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Il Mulino - Rivisteweb
Giacomo Pettenati
I nuovi montanari
(doi: 10.1402/99425)
il Mulino (ISSN 0027-3120)
Fascicolo 6, novembre-dicembre 2020
Ente di afferenza:
Università degli Studi di Camerino (Unicam)
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Giacomo Pettenati
I nuovi montanari
Ormai da quasi vent’anni, il tema dei nuovi abitanti è ricorrente nel
dibattito sulle montagne italiane. Già quasi vent’anni fa, il giornalista
e scrittore torinese Enrico Camanni si chiedeva, nel suo importante
saggio La nuova vita delle Alpi (Bollati Boringhieri, 2002), se fosse più
opportuno definire i «montanari» non per nascita, ma per «vocazione»,
affiancando allo ius soli dei «nativi che non hanno scelto di venire al
mondo nel chiuso di una valle» una sorta di ius electionis, legato alla
scelta di abitare consapevolmente in un territorio di montagna.
Da allora numerose ricerche sono state dedicate a indagare il fenomeno del nuovo popolamento montano, nelle sue diverse dimensioni:
demografica, sociale, culturale, economica, politica e abitativa. Tra le
più significative, per approfondimento e per impatto sul dibattito, vi
sono quelle dell’associazione Dislivelli di Torino, che a partire dal 2010
ha esplorato le caratteristiche dei «montanari per scelta» di diversi territori dell’arco alpino, soprattutto occidentale, e il loro impatto sulle
economie e sulle società locali (G. Dematteis, Montanari per scelta.
Indizi di rinascita nella montagna piemontese, Franco Angeli, 2011;
Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, a cura di F. Corrado,
G. Dematteis e A. Di Gioia, Franco Angeli, 2014; M. Dematteis, A. Di
Gioia e A. Membretti, Montanari per forza. Rifugiati e richiedenti asilo
nella montagna italiana, Franco Angeli, 2018).
Parallelamente, anche le rappresentazioni della montagna nel dibattito pubblico si sono arricchite di una narrazione relativa ai nuovi
montanari, spesso raccontati come soggetti desiderosi di sperimentare
nelle terre alte stili di vita alternativi, lontani dall’alienazione urbana,
come nel caso del protagonista del film Il vento fa il suo giro di Giorgio
Diritti (2005) o del personaggio alter ego dello scrittore Paolo Cognetti
nel romanzo Le otto montagne, vincitore del Premio Strega nel 2017.
In realtà, l’universo dei «nuovi montanari» è molto eterogeneo, di
difficile classificazione, e racchiude traiettorie di vita, progetti economici e immaginari della montagna molto vari, da quelli dei giovani neorurali in cerca di lavori e contesti di vita in armonia con l’ambiente, a
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quelli dei nomadi digitali che cercano luoghi ameni per svolgere i
propri lavori telematici, passando per le giovani famiglie in fuga dalla
città, i pensionati, gli innovatori sociali (così come sono definiti in F.
Barbera e T. Parisi, Innovatori sociali. La sindrome di Prometeo nell’Italia che cambia, Il Mulino, 2019), fino ai lavoratori annuali e stagionali delle filiere economiche di montagna, in particolare turistiche e agricole/zootecniche, spesso di origine straniera.
