Riassunto Psicologia dell’educazione La psicologia dell’educazione studia l’apprendimento in contesti scolastici e non. L’apprendimento Il tema centrale della psicologia dell’educazione è quello dei processi e delle dinamiche di insegnamento/apprendimento. - L’apprendimento viene solitamente definito come un cambiamento che si manifesta in un individuo per effetto dell’esperienza. Questo cambiamento può riguardare: Il comportamento La conoscenza L’apprendimento inteso come cambiamento di conoscenza riguarda la relazione tra stimoli ambientali e risposte non direttamente osservabili (pensiero, ragionamento, ricordo, soluzione di problemi). L’apprendimento inteso come cambiamento di comportamento riguarda la relazione tra gli stimoli ambientali e le risposte direttamente osservabili. - L’apprendimento può anche essere : intenzionale/incidentale: L’apprendimento intenzionale è quello che avviene attraverso progettazione, organizzazione o consapevolezza. L’apprendimento incidentale è quello che avviene senza “premeditazione”. La nascita della psicologia dell’educazione Secondo Boscolo si può far risalire la nascita della psicologia dell’educazione ai primi anni del XX secolo: - Thorndike (1903) “Educational Psychology” Journal of Educational Psychology Psicologia dell’istruzione e Psicologia dell’educazione vengono spesso usati come sinonimi, ma possiamo notare una sottile differenza: - La psicologia dell’istruzione si occupa principalmente dello studio scientifico sull’acquisizione di conoscenze, abilità e atteggiamenti in contesti di istruzione; La psicologia dell’educazione si occupa principalmente dei processi e delle dinamiche di insegnamento e apprendimento. Negli ultimi decenni si è realizzato un riavvicinamento tra psicologia dello sviluppo e psicologia dell’istruzione. Gli studiosi della psicologia dello sviluppo si sono progressivamente interessati all’istruzione poiché: - La conoscenza è una componente importante dello sviluppo cognitivo La scolarizzazione influisce notevolmente sullo sviluppo delle abilità cognitive L’apprendimento e la cultura sono i veicoli maggiori dello sviluppo Cognizione fredda, calda, tiepida Nello studio dell’apprendimento scolastico non devono essere considerate esclusivamente variabili di tipo cognitivo. Un concetto attuale e completo di apprendimento porta a considerare una molteplicità di fattori e interazioni. Tra i fattori implicati nell’apprendimento vi sono infatti quelli emozionali, motivazionali, relazionali e contestuali. Alcuni autori parlano di “cognizione calda” in contrasto con la “cognizione fredda” o “tiepida”, proprio in riferimento a tutti gli aspetti motivazionali, emotivi, relazionali e contestuali da tenere presenti perché influenzano cosa, come e quanto si impara. Il Comportamentismo La nascita del comportamentismo viene fatta risalire al 1913, anno in cui compare l’articolo di Watson “La psicologia così come la vede il comportamentista”. Tale prospettiva si afferma agli inizi del Novecento nel contesto nordamericano,avviandosi ad avere successo grazie anche al carattere pragmatico proprio di quella cultura: infatti il comportamentismo dominerà lo scenario della ricerca scientifica in psicologia almeno fino alla fine degli anni ’50. L’articolo di Watson viene considerato il manifesto della prospettiva comportamentista. Qui vengono tracciate le linee fondamentali di questo nuovo approccio: in primo luogo tale disciplina doveva avere come proprio oggetto di studio il comportamento osservabile e come obiettivo la possibilità di prevederlo e controllarlo; quindi si doveva adottare come ogni altra disciplina delle scienze naturali, un metodo di tipo sperimentale e oggettivo. Il movimento di pensiero si chiama infatti comportamentismo proprio per la scelta del contenuto da studiare, il comportamento manifesto, e del metodo di ricerca che deve rispondere alle esigenze di oggettività. Si dovevano utilizzare solo costrutti connessi al concetto di comportamento, come ad esempio “stimolo” o “risposta”, rifiutando ogni altro elemento concettuale che si riferisse alla mente e ai suoi contenuti. Occorreva, infine, per fare della psicologia una scienza, liberarla da tutte le categorie concettuali ambigue ereditate dalla filosofia, come quelle di “mente” o “coscienza” e prendere in esame il comportamento come unico elemento oggettivamente osservabile. IL bersaglio polemico di Watson era l’uso del metodo introspettivo in psicologia, introdotto dal filosofo e fisiologo tedesco Wilhelm Wundt nel suo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia nel 1879. (Bisogna infatti ricordare che in psicologia i paradigmi teorici rappresentavano quasi sempre una reazione al paradigma teorico precedente). Wundt aveva cercato di sistematizzare le scoperte in ambito psicologico fino ad allora ottenute. Egli studiava percezioni, sensazioni, coscienza e conoscenze in base a ciò che dicevano i soggetti partecipanti ai suoi esperimenti. Dobbiamo distinguere tra: - Sensazione : processo in cui i miei sensi vengono attivati dall’esterno Percezione: sono io che do senso a quello che ho visto o sentito L’introspezione consisteva, secondo i criteri messi a punto da Wundt, nell’auto-osservazione dei propri stati psichici da parte del soggetto. Questi, opportunamente addestrato dallo sperimentatore, era sistematicamente guidato mediante interrogazione a produrre un resoconto soggettivo che permettesse di quantificare fenomeni psichici quali, ad esempio, intensità, durata ed estensione della sensazione prodotta da uno stimolo. L’introspezione è un metodo molto soggettivo perché fa riferimento all’elaboratore centrale (il cervello) di ogni singolo individuo, da cui ne conseguono output diversi. La critica di Watson era centrata sull’assunto che l’introspezione non garantiva un controllo sulla procedura sperimentale tale da permettere di replicare i risultati ottenuti, inoltre Watson sosteneva che questa metodologia ricorreva a categorie descrittive degli stati psichici (sensazione, appercezione, volizione) soggette a interpretazione soggettiva e non di chiara definizione. Retroterra filosofico-culturale: l’approccio evoluzionista di Charles Darwin, in particolare l’idea che diverse le specie viventi si siano evolute attraverso una progressiva selezione naturale: diventava sensato, quindi, per comprendere come funziona il comportamento umano, studiare il comportamento animale. Questa connessione evoluzionista tra le diverse specie risolveva anche alcuni problemi di tipo metodologico: si poteva compiere sugli animali una serie di esperimenti che sarebbero stati impossibili sull’uomo e generalizzare a quest’ultimo le leggi individuate con gli studi primi. Un secondo elemento di ispirazione è la filosofia positivista di Auguste Comte, la quale sosteneva il primato della conoscenza scientifica su un’analisi oggettiva dei dati di realtà. L’apprendimento in prospettiva comportamentista I comportamentisti si rifiutavano di occuparsi della “coscienza” e si riferivano al comportamento come unico oggetto possibile di indagine. Il comportamento di ogni individuo è determinato in modo casuale, secondo regole costanti, dall’ambiente che presenta agli individui degli “stimoli” ai quali associare delle “risposte”. Il comportamentismo critica l’innatismo enfatizzando il ruolo dell’ambiente. L’apprendimento non è altro, quindi, che la creazione di associazioni stabili tra risposte dell’individuo e stimoli dell’ambiente; qualsiasi comportamento è riconducibile ad una catena di apprendimenti successivi; predisponendo un ambiente idoneo, secondo questa visione, sarebbe possibile forgiare qualsiasi comportamento desiderato in un individuo. L’obiettivo di questo approccio era, dunque, individuare le condizioni che permettono l’apprendimento, rispondendo a 3 questioni: come si creano tali associazioni ? come si mantengono nel tempo?come si estinguono? I comportamentisti cominciarono a studiare l’influenza delle ripetizione delle sequenze stimolo-risposta sul mantenimento delle associazioni, la capacità di discriminare tra stimoli o di generalizzare le risposte da una situazione nota ad altre situazioni nuove. Nello sviluppo di questo approccio distinguiamo 3 fasi che corrispondono all’affermarsi di 3 diversi paradigmi, definiti rispettivamente: del condizionamento classico, del condizionamento operante e dell’apprendimento sociale. Prima fase: condizionamento classico IL primo comportamentismo si principalmente sviluppato sul paradigma del condizionamento classico ispirato agli studi di Ivan Petrovic Pavlov. IL fisiologo russo stava conducendo alcuni studi sui cani per studiarne l’apparato gastrointestinale. A tal fine aveva creato un sistema che misurava la salivazione delle ghiandole poste all’interno della bocca: creava una fistola nella guancia del cane, in corrispondenza della ghiandola salivare e introduceva una cannula che raccoglieva la saliva. La cannula era collegata ad un sistema elettro-magnetico che quantificava numericamente le gocce di saliva. Lo stimolo incondizionato (SI), ovvero la polvere di cane, produceva un risposta incondizionata (RI), la salivazione che è una risposta che fa parte del repertorio comportamentale dell’animale, un riflesso. Durante il processo di condizionamento si associava uno stimolo neutro (SN) come il suono di una campanella allo stimolo incondizionato (SI). La ripetuta associazione tra SN e SI porterà lo stimolo neutro da solo a produrre la risposta di salivazione che chiameremmo a questo punto Risposta Condizionata (RC), e lo stimolo neutro diventerà uno Stimolo Condizionato (SC). SCHEMA CONDIZIONAMENTO CLASSICO Prima del condizionamento : SI (carne)- RI (salivazione) Processo di condizionamento : SN (suono)- SI (carne)- RI (salivazione) Dopo il condizionamento : SC (suono)- RC (salivazione, risposta condizionata) Pavlov trasse questa legge quando osservò che il cane produceva saliva alla vista delle persone abitualmente addette alla consegna dei pasti. La salivazione al momento di assumere cibo (stimolo incondizionato) è definita “riflesso/risposta condizionata”, in quanto reazione automatica innata dell’apparato digerente animale. Invece, la salivazione del cane alla vista dell’addetto al cibo è definibile come una reazione appresa o “riflesso/risposta condizionata”, costituitasi tramite associazione tra persona (stimolo condizionato) e cibo (stimolo incondizionato). Per questo, invece di parlare di schema di associazione Stimolo- Risposta (S-R), sarebbe più giusto parlare di StimoloStimolo (S-S), in quanto vi è apprendimento quando c’è associazione tra due stimoli. Pavlov scoprì che in questo modo era possibile condizionare la salivazione dei cani attraverso i più svariati stimoli (un campanello, una luce, ecc.): era sufficiente far precedere in diverse presentazioni lo stimolo incondizionato (cibo) dallo stimolo condizionato (es. campanella). Watson, giunto a considerare il condizionamento pavloviano un principio fondamentale di spiegazione del comportamento animale e umano, nutriva un’enorme fiducia nelle possibilità educative: gli appariva relativamente semplice poter addestrare un bambino ad essere quello ce l’adulto desiderava (medico, avvocato, artista o anche mendicante e ladro) indipendentemente dalle sue tendenze,attitudini , abilità, nonché dall’etnia di appartenenza. Seconda fase: condizionamento operante Nell’associazione S-S l’individuo impara a fare previsioni sull’ambiente. L’associazione S-S non consente però all’animale o all’essere umano di controllare l’ambiente. Esistono quindi altre forme di apprendimento in cui, anziché apprendere le relazioni tra eventi ambientali, gli organismi apprendono la relazione tra il proprio comportamento e gli eventi ambientali. Edward Thorndike (1903) fu il primo scienziato a studiare questo tipo di apprendimento utilizzando alcune ingegnose GABBIE-PROBLEMA. Nei suoi esperimenti poneva i gatti all’interno della gabbia e il cibo fuori di esse. Se il gatto voleva il cibo doveva imparare a premere una leva posizionata all’interno della gabbia per aprire la porta. Thorndike valutava anche il tempo che il gatto impegnava per aprire la gabbia durante le prove successive. Se la prima volta che il gatto apriva la porta il cibo era buono, la seconda volta il tempo di latenza era minore (capiva più velocemente cosa doveva fare). Se le volte successive i cibo non era buono il comportamento del gatto era meno veemente. Questo tipo di apprendimento (in cui il gatto va a tentativi prima di premere la leva) era definito apprendimento per prove ed errori. Thorndike individuò alcune leggi come quella “dell’esercizio” (la ripetizione della sequenza rafforzava l’associazione stimolo-risposta), ma soprattutto la legge dell’effetto, secondo cui quando una data risposta è seguita da una conseguenza piacevole, questa risposta sarà sempre più strettamente connessa alla situazione ambientale in cui è avvenuta. L’organismo tenderà a ripetere la stessa risposta quando si troverà nello stesso contesto. Quando una risposta è seguita da una conseguenza spiacevole, la connessione tra gli stimoli ambientali e la risposta si indebolisce. La conseguenza spiacevole diminuisce la probabilità che la risposta sia ripetuta la prossima volta che il soggetto si trova nella stessa situazione. T. anticipa il concetto di rinforzo, anche se non ne parla esplicitamente. Tuttavia tale apprendimento riguardava l’associazione tra comportamenti relativamente semplici, appartenenti al repertorio “innato” del soggetto, che venivano associati a stimoli nuovi, di per sé non in grado di attivare tali riflessi. Va le pena di precisare che nella prima fase i comportamentisti studiavano il processo per cui un soggetto impara non tanto comportamenti nuovi, quanto a trasferire comportamenti del proprio repertorio “innato” a situazioni nuovi o a combinare tra loro alcuni di questi comportamenti. Un cambiamento di tale prospettiva fu introdotto da Burrhus Frederic Skinner che continuò il lavoro di Thorndike a partire dalla fine degli anni ’40. Skinner si proponeva come “comportamentista radicale”, sostenendo la necessità di superare la contrapposizione tra comportamenti osservabili (e quindi studiabili) e fenomeni mentali non studiabili. Anche i fenomeni mentali (ad es. il pensiero), sosteneva Skinner, sono attività che si svolgono “all’interno della pelle” e quindi riconducibili a comportamenti che li manifestano: il nostro comportamento non è guidato da tali attività interne, ma è anzi determinato dalle conseguenze che ad esse seguono, prodotte dall’ambiente. Il protocollo di ricerca di Skinner prevedeva l’utilizzo della skinner box. Skinner lavorava generalmente con ratti e piccioni. La parete frontale della skinner box era generalmente dotata di una leva sporgente che il ratto doveva abbassare per ottenere il cibo. L’animale esplorando la gabbia, premerà per caso la leva e riceverà un rinforzo (il cibo). L’associazione creata è denominata R-E (tra rappresentazioni di comportamenti e esiti). In seguito a tale associazione il ratto imparerà che premendo la leva può avere il cibo. Il condizionamento operante porta il ratto ad emettere risposte nuove, che non facevano parte del repertorio comportamentale dell’animale. Il processo di condizionamento in questo caso è connesso al concetto di rinforzo ed è chiamato condizionamento strumentale o operante. Il condizionamento operante si distingue da quello classico in quanto in quest’ultimo l’animale non è libero di muoversi e di produrre repertori comportamentali (si studiano associazioni tra stimoli e risposte fisiologiche); nel condizionamento operante l’animale impara un comportamento che non faceva parte del suo repertorio (es. impara ad aprire la porta con la leva per ottenere cibo). Skinner distinse due classi di comportamenti: rispondenti e operanti. I comportamenti rispondenti erano rappresentati da semplici riflessi condizionati, così com’erano stati spiegati dai principi del condizionamento classico. I comportamenti operanti erano definiti da Skinner come quei comportamenti volontari che appartengono al repertorio del soggetto e che vengono emessi in assenza di un particolare stimolo che li precede: operano sull’ambiente, ciò agiscono su di esso, anziché subirne l’azione. Nel condizionamento operante un comportamento appartenente al repertorio di risposte che un animale o un essere umano può emettere viene rinforzato positivamente quando, ad esempio riceve una ricompensa: ciò ne determina l’aumento della frequenza di emissione. Il comportamento operante diventa condizionato quando passa sotto il controllo di uno stimolo particolare. Ad esempio, una leva posizionata in un labirinto di per sé non è uno stimolo in grado di attivare una qualche risposta naturale di un topo che si muove in tale spazio. Tuttavia, se casualmente il topo preme la leva (comportamento operante) e ottiene una porzione di cibo (stimolo rinforzante) e se questa sequenza si ripete per un certo numero di volte, si può dire che l’azione di premere la leva è stata condizionata in modo operante: la funzione del cibo che si presenta sempre subito dopo aver premuto la leva, è quella di aumentare la frequenza di tale comportamento. L’esempio più famoso della forza di questo approccio è rappresentato dall’esperimento di Skinner sui due piccioni che giocano a ping pong, condizionati dallo sperimentatore, mediante stimoli rinforza tori, a colpire con il becco la pallina. Il rinforzo è un qualche cosa che aumenta la probabilità che il comportamento si verifichi. Esso può essere: Positivo: qualcosa che viene aggiunto alla situazione e che produce una sensazione piacevole (es. cibo) Negativo: rinforzo che provoca piacevolezza togliendo qualche cosa di spiacevole (es. viene tolta una punizione; viene tolta la corrente dal pavimento della skinner box quando il topo preme la leva; il bambino autistico – che non tollera rumori in classe- viene fatto uscire come premio se usa l’espressione “per favore posso uscire”). Si parla, invece, di punizione quando lo stimolo rinforzatore produce una situazione negativa,cioè esso è un qualcosa che diminuisce la probabilità che il comportamento si verifichi. Essa può essere: Positiva: un qualcosa di negativo che aggiunge qualcosa alla situazione (es: uno sculaccione per un comportamento negativo; la scossa al ratto se preme la leva sbagliata); Negativa: viene tolto qualcosa di piacevole (es: togliere l’uso della play al bambino, togliere il cibo al ratto). Skinner elaborò numerosi programmi che diedero vita a vere e proprie “macchine per insegnare” . Edward Tolman (1932) definì il comportamento strumentale come intenzionale poiché la risposta è prodotta per ottenere qualcosa. Tolman divise dei topolini in 3 gruppi: 1. Gruppo: senza rinforzo, trovavano molto lentamente la strada; 2. Gruppo: rinforzati da subito; 3. Gruppo: per 10 giorni senza rinforzo, trovavano la strada molto lentamente (gli studiosi comportamentisti pensavano che dato che non c’era rinforzo non ci sarebbe stato apprendimento). All’undicesimo giorno Tolman diede il rinforzo all’uscita al 3° gruppo che molto rapidamente raggiungeva l’uscita, nel giro di un giorno equiparandosi alla velocità del 2°gruppo che aveva sempre ricevuto il rinforzo. Perciò si abbassò molto velocemente il periodo di latenza, talmente velocemente che non si spiegava con il rinforzo. Per questo Tolman dovette postulare il concetto di apprendimento latente, infatti nei topolini del 3°gruppo c’era stato apprendimento durante i primi 10 giorni, ma non lo avevano utilizzato perché non era necessario; non appena viene dato il rinforzo l’apprendimento da latente diventa manifesto. Ma dov’era tale apprendimento? In quelle che Tolman chiamerà MAPPE MENTALI, che stavano nella mente, la famosa black box. Si cambiò lo schema classico da: S R a S O R stimolo organismo risposta (qui era collocata la black box) Tolman segna il passaggio dal comportamentismo al cognitivismo. L’approccio comportamentista ha influenzato principalmente due settori della ricerca legati ad aspetti della psicologia dell’istruzione: Il settore di ricerca dell’istruzione programmata; Il settore di ricerca dell’addestramento militare. Il modello applicato all’istruzione programmata è quello del condizionamento operante di Skinner. L’approccio che faceva riferimento al condizionamento operante veniva applicato ad un metodo di programmazione di corsi o unità didattiche di autoistruzione che gli alunni potevano svolgere individualmente. Il punto di partenza era la rigorosa definizione degli obiettivi e l’accertamento dei prerequisiti posseduti dallo studente. L’idea di fondo di tale approccio è basata su alcuni principi tipici del comportamentismo: - - Gradualità: il comportamento complesso da apprendere viene scomposto in componenti più semplici; Partecipazione attiva: l’allievo non può essere solo recettivo o rispondente ma deve essere anche operante ovvero deve essere attivo per tutto il tempo sul materiale di apprendimento; Conoscenza immediata dei risultati: l’allievo deve ricevere un feedback immediato sulle sue risposte per ogni passo di apprendimento; Adattamento dei tempi del percorso dell’allievo: l’alunno deve poter disporre di tutto il tempo necessario realizzare una prestazione di buon livello e deve essere indirizzato verso percorsi di recupero di livello più elementare. La programmazione di tipo lineare (o unisequenziale) prevedeva la suddivisione di contenuti di un corso in piccole unità di formazione. Le informazioni venivano presentate gradualmente e alternate a domande di verifica per accertare l’apprendimento del materiale. Ogni risposta corretta diventava un rinforzo e contemporaneamente uno stimolo all’apprendimento successivo. Per garantire la partecipazione attiva dello studente veniva richiesta la costruzione della risposta e non la scelta tra diverse risposte. Skinner sosteneva che sbagliando si impara a sbagliare. Un aspetto cruciale era quindi quello di predisporre il materiale di apprendimento nella giusta sequenza di passi semplici e graduali. Lo scopo era quello di consentire allo studente di sperimentare il successo, passo dopo passo. Questo continuo successo favoriva il processo di rinforzo continuo il cui risultato era quello di permettere allo studente di continuare nel processo di apprendimento. L’apprendimento, che è modificazione del comportamento, avviene osservando la conseguenza delle proprie azioni. I comportamenti che provocano rinforzi vengono ripetuti. Più è rapida l’associazione comportamento-rinforzo più è probabile che questo si ripresenti. La frequenza del rinforzo è direttamente proporzionale alla probabilità del comportamento. La mancanza di rinforzo porta all’estinzione del comportamento. Il rinforzo positivo è motivante e fa aumentare il desiderio di apprendere. Un apprendimento complesso può essere suddiviso in una sequenza di apprendimenti più semplici. La programmazione lineare è stata gradualmente sostituita con quella ramificata o plurisequenziale. In questo tipo di programmazione era posto l’accento sulla flessibilità anziché sull’importanza del rinforzo. L’assunto di partenza era che gli studenti apprendono in tanti modi diversi. Tra le variabili considerate vi sono: le conoscenze e le abilità precedentemente acquisite, la personalità, la natura degli argomenti, ecc.. Altro approccio di stampo comportamentista è quello del Mastery Learning (apprendimento per padronanza). Questo approccio parte dal presupposto che è possibile porre tutti gli allievi (o quasi) nella condizione di raggiungere pienamente, passo dopo passo, gli obiettivi stabiliti. Variabile fondamentale è il tempo: gli alunni devono seguire i propri ritmi e avanzare secondo un processo accuratamente progettato in tutti i suoi segmenti. La ricerca sull’istruzione militare non è direttamente legata ai problemi dell’istruzione. Essa ha comunque dato un contributo di rilievo alla psicologia dell’educazione per diversi motivi: - Analisi della prestazione richiesta all’essere umano quando si trova a controllare sistemi uomo-macchina complessi. Analisi dell’apprendimento di abilità percettivo-motorie che non possono essere spiegate solo in termini di associazioni stimolo-risposta ma anche di relazioni e interpretazioni. Introduzione del concetto di task analysis (analisi del compito) e individuazione dei requisiti necessari allo svolgimento di un compito. Altro concetto importante introdotto dalla ricerca sull’addestramento militare è quello di feedback. Per feedback si intende un’informazione di ritorno, la conoscenza dei risultati. Il concetto di feedback ha contribuito fortemente a far considerare in modo nuovo l’apprendimento. Il concetto di feedback risulta importante per valutare l’accuratezza della prestazione in cui si è coinvolti. Si notano perciò le differenze tra rinforzo (la cui metafora è quella della trasmissione meccanica della conoscenza) e quello di feedback (in cui vi è uno scambio, una reciprocità tra l’insegnante e l’allievo). In sintesi il comportamentismo stretto sostiene che : - L’apprendimento è una trasmissione della conoscenza; La conoscenza viene trasmessa in modo meccanico da un trasmettitore a un ricevente; La conoscenza non subisce nessuna trasformazione in questo passaggio; La conoscenza non è quindi elaborata da chi la riceve; Chi apprende è chiamato a riprodurre la conoscenza nel modo più fedele possibile. Terza fase: la teoria dell’apprendimento sociale A partire dagli anni ’50 si cominciava a mettere in dubbio che il condizionamento classico e operante fossero esplicativi della complessità del comportamento umano. L’interesse per gli aspetti sociali e relazionali fece fiorire le ricerche sull’apprendimento sociale. La portata della teoria comportamentista è stata applicata dai teorici dell’apprendimento sociale i quali cercavano di spiegare anche i comportamenti sociali complessi. Lo studioso di spicco di questa teoria fu Alfred Bandura. Bandura sosteneva che gli individui regolano i loro comportamenti anche sulla base di osservazioni delle conseguenze delle azioni. Aspetto fondamentale è quindi l’importanza del pensiero cosciente. Il rinforzo non è l’unico modo per poter modulare un comportamento poiché gli individui sono in grado di mettere in atto anche comportamenti non rinforzati precedentemente. Il concetto di apprendimento osservativo postula infatti che un individuo può anche osservare altri individui e imitare (qualora questi siano stati rinforzati) il loro comportamento. Un esempio è rappresentato dallo studio denominato “della bambola Bobo” (1961), dedicato all’imitazione di comportamenti aggressivi di modelli adulti da parte dei bambini. Lo studio era in qualche modo ispirato al rischio di imitazione, da parte di giovani telespettatori, dei comportamenti aggressivi esibiti in TV (la comparsa della TV negli Stati Uniti, nel 1952, spingeva gli psicologi ad occuparsi di questa problematica). Bandura e collaboratori realizzarono lo studio con bambini di età media di circa 4 anni, prevedendo nel disegno sperimentale della ricerca 3 gruppi: - - - Nel primo gruppo sperimentale (condizione aggressiva) introdussero un loro collaboratore che si mostrò aggressivo nei confronti di un pupazzo gonfiabili chiamato Bobo. L’adulto picchiava il pupazzo con dei pugni sul naso e lo prendeva a calci gridando frasi del tipo “Picchialo sul naso!” “Picchialo in basso!” “Pum!”