli abusi di dipendenza economica.
Riassumendo:
Il presupposto fondamentale per ottenere tutela contro questo genere di abusi è la situazione di dipendenza. Scartato il criterio che
fonda la dipendenza stessa sullo squilibrio potenziale dei diritti e degli obblighi perché inadatto o fuorviante, abbiamo ricostruito il
concetto sull’assenza di alternative soddisfacenti nel mercato per l’impresa. L’ipotesi più riconosciuta in cui questo si verifica avviene
quando l’impresa compie investimenti specifici e asimmetrici in vista di una relazione commerciale. Tale nozione di dipendenza si
presta a sindacare abusi sopravvenuti nel corso del rapporto, ma non gli abusi originari. Per contrastare gli abusi di dipendenza
economica che consistono in un contratto squilibrato sin dall’inizio o in un rifiuto a contrarre, serve immaginare situazioni di
dipendenza diverse, come quella di assortimento che precedono la stipula del contratto. Si può parlare in questo caso di dipendenza
precontrattuale. L’impresa potrà avvalersi anche di presunzioni legali che sono previste a favore dei gestori degli impianti che
distribuiscono carburante o delle piccole medie imprese creditrici.
Per superare il problema del disincentivo ad agire per l’impresa dipendente, specie quando è vittima di abusi di sfruttamento, è stata
introdotta una competenza dell’AGCM affiancando così ai tradizionali rimedi civilistici azionati dai privati la tutela amministrativa,
ossia il public enforcement offerto dall’Autorità che consiste in diffide e sanzioni pecuniarie. Perché il public enforcement si attivi,
serve dimostrare un presupposto ulteriore rispetto alla dipendenza economica, cioè la rilevanza concorrenziale dell’abuso. Si deve
trattare quindi di ipotesi che coinvolgono l’interesse pubblico al buon funzionamento del mercato e non solo quello privato riguardante
i contraenti.
Il divieto di abuso di dipendenza economica si è ritagliato nella giurisprudenza uno spazio come strumento per far proseguire
nell’immediato relazioni commerciali abusivamente interrotte. L’impressione è che lo snodo fondamentale, attraverso il quale debba
passare il divieto per ottenere un’implicazione più varia, sia duplice: da un lato, elaborare nozioni di dipendenza diverse da quella
basata sugli investimenti specifici per sindacare anche gli abusi originari e dall’altro, studiare e immaginare delle implicazioni
concorrenziali relative al mercato di questo genere di abusi per poter superare il problema del disincentivo ad agire, lasciando che
intervenga anche l’AGCM.
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DOMANDE MODULO 5
-
Qual è l’ambito di applicazione del divieto di abuso di dipendenza economica?
-
Contro quali abusi funziona la nullità e contro quali l’inibitoria?
-
Qual è il criterio fondamentale per valutare la dipendenza economica e perché?
Quali tipi di abuso di dipendenza economica conosci e come si possono raggruppare?
Cosa si intende per secondo e terzo contratto e perché si usano queste formule?
Quali sono i problemi interpretativi sollevati dalla nullità protettiva in ambito b2b? quali dall’inibitoria?
Qual è la particolarità dei rimedi specifici e quali limiti all’autonomia contrattuale comportano?
Cos’è la dipendenza da investimenti specifici e per quali abusi non si adatta? Conosci altre nozioni di dipendenza?
Quali iniziative ha adottato il legislatore per ravvivare l’applicazione del divieto?
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MODULO 6 - Contratto B2B
(seconda parte)
6.1. DIRITTO CONCORRENZA - CONDOTTA
La concorrenza sin dall’antichità è stata considerata un bene giuridico meritevole di tutela e tutt’ora è protetta dal diritto europeo, dal
diritto dell’ordinamento italiano e degli ordinamenti degli altri paesi sviluppati. Il favore a questo bene giuridico è legato al favore
degli scambi: uno scambio libero consente la soddisfazione dei bisogni dei contraenti e avviene a un prezzo liberamente concordato e
accettato tra le parti, un prezzo “giusto”. Ecco perché sin dall’antichità sono considerati con occhio di sfavore i fenomeni legati al
monopolio e che consentono di falsare i prezzi, distorcere il prezzo rispetto a quello che il bene avrebbe in un libero scambio. Se dal
punto di vista teorico c’è stato un generico favore per la concorrenza così intesa, nel coso dei secoli ci sono state diverse deroghe.
In un primo tempo, a partire dal 1200 circa, come deroga al principio generale della concorrenza c’erano le corporazioni, ossia
gruppi di arti o mestieri praticati da certi soggetti che solo loro possono offrire. Si tratta dei cosiddetti monopoli collettivi: non c’è
libera concorrenza e non tutti possono esercitare la professione (ad esempio quella di avvocato o di medico), ma solo i soggetti che
appartengono alla relativa corporazione. Questo per due ragioni: garantire la qualità del prodotto o del servizio che viene offerto,
quindi garantire che chi svolge la professione di avvocato o di medico sia in grado di rispettare certi standard nell’esecuzione delle
relative prestazioni e garantire una remunerazione dignitosa che garantisca al professionista un corrispettivo adeguato. Queste ragioni
sono tali per cui già nel XIII secolo sono state istituite delle deroghe al generale favore per la concorrenza, attraverso quindi
l’istituzione di monopoli collettivi.
In un secondo momento, a partire dal 1500 circa con il fenomeno del mercantilismo, permangono le corporazioni e vi è però la
tendenza degli Stati a promuovere le proprie imprese. Ciò fa si che ci siano dei monopoli legali, ossia delle imprese attuate
direttamente dallo Stato che offrono in via esclusiva un determinato bene o servizio. Questo fenomeno, più che la concorrenza tra
imprese, riguarda la concorrenza fra Stati nel promuovere e proteggere le proprie imprese.
In una fase ancora successiva, a partire dalla fine del 1700, si afferma il concetto di liberismo basato sulla nozione di “Mano
Invisibile”: il prezzo libero, come una mano invisibile, tende a dare a chi ha bisogno e a togliere a chi ha di più. Secondo questa
metafora, lo spazio riservato alle deroghe della concorrenza deve essere limitato. Tuttavia, il lassez faire (il “lasciar fare” il mercato)
non si concretizza sempre in maniera coerente e anzi permangono le deroghe viste.
Vi è poi un’ulteriore fase, a partire dalla fine del 1800, nella quale si concretizza un fenomeno diverso da quello del liberismo, il
dirigismo. Le imprese sono dirette e governate dallo Stato: non c’è tanto il timore delle deroghe alla concorrenza, ma piuttosto il
timore che la concorrenza si attui in modo negativo. Si guardavano con favore quei fenomeni di coordinamento tra imprese, come
quello degli accordi tra le stesse per migliorare la produzione di beni o servizi.
La storia della concorrenza in Europa è millenaria e caratterizzata da un generico favore per la concorrenza stessa, ma anche da un
numero variabile di deroghe ammesse per la soddisfazione del benessere collettivo. Parallelamente negli Stati Uniti, nell’800 si ha una
storia del diritto della concorrenza più recente e caratterizzato da un fenomeno sconosciuto in Europa, ossia il conflitto tra le grandi
imprese emergenti (ad esempio, quelle che operavano nel settore petrolifero e ferroviario) e le piccole-medie imprese (agricole e
manifatturiere) che costituivano il nervo dell’economia americana. Sulla base dell’esigenza di tutelare le piccole-medie imprese verso
quelle grandi, viene introdotto nel 1890 lo Sherman Act, la prima importante legislazione antitrust negli USA che verrà poi presa a
modello in Europa. Rispetto alla storia europea, la storia americana è molto più recente e non deve fare i conti con l’esistenza di
corporazioni o tendenze protezionistiche, quindi la libertà di concorrenza e di iniziativa economica individuale può essere presa più sul
serio.
Il divieto antimonopolistico si connota, soprattutto dagli anni ’50, per essere interpretato in ragione di un’efficienza del sistema e per
l’obiettivo di tutelare il benessere del consumatore, il cosiddetto consumer welfare.
Nel frattempo, anche la storia europea della concorrenza assume una connotazione differente, soprattutto a partire dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale, in particolare per l’influsso della scuola tedesca di Friburgo che teorizza il cosiddetto ordoliberalismo:
• tornare, dal punto di vista teorico, all’importanza di un mercato libero: incrementare l’efficienza di un mercato che si muove e opera
liberamente;
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• timore, anche alla luce delle vicende che avevano portato alla Seconda Guerra Mondiale, che un mercato lasciato a sé stesso possa
collassare e che si possano creare delle strutture di potere privato che ostacolano il mercato e creano pericoli per l’uguaglianza e la
democrazia.
