Rivoluzione americana Colonie americane e rapporti con la madrepatria Inizialmente il territorio nordamericano era abitato da nativi, i primi europei ad esplorarlo furono i francesi (Canada fino al golfo del Messico), seguiti dagli spagnoli (sud e ovest) e dagli olandesi (Nuova Amsterdam). La colonizzazione inglese fu la più stabile e significativa. Non era origine di un piano prestabilito dalla Corona, ma fu frutto di iniziative private di compagnie commerciali o da gruppi di cittadini (profughi o esuli inglesi specialmente cristiani). Si attuò per mezzo secolo a partire dal 1607 quando venne fondata la Virginia. Le 13 colonie si differenziano tre gruppi principali: - del Nord, nascono dall’insediamento di puritani (protestanti calvinisti) in fuga dalle persecuzioni religiose, relativa urbanizzazione ed economia fondata sulla piccola/media proprietà agricola, pesca, industria navale e commercio sulle coste, ascesa sociale per tutti perché non c’era un’aristocrazia. - del Centro, caratterizzate da una grande urbanizzazione, una marcata eterogeneità religiosa e linguistica, economia paragonabile a quelle del nord ma prevalgono le attività commerciali e si coltivavano diverse varietà di prodotti agricoli grazie al clima favorevole - del Sud, caratterizzate da scarsa urbanizzazione, economia agricola fondata sul latifondo che comportava un grande uso di schiavi, prevalentemente anglicani e cattolici Conobbero nella prima metà del 700 un incremento demografico e crebbe anche l’economia anche perché legata a quella britannica. Le colonie partecipavano ai traffici atlantici fornendo al mercato europeo prodotti come riso, grano, tabacco, pelli etc. La loro libertà economica era però vincolata a vantaggio della madrepatria. Ciò era sancito dagli Atti di navigazione secondo i quali Londra aveva il monopolio sui commerci da e per i territori oltremare. Tutte le produzioni industriali americane erano vincolate per non fare concorrenza all’Inghilterra, spesso tutto ciò veniva aggirato attraverso il contrabbando con le colonie francesi e spagnole. Inizialmente i rapporti colonie-madrepatria erano tranquilli perché le prime erano rette da governatori di nomina regia che sceglievano un consiglio di notabili locali che li assisteva nell’esercizio del potere esecutivo. Quello legislativo spettava alle assemblee elette dai coloni. Soprattutto nelle colonie del nord la partecipazione popolare alla vita politica era diffusa. Col tempo le assemblee divennero sempre più influenti e i governatori avevano sempre meno potere. La relativa autonomia politica dei colonie era ritenuta conveniente perché gli permetteva comunque di avere la protezione militare, contro francesi e spagnoli, della madrepatria. Gli equilibri si incrinano dopo la guerra dei sette anni. I coloni avevano combattuto attivamente al fianco della madrepatria ed erano stati decisivi per la vittoria. L’Inghilterra assunse però una politica imperiale più marcata con un controllo stringente sui possedimenti. Impose alle colonie di ospitare la propria presenza militare. La guerra aveva inoltre impoverito lo Stato e ci avevano guadagnato solo le colonie che stavano acquisendo potere economico. Per questo motivo il primo ministro Giorgio III impose le spese dell’esercito ai coloni. La Corona intendeva poi impedire l’espansione delle colonie nei territori privati ai francesi e Giorgio emanò un provvedimento che lo vietava. Ciò venne criticato dai coloni che la consideravano una lesione della loro libertà. Imposero anche provvedimenti fiscali che miravano sempre a risanare le finanze statali. Nel 1764 venne emanato un provvedimento noto come Sugar act che prevede maggiori controlli sul contrabbando e l’aumento dei dazi sui prodotti di importazione tra cui lo zucchero. Nel 1765 venne introdotto lo Stamp Act che rende obbligatorie le marche da bollo inglesi su ogni documento e inaugura la tassazione diretta delle colonie. Ci fu una rivolta fiscale che assunse presto un carattere politico. I coloni gridavano “no taxation without representation”, frase che sta ad indicare il loro volere di essere rappresentati nel parlamento inglese siccome nessun cittadino poteva essere obbligato a pagare delle tasse non approvate da propri rappresentanti in parlamento, volevano quindi essere considerati cittadini britannici con stessi diritti politici e privilegi. Organizzarono manifestazioni pubbliche e operazioni di boicottaggio delle merci dalla madrepatria. Ottennero l’abolizione dello stamp act ma non della tassazione. Con una nuova tassa sull’importazione del tè riemersero gli attriti. Nel 1773 Londra assegnò alla Compagnia delle Indie il monopolio sulla vendita del tè nelle colonie, il Tea Act. Così nel dicembre dello stesso anno i coloni presero d’assalto le navi inglesi della Compagnia nel porto di Boston rovesciando in mare il tè, questo episodio viene chiamato Boston Tea Party. Londra reagì duramente, chiudendo il porto e controllando militarmente la città e abolendo l’assemblea locale. Poco dopo venne votata una legge che assegnava al Canada i controlli sui territori tanto ambiti dai coloni che si indignarono pesantemente. Le colonie superarono le rivalità per adottare una politica comune. Nel 1774 si aprì a Philadelphia il primo Congresso continentale, un’assemblea dei rappresentanti delle colonie che si accordarono per portare avanti il boicottaggio e la difensione delle autonomie. Credevano che si potesse ancora far revocare al Parlamento i provvedimenti emessi per via legislativa. Rendersi indipendenti dalla madrepatria diventò un’opzione solo quando essa intensificò la repressione, fu un’opzione favorita anche dalla dinamicità della società coloniale nella quale non esisteva una nobiltà ereditaria ma per la maggiorparte un ceto medio intraprendente. Nel 1775 nacquero i primi Comitati patriottici, milizie autonome di volontari che cominciarono ad addestrarsi in previsione di un confronto diretto con le truppe britanniche. Anche il conflitto tra i coloni si intensificò fino ad arrivare sull’orlo di una guerra civile. Nello stesso anno si ebbe il primo scontro Colonie-Inghilterra nel quale quest’ultima venne sconfitta a Lexington. Si riunì poi il secondo Congresso continentale che stabilì nuovi compiti di governo: battere moneta propria, gestire autonomamente il commercio, creare un esercito comune che venne poi affidato a George Washington. Egli intuì che solo con una guerra di popolo avrebbero potuto affermare i propri diritti sulla madrepatria. I sentimenti patriottici furono alimentati dal Common Sense, un pamphlet pubblicato da Thomas Paine. Nel 76 riuscirono a scacciare le truppe inglesi da Boston. La guerra d’indipendenza americana Nello stesso anno una commissione di cinque delegati tra cui Benjamin Franklin, Thomas Jefferson e John Adams cominciò a preparare un documento ufficiale che ufficializzasse il distacco delle colonie dalla madrepatria. Il 4 luglio 1776 i membri del Congresso proclamarono la Dichiarazione di indipendenza. In essa si afferma che ogni legame tra le colonie e la madrepatria era sciolto, rivolgeva anche alla Corona numerose accuse. E’ un documento che si riallaccia chiaramente ai principi-chiave del pensiero illuminista di uguaglianza e inalienabilità dei diritti (tra cui ribellarsi alla madrepatria). Sin dall'inizio l’esercito di Washington dovette fare i conti con l’inesperienza e l’inferiorità numerica rispetto agli inglesi. Questi ultimi riuscirono ad occupare New York e Philadelphia. Le truppe ribelli riuscirono però a riottenerla nella battaglia di Saratoga. Avevano però difficoltà nel procurarsi armi, cibo e munizioni. Erano poi occupati anche nello scontro contro le tribù indiane schieratesi con la Corona. C’erano alcuni fattori esterni che giovavano ai coloni. L’appoggio dell’opinione pubblica europea (soprattutto degli illuministi) e il sostegno del re di Francia ottenuto grazie all’abilità di Franklin. Per Luigi XVI appoggiare le colonie significava riaprire il conflitto con l’Inghilterra sul dominio del Nord America. La vittoria a Saratoga lo convinse a riconoscere l’indipendenza dei nuovi stati e ad assisterli militarmente e finanziariamente. Ai francesi si unirono spagnoli e olandesi che vendevano l’opportunità di mettere in discussione il primato navale e mercantile dell’Inghilterra. L’esercito britannico cominciò presto a perdere terreno. Nel 1781 gli americani assediarono Yorktown, città sulla costa della Virginia, dove si erano concentrate le truppe della Corona. Dopo qualche mese i britannici furono costretti alla resa, la caduta di Yorktown convinse il Parlamento ad avviare i negoziati di pace. Nel 1783 venne firmato il trattato di Versailles con il quale l’Inghilterra riconosceva l’indipendenza delle ex colonie e dovette restituire alcuni territori a Spagna e Francia. La nascita degli Stati Uniti d’America Le ex colonie dovevano stabilire i nuovi lineamenti istituzionali. La situazione era complicata perché ciascuna colonia era diventata uno stato con organi di governo, magistrature e costituzione proprie. Molti americani concordavano nel ritenere che fosse indispensabile un’unione tra gli Stati altrimenti la frammentazione avrebbe messo a repentaglio l’indipendenza. Già nel 1777 il Congresso aveva presentato gli Articoli di confederazione, una costituzione provvisoria che prevedeva un tenure vincolo federale fra gli Stati Uniti d’America. Alcuni stati non volevano però essere limitati e ci vollero quattro anni perché fossero approvati. Presto affiorano i limiti dell’ordinamento: le ex colonie competevano nei commerci, sui confini e per la spartizione dei nuovi territori dell’Ovest, le finanze era ìno dissestate per la guerra e l’interruzione dei traffici con l’Inghilterra, la crisi aumenta le tensioni sociali e il Congresso si dimostrò troppo debole a contenere il tutto. Si cominciò a sostenere la necessità di una revisione costituzionale. Nel 1787 Washington convocò a Philadelphia una Convenzione che aveva lo scopo di modificare gli Articoli e dare un assetto definitivo all’alleanza tra gli Stati. C’erano due ipotesi su quest’ultimo: - soluzione federalista, era necessario creare un forte governo nazionale. La federazione è uno Stato vero e proprio nato dall’unione di più Stati membri che esercitano il potere politico solo parzialmente, localmente. Essi rinunciano ad una parte di sovranità cedendola ad un governo federale comune e superiore. (The federalist, raccolta di articoli che mirava a convincere il pubblicò della bontà della federazione). - soluzione antifederalista, vedeva una limitazione dell’indipendenza delle singole ex colonie in una forte autorità centrale. Prevalse la soluzione federalista. La confederazione (organismo sovrastatale all’interno del quale i singoli stati mantengono la propria indipendenza e sovranità, si presentano come un unico soggetto solo nelle questioni internazionali) si trasformò in un’unione federale(bilanciamento tra i poteri dell’autorità e dei singoli stati). I delegati che parteciparono alla Convenzione idearono un’architettura costituzionale innovativa che è rimasta invariata fino ai nostri giorni. Gli Stati Uniti divennero una repubblica presidenziale federale. I membri della Convenzione applicarono anche un bilanciamento dei poteri. Assegnarono il legislativo federale al Congresso suddiviso in due camere, Senato e Camera dei rappresentanti. Al Senato ci sarebbero stati due rappresentanti per ogni stato e si sarebbe occupato di politica estera. Alla Camera dei rappresentanti i seggi sarebbero stati dati in proporzione agli abitanti dello Stato e si sarebbe occupata di questioni finanziarie. La divisione delle competenze tra governo federale e governo di ogni stato era definita nella Costituzione. Il potere esecutivo venne affidato ad un presidente eletto ogni 4 anni con un voto indiretto. Egli aveva ampi poteri: guidava politica estera, capo dell’esercito, nomina giudici della Corte suprema e titolari di molti uffici, poteva porre il veto sulle leggi approvate dal Congresso. Esso però poteva accusare il presidente e destituirlo (impeachment) se si fosse macchiato di gravi reati. In merito al potere giudiziario si stabilì che i tribunali di ogni stato sarebbero stati subordinati ad una Corte suprema federale che poteva anche sospendere le leggi del congresso e i provvedimenti del governo ritenuti incostituzionali. La nuova repubblica era fondata sulla sovranità popolare, il che è una novità. I singoli stati continuarono comunque a stabilire i votanti o gli eletti alle cariche pubbliche, vennero ammessi solo i maschi maggiorenni, bianchi, con proprietà o ricchezze. E’ un sistema elettorale censitario che esclude poveri, nativi, neri e donne. Sulla schiavitù ci furono dei compromessi. Franklin voleva abolirla come altri capi della rivoluzione ma non ebbero successo. Negli stati del Sud non venne vietata l’importazione di schiavi per almeno altri 20 anni, nel Nord venne gradualmente abolita. Questi compromessi di suffragio e schiavitù smentivano il principio di uguaglianza scritto nella Dichiarazione. Le prime elezioni si svolsero nel 1789 e portarono Washington alla presidenza. L’anno dopo il Congresso approvò la costruzione di una nuova capitale federale in un territorio (D.C.) separato da tutti gli altri stati. La città venne chiamata Washington. Nel 1791 si affiancano alla Costituzione i dieci emendamenti (Bill of Rights) che enunciano i diritti e le libertà individuali dei cittadini (libertà di parola, di stampa, riunione, religione e quindi separazione tra Stato e Chiesa). Le polemiche degli antifederalisti non si spensero, grossa opposizione verso la politica fiscale di Washington e del suo ministro del tesoro Alexander Hamilton. Egli cominciò a risanare le finanze introducendo nuove imposte federali, una Banca centrale e degli alti dazi sulle merci importate. Ciò andava a vantaggio dei ceti mercantili del nord e del centro sfavorendo gli agricoltori o proprietari terrieri del sud. Emersero nuovi contrasti tra i cittadini. Nel 1787 l'Ordinanza del Nord-Ovest stabilì che le nuove regioni conquistate sarebbero state inizialmente considerate come territori e controllate dal Congresso, dopo un raggiungimento di un certo numero di abitanti avrebbero potuto unirsi agli Stati dell’Unione.