La forte variabilità del fenomeno è ovviamente anche geografica. I
dati demografici relativi al periodo intercensuario tra il 2001 e il 2011
(ma il trend rimane analogo nei dati più recenti) raccontano di una
crescita di popolazione in circa metà dei comuni montani italiani, con
un dato di poco inferiore a quello della media nazionale (Rapporto
montagne Italia 2015). Un’analisi appena più approfondita rivela però
una forte differenziazione geografica, con la crescita di popolazione
Il fenomeno del nuovo
di alcuni territori montani (province
popolamento montano
di Trento e Bolzano, Valle d’Aosta
assieme alle vallate più prossime
è molto eterogeneo: racchiude
alle aree metropolitane del Nord) e
traiettorie di vita e progetti
la costante contrazione demografidi varia natura
ca di molti comuni delle Alpi rurali
e di vaste porzioni dell’Appennino,
soprattutto centro-meridionale, dove non basta il massiccio afflusso di
migranti a colmare i vuoti, materiali e immateriali, lasciati dall’esodo
(Atlante dell’Appennino, I Quaderni di Symbola, 2018). Approfondendo la conoscenza dei territori, inoltre, ci si rende presto conto che il
fenomeno del nuovo popolamento montano è quasi completamente
nascosto alla vista dei dati demografici, per ragioni di varia natura, che
vanno dall’inerzia demografica di territori con indici di vecchiaia molto
alti – dove il saldo migratorio non è sufficiente a compensare il saldo
naturale – al fenomeno delle residenze fittizie nei comuni turistici, fino
all’insufficienza di dati raccolti su scala comunale, che non riescono a
descrivere la complessità e la variabilità interna di territori municipali
spesso composti da decine di frazioni, distribuite su diverse fasce altitudinali, dalle caratteristiche geografiche e morfologiche incomparabili.
Basandosi solo sulle dinamiche demografiche sono infatti invisibili
i processi in corso in alcune realtà territoriali nelle quali i nuovi montanari svolgono un ruolo fondamentale nello sperimentare iniziative
politiche, sociali ed economiche, diventate simboli di un modo nuovo
di immaginare e abitare la montagna. È per esempio il caso dell’alta
Val Maira (Cuneo), che nel 1977 Nuto Revelli descriveva come il cuore
del «mondo dei vinti», e che oggi è un laboratorio di sperimentazione
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territoriale su temi centrali per la montagna di domani, come la gestione dei servizi, il turismo sostenibile e le associazioni fondiarie, anche
grazie alla presenza attiva di nuovi insediati, che in alcuni dei «comuni
polvere» dell’alta valle costituiscono la maggioranza della popolazione.
O ancora il caso di Ostana, piccolissimo comune della Valle Po (82 residenti), in cui il nuovo popolamento non si rispecchia tanto nel trend
demografico, tuttora negativo, quanto nell’impatto sulla società locale
di lungimiranti politiche comunali di rigenerazione del patrimonio costruito e di sostegno all’insediamento di nuovi abitanti.
Per comprendere appieno il fenomeno del nuovo popolamento
montano è quindi necessaria una prospettiva diversa da quella, tipicamente urbana, basata sui criteri della quantità e della densità, ricercando invece il valore aggiunto portato in molti territori dai nuovi montanari, che vedono nei vuoti lasciati dallo spopolamento uno spazio da
riempire con pratiche di innovazione e sperimentazione, e nelle risorse
offerte dalla montagna il materiale necessario per realizzare, almeno
temporaneamente, i propri progetti lavorativi, personali o familiari. È
quindi necessaria una «curvatura territoriale» delle lenti con cui si osservano e interpretano i molti processi intrecciati che compongono il fenomeno complesso del nuovo popolamento montano, analoga alla
curvatura territoriale delle politiche nazionali invocata da Fabrizio Barca per le aree interne.
Oggi il dibattito relativo ai nuovi montanari si arricchisce inoltre
di nuovi significati, di una maggiore rilevanza e di una forse inedita
centralità nel dibattito pubblico, grazie a quella che Antonio De Rossi,
nell’introduzione al volume collettivo Riabitare l’Italia (Donzelli, 2018),
definisce «inversione dello sguardo»
nei confronti delle aree interne, che
Per comprendere il nuovo
«porta ad attribuire a questi territori
popolamento bisogna
valenze simboliche e valori d’uso
del tutto nuovi, trasformandoli in
ricercare il valore aggiunto
spazi d’opportunità e di potenziaportato in molti territori
le progetto di futuro». Molti fattori
dai nuovi montanari
contribuiscono a questa «ricentralizzazione» del margine (citando
ancora De Rossi) e dei suoi abitanti nel dibattito pubblico: l’evidenza
degli effetti della scarsa cura del territorio montano sul dissesto idrogeologico; i nuovi valori attribuiti alle produzioni di montagna, soprattutto in ambito agroalimentare; o le potenzialità dell’abitare in quota nella
prospettiva dell’aumento globale delle temperature (L. Mercalli, Salire
in montagna, Einaudi, 2020).
Un ruolo centrale è infine giocato dalla risonanza – purtroppo più
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accademica e culturale, che politica e mediatica – del concetto di «aree
interne», della Strategia nazionale che ne fa laboratorio di sperimentazione di nuovi modi di intendere i servizi sul territorio, e dell’idea che
esse possano rappresentare ambiti privilegiati di modalità diverse di
«abitare l’Italia», imperniate sulle economie fondamentali, sull’utilizzo
sostenibile delle risorse e sulla rigenerazione del patrimonio esistente
(Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di D. Cersosimo e C. Donzelli,
Donzelli, 2020).
In tempi recentissimi, i valori negativi che il timore del contagio da
Covid-19 ha portato ad attribuire alla densità urbana, insieme alla nuova valenza del telelavoro e dello smart-working, hanno puntato i riflettori del dibattito pubblico sull’abitare in contesti non urbani. Sono passati alle cronache gli interventi di Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas
agli Stati generali dell’economia, organizzati dal governo Conte nell’estate 2020, dove entrambi gli architetti hanno dichiarato di vedere nelle
difficoltà della pandemia un’opportunità per immaginare una nuova
dimensione abitativa nei centri minori delle aree interne, ipotizzando,
grazie alle possibilità del digitale, di «delocalizzare la vita urbana» nei
borghi (intervista di Stefano Boeri, Fuori Tg3, 17.6.2020).
Da un lato, la ribalta mediatica è stata vista come un’occasione da
molti rappresentanti dei territori montani, tra i quali l’Unione nazionale comuni comunità enti montani (Uncem), il cui presidente Marco
Bussone ha scritto una lettera a Boeri proponendo un patto finalizzato a «provare a costruire insieme percorsi su un nuovo modo di
vivere e abitare», a partire da temi come il divario digitale, le reti di
servizi, la fiscalità differenziata e
nuovi modelli economici adatti alle
Serve un’immagine più
specificità delle terre alte. Dall’altro
veritiera di questi luoghi,
lato, però, il tema dell’abitare nelle
ricchi di potenzialità, ma
aree interne è stato affrontato, soprattutto dai media, con retoriche
carenti di servizi di base
e stereotipi lontani dalla realtà dei
territori spopolati, a partire dall’utilizzo del termine «borgo», che neutralizza «la complessità del popolamento, per cancellare la storia degli
insediamenti e farne un luogo estetico» (intervista di Claudio Vedovati
al portale d’informazione irpino OrticaLab).
Per ragionare sulle possibilità di un eventuale nuovo popolamento
– come sottolinea spesso l’antropologa Anna Rizzo, esperta di culture
rurali nei luoghi dello spopolamento appenninico – bisogna quindi abbandonare la sfera semantica edulcorante del «borgo» o del «villaggio» e
ritornare a quella del «paese», restituendo un’immagine più veritiera, di
luoghi caratterizzati da un ricco patrimonio culturale e ambientale e da
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grandi potenzialità, ma connotati anche da un forte controllo sociale,
dalla rarefazione delle reti interpersonali e dalla carenza di servizi di
base. Inoltre, l’idea di «delocalizzare la vita urbana» proposta da Boeri
stimola una rappresentazione fuorviante della montagna, come spazio
svuotato di pratiche abitative proprie, pronto per essere «riabitato» con
pratiche e sguardi urbani.
Data l’evidenza della necessità di decostruire le rappresentazioni
mediatiche stereotipate e di aggiornarlo alla luce dei processi sociali,
economici e culturali più recenti, il dibattito sui nuovi abitanti della
montagna avrebbe dunque bisogno di una riflessione intorno al significato e alle potenzialità dei tre termini che lo compongono: nuovi,
abitanti e montagna.
In primo luogo, è necessario quindi interrogarsi su quali sono le
caratteristiche che una persona che vive in montagna deve avere per
essere considerata nuovo/nuova abitante. Basta parlare con qualcuno
che si è trasferito in montagna a un certo punto della propria vita,
per rendersi conto che è molto difficile scrollarsi di dosso l’etichetta
Essere abitanti della montagna
di forestiero, anche dopo decenni
va oltre il mero concetto di
dal trasferimento in una valle. Al
residenza, evoca una scelta
tempo stesso però, analizzando in
profondità le dinamiche delle terre
attiva di vita sul territorio
alte, emerge chiaramente come le
comunità locali delle montagne contemporanee siano spesso composte da una mescolanza di residenti storici, nuovi abitanti stanziali, nuovi
abitanti temporanei e perfino persone che sono legate ai luoghi e attive
localmente pur non vivendoci. Il concetto stesso di comunità, del resto,
è spesso funzionale a costruire una cornice di senso a reti ancorate
localmente e a produrre differenziazioni talvolta esclusive, più che a
descrivere in maniera fedele alla realtà contesti da sempre caratterizzati
dalla mescolanza di origini, culture e modi di abitare. In una prospettiva attenta ai processi territoriali realmente in corso e rivolta al futuro
delle montagne, parlare di «nuovi» abitanti dovrebbe quindi riguardare
non tanto la dimensione temporale della residenza di un soggetto sul
territorio, quanto la dimensione attiva della scelta di viverci, indipendentemente dalle proprie origini e traiettorie di vita precedenti.
Questo elemento rimanda al secondo termine che si vuole discutere: cosa significa essere abitanti della montagna? Nel suo recente bel
saggio dedicato alle Montagne di mezzo (Einaudi, 2020), il geografo
padovano Mauro Varotto sottolinea la differenza semantica tra «abitare
in montagna» e «abitare la montagna». Come già sottolineato all’inizio
di quest’articolo, facendo riferimento al movimento politico e cultuil Mulino 6/2020
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rale che riflette sul «riabitare l’Italia», quest’ultima accezione («abitare
la montagna») va ben oltre la residenza stabile in un centro abitato in
quota, evocando invece lo sguardo proattivo e il desiderio di cura dei
luoghi di coloro che in un territorio di montagna trovano lo spazio, le
risorse e il senso per mettere in pratica i propri progetti di vita.
L’idea di abitare in un territorio, inoltre, va riletta alla luce del paradigma del mobility turn che da alcuni anni caratterizza le scienze sociali, partendo dalle teorie dei sociologi anglosassoni John Urry e Mimi
Sheller, i quali hanno suggerito che non sia la stanzialità, bensì la mobilità lo stato più comune per gli esseri umani, con diverse scale temporali e spaziali e diversi fini: turismo, trasporti, migrazioni, e così via.
Come evidenzia ancora Varotto, la mobilità ha sempre caratterizzato le
popolazioni di montagna, sia in senso orizzontale, con le migrazioni
stagionali indispensabili per bilanciare il rapporto tra popolamento e
risorse, sia in senso verticale, attraverso l’utilizzo delle diverse fasce
altimetriche delle vallate, secondo i cicli stagionali.