L’obiettivo dell’ordoliberalismo è quindi quello di garantire il pluralismo nel mercato: garantire, da un punto di vista statico, la
struttura di mercato tipica della concorrenza perfetta basata su una pluralità di operatori economici che si fanno concorrenza tra loro.
Rispetto a questo modello, vi è poi un’evoluzione successiva che viene dall’esperienza americana: applicare al diritto della
concorrenza un approccio più dinamico ed economico. Non bisogna guardare alla struttura di mercato e ai presupposti, ma bisogna
soffermarsi sui risultati. Quindi, ad esempio, se dal punto di vista dell’analisi economica, in un certo mercato il monopolio è
vantaggioso perché gode delle economie di scala, questo può essere considerato positivo e accettabile. Ormai si guarda soprattutto ai
risultati in termini di efficienza economica e di consumer welfare, piuttosto che alla struttura di mercato e ai presupposti.
CONDOTTE
Le radici di tale diritto si trovano nel Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), che storicamente era chiamato Trattato della
CEE firmato a Roma nel 1957. Tale Trattato contempla tutta una serie di regole procedurali molto minuziose (ad esempio, come i vari
organi dell’UE si devono muovere per introdurre direttive e regolamenti), tra cui spiccano però una serie di regole sostanziali, che
dicono già ai soggetti dell’Unione come muoversi, senza dover aspettare l’emanazione di direttive o regolamenti. Tra queste regole
sostanziali vi sono quelle sul funzionamento del mercato e, in particolare, sulla concorrenza: la concorrenza, dal punto di vista
economico e giuridico, ha un ruolo fondamentale per il nuovo mercato che, fin dal 1957, la CEE vuole introdurre e rendere operativo
tra i suoi Stati membri.
Vediamo quali sono le cinque fondamentali regole che riguardano il diritto europeo della concorrenza:
1. Divieto di intese anticoncorrenziali, art. 101. Tale norma proibisce la collusione, in base al principio che ogni impresa
muovendosi sul mercato deve decidere da sé la propria strategia, senza coordinarsi con le altre, proprio perché la concorrenza sia
effettiva. Vi sono talora delle deroghe a questo principio quando apportano in concreto dei benefici per l’efficienza.
2. Divieto di abuso di posizione dominante, art. 102. Sebbene l’impresa decidi da sé la propria strategia, quando è dotata di un
potere di mercato ed è quindi in grado di impattare sul funzionamento del mercato e della concorrenza, le sue condotte devono
essere controllate dal diritto.
3. Autorizzazione alle concentrazioni, prevista da un Regolamento esterno al Trattato del 1989. Si comincia a pensare, anche con
un nuovo Regolamento del 2004, che le fusioni di imprese, generalmente considerate positive per il beneficio che apportano,
devono essere controllate attraverso un regime di autorizzazioni. Non c’è quindi un divieto, ma solo l’esigenza di autorizzare
questi fenomeni che potrebbero essere non autorizzati nel momento in cui si vada a formare una posizione dominante. Lo scopo è
proprio quello di prevenire gli abusi di posizione dominante stessa.
4. Divieto di esonero dalla legislazione antitrust europea, art. 106. Gli stati membri non possono esonerare alcune imprese (ad
esempio, un’impresa che sia sottoposta a monopolio legale) dal divieto antitrust europeo. Quindi, il divieto antitrust europeo si
applica a tutte le imprese indistintamente.
5. Divieto di aiuti di Stato alle imprese, art. 107.
Consideriamo le prime due regole, che hanno ricadute più immediate e percepibili sul diritto dei contratti.
1. INTESE ANTICONCORRENZIALI (ART. 101)
Il divieto di intese anticoncorrenziali è illustrato e previsto all’art. 101 del TFUE. Questa norma, al comma 2, enuncia che sono
incompatibili con il mercato interno, il mercato comune agli Stati membri dell’UE, e sono quindi vietati: i) gli accordi tra imprese; ii)
le pratiche concordate; iii) le decisioni di associazioni di imprese. Sono queste tre tipologie di intese che fanno riferimento al
concetto generale. Questo solo se sussistono due presupposti:
-se tali intese possono pregiudicare il commercio tra gli Stati membri;
-se hanno ad oggetto o come effetto quello impedire, restringere o falsare la concorrenza all’interno del mercato comune.
Nozione di intesa
Il primo elemento da considerare nell’illustrare il contenuto dell’art. 101 è la nozione di intesa. La premessa necessaria per illustrare
questo concetto è che l’intesa postula la sussistenza di almeno due centri decisionali distinti. Non costituiscono quindi intesa i
programmi di coordinamento che avvengono all’intero di un gruppo societario. Dal punto di vista della concorrenza europea, il gruppo
societario, al di là delle forme giuridiche, è visto come un’impresa unica perché il centro decisionale è unico.
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Vediamo quali sono le tre tipologie di intesa che l’art. 101 definisce.
1. Accordo tra imprese. È questa una nozione ben più ampia di quella di contratto perché il contratto è un accordo giuridicamente
vincolante tra le parti, mentre l’accordo qui inteso può essere considerato un gentlemen’s agreement o patto tra gentiluomini, ossia
un accordo che è destinato a rimanere sul piano sociale. Nell’intenzione dei contraenti, esso non ha una rilevanza giuridica e non ci
si può rivolgere al giudice per far valere l’eventuale inadempimento, ma rimane un accordo che rileva soltanto sul piano sociale.
Ecco allora che la nozione di intesa costituisce un fenomeno più ampio del contratto, comprende quindi qualunque fatto in grado di
incidere sulla libera scelta di un’impresa o di un gruppo di imprese che rileva come impresa unica, come unico centro decisionale.
2. Pratica concordata. Si evoca una nozione più ristretta e meno intensa dell’accordo. Non ci sono gli estremi per parlare di un vero e
proprio accordo, ma si ha un parallelismo, ossia condotta allineata e un indizio di collusione: dal punto di vista soggettivo, vi sono
delle prove per cui ci siano stati degli accordi segreti tra gli esponenti aziendali di due diverse imprese e dal punto di vista oggettivo,
che vi sono strumenti di analisi economica che dicano che quel comportamento parallelo non è altrimenti giustificato se non da una
collusione. Da una pratica concordata emerge comunque l’evidenza di una collusione tra imprese, tra centri decisionali che
dovrebbero essere distinti ma che vanno a concordare la condotta da attuare sul mercato.
3. Decisioni di associazioni di imprese. Non si fa riferimento soltanto a quelle decisioni formali e giuridicamente vincolanti, ma a
qualunque tipo di decisione che favorisca l’allineamento dei comportamenti di due o più imprese.
Le tre fattispecie illustrate dall’art. 101 ci dicono che possiamo definire come intesa un coordinamento di comportamenti
imprenditoriali imputabile a due o più imprese coinvolte.
Intesa anticoncorrenziale
Illustrate le forme nelle quali l’impresa stessa si può manifestare, possiamo considerare l’aspetto funzionale. L’art. 101 parla di
carattere anticoncorrenziale dell’impresa che può riguardare l’oggetto o l’effetto dell’intesa stessa. Parliamo di effetto economico e
non giuridico perché le varie tipologie di intesa non devono avere un carattere giuridicamente rilevante (come un contratto), ma
possono anche rivestire forme diverse e rilevanti solo sul piano sociale, purché condizionino il comportamento delle imprese
coinvolte.
Oggetto ed effetto non sono requisiti alternativi, ma sequenziali: se l’intesa ha già un oggetto anticoncorrenziale, non dovremo andare
a considerare se esso si sia realizzato e se ha quindi degli effetti anticoncorrenziali: quando si parla di oggetto anticoncorrenziale è
come se si parlasse di effetti anticoncorrenziali potenziali. Quando invece l’intesa non ha un oggetto direttamente anticoncorrenziale,
si potrà andrà a vedere se quell’intesa in concreto sia in grado di produrre o abbia prodotto degli effetti anticoncorrenziali.
Bisogna valutare che l’effetto anticoncorrenziale, potenziale ovvero effettivo, si sia realizzato nel mercato interno. In particolare,
l’art. 101 prosegue indicando esemplificativamente dei casi particolari in cui opera il divieto delle intese anticoncorrenziali. Si fa
riferimento a intese cosiddette hard core, che stigmatizzano le pratiche più gravi. Tra queste possiamo individuare innanzitutto quegli
accordi che, a norma dell’art. 101 lettera a), fissano direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto, di vendita o di altre condizioni di
transazioni. Si stratta dei cosiddetti cartelli di prezzo: le imprese concorrenti tentano di diminuire al massimo il prezzo per
accaparrarsi il numero maggiore di consumatori possibili. Quando c’è una concorrenza perfetta, tende ad appiattirsi l’elemento del
prezzo sul costo marginale. Se su questo aspetto le imprese fanno una sorta di “tregua”, tutti gli aspetti positivi di questo meccanismo
vengono meno e si ha un’uniformazione che può riguardare l’aspetto del prezzo ma anche altri elementi.