. Nel secondo gruppo sperimentale (condizione non aggressiva), un altro collaboratore giocava con costruzioni di legno senza manifestare alcun tipo di aggressività nei confronti di Bobo; Infine, nel terzo gruppo, quello di controllo, i bambini non avevano a che fare con alcun adulto che svolgesse la funzione di modello ma giocavano da soli liberamente. In una fase successiva i bambini venivano condotti in una stanza nel quale vi erano giochi neutri (peluche, modellini di camion) e giochi aggressivi (fucili, Bobo, una palla con una faccia dipinta legata ad una corda). Bandura poté verificare che i bambini che avevano osservato l’adulto picchiare Bobo manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi, sia rispetto a quelli che avevano visto il modello non aggressivo, sia rispetto a quelli del gruppo di controllo. Sviluppando ulteriormente tale prospettiva, gli autori mostrarono successivamente che un comportamento relativamente nuovo può essere acquisito da un soggetto semplicemente guardando un modello che riceve uno stimolo rinforzatore (rinforzo vicario), senza che l’osservatore debba essere a sua volta rinforzato: la punizione o la ricompensa attribuita al comportamento prodotto dalla persona che fa da modello produce un effetto anche sull’osservatore. Pertanto, un bambino che vede l’insegnante gratificare un suo compagno per un certo comportamento, cercherà di apprendere quel comportamento perché il suo “modello” di comportamento è stato rinforzato. Gli ideatori della teoria dell’apprendimento sociale pur utilizzando inizialmente l’apparato concettuale del comportamentismo (stimoli rinforza tori, punizioni, ecc.), introducono l’idea che gli individui, tramite osservazione, realizzano un processo di acquisizione di informazioni elaborate cognitivamente allo scopo di astrarne una regola generale da applicare in altre situazioni simili. Gli individui, infatti, hanno consapevolezza degli eventi passati e si formano delle opinioni su se stessi e sugli altri comportandosi di conseguenza. Il campo di indagine non è, quindi, più ristretto allo studio dei comportamenti direttamente osservabili. La teoria di Bandura si inserirà pienamente nell’approccio cognitivista, sviluppandosi come “teoria socio cognitiva”, lo stesso Bandura,infatti, definirà l’apprendimento come “acquisizione di conoscenza attraverso l’elaborazione cognitiva delle informazioni”. Le critiche al comportamentismo Una prima critica mossa all’approccio comportamentista ha una natura teorica ed è legata all’emergere dell’approccio cognitivista che attacca l’assunto di fondo dello schema stimolorisposta: viene messo in discussione il fatto che lo stimolo si percepito in modo oggettivamente univoco da qualunque soggetto che è chiamato ad associare ad esso delle risposte. Per i cognitivisti, infatti, ogni stimolo che proviene dall’ambiente è soggetto a un processo di elaborazione interpretativa dell’informazione in esso contenuta. Un secondo elemento di critica, a livello di metodo, riguarda il rifiuto del comportamentismo di riconoscere scientificità allo studio di ciò che accade nella mente dell’individuo. I cognitivisti proporranno di superare tale veto utilizzando la metafora della mente come elaboratore di informazioni, conferendo così rigorosità alla descrizione dei processi cognitivi. Un’ulteriore azione critica viene svolta dal socio costruttivismo, che rimprovera al comportamentismo di aver trascurato il riferimento alla dimensione culturale e sociale dell’individuo, ritenuta invece importante nel processo di attribuzione di significati ai comportamenti messi in atto. In particolare, l’istruzione programmata non pone la giusta enfasi sulle conoscenze disciplinari né sulle procedure o metodologie che esse utilizzano per produrre conoscenza. Infatti questo approccio è esclusivamente fondato sui principiguida dell’apprendimento, che sono di tipo generale, e prescinde dai contenuti disciplinari. Resta in secondo piano anche l’attenzione al linguaggio e alla comunicazione in classe, che viene ricondotta alla classica sequenza lineare: stimolo dell’insegnante- risposta dell’alunno- valutazione dell’insegnante. Metodo di ricerca Studio rigoroso di come l’apprendimento si manifesti in conseguenza a degli stimoli ambientali. Studi prevalentemente sperimentali o correlazionali. Il Cognitivismo Con il cognitivismo si passa da un paradigma di tipo S-R ad un paradigma di tipo S-O-R. Il cognitivismo comincia a diffondersi come nuovo approccio teorico allo studio della psicologia nelle università nordamericane a partire dagli anni ’50, sotto la spinta di una serie di elementi di criticità messi in rilievo da diversi ricercatori nei confronti del comportamentismo, paradigma allora dominante. Un primo oggetto di critica riguarda, a livello teorico, l’assunto di fondo dello schema stimolo-risposta: viene messo in discussione il presupposto che lo stimolo sia percepito in modo oggettivamente univoco da qualunque soggetto chiamato ad associare ad esso delle risposte. Tale assunto comincia a vacillare con la diffusione negli Stati Uniti, intorno agli anni ’30 della teoria della Gestalt, favorita dall’arrivo negli Stati Uniti di due esponenti di punta di tale prospettiva teorica, Koffka e Kohler, fuggiti dalla Germania a causa delle persecuzioni naziste. La Gestalt non considerava affatto la mente umana come una tabula rasa, che riceve passivamente gli stimoli sensoriali, ma proponeva un modello di interazione tra percezioni esterne e schemi mentali interni che organizzano il materiale percepito in una determinata forma. Riprendendo gli studi dei ricercatori della Gestalt, Jerome Bruner, nell’ambito degli studi sulla percezione promossi dal movimento del New Look on Perception, aveva evidenziato che la percezione non è una riproduzione fedele della realtà fisica. Una serie di fattori “mentali” (i bisogni del soggetto, la motivazione, le aspettative) rendono, infatti, la percezione un atto selettivo e interpretativo nei confronti dello stimolo proposto. Un secondo elemento di critica, a livello di metodo, riguarda invece i limiti che proprio il comportamentismo aveva imposto alla psicologia non riconoscendo la scientificità allo studio di ciò che accade nella mente dell’individuo. La scelta del comportamentista era basata sull’impossibilità di rendere rigoroso il metodo dell’introspezione, in quanto passibile di distorsioni personali da parte dell’individuo che effettua la ricognizione dei propri stati mentali. Da qui la scelta di focalizzarsi sul comportamento come unico elemento osservabile e, quindi, oggettivamente studiabile. Ma già un neocomportamentista come Tolman negli anni ’50 aveva introdotto attraverso il costrutto delle mappe cognitive, l’idea che alcune variabili interne all’individuo (le memorie organizzate) entrino in gioco elaborando gli stimoli ricevuti e organizzando quindi, le risposte. Tuttavia, secondo le critiche rivolte a Tolman dai suoi stessi allievi, egli non aveva sufficientemente dato spazio ai concetti relativi agli stati mentali (conoscenze, intenzioni, pensieri) in modo da restituire alla mente un ruolo centrale durante lo svolgimento di azioni reali. Il cognitivismo reintroduce, quindi, la mente come oggetto di studio della psicologia, rispondendo però alle esigenze di rigorosità del metodo poste dai comportamentisti. Ciò avviene utilizzando come metafora del modo di funzionare della mente uno strumento che aveva fatto la sua comparsa in quegli anni, in modo rivoluzionario,nello scenario scientifico e culturale: il computer. La mente viene considerata un elaboratore di informazioni e ai cognitivisti interessa studiare proprio i processi mentali e le operazioni di trasformazione dell’informazione, che possono avvenire in successione una dopo l’altra o in parallelo, simultaneamente. Utilizzerà la metafora del computer anche Ulric Neisser che nel 1967 scriverà il testo “Cognitive Psychology”, considerato punto di riferimento per la nascita dell’approccio cognitivista. (Bisogna ricordare tuttavia che, anche se molti cognitivisti assunsero come punto di riferimento questo testo, il cognitivismo non trovò mai una personalità di spicco o un caposcuola che lo rappresentasse. Il cognitivismo si configurò da subito come un ampio arcipelago di indagini condotte da una nutrita schiera di studiosi). Neisser sostenne che il cognitivismo riprese a studiare la mente umana, ma non attraverso il metodo di introspezione proposto da Wundt, bensì attraverso le inferenze tratte dai comportamenti osservabili. Lo studioso sosteneva che il termine “cognitivo” doveva riferirsi a tutti i processi di manipolazione delle informazioni, ossia trasformazione, elaborazione, riduzione, immagazzinamento, recupero e combinazione degli input sensoriali. L’approccio cognitivista è infatti denominato approccio HIP dall’acronimo Human Information Processing. Questa analogia nacque perché c’era la necessità da parte dei cognitivisti di trovare una similitudine tra la mente umana e un qualche cosa che fosse già presente in natura per capire come funzionassero le cognizioni. Nella mente umana le informazioni sono rappresentate internamente per poter essere elaborate. L’elaborazione è un’attività mentale che genera, manipola e trasforma le informazioni. Per i comportamentisti, invece, ad alcuni stimoli dovevano per forza seguire le stesse risposte a prescindere dall’organismo. I comportamentisti spiegano la diversità delle persone con il fatto che esse nella loro vita abbiano incontrato stimoli diversi. Neisser intravedeva una forte analogia tra la comprensione dei processi cognitivi dell’uomo da parte di uno psicologo e comprensione della programmazione fatta a un computer da parte di un tecnico informatico che vuole scoprire procedure e routine mediante cui riuscire a far fare una determinata cosa allo strumento. Un programma per computer è costituito, infatti, da una serie di istruzioni per l’esecuzione di operazioni passo dopo passo, che possono essere combinate e raggruppate in vario modo. Tali istruzioni, così come i dati su cui vanno applicate, sono conservabili nel computer per un tempo necessario allo svolgimento delle operazioni in una memoria temporanea, di servizio, oppure in una memoria permanente per essere disponibili ogni qualvolta si rendano necessari. Sia gli esseri umani sia il computer presentano dei limiti rispetto alla quantità di informazioni che possono essere manipolate contemporaneamente e alla velocità di elaborazione delle stesse. Abbiamo una possibilità attentiva limitata per questo elaboriamo solo una piccola serie di informazioni alla volta. Noi funzioniamo per il principio di economia cognitiva ossia apprendiamo nel modo cognitivamente meno dispendioso possibile. Il sistema di memoria per l’elaborazione delle informazioni I cognitivisti a differenza dei comportamentisti (che studiavano le reazioni tra stimoli, risposte e rinforzi) , elaborano modelli della mente che fanno riferimenti ai concetti di memoria e processi di elaborazione. Atkinson e Shiffrin nel 1968 elaborarono il cosiddetto MODELLO MULTIMAGAZZINO, ipotizzando 3 componenti di memoria: Le frecce rappresentano il flusso delle informazioni, inizialmente sono due perché rappresentano i molteplici stimoli che riceviamo nel registro sensoriale, poi diventa una dal registro sensoriale alla MBT, perché il nostro registro sensoriale filtra ed elabora le informazioni più importanti. Registro sensoriale: è un dispositivo connesso all’organo di senso corrispondente, che trattiene l’informazione per un breve intervallo di tempo (fino a 2 secondi), necessario per effettuare un riconoscimento, mediante il confronto con le informazioni disponibili nella memoria a lungo termine (ad es. un’immagine di un oggetto che viene riconosciuta come una penna). Il risultato del riconoscimento viene trasferito in formato verbale e visuale nella memoria a breve termine. Il materiale non riconosciuto è soggetto a decadimento, viene cioè perso (ad es., lo stimolo che ha “colpito” il registro sensoriale viene riconosciuto come “gelato”. Questa informazione verrà trasferita nel magazzino della memoria a breve termine sotto forma della parola “gelato” o di un’immagine visiva schematica). Memoria a breve termine: ha una capienza limitata, ossia la quantità di informazioni che può esservi contenuta è in media di 7 +/- 2 unità nell’adulto tanto che non riusciamo, ad esempio, a compiere un’operazione aritmetica come 235 X 478. Questa richiederebbe di tenere allo stesso tempo presenti informazioni sui i numeri da moltiplicare, la procedura per eseguire la moltiplicazione, i risultati intermedi del calcolo (i riporti) che vanno conservati perché su questi devono essere eseguiti altri calcoli per giungere al risultato finale. Un altro limite della MBT è temporale, ossia le informazioni vi possono permanere solo per un brevissimo periodo, dell’ordine di una qualche decina di secondi. La MBT svolge un duplice e fondamentale ruolo : serve da transito in quanto le informazioni provenienti dall’ambiente, prima di approdare e rimanere nella MLT, vi sostano brevemente; serve da memoria di servizio in quanto contiene le informazioni provenienti dalla MLT che devono essere integrate con quelle provenienti dall’ambiente. Man mano che fanno ingresso nella memoria a breve termine nuove informazioni, quelle entrate precedentemente, e che eccedono le 7 unità, escono, quindi vengono dimenticate, a meno che il tempo in cui sono rimaste non abbia consentito il formarsi di una loro copia che rimane nella MLT. A volte si verifica il passaggio di informazioni dalla MBT a quella a lungo termine anche senza impegno o sforzo deliberato, ossia automaticamente, come quando ricordiamo bene la trama di un libro, pur non essendo stata nostra intenzione memorizzarla, come effetto dei processi attivati durante la lettura-comprensione. A tutti è capitato di fare esperienza di come si possa dimenticare un numero di telefono appena letto o sentito, prima di arrivare a digitarlo sul telefono, segno che l’informazione era uscita dalla memoria a breve termine senza lasciare una copia nella memoria a lungo termine, sostituita dalle informazioni entrate i seguito. Per rimediare a ciò esistono strategie a cui fare consapevolmente ricorso per aiutarci a ricordare ( nel caso dell’esempio ripetere a voce alta o silenziosamente il numero fino a quando non lo abbiamo digitato). La capacità limitata della memoria a breve termine ci porta a considerare anche la capacità limitata della nostra attenzione in quanto esperienza consapevole. Le informazioni a cui possiamo prestare attenzione consapevolmente e contemporaneamente sono quelle contenute nella memoria a breve termine che sono in numero limitato. Memoria a lungo termine: si tratta di un archivio dalla capacità potenzialmente illimitata dove vengono depositate, per alcuni minuti o per tutta la vita, le conoscenze che acquisiamo (nonché esperienze e fatti personali) da recuperare all’occorrenza. Le informazioni sono immagazzinate in modo tanto più efficace quanto più sono state elaborate, durante la fase di codifica effettuata dalla MBT. Nella MLT le informazioni possono essere recuperate per il riconoscimento dell’informazione nel registro sensoriale o per le elaborazioni che avvengono nella MBT. Vari studi su pazienti con lesioni cerebrali supportano l distinzione tra MBT e MLT. Vari ricercatori hanno infatti studiato casi di persone con lesioni cerebrali che possedevano una MBT intatta e una MLT compromessa o viceversa. Limiti del modello multi-magazzino Warrington e Shalice dimostrarono che il magazzino MBT non è unitario (ad esempio il paziente KF mostrava un oblio per lettere e numeri presentati nella modalità uditiva maggiore dell’oblio per stimoli visivi). Per quel che concerne la MLT, noi ricordiamo un’infinità di aspetti della nostra vita molto diversi tra loro, non pare ragionevole che tutte queste informazioni siano immagazzinate allo stesso modo. Altro punto debole è dato dal concetto di reiterazione come unico processo per il passaggio dalle informazioni dalla MBT alla MLT, infatti questo processo appare utile per il ricordo di liste di parole, ma non per il ricordo di un romanzo letto o di un episodio importante della nostra vita. Gli autori sono in genere concordi nel ritenere che la memoria a breve termine sia molto più complessa di quanto proposto nel modello multimagazzino. Un importante tentativo di formare una teoria più adeguata della memoria a breve termine fu realizzato da Baddeley e Hitch (1974). Gli autori propongono di sostituire l’espressione “memoria a breve termine” con “memoria di lavoro” (working memory) per superare l’idea che questa sia un magazzino passivo di informazioni. La memoria di lavoro non è descritta come un sistema unitario, bensì multicomponenziale. Essa include: un esecutivo centrale, e 3 sottosistemi, chiamati loop fonologico (o articolatorio), taccuino visuospaziale e buffer episodico. L’esecutivo centrale è responsabile del controllo dei processi esecutivi per la realizzazione delle azioni, della direzione dell’attenzione verso informazioni rilevanti, così come della soppressione di informazioni irrilevanti, della coordinazione di processi cognitivi che devono essere eseguiti in parallelo e della coordinazione dei 3 sottosistemi della memoria di lavoro. Il loop fonologico è costituito da un meccanismo di reiterazione dell’informazione uditivo-verbale e da un magazzino fonologico dove tale informazione viene mantenuta per breve tempo grazie al suddetto meccanismo. Ad esempio, quando si sta leggendo un libro la frase appena letta viene mantenuta fono logicamente in questo tipo di memoria mentre si scorre la frase successiva, collegando le informazioni in ingresso con quelle già possedute nella memoria a lungo termine. Il taccuino visuospaziale permette, invece, di mantenere e manipolare l’informazione visiva e spaziale. Anch’esso è composto da 2 sottosistemi: il primo specializzato nel riconoscimento di oggetti, il secondo nell’individuazione della loro posizione spaziale. Quando si sta leggendo il taccuino permette di riconoscere la forma delle lettere e la loro disposizione in righe diverse. Il buffer episodico, infine, integra temporalmente l’informazione (ad es. di tipo semantico) in una rappresentazione episodica. In questo modo esso fornisce un’interfaccia tra sottosistemi di memoria a lungo termine, specializzata per la memoria episodica (ad es. il richiamo di specifici eventi che integrano tempo, spazio ed emozioni), che costituisce una delle modalità con cui le informazioni sono codificate nella memoria a lungo termine. Grazie al buffer episodico nel mentre che si studia un libro ci si ricorda di altre situazioni in cui c’è capitato di studiare gli stessi concetti Diversi tipi di conoscenza Nella prospettiva cognitivista diventa importante, per studiare il modo di operare della mente e capire come funziona l’apprendimento, l’individuazione di diversi tipi di conoscenza che vengono utilizzati dai dispositivi di memoria per diversi scopi. Un’iniziale distinzione proposta con successo da Anderson(1976) è quella tra conoscenza dichiarativa e conoscenza procedurale. La conoscenza dichiarativa ha come oggetto fatti, oggetti e concetti (il sapere: nomi, significati, date regole). Tale conoscenza è consapevolmente accessibile, esprimibile in un formato verbale e , quindi, facilmente trasmissibile ad altri mediante il linguaggio. La conoscenza dichiarativa è stata ulteriormente suddivisa da Tulving in conoscenza semantica ed episodica. La memoria episodica immagazzina informazioni su episodi ed eventi che hanno una collocazione temporale, consentendo di ricordare che si ha un appuntamento tra qualche ora, che si è vista una certa persona la settimana prima, ecc. La memoria semantica si riferisce a quella conoscenza acquisita in forma astratta senza un riferimento di luogo o di tempo; essa comprende le conoscenze che un individuo ha sulle parole e altri simboli verbali, sui significati, sui referenti e le loro relazioni; è indispensabile all’uso del linguaggio. Tutto ciò che viene archiviato nella memoria semantica è accompagnato dalla sua referenza cognitiva, ossia una quantità anche dettagliata di informazioni viene organizzata in un’unica informazione riferita ad una classe precisa. La memoria episodica risulta maggiormente soggetta all’oblio, in quanto i dati immagazzinati possono subire interferenze ed essere più difficilmente recuperati, specialmente se non sono datati; al contrario, nella memoria semantica le informazioni sono inserite in strutture complesse di concetti e relazioni che le proteggono da interferenze con altri input. È l’organizzazione delle informazioni, infatti, che distingue nettamente i due tipi di memoria: nella memoria episodica si rilevano soprattutto forme di aggregazione basate sulla vicinanza temporale, mentre in quella semantica le forme di aggregazione sono varie, tra cui l’appartenenza categoriale e la somiglianza sintattica. La conoscenza procedurale ha come oggetto il saper fare, il saper come, ossia i modi e le procedure attraverso cui eseguire i compiti, il modo in cui usare un oggetto, un concetto o una strategia di soluzione di un problema (ad es. saper compiere le azioni necessarie a guidare un auto). Tale conoscenza ha un formato basato su sequenze di azioni ed è in genere non consapevole, automatizzata nel suo uso. Perciò non tutte le conoscenze procedurali immagazzinate nella nostra memoria sono accessibili, ossia non sempre sappiamo spiegare il procedimento seguito per svolgere un’operazione, ci rendiamo conto del risultato ma non sappiamo parlare del modo in cui ci siamo giunti. Possiamo essere in grado di verbalizzare la procedura che ci ha portato a risolvere un problema di geometria, ma non descrivere la posizione delle lettere sulla tastiera anche se scriviamo usando il computer. Quando le informazioni sono accessibili si parla di memoria esplicita, invece quando non lo sono si parla di memoria esplicita. La conoscenza procedurale ha un formato basato su sequenze di azioni. Le sequenze di azioni sono diverse, le più importanti sono 3 : - - scripts (o copioni) : sono sequenze di azioni compiute per realizzare uno scopo, organizzate nella memoria come singole entità. Sono utilizzati per affrontare i compiti della vita quotidiana (ad es. acquistare un vestito, guidare l’auto, cenare al ristorante). Gli scripts offrono importanti vantaggi: in primo luogo permettono di svolgere le routinarie azioni della vita quotidiana in modo automatizzato, senza dover impiegare una gran quantità di controllo consapevole su di esse. Un secondo vantaggio è che attività percepite come complesse durante il loro apprendimento possono diventare più semplici da gestire proprio perché il loro apprendimento ha consentito la creazione di nuovi scripts. Un terzo vantaggio è che lo scripts permette di fare previsioni sulle azioni che stanno per avvenire in una data situazione, consentendo di affrontarla efficacemente anche a livello di relazioni interpersonali. Gli scripts possono presentare però anche degli inconvenienti: quando ci lasciamo guidare dagli scripts rischiamo di agire in modo automatizzato senza tenere conto di tutti i fattori contestuali e senza affrontare una valutazione critica della situazione. Gli algoritmi: sono regole per la soluzione di problemi, che funzionano sempre; procedure efficaci per risolvere problemi ben definiti, ovvero problemi con risultato ottenibile attraverso una procedura si soluzione organizzata in una sequenza di azioni; - Le euristiche: sono procedure approssimative non sistematizzate per la soluzione di problemi che spesso funzionano ma non sempre; si usano con problemi mal definiti, ovvero che non hanno un risultato certo. L’euristica contiene dunque una sequenza di azioni basata su una conoscenza approssimata, che può essere influenzata da un cambiamento nelle condizioni su cui si basa. La ricerca successiva ha aggiunto anche la conoscenza autoregolativa, ossia la conoscenza che si ha di se stessi in quanto soggetti apprendenti e di come regoliamo il nostro apprendimento. Spesso in proposito si usa anche il termine “metacognizione”. La conoscenza metacognitiva consiste nella percezione che il soggetto ha rispetto alla difficoltà del compito e delle strategie messe in atto per affrontarlo. L’esperienza metacognitiva deriva dal livello di conoscenza del compito. Raggiungere un buon grado di riflessione metacognitiva significa essere consapevole di tutto il proprio processo di apprendimento, anche di ciò che spesso rimane a livello inconsapevole, allo scopo di migliorare le proprie strategie di apprendimento. Cognitivismo e apprendimento La teoria degli schemi Gli schemi, in quanto unità organizzate della memoria che rappresentano le nostre conoscenze relative ad oggetti, situazioni, eventi ed azioni, sono stati considerati come i “mattoni di costruzione dell’attività conoscitiva”, elementi di base da cui dipende tutta l’elaborazione dell’informazione. Lo schema è formato da un’insieme di informazioni che ci permette di comprendere una parte della realtà. Esso è una struttura cognitiva di rappresentazione della realtà che organizza in modo economico e funzionale gli elementi principali dell’evento o delle informazioni in esso rappresentate. Si forma attraverso la presentazione ripetuta di esperienze simili, dalla quale è possibile astrarre caratteristiche comuni. Gli schemi sono contenuti nella memoria a lungo termine. Rumelhart e Norman (1978) nella loro teoria degli schemi, descrivono l’apprendimento come un cambiamento dello stato della conoscenza del soggetto che può avvenire secondo 3 modalità: Per accrescimento: si verifica quando si inseriscono informazioni nuove nella struttura di uno schema preesistente. Si tratta, dunque, di un apprendimento che aggiunge nuovi casi agli schemi già appresi, senza che questi ultimi vengano sottoposti ad alcuna modifica. Ad esempio posso avere lo schema di “mammiferi” basato su due variabili: la riproduzione (che specifica che questi animali fanno nascere i loro piccoli vivi, senza deporre uova) e l’habitat (vivono sulla terra ferma). Anche se non ho mai visto un orso dal vivo, posso inserirlo, sulla base di questo schema, tra i mammiferi perché possiede tutte e due le caratteristiche previste dalle categorie del mio schema; Per sintonizzazione: avviene adattando e affinando lo schema già in possesso del soggetto. Ciò accade grazie a ripetute applicazioni di tali schemi che si modificano lentamente e progressivamente via via che i “casi” nuovi rendono le “variabili” sempre più potenti, ossia capaci di adattarsi alle nuove situazioni a cui vengono applicate. Le nuove informazioni sono solo parzialmente incongruenti con quelle che noi avevamo e di conseguenza gli schemi vengono leggermente modificati. Nel nostro esempio, posso scoprire che la balena, che vive in mare, non fa nascere i piccoli tramite uova e quindi devo prevedere che nella categoria “habitat” dello schema dei mammiferi sia inclusa la possibilità che vivano non solo in ambiente terrestre ma anche in quello acquatico (ovviamente è cognitivamente più costoso apprendere per sintonizzazione, piuttosto che per accrescimento); Per ristrutturazione: si realizza si realizza quando lo schema preesistente si rivela inadeguato a integrare le informazioni nuovi in corso di elaborazione. Si differenzia radicalmente dall’apprendimento per accrescimento in quanto, mentre quest’ultimo aggiunge “casi” a una struttura di categorie già disponibile, il primo impone una ristrutturazione delle categorie. Ad esempio, l’ornitorinco depone le uova, vive sia in acqua che sulla terra ferma e allatta i suoi piccoli, quindi nel mio schema di “mammifero” devo sintonizzare la categoria “riproduzione” includendo la possibilità che avvenga con o senza la deposizione di uova. Successivamente sarà necessario ristrutturare lo schema inserendo una nuova categoria “allattamento”, elemento cruciale che permette di distinguere i mammiferi dai pesci. Problem solving Si tratta di un processo cognitivo messo in atto quando si ha a che fare con un problema per cui non si ha a disposizione in modo evidente un metodo per risolverlo. I problemi possono essere categorizzati come ben definiti in cui la procedura è chiaramente esplicitata, mal definiti se invece la procedura è più difficile da individuare. Possono anche essere classificati come routinari se il soggetto possiede già una procedura per affrontarli, non routinari quando invece si deve inventare una nuova procedura risolutiva. Il problem solving può essere analizzato nelle componenti dei processi cognitivi che includono: - - rappresentazione: avviene quando il solutore del problema converte il problema dal suo formato “superficiale” in una rappresentazione mentale interna nei termini di una situation model; pianificazione: implica un metodo per risolvere il problema come ad esempio suddividerlo in parti; esecuzione: quando il solutore applica la procedura scelta; monitoraggio: consiste nel valutare l’appropriatezza e l’efficacia della soluzione applicata. L’apprendimento significativo è quello che avviene attraverso la soluzione di problemi e che consente di trasferire le strategie elaborate svolgendo una certa attività a nuovi problemi da risolvere. La strategia consiste in una serie di operazioni cognitive tra loro interdipendenti che vengono realizzate per affrontare un compito, che punta a raggiungere un obiettivo cognitivo (es. comprendere, memorizzare,ecc.) La teoria dell’istruzione Mayer e Wittrock definiscono il concetto di apprendimento significativo rifacendosi al modello del Select Organize Integrate (SOI) , che riprende le 3 componenti dell’architettura della mente di matrice cognitivista: memoria sensoriale, di lavoro e a lungo termine. Secondo questo modello l’apprendimento significativo richiede l’attivazione di 3 processi cognitivi principali: 1. selezionare le rilevanti provenienti dal materiale da apprendere; 2. organizzare mentalmente le informazioni in una struttura coerente; 3. integrare mentalmente la struttura organizzata con l’informazione già disponibile nella memoria a lungo termine allo scopo di utilizzarla per agire immediatamente o per immagazzinarla nella memoria a lungo termine. Mayer e Wittrock individuano 7 metodi coerenti con gli assunti del modello SOI: 1. Metodi che riducono il carico cognitivo: i 3 processi cognitivi avvengono nella memoria di lavoro che non ha tuttavia una capacità illimitata. Due metodi consentono di affrontare questo problema: l’automatizzazione orientata a favorire la padronanza dei processi di basso livello in modo da poter lavorare senza problemi ad alto livello (es. in un problema di matematica l’insegnante è interessato che il soggetto impari a memoria la formula in modo da applicarla in modo veloce ed automatizzato ) ; la rimozione dei vincoli in cui il compito è presentato in modo da non richiedere l’uso delle componenti di basso livello, ma solo quelle di alto livello, cioè di monitoraggio dei passaggi (uso della calcolatrice per i singoli calcoli); 2. Metodi basati su strutture: si tratta di metodi che prevedono la manipolazione di oggetti che possono innescare l’attivazione dei 3 processi cognitivi del modello SOI. L’obiettivo è aiutare chi apprende a creare connessioni tra una situazione concreta e familiare e un livello di conoscenza più astratto. Tali metodi sono spesso fondanti su ambienti di apprendimento basati sul computer. 3. Metodi basati sull’attivazione di schemi: sono orientati a facilitare l’integrazione tra conoscenze e nuove informazioni mediante l’attivazione di schemi già in possesso del soggetto che apprende e sono particolarmente efficaci con soggetti non esperti. Abbiamo 3 tipologie: organizzatori anticipati (ovvero materiale informativo sul tema presentato prima di una lezione), i pre-training (esperienze concrete presentate prima di una sessione di studio), le segnalazioni (l’aggiunta di materiale illustrativo che metta in evidenza le connessioni tra il contenuto del testo e le conoscenze già in possesso del lettore); 4. Metodi generativi: richiedono al soggetto che apprende di generare esplicitamente relazioni tra la conoscenza che ha già a disposizione e l’informazione che deve essere appresa. Tra questi troviamo: i metodi elaborativi (nei quali è esplicitamente chiesto allo studente di spiegare come il nuovo materiale da apprendere si ponga con quanto egli già sa), prendere appunti (per sintetizzare le informazioni nuove e creare nessi con quanto già noto), porsi domande (per ogni paragrafo letto cercare risposte nel testo e in ciò che già si sa); 5. Metodo della scoperta guidata: è finalizzato all’attivazione dei processi cognitivi di chi apprende mediante la risposta ad un problema da risolvere. Tali metodi sono più in linea con il modello SOI, rispetto a quello della scoperta pura (che tende a favorire processi di integrazione, stimolando la ricerca di conoscenze nella memoria a lungo termine integrandole con le nuove informazioni, ma non favorisce la selezione di info) e rispetto a quello dell’esposizione alla lezione del docente (che tende a favorire la selezione di info ma non la loro integrazione con quanto il soggetto già sa, in quanto non è particolarmente stimolato a dare un senso al materiale da apprendere). Solo il metodo della scoperta guidata, rispetto agli altri due, facilita i 3 processi del modello SOI. 6. Metodi basati sul modellamento: si fondano sull’azione di un esperto che mostra ad un non esperto come risolvere il problema e in alcuni casi fornisce spiegazioni sui vari passaggi (es. fornire esempi, apprendistato); 7. Metodi di insegnamento di abilità di pensiero: l’insegnamento diretto di abilità di problem solving può essere articolato su 2 direttrici: a) l’insegnamento di abilità di problem solving generale basato su corsi o programmi che tendono a promuovere abilità non legate a contenuti specifici; b) l’insegnamento di abilità di dominio specifiche. Cognitivismo e Costruttivismo L’idea di fondo dei teorici degli schemi è che la nostra mente è un sistema complesso di elaborazione delle informazioni, ciò che guida sono le strutture di rappresentazione della conoscenza. Ogni nuovo dato viene integrato e incorporato nelle strutture preesistenti che sono pertanto arricchite, modificate o ristrutturate anche radicalmente da nuove info. È da precisare che alcuni studiosi preferiscono parlare di “costruzione della conoscenza” anziché di apprendimento, proprio per differenziarsi dalla learning theory, tipica del comportamentismo, e sottolineare il ruolo attivo del soggetto che non registra passivamente quanto gli viene trasmesso dall’ambiente,ma elabora le info trasformandole. È a questo riguardo che si parla di COSTRUTTIVISMO . Se il costruttivismo si è interessato quasi esclusivamente agli aspetti cognitivi dell’apprendimento, il costruttivismo ha ampliato il campo di interesse, considerando anche le dimensioni motivazionali, culturali e sociali. Il costruttivismo vede il soggetto come attivo costruttore della sua realtà,mentre il cognitivismo cercava di modellizzare la mente, cioè cercava un modello in cui poter incasellare il funzionamento cognitivo di tutti gli esseri umani, prescindendo dai fattori contestuali. Un costruttivista cerca, invece, di capire il significato e la costruzione che il singolo individuo può fare di quella informazione. Costruttivismo e cognitivismo non sono in antitesi, uno si focalizza più verso una modellizzazione che sia valida per tutti, l’altro su una costruzione attiva da parte dell’individuo. Rapporto sviluppo-apprendiemnto Anche il cognitivismo, come il comportamentismo, non si interessa agli stadi dello sviluppo, pur (a differenza del comportamentismo) considerandoli compatibili, come nel caso delle teorie neopiagetiane. L’oggetto di ricerca sono le modalità di rappresentazione ed elaborazione delle info, nonché i processi mentali che migliorano le abilità cognitive. Emerge soprattutto l’importanza della task analysis per la comprensione del pensiero dell’individuo. È dall’analisi dettagliata di quanto il compito richiede cognitivamente che si possono ricavare elementi che aiutano a comprendere le difficoltà di elaborazione manifestate da uno studente. Metodo di ricerca Il cognitivismo condivide con il comportamentismo l’esigenza di adottare metodi sperimentali rigorosi e precisi . Vengono compiuti studi di laboratorio per esaminare aspetti diversi dell’elaborazione delle info durante l’esecuzione dei compiti. Svolgendo le ricerche in situazioni artificiali il cognitivismo più ortodosso mostra però poco interesse al contesto dell’apprendimento: l’individuo viene concepito come una mente razionale, isolata e decontestualizzata. Successivamente, però, gli studiosi hanno sentito l’esigenza di compiere studi “ecologicamente validi” basati sull’uso di materiali e compiti più realistici di quelli impiegati in laboratorio, pur nel rispetto della rigorosità metodologica. Cognitivismo in sintesi Focalizza e specifica le attività mentali che intervengono tra la presentazione di stimoli e la produzione di risposte; I processi di cognizione implicano più attività separate che operano in concreto; si possono distinguere ma se prese isolatamente non rendono conto della dinamica della cognizione umana; Molti aspetti della cognizione umana sono attivi e costruttivi; Il computer come metafora per la mente umana consente di generare ipotesi sulla cognizione umana; Le info sono rappresentate internamente per poter essere elaborate; la rappresentazione varia in base alla natura e al livello di astrazione; L’elaborazione è un’attività mentale che genera, manipola ,trasforma, conserva rappresentazioni, in sequenza o simultaneamente; Solo un insieme limitato di conoscenze è attivo in un determinato momento (memoria di lavoro), in quanto le risorse che abbiamo a disposizione per prestare attenzione consapevole sono limitate, ma fortunatamente molti processi avvengono automaticamente . Le critiche al cognitivismo La messa a punto di teorie che sostengono l’esistenza di distinti schemi di memoria implica necessariamente l’introduzione di dispositivi di controllo, che a loro vola devono essere controllati con il rischio di regressione all’infinito. È il cosiddetto limite dell’homunculus dei cognitivisti: ovvero la tentazione di ipotizzare l’esistenza di un’entità interiore che dovrebbe supervisionare tutti i dispositivi di memoria o di controllo per prendere decisioni, ma che a sua volta dovrebbe essere controllata da un’altra entità interiore e così via. Tale obiezione proviene da un approccio chiamato “connessionismo” che postula, invece, che la memoria sia una funzione distribuita a livello cerebrale e che i suoi processi avvengano in parallelo, senza bisogno di sistemi di controllo gerarchicamente superiori. La scarsa considerazione rivolta all’ambiente ecologico in cui il soggetto opera. Lo stesso Neisser esprimeva tale consapevolezza negli anni ’70, in cui poneva il problema di come rendere i modelli teorici elaborati compatibili con la vita reale e quotidiana delle persone, tenendo conto del modo in cui esse ragionano non a livello astratto ma in situazioni concrete. Scarsa attenzione è attribuita al contesto sociale e culturale in cui i processi cognitivi vengono messi in gioco ( critica rivolta dal socio-costruttivismo) , infatti, gli individui descritti dal cognitivismo sembrano “funzionare cognitivamente” tutti allo stesso modo, a prescindere dalla cultura di appartenenza e dalla situazione concreta in cui si trovano ad operare. Piaget e Vygotskij Piaget e Vygotskij rappresentano due capisaldi imprescindibili per la psicologia dell’educazione. La disamina di questi due autori aiuta a comprendere il rapporto tra sviluppo e apprendimento, il che significa definire quando e come dispiegare l’azione educativa, come e quando l’insegnante può intervenire garantendo il massimo dell’efficacia. Nel riflettere sul rapporto tra sviluppo e apprendimento le domande che ci si pone sono: occorre aspettare un livello di sviluppo adeguato e poi calibrare l’intervento educativo in base al livello accertato? Oppure l’interevento educativo può (o deve) anticipare lo sviluppo, in modo da sostenerlo e promuoverlo? Piaget e Vygotskij sono sicuramente gli autori che più di tutti consentono una riflessione articolata relativamente al rapporto tra strategie di insegnamento, di apprendimento e processi di sviluppo. Piaget: assimilazione, accomodamento, equilibrazione e teoria dello sviluppo Jean Piaget (Neuchatel, 1896- Ginevra, 1980) nasce da una famiglia borghese di intellettuali, con il padre docente universitario di letteratura medioevale. Da giovanissimo si appassiona agli studi di scienze naturali e degne di nota sono le sue osservazioni sul passero albino che rappresentano l’oggetto della sua prima pubblicazione. Ancora liceale, collabora con il Museo di scienze naturali della sua città natale curando in particolare la sezione dei molluschi da cui è affascinato a causa della loro capacità di adattamento. Incomincia a interessarsi alla psicologia dell’infanzia grazie all’influenza di Claparède, interesse che si consolida durante il suo soggiorno presso l’Università di Ginevra e di Parigi, dove lavora per l’istituto creato da Alfred Binet, collaborando allo sviluppo del famoso test per la misurazione del quoziente intellettivo (QI). Al suo rientro in Svizzera gli viene offerta la direzione dell’Istituto Jean-Jacques Rousseau di Ginevra e simultaneamente insegna Psicologia, Sociologia e Storia delle scienze sia a Ginevra che a Neuchatel. Sposa una sua studentessa, Valentine Chatenay ,da cui ha 3 figli che divengono oggetto di osservazione e studi, la vera fonte da cui Piaget ha tratto molte delle sue intuizioni e idee. Ci si può chiedere come mai Piaget passi dall’osservazione di organismi semplici allo studio dei bambini. Il punto comune sta, per Piaget, nel meccanismo che permette a questi organismi l’acquisizione della conoscenza, in altre parole Piaget osserva molluschi, passeri e bambini sempre con la stessa domanda in mente: come fanno a comprendere progressivamente la realtà entro cui vivono e agiscono, allo scopo di adattarvisi sempre meglio? Così come aveva osservato gli organismi semplici mettere in atto precisi meccanismi di adattamento al loro ambiente, ha successivamente osservato i bambini constatando come si andassero a formare idee precise su come funziona il mondo. Ad esempio, era colpito dalla convinzione espressa dai bambini che la luna segua le persone di notte durante le loro passeggiate, oppure che i sogni entrino dalle finestre. Da dove traggono queste idee i bambini? Non possono essere innate, perché altrimenti resterebbero immutate nel corso dello sviluppo né tanto meno possono essere apprese dagli adulti, perché gli adulti interpretano questo fenomeno in maniera diversa. Sono costruite dai bambini stessi, grazie all’incontro dinamico tra le loro strutture mentali e le esperienze che realizzano nel mondo. Questa spiegazione contiene in sé due aspetti importanti strettamente connessi tra loro: La visione della struttura della mente come modificabile con il tempo e con l’esperienza. Questo implica che la differenza tra le capacità mentali degli adulti e dei bambini non è solo quantitativa ma piuttosto qualitativa, consistente in una diversa organizzazione della struttura cognitiva determinata proprio dall’esperienza. La struttura cognitiva di base, secondo Piaget, è lo schema, ovvero un insieme di comportamenti, azioni, informazioni, interpretazioni capaci di guidare comportamenti intelligenti, ovviamente adeguati all’età considerata. Ad esempio, in un bambino piccolo potremo rintracciare lo schema di che cosa sia un cane e come ci si comporta di fronte ad esso; mentre in un adulto lo schema comprende anche il prendersi cura del cane o, eventualmente, come difendersi da un cane aggressivo. La capacità dei bambini di modificare gli schemi in base alle loro esperienze, ovvero la capacità di essere “costruttivi”. Il costruttivismo dei bambini si esplica attraverso 2 processi di natura biologica: l’assimilazione e l’accomodamento. L’assimilazione lascia lo schema inalterato preferendo, invece, elaborare le esperienze in modo da renderle spiegabili con lo schema disponibile; ciò avviene quando le informazione nuove ricevute sono congruenti o parzialmente congruenti con lo schema posseduto. Poniamo il caso di uno schema che permetta al bambino di interpretare il meccanismo per cui certi oggetti galleggiano e quelli pesanti affondano. Immaginiamo ora che un bambino che possieda tale schema si trovi di fronte ad un oggetto leggero che affonda, ad esempio una barchetta di carta. Nel tentativo di spiegare questo nuovo evento, imputerà l’assorbimento dell’acqua da parte della carta l’aver reso la barchetta pesante e, di conseguenza, spiegherà l’affondamento senza modificare lo schema iniziale ma assimilando la nuova informazione (la carta bagnata fa aumentare il peso) entro lo schema posseduto in quel momento. L’accomodamento, invece, induce un cambiamento dello schema: i dati osservati nel mondo non sono più spiegabili in nessun modo con lo schema attuale che necessariamente viene modificato. Per restare nell’esempio, immaginiamo che lo stesso bambino durante una passeggiata al porto osservi una nave: un oggetto pesante che galleggia. Lo schema per cui il galleggiamento/affondamento degli oggetti dipende dal loro peso viene definitivamente compromesso e occorre elaborarne uno nuovo, “accomodando” quello in uso. Le funzioni di assimilazione e accomodamento operano in modo sinergico l’una con l’altra, così da creare sempre nuovi equilibri tra il rafforzamento degli schemi già posseduti e la loro evoluzione verso nuovi schemi con sempre maggiore poter esplicativo della realtà. Questo meccanismo è definito da Piaget “equilibrazione” ed è il principale fattore ch spiega come mai alcuni bambini progrediscono più velocemente di altri. Piaget traccia così una linea di sviluppo che vede le capacità cognitive dei bambini inizialmente molto diverse da quelle degli adulti, anche se progressivamente le capacità cognitive dei bambini e degli adulti sono destinate a divenire sempre più simili tra loro. Questa progressione è possibile perché i bambini tendono a staccarsi sempre più dall’ancoraggio agli oggetti e dallo loro manipolazione, per progredire verso forme di pensiero simboliche, in cui non è più necessario che l’oggetto sia fisicamente presente ma può benissimo anche essere solo immaginato e pensato, così come sanno fare bene gli adulti. Sono questi i fondamenti che hanno permesso a Piaget di elaborare una teoria dello sviluppo, fondata su 4 stadi: Senso motorio (0-2 anni) Come suggerisce il nome, il bambino utilizza i sensi e le abilità motorie per esplorare e relazionarsi con ciò che lo circonda, evolvendo gradualmente dal sottostadio dei meri riflessi e dell'egocentrismo radicale (l'ambiente esterno e il proprio corpo non sono compresi come entità diverse) a quello dell'inizio della rappresentazione dell'oggetto e della simbolizzazione, passando attraverso periodi intermedi di utilizzazione di schemi di azione via via più complessi.; Preoperatorio ( 2-7/8 anni) In questo stadio il bambino è in grado di usare i simboli. Un simbolo è un'entità che ne rappresenta un'altra. Un esempio è il gioco creativo nel quale il bimbo usa, per esempio, una scatola per rappresentare un tavolo, dei pezzetti di carta per rappresentare i piatti ecc. Il gioco in questo stadio è appunto caratterizzato dalla decontestualizzazione, dalla sostituzione di oggetti per rappresentarne altri e dalla crescente integrazione simbolica. Anche l'imitazione differita rivela la capacità di usare i simboli, come pure il linguaggio verbale usato per riferirsi a esperienze passate, anticipazioni sul futuro o persone e oggetti non presenti sul momento. Superato l'egocentrismo radicale del periodo senso-motorio, in questo stadio permane però un egocentrismo intellettuale, ovvero il punto di vista delle altre persone non è differenziato dal proprio, il bambino cioè si rappresenta le cose solo dal proprio punto di vista. Per cui ad esempio spiegherà che "l'erba cresce così, quando io cado, non mi faccio male". Crede che tutti la pensino come lui e che capiscano i suoi pensieri; tipicamente se racconta una storia lo farà in modo che un ascoltatore che non conosce la storia non capirà nulla. Un famoso esperimento per verificare l'egocentrismo percettivo è l'«esperimento delle tre montagne», in cui si presenta al bambino un modellino con tre montagne visibili dal lago di Ginevra (quindi un paesaggio a loro ben noto) e gli si chiede come queste montagne vengano viste dalla bambola posta in un punto di osservazione diverso dal suo; tipicamente il bambino nella fase egocentrica (fino ai 6 anni) dirà che la scena vista dalla bambola è uguale a come la vede lui. Il ragionamento in questo stadio non è né deduttivo né induttivo, ma trasduttivo o precausale, dal particolare al particolare, cioè due eventi sono considerati legati da un rapporto di causa-effetto se avvengono nello stesso tempo. Ciò si traduce in una modalità di comunicazione piena di "libere associazioni", senza alcuna connessione logica, in cui il ragionamento si sposta da un'idea all'altra rendendo pressoché impossibile una ricostruzione attendibile di eventi; Operatorio concreto (dai 7/8 anni agli 11/12 anni) Il termine operazioni si riferisce a operazioni logiche o principi utilizzati nella soluzione di problemi. Il bambino in questo stadio non solo utilizza i simboli ma è in grado di manipolarli in modo logico. Un'importante conquista di questo periodo è l'acquisizione del concetto di reversibilità, cioè che gli effetti di un'operazione possono essere annullati da un'operazione inversa. Fra 2 e 5 anni il bambino non classifica gli oggetti secondo una proprietà ma li distribuisce a seconda della vicinanza spaziale. A 5-6 anni inizia a raggrupparli secondo una caratteristica. Prima del salto operatorio il bambino non è in grado di distribuire in serie più di 2 oggetti, ma questa non è un'incapacità come sostiene Piaget, quanto piuttosto un limite della memoria a breve termine. Intorno ai 6/7 anni il bambino acquisisce la capacità di conservazione delle quantità numeriche, delle lunghezze e dei volumi liquidi. Per conservazione si intende la capacità di comprendere che la quantità rimane tale anche a fronte di variazioni di forma. Il bambino nello stadio pre-operatorio, per esempio, è convinto che la quantità di liquido contenuto in un contenitore alto e stretto è maggiore di quella contenuta in un contenitore basso e largo (ma dotato dello stesso volume) e a nulla varranno dimostrazioni e travasi. Un bambino nello stadio delle operazioni concrete è invece in grado di coordinare la percezione del cambio di forma con il giudizio ragionato che la quantità di liquido spostato è la stessa, di "conservare" quindi il volume liquido. Intorno ai 7/8 anni il bambino sviluppa la capacità di conservare i materiali. Prendendo una palla di creta e manipolandola per trasformarla in tante palline il bambino è conscio del fatto che riunendo le palline la quantità sarà invariata. Questa capacità prende il nome di reversibilità. Intorno ai 9/10 anni è raggiunto anche l'ultimo passo della conservazione, la conservazione della superficie. Messo di fronte a dei quadrati di cartoncino si rende conto che occupano la stessa superficie sia che siano messi tutti vicini sia che siano sparsi; Operatorio formale (dopo gli 11-12 anni) Il bambino che si trova nello stadio delle operazioni concrete ha delle difficoltà ad applicare le sue competenze a situazioni astratte, cioè non presenti nella sua esperienza. Se un adulto gli dice: "Non prendere in giro Giulio perché è grasso, cosa diresti se lo facessero a te?" la sua risposta sarebbe "Io non sono grasso e perciò nessuno mi può prendere in giro". Calarsi in una realtà diversa dalla sua è un'operazione troppo astratta. A partire dai 12 anni il bambino riesce a formulare pensieri astratti: si tratta del cosiddetto pensiero 'ipotetico-deduttivo', grazie al quale il bambino può riferirsi mentalmente ad oggetti non presenti nella sua esperienza, ma soltanto ipotetici, e ricavare da essi tutte le possibili conseguenze logiche. Il soggetto è ora in possesso degli stessi schemi di pensiero dell'adulto ed in particolare dello scienziato, che per Piaget rappresenta il punto terminale dello sviluppo cognitivo umano. Questi stadi disegnano una parabola di progressivo affrancamento, da parte del bambino, dal bisogno di un contatto fisico con il mondo e di manipolare concretamente gli oggetti verso il pensiero logico-formale, seguendo un percorso biologicamente definito, di cui l’attore principale è il bambino stesso che riesce a far evolvere i meccanismi cognitivi sottostanti a ciascun periodo, grazie anche alle stimolazioni ambientali e sociali a cui è esposto. Muoversi lungo questa linea evolutiva significa, secondo Piaget, passare da un iniziale pensiero egocentrico, che non permette di immaginare un mondo diverso da quello proprio, mancando quindi di distinguere il proprio punto di vista da quello altrui, a un pensiero capace di ragionare per simboli e di rappresentarsi l’altro. Durante le prime fasi dello sviluppo il mondo esterno, gli altri e gli oggetti che lo compongono esistono in quanto prolungamenti del Sé; ad esempio un certo giocatolo esiste solo quando il bambino lo vede e lo tocca e viene considerato come parte di Sé, senza riuscire a distinguere i confini tra il Sé e l’altro da sé. Il passaggio da uno stadio all’altro implica il progressivo riconoscimento dell’altro come diverso da sé, portatore di punti di vista differenti dal proprio. Piaget dimostra queste ipotesi con alcuni test, ad esempio quello “delle tre montagne”. Piaget può essere definito un cognitivista perché quando individua gli stadi si sta occupando di funzioni mentali. Piaget, però, più che il funzionamento cognitivo aveva approfondito lo sviluppo attraverso l’osservazione del bambino. Egli descriveva dal punto di vista pratico ciò che osservava nel bambino e l’avanzare del suo sviluppo. Gli strumenti da lui usati erano principalmente: - osservazione ; - colloquio; - compiti (dove egli faceva delle domande ai bambini). Il ruolo dell’apprendimento per Piaget Secondo Piaget le idee nascono dall’incontro tra le strutture mentali e l’esperienza che i bambini realizzano nel mondo. A suo parere l’apprendimento si adegua allo sviluppo: occorre accertarsi prima in quale periodo si trovi il bambino, quale livello di sviluppo abbia raggiunto, quali sono le sue capacità cognitive maturate e, conseguentemente, progettare e realizzare azioni di interevento educativo adeguate. Seppure i bambini siano capaci sin dalla nascita di sviluppare schemi sulla base di ciò che sanno fare spontaneamente e in modo innato, il contesto sociale, gli adulti e la scuola contribuiscono enormemente a strutturare situazioni e stimoli in grado di sollecitare e indirizzare in modo adeguato questa naturale capacità del bambino. Pertanto la conoscenza non va semplicemente trasmessa ma occorre creare situazioni in cui possa essere acquisita attivamente, costruita e ricostruita da chi apprende. Per Piaget il modo migliore per ottenere questo effetto è permettere ai bambini di manipolare gli oggetti, in quanto è proprio attraverso l’azione sugli oggetti che diventa possibile acquisire efficacemente nuove informazioni e conoscenze. L’adulto deve comprendere quando un bambino è pronto a svolgere una certa azione, a ricavarne dati utili e utilizzabili, quando i requisiti necessari sono maturi. In altre parole, l’adulto deve saper riconoscere il livello cognitivo e intellettivo del bambino, gli schemi attivi in quel momento, lo stadio in cui si trova e adeguare di conseguenza il suo intervento. I bambini possono apprendere nozioni e concetti che richiedono quelle abilità cognitive che contraddistinguono il periodo in cui sono, mentre è inutile proporre loro attività e concetti che richiedono abilità più alte. L’educatore deve cercare di entrare il meno possibile nel processo di apprendimento, ma non per questo il suo ruolo è meno importante. Il suo compito è quello di predisporre un ambiente facilitante nel quale l’individuo può fare le sue esperienze, avendo fiducia nella capacità di imparare da solo del bambino. La sua funzione è quella di un facilitatore dell’apprendimento attivo, perché il bambino deve esplorare autonomamente l’ambiente per accrescere il proprio sviluppo cognitivo. Di conseguenza, i curricoli ispirati alle teorie piagetiane propongono una filosofia centrata sullo studente a cui è chiesto di essere attivo costruttore delle proprie conoscenze. Questo implica allestire ambienti stimolanti che diano la possibilità di assimilare e accomodare attraverso l’esplorazione, la manipolazione, la sperimentazione, il porre domande e cercare da soli le risposte. Gli insegnanti dovrebbero occuparsi di preparare e predisporre situazioni e occasioni stimolanti che permettano agli studenti di scoprire e imparare autonomamente. Adulti, insegnanti e formatori devono avere fiducia che i bambini siano in grado di imparare da soli e devono preoccuparsi di capire quali siano gli stimoli e le situazioni per loro adeguati in modo da sostenere lo sviluppo ma anche garantire una formazione intellettuale e morale. Infatti, le regole e i sentimenti morali non sono, secondo Piaget, caratteristiche innata, ma piuttosto si formano gradualmente e hanno bisogno di un ambiente sociale adeguato, che favorisca un’elaborazione attiva da parte del soggetto. Per ottenere questo risultato non ci si può solo limitare a una semplice trasmissione o imposizione di regole e conoscenze precostituite. È in tal senso che Piaget parla di “diritto all’educazione”, ovvero, il diritto di ciascun bambino alla costruzione delle proprie strutture mentali e dei propri principi morali, in interazione con un ambiente sociale e formativo (la scuola) che offra metodi e tecniche adeguate. Vygotskij : il problema della conoscenza, il materialismo storico e le zone di sviluppo prossimale Lev Semënovič Vygotskij, nasce nello stesso anno di Piaget (1896) a Orsha , una cittadina della Bielorussia e muore a Mosca a soli 38 anni (1934). La sua vita potrebbe essere divisa in 2 parti: la prima parte dalla nascita fino al 1924, l’anno in cui comincia ad essere considerato uno dei maggiori intellettuali russi, e dal 1924 fino alla sua precoce scomparsa dovuta alla tubercolosi. La prima parte della sua biografia vede crescere un ragazzo felice, un fine e appassionato intellettuale che fa parte di una famiglia numerosa e benestante di origine ebraica. Essere ebrei a quei tempi in Russia significava essere discriminati e vivere in condizioni di restrizioni (ad es. era stabilita una quota fissa di ebrei che poteva accedere agli studi universitari). Ma grazie alle condizioni agiate della famiglia, Vygotskij riceve una buona istruzione, frequenta scuole private e studia con un mentore che lo abitua a sofisticati ragionamenti socratici. Mostra ottime abilità di discussione e, ancora adolescente, sembra possedere capacità di grande oratore, tanto da guadagnarsi il nomignolo di “piccolo professore”. Più tardi dopo essersi iscritto alla facoltà di Medicina, decide di conseguire la Laurea in Legge all’Università di Mosca nel 1917 e coltiva un grande interesse per la letteratura, la linguistica, l’arte, il teatro, le scienze sociali, la filosofia e la psicologia. Probabilmente, proprio l’interesse per il linguaggio e la letteratura costituisce la base del suo lavoro relativo allo sviluppo cognitivo. Subito dopo essersi laureato, Vygotskij insegna letteratura in una città di provincia della Russia occidentale, dove tiene anche lezioni e laboratori di Estetica, Storia dell’arte e Scienze. Durante questi anni incontra bambini con deficit congeniti quali cecità, sordità e ritardi mentali e si appassiona nel cercare un metodo per aiutare questi ragazzi a realizzare il loro potenziale. Il punto di svolta nella vita di Vygotskij, da cui prende avvio la seconda parte della sua storia, scaturisce dal suo intervento nel 1924 al Congresso nazionale di psiconeurologia, occasione in cui Alexander Lurjia resta colpito dalla genialità di quel giovane sconosciuto che parla del difficile rapporto tra riflessi condizionati e comportamento cosciente. Vygotskij diventa l’ispiratore di una nuova psicologia basata sul marxismo, che aspira a contribuire alla costruzione di un nuovo Stato socialista. Dalla tradizione marxista Vygotskij prende l’idea del materialismo storico e la applica alla struttura della psiche. Così come per Marx le condizioni economiche e il tipo di produzione determinano l’insieme dei processi spirituali e culturali che costituiscono la civiltà umana (quindi anche la politica, la morale, la religione, l’arte, ecc.) similmente per Vygotskij il contesto storico-sociale ed economico determina la struttura psicologica degli individui. In aperto contrasto con la psicologia del profondo di stampo freudiano, Vygotskij rifiuta l’idea di una psiche determinata in età precoce, radicata nel passato, governata da leggi inconsce e inconsapevoli. La struttura psicologica degli esseri umani si determina e si modella, invece sulla base dell’agire nel mondo, manipolando oggetti e svolgendo azioni intenzionalmente rivolte verso la produzione. Lo studioso ha individuato nella relazione tra individuo e ambiente, mediata dalla cultura, il cardine dello sviluppo cognitivo, di cui ha distinto la matrice biologica da quella culturale. La matrice biologica, che determina la maturazione organica degli esseri viventi, riguarda processi psichici elementari (ad es. la percezione), contraddistinti da una risposta immediata verso gli stimoli ambientali, ossia una risposta non soggetta a controllo. La matrice culturale, al contrario, si riferisce alle funzioni mentali superiori, tipiche degli esseri viventi umani, sviluppate attraverso l’interazione dell’individuo con gli strumenti della propria cultura. Tali funzioni (ad es. il linguaggio) hanno infatti un’origine sociale e sono oggetto di controllo e consapevolezza da parte dell’individuo. Lo studioso rimprovera alla psicologia a lui contemporanea di studiare il comportamento individuale in laboratorio, separando la cognizione dall’interazione sociale in cui si manifesta, come se quest’ultima derivasse dalla prima. Il processo sociale evidenziato da Vygotskij riguarda il rapporto tra individui coinvolti nell’interazione in piccoli gruppi, mediata dall’uso di strumenti prodotti dalla cultura e trasmessi di generazione in generazione, di cui devono appropriarsi nel corso dell’ontogenesi. Lo psicologo russo ha distinto gli strumenti tecnici da quelli psicologici. Gli strumenti tecnici sono rivolti al mondo esterno e attraverso essi ci adattiamo all’ambiente (es. una penna); gli strumenti psicologici (scrittura, calcolo,linguaggio, opere d’arte, mappe,ecc.) detti anche segni, sono più rivolti verso l’interno per influenzare e controllare psicologicamente il comportamento e sono decontestualizzati dal contesto che li ha inventati (ad es. i fenici inventarono la scrittura -strumento psicologicoesclusivamente per fini commerciali, ma noi oggi la usiamo per molto altro, quindi si è decontestualizzata rispetto al contesto in cui è nata). I processi mentali hanno uno sviluppo culturale in quanto vengono trasformati dagli strumenti psicologici: ad esempio, il linguaggio scritto usato per ricordare meglio qualcosa, trasforma la memoria stessa oltre che per aiutarla, mettendo l’individuo in grado di essere consapevole di tale funzione e di poterla controllare. Lo sviluppo cognitivo, contrassegnato da una capacità sempre più forte di autoregolazione , è dato dall’interiorizzazione di strumenti psicologici dalla duplice natura sociale: sono il prodotto di una cultura che si manifesta nell’evoluzione delle attività sociali e sono mezzi utilizzati inizialmente sul piano iterpsicologico in contesti di interazione sociale. Secondo Vygotskij, la psicologia deve occuparsi del problema della formazione della coscienza (invece che dell’inconscio) se vuole comprendere quei comportamenti complessi, tipici degli esseri umani, e non limitarsi a studiare comportamenti vicini alla riflessologia come quelli studiati dai comportamentisti, oppure processi inconsci come quelli indagati dalla psicoanalisi e dalla psicologia dinamica. È l’azione svolta con il supporto di strumenti che crea il pensiero. Si tratta di azioni che entrano a far parte delle Funzioni Psichiche Superiori (FPS), specifiche degli esseri umani, che si contrappongono alle Funzioni Psichiche Inferiori (FPI), che invece accomunano tutti gli esseri viventi. La relazione tra questi due tipi di funzioni non mai stata chiarita in modo definitivo da Vygotskij: per certi versi le FPI sembrano prerequisiti per le FPS (ad esempio la capacità di memorizzare in modo involontario è il presupposto per sviluppare capacità di ricordo volontario e controllato; a volte, invece, le FPS sono descritte come indipendenti dalle FPI e sembrano svilupparsi attraverso attività formali e socialmente strutturate, come quelle che avvengono in contesti formali. In ogni caso Vygotskij ritiene che le capacità cognitive entrano a far parte delle FPS dopo aver attraversato 3 momenti: prima come abilità di per sé, poi come abilità per gli altri e, infine, come abilità per se stessi. Per chiarire, Vygotskij fa l’esempio dello sviluppo del gesto dell’indicare: inizialmente si tratta di tentativi, spesso fallimentari, di afferrare l’oggetto desiderato, quindi in realtà non è propriamente un gesto indicatore ma l’adulto lo interpreta come tale; questo tipo di uso del gesto è un’abilità di per sé. In seguito, il bambino diventa consapevole della reazione provocata nell’adulto dal suo gesto e comincia ad usarlo intenzionalmente per ottenere qualcosa, per far si che l’adulto gli presti attenzione e faccia qualcosa per lui; ora questo gesto è un’abilità funzionale all’interazione con gli altri. Infine, quando il bambino raggiunge la piena padronanza di questo gesto, indicare diventa uno strumento per regolare la propria azione nel mondo, come quando, ad esempio, si porta il segno con il dito mentre legge o si indica un punto preciso in una mappa mentre la si esplora; finalmente il gesto dell’indicare è divenuto un’abilità per sé stessi. Questo esempio chiarisce anche come, per Vygotskij, un processo interpersonale (che riguarda il bambino e l’adulto) si trasformi successivamente in un processo intrapersonale, interiore. Se ne ricava una legge generale che regola lo sviluppo per cui ogni funzione psicologica compare sempre 2 volte: dapprima a livello sociale, fra gli individui (INTERPSICOLOGICA) e solo successivamente a livello individuale, come forma interiorizzata (INTRAPSICOLOGICA). La dimensione sociale è, quindi, il vero promotore dello sviluppo inteso come movimento verso forme nuove di pensiero intersoggettive costituite dall’interiorizzazione dell’altro, di quanto appreso durante l’interazione e grazie al quale le persone riescono a coordinarsi. Esemplificando, il linguaggio permette al bambino di comunicare con gli altri, di regolare il loro comportamento chiedendo che facciano o che gli diano qualcosa così come essere a sua volta regolato dagli altri, facendo quello che gli dicono. Le attività interpsichiche vengono gradualmente interiorizzate, diventando individuali e intrapsichiche, per cui il bambino è in grado di regolare il proprio comportamento e di progettare le proprie azioni. In un primo tempo riesce a farlo solamente parlando da solo a voce alta, come quando commenta cosa sta disegnando o a cosa sta giocando, oppure quando annuncia quello che farà. Successivamente il linguaggio viene via via interiorizzato fino a quando non è più avvertita la necessità di parlare a voce alta o bassa (circa 7-8 anni). In quel momento, il bambino dispone di un linguaggio interiore tramite cui pensare a ciò che sta facendo o intende fare. Attraverso il linguaggio interiore sono rese possibili anche altre attività psichiche, come il ragionamento. Il bambino può ragionare dentro di sé guardando da più punti di vista un fenomeno come se dovesse sostenerli a chi non li condivide o li critica. Ciò significa che svolge sul piano individuale e interiore un’attività che prima sapeva eseguire solo sul piano sociale, esterno, ovvero l’interiorizzazione delle modalità della discussione con altri interlocutori diventa ragionamento come attività intrapsichica. Tutte queste intuizioni sono esposte nell’opera più conosciuta di Vygotskij, “Pensiero e linguaggio”, conosciuta in occidente dopo la prima traduzione in inglese a partire dagli anni ’60. Su ampia scala Vygotskij considera o sviluppo delle funzioni mentali come una transizione dalla loro originale funzione inferiore verso funzioni sempre più complesse. Pertanto, considera le FPI come geneticamente ereditate, la loro struttura non socialmente o culturalmente mediata, involontarie e autonome rispetto ad altre funzioni psichiche. Di converso, le FPS sono culturalmente determinate, svolgono funzioni volontarie e sono strettamente correlate tra di loro. Tante funzioni superiori hanno origine sociale. Fondamentale è l’interazione tra l’individuo e l’ambiente mediata dalla cultura. Per Vygotskij gli strumenti tecnici e psicologici creati dalla cultura mediano il rapporto con l’ambiente: ad esempio attraverso lo smartphone posso parlare con persone che sono a 800.000 km di distanza; la scrittura media il nostro rapporto con l’ambiente, attraverso essa io posso tramandare delle cose, ricordarle, inviarle. La psicologia proposta da Vygotskij ha, quindi, come oggetto di studio privilegiato il comportamento umano complesso, che riguarda le attività quotidiane finalizzate alla realizzazione di obiettivi concrete e che necessitano di coordinamento sociale. Di fatti la teoria vygotskijana è spesso denominata “teoria delle attività” e si occupa anche dell’evoluzione storica delle attività e della loro dipendenza dal contesto allo scopo di ricavarne informazioni sul funzionamento della psiche, presupponendo un rapporto speculare tra attività e psiche: osservando come gli uomini svolgono azioni complesse si possono dedurre funzione e struttura psicologica degli attori di tali azioni. Le attività che gli uomini svolgono sono sempre più complesse sia considerando lo sviluppo individuale che lo sviluppo della specie: e come se lo sviluppo individuale fosse in grado di capitalizzare lo sviluppo della specie grazie ad un’eredità storico-culturale tra una generazione e l’altra, tanto da ritrovarsi ad affrontare fasi e ritmi di sviluppo sempre più accelerati. Vygotskij, infatti, concettualizza lo sviluppo verso nuove ZONE DI SVILUPPO PROSSIMALE (ZOPED) non definite a priori, i cui punti di partenza e arrivo sono sempre più avanzati proprio grazie all’accumulazione intergenerazionale. ZOPED è un acronimo, una sorta di artefatto multilingue in quanto non è né in lingua italiana, né in lingua inglese (in cui viene detto Zone fo Proximal Development ) ma è facilmente pronunciabile: ZO è la prima sillaba di “zona”, la sillaba PE si riferisce alla prima e all’ultima lettera di “prossimale”, D è la prima lettera della parola “development”. La ZOPED è definibile nei termini della distanza fra il livello di sviluppo attuale di un individuo, ossia il livello di abilità manifestata quando svolge un compito individuale, e il livello di sviluppo che lo stesso individuo può raggiungere quando svolge il medesimo tipo di compito con l’aiuto o la collaborazione di un adulto o di un coetaneo più abile. Vygotskij ha formulato questo concetto nell’ambito della valutazione delle abilità cognitive dei bambini con ritardo nello sviluppo, convinto che si dovesse determinare non tanto il livello effettivo di abilità da loro acquisite, bensì il potenziale, che non può emergere utilizzando solamente strumenti di misura individuali: una concezione dinamica della rilevazione dell’età mentale veniva quindi proposta in alternativa ai test mentali che offrivano misure statiche. Le funzioni mentali in corso di sviluppo nel bambino venivano osservate, secondo Vygotskij, laddove si sviluppano, ossia nelle interazioni con il proprio ambiente. Affinché si verifichi un salto nella prestazione vi deve essere un soggetto più esperto (spesso un adulto ma anche un pari con un livello sviluppo più avanzato)che indirizzi l’allievo verso l’acquisizione del nuovo apprendimento (il concetto di ZOPED sembra avvicinarsi molto a quello di conflitto socio-cognitivo dei neopiagetiani). Lo sviluppo si configura, così, come un passaggio da una zona di sviluppo attuale, ovvero la zona delle capacità raggiunte e consolidate,a una zona di sviluppo prossimale vicina a quella attuale che già contiene i “semi” delle capacità che sbocceranno nella nuova zona. La differenza con la teoria di Piaget è profonda: lo sviluppo non è autodiretto dal bambino stesso, che è capace di passare da una struttura all’altra; è invece etero diretto dal contesto che deve stimolare, attivare il meccanismo di passaggio da una zona attuale a una prossimale. Con questa concettualizzazione Vygotskij tenta di superare la visione genetica dello sviluppo proposta da Piaget e mette maggiormente in primo piano gli aspetti sociali dello sviluppo. Uno degli aspetti della ZOPED su cui insiste Vygotskij è la natura dell’unità dello sviluppo. Lo sviluppo verso nuove di sviluppo prossimale è un processo caratterizzato da un progressivo ampliamento non solo quantitativo ma anche qualitativo delle FPS che risultano sempre più interconnesse, composte da dimensioni materiali e mentali, sociali e individuali. Pertanto accedere ad una nuova ZOPED implica uno sviluppo globale, come persona, e nuove funzioni psichiche possono emergere mentre alcune vecchie funzioni psichiche possono emergere mentre alcune vecchie funzioni possono scomparire. Questo significa che l’unità di sviluppo non resta invariata ma, al contrario, varia inevitabilmente, diventando sempre più complessa. Questa crescente complessità è dovuta anche al radicamento nel contesto storicoculturale dello sviluppo ed è per questo che Vygotskij finisce con il considerare la ZOPED non tanto come una qualità dei singoli individui e nemmeno come una caratteristica del contesto ma piuttosto come uno spazio simbolico che emerge dall’interazione tra individui e contesto. Il concetto di ZOPED ha portato lo studioso russo a impiegare il metodo della “doppia stimolazione” nello studio della formazione di strumenti cognitivi individui che svolgono attività concrete. Veniva presentato un compito ritenuto al di sopra delle loro possibilità, in quanto non avrebbero potuto risolverlo con gli strumenti a disposizione, il compito, quindi, doveva essere moderatamente sfidante, cioè non troppo difficile rispetto alla sue capacità (altrimenti si creerebbe un blocco motivazionale) ma abbastanza elevato da essere stimolante e motivare all’apprendimento. Era allora fornito loro un insieme di altri strumenti (non solo oggetti fisici, ma soprattutto suggerimenti, domande per aiutarli a focalizzare l’attenzione sugli aspetti centrali del compito, esempi) al fine di osservare se e come potessero eseguire il compito utilizzandoli, il bambino in tal modo riusciva ad eseguire il compito. L’effetto di questo metodo era che la volta successiva che il bambino si ritrovava ad affrontare un compito simile da solo riusciva a risolverlo, avveniva un incremento della prestazione e della capacità cognitiva del bambino. Si compiva la zona di sviluppo prossimale. Al concetto di ZOPED è anche legata la distinzione tra concetti spontanei e concetti scientifici, che sono ritenuti svilupparsi in direzione opposta: dal basso verso l’alto i concetti spontanei, ossia dall’esperienza concreta all’uso astratto; dall’alto verso il basso i concetti scientifici, in evoluzione dal piano astratto a quello più concreto. I concetti spontanei sono appresi dai bambini usando il linguaggio quotidiano: il concetto di “nonna”, ad esempio, viene usato concretamente, ma non definito, né utilizzato in contesti astratti. Di questi concetti, che svolgono una funzione conoscitiva pratica, essi non hanno consapevolezza metalinguistica. I concetti scientifici, ad esempio quelli di “borghese” e “capitalista”, sono invece appresi in modo astratto, decontestualizzato, tramite il linguaggio sulla base di definizioni, tanto che inizialmente, non sono rapportati a contesti concreti. Se i concetti spontanei si sviluppano dal basso verso l’alto, in quanto procedono dall’esperienza concreta all’uso astratto, i concetti scientifici si sviluppano in direzione opposta, dall’alto verso il basso, acquistando concretezza solo in un secondo momento. È proprio l’interazione tra i due tipi di concetti e le loro diverse linee di sviluppo che ci riporta al concetto di ZOPED. Come i concetti scientifici possono aiutare i bambini a utilizzare consapevolmente i concetti spontanei che diventano più sistematici, così questi ultimi formano la base per la comprensione effettiva di quelli scientifici. Tale interazione tra spontaneo e acquisito riflette tutta l’importanza attribuita da Vygotskij all’istruzione per promuovere lo sviluppo. Coniando il concetto di ZOPED, lo studioso dimostrava di nutrire una fiducia profonda nell’istruzione e nella sua possibilità di mettere in moto lo sviluppo: l’apprendimento, infatti, non deve limitarsi a seguire lo sviluppo, adeguandosi ad esso, bensì introdurre qualcosa di nuovo. L’istruzione ha il compito di agire nella zona delle possibilità, ossia attivare processi evolutivi che possono manifestarsi solo quando il bambino interagisce con i pari o altre persone del suo ambiente, perché l’unico buon apprendimento è quello che anticipa lo sviluppo. L’apprendimento è quindi necessario allo sviluppo delle funzioni psicologiche del bambino che viene distinto sul piano ontogenico in sviluppo naturale, di matrice biologica (processi cognitivi elementari quali percezione e memoria spontanea) e culturali (funzioni psicologiche superiori quali il linguaggio), ed è concepito come un processo dialettico, contraddistinto sia da irregolarità sia da ricorrenze, da trasformazioni qualitative, dall’intrecciarsi continuo di fattori interni ed esterni. Vygotskij sottolineava come la pratica dell’adeguare l’istruzione ai livelli di sviluppo effettivo, rilevati attraverso l’uso di test, non fosse produttiva, specialmente (ma non solo) per i bambini con ritardo mentale, i quali, poiché presentavano carenze sul piano del pensiero astratto, venivano sottoposti a metodi di insegnamento caratterizzati da concretezza (“guarda-e-fai”), impedendo quindi il superamento delle carenze stesse. Proprio in considerazione del fatto che i bambini con ritardo mentale, se sono lasciati a se stessi, non raggiungeranno mai forme elevate di pensiero astratto, la scuola dovrebbe attuare tutto lo sforzo possibile per portarli in quella direzione, cercando di sviluppare ciò che in loro manca. La concezione vygotskijana si discosta da quella comportamentista che riduce lo sviluppo ad apprendimento, ossia all’acquisizione di una serie di associazioni stimolo-risposta o di abilità che si accumulano gerarchicamente l’una sull’altra, ma anche da quella piagetiana che considera lo sviluppo indipendente dall’apprendimento, in quanto il primo è ritenuto una precondizione per il secondo, ma mai il suo risultato (ossia che lo sviluppo si verifica in seguito all’apprendimento). Piaget sosteneva, infatti, che l’apprendimento segue lo sviluppo in quanto dipendente dai suoi meccanismi: se determinate funzioni mentali (operazioni intellettuali) non sono ancora maturate in un bambino, non si può fargli apprendere qualcosa che le richiede; l’insegnamento prematuro di un concetto o argomento è un’operazione inutile, nonché fallimentare. Il concetto di READINESS (essere pronti all’apprendimento) ben illustra la tesi piagetiana sull’importanza dell’adeguamento dell’istruzione alle fasi dello sviluppo che non possono essere accelerate, del rispetto della successione con cui i concetti si presentano nello sviluppo cognitivo spontaneo (ad es. la conservazione), nonché della funzione diagnostica dell’insegnante chiamato a determinare a quale stadio di sviluppo si trovi un allievo. Il ruolo dell’apprendimento per Vygotskij La concezione di sviluppo di Vygotskij conduce verso un rapporto con l’apprendimento di segno opposto rispetto a quello ipotizzato da Piaget: l’apprendimento precede lo sviluppo e lo determina. È proprio attraverso l’intervento dell’altro di un pari più capace che si possono risolvere nuovi problemi, affinare le capacità cognitive e accedere a nuove ZOPED. Promuovere l’apprendimento, quindi, significa promuovere nuove ZOPED. Le ZOPED sono spazi simbolici di interazione e comunicazione dove l’apprendimento induce lo sviluppo. Per Vygotskij le ZOPED hanno contemporaneamente una componente soggettiva e una componente sociale. La prima è basata sull’imitazione: si impara ad essere attivi in certi contesti inizialmente imitando gli adulti e poi diventando gradualmente sempre più autonomi e indipendenti. L’imitazione permette di muoversi da ciò che già si sa fare verso quello che ancora non si sa fare con l’aiuto di qualcuno. È anche evidente l’importanza della relazione con l’adulto o un pari più capace, ed è questo aspetto che costituisce la componente sociale. La modalità con cui si struttura tale relazione è definita SCAFFOLDING. Letteralmente “impalcatura” (nella quale io posso introdurre nuovi “scaffali”, nuove strutture cognitive), lo scaffolding è un’azione complessa, composta da diverse fasi. La prima è proprio quella dell’imitazione, considerata il punto di partenza con cui si pongono le basi della relazione adulto-bambino o esperto-novizio. Durante questa fase l’insegnante fa vedere come si fa, come si svolge l’azione e fornisce così un modellamento. Segue la fase dell’appropriazione, durante la quale il novizio si appropria di parti sempre più rilevanti di azione, effentuandole da solo ma sotto la sorveglianza dell’adulto. Si procede, così, gradualmente verso la dissolvenza dell’intervento dell’adulto, che è sempre meno presente e che lascia sempre più spazi di autonomia. Alla fine il novizio sarà in grado di svolgere l’azione da solo e potrà anche aggiungere, allo stile dell’esperto che ha inizialmente imitato, qualche elemento di originalità relativamente al modo con cui si svolge tutta o parte dell’azione. Obiettivo finale è rendere lo studente capace a sua volta di offrire scaffolding a un pari meno esperto. L’adulto, l’esperto, resta un punto di riferimento con cui confrontarsi simbolicamente, un modello interiorizzato dell’expertise, una sorta coach, di allenatore che offre stimoli e supporto per migliorare continuamente l’attività. Nel momento in cui il bambino ha difficoltà nel compito, Piaget non avrebbe offerto il proprio aiuto, ma avrebbe lasciato che il bambino cercasse di raggiungere l’obiettivo autonomamente; Vygotskij invece, nel momento il cui bambino si fosse trovato in difficoltà, sarebbe intervenuto attraverso il processo di scaffolding per creare nuove zone di sviluppo prossimale. Vygotskij stesso offre alcuni esempi illuminanti di come effettuare lo scaffolding. Una modalità consiste nel mostrare al bambino come dovrebbe essere risolto un certo problema e poi guardare se riesce a risolverlo da solo, imitando quanto appena osservato. Oppure, l’adulto comincia a risolvere il problema e poi chiede al bambino di completarlo. Un’ulteriore possibilità consiste nel chiedere al bambino di risolvere un problema suggerendogli di farsi aiutare da altri bambini u po’ più esperti di lui. Oppure si spiegano al bambino i principi utili per poter risolvere il problema, poi si fanno domande stimolanti e lo si invita ad analizzare insieme il problema. In ogni caso vanno scelti compiti che siano un po’ più complessi di quelli che sa già risolvere da solo. Nello specifico del contesto scolastico, lo scaffolding implica che: lo studente prima osservi il docente svolgere una certa attività, successivamente lo imiti svolgendo in autonomia pezzi sempre più ampi di attività fino a svolgere completamente da solo il compito, magari personalizzandolo e migliorando quanto osservato. Quindi, seppure l’imitazione costituisce il punto di partenza della relazione, l’obiettivo ultimo è promuovere l’autonomia degli studenti, il senso di empowerment, dell’avere fiducia nel “potercela fare” e di poter contribuire creativamente anche a migliorare l’attività stessa. Sempre relativamente alla visione dell’apprendimento prefigurata da Vygotskij, occorre precisare che l’insegnante svolge un ruolo fondamentale, non tanto in quanto detentore del sapere e non solo in quanto promotore di ZOPED attraverso lo scaffolding, ma in quanto strumento di mediazione tra lo studente e il mondo. Di fatti, il concetto di mediazione è uno dei più prolifici nel quadro teorico vygotskijano. Vygotskij ritiene la mediazione dell’adulto imprescindibile quando vi sono implicati scopi educativi: il bambino non può essere lasciato solo ad esplorare il mondo, il docente deve accompagnarlo, stimolarlo e fornirgli “lenti” interpretative adeguate al mondo in cui vive. È proprio questa la funzione ampia che Vygotskij assegna alla scuola: fornire strumenti di mediazione adeguati per interpretare e partecipare attivamente al proprio mondo. Influenzato ancora una volta da Marx, Vygotskij riflette sulla più generale missione che la scuola, in quanto istituzione sociale e politica, dovrebbe svolgere. La scuola è il risultato della struttura di classe esistente in una certe società; le classi privilegiate tendono a limitare l’accesso all’educazione in modo da conservare per sé i privilegi e poteri dettando, quindi, le politiche scolastiche. Per Vygotskij, la scuola deve assumersi il compito di offrire strumenti per l’evoluzione culturale, per promuovere occasioni di sviluppo per gli svantaggiati, per cambiare il modo di pensare dei cittadini favorendo la coesione sociale, la condivisione, la partecipazione e il supporto reciproco. Essere uomini del proprio tempo, capaci di usare gli strumenti che la cultura e la storia rendono disponibili, in grado di determinare le basi del proprio futuro della propria specie: è questa la missione che deve perseguire la scuola secondo Vygotskij. Per qualche tempo questa visione di Vygotskij fu accolta con entusiasmo dal regime sovietico perché ben si conciliava sia con l’idea per cui ogni persona andava considerata responsabile del progresso dell’intera società, sia con l’obiettivo dichiarato di eliminare l’analfabetismo di massa. Fu proprio la questione educativa, però, che finì con il determinare il rovesciamento della reputazione di Vygotskij presso il regime sovietico, in particolare i suoi rapporto con una disciplina chiamata Pedologia. Si tratta di una disciplina che si occupa del fanciullo nella sua totalità: dagli aspetti biologici a quelle psicologici e sociologici e ovviamente pedagogici. Gli antecedenti della pedologia sono rintracciabili nel XIX secolo; negli anni ’20 tale disciplina divenne molto popolare in Russia e Vygotskij ne era considerato un luminare. Il declino della pedologia concise con il periodo in cui Stalin divenni progressivamente sempre più sospettoso verso qualunque influenza straniera e questa disciplina, che in quel momento guardava con interesse ai test di intelligenza che si stavano costruendo in Europa e negli Stati Uniti, finì con l’essere marchiata di pseudo scientificità e antimarxismo, e con essa anche Vygotskij, che fu inserito nella lista nera durante le purghe staliniane dal 1936 al 1956, con la conseguente censura delle sue opera. Insieme alle difficoltà di traduzione del russo, la censura staliniana fu il motivo per cui le opere vygotskijane tardarono tanto a diffondersi in occidente. Piaget e Vygotskij: similitudini a dispetto delle differenze Le differenze tra Piaget e Vygotskij hanno generato ampio dibattito e sono ancora oggi oggetto di riflessione scientifica. Nei due autori il rapporto tra sviluppo e apprendimento è concettualizzato in modo diametralmente opposto: per Piaget l’apprendimento segue lo sviluppo e si deve adeguare ad esso; per Vygotskij, invece, l’apprendimento ha il potere di determinare il ritmo la direzione e la velocità dello sviluppo. In questa diversità entrano in gioco il rapporto con l’adulto, la rilevanza della dimensione sociale e lo sviluppo stesso. Per Piaget lo sviluppo si sussegue attraverso periodi predefiniti e implica una progressiva appropriazione del pensiero simbolico, accompagnata dalla capacità d slegarsi dal contatto con gli oggetti e da un altrettanto progressiva capacità di riconoscere l’altro come diverso da sé. Per Vygotskij, invece, lo sviluppo ha un fondamento inizialmente sociale, dove il Sé è perso nell’altro e va progressivamente distinguendosi. Partendo dall’imitazione dell’altro, è possibile l’interiorizzazione del pensiero che segue linee di sviluppo non definite a priori ma sempre espandibili e accelerabili grazie all’accumulazione storica e alla trasmissione cross-generazionale. In Piaget il ruolo dell’adulto è quello di un facilitatore che si intromette il meno possibile nel susseguirsi dello sviluppo del bambino, ha il compito di osservare il bambino, capire in quale fase dello sviluppo si trovi e di conseguenza predisporre un ambiente stimolante e adatto al suo livello di sviluppo, lasciando il bambino libero di manipolare gli oggetti e di apprendere in autonomia. Per Vygotskij, invece, l’adulto intervenie modellando il comportamento del bambino attraverso lo scaffolding, indirizzandolo per, a poco a poco, dissolvere la sua presenza, promuovendo così nuovi apprendimenti e nuove ZOPED. Alcuni autori, però, in particolare Cole e Werthsch, sostengono che questo divario tra i due autori è più apparente che sostanziale. In realtà Piaget non avrebbe mai negato l’importanza del mondo sociale nel processo costruttivo della conoscenza, evidente nella sua definizione di società come composta da individui imprescindibilmente legati l’uno all’altro e in quella di intelligenza collettiva intesa come equilibrio tra le varie operazioni messe in atto durante i processi collaborativi. Di converso, Vygotskij riconosceva perfettamente le capacità costruttive dei bambini, come risulta evidente dalla sua concezione del rapporto tra linguaggio e pensiero: il linguaggio inteso non come strumento per esprimere il pensiero ma come processo costruttivo del pensiero stesso. Quindi la vera differenza tra i due sarebbe, secondo Cole e Werthsch, nel primato riconosciuto da Vygotskij alla mediazione culturale nel processo di sviluppo degli individui, così come nello sviluppo della specie umana. Questo aspetto permette allo psicologo russo di contestualizzare lo sviluppo entro una visione storico-culturale, mentre Piaget si concentra sullo sviluppo individuale,a prescindere dall’influenza dello sviluppo storico e del contesto sociale. Infatti, se Vygotskij insiste sulla variabilità dell’esperienza psicologica che riflette la variabilità del contesto storico-culturale, Piaget è interessato a ricercare le invarianti universali dello sviluppo, a prescindere dalle differenze storico-culturali; questo non significa che i due autori neghino l’importanza di entrambe le variabili, semplicemente ciascuno dei due si è focalizzato più specificatamente in un determinato aspetto. Piaget e Vygotskij giungono a conclusioni simili: la conoscenza è costruita entro uno specifico contesto materiale e sociale. Entrambi cercano di combattere un comune nemico, ovvero la dicotomia tra istinto e consapevolezza, tra centralità data al comportamento osservabile misurabile, oggetto di studio del comportamentismo, e capacità di auto dirigere e interpretare il proprio comportamento e il mondo circostante, messa in discussione dalla psicologia del profondo. Entrambi, quindi, difendono il costruttivismo e l’interazionismo, non solo come costrutti teorici fondanti del loro pensiero ma come capacità riconosciute ai bambini stessi. Infatti, sia Piaget che Vygotskij ripongono grande fiducia nelle capacità del bambino, nei suoi tentativi di esplorare il mondo e di costruirsi una propria personale interpretazione di quanto accade; entrambi condividono una concezione di bambino come individuo capace di determinare la propria crescita e di dare significato e senso agli eventi di cui è protagonista. Di conseguenza, entrambi possono essere considerati costruttivisti, seppur in modo diverso, in quanto li accomuna l’idea che la cognizione è il risultato di una costruzione mentale e che l’apprendimento implica un lavoro cognitivo importante da parte dei bambini allo scopo di integrare nuove informazioni con quelle che già sanno: Piaget definisce questo processo accomodamento e assimilazione, Vygotskij internalizzazione. Infine, interesse comune era capire come i bambini crescono mentalmente, quali processi determinano il loro sviluppo e come gli adulti e il mondo esterno contribuiscono a tale crescita, attraverso processi determinano il loro sviluppo e come gli adulti e il mondo esterno contribuiscono a tale crescita, attraverso processi di insegnamento più o meno formalizzati. Sia l’uno che l’altro assegnano un ruolo fondamentale al contesto e alla capacità dei bambini di entrare in relazione attiva con esso: per Piaget l’agire sugli oggetti origina l’intelligenza e costituisce la fonte primaria di apprendimento e di sviluppo; per Vygotskij l’attività dà forma alla struttura psicologica e determina lo sviluppo di sempre più sofisticate FPS. Il primo riteneva che la conoscenza fosse contenuta negli oggetti e che lo sforzo più importante dei bambini fosse di capirla e scoprirla durante l’interazione con essi; il secondo, invece, riteneva che la conoscenza fosse costruita nell’incontro tra il bambino e il mondo composto da oggetti, da pari e adulti. Dopo Piaget Sono riconoscibili almeno 3 filoni di studi che prendono le mosse dal pensiero di Piaget e lo sviluppano in 3 diverse e specifiche direzioni. 1) Il primo filone è costituito dai neopiagetiani, caratterizzati dal tentativo di coniugare le istanze piagetiane con il cognitivismo. Infatti, i neopiagetiani spiegano lo sviluppo individuando nella capacità di processare informazioni (sia qualitativamente che quantitativamente) la causa del passaggio da l’uno all’altro stadio, ma anche il fattore che spiega le differenze individuali. Per questa ipotesi cruciali sono i contributi di Juan PascualLeone e, successivamente, di Robbie Case che individua i meccanismi cognitivi regolatori tipici di ciascuno dei periodi di sviluppo definiti da Piaget. 2) Il secondo filone do studi fa capo a Doise e Mugny,membri di spicco del gruppo di ricerca noto come Scuola di Ginevra di Psicologia sociale dello sviluppo, che vedono nella prospettiva psicosociale uno dei maggiori fattori di sviluppo. In particolare, questi autori partono dall’osservazione che i bambini giungono a costruire soluzioni e compiti che non sanno ancora risolvere da soli coordinando le proprie azioni con quelle di altri bambini, anch’essi incapaci di risolvere il compito. Pertanto, deducono gli autori, pensare che nella situazione sociale si riproduca quello che si sa fare da soli è limitativo: l’interazione è di per sé in grado di far generare nuove soluzioni e far avanzare il livello di sviluppo, anche in situazioni di conflitto. L’intelligenza, quindi, ha un’origine non solo genetica, evolutiva e costruttiva ma anche sociale. Già Piaget non aveva escluso l’importanza dell’interazione sociale come motore di sviluppo, purché fosse tra pari. Infatti, Piaget si opponeva all’idea che la trasmissione di conoscenza da un adulto a un bambino potesse rappresentare un modello per spiegarsi lo sviluppo cognitivo: l’interazione con l’adulto era vista come irrilevante o addirittura problematica, in quanto interferente con la libera esplorazione da parte del bambino nel suo ambiente e, quindi, con la costruzione di una comprensione efficace. Durante l’apprendimento emerge, secondo Piaget, l’importanza del conflitto cognitivo nel favorire lo sviluppo intellettuale del soggetto. Tale conflitto si verifica quando l’individuo non riesce ad applicare schemi cognitivi da lui posseduti agli oggetti dell’ambiente con cui interagisce: gli oggetti “resistono” a tale applicazione e ciò provoca un disequilibrio del sistema cognitivo, che richiede la modifica di tali sistemi in una direzione di maggiore complessità. Piaget però aveva anche sottolineato l’importanza della cooperazione tra pari, in quanto essa poteva essere considerata come un generatore dell’attività di ragionamento, mettendo in evidenza il ruolo dell’altro nel prendere coscienza del sistema di regole alla base della vita quotidiana. Egli sostiene che i bambini in situazioni di gioco collettivo creino regole per stabilire un equilibrio sociale tra i partecipanti e ridurre la tensione tra il modo tradizionale di svolgere un dato gioco e l’esigenza di adattarlo a nuove situazioni. Piaget ipotizza 3 tipi di trasformazioni che la cooperazione provocherebbe nelle attività di pensiero: - Consentire la riflessione e lo sviluppo della coscienza di sé; - Permettere di distinguere la dimensione soggettiva da quella oggettiva; - Condurre forme di regolazione tra i cooperanti che spingono ogni soggetto a fare le proprie regole del pensiero logico. I ricercatori della Scuola di Ginevra riprendono i concetti di Piaget ed elaborano la popolare nozione di CONFLITTO SOCIOCOGNITIVO. Esso è un conflitto di comunicazione tra due partner di pari livello cognitivo impegnati ad affrontare insieme un compito che richiede una risposta unica e condivisa. Tale forma di conflitto diviene, per Doise e Mugny, una sorgente di doppio disequilibrio che si realizza contemporaneamente sul piano cognitivo e sociale. È un disequilibrio cognitivo in quanto il soggetto che affronta un compito con un partner di pari livello cognitivo si trova a confrontarsi con il punto di vista del partner, centrato su una diversa interpretazione del compito e, quindi, conflittuale rispetto a quello da lui espresso: il soggetto non riesce ad integrare in un primo momento i due punti di vista in un tutto coerente. Ma si tratta anche di un disequilibrio sociale, in quanto il conflitto si pone entro la relazione sociale tra due individui e, quindi, il superamento del conflitto richiede una gestione efficace dell’interazione con l’altro allo scopo di evitare che il conflitto si sposti dal piano del contenuto al piano della relazione. Il processo che può portare ad una elaborazione produttiva di un conflitto socio cognitivo viene chiamato regolazione epistemica, e implica il cercare di rielaborare il compito, mettere in discussione ciascun punto di vista, esaminare la validità di ciascuna proposta, fino a giungere ad una risposta soddisfacente per entrambi i partner. Quando i due partner ingaggiano una relazione di tipo epistemico mettono in gioco esclusivamente le cognizioni e le idee, rimangono centrati sul compito, sull’obiettivo, riconoscendo la competenza dell’altro, ammettendo l’esistenza di più punti di vista, cercando di integrare i punti di vista per trovare un compromesso, tutto si svolge sul piano cognitivo, senza cadere sul piano relazionale. Esiste però anche una modalità di conflitto meno produttiva e non funzionale: la regolazione relazionale. In questo caso i soggetti cercano di dimostrare che il proprio partner è in errore, mettendo in dubbio la sua competenza, focalizzandosi sulla valutazione della competenza dell’altro e sul confronto sociale e mina la sfera personale. È molto complesso riuscire ad rimanere nella sfera epistemica durante le situazioni di conflitto cognitivo e non cadere in quella relazionale, ma è quello che bisognerebbe cercare di fare nei contesti di apprendimento. Teoria della controversia costruttiva: spinge ad una regolazione di tipo epistemico; l’argomento preso in considerazione è solo un pretesto per osservare e far aumentare le abilità sociali nei partecipanti alla situazione di apprendimento. 3) Il terzo filone dei postpiagetiani parte da una rivisitazione dei compiti da lui elaborati. Ad esempio, si evidenzia come le domande che poneva Piaget ai bambini fossero del tutto decontestualizzate e affatto utilizzate in contesti educativi. Inoltre il bambino pensa “se l’adulto ripete due volte la stessa domanda vuol dire che la prima risposta che ho dato è sbagliata”, per cui i bambini cercano risposte che non corrispondono a genuine concettualizzazioni ma piuttosto al tentativo di soddisfare le richieste dei ricercatori. Si avvia così un filone di studi in cui i test piagetiani vengono rivisitati e proposti con varianti che riescono a mettere in luce le reali interpretazioni da parte dei bambini dei compiti che si chiedeva loro di svolgere. Ad esempio, Grossen introduce la richiesta, ai bambini che avevano già svolto un certo compito, di giocare loro “all’adulto” e far svolgere la prova ad un altro bambino. In questi casi, dalle verbalizzazioni spontanee dei bambini emerge una rappresentazione della situazione come se da qualche parte ci fosse un trucco a loro noto perché avevano già svolto il compito e questo permette loro di sentirsi complici dell’adulto. Recentemente alcuni autori stanno rivisitando in modo ampio il cosiddetto “metodo clinico piagetiano”.Sviluppando l’idea che la capacità argomentativa del bambino rispecchi il suo pensiero, questi autori espandono il potenziale dialogico già insito nelle prove piagetiane sia rispettando lo scopo di scoprire quanto è nascosto dall’immediata apparenza di quello che sembra che i bambini pensano, sia aggiungendovi la rilevazione di quanto i bambini sono capaci di esprimere in situazioni per loro significative e in attività collaborative. Il contesto Il contesto non è una realtà oggettiva, ma la personale capacità di percepire esperienze del mondo. Tutto ciò che noi vediamo è un’attribuzione di senso (si pensi alle figure della Gestalt). La nostra mente non può evitare di interpretare e attribuire senso alla realtà che vede, non registriamo le informazioni passivamente come una macchina fotografica. Processi cognitivi e contesto si influenzano reciprocamente. L’istanza cognitivista vede persone, strumenti e contesti come inscindibili,non si può analizzare il singolo elemento prescindendo dagli altri due (istanza CONTESTUALISTA). L’intelligenza si costruisce in base al contesto in cui il soggetto vive. Il contesto inizialmente era definito dal cognitivismo ortodosso come una variabile di sfondo, che viene manipolata in laboratorio per escludere possibili interferenze. Per i comportamentisti il rinforzo rappresentava l’elemento contestuale in grado di modificare il comportamento umano. Il contesto (la natura) fornisce stimoli per l’apprendimento che, quando manipolati dall’uomo, diventano rinforzi. C’era apprendimento laddove c’era rinforzo. Il contesto più efficace era un contesto rinforzante. Mentre per i cognitivisti il contesto doveva essere stimolante. La visione piagetiana adotta una visione di apprendimento dentro i contesti, cioè si appropria in maniera forte del contesto come strumento per l’apprendimento. Per Vygotskij il contesto è l’ambiente socioculturale in grado di fornire stimoli intesi a far progredire lo sviluppo. Il contesto attiva lo sviluppo e spinge gli individui verso nuove ZOPED ed è, quindi, la chiave in grado di mettere in motto lo sviluppo, rendendo significativi e necessari funzioni e processi che altrimenti resterebbero dormienti. Critiche al socio costruttivismo Per il costruttivismo l’attività a scuola assume una connotazione marcatamente sociale, basata sulla pluralità delle forme di intelligenza. La critica rivolta a tale prospettiva, soprattutto da parte dell’approccio cognitivista, riguarda il rischio che nell’analizzare le attività nel contesto, il socio costruttivismo radicalizzato possa “dissolvere” il soggetto e i suoi processi cognitivi: lo studio delle interazioni e dei processi di costruzione di conoscenza, nelle loro eccessive parcellizzazioni situate, potrebbe far perdere di vista l’unitarietà dell’individuo impegnato nell’apprendimento. Intelligenza e differenze individuali L’uscita della prima scala di intelligenza nel 1905 ad opera di Binet e Simon, finalizzata ad identificare nelle scuole francesi allievi che non avrebbero tratto profitto dall’istruzione (e ritenuta da più studiosi un evento fondamentale per lo sviluppo di psicologia e pedagogia) ,si basava su una concezione dell’intelligenza come abilità di apprendere. Nessun’altra innovazione psicologica, è stato detto, ha avuto un impatto così forte sulle società occidentali come la prima scala di intelligenza. È stata un’esigenza dei sistemi di istruzione (come individuare gli studenti più lenti nell’apprendimento) a far sentire la necessità di abbandonare metodi riduttivi e lontani dall’esame dei fenomeni reali che si intendeva invece conoscere sempre meglio. Binet e colleghi, dal canto loro, diedero vita a una psicologia sperimentale delle differenze individuali che ha ispirato un secolo di ricerca psicologica sul testing. I precedenti tentativi di Galton di misurare l’intelligenza esaminando i processi cognitivi elementari erano infatti falliti e a essi si opponeva Binet quando sosteneva che le differenze individuali andavano studiate a livello di funzioni complesse. Presentiamo ora i modelli più recenti di intelligenza, che risultano assai diversi tra loro. Il modello dell’efficienza neurale Molti teorici contemporanei sostengono che il cuore dell’intelligenza sia il cervello, pertanto, sono le basi neurofisiologiche dell’abilità mentale che vanno individuate per comprendere e misurare in maniera appropriata il comportamento intelligente. La premessa alla base del modello dell’efficienza neurale è che gli individui molto intelligenti possiedono cervelli che operano molto più velocemente e accuratamente di quelli di individui meno intelligenti. Grazie al progresso tecnologico, si dispone oggi di metodiche in grado di misurare l’efficienza cerebrale,in base ai tassi di metabolismo del glucosio e la velocità di conduzione nervosa. Hendrickson ed Hendrickson ipotizzarono che gli individui con basso quoziente intellettivo avrebbero manifestato una variabilità considerevole dell’attività elettrica cerebrale a causa di errori nella trasmissione delle informazioni attraverso la corteccia del loro cervello; al contrario, in assenza di errori di questo tipo, gli individui con alto quoziente di intelligenza avrebbero manifestato scarsa variabilità nella loro attività elettrica corticale. È stato anche evidenziato che cervelli intelligenti ed efficienti sono flessibili nelle risposte agli stimoli: attivano più neuroni per elaborare stimoli familiari o attesi. Ulteriore sostegno al modello dell’efficienza neurale proviene dagli studi che misurano il tasso di metabolismo del glucosio cerebrale, tramite la PET (tomografia ad emissione di positroni), mentre soggetti svolgono una serie di compiti. La metabolizzazione del glucosio compensa il consumo di energia e, di conseguenza, consumano meno glucosio, rispetto ai cervelli di coloro che hanno un basso QI. È stato dimostrato, ad esempio, che gli individui con prestazione migliore in un videogioco complesso, hanno livelli più alti di metabolismo del glucosio nelle aree cerebrali coinvolte dal gioco. Modelli gerarchici L’assunzione di base sottostante ai modelli psicometrici attuali, inclusi quelli gerarchici, è che la struttura dell’intelligenza possa essere scoperta analizzando le intercorrelazioni dei punteggi in vari test mentali. Nello specifico, i modelli gerarchici possono essere compresi alla luce delle teorie di Sperman e Thurstone. Sperman aveva individuato un unico fattore (g) legato alla prestazione in tutti i campi di test mentali, mentre Thurstone aveva identificato 7 fattori indipendenti, o abilità mentali primarie. Considerando che né quanto sosteneva Sperman né quanto sosteneva Thurstone rendeva conto di una serie di dati, i modelli psicometrici attuali propongono una struttura gerarchica dell’intelligenza : uno o due fattori generali rappresentano la sommità della gerarchia, mentre altri fattori più specifici si trovano a livelli inferiori. Più precisamente, quando due fattori di prim’ordine sono correlati tra loro, un fattore di second’ordine viene costruito per spiegare le loro intercorrelazioni ; similarmente fattori di terz’ordine vengono evidenziati quando si deve rendere conto delle intercorrelazioni tra fattori di second’ordine e così via. Il modello gerarchico a due strati dell’intelligenza fluida (gf) e cristallizzata (gc) di Horn appare particolarmente utile a spiegare lo sviluppo dall’infanzia all’età adulta. I fattori gf e gc rappresentano il livello di sviluppo più alto del funzionamento cognitivo. Il primo riguarda le abilità di percepire relazioni tra pattern di stimoli, comprenderne le implicazioni, trarre inferenze dalle relazioni e dipende dal funzionamento efficiente del sistema nervoso centrale, più che dall’esperienza precedente e dal contesto culturale. I test standardizzati misurano questo tipo di intelligenza mediante analogie, il completamento di serie e di altri compiti che implicano il ragionamento. Il fattore gc, invece, dipende soprattutto dall’esperienza e dall’istruzione avuta in un determinato contesto culturale e riguarda l’insieme di abilità e conoscenze che gli individui acquisiscono nel corso di tutta la loro vita. Comprende le abilità di comprensione verbale, cognizione e valutazione di relazioni semantiche. I test standardizzati misurano il fattore gc attraverso il vocabolario,la conoscenza generale e le domande di comprensione verbale. Il livello successivo di elaborazione delle informazioni, quello dell’organizzazione percettiva, comprende la velocità di elaborazione, di visualizzazione delle informazioni e di elaborazione delle informazioni uditive. Il terzo livello, quello dell’elaborazione di associazioni, riguarda l’abilità di acquisire informazioni e recuperarle fluidamente nella memoria a lungo termine. Il livello più basso nel modello gerarchico di Horn è occupato dalla ricezione sensoriale che implica 2 abilità: l’abilità di registrare l’informazione uditiva e conservarla nella memoria ecoica. I bambini si collocano ai livelli più bassi diventano via via capaci di svolgere compiti che richiedono il coinvolgimento dei livelli superiori. Alcune abilità, sono soggette ai danni del sistema nervoso centrale e se gli effetti di tali danni si accumulano nell’età adulta, alcune abilità diminuiscono; quelle più suscettibili al declino sono legate all’intelligenza fluida, alla memoria a breve termine e alla velocità di elaborazione. Altre abilità invece relative all’intelligenza cristallizzata e al recupero della memoria a lungo termine, che sono meno influenzate dal sistema nervoso centrale, possono migliorare o rimanere stabili nel corso di tutta l’età adulta. Modelli contestuali Quasi tutti i modelli di intelligenza sono basati sull’assunzione che teorie e tecniche di misurazione delle culture occidentali siano applicabili a qualsiasi individuo di qualsiasi cultura. Al contrario, i modelli contestuali contemporanei si fondano sull’assunto che il concetto di intelligenza assume significati differenti in relazione ai contesti, in particolare culturali, come dimostra il fatto che un comportamento ritenuto intelligente in una cultura può essere invece considerato di natura opposta in un’altra. Una ricerca ormai classica è quella di Cole (1971) con i kpelle della Liberia , ai quali era stato chiesto di raggruppare 20 oggetti riguardanti 4 categorie linguistiche (cibo, contenitori di cibo, vestiario e attrezzi). I soggetti costituivano coppie di oggetti, ad esempio coltello e patata, in base a un criterio funzionale, e quando è stato chiesto loro di indicare il modo in cui una persona non intelligente avrebbe raggruppato gli oggetti, li hanno messi insieme proprio in base alla categoria linguistica, considerata la modalità intelligente di raggruppamento in molte culture (compresa la nostra). La ricerca sulla matematica di strada in Brasile, contrapposta alla matematica a scuola, induce a riflettere su come il contesto in cui l’intelligenza viene accertata porti a trarre conclusioni che possono risultare anche opposte a quelle derivabili considerando un contesto differente. I ragazzi brasiliani di strada non sapevano risolvere i problemi presentati dai ricercatori, ma negli atti di compravendita di strada mettevano in atto proprio quei concetti richiesti dai ricercatori ma dal punto di vista pratico, questo non significa che siano meno intelligenti ma semplicemente hanno un modo di ragionare diverso, più pratico. Anche Bronfenbrenner ha sottolineato l’importanza del contesto (setting di laboratorio o ambiente domestico) nella valutazione dell’abilità dei bambini di far fronte alla pressione del tempo durante la soluzione di problemi. Li e Fisher hanno sottolineato come le concezioni africane siano focalizzate sulla saggezza, la capacità di suscitare fiducia e l’attenzione sociale. Le concezioni giapponesi valorizzano l’abilità di entrare in sintonia con gli altri, così come quelle cinesi enfatizzano, oltre a una capacità cognitiva generale, l’impegno, il senso di umiltà e la dirittura morale. All’interno degli Stati Uniti stessi, i diversi gruppi etnici manifestano visioni differenti dell’intelligenza: i Latinos nel loro concetto includono la competenza sociale molto più degli Anglo. I teorici dei modelli contestuali hanno individuato 4 livelli gerarchici di contesto per rendere conto delle molteplici influenze a cui è sottoposto ciò che viene definito comportamento intelligente: 1. Contesto ecologico: è il contesto in cui le persone vivono interagendo con l’ambiente fisico; le risposte di adattamento a tale contesto portano ad acquisire determinati costumi; 2. Contesto esperienziale: conduce all’apprendimento e allo sviluppo del contesto ecologico. In termini psicologici, il risultato di questo livello è costituito da un repertorio di abilità, tratti e atteggiamenti a lungo termine, acquisiti attraverso la socializzazione e l’inculturazione; 3. Contesto situazionale: riferito alle circostanze ed esperienze ambientali, quali le attività quotidiane che portano ad acquisizioni di breve termine; 4. Contesto di accertamento: si manifesta quando gli psicologi, o altri studiosi, manipolano le caratteristiche dell’ambiente di un individuo per ottenere determinate risposte comportamentali o punteggi ai test. Se la valutazione non si annida negli altri 3 contesti (ecologico, esperienziale e situazionale), allora i suoi risultati non sono né rappresentativi né equi. Modelli di sistemi complessi La maggior parte dei modelli di intelligenza si focalizza sulle varie componenti fisiologiche o cognitive e usa il QI come sua unica misura. Altri modelli, tuttavia, appaino essere più comprensivi nel tentativo di integrare aspetti biologici, gerarchici e contestuali in un’unica concettualizzazione dell’intelligenza come sistema dinamico e complesso. Ecco i più conosciuti. La teoria triarchica dell’intelligenza Secondo la teoria triarchica di Stenberg, 3 aspetti interagenti costituiscono l’intelligenza: 1. Il primo aspetto riguarda le abilità di elaborazione dell’informazione che guidano il comportamento intelligente. Si tratta di vari metacomponeneti, componenti di prestazione e componenti di acquisizione di conoscenza. I metacomponenti sono processi mentali di ordine superiore comuni ai vari compiti che gli individui intelligenti sanno attivare per dirigere i loro sforzi verso la soluzione di un problema. I componenti di prestazione, specifici per ogni tipo di problema da risolvere, riguardano, invece, processi mentali di ordine subordinato che gli individui attivano per dare corso alle istruzioni impartite dai metacomponenti. Anche i componenti di acquisizione della conoscenza sono di ordine subordinato, utili ad acquisire le informazioni rilevanti, integrando le nuove informazioni con quelle presenti in memoria, formando un tutt’uno integrato. È stato dimostrato che sono le persone maggiormente intelligenti a spendere più tempo in operazioni di codifica, pianificazione strategica e controllo. Stenberg ha precisato, però, che tutti e 3 i tipi di componenti si manifestano e sono valorizzati in tutte le culture, ma ciò che viene considerata un’attivazione intelligente dei componenti può variare da cultura a cultura in base ai diversi problemi affrontati,nonché ai diversi valori in esse presenti. 2. Il secondo aspetto riguarda l’applicazione nei contesti reali dei 3 tipi di componenti: gli individui intelligenti sono in grado di adattarsi a un particolare ambiente e in caso di difficoltà sanno quando e come modificare l’ambiente per farlo corrispondere ai propri bisogni e alle proprie abilità. Se non è possibile cambiare un certo ambiente, sanno come scegliere quello più adatto a loro. È questo aspetto pratico dell’intelligenza che consente di acquisire conoscenza tacita in quegli ambienti in cui le strategie di successo non vengono esplicitamente insegnate o sempre verbalizzate. 3. Il terzo aspetto della teoria triarchica dell’intelligenza è quello esperienziale, ossia l’abilità di riferirsi alle proprie esperienze per risolvere nuovi problemi e rendere automatiche certe procedure in tempi brevi. Individui intelligenti sanno usare i componenti di codifica, combinazione e confronto selettivi per estrarre e applicare informazioni nuove. Inoltre, per fronteggiare con efficienza le novità, molti individui intelligenti sono in grado di passare velocemente dall’elaborazione consapevole e deliberata di informazioni all’elaborazione automatica, eseguendo procedure senza sforzo attentivo e più di un compito alla volta. Gardner e le intelligenze multiple Nel 1983 lo psicologo statunitense Howard Gardner pubblicava il libro “Frames of Mind” (tradotto in italiano come “Formae Mentis”) che lo avrebbe portato alla ribalta della ricerca internazionale e consacrato come l’ideatore della teoria delle intelligenze multiple. Secondo Gardner gli esseri umani possono essere meglio compresi nel loro funzionamento cognitivo se si ipotizza che essi siano possessori di un numero relativamente indipendente di facoltà intellettive, piuttosto che di un’intelligenza rappresenta come facoltà unitaria. La sua presa di distanza è sia dalla tradizione di ricerca psicometrica del test sul quoziente intellettivo (QI), usato per misurare il livello intellettivo degli individui, sia dalla tradizione teorica di matrice piagetiana, che considerava l’intelligenza come universale nel modo di svilupparsi (ipotizzando gli stessi periodi di sviluppo per tutte le culture) e unitaria nei vari ambiti di conoscenza. Gardner individua alcuni criteri che gli permetteranno di individuare le diverse intelligenze: Isolamento potenziale dovuto a danno cerebrale: ad esempio, alcune abilità, come quelle linguistiche possono essere specificamente compromesse da un ictus; Esistenza di soggetti eccezionalmente prodigiosi o savants: in tali individui è possibile osservare una specifica intelligenza, particolarmente sviluppata; Esistenza di operazioni interconnesse: ad esempio, l’intelligenza musicale consiste nella sensibilità di una persona per la melodia, l’armonia, il ritmo, il timbro e la struttura musicale; Supporto dai test di psicologia sperimentale: i ricercatori hanno predisposto prove che indicano specificamente quali abilità sono correlate tra loro e quali sono indipendenti. Utilizzando tali criteri, Gardner arriva, inizialmente, a individuare 7 diverse forme di intelligenza: 1) Linguistica: padronanza e passione per il linguaggio e le parole con la manifestazione del desiderio di una loro esplorazione; 2) Logico-matematica: capacità di confrontare e valutare oggetti e astrazioni e discernere le loro relazioni e i sottostanti principi; 3) Musicale: competenza non solo nel comporre e realizzare brani con tono, ritmo e timbro ma anche nell’ascoltare e nel distinguere; 4) Spaziale: abilità a percepire il mondo visuale accuratamente, a trasformare e modificare la percezione e ricreare esperienze visuali anche in assenza di stimoli; 5) Corporeo-cinestesica: controllare e orchestrare abilmente i movimenti del corpo e la manipolazione degli oggetti; 6) Intrapersonale: capacità di individuare i propri umori, sentimenti e stati mentali e di usare queste informazioni per guidare il proprio comportamento; 7) Interpersonale: capacità di individuare umori, sentimenti e stati mentali altrui e di usare queste informazioni per guidare il proprio comportamento. Verso la metà degli anni ’90, Gardner accumula ampie evidenze per l’aggiunta di altri 2 tipi di intelligenza: 8) Naturalistica: relativa al riconoscimento e alla classificazione di oggetti naturali; 9) Esistenziale : che riguarda la capacità di riflettere sulle grandi questioni esistenziali e più in generale l’attitudine al ragionamento astratto per categorie concettuali universali (mezza intelligenza). A differenziare gli individui sono la “forza” di queste intelligenze e i modi in cui esse vengono chiamate in causa e combinate tra loro per portare a termine i vari compiti, risolvere problemi di diversa natura e progredire nei diversi campi del sapere. Com’è intuibile ciascun individuo realizza le proprie prestazioni migliori, in termini di apprendimento, quando utilizza il sistema di simboli e procedure congeniali alle proprie forme di intelligenza di cui è particolarmente dotato. Alcune intelligenze possono avere tra loro dei confini sfumati e intrattenere reciproche relazioni, come sembra il caso dell’intelligenza spaziale, linguistica e corporeo-cinestesica. Le intelligenze appaiono in età precoce. Sulla base della sua teoria Gardner svolge una riflessione critica sull’istituzione scolastica che privilegia generalmente modalità di insegnamento e di valutazione di tipo linguistico e logico matematico. Ciò porta a considerare come fallimentari le prestazioni di molti studenti solo perché non posseggono il tipo di intelligenza che l’istituzione scolastica privilegia. La questione cruciale che si impone è dunque: in che modo è possibile far si che la scuola promuova i diversi tipi di intelligenza? Gardner individua una risposta attraverso 3 concetti: L’apprendistato: diffuso al di fuori del contesto scolastico, utilizza come modalità formative l’osservazione e l’imitazione, valorizza modalità di apprendimento legate a più tipi di intelligenze, infatti nell’apprendistato si impara non solo attraverso il linguaggio (come avviene a scuola). Il museo del bambino: luogo di attività in cui i bambini possono sperimentare dal vivo varie situazioni di apprendimento, assumendo il ruolo, ad esempio, del biologo, del fisico o dell’artista. Dovrebbero crearsi a scuola ambienti con materiali realmente usati da chi svolge un’attività professionale nella nostra società, materiali che implichino l’utilizzo dei diversi tipi di intelligenze. Il bridging : poiché le intelligenze hanno contorni sfumati e relazioni reciproche, possiamo ipotizzare che se un soggetto non è particolarmente predisposto nell’intelligenza che dovrebbe favorirlo in un particolare ambito disciplinare, l’insegnante possa, cambiando strategia di insegnamento, fare affidamento su un’altra forma di intelligenza di cui egli è dotato, che faccia da ponte (bridging appunto) per l’accesso a quei contenuti disciplinari. Il successo della teoria delle intelligenze multiple sembra legato a una dimensione di maggiore “democratizzazione” del processo educativo. Come lo stesso Gardner argomenta, la popolarità della sua proposta presso gli educatori è dovuta non solo al fatto che essa conforta la loro intuizione che gli studenti possono essere considerati intelligenti da diversi punti di vista,ma anche alla possibilità di promuovere il successo scolastico di un maggior numero di studenti a patto che il loro modo di conoscere preferito sia preso in considerazione nel curricolo, nelle modalità di insegnamento e nella valutazione. Stili di pensiero come differenze individuali Con il termine stile di pensiero ci si riferisce a una valutazione prevalente di funzionamento cognitivo che indica regolarità nell’elaborazione delle informazioni, ed è legata anche a tratti della personalità. Pur utilizzano il termine “cognitivo” per qualificare lo stile, la nozione si riferisce, infatti, a un intreccio di aspetti cognitivi e di personalità, avendo a che fare non solo con caratteristiche del modo di trattare cognitivamente le informazioni, ma anche con atteggiamenti nei confronti delle attività, con modalità di relazione nei confronti degli altri e di reazione emozionale alle situazioni. Ecco alcuni stili di pensiero tra quelli che hanno trovato maggior accordo tra gli studiosi: Stile dipendente/indipendente dal campo: questo stile riguarda la tendenza a riconoscere e isolare elementi nascosti in contesti complessi. La percezione dei campodipendenti è dominata dal’organizzazione del campo, per cui incontrano difficoltà a riconoscere o individuare un dato elemento, soprattutto in contesto ambiguo, così come la tendenza ad essere legati alle informazioni presentate, che codificano senza sottoporle a trasformazioni. I campoindipendenti, invece, non sono fortemente condizionati dal campo e tendono a riorganizzare e ristrutturare i dati forniti, ad avere maggiormente un proprio punto di vista, e a mostrarsi più flessibili nell’affrontare compiti e situazioni. Stile verbalizzatore/visualizzatore: riguarda la distinzione tra individui che preferiscono l’uso del codice linguistico, ossia pensare in parole, e individui che preferiscono l’uso del codice visuo-spaziale, ossia pensare per immagini. Tale distinzione sembra particolarmente evidente nei compiti di memoria in cui le informazioni vengono codificate, organizzate e recuperate in base allo stile prediletto. Se uno studente ha uno stile verbalizzatore, ad esempio, tende ad utilizzare strategie di studio che fanno ricorso a riassunti e associazioni verbali, mentre uno studente dallo stile visualizzatore ricorre soprattutto a strategie quali immagini mentali, mappe e rappresentazioni grafiche diverse. Stile globale/analitico: riguarda la distinzione, ben evidente sul piano percettivo, tra individui con tendenza a formarsi rappresentazioni complessive, prestando attenzione contemporaneamente a più aspetti, e individui con tendenza a considerare i dettagli, focalizzando l’attenzione su singoli aspetti. Di fronte alla rappresentazione di un bosco, c’è chi lo percepisce subito come tale e chi, invece, vede una serie di alberi. Uno studente dallo stile globale, di fronte a un testo o a un’immagine, tende a formarsi un’idea generale, mentre lo studente dallo stile analitico a considerare i particolari. Stile sistematico /intuitivo: distingue tra individui che tendono a procedere passo dopo passo nei processi di ragionamento, prendendo in considerazione le variabili singolarmente, e individui che tendono a procedere per ipotesi da confermare o smentire. Il percorso di uno studente dallo stile sistematico appare più lento, ma anche consapevole e impegnativo,mentre quello di uno studente dallo stile intuitivo sembra più veloce, facile e meno verbalizzatore. È stato puntualizzato che questo stile non corrisponde interamente al precedente in quanto si riferisce a processi psicologici diversi: se uno stile intuitivo non è sicuramente analitico, non appare nemmeno necessariamente globale, così come uno stile sistematico non si presenta solo analitico, ma tiene anche conto dell’insieme. Stile convergente/divergente: definito nell’ambito degli studi sulla creatività, questo stile, che si riferisce ai processi sia di ragionamento sia di memoria, distingue tra individui con tendenza a produrre risposte tipiche e prevedibili seguendo un percorso logico e convenzionale, e individui con tendenza a produrre risposte nuove originali, creative, ossia divergenti. Stile impulsivo/riflessivo: questo stile riguarda tempi decisionali nei processi di valutazione e soluzione di problemi. Se si passa immediatamente dall’adozione senza analisi e ponderazione delle possibilità a disposizione, la qualità di una decisione sarà diversa da quella a cui si arriva a seguito di riflessione. A differenza di tutti gli altri stili, in questo caso la popolarità riflessiva appare certamente più adattiva di quella impulsiva, i cui valori estremi possono sconfinare nella patologia, ma in alcune situazioni, scolastiche e non, possono essere apprezzate risposte rapide. Con queste teorie non si vuole certo sostenere che a scuola le proposte didattiche degli insegnanti si debbano adeguare alle preferenze stilistiche degli studenti, per cui i verbalizza tori non dovrebbero avere a che fare con rappresentazioni grafiche o che ai visualizzatori non si dovrebbe chiedere di scrivere riassunti. A ogni studente vanno invece presentate opportunità di sviluppare flessibilità e versatilità necessarie a imparare a servirsi del proprio stile preferenziale nei contesti appropriati, ma anche di uno stile opposto laddove la situazione o il compito lo richiedano. Ciò risulta possibile nella misura in cui gli insegnanti adottano più metodi di istruzione, presentando i contenuti attraverso vari percorsi, in modo che siano acquisiti facilmente dal più ampio numero di studenti. A questo proposito, Gardner utilizza la metafora della stanza in cui entrare, che dispone di almeno 5 porte d’accesso, per esprimere l’idea che si può “entrare” in un argomento, oggetto di istruzione in modi diversi, ogni studente ha un punto di accesso più congeniale. L’esplorazione di altri punti di accesso permetterà di sviluppare una varietà di stili di apprendimento, valido antidoto al pensiero stereotipato. I punti di accesso sono: Approccio narrativo: il concetto da esaminare è presentato sotto forma di forma di storia o racconto; ad esempio, nel caso del concetto di democrazia, se ne ricostruisce la storia delle origini nell’antica Grecia; Approccio logico-quantitativo: il concetto da esaminare viene affrontato tramite considerazioni numeriche e ragionamenti di natura deduttiva; nel caso della democrazia, si può partire dallo studio delle varie modalità di voto adottate nel temo da un determinato paese, analizzandone pro e contro; Approccio filosofico-concettuale: la questione da esaminare viene trattata dal punto di vista dei suoi aspetti filosofici e terminologici, congeniali a chi tende a porsi questioni e interrogativi, a fare riflessioni sul mondo; nel caso del concetto di democrazia, si tratta, ad esempio, di analizzare il significato etimologico della parola, le caratteristiche che distinguono un governo democratico da un governo oligarchico, le ragioni che spingono ad adottare il primo invece di quest’ultimo. Approccio estetico: il concetto esaminato viene visto attraverso quegli aspetti sensoriali ed esteriori che affascinano chi tende a guardare le cose con l’occhio dell’artista; nel caso del concetto di democrazia, ad esempio, si possono far ascoltare alcuni complessi musicali che suonano in gruppo senza guida o con la guida di un solo individuo; Approccio esistenziale: il concetto esaminato viene affrontato praticamente; nel caso del concetto di democrazia, ad esempio, si possono coinvolgere direttamente gli studenti a lavorare in gruppi che devono prendere decisioni gestendo loro stessi. Gli approcci post-vygotskijani La psicologia culturale Uno degli approcci che ha meglio capitalizzato l’eredità post-vygotskijana è quello della psicologia culturale, che si assegna l’ambizioso tentativo di definire le linee guida per le scienze umane, senza però voler essere una “nuova” psicologia ma piuttosto una scienza multidisciplinare, in grado di integrare e far convergere i diversi punti di vista delle varie discipline che studiano l’uomo. Uno degli obiettivi della psicologia culturale è quello di comprendere il processo di accumulazione delle informazioni e competenze di cui l’uomo è capace. Due autori hanno dato un contributo fondamentale: Bruner e Cole. Il contributo di Bruner Jerome Bruner sostiene che la relazione tra cultura collettiva e mente individuale è un tema che ha da sempre interessato la psicologia, fin dai tempi della filosofia dei presocratici. Ma la questione è complessa: infatti, se è vero che esiste una cultura che accomuna tutti gli esseri umani, allo stesso tempo, esistono anche differenze culturali che contraddistinguono le varie società e comunità. Bruner descrive i fondamenti del suo modo di intendere la psicologia culturale nel testo “Acts of Meaning” (“La ricerca di significato”) in cui è possibile riconoscere l’idea di una scienza intenta a superare la frammentarietà della psicologia moderna, accomunata dall’obiettivo di occuparsi dei processi di attribuzione di significato. Infatti, secondo Bruner, oggetto della psicologia culturale è proprio indagare come gli individui attribuiscono senso al mondo, come si relazionano al sistema di senso già stabilito dalla cultura di cui fanno parte, come si appropriano dei significati condivisi socialmente, delle credenze, dei valori e dei simboli culturali trasformandoli attraverso il loro uso. La principale preoccupazione della psicologia culturale diventa, sostiene Bruner, capire come gli individui costruiscono la loro realtà sulla base di una cultura comune, definita attraverso narrazioni e simboli. Pertanto si tratta di reintrodurre la psiche nella cultura e la cultura nella psiche, slogan coniato da Bruner nel tentativo di riparare al grave errore di aver separato gli studi di stampo umanista da quelli centrati sulle scienze naturalistiche. Occorre studiare la dimensione INTERSOGGETTIVA della realtà, costruita attraverso le interazioni sociali, piuttosto che ambire alla definizione di una realtà esterna e oggettiva. Pertanto Bruner contesta in modo deciso la concezione della mente come un meccanismo di processa mento delle informazioni, così come aveva sostenuto quella parte di cognitivismo da cui in seguito si è originata l’intelligenza artificiale. La mente è, invece, un insieme di processi tutti rivolti verso l’attribuzione di significato, processi complessi, confusi, ambigui, sensibili al contesto, pertanto impossibili da descrivere con leggi rigide e meccanicistiche. Cerchiamo ora di evidenziare il contributo di Bruner ai temi della psicologia dell’educazione, facendo riferimento a “The Culture of Education”, opera dedicata proprio ad esporre il contributo della psicologia culturale all’educazione, partendo dall’articolazione di 9 principi guida : 1) Il primo principio guida è quello della prospettiva e si riferisce all’idea per cui il significato attribuito a fatti, episodi, concetti dipenda sempre dalla prospettiva assunta da chi elabora tale significato. Quindi, per comprendere davvero il senso di qualcosa occorre essere consapevoli che sono possibili significati alternativi. Questo implica una relativizzazione dell’attribuzione di significato, per cui ogni significato dipende dalla prospettiva adottata. 2) Il secondo principio è denominato delle limitazioni. Bruner ne individua due: la prima limitazione riguarda la stessa natura del funzionamento della mente umana e del suo sviluppo, per cui oggi pensiamo e agiamo in certi modi che sono determinati, limitati, dalla storia della nostra specie (la mente umana, infatti, non funziona in maniera lineare secondo leggi di causa-effetto); la seconda limitazione è imposta dai sistemi simbolici accessibili alla mente umana, ovvero dai limiti imposti dalla natura stessa del linguaggio e dai diversi sistemi di dotazione prodotti dalla cultura. A tale proposito Bruner si chiede se la capacità di concepire certe idee sia inerente alla natura della mente o se sia invece legata ai sistemi simbolici su cui la mente fa affidamento per svolgere le sue operazioni. In caso, Bruner suggerisce di coltivare una maggiore consapevolezza linguistica per poter accrescere la capacità di interpretare significati, costruire conoscenza e riflettere sul pensiero. 3) Il terzo principio è quello del costruttivismo: la realtà non è data ma è creata attraverso l’attività di significazione e l’educazione ha come obiettivo proprio quello di fornire gli strumenti dell’attribuire significato al mondo e per costruire nuove realtà, modificando il mondo. 4) Il quarto principio è denominato dell’interazione e implica l’esistenza di un’alterità, reale o simbolica, e di una comunità. È attraverso l’interazione che si scopre che cos’è la cultura. Specifico della nostra specie è l’insegnamento deliberato di nozioni i contesti diversi (cioè quelli scolastici) da quelli in cui tali nozioni saranno utilizzate. Si tratta di una capacità che origina dal linguaggio ma che coinvolge la nostra straordinaria predisposizione verso l’intersoggettività: infatti, Bruner afferma che siamo la specie intersoggettiva per eccellenza. La tradizione pedagogica occidentale ha reso poco giustizia all’importanza dell’intersoggettività nella trasmissione culturale e solo recentemente si assiste a una crescente attenzione per questo aspetto e alle connessioni con i processi di apprendimento. Per Bruner, l’intersoggettività permette di sostituire il concetto di classe con quello di comunità, in cui tutti si aiutano reciprocamente e i processi di costruzione collaborativa sostituiscono quelli di apprendimento individuale, infatti non si impara in modo solipsistico ma cooperativo. 5) Il principio dell’esternalizzazione si fonda sull’idea che la funzione principale di ogni attività culturale collettiva sia quella di produrre opere che riescano ad avere in seguito vita propria. In tal senso possono essere considerate opere sia quelle artistiche sia strutture istituzionali, come ad esempio le leggi, le scoperte, le tecnologie di quella determinata cultura. L’opera è un prodotto culturale che produce orgoglio e senso di identità. Le opere collettive costituiscono “esternalizzazioni”, ovvero incarnazioni della cultura che li ha prodotti. L’opera a scuola per essere tale deve essere esposta. Infatti, esternalizzando il pensiero lo condividiamo e lo negoziamo, le opere servono proprio per negoziare significati. Con l’opera si concretizza un pensiero comune (es. di opera a scuola: il trofeo vinto dalla squadra di calcio della scuola , esposto nella bacheca in corridoio). Le opere sono la testimonianza degli sforzi mentali posti “fuori di noi” e pertanto suscettibili di riflessione, di trasmissione e di ulteriori modifiche. In sintesi l’esternalizzazione libera l’attività cognitiva dal suo carattere implicito, rendendola pubblica, negoziabile e sociale. 6) Il principio dello strumentalismo fa riferimento alle conseguenze che l’educazione comporta nella vita degli individui. L’educazione fornisce modi di pensare, sentire e parlare che vengono certificati dalla scuola, dal titolo conseguito, dal “distintivo” rilasciato. Questo principio svela il carattere politico che Bruner assegna all’educazione: la qualità dell’educazione dipende dalla capacità (o meglio dalla volontà) delle istituzioni scolastiche di combinare il talento con le opportunità, le occasioni che la scuola dovrebbe offrire. Un individuo può anche essere dotato, ma se il contesto in cui vive non gli fornisce occasioni, non potrà emergere. Spesso la scuola si concentra sul coltivare talenti, rintracciabili in vario modo, ad esempio mediante i test o altri strumenti di valutazione. Il nodo fondamentale a tal proposito sta nel saper apprezzare la varietà dei talenti senza privilegiare un modello unico di pensiero. La scuola dovrebbe offrire a tutti occasioni per sviluppare i più diversi talenti, accettando e valorizzando anche modi di pensare non egemonici, tenendo conto del contesto in cui i bambini vivono. 7) Il principio istituzionale rafforza il principio precedente, considerando la scuola un istituzione che si assume il compito di preparare i giovani a partecipare ad altre istituzioni culturali. La scuola, come qualsiasi altra istituzione, fornisce “merci” (ovvero gli studenti) che vengono scambiati nel mercato del lavoro e il valore dipende dal “distintivo”, dal loro “capitale simboli”, quindi dalle competenze e di titoli ottenuti. Le stesse denominazioni di istruzione “primaria” e “secondaria” sono delle metafore che alludono a questo meccanismo, così come tacitamente si accetta che un laureato di una certa università valga di più o di meno di uno proveniente da un’altra. Il valore di ciascuna istituzione educativa è determinato da prassi e procedure secolarizzate che, però, spesso, impediscono di stare al passo con i problemi contemporanei della società di cui fanno parte. Bruner finisce con il chiedersi se non sia il caso di pensare a nuove istituzioni educative, data l’evidente incapacità della scuola attuale di tener conto dei reali problemi sociali e, in alternativa, propone che si creino nuove istituzioni capaci di funzionare da cinghia di trasmissione tra scuola e società, che sappiano assumersi il compito di effettuare scelte politiche opportune. 8) L’ottavo principio proposto da Bruner è quello dell’identità e dell’autostima. Bruner considera il fenomeno del Sé a fondamento dell’esperienza umana, a cui l’educazione contribuisce enormemente. In particolare Bruner si focalizza su 2 aspetti che considera universali, trasversali a tutte le culture: la capacità d’azione (agency) e la valutazione. L’agency deriva dal senso di poter iniziare e portare a avanti delle attività per proprio conto, andando però oltre la semplice attività senso-motoria. Il riferimento è alla costruzione di un sistema concettuale che organizza e documenta contemporaneamente la memoria autobiografica, estrapolando significati da applicare al futuro, e le trame di un sé possibile, dotato di storia e di possibilità future. L’agency si evince dal modo in cui si narrano i fatti e si parla di sé, dal modo con cui si individuano relazioni causa-effetto, dall’attribuzione di responsabilità che va oltre gli aspetti morali e include il saper riconoscere che siamo gli ultimi arbitri del successo o del fallimento delle nostre azioni, spesso definite dall’esterno secondo criteri specificamente culturali, che la scuola dovrebbe chiarire. Questo aspetto costituisce il punto di incontro con la dimensione della valutazione, per cui oltre a considerarsi agenti, ci si deve considerare capaci di adottare criteri di valutazione culturalmente definiti allo scopo di stabilire l’efficacia delle nostre azioni. È questo misto di efficacia come agenti e di auto-valutazione che Bruner definisce “autostima”. Il modo con cui viene vissuta ed espressa l’autostima varia a seconda delle culture ma, in ogni caso, la sua gestione risente sicuramente della disponibilità di supporti esterni. Quindi, di fronte a un insuccesso, offrire una seconda opportunità, incoraggiare a riprovarci anche senza risultati eccezionali, offrire opportunità di dialogo e riflessione, sono tutte strategie utili per migliorare l’autostima degli studenti. 9) L’ultimo principio bruneriano è quello narrativo e riguarda le modalità di pensiero che possono aiutare gli studenti a creare una visione del mondo in cui immaginare un posto per sé. Bruner distingue due modi con cui gli esseri umani organizzano e strutturano la loro conoscenza: il pensiero logico-scientifico e quello narrativo. I contesti educativi, tradizionalmente danno maggiore rilevanza alla prima tipologia di pensiero e trattano, invece,il pensiero narrativo come decorativo, secondario, legato in particolare alle arti, dimenticando che spesso comprendiamo le nostre origini e credenze culturali proprio in forma di storie e curiamo non solo il contenuto di tali storie ma anche la loro forma e l’abilità con cui narrarle. Viviamo in un mare di storie, ci allerta Bruner, e così come i pesci sono gli ultimi a rendersi conto dell’importanza dell’acqua, noi non ci rendiamo conto di quanto siano preziose le storie di cui viviamo. Per Bruner è evidente che la competenza di elaborare e comprendere storie è essenziale per costruire il senso della propria vita e del mondo di cui facciamo parte. La scuola, quindi, dovrebbe aver cura di integrare il ragionamento e il pensiero scientifico con la sensibilità narrativa, utile a rintracciare il senso profondo delle cose, a stimolare la creatività e l’immaginazione ma anche a costruire e ricostruire il senso del Sé. Dopo aver delineato i 9 principi costituitivi di una psicologia dell’educazione fondata sulla psicologia culturale, Bruner ridefinisce gli obiettivi della psicologia dell’educazione in termini di sfida alla comprensione dell’intersoggettività. L’intersoggettività è per Bruner “il processo per cui si giunge a sapere che cosa hanno in mente gli altri e ci si adatta di conseguenza”, è proprio questo il processo che fa di noi la specie culturale per eccellenza. Il contributo di Cole Micheal Cole è lo psicologo che più di tutti ha sottolineato come l’assunzione della prospettiva culturale non sia solo necessaria ma già implicita nella psicologia stessa. Cole nel suo testo fondamentale “Cultural Psychology: Once and Future Discipline” (1996), ripercorre infatti la storia della psicologia allo scopo di dimostrare come l’istanza culturalista fosse in germe già da tempo nella psicologia ma, per varie ragioni, tale germe sia stato incapace a lungo di produrre i risultati attesi. Cole si rammarica di quanto poco la psicologia abbia seguito le sollecitazioni provenienti dalla cosiddetta “seconda psicologia”, ovvero la psicologia che si contrappone, integrandola, al paradigma sperimentalista fondato sulla scomposizione dei fenomeni da studiare in variabili da controllare e misurare. L’oggetto di studio della psicologia culturale deve essere l’analisi degli eventi quotidiani, delle azioni svolte in contesti reali. Nel 1963 Cole riceve l’incarico dal governo americano di migliorare i risultati scolastici dei bambini kpelle (popolazione della Liberia dedita alla coltivazione del riso), in particolare nel curricolo di matematica. Cole resta molto impressionato dalla differenza di comportamento di questi bambini quando osservati a scuola e quando, invece, esaminati in contesti informali. A scuola sembrano incapaci di effettuare operazioni matematiche semplici, mentre durante i giochi al mercato e in altre attività quotidiane mostravano capacità raffinate. Non era solo un problema di memorizzazione, ciò che mancava era proprio la contestualizzazione dei compiti, presentati con un linguaggio formale, noto e ovvio per gli occidentali, astruso e incomprensibile per gli indigeni abituati a sistemi di misurazione ancorati agli utensili (coppe, mestoli) utilizzati per misurare e vendere il riso. Cole mostrò come la capacità di memorizzare degli indigeni aumentasse enormemente quando invece di una lista di parole si proponeva una narrazione che utilizzava gli stessi termini per elencare i doni offerti da un pretendente per poter sposare la figlia del capo tribù. Il focus di interesse di Cole si sposta, quindi, sul ruolo che l’educazione gioca nello sviluppo culturale ed egemonico di un paese. In tal senso Cole si ricollega agli studi di Lurjia sui contadini non alfabetizzati dell’Asia centrale per sostenere che la scolarizzazione produce un cambiamento profondo nel modo di ragionare e pensare delle persone. I test con cui si valutano gli effetti della scolarizzazione sono basati sui compiti utilizzati a scuola, che vengono scelti come test proprio perché discriminano meglio i livelli accademici. È questa la ragione per cui gli studenti occidentali ottengono risultati migliori ai test standardizzati dei loro coetanei di altre parti del mondo dove la scolarizzazione è meno pervasiva. Pertanto, i processi culturali sono i grado di influenzare fortemente i processi cognitivi, tanto da considerare anche i processi primari (come la percezione) influenzati dalla cultura. L’attività mentale emerge dall’azione mediata degli artefatti ed è svolta da più persone collaborativamente, la mente è quindi co-costruita e distribuita. Gli artefatti sono strumenti culturali, materiali o immateriali, che mediano il rapporto tra uomo e ambiente. Essi si possono dividere in 3 grandi categorie: - Artefatti primari: strumenti e dispositivi impiegati direttamente nell’attività umana e per interagire fra loro e con l’ambiente (dalla sedia ai mezzi di comunicazione); Artefatti secondari: le rappresentazioni mentali di quelli primari, in forma di modelli mentali, schemi cognitivi e norme (ad esempio la macchina e la strada sono degli artefatti primari, mentre il codice della strada è un artefatto secondario che organizza concettualmente quelli primari; - Artefatti terziari: sono delle sovrastrutture che organizzano gli artefatti primari e secondari ( una filosofia, ideologia, religione) . Possiamo sostenere che Cole individuando la categoria degli artefatti abbia riorganizzato quelli che Vygotskij chiamava strumenti tecnici e psicologici. Gli strumenti tecnici corrispondono agli artefatti primari, mentre quelli psicologici agli artefatti secondari e terziari. La differenza principale tra Vygotskij e Cole è che il primo si è occupato di più dei processi cognitivi, mentre il secondo si è focalizzato sugli aspetti psicologici della vita pratica. Cole propone di utilizzare anche a scuola una metodologia multilivello: tenere conto contemporaneamente dell’individuo, del contesto situato e locale e del contesto storico-culturale più ampio. Lavorando in una classe per comprendere i processi cognitivi si dovrebbe cercare di mettere in relazione quello che accade in classe qui e ora con l’evoluzione della classe, con la storia della scuola in cui la classe si trova e dell’istituzione formativa a cui la scuola appartiene. La scuola però poco si presta a questo tipo di sperimentazione, per cui Cole individua altri contesti che possano rappresentare aree contigue alla scuola: biblioteche, doposcuola e ludoteche. La sua proposta di intervento prende il nome di Quinta dimensione e fa fortemente leva sugli aspetti ludici per motivare allo studio. Essa è un insieme di giochi telematici e da tavola, dove vi è un personaggio immaginario, il Wizard (mago) che coordina le attività. Esso è assistito da ragazzi un po’ più grandi (generalmente universitari coordinati da un docente ma anche boy-scout) che rappresentano figure di mediazione perché sono più adulti dei bambini, quindi possono aiutarli a comprendere le regole del gioco e a migliorare le loro prestazioni, ma come loro sono ancora studenti, seppure a livello più avanzato, quindi devono loro stessi rispettare le regole del gioco. L’obiettivo generale del gioco è accumulare punteggi per far avanzare la propria posizione nella gerarchia del sistema, fino a diventare assistenti del Wizard; si ottengono anche punteggi aiutando gli altri studenti in difficoltà. In sintesi, ciascuna Quinta dimensione propone su piccola scala un sistema sociale che aiuta i ragazzi a passare da attività di gioco ad attività formali di apprendimento. Approccio storico-culturale: dalla teoria dell’attività alla teoria delle reti di attività Vygotskij propose una psicologia fondata sull’agire umano mediato da oggetti e rivolto verso un obiettivo produttivo. Per sottolineare l’importanza del radicamento nella dimensione storicoculturale, gli psicologi russi propongono di denominare il loro approccio CHAT (Cultural Historical Activity Theory), ovvero teoria dell’attività storico-culturale. La teoria dell’attività storicoculturale, si occupa del ruolo svolto dagli oggetti di mediazione considerati come artefatti, la ragione di questa attenzione è da rintracciare nella capacità, tipica ed esclusiva degli uomini di creare strumenti in grado di potenziare la propria azione, di far evolvere tali strumenti e di trasmetterli di generazione in generazione. Per capire come si avviano i processi di sviluppo di un bambino occorre conoscere il contesto-storico culturale in cui tale bambino nasce e cresce. Cole e Engestrom affermano che tale analisi deve partire dalle azioni possibili in un determinato contesto. Questo enunciato sancisce l’indissolubilità tra uomo e contesto e diventa fondamento della teoria dell’attività. Kaptelinin e Nardi individuano 5 principi basilari: La mediazione: qualsiasi azione l’uomo compia è sempre inevitabilmente mediata da strumenti. Dato che gli uomini non hanno accesso diretto alla realtà, utilizzano strumenti che mediano la sua interazione con il mondo e lo aiutano a dare senso e significato a quello che fa. Per descrivere questo concetto si ricorre ad una rappresentazione con un triangolo formato da frecce, in cui i vertici sono strumento, soggetto e oggetto. Gli strumenti si interpongono tra soggetto e oggetto. Gli strumenti sono creati e continuamente trasformati durante lo svolgimento delle attività e portano più o meno visibilmente i segni del loro sviluppo storico-culturale. L’uso degli strumenti va quindi inteso come un’accumulazione e una trasmissione sociale del sapere, come una sorta di testimone che ci passiamo di generazione in generazione apportandovi continuamente modifiche e mutamenti. Strumento Soggetto Oggetto La strutturazione gerarchica dell’attività: sebbene le attività orientate verso un oggetto rappresentino l’unità d’analisi fondamentale, queste possono essere scomposte in 2 livelli più analitici: le azioni e le operazioni. Le azioni vengono svolte per raggiungere l’obiettivo e sono intraprese consapevolmente; esse però vengono implementate attraverso operazioni automatiche, svolte spesso quasi inconsapevolmente, che non hanno scopi a sé stanti ma sono funzionali alle azioni. Ad esempio, frequentare l’università per trovare un lavoro è un’attività con uno scopo chiaro e preciso, in grado di motivare un insieme organizzato di azioni (come partecipare alle lezioni e sostenere esami). Tali azioni sono svolte anche grazie ad una seri di operazioni routinarie, quasi automatiche (come selezionare un certo posto in aula durante le lezioni, oppure prendere appunti, svolgere personali ritualità prima di sostenere un esame). Gli elementi che compongono un’attività non sono stabili e rigidi, ma possono cambiare dinamicamente, a seconda delle condizioni in cui svolge l’attività. Leont’ev fa l’esempio dell’imparare a guidare una macchina : cambiare la marcia richiede inizialmente un’attenzione e un’intenzionalità precisa, di fatti poche sono le “operazioni” che si riescono a svolgere automaticamente, senza doverci pensare troppo. In seguito dopo aver familiarizzato con l’attività del guidare, l’attività del cambiare la marcia diventa un’operazione automatizzata. Molte azioni, infatti, sono destinate a scendere al rango di operazioni che pian piano diventano sempre più meccaniche. Orientamento sull’oggetto: questo principio sancisce che ogni attività è rivolta verso un oggetto che è sempre provvisto di due diverse definizioni: una oggettiva, data dalle scienze naturali e un’altra, invece, socialmente e culturalmente definita. Quindi gli oggetti usufruiscono sia di una definizione scientifica e tecnica sia di una definizione determinata dal loro uso quotidiano e contestualizzato. L’internalizzazione/esternalizzazione: dell’attività che permette di differenziare tra attività interne ed esterne. Le une non possono essere comprese senza le altre dato che sono legate in un continum dinamico per cui vengono reciprocamente trasformate. Le attività sono prima immaginate, rappresentate mentalmente e poi realizzate nel mondo reale. Nel passaggio dalla rappresentazione interna alla realizzazione esterna le attività subiscono inevitabilmente delle modifiche tali da indurre a riorganizzare la realizzazione esterna e di conseguenza anche la rappresentazione interna risulta ristrutturata. Lo sviluppo delle attività: per comprendere le attività occorre analizzarne lo sviluppo nel tempo, considerare come si modificano e si storicizzano. La teoria con il tempo ha subito diverse modifiche ed è stata rimodellata tenendo in maggior conto del ruolo delle interazioni, della comunità e della divisione del lavoro. Si profila così la teoria dei sistemi di attività, nella quale il soggetto viene riconsiderato come parte di un gruppo o di una comunità composta da persone che condividono obiettivi e regole, funzionali alla realizzazione delle azioni. Il semplice triangolo proposto per esplicitare il ruolo della mediazione diventa ora un triangolo complesso. Senso Significato Scopo Questa nuova rappresentazione sancisce il passaggio dalla prima generazione della teoria dell’attività alla seconda generazione della teoria dei sistemi di attività, dove viene rappresentata la relazione tra individuo e azione collettiva. L’oggetto è raffigurato circondato da un ovale per indicare che le azioni sono sempre orientate verso un oggetto, esplicitamente o implicitamente caratterizzate da interpretazione e sense-making. La terza generazione è quella della teoria delle reti di attività. Essa focalizza l’attenzione sulla comprensione del dialogo, della molteplicità delle prospettive e di voci che si realizzano entro e tra sistemi oltre che le dinamiche delle reti che si creano tra i vari sistemi di attività che interagiscono tra di loro. L’obiettivo ultimo è comprendere l’influenza reciproca che gli individui subiscono ed esercitano all’interno dei contesti culturalmente complessi. Quando due contesti culturalmente diversi entrano in contatto costruiscono un terzo oggetto che include e al tempo stesso va oltre la somma dei due oggetti prodotti dai sistemi. Dall’approccio situato alla cognizione distribuita L’approccio del contesto situato nasce per contrastare l’idea di programmabilità delle azioni. Sostenere la situatività delle azioni significa considerare la dimensione più dinamica e meno predefinita: le azioni vanno considerate come capaci di adattamenti plastici alle particolarità delle situazioni. L’analisi delle azioni deve rendere conto del complesso sistema di interdipendenze cognitive e contestuali su cui poggia il sistema di significati e di conoscenze. L’approccio situato consente di predisporre in modo innovativo le situazioni di apprendimento considerando in particolare quelle pratiche educative in cui i materiali e gli strumenti utilizzati assumono un ruolo così rilevante da riuscire a condizionare in modo sostanziale i processi in atto. In questi casi adottare una prospettiva situata significa indagare il modo unico e specifico con cui un certo strumento è utilizzato in quel determinato contesto rintracciandone le connessioni con il contesto culturale più ampio. In campo educativo si parla specificamente di apprendimento situato per evidenziare che non ci si occupa più di generiche abilità di studio ma della costruzione di conoscenza in contesti diversi, quindi non dell’acquisizione di sapere, ma dello studio delle dinamiche attraverso cui determinate persone costruiscono un significato condiviso del contesto, attraverso le azioni svolte in esso. Secondo l’approccio situato, la mente funziona, entrando in connessione con il sistema di strumenti, attività, individui in cui l’azione è situata. Questo presupposto aggiunge all’idea che la cognizione non sia un processo individuale che si svolge nella testa degli individui, ma un processo che prende forma nell’interazione sociale e contestuale. COGNIZIONE DISTRIBUITA significa che i processi cognitivi necessari per affrontare una certa situazione, pur venendo percepiti come se si realizzassero nella mente individuale, in realtà vengono attivati grazie a dinamiche di interazione con altri individui e con gli strumenti presenti nel contesto. Ad esempio, se nel fare la spesa ci facciamo aiutare da un amico, magari chiedendogli di ricordare i prodotti da acquistare (facendo leva sul processo interno di memoria del nostro amico) o potremmo passargli una lista per farci dire ciò che manca. Si tratta di un processo di cognizione distribuita tra persone e artefatti. La prospettiva dialogica di Bachtin Nella prospettiva dialogica fondamentali sono i concetti di voce e di polifonia. Si tratta di concetti interconnessi, che partono dal presupposto che ciascuno di noi è dotato di molte “voci” ovvero punti di vista a volte anche contrastanti e contraddittori, che sono solo parzialmente “nostri”. Molto di quello che diciamo, lo prendiamo in prestito da altri, che hanno espresso punti di vista, concetti, emozioni, prima di noi e che noi usiamo come punto di partenza, integrandole, elaborandole ulteriormente, a volte per dissentire a volte per divergere. L’insieme delle voci compone una polifonia multivocale, non necessariamente armonica. Vivere, dichiara Bachtin, significa partecipare a dialoghi: fare domande, richiedere attenzione, dare risposte, essere in accordo o in disaccordo. È solo nel dialogo che le persone partecipano alla vita, anzi prendono vita. Tuttavia per avere un dialogo occorrono almeno due voci dotate di intenzione di ascolto reciproco, ma anche di punti di vista diversi, di posizioni diverse che possono appartenere pure alla medesima persona; per cui, sebbene per avere un dialogo occorrano almeno 2 voci, non sono necessarie due persone diverse, grazie ala capacità di ciascuno di noi di esprimersi attraverso più voci. La motivazione ad apprendere Nel linguaggio comune l’espressione “allievo motivato” richiama alla mente un insieme di atteggiamenti e comportamenti riconducibili alla “voglia di imparare”, quali l’interesse per le proposte didattiche dell’insegnate e per le materie scolastiche, una buona tenuta nello studio, il senso di responsabilità nei confronti dei doveri scolastici, un certo grado di sicurezza di sé. Per converso, “allievo demotivato” richiama un allievo svogliato, poco sicuro di sé, in genere scarsamente in grado di affrontare le difficoltà nello studio. Nel linguaggio psicologico, a differenza di quello comune, i termini possiedono significati assai meno densi e molto più precisi, elaborati nell’ambito di quadri teorici diversi. Per esempio, le caratteristiche dell’allievo motivato appena citate sono state studiate da teorie diverse: la voglia di imparare rimanda alla teoria della motivazione intrinseca, la sicurezza di sé alle ricerche sul concetto di sé e sul senso di autoefficacia, la tenuta nello studio al concetto di autoregolazione. Non c’è un’unica teoria che renda conto della motivazione scolastica e, del resto, lo stesso concetto di motivazione ha un significato talmente ampio, comprensivo di tanti aspetti e processi, che per usarlo in modo significativo è necessario far riferimento a singole teorie, nell’ambito delle quali le varie manifestazioni del comportamento motivato o demotivato sono analizzate e interpretate. L’approccio comportamentista alla motivazione I comportamentisti non hanno affrontato il concetto di motivazione vero e proprio, perché esso sta all’interno della black box, più che altro per loro il concetto di motivazione si lega a quello di rinforzo. Hull e Skinner sono i due comportamentisti che più si sono avvicinati al concetto di motivazione. Per Hull la motivazione (ad es. il bisogno di cibo) spinge l’organismo alla ricerca della sua soddisfazione, cioè a raggiungere l’equilibrio omeostatico che la privazione del cibo ha causato. Questa soddisfazione costituisce il rinforzo, che consolida e rafforza la risposta dall’organismo, cioè il comportamento che ha immediatamente preceduto l’evento rinforzante, il rinforzo “fissa” la risposta dell’organismo che ha portato alla soddisfazione del bisogno. In questo modo la risposta viene appresa. Per Hull un organismo agisce per ridurre dei bisogni. Egli distingue tra bisogni primari (fame, sete, sesso, evitare il dolore) e bisogni secondari, cioè bisogni appresi per condizionamento (per es. il bisogno di guadagnare di più per comprarsi il cellulare di ultima generazione). I bisogni determinano delle pulsioni, cioè stimoli che sorgono da uno stato di bisogno e hanno la funzione di attivare il comportamento. Quando lo stimolo della pulsione è ridotto (ad es. quando l’aver ingerito cibo riduce lo stimolo della fame) si verifica la condizione di rinforzo. Per Hull affinché ci sia apprendimento è necessario che ci sia un bisogno(disequilibrio omeostatico) che porta ad una pulsione che porta al suo soddisfacimento e quindi al rinforzo (riequilibrio omeostatico). La soddisfazione del bisogno genera una maggior adattabilità all’ambiente, perché per soddisfarlo sono pronto a mettere in atto anche risposte comportamentali nuove. (es. il gatto sa che per soddisfare il suo bisogno di cibo deve andare in cucina dove c’è la ciotola piena, ma se troverà la porta della cucina chiusa dovrà mettere in atto un nuovo comportamento per soddisfare il suo bisogno; magari troverà la porta del cortile interno aperta e riceverà da mangiare dalla vicina e in questo modo verrà rinforzato per il suo nuovo comportamento; ha imparato una nuova risposta comportamentale, per soddisfare il suo bisogno di cibo può anche andare dalla vicina dove esso verrà soddisfatto). Per Skinner, invece, perché vi sia apprendimento non è necessario che vi sia un bisogno, l’unica variabile importante è il rinforzo ( il gatto può anche non essere affamato e non aver bisogno di mangiare , però se mangia ci sarà comunque una conseguenza piacevole (un rinforzo) che consoliderà il comportamento). Per Skinner l’allievo motivato è quello a cui un sapiente dosaggio del rinforzo consente di mantenersi sempre pronto ad imparare. Il ruolo dell’insegnante è quello di predisporre un ambiente rinforzante. I comportamentisti più che parlare di motivazione si riferiscono all’uso del rinforzo , per controllare il comportamento attraverso lo stimolo. Se l’individuo non è in grado immediatamente di raggiungere il livello di prestazione atteso, il suo comportamento viene modellato attraverso un percorso graduale (istruzione programmata). Una volta che il livello atteso di prestazione è stato raggiunto, viene rinforzato abbastanza spesso per mantenere la continuità, mentre ogni comportamento incompatibile con quello atteso viene estinto mediante l’assenza di rinforzo. Buona parte delle pratiche scolastiche degli insegnanti è ancora oggi impregnata di comportamentismo (vedi gli stessi voti visti come premi, tabelloni con simboli di merito e cerimonie di conferimento dei premi). Se molti studiosi sostengono l’efficacia immediata di tale approccio, altri ne evidenziano il limite nell’ancorare in modo eccessivo l’attività scolastica al rinforzo. Resta aperta la questione del come far cogliere agli studenti l’importanza e l’utilità in sé dello studio qualora sia stato percepito per lungo tempo come un’attività strumentalmente rivolta al conseguimento di un vantaggio, che per di più non ha nessi diretti con il contenuto studiato. L’introduzione di ricompense da parte dell’insegnante dovrebbe essere una scelta ampiamente mediata nei modi e nei tempi, pena la perdita del “gusto” dell’imparare che dovrebbe mantenersi ben oltre la scuola. Le 3 dimensioni della motivazione Lo studio della motivazione ad apprendere degli ultimi trent’anni è stato caratterizzato dai seguenti aspetti: - - Il ruolo attivo dell’individuo. La motivazione non va ricondotta alla sola soddisfazione passiva dei bisogni primari ma sorge quando l’individuo si pone degli obiettivi. La modalità con cui l’individuo si percepisce in relazione ad un compito che dovrà svolgere e al risultato positivo o negativo del compito stesso (rapporto prestazione – senso di competenza). La terza dimensione riguarda gli strumenti che l’individuo mette in atto per raggiungere i suoi obiettivi (con riferimento anche alle strategie messe in atto). La teoria degli obiettivi di riuscita Il termine obiettivo nel linguaggio comune indica un target, un vero e proprio traguardo. Nel caso della teoria degli obiettivi di riuscita il significato del termine è diverso. Non si tratta di un risultato da raggiungere ma del perché, della ragione per cui un individuo si impegna in un compito o attività di apprendimento. Gli obiettivi di riuscita sono quindi superordinati rispetto ai risultati particolari che lo studente si propone di ottenere. Per esempio l’obiettivo target per due studenti può essere lo stesso, quello di sostenere un esame, ma magari per uno studente l’obiettivo di riuscita può essere quello di approfondire una materia che ritiene utile per la futura professione, mentre per un altro può essere quello di prendere il voto massimo per farsi apprezzare dal professore e sentirsi migliore dei colleghi. L’obiettivo di riuscita non è un traguardo ma una tendenza, un orientamento dell’individuo verso la realizzazione del sé. Questo orientamento si riflette in un complesso coerente di comportamenti e atteggiamenti nelle situazioni in cui un individuo vuole riuscire. Un obiettivo di riuscita comporta : - una credenza dell’individuo circa la propria abilità , la tendenza ad attribuire il successo o l’insuccesso a determinate cause piuttosto che ad altre ; un certo grado di perseveranza ed espressione di affettività positiva o negativa in risposta ad un successo o ad un insuccesso Il costrutto degli obiettivi di riuscita è emerso dalla ricerca condotta negli anni ottanta da alcuni studiosi americani, tra cui soprattutto la Dweck. La Dweck nella costruzione della sua teoria si pone la seguente domanda: perché si studia? O meglio, per chi si studia? Si può studiare per se stessi, per migliorare la propria padronanza e competenza, ma anche per l’approvazione degli altri. La Dweck inizia la sua ricerca analizzando la situazione dell’insuccesso. Il momento in cui uno studente sperimenta l’insuccesso è fondamentale, perché egli in quel momento si pone delle domande circa il proprio impegno, le strategie utilizzate, le proprie capacità, se è in grado di raggiungere l’obiettivo che si è prefissato e cosa pensano gli altri del proprio insuccesso (ciò può provocare senso di vergogna e di inadeguatezza). La capacità di gestione dell’insuccesso è fondamentale. La studiosa ha iniziato la sua ricerca proprio ponendo gli studenti di fronte ad un insuccesso. Gli studenti reagivano in due modi diversi: - - alcuni tendevano a non scoraggiarsi, mostravano persistenza, cercavano strategie più efficaci, attribuivano l’insuccesso a scarso impegno e o a strategie inefficaci (pattern di risposte adattive di “padronanza”) ; alcuni tendevano a scoraggiarsi, mostravano minor persistenza, manifestavano frustrazione e aggressività, le loro strategie diventavano rigide e ripetitive (pattern chiamato di “sconforto”). Per spiegare questi diversi pattern Dweck usò il costrutto degli obiettivi di riuscita .Come affermato precedentemente il termine obiettivi di riuscita indica lo scopo (il perché, la ragione) per cui uno studente affronta una situazione di apprendimento. Dweck ha individuato due obiettivi : Obiettivi di padronanza ; Obiettivi di prestazione. Gli studenti orientati alla padronanza (o centrati sul compito) perseguono obiettivi relativi al compito: - sono soprattutto motivati a capire ciò che fanno e a farlo bene; hanno generalmente fiducia in se stessi (alto senso di efficacia); persistono nel compito se incontrano difficoltà ; esprimono minor affettività negativa quando non riescono; mostrano strategie cognitive più flessibili; si sanno autoregolare meglio; trovano l’attività intrinsecamente motivante. Gli studenti orientati alla prestazione (o centrati sul dimostrare la propria abilità) perseguono risultati che derivano dalle aspettative sociali associate al compito: - la valutazione e l’idea che si fanno gli altri è fondamentale per questi studenti; lo studente mostra maggiore vulnerabilità verso lo sconforto soprattutto nei casi di una bassa percezione della propria abilità; mostra minore persistenza nel compito; mostra comportamenti aggressivi di fronte all’insuccesso; utilizza strategie rigide e ripetitive. Il primo orientamento sarebbe funzionale e adattivo rispetto all’insuccesso, il secondo maladattivo. L’obiettivo di prestazione nutre l’autostima attraverso il risultato, quello di padronanza attraverso l’impegno, la costanza e le nuove competenze acquisite. In una delle diverse ricerche svolte, la Dweck propose a dei bambini una serie di esercizi matematici in ordine crescente di difficoltà. Quando si sbagliava un compito bisognava tornare a quello di difficoltà precedente ririsolverlo e poi andare a quello successivo. Durante le diverse fasi gli studenti dovevano dire a voce alt tutto ciò che pensavano. (Precedentemente venne fatto svolgere agli studenti un test per assicurarsi che non vi fossero tra loro differenze nelle abilità matematiche). La studiosa notò che i bambini orientati alla padronanza se sbagliavano non si scoraggiavano, si auto-motivavano con frasi del tipo “Adoro le sfide!”, tornavano a quello precedente lo svolgevano con successo poi andavano a quello successivo e riuscivano a svolgerlo. Gli studenti orientati alla prestazione, invece si scoraggiavano con frasi del tipo “Non ci riuscirò mai” “La colpa è mia” “Evidentemente non sono così bravo come pensavo”. La cosa interessante è che , avendo sbagliato l’esercizio dovevano rifare quello precedente che un attimo prima avevano svolto con successo, ma non riuscivano a svolgere più neanche quello! Le loro capacità cognitive, in seguito all’insuccesso avevano subito un decremento. I bambini con obiettivi di padronanza spostavano l’insuccesso da ragioni interne (capacità, bravura) a ragioni più facilmente giustificabili e controllabili (l’impegno), ciò permetteva loro di essere cognitivamente più flessibili e quindi di ottenere prestazioni migliori. La teoria degli obiettivi di riuscita si riferisce ad un particolare compito o area disciplinare, infatti in uno stesso bambino vi possono essere sia obiettivi di prestazione che di padronanza quando si approccia a diverse materie. Il bilanciamento di entrambi gli orientamenti ci permette di avere una strategia di gestione dell’insuccesso più funzionale. Ciò che ci spinge ad adottare uno dei due orientamenti è soprattutto la percezione che abbiamo della nostra intelligenza. La Dweck ha postulato inoltre l’esistenza del costrutto della “teoria dell’abilità” (o dell’intelligenza) come predittore dell’adozione degli obiettivi di riuscita .Per chi ha un obiettivo di padronanza riuscire significa migliorare le proprie conoscenze e abilità in un settore o sviluppare la propria competenza: - Ciò che conta è l’impegno, persistere nelle difficoltà; I criteri di valutazione sono in relazione all’individuo e non sono correlati a fare meglio o peggio degli altri; Gli errori sono visti come tappe fondamentali dell’apprendimento; Le abilità sono viste come qualcosa da sviluppare e apprendere. Questa visione della propria intelligenza viene definita come incrementale, in quanto l’individuo crede che la propria competenza e conoscenza possa migliorare attraverso le sfide, vede l’intelligenza come un qualcosa di dinamico che può migliorare nel tempo. Per chi ha un obiettivo di prestazione, riuscire significa ottenere bei voti, superiorità sui pari, riconoscimento da parte degli adulti: - - I criteri di valutazione sono correlati a fare meglio o peggio degli altri ; Gli errori rappresentano l’insuccesso e la dimostrazione di scarsa capacità; Le abilità sono viste come “entità fisse” ; L’insuccesso o il successo sono visti come un’esplicitazione della propria intelligenza (per cui se sbaglio non sono intelligente, se sono l’unico ad averlo fatto giusto significa che sono più intelligente degli altri); L’individuo non pensa di poter superare i propri limiti che riaffiorano invece ad ogni insuccesso; Questa visione della propria intelligenza viene chiamata entitaria, in quanto viene vista come un qualcosa di già dato dalla nascita e immodificabile, o modificabile solo in minima parte. Essi vedono l’insuccesso come manifestazione della loro poca intelligenza quindi prediligono compiti semplici (in cui sanno che andranno bene) a compiti sfidanti. L’insuccesso li porta ad un blocco, abbassa il loro interesse e li fa trovare scuse esterne, giustificazioni per proteggersi dal fallimento. Mentre un bambino con percezione incrementale vedrà i bambini che sono più avanti di lui non come una minaccia, ma gli si avvicina perché vede in loro un modo per aumentare le proprie capacità, una risorsa. Il bambino con una visione dell’intelligenza incrementale vede le sfide come motivanti e stimolanti perché sono un’occasione per migliorare le proprie capacità, non qualcosa che lo minaccia. Gli insuccesso è una dimostrazione che le strategie che ha utilizzato non erano quelle giuste, quindi può cercare di usarne altre per migliorare la propria competenza. Anche la teoria delle abilità non riguarda la percezione della propria intelligenza in generale ma le convinzioni che un bambino ha rispetto a una data materia o settore. Ad esempio, posso avere una teoria incrementale della mia intelligenza nelle abilità umanistiche e una teoria entitaria in quelle matematiche. Gli obiettivi di padronanza e quelli di prestazione possono essere indotti, attraverso l’induzione ad assumere una teoria entitaria o incrementale dell’intelligenza. In una ricerca la Dweck ha proposto a due gruppi di studenti un’unità di apprendimento su Einstein: - - al primo gruppo Einstein è stato presentato in maniera incrementale (dicendo ad es. che Einstein era dislessico, era stato bocciato a scuola, ma impegnandosi in ciò che amava è risuscito ad diventare uno degli scienziati più importanti al mondo); al secondo gruppo Einstein è stato presentato in maniera entitaria (dicendo che Einstein era sempre stato un genio fin da piccolo). Dopo di che sono stati proposti ai due gruppi 2 compiti (per entrambi gruppi uguali) uno più facile (veniva detto che non avrebbero imparato niente ma probabilmente avrebbero preso un buon voto) uno più difficile(veniva detto che era difficile ma gli avrebbe aiutati a migliorarsi). Il gruppo a cui era stata indotta una teoria incrementale dell’intelligenza scelse il compito più difficile, quello a cui era stata indotta una teoria entitaria quello più facile. Interessante è la questione del rinforzo, infatti, la studiosa ha constatato che la percezione della propria intelligenza dipende dai i feedback che vengono dati. La Dweck si è chiesta : ci sono delle lodi che fanno bene e delle lodi che fanno male? La studiosa ha individuato 3 tipologie di lodi: - La lode alla persona; La lode al compito; La lode alla strategia. La Dweck ha notato che i feedback alla persona, al compito e alle strategie hanno un effetto diverso nel condizionare il suo atteggiamento nei confronti dell’insuccesso. Per spiegare queste diverse tipologie di lodi si può ricorrere all’esempio dell’insegnante che valuta un compito di matematica: - Ad un ragazzo dice “Sei proprio bravo. Sei proprio un piccolo genio!” (lode alla persona); Ad un altro dice “Il risultato del tuo compito è ottimo!” (lode al compito); Ad un altro dice “Il teorema che hai utilizzato è proprio quello che ti chiedevo di usare nel compito”(lode alla strategia). La lode alla persona lascia sempre un’ansia da prestazione, è vissuta come controllante. Per il ragazzo diventerà inconsapevolmente importante dare sempre l’immagine di se stesso agli altri come molto intelligente. La lode alla persona si collega ad una visione entitaria dell’intelligenza e situazioni future di insuccesso possono portare ad un senso di grave perdita, perché il bambino vede il successo come una dimostrazione di intelligenza e l’insuccesso come dimostrazione di poca intelligenza. I bambini lodati alla persona, in seguito ad un insuccesso, avranno un comportamento orientato alla passività. La lode alle strategie porta, invece, ad un comportamento orientato alla padronanza. Di fronte all’insuccesso il bambino non si scoraggia, ma pensa “se prima ho fatto bene il compito e ora l’ho fatto male è perché non ho usato la tecnica giusta, non è colpa mia ma della strategia che ho utilizzato, se cambio strategia potrò riuscire”. Questi bambini probabilmente saranno in grado di mettere in atto un comportamento funzionale di fronte all’insuccesso. La lode al compito porta ad un comportamento intermedio. Dei bambini possono essere portati più sul versante della padronanza, altri più sul versante della prestazione. Probabilmente questa differenza dipende dalla base di partenza del bambino: se era già orientato alla padronanza, metterà in atto un comportamento funzionale di fronte all’insuccesso, se era già orientato alla prestazione un comportamento disfunzionale. Questo risultato è stato riscontrato dalla Dweck sia per le lodi che per le critiche. Infatti, se una lode o una critica (“sei sempre il solito inopportuno!”) è rivolta alla persona il bambino comunque ne risentirà e svilupperà strategie mal adattive di fronte all’insuccesso. Se la lode o la critica (“La prossima volta prova ad applicare questa tecnica”) è rivolta alle strategie è sempre utile e buona per il bambino e lo porterà ad applicare strategie funzionali. Se la lode o la critica è rivolta al compito ciò può portare ad un risultato intermedio perché per alcuni bambini può essere funzionale per altri no. La Dweck ha perciò capito che si può modulare l’orientamento degli studenti anche grazie ad un uso corretto di lodi e critiche. Un’altra studiosa collaboratrice della Dweck, la Elliot, analizzando i risultati delle ricerche della Dweck, rilevò che l’orientamento di prestazione non porta sempre a pattern maladativi in caso di insuccesso ma può avere anche effetti positivi .La teoria di Dweck manca della distinzione tra una componente di avvicinamento e una componente di evitamento. La Elliot propose quindi, inizialmente, di sostituire la dicotomia proposta da Dweck in una tricotomia che comprendeva obiettivo di padronanza, obiettivo di approccio di prestazione, obiettivo di evitamento di prestazione. Successivamente la Elliot e McGregor ne aggiunsero un quarto, l’obiettivo evitamento di padronanza, che fa sì che si crei una tabella 2X2: Obiettivi approccio di padronanza: focalizzati sullo sviluppo della competenza;l’individuo si confronta con se stesso ed è motivato ad agire con lo scopo di sviluppare una maggiore padronanza ; Obiettivi di evitamento di padronanza: l'individuo agisce per evitare situazioni che lo facciano sentire poco competente nei confronti di se stesso, evita le situazioni che lo fanno sentire poco compente nei confronti dell’idea che ha di sé e delle prestazioni precedenti; Obiettivi di approccio di prestazione: focalizzati sul raggiungimento di un livello di competenza in relazione agli altri, è motivato ad agire con lo scopo di riuscire bene o meglio degli altri ; lo studente vuole dimostrare agli altri che è bravo (ad es., studia per ottenere la laurea e avere un titolo che gli consente di essere apprezzato dagli altri); Obiettivi di evitamento di prestazione: focalizzati sull’evitare uno standard di incompetenza in relazione agli altri; lo studente vuole evitare di fallire perché se fallisce mostra agli altri la mia incompetenza, è motivato ad agire per evitare situazioni in cui crede di non riuscire bene. La distinzione tra approccio di avvicinamento e di allontanamento permette di chiarire meglio i pattern adattivo e maladattivo. Il pattern di approccio sarebbe adattivo sia per la padronanza che per la prestazione (il miglioramento della competenza rispettivamente a se stessi e agli altri).Il pattern di evitamento sarebbe maladattivo sia per la padronanza che per la prestazione poiché si focalizzano sulla perdita della competenza. La percezione che uno studente ha della propria competenza è vista da Elliot come un predittore dell’adozione di un obiettivo o di un orientamento. Il percepirsi competente o meno porta ad adottare obiettivi di approccio (padronanza o prestazione) o di evitamento (padronanza o prestazione). Obiettivi di riuscita e struttura dell’obiettivo Il ruolo del contesto classe nel promuovere l’adozione da parte degli studenti di obbiettivi di riuscita è stato messo in rilievo da vari autori, soprattutto Ames, i quali hanno introdotto l’importante distinzione fra obbiettivi personali (gli obbiettivi e gli orientamenti di riuscita di un individuo) e la struttura di obbiettivo. La struttura di obbiettivo è data dai messaggi circa gli obbiettivi dominanti in una classe o scuola, che possono influenzare gli obbiettivi personali degli individui. Per struttura della classe si intende il modo in cui un insegnante pone regole, assegna compiti e valuta gli studenti. Il tipo di compiti che l’insegnante assegna convoglia messaggi importanti circa quello che ha valore nella classe. Gli studenti possono percepire che nella classe o scuola si da particolare importanza all’apprendere e al migliorare (obiettivi di padronanza); oppure possono percepire messaggi che suggeriscono che è importante ottenere bei voti e fare meglio dei compagni (obiettivi di prestazione). Per quanto riguarda l’autorità, le classi in cui agli studenti è dato un certo grado di autonomia tendono a promuovere obbiettivi di padronanza. Assegnare attività che gli alunni vedono legate a problemi o questioni per loro importanti e significativi favorisce la percezione che imparare sia importante quindi l’adozione di obiettivi di padronanza. Se l’insegnante assegna di solito compiti e attività difficili è probabile che gli alunni adottino obiettivi di evitamento.Infine, per quanto riguarda la valutazione, l’adozione di obbiettivi di prestazione e di evitamento è certamente legata al modo in cui l’insegnante, nel valutare, sottolinea il confronto tra prestazioni degli allievi. Un aspetto importante riguarda il peso che l’insegnante da nel valutare gli errori. Se dell’errore l’insegnante sottolinea l’aspetto negativo nella prova di un allievo, questo probabilmente incentiva l’adozione di obbiettivi di prestazione o evitamento; se invece l’errore è commentato dall’insegnante come un passaggio nel processo dell’imparare, è più probabile che l’allievo impari a considerare l’errore come un’occasione di chiarificazione e apprendimento, e dunque secondo un orientamento di padronanza. Obiettivi di riuscita ed emozioni Il contesto interpersonale in cui si esplicano i tentativi di riuscire (compagni di classe, insegnanti, genitori) può dare origine a svariate emozioni. Soddisfazione, orgoglio, invidia, in caso di riuscita. Vergogna, collera, senso di impotenza in caso di insuccesso. In generale il ruolo dell’affettività nell’istruzione è stato a lungo trascurato con alcune eccezioni: - L’ansia da prestazione ; La teoria dell’attribuzione. Nell’affettività si distinguono tratti e stati .I tratti si riferiscono a modalità stabili o predisposizioni a risposte emotive. Gli stati affettivi si dividono in umori ed emozioni, diversi per intensità e durata:gli umori tendono ad essere più lunghi delle emozioni che sono invece maggiormente intense e caratterizzate da brevi episodi ;l’umore non ha un particolare referente, una particolare causa, mentre le emozioni insorgono in risposta ad un preciso evento .Gli stati affettivi hanno in generale una valenza che può essere positiva o negativa, o più semplicemente l’affettività può essere gradevole o sgradevole. Pekrun e colleghi hanno categorizzato le emozioni accademiche, cioè quelle legate all’apprendimento scolastico in base a due dimensioni: - La valenza (riguarda il carattere positivo o negativo dell’umore) ; L’attivazione (riguarda l’effetto che l’emozione ha sull’apprendimento) . Combinando le due dimensioni si ottengono quattro tipi di emozioni: 1. 2. 3. 4. Attivazione positiva (Speranza, orgoglio, gusto nell’imparare); De-attivazione positiva (Rilassamento dopo un successo ottenuto, sollievo) ; Attivazione negativa (Collera, ansia, vergogna); De-attivazione negativa (Noia, sconforto). Secondo Pekrun e colleghi gli effetti di queste emozioni sull’apprendimento e sul rendimento scolastico sono mediati da meccanismi cognitivi e motivazionali. Le emozioni di attivazione positiva come la piacevolezza nell’apprendere possono aumentare la motivazione , quelle negative possono diminuirla. Le emozioni positive di de-attivazione (quali il sollievo) possono facilitare il disimpegno. Le emozioni negative possono avere effetti ambivalenti: l’ansia e la vergogna possono ridurre la motivazione intrinseca ma rafforzare quella estrinseca. Linnenbrink e Pintrich hanno proposto un modello bidirezionale che considera sia la relazione dell’umore con gli obiettivi, sia la relazione degli obiettivi con le emozioni .L’umore positivo può influenzare la percezione che uno studente ha degli obiettivi della sua classe: vedere la classe come un ambiente amico può favorire obiettivi di padronanza e di approccio di prestazione. L’umore negativo può favorire un orientamento di evitamento .L’adozione di obiettivi influenza non l’umore ma le emozioni: obiettivi di padronanza aumenterebbero le emozioni positive. Studenti orientati alla prestazione tendono ad essere tristi se si vedono superati dai compagni. La motivazione intrinseca ed estrinseca La scelta di imparare, che caratterizza l’orientamento di padronanza, è una componente fondamentale del costrutto della motivazione intrinseca . White (1959) in un importante articolo argomentò che gli esseri umani e gli animali superiori hanno un bisogno intrinseco di sentirsi competenti. Questo bisogno spiega secondo l’autore comportamenti come l’esplorazione e il gioco. Questi comportamenti non rispondono a carenze dell’organismo ma si manifestano invece quando i bisogni fisiologici primari sono soddisfatti White chiamò questo bisogno di agire in maniera efficace nell’ambiente effectance. Altri studiosi, tra cui Deci e Ryan,negli anni ‘70 hanno rilevato che gli esseri umani traggono soddisfazione da attività ed eventi che forniscono un certo livello di sorpresa, novità o comunque discrepanza rispetto alla loro esperienza. Questi studi e quelli di White sulla motivazione di adulti e bambini a sviluppare abilità hanno rappresentato una svolta nella ricerca motivazionale rispetto agli studi che si focalizzano sui bisogni primari e sui rinforzi (che si sono rivelati riduttivi ed inadeguati).Ha avuto origine da questi studi il concetto di motivazione intrinseca. Risulta intrinsecamente motivato un comportamento attivato e sostenuto dallo spontaneo senso di soddisfazione che si prova quando l’individuo si impegna in un’attività che piace e nella quale si sente competente. È estrinsecamente motivato un comportamento intrapreso per ottenere qualche premio o per evitare una conseguenza negativa. Secondo alcuni studiosi gli individui sono naturalmente inclini a sviluppare abilità e ad impegnarsi in attività di apprendimento senza bisogno di rinforzo. L’apprendimento almeno in determinate condizioni sarebbe in se stesso gratificante. Deci e Ryan hanno sviluppato la teoria dell’autodeterminazione, che rappresenta la più coerente e organica trattazione della motivazione estrinseca. Secondo questa teoria l’essere umano è visto come un organismo attivo tendenzialmente alla ricerca di realizzare le proprie capacità. L’individuo avrebbe cioè una tendenza innata a sviluppare un senso del Sé unitario e integrato, cioè a sviluppare armonicamente i vari aspetti della propria personalità e stabilire relazioni positive con gli altri. Tuttavia questa motivazione deve fare i conti con l’ambiente in cui l’individuo vive .L’ambiente può ostacolare o favorire questo processo. La teoria postula l’esistenza di tre bisogni psicologici fondamentali la cui soddisfazione, essenziale al pieno benessere dell’individuo, può essere ostacolata dall’ambiente sociale: Bisogno di competenza; Bisogno di autonomia ; Bisogno di relazione con gli altri. Si tratta di esigenze innate, comuni a tutte le culture e non motivazioni apprese. Il bisogno di competenza si riferisce al bisogno di sentirsi efficace nelle interazioni con l’ambiente sociale ed esprimere le proprie capacità .Questo bisogno porta gli individui ad essere motivati a conservare ed accrescere le proprie abilità cercando anche stimoli per svilupparle. Si pensi ad esempio alla situazione in cui un individuo si impegna in attività che gli piacciono: da un lato l’individuo si sente in grado di eseguirla, dall’altro se l’attività riserva qualche difficoltà l’individuo si sente stimolato alla sfida. Il bisogno di autonomia si riferisce al bisogno di sentirsi autonomi e non “pedine” e di mettere quindi in atto azioni che nascono dalla volontà dell’individuo e non sono imposte dalla volontà degli altri .Essere autonomi non significa essere indipendenti dagli altri. Si possono infatti autonomamente compiere azioni che rispondono alle convinzioni o richieste degli altri. Non si può parlare di autonomia quando i bisogni vengono eseguiti per conformismo. Il bisogno di autodeterminazione si riferisce al bisogno di sentirsi in qualche modo integrati con gli altri .Si riferisce anche al bisogno di sentirsi parte di un gruppo. Questo bisogno può essere mosso: - Da un senso di appartenenza; Per desiderio di occuparsi di altre persone; Perché si sta bene con gli altri. Motivazione e interiorizzazione Aspetto fondamentale della teoria dell’autodeterminazione è il rapporto tra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca .La motivazione intrinseca rappresenta un esempio di attività autodeterminata perché l’individuo si impegna in attività liberamente scelte che esegue con soddisfazione e piacere. La motivazione estrinseca dipende dai risultati contingenti al comportamento. Questi risultati sono separabili dal comportamento stesso .Il concetto di rinforzo come evento esterno rinvia quindi al concetto di motivazione estrinseca. Ci si può chieder: se il comportamento è intrinsecamente motivato, cioè trova in se stesso una gratificazione, che effetto hanno premi e riconoscimenti su di esso? Se un individuo svolge un’attività che gli piace, che cosa accade alla sua motivazione se viene premiato per tale attività? Deci e colleghi distinguono tra l’effetto delle ricompense tangibili (ad es. denaro) da quello delle lodi e degli apprezzamenti verbali. Le ricompense tangibili porterebbero ad una diminuzione della motivazione intrinseca. Ryan e Deci (2002) hanno spiegato l’effetto negativo delle ricompense tangibili e quello positivo delle lodi con il concetto di percezione del locus causale e di percezione di competenza. Gli eventi ambientali possono incidere sulla motivazione intrinseca attraverso due processi: 1. Il locus causale: una ricompensa tangibile influenza la percezione che un individuo intrinsecamente motivato ha della propria autonomia spostando il locus causale dall’interno (svolgo l’attività perché l’ho scelta e mi piace) all’esterno (il premio rende l’attività meno interna perché esercita una forma di controllo); 2. Il bisogno di competenza : una lode o un feedback verbale positivo aumenta la motivazione intrinseca quando viene percepito come essenzialmente informativo. Quando l’apprezzamento verbale viene percepito come un controllo, esso tende ad avere un effetto negativo sulla motivazione intrinseca. Le ricerche hanno comunque dato risultati contraddittori. Un’attività può non essere gratificante in se stessa eppure l’individuo la può eseguire autonomamente .Ciò avviene perché l’individuo tende ad interiorizzare quello che inizialmente era solo una forma di regolazione dall’esterno. Lo sviluppo dell’individuo può essere visto in termini di progressiva interiorizzazione in rapporto alla realizzazione del Sé. L’interiorizzazione può avere diversi gradi di integrazione quanto più una regolazione esterna viene interiorizzata cioè fatta propria dall’individuo .Più un comportamento diventa parte del Sé integrato più è autodeterminato. Questa interiorizzazione può avere gradi diversi di integrazione: quanto più una regolazione esterna (ad es. un comportamento imposto) viene interiorizzata, cioè accettata e fatta propria dall’individuo, tanto più essa diventa parte del sé integrato e quindi un comportamento autodeterminato. I comportamenti si diversificano dunque nel grado di autonomia, come appare nella classificazione dei tipi di regolazione. Tipo di motivazione Mancanza di motivazione Motivazione estrinseca Tipo di regolazione Non regolazione Regolazione esterna Regolazione introiettata Motivazione intrinseca Regolazione identificata Regolazione integrata Regolazione intrinseca A sinistra c’è lo stato di mancanza di motivazione, o mancanza dell’intenzione ad agire. Gli altri cinque punti descrivono ciascuno un differente tipo di regolazione. I comportamenti estrinsecamente motivati stanno tra la mancanza di motivazione e la motivazione intrinseca. La regolazione esterna è la forma meno autonoma di motivazione estrinseca, il comportamento è attuato per ottenere rinforzi / evitare punizioni o castighi (esempio: faccio i compiti per evitare problemi) . La regolazione introiettata implica una regolazione interiorizzata ma non accettato come proprio, è attuato per evitare senso di colpa e vergogna o per aumentare la propria autostima (esempio: faccio i compiti perché voglio che il mio insegnante pensi che sono bravo ). La regolazione per identificazione implica accettare un comportamento perché lo si considera importante, ed è quindi un passo importante verso l’autodeterminazione; si attribuisce valore ad un comportamento e ci si percepisce autonomi quando lo si attua (esempio: faccio i compiti perché per me è importante). La regolazione integrata avviene quando l’individuo integra nel sé valori e obbiettivi: si tratta di comportamenti eseguiti non solo perchè ritenuti importanti, ma coerenti con i valori dell’individuo, il comportamento ha un alto valore ed è congruente con valori ed obiettivi personali ma è ancora funzionale a raggiungere un obiettivo importante (esempio: faccio i compiti perché voglio capire l’argomento). Essa è tuttavia diversa dalla motivazione intrinseca, che implica il fare qualcosa per il piacere di farlo (esempio: faccio i compiti perché mi piace). I comportamenti si diversificano dunque per il grado di autonomia, come appare dalla classificazione dei tipi di regolazione. Gli autori parlano di una teoria dell’integrazione organismica: questa teoria è riferita alla tendenza degli organismi ad interiorizzare le esperienze, cioè a trasformare la regolazione esterna dei comportamenti in regolazione interna .La regolazione interna permette l’attuazione di comportamenti autodeterminati e la motivazione intrinseca. Il passaggio da una regolazione esterna a una interna è graduale, dipende dalla soddisfazione del bisogno di relazioni, spiega il modo in cui interessi, valori e obiettivi diventano parte del Sé. Come avviene il processo di interiorizzazione? I comportamenti estrinsecamente motivati sono generalmente stimolati da persone significative nella vita dell’individuo e vengono eseguiti non solo per ragioni estrinseche, ma anche per ottenere l’approvazione: il bisogno di relazionarsi con gli altri ha un ruolo centrale nell’interiorizzazione. D’altra parte anche il bisogno di competenza è importante: se non ci si sente in grado di svolgere una certa attività è molto difficile che venga interiorizzata. Il bisogno di autonomia, a sua volta, gioca un ruolo centrale nell’integrazione: per integrare la regolazione di un comportamento bisogna coglierne il significato personale e integrare tale significato con altri aspetti del proprio sé. Ciò possibile se l’individuo si sente libero di scegliere al di fuori dei condizionamenti esterni. L’interesse Il termine interesse designa un particolare tipo di relazione che intercorre fra un individuo e un oggetto all’interno di un contesto. Consideriamo gli aspetti che caratterizzano il concetto di interesse: un primo aspetto è che, a differenza di altri costrutti motivazionali, l’interesse ha una preminente componente energetica che si manifesta in settori o campi specifici. In questo senso il concetto di interesse si avvicina alla motivazione intrinseca, da cui si differenzia per due motivi: perchè gli studiosi dell’interesse non assumono alcun bisogno psicologico di base, e perchè l’interesse è relativo a un settore, oggetto o attività specifica. Il secondo aspetto dell’ interesse è la duplicità: esso può essere uno stato o un tratto. Come stato, è generato da particolari aspetti dell’ambiente o situazione in cui l’individuo si trova e che attirano e focalizzano l’attenzione per la loro novità o perchè in qualche modo attraenti. Tale stato rappresenta una reazione affettiva generalmente di breve durata: è l’interesse situazionale. Come tratto, l’interesse rappresenta una predisposizione relativamente durevole dell’individuo nei confronti di una categoria di oggetti o eventi. Tale predisposizione, chiamata interesse personale o individuale, si manifesta attraverso la risposta affettiva dell’individuo e la tendenza a cercare gli oggetti interessanti e/o a svolgere attività che li riguardano (ad es. ascoltare musica). Infine l’interesse, pur essendo annoverato fra le variabili motivazionali e, da alcuni studiosi, tra le emozioni, ha un’importante componente cognitiva: intuitivamente, la conoscenza anche parziale di un argomento sembra essere condizione necessaria per la stimolazione e lo sviluppo dell’interesse per tale argomento, nel senso che non si prova interesse per un oggetto/attività/situazione di cui non si sa niente e, d’altra parte, lo sviluppo di un interesse individuale implica un consolidamento della conoscenza relativa al suo oggetto. Hidi e Renninger hanno proposto un modello dell’interesse in cui si distinguono quattro fasi. Nella prima viene attivato un interesse situazionale per un particolare argomento. Se questo interesse viene sostenuto, esso si evolve in interesse mantenuto. L’interesse già costruito si sviluppa in individuale emergente quando l’individuo comincia a cercare e a identificarsi con il contenuto: si rende cioè conto della sua importanza e gli attribuisce un valore. Questo interesse è caratterizzato da affettività positiva e buon livello di conoscenza: l’individuo comincia a porsi delle domande per riorganizzare le conoscenze. Infine la quarta fase è quella dell’interesse bene sviluppato. La ricerca recente si è focalizzata soprattutto sull’interesse situazionale che, a differenza di quello individuale, è manipolabile e quindi più rilevante per l’istruzione. Interesse situazionale Bergin ha analizzato le varie fonti dell’interesse situazionale rilevanti per le attività scolastiche. L’incongruenza è una di queste, per esempio quando l’insegnante presenta due dati evidentemente in contraddizione precisando che sono entrambi veri e invitando gli studenti a elaborare la spiegazione. Anche la novità di un argomento, o del modo di presentarlo, può essere una fonte di interesse, e così pure l’interazione sociale. Una fonte è la stimolazione cognitiva, per esempio attraverso giochi e problemi sfidanti, purché questi non comportino il rischio di valutazione negativa in caso di insuccesso. Un’altra fonte è l’effetto novità, che può essere stimolato da contesti immaginari e con un uso frequente di storie e narrative. Infine anche l’interazione con adulti e coetanei può essere una fonte di interesse: interagire liberamente con gli altri soddisfa il bisogno di relazione e questo può rendere un’esperienza interessante. Gli studiosi rilevarono che il desiderio di sapere e capire veniva ampliato dalla discussione. Di fatto ci sono due aspetti della discussione in classe che sembrano che sembrano stimolare l’interesse: in primo luogo nella discussione i ragazzi possono esprimere le loro idee e riflessioni liberamente, e questa è in genere una situazione nuova per loro. In secondo luogo lavorare con altri ragazzi li porta a sentire che hanno qualcosa in comune, e dunque a soddisfare il bisogno di relazione. Va precisato che le varie fonti che possono attivare l’interesse situazionale spesso non agiscono singolarmente, ma interagiscono in uno stesso compito per attivarlo. Senso di efficacia e autoregolazione Il comportamento motivato non si esaurisce nella sua attivazione, ma è un processo a lungo termine in cui l’individuo si crea anche delle aspettative sulla propria possibilità di riuscire e mette in atto strategie per evitare insuccessi. Il successo in qualsiasi campo non è dovuto esclusivamente all’abilità e al forte desiderio di riuscire, ma anche in misura notevole a capacità, tenacia, volontà, capacità di far fronte agli insuccessi e organizzazione. Verranno considerati ora alcuni costrutti motivazionali relativi alla valutazione che l’individuo fa di se stesso in situazione di riuscita. Bandura definisce l’autoefficacia come l’insieme di credenze che l’individuo possiede nei confronti delle proprie capacità di: - aumentare i livelli di motivazione; attivare risorse cognitive; eseguire le azioni necessarie per esercitare controllo sulle richieste di un compito L’autoefficacia si configura come un sistema di credenze che fa da sostegno e da moderatore alle azioni che la persona svolge nella realtà, influenzandone significativamente i processi motivazionali e di pensiero. Il modo in cui valutiamo la nostra capacità di far fronte ad una situazione influenza l’apprendimento di nuove soluzioni e le future possibilità di prestazione. Dal senso della propria efficacia derivano le mete che le persone si prefiggono, gli sforzi che esse sono disposte a fare per raggiungerle, gli standard di confronto. Di fronte alle difficoltà, le persone che presentano dubbi riguardo alle proprie capacità diminuiscono i loro sforzi o abbandonano l’attività. Coloro che dispongono di un maggior senso di efficacia personale esercitano uno sforzo maggiore al fine di riuscire nell’impresa prefissata. Le aspettative di autoefficacia possono comunque modificarsi a seconda della situazione. Il senso di efficacia ha effetti positivi sull’apprendimento: in confronto agli studenti che dubitano delle loro capacità, gli studenti con maggiore senso di efficacia lavorano di più, persistono più a lungo e raggiungono risultati migliori. Le fonti che fanno acquisire senso di efficacia sono quattro: Messa in atto di esperienze di padronanza: precedenti successi in compiti simili; Reazioni fisiologiche percepite durante lo svolgimento di un compito. Esperienza vicaria: azioni e risultati degli altri in compiti simili ; Persuasione verbale: valutazione realistica delle prestazioni fornita da persone competenti e credibili ; La teoria delle attribuzioni La teoria dell’attribuzione di Weiner riguarda le cause a cui lo studente attribuisce un successo o un insuccesso scolastico .Queste cause riguardano tre dimensioni: Il locus causa interna o esterna all’individuo (per es. l’abilità o l’impegno / fortuna) ; La controllabilità se si tratta di cause che possono essere modificate dalla volontà dell’individuo oppure sono incontrollabili(come ad esempio l’impegno / l’umore dell’insegnante) . La stabilità se si tratta di cause che possono essere modificate nel tempo o meno (per esempio l’abilità) ; Il locus causale si riferisce al carattere interno o esterno delle cause: - interno: abilità, sforzo, umore ; esterno: fortuna, difficoltà del compito, atteggiamento dell'insegnante. Il locus influenza le reazioni affettive al successo o all’insuccesso: - l'attribuzione del successo a cause interne (abilità, sforzo) determina emozioni legate alla stima di sé: senso di competenza, sicurezza, orgoglio ; l'attribuzione dell’insuccesso a cause esterne (scarsa abilità, poco impegno) determina scarsa stima si sé, vergogna. La stabilità riguarda il fatto che la causa di successo/insuccesso può essere: - stabile: abilità, sforzo (tratto di personalità = impegno costante); instabile: sforzo (atteggiamento momentaneo), umore . La stabilità influenza i cambiamenti nell'aspettativa dell'individuo dopo un successo o un insuccesso: se le cause del risultato (successo o fallimento) vengono percepite come stabili, in una nuova situazione di apprendimento il successo o il fallimento verranno anticipati dall'individuo con un maggior grado di certezza. La controllabilità delle cause è correlata con la percezione dell’individuo di poter modificare con la volontà individuale le cause di un successo o di un insuccesso. Per cui la causa di successo/insuccesso può essere: - controllabile: come ad esempio l’impegno nello studio ; non controllabile: come ad esempio l’abilità, l’intelligenza o la fortuna. Sul piano motivazionale queste dimensioni soggiacenti alle cause sono di grande importanza: - - Se uno studente attribuisce un insuccesso allo scarso impegno (causa interna, instabile e controllabile) l’aspettativa futura sarà probabilmente di successo (purché la prossima volta ci sia impegno); Se uno studente attribuisce un insuccesso alla scarsa abilità (causa interna, stabile e non controllabile) la sua aspettativa per un prossimo esame sarà ancora di insuccesso. L'apprendimento autoregolato: Per autoregolazione si intende l'insieme dei processi attraverso cui lo studente affronta il lavoro scolastico e accademico per raggiungere obiettivi educativi. L'elemento che caratterizza l'apprendimento come autoregolato è se lo studente affronta l'impegno in maniera adattiva, autoregolazione pone in risalto non l'intelligenza ma le iniziative che lo studente assume per migliorarsi. Secondo la teoria sociocognitiva, l'autoregolazione non è un tratto di sviluppo ma è specifica di un contesto, lo studente deve imparare a regolarsi in relazione ad attività e discipline diverse. Tre elementi interagiscono nel funzionamento umano: il comportamento, l'ambiente e i fattori personali (cognizione e senso di efficacia). La scelta di un compito, l'impiego di uno sforzo e la persistenza dipendono dal grado in cui l'individuo si sente in grado di ottenere un risultato. Pintrich e Zusho hanno caratterizzato l'autoregolazione come composta da vari sottoprocessi che possono essere rappresentati in una tabella a doppia entrata: da un lato le fasi dell'autoregolazione, dall'altro le aree su cui essa viene esercitata; le fasi che riguardano il piano cognitivo sono: – pianificazione: lo studente si pone un obiettivo e attiva la conoscenza pregressa – monitoraggio: lo studente verifica come procede: mette in atto le proprie conoscenze metacognitive e soprattutto esercita un controllo su quanto sta apprendendo – controllo: è la fase di intervento conseguente al monitoraggio, se lo studente si sente particolarmente ansioso o scoraggiato cerca di rincuorarsi, si sforza maggiormente o chiede aiuto – reazione e riflessione: si riflette sui risultati e si danno giudizi più o meno critici, si fanno attribuzioni che implicano componenti cognitive e affettive. La valutazione del risultato influenza la scelta dei comportamenti successivi. E' opportuno sottolineare che l'autoregolazione aumenta e migliora con lo sviluppo nel senso di progressiva maggior flessibilità nella scelta e uso di strategie e che esiste un rapporto tra autoregolazione e metacognizione, la prima include la seconda: le abilità di studio riguardano la metacognizione e decidere di interrompere uno studio o fare uno sforzo di volontà riguardano l'autoregolazione. Strategie adattative e maladattative: L'autoregolazione implica l'adattare le strategie di apprendimento alle esigenze del compito, le emozioni positive sembrano facilitare l'uso di strategie flessibili, l'apprendimento autoregolato è spesso individuale ma vi è una interattività nella richiesta di aiuto, tale strategia può essere attuata in modo adattivo e non a seconda che si chieda soltanto un aiuto o ci si aspetti che l'altro faccia il lavoro per noi. Non di rado l'autoregolazione non è svolta a migliorare l'apprendimento ma ad evitare brutte figure, per questo nell'orientamento alla padronanza la richiesta d'aiuto è favorevole cosa che invece non è quando non ci si sente sicuri. Esiste anche la strategia di auto ostacolo che si attua quando ogni decisione aumenta l'opportunità di manifestare il fallimento, consentendo così all'individuo di evitare o diminuire le implicazioni negative della prestazione; è usata dagli studenti per mantenere il valore del sé e si distingue per la presenza di tre elementi: comportamento, ragione del comportamento, collocazione temporale. Apprendere a studiare Saper studiare implica il processo di apprendimento intenzionale da testi che vengono letti per ricavarne conoscenze. Il possesso di un “buon metodo di studio” documenta la capacità di imparare da testi di vario genere, contenuto e complessità. L’attività di studio secondo Winne si distingue da altre attività di apprendimento a scuola in quanto: - Non prevede interventi diretti da parte dell’insegnante; - È spesso un’attività solitaria; - In genere ha origine da un obiettivo stabilito dall’insegnante; - Può richiedere ricerca e sintesi di informazioni da più fonti; - Di solito si svolge in un setting che lo studente può organizzare a suo piacimento; - Quasi sempre lascia tracce osservabili dell’elaborazione cognitiva (annotazioni, schemi, mappe, riassunti, sottolineature ed evidenziazioni). Come altre attività scolastiche è diretta ad un obiettivo, uno standard da raggiungere. Winne ha proposto un modello dello studio che include 4 fasi: - Definizione del compito: lo studente deve costruirsi uno “spazio dello studio”, rappresentarsi cioè l’obiettivo dell’attività in termini di standard di riferimento; - Determinazione dell’obiettivo e pianificazione: lo studente riformula l’obiettivo individuato precedentemente a seconda del suo orientamento motivazionale; - Mettere in atto strategie: lo studente applica tattiche di studio per svolgere meglio il compito; - Adattamento metacognitivo: è in questa fase di riflessione che può mutare l’orientamento motivazionale passando ad esempio da obiettivo di prestazione ad obiettivo di padronanza. Tempi di studio e distribuzione delle risorse cognitive Ci si può chiedere se esiste una relazione causale tra stima di difficoltà e distribuzione delle risorse cognitive e tra stima di conoscenza e distribuzione delle risorse cognitive. Secondo Nelson e Narens (1990) la considerazione del tempo da dedicare allo studio è un aspetto del controllo attivo e la sua distribuzione avviene sulla base dei giudizi di facilità del materiale di apprendimento (Ease Of Learning), più un contenuto è percepito come difficile, maggiore sarà il tempo dedicato ad apprenderlo. Secondo Mazzoni, Cornoldi e Macchitelli (1990) bisogna prendere in considerazione non solo la facilità percepita ma anche quella oggettiva che emerge mentre si sta apprendendo il materiale (Judjment Of Learning).I soggetti studiavano maggiormente gli item giudicati più difficili da ricordare (EOL) a cui assegnavano un JOL più basso. In alcuni casi venivano studiati più a lungo item con JOL intermedi. Inoltre è emerso che il materiale studiato più a lungo veniva ricordato meno del materiale studiato per un tempo inferiore. Si sono fatte diverse ipotesi sul perché dell’inutilità dello sforzo: 1. il materiale ritenuto più difficile è quello nel quale lo studente presenta una conoscenza di base bassa, per cui anche la probabilità che lo stesso materiale sia ricordato è ugualmente bassa; 2. probabilmente i JOL erano stati assegnati dagli studenti in maniera non accurata e a ciò ne conseguiva un’inefficace distribuzione del tempo di studio (analizzando in modo accurato la propria effettiva conoscenza lo studente avrebbe dovuto ricordare il materiale studiato più a lungo almeno quanto quello studiato per meno tempo); 3. Nonostante il JOL sia più alto, se uno studente incontra delle difficoltà decide di non proseguire nello studio,infatti, se si rende conto che non sta migliorando la sua prestazione e crede che non lo ricorderà, decide di non sprecare tempo,anche se il livello di ricordo raggiunto non è quello di padronanza. Quest’ultima ipotesi sarebbe sostenuta da esperimenti hanno provato che anche se si è riservato loro un tempo di studio più lungo, molti degli item stimati non ricordabili alla prima prestazione vengono nuovamente ritenuti tali dopo lo studio. Strategie di studio L’attività di studio è solitamente un’attività intenzionale e autodiretta. Lo studente infatti stabilisce obiettivi, sceglie strategie, fissa i tempi. Si tratta di selezionare informazioni che vengono trasferite nella memoria di lavoro dove vengono elaborate, manipolate, riorganizzate ed integrate . Dalla memoria di lavoro vengono poi archiviate nella memoria a lungo termine .Le strategie di studio possono essere suddivise in due tipi principali: Strategie di ripetizione ; Strategie di elaborazione-organizzazione; Strategie di ripetizione Le strategie di ripetizione servono a selezionare le parti più importanti del testo, trasferendole nella memoria di lavoro per la loro acquisizione. Il livello di elaborazione rimane piuttosto superficiale poiché le informazioni non vengono trasformate o riorganizzate . Esse sono: Leggere -rileggere : sembra facilitare soprattutto il ricordo di informazioni fattuali, piuttosto che la costruzione di connessioni. La rilettura porta anche ad un cambiamento qualitativo in quanto vengono saltate alcune parti ritenute irrilevanti ; - - - Copiare: consiste nel fare annotazioni ai margini del testo o in un foglio separato, ma anche fissare dei commenti che servono a connettere le informazioni tra loro. La strategia è poco efficace se solo il materiale annotato viene fatto oggetto di studio; Sottolineare: consiste nella selezione di parti ritenute più importanti a cui fare riferimento soprattutto quando si rilegge .Ricerche evidenziano come il testo sottolineato in generale viene ricordato di più, probabilmente per la tendenza a rileggere le parti sottolineate. Punto debole è il fatto che ad una prima lettura si possono formulare ipotesi non corrette sull’importanza del testo, sottolineando quindi parti meno importanti compromettendo quindi l’apprendimento del contenuto. La sottolineatura sembra funzionare in alcuni casi, soprattutto quando viene usata per studiare testi difficili; Memorizzare: la memorizzazione può avvenire automaticamente; in altri casi bisogna invece sforzarsi di stabilire nuovi collegamenti tra le informazioni già possedute e le informazioni nuove, cercando intenzionalmente delle strategie di memorizzazione, soprattutto quando le informazioni non presentano nessi evidenti. Quando il materiale da ricordare non può accompagnarsi ad una rappresentazione iconica si può ricorrere alle mnemotecniche , le più famose sono: Metodo dei loci : la prima fase di codifica consiste nel selezionare luoghi familiari lungo un determinato percorso (ad esempio una strada) costruendo una specie di schedario base. Ad ogni luogo viene poi associata una parola da ricordare tramite un immagine. In fase di recupero basterebbe ripercorrere con la mente i luoghi per ritrovare le immagini e le parole corrispondenti; Metodo del concatenamento: prevede la creazione di un’immagine della parola (parola chiave), un’immagine della seconda da concatenare in modo interattivo, un’immagine della terza da concatenare alla seconda in modo interattivo,e così via; Metodo fonetico: prevede di individuare una serie di elementi costruiti sulla base di regole fonetiche da rappresentare in fine con una sola parola che li possa raggruppare tutti. Tali tecniche sono utilizzabili con un minimo di dispendio cognitivo anche per materiali complessi. Strategie di elaborazione-organizzazione Le strategie di elaborazione-organizzazione servono non solo alla selezione di informazioni importanti, ma anche alla loro trasformazione e integrazione .Il livello di elaborazione a cui queste strategie portano può essere profondo in quanto si organizza il materiale di studio per renderlo più facilmente ricordabile. Esse sono: Prendere appunti o note: strategia usata molto di frequente. Numerose sono le variabili implicate nell’efficacia della strategia. Prendere appunti durante una lezione è un processo più complesso che prendere appunti durante la lettura. Questa strategia è diventata oggetto di ricerca di vari studiosi con risultati anche discordanti. L’efficacia è spiegabile in riferimento alle funzioni di codifica e di immagazzinamento. L’efficacia del prendere appunti dipende dal tipo di prova che si dovrà affrontare per verificare la preparazione, dalla tecnica utilizzata per prendere appunti (le varie tecniche si differenziano per il grado con cui riescono a integrare info nuove con quelle precedenti), e dal contenuto delle note. Grande importanza riveste anche la lettura delle note. In uno studio sperimentale Kiewra e collaboratori hanno confrontato tre condizioni sperimentali: 1. Scrittura e lettura di note proprie; 2. Scrittura di note ; 3. Lettura di note prese da altri. La prima condizione è risultata la più efficace, in quanto si attivano i processi codifica e di immagazzinamento,la terza è risultata più efficace della seconda soprattutto quando si trattava di dover scrivere una sintesi di ciò che si aveva già studiato, risultava efficace confrontarsi con gli appunti di altri. Notevole importanza riveste quindi anche la procedura di rilettura degli appunti . Alcuni studi mettono a confronto diverse strategie di annotazione: - Convenzionale (quella normalmente utilizzata dagli studenti) ; - Lineare (veniva fornito uno schema con argomenti e sotto-argomenti nel quale inserire gli appunti); - A matrice (con argomenti e sotto-argomenti identificati da una tabella a doppia entrata) . I tre diversi tipi di annotazioni non hanno prodotto differenze significative nella produzione di idee. Le annotazioni sulle matrici risultavano agevolare la rievocazione del materiale di apprendimento .Da una ricerca recente di Lonka su un campione di candidati durante una prova di ammissione ad una scuola di medicina emerge che: - Le idee centrali venivano comprese indipendentemente dal tipo di annotazione utilizzata; - I dettagli erano acquisiti solo se facevano parte delle note ; - da un’analisi qualitativa risultava che la maggior parte degli studenti copiava parti del testo senza una rielaborazione ; - le note con funzione di sintesi apparivano più efficaci delle note con funzione di trascrizione. Porsi domande: rivolgersi domande prima, durante e dopo la lettura risulta una strategia efficace. Prima di leggere, le domande possono servire ad anticipare i contenuti (come nel reciprocal teaching) preparandosi ad attivare schemi corrispondenti . Durante la lettura possono servire al recupero delle informazioni, al consolidamento e a stabilire relazioni . Non tutte le domande sono della stessa natura Appare utile formulare domande di diversa natura (fattuali , utili a stabilire relazioni, etc…) .Domande di tipo “Chi?” “Che cosa?” non presuppongono ad esempio uno sforzo cognitivo o una rielaborazione del materiale. Riassumere: si tratta di una strategia in cui vengono integrati processi di lettura e scrittura al fine di una trasformazione selettiva del contenuto di apprendimento. Le abilità riassuntive si acquisiscono relativamente tardi. Secondo Brown, Campione e Day gli alunni di scuola elementare tendevano soprattutto a cancellare delle parti piuttosto che ad elaborare. Kirby e Pedwell hanno evidenziato la differente utilità della presenza della fonte per studenti caratterizzati da un approccio più o meno profondo al testo. Gli studenti caratterizzati da un approccio superficiale scrivevano riassunti molto più estesi e non potevano fare a meno della fonte, quelli che invece elaboravano di più il testo beneficiavano dell’assenza della fonte. Sintesi da diversi testi: si tratta di una strategia in cui vengono integrate informazioni provenienti da diverse fonti .In uno studio di Boscolo è stata proposta a studenti di psicologia la lettura di tre brani :ad un gruppo è stato chiesto di scrivere una sintesi dei brani ; all’altro gruppo non è stata chiesta la sintesi. Il primo gruppo ha ottenuto risultati significativamente migliori. Sintetizzare testi presuppone la capacità di selezionare, integrare e riorganizzare informazioni. Tale attività cognitiva porta ad un maggiore livello di comprensione del materiale da imparare. Scrivere testi: si tratta di una strategia in cui la comprensione è frutto dell’elaborazione anziché della riproduzione delle conoscenze . Nella scrittura di un testo uno studente è maggiormente impegnato in quello che Bereiter e Scardamalia chiamano “knowledge transforming” .Diversi studi hanno mostrato la superiorità di questa modalità di scrittura rispetto alle altre . In uno studio di Newell è stato chiesto ad alcuni studenti di scuole superiori di leggere dei brani tratti da testi e rispettivamente di: - prendere appunti (primo gruppo); - rispondere a domande (secondo gruppo); - scrivere un testo (terzo gruppo). I risultati mostrano come l’aver effettuato più operazioni di ragionamento ha portato il terzo gruppo ad una conoscenza maggiore .Newell e Winograd sono arrivati alla conclusione che diversi compiti di scrittura inducono gli studenti a diversi tipi di elaborazione delle informazioni: - quando rispondono alle domande gli studenti tendono a prendere in considerazione le informazioni singolarmente senza integrarle ; - quando prendono appunti tendono a tradurre direttamente le proprie idee in parole, senza una riorganizzazione appropriata; - quando scrivono un testo invece integrano le informazioni e sono in grado di rappresentarsi le relazioni tra le varie parti del testo. Schematizzare: le informazioni contenute in un testo possono anche essere trasformate in rappresentazioni grafiche e schematiche .Tali rappresentazioni rendono più visibili le relazioni non altrettanto evidenti nel testo lineare. La mappa concettuale è un validissimo esempio di schematizzazione . La mappa concettuale è caratterizzata da una struttura gerarchica in cui dal concetto principale si diramano le relazioni e i concetti più specifici . Costruire una mappa concettuale implica isolare i concetti e le parole-legame adatte a formare le proposizioni . Lavorare con le mappe aiuta a riconoscere i concetti più importanti e riferirli in modo sintetico. In una ricerca di Slotte e Lonka viene documentata la maggior efficacia delle mappe concettuali prodotte da studenti universitari rispetto agli appunti e alla sottolineatura . L’analisi qualitativa portava ad evidenziare come fossero le mappe più complesse e comprensive a portare ai risultati di apprendimento migliori. L’efficacia delle mappe è connesso con il fatto che esse implicano processi di elaborazione delle informazioni e generazione di connessioni . Trasformare un testo lineare in una forma grafica implica sforzo cognitivo di selezione, organizzazione e integrazione delle idee principali. Rilevare le abilità di studio Inizialmente l’intervista era lo strumento più utilizzato per rilevare le abilità di studio. I risultati indicavano una chiara correlazione tra rendimento scolastico e competenza metacognitiva, pur non potendo suggerire una precisa relazione causale tra le variabili . Negli ultimi anni i questionari sui metodi di studio sono diventati lo strumento di ricerca principale . Nella somministrazione del questionario vanno comunque tenuti in considerazione due aspetti che possono inficiare l’efficacia del questionario stesso: - La desiderabilità sociale; - Il fatto che l’alunno sia erroneamente realmente convinto di eseguire una certa operazione metacognitiva. Il “Survey of Study Habits and Attitudes” di Brown e Holtzman (1967) è ritenuto il più classico questionario sui metodi di studio. È stato tradotto e validato in italiano da Polacek (1971) come “Questionario di efficienza nello studio”. Il questionario valuta quattro aspetti: - La prontezza negli impegni ; - Il metodo di lavoro ; - L’atteggiamento nei confronti degli insegnanti ; - L’accettazione degli scopi. Negli Stati Uniti è stato messo a punto il questionari LASSI, Learning and study strategies inventory. Utilizzato inizialmente per studenti universitari e successivamente anche per studenti di scuola superiore . È formato da 77 item che riguardano 10 scale: - Atteggiamento e interesse verso lo studio; - Motivazione, autodisciplina e volontà di impegnarsi a fondo; - Gestione del tempo; - Ansia e preoccupazione per la prestazione scolastica; - Concentrazione e attenzione; - Elaborazione e acquisizione di conoscenze ; - Selezione delle idee più importanti ; - Uso di tecniche e materiali di supporto; - Autovalutazione ; - Uso di strategie di preparazione alle prove. Il QMS (questionario sul metodo di studio) è composto da 163 items ed è utilizzabile dalla scuola media all’università. Considera una vasta gamma di aree (21) raggruppabili in quattro parti: - Strategie di apprendimento (motivazione e successo scolastico; organizzazione del lavoro personale; uso di sussidi; - elaborazione attiva del materiale; flessibilità e stile attivo di studio); - Stili cognitivi di elaborazione (sistemativo/intuitivo; globale/analitico; impulsivo/riflessivo; verbale/visuale) ; - Metacognizione e studio (concentrazione; selezione degli aspetti principali; autovalutazione; strategie di preparazione ad una prova; sensibilità metacognitiva; - Atteggiamento verso la scuola e lo studio (rapporto con i compagni; rapporto con gli insegnanti; ansia scolastica; atteggiamento verso la scuola; attribuzione e impegno) QMS (questionario sul metodo di studio). Il QSA (questionario sulle strategie di apprendimento) è composto da 100 items e da 14 dimensioni : Metà delle dimensioni è di natura cognitiva - