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02_Liceo classico T. Tasso_Simulazione Tesina_"Livio Andronico e il germoglio dell’incontro culturale greco-latino"_Isabella Tokos_3A_ maggio_2020

Simulazione
TESINA
Con questo elaborato voglio ripercorrere le origini greche della letteratura latina,
iniziando dal personaggio simbolico di Livio Andronico e soffermandomi sui primi contatti
tra la civiltà greca e quella romana e sugli aspetti d’ispirazione greca durante la res publica;
approfondirò i cambiamenti che i secoli hanno apportato alla mentalità e alle necessità
romane nei secoli prima di Cristo, poiché, in fin dei conti, ognuno è figlio del proprio tempo.
Svolgerò un lavoro storico-filologico, elaborato in ordine cronologico, e argomenterò le mie
affermazioni con le parole stesse degli autori e dei loro studiosi. Le citazioni inserite avranno
un unico scopo: quello argomentativo.
Livio Andronico
e il germoglio dell’incontro culturale greco-latino
ISABELLA TOKOS
LICEO T.TASSO, 3°
ROMA
Maggio 2020
Il primo incontro tra romani e greci, favorito dalla mediazione dei vicini etruschi, avvenne
nello stesso periodo della nascita di Roma: tra l’VIII e il VII secolo a.C. A quel tempo la
Grecia, insieme all’Etruria, era uno dei centri più fiorenti del mondo conosciuto. I Greci erano
appena usciti dai secoli bui della cosiddetta invasione dorica, il Medioevo ellenico (XI-IX
a.C.) e, dopo una prima colonizzazione del IX secolo a.C. verso l’Asia minore, cominciavano,
nell’VIII secolo, a spingersi verso ovest, mirando l’Italia meridionale e la Sicilia, per fondare,
nell’arco di due secoli, la Magna Grecia. Il motivo era dovuto al rilevante incremento
demografico e alla significativa crescita economica; notevoli furono i miglioramenti del
tempo apportati all’artigianato, al commercio e allo stesso modo di concepire la guerra (basti
pensare all’introduzione della falange oplitica greca); inoltre, dopo la scomparsa della
scrittura sillabica utilizzata prima dell’invasione dorica, cioè la lineare B, si diffuse una nuova
scrittura alfabetica, derivata dall’alfabeto (già in uso dal XIII secolo a.C.) dei Fenici, con cui
la Grecia si trovava in contatto per motivi commerciali:
“Nel corso dell’VIII secolo, quando lasciarono le loro terre per conquistare nuovi spazi in Italia e
in Sicilia, i Greci avevano già un alfabeto, mutuato da quello fenicio ma molto più complesso, con
cinque vocali e un numero di lettere ancora non omogeneo, che variava da 24 a 26 a seconda delle
regioni. La stessa discrepanza continuò ai tempi della Magna Grecia, quando ogni colonia sviluppò
un proprio alfabeto per le stesse ragioni per cui coniò una propria moneta: affermare, difendere e
mantenere la propria autonomia.” (Alberto Angela, Alexis, un mercante in Magna Grecia, pagina
120)
Fu a partire dall’VIII secolo a.C., poi, che si cominciarono a delineare le prime
caratteristiche delle πόλεις, le città-stato. La Grecia stava ormai manifestando sempre di più la
sua mancata unità politica e linguistica, diventando un territorio frammentato dominato da una
miriade di διάλεκτοι. “Dai secoli bui le testimonianze della lingua passano quasi di botto
dall’indoeuropeo ai vari dialetti greci. Cosa sia accaduto in mezzo, si può sintetizzare così: conquiste,
mutamenti della società, lotte di potere, invasioni, cambio di classi intellettualmente egemoni.”
(Andrea Marcolongo, La lingua geniale – 9 ragioni per amare il greco, pagina 14)
E nonostante ciò, il popolo greco era unificato, seppure non formalmente, da una mentalità
simile, dallo stesso pantheon, così come dalle stesse abitudini: simposi, olimpiadi
panelleniche in onore degli Dei e, soprattutto, una letteratura comune. Inizialmente, una
letteratura orale comune, affidata a personaggi chiave all’interno delle società greche, i
detentori della cultura greca: gli aedi. Essi avevano il compito di intrattenere con le loro
storie, spesso a suon di cetra (ma anche di altri strumenti musicali) un pubblico, che fosse il
popolo o dei simposiasti; a seconda del proprio uditorio, erano in grado di variare i loro
racconti, facendo affidamento su un vasto bagaglio culturale nonché sui miti preesistenti dei
luoghi dell’esecuzione; la diversità dei dialetti era superata dall’impiego di una lingua
artificiale, una fusione di più dialetti (principalmente lo ionico, misto a elementi eolici e/o
attici). Durante le pubbliche festività, in particolare, ad essere cantati erano i poemi epici.
Opere molto complesse in esametri, i poemi epici avevano una buona presa sul pubblico,
rispecchiandone la società: celebrando tramite vari miti, spesso intrecciati, gesta eroiche del
popolo greco o di eroi greci, gli interventi delle divinità a favore o contro i protagonisti,… e di
tanto in tanto inserendo qualche favola (un genere letterario trasversale, presente cioè in molti
generi letterari e che non trova la sua indipendenza prima di Esopo), allo stesso tempo
fungevano da modello educativo: essi erano, infatti, fonte di esempio per il retto agire,
sancendo le regole del comportamento per un buon cittadino greco: in una comunità come
quella greca, in cui la società e il parere dei concittadini aveva un peso enorme, entrava in
scena il ‘culto della vergogna’ (shame culture):
“Per shame culture, alla luce anche delle successive indagini, devono intendersi le società nelle quali
il rispetto delle regole non viene ottenuto attraverso l’imposizione di divieti. […] Nelle «culture di
vergogna» l’osservanza delle regole è ottenuta attraverso la proposizione di modelli positivi di
comportamento, e coloro che non si adeguano a questi modelli incorrono nel biasimo sociale
(«vergogna» in senso oggettivo) e in una sensazione di inadeguatezza («vergogna» in senso
soggettivo).”
(Eva Cantarella, “Sopporta, cuore…” – La scelta di Ulisse, pagina 9-10)
I poemi epici insegnavano, quindi, cosa fare e cosa non fare. Offrivano esempi positivi di eroi
coraggiosi e guerrieri, che non si abbandonavano alla codardia ma affrontavano con
convinzione il loro destino, e anche di anti-eroi, come, ad esempio la figura di Tersite,
l’antitesi di un onorevole combattente greco, “αἴσχιστος δὲ ἀνὴρ ὑπὸ Ἴλιον ἦλθε” cioè “il più
spregevole, fra tutti i venuti all’assedio di Troia” [Iliade, II, v. 216. Traduzione: Giovanni Cerri],
in evidente contrasto con la concezione greca del καλὸς καὶ ἀγαθός, ‘bello e buono’.
Ma, tramite i poemi epici, ai Greci veniva detto anche di combattere e morire piuttosto che
scappare ed essere additati, se stessi e i famigliari, come vigliacchi per il resto della vita, come
si può notare nell’Iliade, nel discorso tra il principe troiano Ettore e sua moglie Andromaca:
Ἠ καὶ ἐμοὶ τάδε πάντα μέλει γύναι· ἀλλὰ μάλ᾽ αἰνῶς
αἰδέομαι Τρῶας καὶ Τρῳάδας ἑλκεσιπέπλους,
αἴ κε κακὸς ὣς νόσφιν ἀλυσκάζω πολέμοιο·
οὐδέ με θυμὸς ἄνωγεν, ἐπεὶ μάθον ἔμμεναι ἐσθλὸς
αἰεὶ καὶ πρώτοισι μετὰ Τρώεσσι μάχεσθαι
ἀρνύμενος πατρός τε μέγα κλέος ἠδ᾽ ἐμὸν αὐτοῦ.
[Iliade, VI, vv. 441-446]
“Donna, anch’io, sì, penso a tutto questo; ma ho troppo
rossore dei Teucri, delle Troiane lungo peplo,
se resto come un vile lontano dalla guerra.
Né il mio cuore vuole, perché ho appreso a essere forte
sempre, a combattere in mezzo ai primi Troiani,
al padre procurando grande gloria e a me stesso.”
[Iliade, VI, vv. 441-446. Traduzione: Rosa Calzecchi Onesti]
L’onore e la gloria, infatti, si conquistavano con la guerra, tornando, come dicevano gli
Spartani, con lo scudo o sullo scudo:
“Τέκνον, ἢ τὰν ἢ ἐπὶ τᾶς.” (Ἀποφθέγματα Λακωνικά, Plutarco),
una frase anonima che secondo lo scrittore bizantino Giovanni Stobèo (Ἀνθολόγιον, III, 7, 30)
era stata pronunciata dalla regina spartana Gorgo mentre porgeva lo scudo al figlio,
ricordandogli il suo dovere da guerriero e cittadino spartano e ribadendogli di dover ritornare
o vivo, con lo scudo in mano, o morto e, quindi, trasportato sopra lo scudo, ma mai vivo e
senza scudo, segno evidente di diserzione. Erano questi i principali messaggi inviati con
l’ascolto di poemi come i poemi omerici (l’Iliade e l’Odissea, i primi a noi giunti e quelli
meglio conservati) o come i restanti sei poemi del Ciclo epico (chiamato anche troiano, a
causa della tematica intorno alla quale si svolgono la maggior parte delle azioni: la guerra di
Troia, il casus belli, gli avvenimenti posteriori così come le vicissitudini di vari eroi
coinvolti). Ma non esistevano soltanto questo tipo di poemi, spesso di autori leggendari o
anonimi (e/o, forse, di un intero popolo), dedicati esclusivamente alla guerra: entrambi poemi
didascalici, la Teogonia e le Opere e i giorni di Esiodo (il primo autore greco di nostra
conoscenza, vissuto tra l’VIII e il VII secolo a.C., ad aver ‘firmato’ le sue opere dichiarando
nei suoi versi il proprio nome e descrivendo la sua investitura poetica durante l’incontro con
le Muse sul Monte Elicone) sono un evidente esempio. Il primo è la declinazione della
genealogia divina, una descrizione della cosmogonia e della teogonia, come attesta lo stesso
titolo; il secondo, invece, dalla struttura molto più complessa, causato, forse, dalla moltitudine
di tematiche affrontate, è una serie di miti, storie e consigli di ogni genere. Secondo la
tradizione, i poemi erano stati per la prima volta messi per iscritto in modo ufficiale sotto il
regno di Pisistrato, il tiranno illuminato, nel VI secolo a.C., ma chiaramente, era molto
probabile che gli aedi si servissero anche prima della scrittura per annotare i propri versi nella
fase della composizione.
VI secolo a.C. Quello stesso secolo, quindi, in cui la Magna Grecia era al massimo della
sua espansione e del suo splendore, mentre per Roma si era appena conclusa (nel 509 a.C.)
l’età regia a favore della res publica. Ed è tramite le colonie, principalmente, che Romani e
Greci si incontrarono, scambiandosi merci ma anche racconti (come la leggenda di Evandro o
quella di Enea, che sarà poi alla base del mito sull’origine divina dei Romani, discendenti
secondo la leggenda da Venere, madre di Enea, e da Marte, padre di Romolo), usi e costumi.
Come i Greci, infatti, anche i Romani ponevano al di sopra dell’individualità la collettività, il
bene comune, in una chiave forse più pragmatica e conservatrice. Alla res publica (Polibio
avrebbe definito questa forma di governo mista dei Romani, che “più di ogni altro popolo,
sono pronti a cambiare i loro usi e costumi e a imitare quelli che ritengono migliori”
[Ἱστορίαι, VI, 25, 11], la forma di governo ideale: allo stesso tempo una monarchia, per la
presenza dei due consoli, un’aristocrazia, a causa del senato e una democrazia per le
assemblee comiziali) seguiva la famiglia, o meglio dire la gens di appartenenza, e soltanto
dopo l’individuo. L’onore più grande, per un cittadino romano era essere un cittadino
all’interno di una società, di una civitas, con diritti e doveri; per un Romano era fondamentale
la fedeltà al mos maiorum, (il ‘costume degli avi’), la pietas (rispetto verso gli altri e
devozione verso gli Dei), la gravitas (l’austerità del comportamento) e la fides (il
mantenimento della parola data).
E fu nel 240 a.C., subito dopo la Prima guerra punica (264-241 a.C.), che Livio
Andronico giunse come schiavo greco a Roma, una città in cui la vita dei cittadini roteava
esclusivamente intorno alle faccende di Stato, alla politica, alla guerra e a tutte le rimanenti
attività che venivano denominate negotia; l’otium, invece, il tempo libero dedito allo svago,
soprattutto letterario, era destinato solo agli schiavi stranieri o di umili origini, i cosiddetti
scribae, in quanto ritenuta un’attività indegna per un cittadino o un magistrato romano. Non
sarebbe stato un caso, infatti, che la prima letteratura latina fu nelle mani di stranieri come
Livio Andronico (greco della Magna Grecia), Nevio (campano), Pacuvio (osco), Ennio (di
Lecce, una zona influenzata da romani, oschi e greci), Plauto (umbro), Terenzio (africano),
Cecilio Stazio (gallo)…
L’età ellenistica (323 a.C, anno della morte di Alessandro Magno – 31 a.C., anno della
battaglia di Azio) era già cominciata da circa un secolo e i filologi alessandrini avevano ormai
intrapreso la loro attività di intenso studio letterario dei testi, non più orali ma interamente
scritti. È in questo periodo che si cominciano a diffondere i libri, che cominciano a crearsi e
ad arricchirsi grandi biblioteche; la più imponente fu la Biblioteca reale di Alessandria
(d’Egitto), costruita nel 305 a.C., un importantissimo centro culturale antico. La letteratura
greca, raffinatissima, era l’oggetto di maggiore studio presso i filologi alessandrini, e non
conosceva pari.
È questo, quindi, il contesto storico-culturale in cui spicca la figura di Livio Andronico,
un grammaticus greco affrancato per i suoi meriti culturali, maestro di latino e di greco,
autore di opere fondamentali, tra drammi (tra cui il primissimo dramma in lingua latina),
carmina (ad esempio il carmina propitiatorum in onore di Iuno Regina, per placare la Dea
prima dello scontro finale e decisivo del 207 a.C. al fiume Metauro contro i Cartaginesi nella
Seconda guerra punica), poemi epici (basti pensare alla traduzione romanizzata, artistica,
dell’Odissea)... Il suo non è semplicemente un ruolo di passaggio, ma Livio Andronico
rappresenta l’origine stessa della letteratura latina legata a doppio filo da quella greca: con le
sue traduzioni dal greco al latino (di drammi e della stessa Odissea) non pedisseque come
potrebbe sembrare, ma sottoposte a un processo di aemulatio, di adattamento al gusto romano,
ha permesso uno sbocco fondamentale sulla cultura greca, che ha decisamente offerto la
spinta necessaria alla letteratura latina per sollevarsi, offrendo la dignità di chiamarsi poetae
ai precedenti scribae. Fu Livio Andronico, quindi, che diede il via al dramma e all’epos in
lingua latina. Ma, seguendo le sue orme, anche altri autori avrebbero contribuito in modo
eccezionale a offrire alla cultura romana nuove opere prettamente latine, indipendenti, almeno
in parte, dalle storie e dai miti greci, tra cui Gneo Nevio e Quinto Ennio.
Gneo Nevio era un cittadino romano libero ma di condizione plebea, e presumibilmente
sine suffragio (ossia senza diritto di voto), che (tra tutti i suoi mala carmina, cioè invettive
contro alcune prestigiose famiglie della nobilitas romana, che lo portarono in carcere
sancendo la sua morte) si impegnò a celebrare la prima vittoria sui Cartaginesi per mezzo di
un poema epico-storico, il Bellum Poenicum, opera che descrive, fino alla guerra a cui lo
stesso Nevio aveva partecipato, i fatti precedenti e successivi alla fondazione di Roma: la
cosiddetta ‘archeologia’, che comprendendo anche i viaggi di Enea e la fine tragica del suo
rapporto amoroso con Didone, la regina di Cartagine, forniva il casus belli della guerra tra le
due città e, allo stesso tempo, legittimava Roma e la sua potenza come voluta dalle divinità.
Mentre Nevio si era concentrato su un singolo evento della storia romana, Quinto Ennio,
un poeta dalle tre anime, come egli stesso si definiva a causa del suo trilinguismo (parlava il
greco, l’osco e il latino), scelse di impiegare le sue energie per un progetto molto più ampio,
gli Annales. Il titolo, che indicherà lungo i secoli numerose opere, si rifà agli Annales
(pontificis) maximi, cronache pubbliche in cui venivano annottati anno per anno, gli eventi più
significativi che accadevano nella urbs (non solo in ambito sociale o politico, ma anche
fenomeni naturali, come eclissi, epidemie…). In effetti, gli Annales di Ennio, un poema
strutturato in ben 18 libri che tratta dettagliatamente la storia di Roma (spingendosi fino
all’anno 178 a.C. con la guerra istrica), sfidano persino i canoni alessandrini della brevitas,
esibendo al pubblico più di 15000 versi in continua espansione.
Anche i contemporanei dei tre poeti cardine della letteratura latina riconoscevano il loro
formidabile valore, tanto che la res publica cercò di ripagare i favori letterari con
l’assegnazione di molti onori, tra cui quello di abitare sull’Aventino dove, durante la vita di
Livio Andronico, venne istituito il collegium scribarum historiumque. Esso era
un’associazione particolare che apriva le sue porte ad artisti come poeti o attori. La presenza
di una vera e propria sede di cultura finanziata dallo Stato dimostra come la letteratura si fa
sempre più spazio all’interno della società romana e come la res publica sente la necessità di
trovare mezzi di controllo su forme di espressione come possono essere le opere letterarie e
quelle teatrali. Soprattutto le ultime, quelle più a contatto con il popolo, rappresentavano un
insostituibile strumento per comunicare con la plebs romana, permettendole, attraverso il
teatro, strategici momenti di divertimento e di svago (per le commedie) o di riflessione (per le
tragedie).
Come per l’epos romano, anche il teatro romano guarda al mondo greco come a un
modello.
“I greci furono sempre amanti dei cortei. Ogni anno organizzavano solenni processioni in onore di
Dioniso, il dio del vino . In Grecia tutti bevevano vino (l’acqua era ritenuta utilesolo per nuotarci o
per navigarci), perciò Dioniso godeva di grande popolarità. E siccome si pensava che vivesse nei
vigneti, circondato da un’allegra schiera di satiri (strani esseri per metà uomini e per metà capre), la
gente che partecipava alla processione indossava pelli di capra e si metteva a belare. In greco,
‘capra’ si diceva tragos e ‘cantore’ oidos: e chi ‘cantava’ imitando il belato della capra veniva quindi
chiamato tragos-oidos. Fu questo strano nome che si trasformò nella moderna parola ‘tragedia’, che
nel senso teatrale indica un dramma a conclusione dolorosa o luttuosa, mentre la commedia indica un
pezzo teatrale a lieto fine (e infatti in origine significava il cantare qualcosa di comos, cioè di
‘allegro’.”
[Hendrik Willem van Loon, Storia dell’umanità, capitolo 17 – Il teatro greco, pagine 92-93]
Come continua a spiegare nelle pagine successive l’autore Hendrik Willem van Loon,
presto l’usanza del belare cominciò ad annoiare la folla che si radunava per assistere al rituale,
così un giovane poeta attico propose uno scambio di battute: un membro del coro avrebbe
dovuto staccarsi dal corteo e avrebbe dovuto dare avvio, gesticolando, a un dialogo sulla
storia di Dioniso o di qualche altro Dio con il capo dei musicisti in testa al corteo, mentre i
rimanenti membri del corteo avrebbero continuato a cantare. Il piano del giovane poeta ebbe
successo e presto si spostò (anche su argomenti di tipo mitologico) in strutture erette
appositamente per questa prima forma di spettacolo pubblico.
“La tragedia divenne una parte essenziale della vita dei greci; la gente la prendeva con grande
serietà e non si recava a teatro per semplice divertimento. La rappresentazione di un nuovo dramma
costituiva un evento importante quanto le elezioni, e a un drammaturgo che aveva successo venivano
riservati onori maggiori di quelli concessi a un generale di ritorno da una grande vittoria.”
[Hendrik Willem van Loon, Storia dell’umanità, capitolo 17 – Il teatro greco, pagina 94]
Certamente, non tutti i greci erano dello stesso parere. Filosofi come Platone, ad esempio,
consideravano l’arte “l’imitazione di un’imitazione (μίμησις μιμήσεως) di tre gradi lontana
dal vero” [Πολιτεία, 602c]: infatti riproducono elementi del mondo sensibile a loro volta
copie delle idee dell’iperuranio. Per questa ragione, quindi, l’arte, anziché aiutare l’anima ad
avvicinarsi al mondo delle idee, al mondo intellegibile, la incatena alle passioni e la corrompe
sia mostrando ad essa individui abbandonati a istinti bassi e incontrollati (come nel caso della
commedia), sia rappresentandole la realtà come soggetta esclusivamente al volere divino e al
fato (come nelle tragedie).
Di parere opposto, invece, era il suo allievo Aristotele. Per il filosofo greco, la tragedia era:
“imitazione di un’azione seria e compiuta in se stessa, che abbia una certa ampiezza, un linguaggio
ornato in proporzione diversa a seconda delle diverse parti, si svolga a mezzo di personaggi che
agiscano sulla scena, e non che narrino, e infine produca, mediante casi di pietà o di terrore, la
purificazione di tali passioni.” [Περὶ ποιητικῆς, 6, 1449b 20]
Per Aristotele, quindi, la tragedia ha una funzione catartica, ovvero di purificazione
dell’anima, oltre che, ovviamente, a un ruolo educativo e formativo.
“Alcuni di quelli che sono dominati dalla pietà, dal timore o dall’entusiasmo, quando odono canti
orgiastici come quelli religiosi, si calmano come per effetto di una medicina e di una catarsi. È
necessario perciò che siano sottoposti a tale azione coloro che vanno soggetti alla pietà, al timore e
in generale alle passioni, in modo conveniente a ciascuno, sicché in tutti si generi una catarsi e un
alleggerimento piacevole.” [Περὶ ποιητικῆς,VIII, 7, 1342a]
Con l’arrivo di Livio Andronico, anche Roma conosce in forma ufficiale il teatro. Ma è da
presumere, secondo molte testimonianze, anche se tante controverse, che i Romani fossero già
entrati in contatto con il mondo teatrale prima del 240 a.C. Tito Livio, ad esempio, narra (Ab
Urbe condita, VII, 2) che nel 364 a.C. a causa di una pestilenza, alcuni ballerini etruschi
furono chiamati per danzare “al suono di un flauto con movimenti armoniosi”, con lo scopo
di onorare le divinità irate. Ciò di cui parlava Tito Livio erano le saturae, per gli studiosi
difficili da inquadrare in precisi canoni. La denominazione viene solitamente fatta derivare
dall’aggettivo satur, cioè ‘abbondante, farcito’. In effetti, l’etimologia del termine potrebbe
rispecchiare questo tipo di ludus scaenicus: le satire erano, infatti, uno spettacolo misto,
comprendendo danze, canti e musiche. E, “sebbene le satire fossero uno degli spettacoli prediletti
dagli Etruschi (da qui, fra l’altro, deriverebbero anche i fescennini romani: messinscene in cui gli
attori, mascherati, si scambiano battute e oscenità di vario genere), non erano certo l’unico. Molto
amate erano anche le danze in costume e soprattutto le tragedie, in particolare quelle del
drammaturgo greco Euripide (485-407 a.C.).” (Alberto Angela, La civiltà perduta degli etruschi,
pagina 148)
In ogni caso, prima di conoscere il teatro scritto greco, la cultura romana risente di
moltissime influenze vicine: i Fescennini (motti giocosi ma a volte osceni, violenti e sfrenati,
tipici delle feste per il raccolto o indirizzati a sposi durante le loro nozze), i già citati ludi
scaenici etruschi, così come anche l’Atellana campana (spettacolo improvvisato e buffonesco,
con personaggi stereotipati) e la farsa fliacica (chiamata anche ‘ilarotragedia’; era una parodia
dei miti tragici, o di scene di vita quotidiana).
Con l’avvento del vero e proprio teatro romano, i drammi cominciarono a essere messi in
scena in occasione delle feste pubbliche (i cosiddetti ludi). Sin dall’inizio, a differenza del
teatro greco, si presentano come una delle tante forme di intrattenimento, come ludus (che in
latino significa appunto ‘momento di pausa, evasione’), insieme a giochi circensi,
combattimenti tra gladiatori… E, essendo il teatro un ottimo mezzo di espressione, lo Stato lo
finanziava e lo sorvegliava a tal punto da censurare qualsiasi allusione politica o civile. I temi
affrontati, quindi, sarebbero stati miti ben noti al pubblico o momenti di vita quotidiana, in cui
il popolo si poteva immedesimare. Come diceva anche Cicerone, d’altronde,
“Comoedia est imitatio vitae, speculum consuetudinis, imago veritatis.”
“La commedia è imitazione della vita, specchio dei costumi e immagine della realtà.”
[Cicerone, De re publica, IV, 11]
Il primo autore a specializzarsi in un unico genere letterario, nel suo caso la commedia
palliata, commedia di ambientazione greca, fu Titus Maccius Plautus. Con Plauto si
concretizza la forma teatrale della commedia scritta e messa in scena senza alcun fine se non
quello di far divertire. Dai toni scherzosi, ricche di abilissimi giochi di parole, neologismi
carnevaleschi, disseminate da numeri innumeri (una gamma sorprendente di metri), le
palliatae di Plauto dimostrano la sua singolare padronanza della lingua e della metrica latina.
I suoi personaggi stereotipati e privi di ogni caratterizzazione psicologica accompagnano e
coinvolgono il pubblico con una serie di ‘a parte’ e di riferimenti al teatro all’interno
dell’opera stessa (metateatro), in storie in cui lo stesso svolgimento della trama non ha
importanza: quel che conta veramente è ridere. Perché per Plauto il teatro è liberatorio: per un
giorno, il giorno dei ludi, la società romana viene rovesciata, gli schiavi sono padroni, i figli
hanno la meglio sugli sciocchi padri, la sfrontatezza verso i padroni non ha alcuna
conseguenza negativa, semmai viene premiata.
I modelli principali di ispirazione per Plauto sono principalmente gli autori greci della
commedia nuova: Menandro, Difilo, Filemone, Alessi, Demofilo. Plauto non si fa scrupoli
nell’utilizzare la tecnica della contaminatio, anzi, in molte occasioni non sente nemmeno la
necessità di dichiarare i suoi modelli. E nel suo processo di contaminatio Plauto rielabora le
tematiche, eliminando il coro, riducendo all’essenziale i personaggi poco rilevanti, cambiando
il nome dei personaggi e scambiando tra loro le scene. La sua più grande innovazione rispetto
ai suoi maestri greci è l’aggiunta di elementi buffoneschi e di veri e propri ‘giochi di
prestigio’ in campo linguistico. Ammirevoli, nelle commedie a due argumenta, l’acrostico
presente in uno di essi, in cui le iniziali dei versi formano il titolo stesso dell’opera, ad
esempio:
“Meretricem Athenis Ephesum miles avehit.
Id dum ero amanti servos nuntiare volt
Legato peregre, ipsus captust in mari
Et eidem illi militi dono datust.
Suom arcessit erum Athenis et forat
Geminis communem clam parietem in aedibus,
Licere ut quiret convenire amantibus.
Obhaerentis custos hos videt de tegulis,
Ridiculis autem, quasi sit alia, luditur.
Itemque impellit militem Palaestrio
Omissam faciat concubinam, quando ei
Senis vicini cupiat uxor nubere.
Ultro abeat orat, donat multa. Ipse in domo
Senis prehensus poenas pro moecho luit.”
[Plauto, Miles Gloriosus, Argumentum I]
“Un soldato si porta a Efeso una cortigiana che ha prelevato ad Atene. Il servo dell’innamorata della
ragazza, Palestrione. Volendo riferire ciò al padrone che è partito per una missione diplomatica, si
mette in viaggio per mare ma viene catturato dai pirati e dato da essi in dono proprio a quel soldato.
Si preoccupa allora di far venire il suo padrone da Atene e pratica intanto di nascosto un foro tra la
parete della casa in cui abita e quella contigua, in modo che i due amanti possano incontrarsi. Lo
schiavo addetto alla custodia della ragazza vede dal tetto i due abbracciati, ma viene gabbato in
modo spassoso e costretto a credere che la ragazza sia un’altra. È sempre Palestrione che spinge il
soldato a liberarsi della concubina, convincendolo che la moglie del vecchio vicino desidera sposarlo.
Il soldato prende allora l’iniziativa di invitare la ragazza ad andarsene, coprendola di doni. Ma poi,
acchiappato nella casa del vecchio, sconta la pena riservata agli adulteri.”
[Plauto, Miles Gloriosus, Argumentum I. Traduzione: Giovanna Faranda]
Se Plauto focalizzava le sue commedie sulla risata, non faceva altrettanto Publius
Terentius Afer. Per Terenzio, una commedia doveva concentrarsi sull’aspetto realistico e
verosimile delle scene e dei contenuti. Per tale cagione, i personaggi terenziani perdono la
stereotipia plautina, acquisendo una dimensione psicologica in cui si mescolano drammi,
gioie, malintesi e che mostrano con chiarezza l’evoluzione di personaggi altrimenti statici. Il
linguaggio usato dal commediografo, più pacato e decoroso, è il sermo familiaris, in grado di
offrire ai dialoghi la naturalezza necessaria. Le commedie non vengono scritte per il semplice
gusto della commedia, ma hanno sempre un intento moralistico ed educativo, soprattutto per
quanto riguardavano tematiche a quel tempo discusse come l’educazione dei figli.
Terenzio ebbe la possibilità di compiere un viaggio di studio in Grecia dove entrò sin da
subito in contatto con la commedia nuova di Menandro. E, proprio come accadde per Plauto,
Menandro, con i suoi temi quotidiani di natura privata (ad esempio l’amore, il lavoro,
l’amicizia) a discapito di quelli politici e civili e con le sue conclusioni morali e pedagogiche
a lieto fine, divenne il principale esempio seguito da Terenzio, tanto che il commediografo di
origini africane fu soprannominato da Cesare “Menander dimidiatus” (cioè: ‘Menandro
dimezzato’).
Nonostante le opere di Terenzio acquisirono una tale importanza da essere introdotto come
obbligatorio nel curriculum latino del periodo neoclassico, al suo tempo egli non ebbe
successo dal primo istante, anzi, molte furono le dicerie sul suo conto, tra cui, la più pesante,
quella che metteva in dubbio il fatto che lui fosse veramente l’autore delle sue opere. Queste
malignità vennero poi confermate dalle parole di Svetonio nell’autobiografia che compone in
onore di Terenzio:
“Non obscura fama est adiutum Terentium in scriptis a Laelio et Scipione, eamque ipse auxit
numquam nisi leviter refutare conatus, ut in prologo ‘Adelphorum’. […] Videtur autem se levius
defendisse, quia sciebat et Laelio et Scipioni non ingratam esse hanc opinionem; quae tamen magis
et usque ad posteriora tempora valuit.”
“Non era pettegolezzo celato che Terenzio fosse aiutato nei suoi scritti da Lelio e Scipione,
maldicenza ch’egli contribuì ad alimentare, limitandosi a qualche timida smentita, come nel prologo
degli ‘Adelphoe’. […] Il suo eludere è evidentemente dovuto alla consapevolezza che tale pettegolezzo
– accresciutosi col tempo fino a sopravvivere nella posterità – non risultava sgradito né per Lelio né
per Scipione.”
[Svetonio, Vita Terentii, III]
Parimenti, Terenzio dovette difendersi anche da accuse come quella di aver praticato la
contaminatio:
“Poeta cum primum animum ad scribendum adpulit,
id sibi negoti credidit solum dari
populo ut placerent quas fecisset fabulas;
verum aliter evenire multo intellegit.
Nam in prologis scribundis operam abutitur,
non qui argumentum narret, sed qui malevoli
veteris poetae maledictis respondeat.
Nunc quam rem vitio dent quaeso animum advortite:
[…]
id isti vituperant factum atque in eo disputant
contaminari non decere fabulas.
Faciuntne intellegendo ut nihil intellegant?
Qui cum hunc accusant, Naevium, Plautum, Ennium
accusant; quos hic noster auctores habet,
quorum aemulari exoptat neglegentiam
potius quam istorum obscuram diligentiam.”
[Terenzio, Andria, Prologo; vv. 1-8, 15-21]
“Quando lo colse la vena poetica,
l’Autore si impegnò anima e corpo
a far commedie gradite al suo pubblico.
Ma diversamente vanno le cose,
e lui perde tempo a scriver prologhi:
non sunti, ma risposte ai colpi bassi
di un vecchio e invidioso poeta.
Di grazia, ascoltate le sue accuse.
[…]
E quello lo biasima e gli rimbrotta:
«Che vergogna contaminar commedie!».
Son queste forse arguzie da arguti?
Accusi allora Nevio, Plauto, Ennio,
gli amati modelli dell’Autore:
la ‘nonchalance’ di questi egli imita,
non quell’ingloriosa pedanteria.”
[Terenzio, Andria, Prologo; vv. 1-8, 15-21. Traduzione: Laura Pepe]
Vissuto cronologicamente tra Plauto e Terenzio, Cecilio Stazio fu uno tra i più importanti
commediografi di palliatae in lingua latina. Come fece Plauto prima di lui e come avrebbe
fatto Terenzio dopo di lui, anche Cecilio prese come fonte d’ispirazione la commedia nuova
greca di Menandro. A differenza, però, di altri autori latini, soprattutto di Plauto, Cecilio fu
influenzato in misura maggiore dal mondo greco, scegliendo di mantenere, tra l’altro, i titoli
greci delle opere prese d’esempio. A tal proposito, il nome di Cecilio non venne nemmeno
citato tra gli autori che praticavano la contaminatio: egli, infatti, preferiva rispettare il modello
preso in considerazione senza fonderlo con altri.
Cecilio si distinse dal suo predecessore Plauto anche per quanto riguarda la figura
predominante all’interno delle sue commedie: anziché approfondire il personaggio del servus
callidus, pronto in qualsiasi momento a escogitare un inganno per risolvere la difficile
situazione solitamente del giovane padrone, egli optò per quello della meretrix dal cuore
d’oro, nobile e disinteressata, una figura già trattata da Menandro e che sarebbe stata poi
ripresa da Terenzio (ad esempio nell’Hecyra). Le somiglianze tra Cecilio e Terenzio, in
effetti, sono notevoli: basti pensare all’accurata indagine psicologica nei propri personaggi
che però, in Cecilio, pur conquistando una propria personalità, non cadono nella ‘staticità’ a
cui lo stesso Terenzio accenna con riferimento alla sua commedia.
Per quanto riguarda il rapporto tra Terenzio e Cecilio, Svetonio affermava nel suo Vita
Terentii, che Terenzio:
“Scripsit comoedias sex, ex quibus primam "Andriam" cum aedilibus daret, iussus ante Caecilio
recitare, ad cenantem cum venisset, dictus est initium quidem fabulae, quod erat contemptiore
vestitu, subsellio iuxta lectulum residens legisse, post paucos vero versus invitatus ut accumberet
cenasse una, dein cetera percucurrisse non sine magna Caecilii admiratione.”
“Scrisse sei commedie, sulla prima della quali, l’Andria, si racconta che, dovendola sottoporre agli
edili, fu costretto a leggerla dinanzi a Cecilio; Terenzio lo andò a trovare all’ora di pranzo; gli fu
chiesto, giacché vestito di abiti decisamente non adatti all’occasione e al contesto, di leggere il
principio della commedia seduto su uno sgabello accanto al triclinio; ma poi, dopo pochi versi, fu
invitato ad accomodarsi alla tavola per consumare il pasto insieme, e quindi a completare la lettura,
non senza grande ammirazione di Cecilio.”
[Svetonio, Vita Terentii, II]
L’importanza di Cecilio, oltre alle notevoli capacità linguistiche, si manifesta anche nei
concetti trasmessi da lui attraverso le sue opere; in particolare il concetto di humanitas, un
valore greco che sarà ripreso anche da autori posteri tra cui i membri del circolo scipionico,
Cicerone e anche scrittori vissuti dopo Cristo come Aulo Gellio (125 d.C. - 180 d.C.) che,
infatti, scriverà:
“Qui verba Latina fecerunt quique his probe usi sunt […] «humanitatem» appellaverunt id
propemodum, quod Graeci «paideian» vocant, nos eruditionem institutionemque in bonas artes
dicimus.”
“Quelli che crearono le parole latine e di esse si servirono correttamente […] chiamarono
‘humanitas’ pressappoco ciò che chiamano ‘paideia’ i Greci, noi cultura e disposizione alle buone
arti.”
[Aulo Gellio, Noctes Atticae, 13, 17]
Cecilio, quindi, risulta molto emancipato nel suo avvicinamento al valore greco
dell’humanitas; tanto da sentirsi in dovere di replicare alla frase di Plauto dell’Asinaria
(v.495): “Lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit.” (= “L’uomo è un
lupo per l’uomo, non un uomo, quando si ignora chi sia.”) con: “Homo homini deus est, si
suum officium sciat.” (= “L’uomo è come un Dio per l’uomo, se conosce il suo dovere.”),
concetto che sarà ripreso e rimodellato anche da Terenzio nel suo Heautontimorumenos:
“Homo sum, humani nihil a me alienum puto.” (= “Sono umano, niente di ciò che è umano
mi è estraneo.”).
Cecilio Stazio, di origine gallica, è il primo a introdurre l’humanitas a Roma, in una
società di guerrieri, insegnando ai Romani che, oltre alla guerra, esistono ideali più alti per cui
valga la pena combattere. Le parole del commediografo rappresentano, quindi, un invito al
rispetto, un invito a piantare “gli alberi, che possano giovare a un’altra generazione.”:
“Serit arbores, quae saeclo prosint alteri.”
Mentre Plauto, Cecilio Stazio e Terenzio ottennero la loro fama con le commedie, altri
autori come Pacuvio e Accio lo fecero attraverso le proprie tragedie. Ormai il legame tra
Grecia e Roma creato da Livio Andronico stava diventando sempre più indissolubile, tanto
che, rispettivamente circa 40 e 90 anni dopo la prima rappresentazione teatrale in lingua
latina, Pacuvio e Accio sentirono il bisogno, per le trame delle loro opere, di prelevare proprio
episodi da quei miti dell’epos greco che ormai circolavano liberamente con parole latine,
focalizzandosi principalmente sugli aspetti meno noti delle storie greche.
Pacuvio, poeta doctus (come veniva definito da Orazio), imitato poi da Accio, si indirizzò
verso lo stile di Euripide (nonostante la carriera letteraria del tragediografo greco fosse stata
perlopiù oscurata dalla figura contemporanea di Sofocle), uno stile dominato da
approfondimenti psicologici, da scontri tra la razionalità richiesta e necessaria per lo
svolgimento delle vicende, delle quali l’unico sovrano è la capricciosa Sorte, e l’irrazionalità,
dettata dagli impulsi e dalle passioni, che fa immergere i personaggi in una dimensione di
dubbi e che li porta alla rovina. Così, anche Pacuvio si orientò tra i miti greci, cogliendo gli
episodi più malinconici o avventurosi; ma, a differenza dei suoi predecessori, tra cui anche il
latino Ennio, dimostrò un palese interesse verso gli aspetti più macabri delle sue storie:
“Mater, te appello, tu quae curam somno suspensam levas
neque te mei miseret, surge et sepeli natum <tuum> prius
quam ferae volucresque…
neu reliquias semiesas sireisndenudatis ossibus
per terram sanie delibutas foede divexarier.”
“T’invoco, o madre, tu che nel sonno dai sollievo all’angosciosa pena, e non hai compassione di me:
alzati e da’ sepoltura a tuo figlio, prima che le fiere e gli uccelli [mi divorino] e non lasciare che le mie
spoglie semidivorate, con le ossa messe a nudo, siano orribilmente disperse per terra, grondanti di
putredine.”
(Pacuvio, Iliona, vv. 197-201)
Pacuvio modellò il suo linguaggio per raggiungere il suo scopo più alto: commuovere il
pubblico, anche a costo di sfruttare la retorica. Il suo stesso percorso fu successivamente
esplorato da Accio, che, tra i suoi studi filologici della letteratura greca e latina, si dedicò a
porre maggior accento all’interno delle sue tragedie sulle scene violenti e cruenti:
“concoquit partem vapore flammae, veribus in foco lacerta tribuit.”
“parte [della carne] cuoce al vapore della fiamma, i muscoli li sistema sul fuoco infilzati negli spiedi.”
(Accio, Atreus, frammento 10)
“Ipsus hortatur me frater ut meos malis miser manderem natos.”
“Proprio mio fratello invita me, misero, a masticare con queste mascelle i miei figli!”
(Accio, Atreus, frammento 14)
L’insieme di tutti i primi poeti commediografi e tragediografi latini costituì un punto di
partenza della letteratura latina inequivocabilmente indirizzato verso il mondo greco.
«ambigitur quotiens, uter utro sit prior, aufert
Pacuvius docti famam senis, Accius alti,
dicitur Afrani toga convenisse Menandro,
Plautus ad exemplar Siculi properare
Epicharmi,
vincere Caecilius gravitate, Terentius arte.»
«Quando poi ci si chiede quale sia il
maggiore [dei poeti], si definiscono
Pacuvio 'il vecchio erudito', Accio 'il
sublime', Afranio 'togato, ma dotato
della sensibilità di Menandro', Plauto
'estroso come il suo modello, il siciliano
Epicarmo', Cecilio 'il più profondo',
Terenzio 'il più fine'.»
(Orazio, Epistulae, II, 1, 59.)
Dopo la battaglia di Pidna del 168 a.C. contro il re macedone Perseo, Lucio Emilio Paolo,
vincitore dello scontro, ebbe l’occasione di portare a Roma la ricchissima biblioteca di
Perseo: ancora una volta, membri della società romana entravano in contatto con la cultura
ellenica e, in particolare, il figlio Publio Cornelio Scipione Emiliano. Uomo di spicco nella
politica romana del tempo, Scipione Emiliano fu il fondatore del circolo scipionico.
Il circolo scipionico era fortemente filo-ellenico, a differenza di ambienti più conservatori,
antiellenici e vicini a Catone. Si diceva, tra i coevi così come anche tra i posteri, che
l’ambiente scipionico fosse stato uno tra i più fiorenti circoli culturali, letterari e filosofici,
aperto a personaggi latini tanto quanto greci o stranieri: Terenzio, Polibio, Panezio, Gaio
Lelio, Scevola, Lucilio e molti, molti altri. Anche Cicerone ne parla con grande stima nella
sua opera ‘Laelius de amicitia’, un dialogo filosofico immaginario tra Scevola, Gaio Lelio e
Gaio Fannio Strabone sul valore e sulle varie tipologie di amicizia, in cui viene ricordato
Scipione Emiliano, nel libro, un personaggio a quel tempo da poco defunto.
Pur non essendo l’unico punto di contatto tra Grecia e Roma, intorno all’ambiente
scipionico ruotarono alcuni tra i più importanti e indiscutibili ‘ambasciatori’ del mondo greco:
in primis Polibio (storico greco che divenne amico intimo di Scipione Emiliano), ma anche
Cratete di Mallo, Carneade, Panezio di Rodi…
Fu merito di Cratete di Mallo, filologo e grammatico illustre dell’epoca, se giunse e si
diffuse a Roma la corrente filologica della scuola pergamena, secondo cui le lingue sono
frutto naturale dello scorrere del tempo, costantemente soggette a variazioni, e contengono
forme irregolari suggerite dalla consuetudo che non andrebbero eliminate ma preservate, a
differenza di quanto sostenevano gli alessandrini, che consideravano le lingue uno strumento
di comunicazione convenzionale, basato su antichi accordi e sulla ratio, per cui ogni anomalia
del sistema linguistico andrebbe rimossa.
Allo stesso tempo, tanti furono i filosofi che compirono viaggi diplomatici verso Roma,
badando, durante il loro soggiorno, a divulgare tra i Latini le loro dottrine; e altrettanto tanti
furono quelli banditi da Roma da personaggi conservatori come Catone con l’accusa di
corruzione giovanile. Gli epicurei Alcio e Filisco, lo stoico Diogene, il peripatetico Critolao,
l’accademico Carneade (che fece due discorsi degni di un sofista sulla giustizia come valore
assoluto e sulla giustizia come valore relativo)… In particolare, però, fu più vicino al circolo
scipionico lo stoico Panezio di Rodi, che contribuì alla formazione di una mentalità nuova e
compatibile con le occorrenze della nuova società romana: seppe proporre, accanto al
concetto di dovere assoluto, quello di dovere relativo in una società ormai cosmopolita e
antropocentrica, dominata dal perpetuo conflitto tra sfera pubblica e sfera privata, che con
Panezio trovò finalmente una risoluzione: il filosofo, infatti, introdusse la distinzione tra la
persona communis, ovvero il contenitore di tutti i valori unanimemente accettati e
appartenenti all’humanitas, e la persona ‘ingenium’, che distingue un essere umano da un
altro per caratteristiche personali di ogni tipo.
Accanto ai generi dell’epos e del dramma, a partire dal II secolo a.C., con Lucilio, si
cominciò a diffondere un nuovo genere letterario: la satura.
Secondo Orazio, Lucilio apparteneva all’ambiente scipionico; ma, a differenza di altri
membri del circolo, egli non era né schiavo né di umili origini né straniero: appartenente a una
famiglia ricchissima del ceto equestre, era il primo esempio di poeta di nobili natali. Inoltre, la
sua fu una predilezione: egli ebbe la possibilità di manifestare appieno il suo libero arbitrio e
optò di non intraprendere il classico percorso del cursus honorum, ma di imboccare la strada
dell’otium.
‘Doctus et perurbanus’, cioè ‘colto e dai gusti raffinati’ (Cicerone, De oratore, III, 171),
la sua classe sociale gli permise indipendenza finanziaria ma, soprattutto, indipendenza
intellettuale; il suo rapporto con i membri più di spicco di Roma era alla pari.
Egli affermò nei suoi versi che le sue opere sbocciano dal profondo del suo cuore, ex
praecordiis. La necessità di schiettezza lo spinse a privilegiare temi più soggettivi, che erano
diventati ormai i temi del circolo scipionico: non più temi celebrativi e collettivi condivisi dai
poemi epici o dalle tragedie, non più gli aspetti fantastici dei miti, i somnia facta, ma veri e
propri temi realistici che riescono a cogliere tutte le sfumature della vita quotidiana attraverso
memorie personali, idee, polemiche, decisioni…
“nisi portenta anguisque volucris ac pinnatos scribitis.
Nunc itidem populo <placere nolo> hic cum scriptoribus”
“voi credete di non interessare al popolino, se non gli descrivete degli esseri straordinari, come per
esempio dei serpenti alati o dei draghi volanti.
Ma io non aspiro a piacere al popolino, come questi scrittori”
(Lucilio, Saturae, vv. 587-588)
Lucilio intraprese una vera e propria rivoluzione razionalistica. Tuttavia, la sua scelta di
scrivere su temi individuali, soggettivi, non andava assolutamente in contrasto con la
mentalità del suo tempo, ancora focalizzata sulla comunità e sul rispetto verso la res publica:
“Virtus, Albine, est pretium persolvere verum
quis in versamur, quis vivimus rebus potesse,
virtus est homini scire id quod quaeque habeat res,
virtus scire homini rectum, utile quid sit, honestum,
quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum,
virtus, quaerendae finem rei scire modumque,
virtus divitiis pretium persolvere posse,
virtus, id dare quod re ipsa debetur honori,
hostem esse atque inimicum hominum morumque malorum,
contra, defensorem hominum morumque bonorum,
hos magni facere, his bene velle, his vivere amicum,
commoda praeterea patriai prima putare,
deinde parentum, tertia iam postremaque nostra.”
“Virtù, o Albino, è essere in grado di assegnare il giusto valore
alle cose fra cui ci troviamo e fra cui viviamo,
virtù è sapere quale valore abbia ciascuna cosa per l'uomo,
virtù è sapere cosa sia giusto, utile, onesto
quali cose sono buone e quali cattive, cosa sia inutile, vergognoso, disonesto;
virtù è saper porre fine e moderazione al profitto,
virtù è essere in grado di assegnare il giusto valore alle ricchezze,
virtù è conferire agli onori ciò che realmente si deve ad essi:
essere avversario e nemico degli uomini e dei costumi corrotti,
e, al contrario, difensore degli uomini e dei costumi puri,
stimare costoro, apprezzarli, essere loro amico,
mettere al primo posto il bene della patria,
poi quello dei genitori, per terzo e ultimo il nostro.”
(Lucilio, Saturae, vv. 1326-1338)
Lucilio fu l’inventore della satira, maestro negli attacchi ad personam; egli non aveva
alcun motivo di temere le conseguenze delle sue taglienti parole: la sua classe sociale gli
permetteva una certa libertà di espressone che nessun autore prima di lui aveva avuto. Dalle
sue opere traspare un’evidente malcontento verso atteggiamenti romani che, man mano che la
res publica si avvicinava alla sua fine, stavano radicalmente cambiando. Invettive contro
personaggi di spicco, invettive contro tutti gli abitanti di Roma… per la franchezza di Lucilio
non faceva la minima differenza. E il poeta latino, con il suo concilium deorum, non avrebbe
avuto alcuno scrupolo ad utilizzare (e, forse, a minimalizzare) addirittura gli Dei come capro
espiatorio per poter denunciare, attraverso una parodia, il senato romano: la parodia di un
topos letterario, quello del concilio degli Dei, di antiche origini, già presente nell’epos greco
di Omero, ma anche nel nuovo epos di Ennio; con una sola freccia, quindi, Lucilio colpisce
due bersagli: la religione e la politica.
Per il suo carattere in certi momenti piuttosto moralistico, Lucilio sarebbe stato ricordato
anche come laudator temporis acti (‘lodatore del tempo passato’). Attraverso le sue saturae,
egli avrebbe saputo offrire uno specchio critico della sua società e del suo tempo:

“famam inhonestam autem turpemque odisse popinam
praetextae ac tunicae, Lydorum opus, sordidulum omne,
psilae atque amphitapae, villis ingentibus, molles miracla ciet tylyphantas
porro «clinopodas» «lychnos»que ut diximus semnos
ante «pedes lecti» atque «lucernas» «arutaenae»que, inquit, aquales.”
“Gli antenati erano soliti odiare una brutta fama e le vergogne della taverna, mentre le nostre
matrone vanno in visibilio per le toghe preteste e le tuniche prodotte da donne della Lidia, e
disprezzano ogni prodotto nostrano; di tappeti semplici e doppi, dal pelo folto e morbido […] il
materassaio fa veri prodigi. E mentre un tempo si diceva «i piedi del letto» e «le lucerne», ora si sono
messi a dire con enfasi «i clinopodi» e «i licni» […] e chiamano «arutene» comuni brocche per
l’acqua.”
(Lucilio, Saturae, vv. 11-17)

“nunc vero a mani ad noctem, festo atque profesto
totus item pariterque die populusque patresque
iactare indu foro se omnes, decedere nusquam;
uni se atque eidem studio omnes dedere et arti,
verba dare ut caute possint, pugnare dolose,
blanditia certare, bonum simulare virum se,
insidias facere, ut si hostes sint omnibus omnes.”
“Ora, dalla mattina fino a notte inoltrata, sia nei giorni feriali sia in quelli festivi, cittadini e senatori
hanno tutti un gran da fare nel foro, da dove non si allontanano mai; e tutti hanno un solo identico
scopo, quello di imbrogliarsi a vicenda – ma con circospezione! – , di lottare con inganno, di vincere
con blandizie, di fingersi uomini per bene e di tramare insidie, come se tutti fossero nemici a tutti.”
(Lucilio, Saturae, vv. 1228-1234)
Lucilio, però, si concesse anche versi d’amore, più colloquiali, per una donna chiamata
Collyra; secondo molti studiosi, è probabile che fu proprio Lucilio, con le sue poesie erotiche
latine, ad aprire la strada ai poetae novi del I secolo a.C.
Infine, è certo che alcune sue caratteristiche si ritrovano addirittura in Alceo (VII-VI
secolo a.C.), le cui opere, come afferma lo stesso Camillo Neri nella sua Breve storia della
lirica greca, sono caratterizzate “da un tono sprezzante persino verso gli eroi del mito”.
Tuttavia, non si sa con certezza quale fosse esattamente il modello di Lucilio. La risposta di
alcuni studiosi è Aristofane, che con la sua commedia antica del V secolo a.C., fonde alla
perfezione commedia e satira politica, attraverso toni invettivi unici. Altri studiosi, però, si
allontanano ancor di più nel tempo, fino al VII secolo a.C., secolo in cui visse Archiloco di
Paro.
Archiloco di Paro era un poeta-soldato, molto probabilmente mercenario, nato, secondo il
mito, da un aristocratico, Telesicle, e da una schiava, Enipò. Egli “fu un grande
sperimentatore: dagli spunti sarcastici (fr. 115 W.2) alle violente invettive (“Hippon.” fr. 115
W.2), dalle riflessioni sapienziali (frr.13,122 W.2) al crudo erotismo (frr. 42,43, 119 W.2),
dalle allocuzioni (fr. 109 W.2) all’introspezione (fr. 128 W.2), dalle vinose ispirazioni (fr. 120
W.2) alla passione d’amore (fr. 118 W.2), dall’imitatio di Omero (cui è associato nelle antiche
erme bifronti) al più volgare realismo.” (Camillo Neri, Breve storia della lirica greca, pagina
103).
Tuttavia, ciò che più di ogni altra cosa distingue Archiloco da altri autori è sicuramente il
suo anticonformismo: la profondità del suo pensiero introspettivo e, allo stesso tempo, la
noncuranza per le tradizioni e le norme da seguire nella sua società della vergogna, sono
entrambe peculiarità che, in fondo, si ritrovano nelle sue leggendarie origini: Archiloco era un
ibrido, per metà nobile, poeta, dai pensieri alti e raffinati, e per l’altra nato da una schiava,
soldato, polemico nel linguaggio basso e volgare.
Il suo ideale di eroismo si distacca completamente da quello dei suoi contemporanei. Ciò
che veramente offre la gloria è una visione profonda esistenziale e non la vittoria o la morte in
battaglia:
“Ἄσπίδι μὲν Σαΐων τις ἀγάλλεται, ἣν παρὰ θάμνῳ,
ἔντος ἀμώμητον,‖ κάλλιπον οὐκ ἐθέλων·
αὐτὸν δ' ἐξεσάωσα. τί μοι μέλει ἀσπὶς ἐκείνη;
ἐρρέτω· ἐξαῦτις ‖ κτήσομαι οὐ κακίω.”
“Qualcuno dei Sai si vanta dello scudo che presso un cespuglio,
arma impeccabile, ho abbandonato non volendo;
ma ho salvato me stesso. Che mi importa quello scudo?
Vada in malora! Di nuovo ne avrò uno non peggiore.”
(Archiloco, fr. 115 W.2)
Il poeta-soldato, poi, si dimostra un elevato pensatore, quel che oggigiorno si potrebbe
chiamare un positivista, un ottimista che, con la sua pragmatismo, affronta vittoriosamente gli
scogli, le avversità della vita senza perdersi in rimpianti o ripensamenti, disperazione o
abbattimento:
“Θυμέ, θύμ', ἀμηχάνοισι κήδεσιν κυκώμενε,
ἀνάδευ δυσμενῶν δ' ἀλέξευ προσβαλὼν ἐναντίον
στέρνον ἐνδοκοισιν ἐχθρῶν πλησίον κατασταθεὶς
ἀσφαλέως· καὶ μήτε νικέων ἀμφάδην ἀγάλλεο,
μήτε νικηθεὶς ἐν οἴκῳ καππεσὼν ὀδύρεο,
ἀλλὰ χαρτοῖσίν τε χαῖρε καὶ κακοῖσιν ἀσχάλα
μὴ λίην, γίνωσκε δ' οἷος ῥυσμὸς ἀνθρώπους ἔχει.”
“Cuore, cuore, agitato da mali inesorabili,
riemergi e dagli avversari difenditi opponendo contro
il petto, nelle insidie dei nemici arrestandoti vicino
senza paura; e non vantarti apertamente quando vinci,
non lamentarti abbattendoti in casa quando sei stato vinto,
ma delle gioie godi e dei mali affliggiti
non troppo, e sappi quale ritmo domina gli uomini.”
(Archiloco, fr. 128 W.2)
Allo stesso modo, le invettive del poeta-soldato greco, piene di riferimenti realistici,
crudi, osceni, rispecchiano la sua concezione di vita secondo cui:
“Ἕν δ᾽ ἐπίσταμαι μέγα,
τὸν κακῶς <μ᾽ ἔ>ρδοντα δεινοῖσ᾽ ἀνταμείβεσθαι κακοῖς.”
“Una sola cosa so, importante: ricambiare con mali terribili chi mi fa del male.”
(Archiloco, fr. 126 W.)
Altrettanto anticonformisti risultano essere pure i versi erotici archilochei, che arrivano
addirittura a destare scalpore a causa della loro esplicitazione immorale.
Archiloco sarebbe stato uno dei tanti modelli dei poetae novi, i neoteroi.
Con l’arrivo del I secolo a.C., anche a Roma cominciò a diffondersi la poesia lirica, su
modello greco. Per la prima volta si trattava di una lirica individuale, che poneva al centro
l’‘io’ anziché il ‘noi’. Non aveva più alcuna importanza esaltare la virtus o il glorioso destino
romano, perché i tempi erano cambiati, e lo stesso valeva anche per le mentalità. Il cittadino
romano esigeva ormai il riconoscimento della sua sfera privata, rompendo il legame
precedente che si era istaurato fra individualità e vita politica, cioè i negotia. Man mano che
l’età della tarda repubblica si avvicinava verso la sua fine, crebbe il prestigio dell’otium fino a
essere portato sullo stesso livello del negotium. La nuova società, quindi, si rispecchiò
totalmente nei ‘poeti più giovani, moderni’, traduzione dell’appellativo poetae novi, o, usando
un grecismo, νεώτεροι, che Cicerone avrebbe utilizzato per definirli per la prima volta,
condendo il soprannome di un pizzico di sarcasmo senile verso la nuova e giovane
generazione di poeti; ma il famoso oratore romano non si sarebbe limitato a un solo epiteto:
avrebbe utilizzato per le nuove comparse anche espressioni come cantores Euphorionis,
‘imitatori di Euforione’.
Epigrammi, epicedi, carmina, poemi e poemetti, opere filologiche, epilli… l’attenzione
dei neoteroi, che, come aveva fatto un secolo prima Lucilio, avevano scelto di spontanea
volontà una carriera letteraria, si era spostata ormai su una vasta gamma di generi e i temi
erano in primis focalizzati sull’amore, sui propri interessi, e non tanto sulle lotte politiche. La
poesia rappresentava un lusus (ovvero un ‘gioco’, uno ‘scherzo’), un momento di
condivisione con i propri sodales, i compagni che nel mondo greco si sarebbero chiamati
ἑταῖροι, da cui si era legati da vincoli di amicizia e rispetto reciproco.
I poetae novi si rifacevano parecchio a modelli greci come Callimaco di Cirene (del III
secolo a.C.), il quale fornì i parametri cardine alessandrini da seguire nel componimento di
un’opera: la brevitas, ovvero la concisione, l’essenzialità; la doctrina, ossia l’erudizione; il
labor limae, lavoro raffinato, perfetto, privo di parti ridondanti e oggetto alla limatura, proprio
come accade per le statue. Fu merito di Partenio di Nicea, un letterato greco ammiratore di
Callimaco e preso prigioniero dai Romani nel 73 a.C., se i canoni callimachei giunsero nella
capitale latina. Il primo autore di poesia lirica a noi noto fu Lutazio Càtulo, il cui circolo
ricordava quello scipionico, non solo per le modalità ma anche per le visioni protese verso il
concetto di humanitas. Importanti furono anche Furio Bibaculo (il più anziano dei poetae
novi, autore di un poema epico-storico intitolato Annales o Pragmatia belli Gallici e di
qualche epigramma), Varrone Atacino (autore del poema epico-storico Bellum Sequanicum e
di due poemetti didascalici, uno geografico, il Chorographia, e uno astronomico, forse
intitolato Ephemeris), Valerio Catone (esperto filologo, autore di alcuni epilli e, si suppone,
una raccolta di poesie), Elvio Cinna (autore di un poemetto geografico, di versi d’amore e
dell’epillio Zmyrna) e Licinio Calvo (autore di epigrammi satirici, epitalami, componimenti
amorosi e un epicedio).
Ma forse il massimo esponente della corrente dei poetae novi fu proprio l’amico migliore
di Licinio Calvo, Catullo.
Catullo, proprio come Archiloco, era un personaggio anticonformista per la sua epoca.
All’interno dei suoi versi, disseminati di momenti introspettivo-emotivi, ci sono sempre
riferimenti, anche se a volte indiretti, ai suoi sodales. Tuttavia, le sue poesie sono
principalmente il frutto di una competizione, una sfida con se stesso che Catullo accetta senza
titubanze. La sua bravura nell’esprimere i suoi sentimenti raggiunse livelli talmente alti, da
spingere a cercare ispirazione presso il poeta latino molti autori posteri, tra cui Ugo Foscolo
(1778-1827); quest’ultimo, per scrivere il suo sonetto In morte del fratello Giovanni, farà
riferimento al carmen CI di Catullo:
“Multas per gentes et multa per aequora
vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem,
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit
ipsum,
heu miser indigne frater adempte mihi.
Nunc tamen interea haec prisco quae more
parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frate, ave atque vale.”
(Catullo, Liber, CI)
“Trasportato attraverso molti genti e molti
mari sono giunto, o fratello, a [recarti] queste
tristi offerte funebri, per tributarti l’estremo
omaggio di morte e parlare invano alla muta
cenere dal momento che la sorte mi ha portato
via te, proprio te, ahimè, infelice fratello,
ingiustamente strappatomi. Ora intanto
comunque accogli queste [offerte] grondanti di
pianto fraterno, che io, secondo l’antico
costume degli avi, ho portato quale triste dono
per le esequie, e per sempre, fratello, addio!”
«Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, mi vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentili anni caduto:
la madre or sol, suo dì tardo traendo,
parla di me col tuo cenere muto:
ma io deluse a voi le palme tendo;
e se da lunge i miei tetti saluto,
sento gli avversi Numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta;
e prego anch'io nel tuo porto quiete:
questo di tanta speme oggi mi resta!
straniere genti, l'ossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.»
(Ugo Foscolo, In morte del fratello Giovanni)
Nel suo Liber, Catullo riunì molte tematiche; e, pur sfruttando gli attacchi ad personam
contro gli amici che lo avevano tradito, seguendo l’esempio di Alceo, e pur scrivendo
invettive tipiche di Archiloco, con cui attaccava i personaggi politici di rilievo a Roma e in
generale la società romana che si era degradata a tal punto da abbandonarsi alla corruzione,
all’immoralità, ai favoritismi e alla volgarità, il poeta dimostra una vera e propria propensione
verso la tematica dell’amore, dell’eros, intorno al quale ruota tutto il resto. Catullo, infatti,
impiegherà molte delle sue energie nella relazione con una donna, vedova di Metello, che
nelle sue opere denominò Lesbia (probabilmente un’allusione alla poetessa Saffo, vissuta nel
VII secolo a.C. sull’isola di Lesbo) e il cui vero nome era, secondo Cicerone (nel Pro
Caelio), Clodia, una donna dai costumi scandalosi. Il suo rapporto, però, si opponeva
palesemente contro i costumi e le leggi del tempo: avere un legame amoroso con una donna
sposata, una matrona nupta, equivaleva all’adulterio, adulterium, mentre, se la donna era
vedova, vidua, come nel caso di Lesbia alias Clodia, la relazione veniva comunque
considerata illecita e disonorevole e veniva chiamata col termine stuprum.
In ogni caso, per Catullo, l’amore era basato non su leggi, ma esclusivamente su un patto
sacro, il foedus, che garantiva la fides e la pietas; ed è proprio questa mentalità che dimostra
che Catullo, nel suo anticonformismo, manteneva pur sempre la sua educazione pragmatica e
conservatrice romana, spostando semplicemente i valori del mos maiorum dalla sfera
pubblica, etica e religiosa a quella privata.
L’amore catulliano, poi, era anche oggetto di gelosia, proprio come l’amicizia. E, visto
l’incostante rapporto di Catullo con la sua amata che traspare dai suoi carmina, Catullo riveste
spesso il ruolo di amante deluso, in preda a rimpianti e nostalgie, disperazione e sdegno, che
sovente lo portò a scrivere dure invettive contro Lesbia (così come farà anche contro le
infrazioni dei suoi amici), ritrovandosi, in qualche circostanza, a chiedere l’aiuto degli Dei per
riuscire a dimenticare il suo amore simile a un’orribile malattia, taeter morbus. Saranno tante
le volte in cui Catullo dirà nei suoi versi addio a Lesbia:
“Miser Catulle, desinas ineptire,
et quod vides perisse perditum ducas.
Fulsere quondam candidi tibi soles,
cum ventitabas quo puella ducebat
amata nobis quantum amabitur nulla.
Ibi illa multa tum iocosa fiebant,
quae tu volebas nec puella nolebat.
Fulsere vere candidi tibi soles.
Nunc iam illa non volt: tu quoque, impotens, noli,
nec quae fugit sectare, nec miser vive,
sed obstinata mente perfer, obdura.
Vale, puella. Iam Catullus obdurat.
nec te requiret nec rogabit invitam.
At tu dolebis, cum rogaberis nulla.
Scelesta, vae te! Quae tibi manet vita?
Quis nunc te adibit? Cui videberis bella ?
Quem nunc amabis? Cuius esse diceris?
Quem basiabis? Cui labella mordebis?
At tu, Catulle, desinatus obdura.”
“Infelice Catullo, smetti di vaneggiare, e quel che vedi perduto, stimalo perduto. Splendettero un
tempo per te radiosi giorni, quando accorrevi là dove la tua donna ti conduceva, amata da noi [plurali
maiestatis = me]e quanto nessun’altra mai sarà stata. Là, allora, avvenivano quei tanti giochi
amorosi, che tu volevi e che la tua donna non rifiutava. Davvero splendettero un tempo per te radiosi
giorni. Ora lei non vuole più: anche tu, [per quanto] incapace di dominarti, cessa di volere, e non
inseguire [lei] che fugge, e non essere infelice, ma con animo irremovibile sopporta, resisti. Addio,
mia cara. Ormai Catullo è deciso, e non tornerà a cercarti né chiederà amore, se tu non vuoi. Ma tu
soffrirai, quando non sarai più desiderata. Scellerata, guai a te! Che vita ti resta? Chi ora verrà con
te? A chi sembrerai bella? Chi amerai tu ora? Di chi si dirà che tu sei? Chi bacerai? A chi morderai
le labbra? Ma tu, Catullo, ostinato, resisti.”
(Catullo, Liber, VIII)
Nel carmen LXVIII, Catullo scelse di impiegare un inserto mitologico, un exemplum,
con cui allude alla sua biografia, al suo rapporto infelice: il poeta pose in antitesi il mito di
Peleo e Teti, che descrive un amore legittimo e felice, con quello di Arianna e Teseo, in cui
Teseo (similmente a Lesbia) tradisce Arianna (equivalente al ruolo di Catullo), lasciandola
tormentata dalle pene d’amore.
Catullo si avvale frequentemente della tecnica della imitatio unita a quella della
aemulatio, inserendo all’interno delle sue opere evidenti allusioni ai modelli greci, che cerca
di omaggiare, secondo lo stile dell’‘arte allusiva’: egli non teme, infatti, i riferimenti diretti ai
suoi preferiti greci, cioè Alceo, Archiloco, Ipponatte (da cui eredita l’invettiva e l’eros
violento) e, specialmente, Saffo.
È Saffo la sua maggiore fonte di ispirazione sia per il metro che per le tematiche (ad
esempio quella dei sintomi dell’innamoramento).
Saffo, vissuta nel VII secolo a.C., era stata la prima poetessa europea. “Segnata da
rapporti con la Lidia […], tale attività fruttò a Saffo fama e ricchezza e caratterizzò la sua poesia:
dalla prece ad Afrodite (fr.16 V.) al carme per Anattoria (fr. 16 V.), dall’ode sui sintomi della
sofferenza amorosa (fr. 31 V. imitatissima e tradotta da Catullo) ai poèmes d’adieu per le compagne
(fr.94 V.),dal malinconico elogio di Attide (fr. 96 V.) sino agli epitalami, dove è palese il riuso – tra
fioriti omerismi – di elementi popolari /fr. 44 V.).” (Camillo Neri, Breve storia della lirica greca,
pagina 89)
I suoi carmina ruotano intorno al tiaso, una tipo di collegio greco con funzione educativoreligiosa dell’epoca, dedicato alla dea Afrodite e in cui le giovani e abbienti fanciulle
venivano mandate dalle loro famiglie prima del matrimonio per essere educate alla vita
matrimoniale. I temi dei suoi versi, quindi, erano quelli di un’‘io’ condiviso da tutti i membri
del tiaso e, sostanzialmente, quello dell’amore, un amore spesso malinconico,
presumibilmente omosessuale, visto da una dimensione sacra e destinato a una fine certa, una
volta concluso l’apprendimento all’interno del tiaso.
“Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνείσας ὐπακούει
καὶ γελαίσας ἰμέροεν, τό μ᾽ ἦ μὰν
καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόαισεν,
ὠς γὰρ ἔς σ᾽ ἴδω βρόχε᾽ ὤς με φώνησ᾽ οὐδ᾽ ἒν ἔτ᾽ εἴκει,
ἀλλὰ κὰδ μὲν γλῶσσα ἔαγε, λέπτον
δ᾽ αὔτικα χρῷ πῦρ ὐπαδεδρόμακεν,
ὀππάτεσσι δ᾽ οὐδὲν ὄρημμ᾽, ἐπιβρόμεισι δ᾽ ἄκουαι,
ψῦχρα δ᾽ ἴδρως κακχέεται, τρόμος δὲ
παῖσαν ἄγρει, χλωροτέρα δὲ ποίας
ἔμμι, τεθνάκην δ᾽ ὀλίγω ’πιδεύης
φαίνομ’ ἔμ᾽ αὔτᾳ·
ἀλλὰ πὰν τόλματον, ἐπεί κ[†]”
“A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.”
(Saffo, fr. 31 V.; traduzione: Salvatore Quasimodo)
Il linguaggio e le immagini proposte da Saffo furono di enorme successo lungo i secoli: la
poetessa greca venne imitata da molti autori tra cui, oltre a Catullo, anche Ovidio.
L’età della tarda repubblica vede concludersi il processo di contaminazione che la
cultura greca apportò alla letteratura romana per ben otto secoli. Questo periodo, denominato
anche ‘età di Cesare’ o ‘età di Cicerone’ pone un brusco punto fermo al rapporto intellettuale
unidirezionale. Nella ruota, che continua a girare senza sosta, ininterrotta, si rimescolano le
carte: l’allievo supera il maestro, il quale, adesso, lo guarda compiaciuto.
Il dramma latino aveva superato i suoi anni più fiorenti; l’epos si era radicato nella
cultura celebrativa; la satira non smetteva di intromettersi con prepotenza, colpendo nelle più
svariate occasioni i rivali politici; la poesia lirica aveva fatto con successo la sua comparsa,
prendendo il suo posto riservato nella letteratura latina; la storiografia, aveva già avuto il suo
avvio con gli Annales dei vari autori precedenti e nel I secolo a.C. ricevette una spinta
notevole con autori come Cesare e Sallustio; l’oratoria aveva già conosciuto Cicerone, il quale
sarebbe diventato un avvocato che non avrebbe conosciuto pari.
I cittadini romani necessitavano di ordine e tranquillità, che nell’ultimo secolo della res
publica erano stati loro negati. La società, sempre più ricca, si era rifugiata nella corruzione,
nell’avidità e nella ricerca del lusso.
“Haec iuventutem, ubi familiares opes defecerant, ad facinora incendebant: animus inbutus
malis artibus haud facile lubidinibus carebat; eo profusius omnibus modis quaestui atque sumptui
deditus erat.”
“Impoverivano tali vizi la gioventù, e quindi ai delitti la spingevano. Male avvezzi quei guasti
animi, non potevano i loro desideri frenare oramai: onde vieppiù smoderati si davano ad ogni
guadagno e allo spendere.”
(Sallustio, De coniuratione Catilinae, XIII, traduzione tratta dal libro Civiltà del passato II di
Armando Saitta)
Il periodo finale della res publica era un momento di crisi; le guerre erano state numerose
e i cittadini romani erano stanchi; le congiure erano all’ordine del giorno, trovando il loro
esponente maggiore in Catilina, acerrimo nemico di Cicerone.
“I due si affrontarono in una campagna elettorale senza precedenti: mentre Catilina cercava di
guadagnarsi con fine demagogia l’appoggio di plebe e schiavi, forse davvero meditando un colpo di
Stato, Cicerone dipingeva l’avversario come depravato, incestuoso e assassino.” (Alberto Angela,
Roma, la repubblica delle acque, pagina 140)
A Catilina, poi, seguiva una congiura ancor peggiore, quella che avrebbe velato uno
spargimento di sangue con l’illusione di una ripresa dello stato romano: la congiura del 15
marzo 44 a.C., giorno delle Idi di Marzo e dell’assassinio di Cesare.
“Il fatto che colpisce di più è che in pochi istanti non è stata assassinata una sola persona ma
tante… In effetti, gran parte dei principali congiurati morirà di morte violenta nel giro di pochi mesi o
pochi anni. Senza contare le migliaia di persone che perderanno la vita nelle battaglie terrestri o navali,
o a causa delle liste di proscrizione.” (Alberto Angela, Cleopatra, la regina che sfidò Roma e
conquistò l’eternità, pagina 103).
Ormai la res publica era finita, e con essa il periodo di apprendimento per la città di
Roma; la Grecia aveva svolto il suo ruolo nel migliore dei modi possibili, aiutando Roma ad
alzarsi sulle proprie gambe. L’età imperiale stava cominciando.
Isabella Tokos, 3A
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