Alle altre lettere dell’art. 101, sono poi indicate ipotesi che fanno riferimento ad una sorta di ripartizione dei mercati, o cosiddetti
accordi di differenziazione: le imprese non si fanno concorrenza nell’ambito di certe aree geografiche o con riferimento a certi
clienti. Anche questa pratica ha dei risvolti negativi, in particolare quello di cristallizzare l’offerta e di non migliorare la qualità e la
quantità prodotta.
Con questi esempi, si fa riferimento a intese orizzontali o cartelli, ossia accordi che riguardano imprese concorrenti: imprese che
operano allo stesso livello di mercato e che dovrebbero farsi concorrenza.
Più delicata è la valutazione delle cosiddette intese verticali che riguardano soggetti che operano a diversi livelli del mercato e che
non sono in senso stretto concorrenti. Sono genericamente viste con maggior favore perché il coordinamento fra l’attività di soggetti
che non sono direttamente concorrenti ha dei risvolti positivi. In generale, con riferimento alle intese verticali non si pone un problema
di restrizione della concorrenza ma un problema di tutela del contrente debole, come nel caso della dipendenza economica che fa
riferimento a soggetti che non sono concorrenti ma si situano in un rapporto verticale.
Esenzioni dal divieto
Al comma 3, si fa riferimento ai casi nei quali il divieto è inapplicabile alle intese. Tali intese devono presentare quattro caratteristiche
che siano presenti cumulativamente, tutte e quattro contemporaneamente:
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1.L’intesa anticoncorrenziale deve comportare un miglioramento nell’offerta del bene o servizio prodotto. In concreto si traduce in
un aumento della quantità del bene o servizio prodotto, della qualità dello stesso o comunque un miglioramento del progresso tecnico
del processo produttivo.
2.Il guadagno di efficienza deve comportare un sostanziale beneficio per i consumatori. Infatti, la diminuzione dei costi di
produzione o distribuzione potrebbe ridondare soltanto a favore delle imprese in termini di aumento di profitto. Ciò significa che
l’intesa deve riservare agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva e questo in termini quantitativi (abbassamento dei
prezzi) o in termini qualitativi (miglioramento della qualità del bene o servizio offerto, differenziazione).
3.Tutto ciò deve avvenire senza imporre restrizioni non indispensabili alla concorrenza. Per ottenere quel guadagno di efficienza,
altre soluzioni non avrebbero condotto al medesimo risultato. Non è possibile ottenere senza quel livello di restrizione della
concorrenza un tale guadagno di efficienza: senza il coordinamento tra impese, il raggiungimento di quel guadagno di efficienza
sarebbe stato giudicato troppo rischioso e nessuna impresa avrebbe intrapreso tale strada.
4.L’intesa non deve comportare un limite o una restrizione tale da portare all’eliminazione della concorrenza: non deve dare alle
imprese coinvolte la possibilità di minare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi. In questo caso, l’intesa
sarà giudicata vietata.
Nel complesso, questi quattro requisiti sostengono che l’intesa deve avere nel complesso vantaggi maggiori, in termini di efficienza,
innanzitutto per i consumatori di quelli che sono gli svantaggi dovuti al carattere anticoncorrenziale delle intese. Se ciò sussiste,
l’intesa è ammessa.
Soglie di rilevanza
Il requisito posto dall’art. 101 fa riferimento alla possibilità che l’intesa pregiudichi il commercio tra gli Stati membri. Nelle intenzioni
iniziali del Trattato di Roma del 1957 vi era l’obiettivo di integrare i mercati frammentati e divisi da barriere doganali dei vari Stati
membri. Lo scopo era quindi quello di integrare i vari mercati nazionali. Oggi, per applicare e attuare questo criterio, si fa riferimento
ad una presunzione di irrilevanza europea, ossia di disinteressamento del diritto comunitario della concorrenza rispetto a quelle
intese che operano tra soggetti la cui somma dei relativi fatturati non supera i 40 milioni di euro. Dall’altro lato, si fa riferimento alla
regola integrativa de minimis o safe harbour (porto sicuro). Se rispetto al mercato rilevante di riferimento, le intese non arrivano a
toccare il 10% di quel mercato nel caso di intese orizzontali (tra imprese concorrenti) ovvero il 15% del mercato se si tratta di intese
verticali (tara soggetti non concorrenti complementari che operano a diversi livelli del mercato), non c’è rilevanza comunitaria. Di
queste intese si potrà quindi occupare un’AGCM interna, ossia l’Autorità antitrust del singolo stato membro.
Questa presunzione non si applica alle intese hard core, ossia alle intese più gravi che comunque comportano una notevole restrizione
della concorrenza e quindi non possono godere di questo beneficio. Si tratta infatti di regole che vanno ad incidere su quella che è
l’ampiezza e la portata di una certa intesa per definire se si tratta di un’intesa di cui ci si deve occupare sul piano nazionale ovvero sul
superiore piano comunitario.
2. DIVIETO DI ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE ( ART. 102 )
Tale divieto è previsto dall’art. 102 del TFUE. Ai sensi di questa norma, è incompatibile con il mercato interno e quindi vietato, nella
misura in cui è pregiudizievole per il commercio tra gli Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una
posizione dominante sul mercato o su una parte sostanziale di questo. Analogamente a quanto accade nell’art. 101, è previsto un
requisito dimensionale affinché dell’abuso si occupi l’Autorità europea e non quella nazionale: se non sull’intero mercato interno,
l’abuso deve riguardare una parte sostanziale dello stesso quindi, ad esempio, una regione consistente.
Posizione dominante
Il presupposto per cui l’abuso sia vietato è l’esistenza di una posizione dominante. Questa nozione non è posta dal diritto europeo della
concorrenza ma è presupposta. Allora la giurisprudenza della CGUE ha dato risposta a questo quesito, su cosa si intendesse per
posizione dominante, nel caso United Brands del 1978. In questa occasione, la CGUE ha definito la posizione dominante come una
posizione detenuta dall’impresa che un potere economico tale da consentire di ostacolare una concorrenza effettiva sul mercato
attraverso comportamenti sostanzialmente indipendenti nei confronti di concorrenti, clienti e consumatori. Il dato principale è
che è in posizione dominante l’impresa che non teme la pressione della concorrenza: verso i concorrenti può, ad esempio, alzare i
prezzi senza timore di una ritorsione di questi, lo stesso può fare in senso verticale rispetto ai clienti e quindi potrà muoversi
liberamente anche rispetto ai consumatori finali. Si tratta si aspetti simili a quelli del monopolio in senso economico, ossia i vantaggi
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che ha un monopolista che non teme la pressione della concorrenza in senso orizzontale dei concorrenti, ma non teme neanche la
reazione in senso verticale dei clienti e dei consumatori. Tuttavia, il concetto giuridico di posizione dominante non corrisponde al
monopolio in senso economico perché questa è una nozione più ampia: non serve che l’impresa dominante abbia le quote di un intero
mercato, nella prassi si ritiene però che sia la quota del 50% di un certo mercato sufficiente per ritenere un’impresa in posizione
dominante. Tale percentuale si calcola sul cosiddetto mercato rilevante (nozione che vale anche nell’ambito delle intese
anticoncorrenziali per applicare la regola de minimis). Per dire che l’impresa si trovi in un certo mercato rilevante occorre applicare il
criterio della sostituibilità: dal punto di vista merceologico, i beni e i servizi facenti parte di quel mercato sono considerati
intercambiabili dai consumatori. Questo in base alla regola dell’elasticità incrociata della domanda: se aumenta il prezzo di un bene,
il consumatore è portato ad acquistare in minore quantità quel bene, sostituendolo con un bene ad esso simile. Le imprese produttrici
dei beni considerati faranno quindi parte dello stesso mercato. Non basta dire che da un punto di vista geografico e merceologico
un’impresa sia presente con oltre 50% delle quote in quel mercato, ma occorrono altresì dei criteri integrativi. Tali criteri non sono
sufficienti per dire che un’impresa è in posizione dominante,ma vanno a corroborare la valutazione della posizione dominante già
basata sul calcolo delle quote. Tra questi possiamo considerare:
• La scarsa pressione dei concorrenti attuali. È il caso di un’impresa che detiene il 40% delle quote del mercato, ma ci sono solo
imprese che detengono quote di mercato molto piccole. Vi è quindi un grande divario con i concorrenti attuali.
• La scarsa pressione dei concorrenti potenziali. Ad esempio, perché le barriere all’ingresso sono molto elevate e quindi per un
concorrente potenziale non è facile entrare nel mercato.