Parlare di «abitanti» della montagna implica quindi oggi la necessità di ampliare la categoria dell’abitare, rileggendo la mobilità delle
popolazioni montane alla luce delle caratteristiche delle società contemporanee, integrando le pratiche di multi-residenzialità stagionale,
la stanzialità dei portatori di progetti legati all’agricoltura e all’allevamento, la mobilità frequente dei lavoratori digitali, la frequentazione
La montagna è anche una
turistica di medio-lunga durata e
costruzione sociale in cui gli
altri modi inediti di abitare la montagna che potranno svilupparsi in
abitanti riproducono l’idea
futuro. La mobilità è anche quella
che avevano quando vi si
dei molti nuovi abitanti che dopo
trasferirono
avere vissuto in montagna per qualche mese, o qualche anno, decidono che quello non è più il contesto territoriale in cui vogliono vivere,
per svariate ragioni. Per questo è fondamentale che la narrazione e
l’attenzione politica e accademica su questo tema si concentrino non
solo sulle persone e sulle loro scelte di vita, ma sul contesto territoriale
che le attrae o le respinge.
Il terzo termine che è necessario discutere criticamente è infatti
quello di «montagna». Si può parlare di nuovi abitanti della montagna in
riferimento alle propaggini vallive suburbane di grandi città pedemontane, come Torino, i cui abitanti praticano stili di vita identici a quelli
di coloro che vivono nei quartieri residenziali del resto dell’area metropolitana? Analogamente, che ruolo possono giocare in questo discorso
i residenti delle stazioni turistiche delle alte valli, che costituiscono di
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fatto delle enclaves urbane d’alta quota, le cui strade costeggiate di
condomini sono iperaffollate per due mesi all’anno e quasi deserte per
i restanti dieci? Parlando di riabitare la montagna è necessario concentrarsi sul significato che questa assume per chi la sceglie come luogo
di vita. Il concetto di montagna è frutto di un processo di costruzione
sociale e politica, e i suoi abitanti, con le loro pratiche abitative, lavorative e sociali, riproducono quell’idea di montagna che avevano in
mente quando hanno deciso di trasferircisi a vivere. La montagna dei
nuovi abitanti, intesi nel senso ampio e non stereotipato tratteggiato
fin qui, mescola immaginari differenti, che integrano – e talvolta mettono in contrapposizione – presente e passato, urbano e rurale, natura
e paesaggio antropico, densità e rarefazione, radicamento e mobilità.
L’elemento centrale del tema dei nuovi abitanti della montagna, anche alla luce del tentativo di rinnovamento qui discusso, sembra continuare a essere quello della «scelta». Vivere in montagna, soprattutto
nella montagna marginale dello spopolamento di molte vallate alpine
e appenniniche, è oggi una scelta, tanto per chi vi si trasferisce da altri
territori, quanto per i giovani che ci sono nati e decidono di rimanervi
per realizzare i propri progetti di vita. La forza della scelta individuale
consente di riconoscere le potenzialità e le risorse delle terre alte, superando – e a volte sottostimando – il fatto che vivere nei territori di
montagna italiani significa, con poche eccezioni, abitare in un territorio
con pochi servizi, quasi ignorato dalle politiche regionali e nazionali,
sfruttato dal turismo predatorio, costretto a fare i conti con regole scritte da e per territori molto più densi.
Grazie alle loro reti, spesso sovralocali, e al loro approccio attivo
nei confronti del territorio e delle sue risorse, i nuovi abitanti possono
svolgere un ruolo importante nei processi di azione pubblica e di advocacy che reclamano politiche che guardino alla montagna con occhi
attenti alle specificità territoriali e al diritto di cittadinanza di vecchi e
nuovi montanari. La scelta di pochi può e dovrebbe diventare un’opportunità per molti, restituendo «alle persone la libertà sostanziale di
restare o partire e ai luoghi l’opportunità di essere riabitati» (Manifesto
per riabitare l’Italia, cit.).
Giacomo Pettenati è un geografo, attualmente assegnista di ricerca e docente a contratto presso
il dipartimento Culture, politica e società dell’Università di Torino, e collabora come ricercatore con
l’associazione Dislivelli.
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