• La forza attrattiva di un marchio può essere considerata un sintomo ulteriore di posizione dominante. Se da solo non può fondare
una posizione dominante, da solo il marchio potrebbe fondare un’ipotesi di tutela della dipendenza economica. Si considerano quindi
economicamente dipendenti rispetto al produttore legato ad un certo marchio, quei distributori che abbiano necessità di avere nel
loro assortimento un certo prodotto e che siano quindi considerati dipendenti dal produttore e potranno evocare la tutela. In questo
caso, si tratta innanzitutto di un problema del contraente debole.
Condotte abusive
La posizione dominante non risulta di per sé vietata, è vietato abusarne. È stata lasciata la possibilità a imprese in posizione dominante
di esistere perché nel momento in cui è stato introdotto il diritto europeo della concorrenza negli anni ’50 si aveva una serie di imprese
nazionali importanti che costituivano una fetta importante delle singole economie nazionali. Si è quindi preferito lasciarle agire e
introdurre una sorta di speciale responsabilità per far si che le imprese in posizione dominante, essendo legittimo che continuino il loro
operato, si muovano in modo tale da non essere lesive per la concorrenza.
Sono dunque vietati i cosiddetti abusi di sfruttamento, che portano all’impresa in posizione dominante dei sovra profitti monopolistici
e gli abusi di esclusione o di impedimento con cui vengono escluse dal mercato altre imprese, viene quindi limitata l’effettività della
concorrenza.
Gli abusi di sfruttamento, a norma dell’art. 102, possono consistere:
• nell’imposizione di prezzi o condizioni iniqui, in analogia con quanto già vista nel caso di abuso di dipendenza economica con la
difficoltà che si fa riferimento ad un’impresa che è dominante su intero mercato. Questo fa si che sia molto difficile capire quale sia
il prezzo di mercato: nel mercato c’è un’impresa in posizione dominante e quindi non è facile calcolare il prezzo di mercato rispetto
al quale considerare iniquo o eccessivamente gravoso il prezzo effettivamente praticato da quell’impresa. Bisognerebbe quindi
andare a calcolare tutti i costi sostenuti dall’impresa per poter dire quanto il prezzo praticato si distacchi dal costo marginale. Questo
è molto complesso e quindi le autorità antitrust intervengono nell’ambito di prezzi eccessivamente onerosi imposti dall’impresa in
posizione dominante soltanto in casi limite. Non è quindi una delle condotte abusive più vietate e colpite, anche se richiama l’ipotesi
teoricamente più famosa dell’innalzamento del prezzo sopra il livello della concorrenza perfetta.
• in pratiche leganti (o typing contracts) che consistono nel vendere al cliente accessori di cui farebbe a meno.
Tra gli abusi di esclusione possiamo considerare:
• Prezzi predatori. È il caso in cui l’impresa dominante non pratica un presso eccessivo, bensì un prezzo eccessivamente basso sotto
il livello del costo marginale della concorrenza perfetta. L’impresa, attraverso questa strategia di breve periodo, intende chiudere le
porte ed escludere dal mercato potenziali concorrenti per poi godere nel lungo periodo di profitti maggiori.
• Prezzi discriminatori, quando l’impresa dominate applica nei rapporti commerciali con gli altri concorrenti condizioni dissimili per
prestazioni equivalenti, determinando così per quest’ultimi uno svantaggio per la conoscenza.
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• Rifiuto di contrarre, quando l’impresa dominante detiene un’infrastruttura non duplicabile essenziale a consentire l’ingresso nel
mercato. Ad esempio, la rete ferroviaria non può essere facilmente duplicata e se il proprietario di quella rete impedisse ad altri di
entrare nel mercato, si tratterebbe di un rifiuto di contrarre.
Riassumendo:
Evidenziamo analogie e differenze tra i due fondamentali divieti antitrust che il diritto europeo pone, quello sulle intese
anticoncorrenziali (art. 101) e quello sull’abuso di posizione dominante (art. 102).
Dal punto di vista materiale, le condotte riguardano comportamenti coordinati di più imprese indipendenti nel caso delle intese e
comportamenti unilaterali nel caso di abuso di posizione dominante.
L’oggetto in parte coincide, come è l’innalzamento del prezzo sopra il livello concorrenziale e in parte è più ampio nel caso delle
intese: il solo fatto del coordinamento tra concorrenti genera un sospetto, anche se il prezzo concordato fosse equo perché non
comporta sovra profitti. Mentre la condotta collusiva innesca una presunzione di illiceità, la condotta unilaterale dell’impresa
dominante non si presume abusiva, anche perché altrimenti la sua attività si paralizzerebbe. Se la condotta concordata si presume
anticoncorrenziale, è possibile per le imprese dimostrare guadagni di efficienza che superano gli effetti negativi. Al contrario, le
condotte unilaterali dell’impresa dominante non si presumono abusive ma se risultano tali non sono suscettibili di esenzione. Tuttavia,
non sarebbe corretto pensare che per questa ragione il divieto è più severo: si avrà una valutazione dei benefici per il mercato e per i
consumatori ma, a differenza delle intese, il vizio sarà già incorporato in quello che valuta l’abuso e non un giudizio successivo sullo
schema divieto/esenzione tipico delle intese.
Dal punto di vista probatorio, l’Autorità nel caso delle intese dovrà dimostrare la collusione e spetterà alle imprese provare i guadagni
di efficienza che giustificano un’esenzione; mentre nel caso di abuso della posizione dominante, spetterà all’antitrust dimostrare che si
tratta di una condotta che altera il buon funzionamento del mercato. Il potere di mercato è un presupposto perché l’impresa dominante
sia considerata tale. Lo stesso vale anche per le imprese partecipanti all’intesa che devono detenere collettivamente il potere di
mercato. Infine, entrambi i divieti richiedono che sia superata la soglia di rilevanza comunitaria, ossia un potenziale pregiudizio per il
commercio tra gli stati membri. Un requisito che si accerta per le intese con riferimento alla combinazione di una soglia assoluta
riguardante il fatturato delle imprese colluse (40 milioni di euro) e una soglia relativa riguardante la quota relativa di mercato
aggregata detenuta dalle parti dell’accordo (10% nel caso di intese orizzontali e 15% nel caso di intese verticali); per l’abuso occorrerà
verificare che la posizione dominate sussiste in una parte sostanziale del mercato comunitario (se l’impresa detiene il 50% delle quote
di mercato) e quindi o nel territorio dell’intero stato o in una parte di stato che costituisce un’importante regione economica
dell’unione.
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6.2. DIRITTO CONCORRENZA - PUBLIC ENFORCEMENT
Abbiamo illustrato quali sono le norme sostanziali del diritto della concorrenza dell’UE, soffermandoci in particolare sul divieto di
intese anticoncorrenziali e sul divieto di abuso di posizione dominante.
Commissione europea
È l’organo deputato ad applicare tale normativa ed è composto da 28 commissari, uno per ogni Stato membro (27 dopo la Brexit). Si
tratta di 28 soggetti di cui uno è Presidente, nominato dal Parlamento su proposta del Consiglio europeo. Gli altri commissari sono a
loro volta nominati dal Presidente di concerto con il consiglio e su proposta dei vari Stati membri. La funzione della Commissione
europea è quella di essere il braccio esecutivo indipendente dell’UE. Vediamo alcune delle competenze spettanti a tale organo:
• Potere esecutivo: consiste nell’Iniziativa legislativa di proporre nuovi atti legislativi al Parlamento e al Consiglio, di preparare i
bilanci annuali di quest’ultimi e attuare le loro decisioni;
• Controllo: insieme alla Corte dei Conti, riguarda l’utilizzo dei Fondi europei e insieme alla Corte di Giustizia, l’applicazione del
diritto dell’UE.
• Portavoce: negozia gli accordi internazionali.
Dal punto di vista organizzativo, la Commissione dispone di 23mila dipendenti che sono distribuiti in 33 Dicasteri o Direzioni
Generali. Ciascuna Direzione fa capo a un Direttore Generale che risponde direttamente al Commissario europeo di riferimento.
Nell’ambito quindi della Direzione Generale della Concorrenza, che si occupa dell’attuazione e applicazione del diritto europeo della
concorrenza, abbiamo un Commissario europeo della concorrenza e un Direttore Generale della concorrenza. Da ultimo, tra gli altri
soggetti che fanno parte dell’organigramma c’è anche un economista indipendente che svolge gli studi per conto della Direzione
Generale.
Autorità antitrust nazionali
Dal punto di vista storico, le autorità nazionali in un primo momento non avevano alcun ruolo. Vi era infatti un completo
accentramento dei poteri applicativi del diritto europeo nelle mani della Commissione europea. Questo era possibile fino a che gli stati
appartenenti all’Unione Europea (allora chiamata Comunità Economica Europea, CEE) erano soltanto 6 (Italia, Germania, Francia,
Belgio, Olanda e Lussemburgo).
In un secondo momento, con il Regolamento 17/1962 (ancora prima che nel 1973 entrassero a far parte della Comunità anche Gran
Bretagna, Danimarca e Irlanda) si è avuto un primo decentramento, ancorché parziale. Si è affidato il potere alle autorità nazionali
antitrust (National Competition Authorities) di applicare direttamente il diritto europeo della concorrenza, ma non le sanzioni. Tali
autorità avevano quindi solo il potere di accertare delle infrazioni ma non di sanzionare o di applicare le esenzioni alle intese
anticoncorrenziali che soddisfano i requisiti di cui all’art. 101, comma 3. Ciò faceva si che la Commissione europea manteneva un
potere esclusivo nell’applicare le esenzioni, cosiddette esenzioni in deroga alle intese anticoncorrenziali. Tali esenzioni venivano
applicate in modo individuale, stabilendo caso per caso che la singola intesa soddisfacesse i requisiti richiesti oppure per categoria,
demandando dei regolamenti che facevano riferimenti a categorie di intese che potevano essere ritenute esentate per le loro
caratteristiche positive.
Successivamente, con il Regolamento 1/2003 si è avuto un decentramento pieno nell’applicazione del diritto della concorrenza
dell’UE. Ciò in vista dell’entrata nell’Unione di altri 10 stati prevalentemente dell’Est. È stata questa una novità molto importante, un
allargamento notevole dell’Unione Europea che ha implicato un decentramento effettivo e pieno. Ad applicare il diritto europeo sono
oggi da un lato, la Commissione e dall’altro, anche le autorità nazionali. Oggi è superata l’idea che l’autorità nazionale non possa
applicare anche le sanzioni oltre ad accertare le infrazioni e ha anche la possibilità di applicare le esenzioni e cioè di valutare, senza
ricorrere all’autorizzazione centrale della Commissione europea, che ci siano o meno i requisiti per esentare e quindi considerare
ammessa un’intesa anticoncorrenziale. L’esenzione e quindi l’eccezione al divieto opera ope legis, automaticamente.
Oggi il diritto antitrust europeo è quindi applicato congiuntamente dalla Commissione europea e dalle autorità nazionali della
concorrenza degli Stati membri.
Per quanto riguarda gli illeciti antitrust che si situano al di sotto della soglia comunitaria, non si pone un problema di coordinamento
tra soggetti: ad applicare il diritto della concorrenza sarà soltanto l’autorità antitrust nazionale, ad esempio l’AGCM in Italia. Si pone
però un problema non solo soggettivo di coordinamento tra enti che applicano il diritto, ma anche oggettivo che riguarda quale diritto
della concorrenza applicare. Da questo punto di vista, il Regolamento 1/2003 prevede che l’autorità nazionale applichi a queste
fattispecie che non superano la soglia della concorrenza le norme nazionali. Teniamo presente che, anche se non c’è stata nessuna
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direttiva che ha armonizzato il diritto della concorrenza dei vari paesi dell’Unione, c’è stata una sorta di avvicinamento di fatto tra
queste normative che più o meno ricalcano quelle europee. Il problema si pone perché il Regolamento 1/2003 non stabilisce che le
autorità nazionali applicano il diritto nazionale, ma applicano anche il diritto europeo. Si dà quindi il caso che il diritto europeo possa
prevalere e che l’autorità nazionale non può considerare lecite delle fattispecie antitrust che invece a livello europeo sono considerate
illecite, e viceversa. Una regola particolare è però individuata nel caso di condotte unilaterali, dove tale regolamento prevede che vi
siano norme nazionali più rigorose (ad esempio, il divieto di abuso di dipendenza economica).
Diversamente accade per le fattispecie antitrust che si situano al di sopra della soglia comunitaria e che sono quindi di competenza del
diritto dell’Unione Europea. In questo caso, non si pone un problema oggettivo di applicazione del diritto perché il diritto applicabile
sarà quello previsto a livello europeo dagli artt. 101 e 102 del TFUE. Si pone invece un problema di coordinamento soggettivo: ad
applicare questo diritto alle fattispecie sopra soglia sono sia la Commissione europea sia le autorità nazionali degli Stati membri. Come
si coordinano questi poteri? La regola è che le autorità nazionali possono liberamente intervenire per contrastare abusi di posizione
dominante o intese anticoncorrenziali ai sensi della normativa europea, è sempre però fatta salva la possibilità della Commissione
europea di intervenire. Infatti, l’AGCM e le altre National Competition Authorities hanno il dovere di notificare alla Commissione che
stanno aprendo un determinato procedimento. Questo per dare la possibilità alla Commissione di intervenire essa stessa se lo ritiene
opportuno. Se la Commissione interviene cessa la competenza dell’autorità nazionale dello stato membro e la materia diventa di
competenza esclusiva della Commissione europea. Questo a maggior ragione è vero se già la Commissione si sta occupando di un
certo caso, e quindi non è ammessa la possibilità per un’autorità nazionale di intervenire in quel campo. Queste regole di
coordinamento, poste dal Regolamento 1/2003, sono quindi nel segno, dal punto di vista procedurale, della prevalenza soggettiva della
Commissione sull’eventuale interessamento a una certa fattispecie di un’autorità nazionale antitrust.
Procedimento sanzionatorio
Vediamo come si svolge davanti alla Commissione europea il procedimento che porta l’autorità a vietare e sanzionare una condotta
che costituisce un’intesa anticoncorrenziale ovvero un abuso di posizione dominante. Occorre una valutazione preliminare circa la
vigenza del cosiddetto principio di autovalutazione responsabile: le imprese non sono abilitate a chiedere preventivamente un parere
dell’autorità su una certa condotta, non possono quindi sapere in anticipo se la loro condotta integra gli estremi dell’abuso di posizione
dominante o dell’intesa anticoncorrenziale. Ciò avviene invece nell’ordinamento italiano quando un’impresa sottopone
preventivamente all’autorità antitrust italiana (AGCM) certe clausole considerate ipoteticamente vessatorie, potendo quindi conoscere
in anticipo, rispetto ad un comportamento non ancora adottato, se l’autorità ritiene quelle clausole vietate o meno. Questo non è mai
possibile nell’ambito dell’applicazione del diritto antitrust europeo. Spetta quindi a ciascuna impresa valutare in anticipo,
autonomamente e responsabilmente le conseguenze della propria condotta, incorrendo eventualmente in sanzioni se la valutazione si
ritiene poi scorretta.
1. La Commissione europea, dal punto di vista procedurale, può dare adito al procedimento dinnanzi a sé d’ufficio oppure potrebbe
intervenire, come di consueto, su denuncia degli interessati.
2. A questo punto, si apre una fase preistruttoria che potrebbe condurre all’archiviazione del procedimento stesso se la
Commissione non ravvisa gli estremi per continuare ad agire con il suo procedimento.
3. Viceversa, se la Commissione ritiene di dover procedere si apre il procedimento vero e proprio e quindi l’attività istruttoria della
Commissione. La Commissione dispone di una serie di poteri inquisitori particolarmente incisivi. Tra questi ricordiamo il potere di
richiedere alle imprese le informazioni necessarie con la possibilità di irrogare un’ammenda fino all’1% del fatturato all’impresa
che non voglia collaborare, che non dia quindi le informazioni richieste o che queste non siano veritiere. La Commissione può poi
effettuare delle ispezioni nei locali aziendali avvalendosi della Guardia di Finanzia. Da questo punto di vista, ricordiamo che
l’impresa non può rifiutare l’accesso opponendo il cosiddetto segreto aziendale, può soltanto opporre il cosiddetto segreto
professionale difensivo: non rilevare e mostrare documenti che riguardano le consulenze che l’impresa ha ricevuto proprio in vista
del possibile intervento della Commissione europea. Ad esempio, se nell’ambito del principio di autovalutazione responsabile,
l’impresa aveva ricevuto delle consulenze da parte di esperti del settore, rispetto a questi documenti non è possibile l’acquisizione
da parte della Commissione. Tra gli altri poteri della Commissione, c’è quello di disporre e scambiare informazioni con l’autorità
antitrust nazionale, con la possibilità per la Commissione di utilizzare le informazioni già acquisite dalle National Competition
Authorities (e viceversa, quindi anche quest’ultime hanno la possibilità di utilizzare informazioni acquisite dalla Commissione).
4. Le imprese destinatarie del procedimento possono nel corso del procedimento difendersi attraverso memorie e audizioni, facendo
valere il loro diritto di difesa.
5. Conclusa l’istruttoria, se la Commissione ha accertato l’infrazione degli articoli 101 e 102 del TFUE sugli illeciti antitrust,
comunica l’addebito all’impresa interessata e le offre un termine per rilasciare le sue ultime memorie difensive. L’epilogo naturale
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è quello che vi sia un Provvedimento della Commissione che accerta l’infrazione e che ha una serie di conseguenze negative per
l’impresa coinvolta. Per evitare la condanna formale, l’impresa può proporre alla Commissione degli impegni che rispondano alle
preoccupazioni della Commissione stessa. Nella normativa dell’autorità antitrust italiana, l’impresa può evitare la condanna
proponendo degli impegni entro tre mesi dall’avvio del procedimento; mentre in ambito europeo, il Regolamento 1/2003 non
prevede un termine entro il quale proporre tali impegni e quindi si deve ritenere che questo potere rimesso alle imprese di proporre
degli impegni possa essere esercitato fino al momento conclusivo, fino alla condanna formale e quindi anche dopo la
comunicazione degli addebiti. Non basta che l’impresa proponga un impegno alla Commissione per evitare la condanna formale,
ma tale impegno deve essere considerato congruo dalla Commissione e quindi in grado di eliminare le restrizioni della concorrenza
che sono state ravvisate. Se questo sussiste, allora la Commissione con un provvedimento rende gli impegni proposti dall’impresa
coinvolta obbligatori per l’impresa stessa. Se questo avviene, invece del provvedimento finale che accerta l’infrazione, la
Commissione emette una decisione che conferma gli impegni dell’impresa e che sono quindi obbligatori per la stessa. Ciò non
equivale ad una condanna formale.
6. Se sono mancati gli impegni confermati dalla Commissione ovvero se la Commissione ha accertato un’infrazione del diritto
europeo della concorrenza, emetterà un Provvedimento finale che accerta tale infrazione e che sarà pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale dell’UE. L’onere probatorio di dimostrare che un’impresa ha preso parte ad un’intesa anticoncorrenziale o che c’è stato
un abuso di posizione dominante è a carico dell’autorità stessa, mentre spetta all’impresa nel corso del procedimento dimostrare
che quell’intesa ha avuto degli effetti benefici ai sensi dell’art. 101, comma 3 ovvero dimostrare che la posizione dominante non
sussiste perché doveva essere calcolata su un mercato più ampio, su un mercato rilevante maggiore di quello che invece è stato
individuato dalla Commissione stessa e che quindi non ci sono gli estremi per essere considerata in posizione dominante.
Se questo sussiste, il contenuto base del provvedimento finale che accerta l’infrazione del diritto antitrust europeo è quello
dell’inibitoria amministrativa, per indicare che siamo nell’ambito di un procedimento amministrativo di fronte alla Commissione. Ai
sensi del Regolamento 1/2003, con inibitoria si intendono tutti i rimedi proporzionati necessari a far cessare effettivamente
l’infrazione. Il presupposto è quindi quello di una condotta antigiuridica che viene fatta cessare attraverso un ordine dell’autorità. I
rimedi si dividono in due categorie:
1. Rimedi comportamentali: oltre alla cessazione della condotta che viola il diritto antitrust comunitario per il passato, l’inibitoria
contempla anche ordini positivi accessori (ad esempio, dare al mercato una certa informazione per rendere più effettivi l’inibitoria).
2. Rimedi strutturali: sono dei rimedi più gravi e più incisivi che, ai sensi del regolamento in esame, possono essere disposti
soltanto se un rimedio comportamentale parimenti efficace non esiste o risulterebbe più oneroso. Consistono, ad esempio, nel
disporre lo scioglimento di una società comune.
C’è sempre la possibilità per la Commissione di irrogare una penalità di mora, che non può superare il 5% del fatturato medio
giornaliero e che può essere irrogata dalla commissione per ogni giorno di ritardo nel quale l’impresa non ottempera all’ordine
stabilito dall’autorità stessa. È interessante notare come questi poteri sono in mano alla Commissione a fronte di un’impresa che abbia
preso un impegno e che non lo stia rispettando.
Oltre all’inibitoria amministrativa, il contenuto del provvedimento finale che accerta la violazione del diritto antitrust comunitario può
contemplare una sanzione pecuniaria, ossia un’ammenda che può arrivare al 10% del fatturato dell’impresa. In questo caso, l’onere
probatorio della Commissione non contempla soltanto di dimostrare l’antigiuridicità della condotta ma altresì un presupposto
soggettivo ulteriore, ossia quello del dolo o della colpa in capo all’impresa. La Commissione dovrà quindi dimostrare se c’era
intenzionalità (dolo) nel trasgredire al diritto europeo della concorrenza ovvero, pur non essendoci intenzionalità, se c’era comunque
una consapevolezza di ciò che stava accadendo (colpa). Nello stabilire il quantum e quindi la quantificazione della sanzione
pecuniaria, la Commissione ha una grande discrezionalità e, a questo fine, può considerare rilevante sia l’elemento soggettivo (il dolo
più grave della colpa) sia anche le caratteristiche della condotta (ad esempio, se un’impresa ha avuto un ruolo maggiormente rilevante
nella formazione dell’intesa anticoncorrenziale).
Abbiamo visto che le imprese destinatarie del procedimento possono nel corso del procedimento difendersi attraverso memorie e
audizioni, facendo valere il loro diritto di difesa. È questo però un diritto endoprocedimentale, che avviene all’interno del
procedimento nei confronti della stessa Amministrazione procedente. Si tratta di un diritto imprescindibile, ma comunque parziale.
Infatti, di fronte al provvedimento finale che chiude il procedimento amministrativo è consentita la cosiddetta tutela giurisdizionale
che non avviene di fronte alla stessa Amministrazione che procede ma di fronte a un soggetto terzo, il giudice. È questa una tutela più
efficace che è sancita e prevista dall’art. 47 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (CDF). Parallelamente a quanto avviene in
ambito interno, dove c’è una tutela di fronte al giudice amministrativo (in primo grado il TAR e in secondo grado il Consiglio di
Stato); in ambito europeo, il provvedimento emesso dalla Commissione europea può essere impugnato dinanzi al Tribunale dell’UE e
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si ha qui un controllo di legittimità. L’impresa non può chiedere al Tribunale di emettere un nuovo provvedimento con un contenuto
diverso, ma semplicemente di annullare quella parte di provvedimento della Commissione europea che viola il diritto. Soltanto con
riguardo alla quantificazione delle sanzioni pecuniarie, esiste un controllo di merito. Quest’ultimo consiste nella possibilità per il
Tribunale dell’UE in primo grado di stabilire una diversa misura dell’ammenda e di irrogarla direttamente. Se la sentenza di primo
grado del Tribunale risulta comunque sfavorevole all’impresa, questa potrà rivolgersi alla Corte di Giustizia dell’UE per far valere un
controllo di legittimità sulle sentenze del Tribunale e quindi la possibilità di annullare la decisione del Tribunale se questa viola il
diritto. Analogamente accade anche in ambito interno, sia per quanto riguarda la tutela giurisdizionale sia per quanto riguarda la tutela
endoprocedimentale, che avviene nell’ambito del procedimento dinnanzi all’AGCM.
6.3. DIRITTO CONCORRENZA - PRIVATE ENFORCEMENT
Consiste all’attuazione affidata agli strumenti di diritto privato. Abbiamo visto che l’attuazione del diritto europeo della concorrenza è
lasciata ad autorità pubbliche che agiscono d’ufficio e che hanno dei poteri inquisitori per accertare e reprimere le condotte
anticoncorrenziali. Da un lato, la Commissione europea e dall’altro il ruolo coordinato delle Autorità nazionali della concorrenza (in
Italia, l’AGCM).
Vediamo quali sono i limiti di tale intervento, anche se essenziale e primario. Da un lato, questi organi hanno il potere di procurarsi le
prove, sia perché agiscono d’ufficio sia perché hanno poteri inquisitori. Sono quindi in grado, dal punto di vista istituzionale, di
rinvenire gli estremi di un’intesa anticoncorrenziale, cosa che i privati non potrebbero fare altrettanto agevolmente. Inoltre, le autorità
pubbliche posseggono conoscenze tecniche, competenze giuridiche e competenze economiche essenziale per trovare gli estremi della
posizione dominante e dei relativi abusivi. Un privato infatti non ha analoghe competenze per fare analisi di mercato, valutare qual è il
mercato rilevante, se ci sono abusi e così via. questi sono quindi i puti di forza dell’intervento del diritto antitrust rilasciato alle autorità
pubbliche. Dall’altro lato, i limiti di questo intervento sono: in primo luogo, essendo delle autorità centrali (un’unica autorità a livello
europeo e un’unica autorità a livello nazionale) si concentrano sugli illeciti antitrust più gravi e vi è quindi un vuoto di tutela e di
attenzione per gli illeciti che hanno una rilevanza minore; in secondo luogo, le sanzioni irrogate da tali autorità possono essere
inadeguate e non coprire quello che è il profitto indebito dell’impresa che tiene un comportamento anticoncorrenziale. Potrebbe
quindi risultare comunque profittevole per l’impresa continuare ad adottare quel comportamento e questo falserebbe la concorrenza,
perché avrebbe un danno l’impresa che invece tiene comportamenti concorrenziali e vede un’impresa concorrente ottenere vantaggi
indebiti.
Ecco perché al cosiddetto public enforcement deve affiancarsi un sistema di private enforcement, ossia di attuazione della tutela
rilasciata agli strumenti del diritto privato. Questo per colmare le lacune dell’enforcement pubblico: colpire anche gli illeciti antitrust
meno gravi e aumentare il peso economico che grava sulle spalle dell’impresa che tiene un comportamento anticoncorrenziale e che si
trova non solo a dover pagare una sanzione irrogata dall’autorità pubblica ma anche cospicui risarcimenti nei confronti dei privati lesi.
I soggetti ai quali ci si rivolge per domandare i rimedi di diritto privato contro gli illeciti antitrust sono i giudici nazionali. Il primo
presupposto logico fondamentale è che per rivolgersi a un giudice nazionale dev’esserci stata la lesione di un diritto soggettivo. Ciò
significa che dagli articoli del TFUE, che individuano i comportamenti anticoncorrenziali vietati, discendono dei veri e propri diritti
per i vari soggetti del mercato e postulano quindi una sorta di efficacia diretta: le norme non si rivolgono solo alle imprese che non
devono adottare certi comportamenti e alle autorità che devono sanzionarli, ma creano anche dei diritti in capo ai soggetti lesi da questi
comportamenti. Inoltre, c’è un’autonomia degli Stati membri a stabilire i rimedi e le procedure adeguate a soddisfare tali diritti: non è
quindi rimesso alla competenza dell’Unione stessa ma del singolo stato.
Questo secondo un principio di primato del diritto dell’UE che ha due corollari: da un lato, il principio di effettività per cui c’è
un’autonomia degli stati nell’individuare le procedure e i rimedi ma questi devono essere effettivi e garantire un’effettiva protezione
del diritto in questione; dall’altro, vi è un vincolo alla statuizione della Commissione per cui se la Commissione ovvero l’autorità
nazionale ha stabilito che un certo comportamento è anticoncorrenziale e quindi vietato, il giudice civile che si pronuncia sui rimedi
rispetto a quel comportamento anticoncorrenziale non può considerarlo conforme al diritto della concorrenza.
Vediamo quali sono i singoli rimedi civilistici che possono essere fatti valere con attenzione a quello che è il fenomeno
dell’ordinamento italiano.
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1. Rimedi risarcitori – risarcimento del danno
Tale rimedio proviene dalla direttiva europea 140/2014. Posto che si tratta di rimedi civilistici e che quindi sta all’autonomia degli
stati regolare, la direttiva individua i criteri generali a cui ogni stato deve uniformarsi. I due criteri sono:
-
Effettività: le norme e procedure nazionali devono essere concepite e applicate in modo da non rendere praticamente impossibile o
eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto del pieno risarcimento del danno.
-
Equivalenza: le norme e le procedure nazionali, a seguito della violazione delle norme di cui agli articoli 101 e 102 del TFUE,
non devono essere meno favorevoli per i presunti soggetti danneggiati di quelle che regolano azioni simili nel diritto nazionale.
Questi sono i principi che il legislatore italiano deve tenere a mente nel disciplinare il risarcimento del danno da illecito antitrust.
Lo strumento del diritto italiano che si adatta a questi scopi è l’art. 2043, ossia la norma cardine che disciplina la responsabilità
extracontrattuale.
I soggetti legittimati a chiedere il risarcimento del danno contro un comportamento concorrenziale sono:
-
innanzitutto, le imprese che possono aver subito un danno derivante da un abuso di posizione dominante o dalla collusione di altre
imprese che produce quindi degli effetti negativi nei loro confronti.
-
le imprese economicamente dipendenti, che magari sono state parte dell’intesa: sono state autrici e hanno collaborato a dar vita
all’illecito, ma la loro condizione di dipendenza economica le ha costrette. Anche se appaiono in prima battuta come complici,
sono in realtà delle vittime stesse dell’accordo.
-
i consumatori, coloro che usufruiscono di beni o servizi. Infatti, il concetto di diritto antitrust si è evoluto: non più un diritto delle
imprese, ma un diritto che riguarda tutti i soggetti del mercato e quindi anche i consumatori finali. Questo dato è oggi consacrato
nel testo dell’art. 140 bis del Codice del Consumo che, in tema di Class Action, individua la possibilità per i consumatori di
domandare il risarcimento del danno in forma collettiva contro comportamenti anticoncorrenziali.
Il presupposto fondamentale per chiedere il risarcimento, ai sensi dell’art. 2043, non è solo che ci sia un danno economico ricevuto da
un soggetto ma anche che il comportamento che cagiona questo danno sia antigiuridico, che ci sia quindi il cosiddetto danno ingiusto.
Come può il privato dimostrare che questo danno derivi da un comportamento antigiuridico? Questo sarà molto facile nelle azioni
civili cosiddette follow on che seguono la già accertata illiceità della condotta da parte dell’autorità pubblica (la Commissione europea
o un’autorità nazionale antitrust: vi è anche il vincolo di uniformarsi a questa valutazione); è invece molto più complesso nel caso di
azioni stand alone, che non seguono l’accertamento già avvenuto sul piano del public enforcement ma che autonomamente i privati
conducono contro una condotta che non è già stata qualificata come illecita. In questo caso, il riparto dell’onere della prova è quello
più consueto: il privato dovrà dimostrare autonomamente che ci sono gli estremi di un’intesa anticoncorrenziale illecita e starà al
privato dimostrare eventuali guadagni di efficienza.
Sempre nell’ambito degli elementi oggettivi, il privato che chiede il risarcimento del danno deve dimostrare che c’è un nesso causale
tra la condotta antigiuridica dell’impresa e il danno che egli ha patito. Il nesso causale può essere accertato anche con criteri
probabilistici: ad esempio, il soggetto che chiede il risarcimento potrebbe addurre come risarcimento anche quelli che sarebbero stati i
probabili guadagni o gli incrementi del valore dell’azienda che si sarebbero avuti in un mercato in cui vigeva una concorrenza
effettiva, se non ci fosse stato l’illecito.
Per quanto riguarda il contenuto del risarcimento, si fa riferimento a un risarcimento pieno: danno emergente e lucro cessante.
Per agevolare il danneggiato, la direttiva prevede anche la cosiddetta presunzione relativa di danno: si presume che u danno
scaturisca nel caso degli illeciti più gravi come, ad esempio, i cartelli. Si presume quindi che da un cartello discenda un aumento del
prezzo per il consumatore finale.
Una volta dimostrata l’esistenza del danno e che c’è quindi un nesso causale tra una condotta antigiuridica e un pregiudizio
economico, bisogna procedere con la quantificazione del danno e la successiva liquidazione. In questo caso, si distingue tra:
-
Condotte di sfruttamento. Verso le condotte di sfruttamento (ad esempio, i sovrapprezzi che seguono da un cartello o dal
comportamento monopolistico di un’impresa dominante, sarà più facile dimostrare che c’è stato un innalzamento del prezzo e
quindi un danno per una serie di soggetti del mercato.
-
Condotte d’esclusione. Sarà più difficile quantificare il danno perché bisognerà ragionare in termini di chances perdute (l’impresa
non ha potuto proseguire il rapporto o entrare in un certo mercato) e quindi ricorrere a criteri piuttosto equitativi.
È necessario che la condotta del soggetto danneggiante sia dolosa, intenzionale o colposa, in violazione di una serie di regole cautelari
volte a impedire il danno. In questo caso, se si tratta di comportamenti estremamente gravi e palesi, come nel caso di ripartizione dei
mercati o di cartelli di prezzo, si avrà una presunzione di colpevolezza: il soggetto che faceva parte di un cartello non poteva non
sapere che stava tenendo un comportamento anticoncorrenziale; negli altri casi occorrerà invece valutare, secondo le circostanze del
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caso, se effettivamente il soggetto che teneva il comportamento illecito sapeva o comunque non poteva non sapere che stava tenendo
un comportamento in violazione del diritto antitrust.
Se ci sono tutti questi elementi, il privato potrà quindi ottenere il ristoro del danno subito e quindi l’impresa andrà a subire un peso
economico ulteriore rispetto a quella che è la possibile sanzione amministrativa che subisce dall’autorità.
2. Rimedi invalidatori – nullità
Per quanto riguarda le intese anticoncorrenziali occorre fare riferimento all’art. 101, comma 2 del TFUE. Tale norma espressamente
stabilisce la nullità delle intese anticoncorrenziali, precisando che si tratta di una nullità di pieno diritto. Possono essere considerate
nulle solo quelle intese che presentano gli estremi del contratto: ci sono delle intese, come i patti tra gentiluomini, che no presentano
gli estremi di un vero e proprio contratto giuridicamente vincolante e quindi non avrebbe senso parlare di nullità. Questo a maggior
ragione per le intese che non presentano neanche gli estremi dell’accordo, come le pratiche concordate. Se però ci sono gli estremi
contrattuali di un accordo giuridicamente vincolante, esso è colpito dalla nullità. Per nullità di pieno diritto si deve intendere una
nullità automatica, che viene solo dichiarata dal giudice ma che colpisce l’intesa da quando viene conclusa e stipulata. Ha degli
effetti ex tunc, considera quindi mai nati gli effetti dell’intesa. Presenta tutte le caratteristiche della nullità dell’ordinamento italiano: la
rilevabilità d’ufficio, la legittimazione assoluta, l’insanabilità e l’imprescrittibilità.
Il problema è più delicato per i cosiddetti contratti a valle. Poniamo che ci sia un’intesa anticoncorrenziale tra l’imprenditore A e
l’imprenditore B che sono entrambi concorrenti fra di loro e dovrebbero farsi concorrenza sul prezzo. Tali soggetti sono produttori
dello stesso bene e si accordano per produrre e vendere nella filiera ad un prezzo più alto di quello concorrenziale. L’intesa sarà quindi
nulla, ma quale sarà la sorte del contratto a valle, quello che l’imprenditore A, in esecuzione dell’intesa anticoncorrenziale, conclude
con l’imprenditore C che commercializza il bene e che è quindi costretto a pagarlo un prezzo maggiore di quello che ci sarebbe in una
concorrenza effettiva. Si è discusso se tali contratti a valle, adottati in esecuzione di un’intesa illecita, siano validi o no. L’impostazione
più condivisibile è che tali contratti non siano nulli: mentre la causa dell’intesa anticoncorrenziale è illecita perché dal punto di vista di
entrambi i contraenti (l’imprenditore A e l’imprenditore B), quell’intesa è stipulata con lo scopo di ledere il mercato; nel contratto a
valle che l’imprenditore A stipula con l’imprenditore C, solo nella sfera dei motivi dell’imprenditore A c’è una finalità
anticoncorrenziale e l’imprenditore C subisce gli effetti di quell’intesa a monte. Non può quindi dirsi, secondo i principi generali, che
la causa di quel contratto sia illecita. Non è un contratto invalido. L’imprenditore C che subisce gli effetti di quell’intesa potrebbe far
valere il rimedio risarcitorio, di cui all’art. 1440 esteso analogicamente: il contratto è valido ed efficace, ma il contraente che ha subito
delle scorrettezze precontrattuali può richiedere il risarcimento del danno precontrattuale che ha subito in ragione di quelle
scorrettezze. Questa è la lettura più plausibile.
Vi è poi un altro tema che riguarda la nullità o meno dei contratti stipulati da un’impresa in posizione dominante che compie un
abuso di sfruttamento che si concretizza in un contratto eccessivamente gravoso per i soggetti che lo stipulano con essa. A differenza
dell’art. 101 che espressamente individua la nullità delle intese, l’art. 102 del TFUE non sostiene nulla a riguardo. Ci si deve quindi
domandare, dal punto di vista della disciplina italiana, quale regime applicare. Un orientamento è quello di considerare l’art. 9 della
legge 192/1998 che disciplina il divieto di abuso di dipendenza economica. Tale norma al comma 3 prevede la nullità del patto
attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica. In dottrina è stato sottolineato che la maggior parte delle volte le
imprese che hanno a che fare con l’impresa dominante, si trovano nei suoi confronti in una situazione di dipendenza economica e non
hanno quindi alternative. Se questo è vero, nella maggior parte dei casi si potrà applicare la nullità prevista dall’art. 9 anche al caso del
contratto stipulato dall’impresa dominante. È questa una nullità protettiva che può adattarsi alle esigenze di protezione dell’impresa
che contratta con l’impresa dominante.
Qual è il rimedio dei consumatori finali sui quali, alla fine della filiera, si riverbera il danno? Prendendo ad esempio il caso
precedente, i consumatori finali si troveranno a pagare il prodotto finale ad un prezzo maggiore di quello che ci sarebbe stato in
concorrenza effettiva e quindi in assenza dell’illecito anticoncorrenziale. Dal momento che non intrattengono nessun rapporto con il
soggetto che a monte ha tenuto il comportamento anticoncorrenziale, i consumatori potranno esperire un’azione di risarcimento
extracontrattuale. Ai sensi dell’art. 140 bis del Codice del Consumo, il consumatore potrà chiedere il risarcimento del danno anche
in forma collettiva (Class Action).
Tutela della concorrenza e Regolazione dei mercati
Tradizionalmente, per descrivere questo rapporto si dice che la tutela della concorrenza ha una funzione di repressione puntuale e
successiva (ex post) dei comportamenti che compromettono il buon funzionamento dei mercati; mentre la regolazione mira a
conformare a contenuti specifici, decisi dal potere discrezionale pubblico, i comportamenti in certi mercati. L’Antitrust lascia libere le
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imprese, in base all’idea che il decentramento decisionale sia l’assetto che meglio garantisce la massimizzazione del benessere e
quindi la determinazione del prezzo attraverso l’interazione della domanda e dell’offerta. Viceversa, la regolazione sottrae
all’autonomia decisionale dei soggetti provati la soluzione di determinati problemi di scelta economica e li affida ad una decisione
pubblica (ad esempio, la previsione di tariffe in certi settori nei quali ci sono barriere all’ingresso). Pertanto, la tutela della
concorrenza ha portata generale, mentre la regolazione dovrebbe intervenire in presenza dei cosiddetti fallimenti di mercato, ossia in
quei contesti economici nei quali il mercato non esiste o presenta forti anomalie: la concorrenza per quanto disciplinata, non sarebbe in
grado di assicurare un’efficiente allocazione delle risorse.
Nella pratica, le differenze si assottigliano: anche la tutela della concorrenza non consiste nella mera repressione dei comportamenti
devianti, infatti l’Antitrust esercita continuamente una complessa discrezionalità tecnica nell’accertare la disfunzione dei mercati e nel
determinare i rimedi appropriati che si risolve in una specie di regolazione dei mercati. L’Antitrust ha quindi una competenza generale
ma di carattere correttivo occasionale. Le regolazioni di settore affidate all’autorità speciale hanno invece carattere permanente, perché
sono volte a correggere situazioni di mercato in cui i mercati non sono capaci di assicurare un’efficiente allocazione delle risorse.
Riassumendo:
Nel complesso, ci troviamo di fronte a un sistema binario di attuazione del diritto della concorrenza: ci si affida da un lato al public
enforcement, la tutela amministrativa e dall’altro, al private enforcement, la tutela giurisdizionale.
Il primo è in mano alla Commissione europea e alle varie Autorità Nazionali della Concorrenza nel conseguimento di un interesse
pubblico. Queste autorità possono quindi esercitare poteri di indagine e basarsi su una forte esperienza del settore. Nel private
enforcement, sono i privati lesi che si rivolgeranno ai giudici nazionali dei vari stati membri e possono colpire anche gli illeciti meno
gravi.
Il public enforcement avrà come rimedi l’inibitoria amministrativa con lo scopo di far cessare le infrazioni e la possibilità di irrogare le
ammende, ossia sanzioni pecuniarie sul presupposto aggiuntivo della consapevolezza. Nel caso del private enforcement, i privati
possono far valere il diritto del risarcimento del danno con regole che cercano di alleggerire l’onere della prova e il rimedio
invalidatorio, ossia la nullità (a livello europeo soltanto per le intese). Nel caso di azioni civili follow on, che seguono quindi
l’accertamento da parte dell’autorità amministrativa, il privato avrà più facilità a far valere le sue ragioni ma con qualche difficoltà in
più potrà farlo anche nel caso di azioni stand alone, azioni che non seguono un accertamento già avvenuto in sede amministrativa.
DOMANDE MODULO 6
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Quali sono i presupposti per considerare illecita un’intesa tra imprese?
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In cosa consiste la posizione dominante e quali possono essere gli abusi?
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Quali sono le analogie e le differenze tra i due fondamentali divieti antitrust europei?
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Quali soggetti applicano il diritto antitrust EU e secondo quali regole di coordinamento?
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Come si svolge e quali sono i possibili esiti del procedimento antitrust? Quale controllo giurisdizionale è previsto?
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Perché il public enforcement va affiancato dal private enforcement? Quali sono i rimedi civilistici?
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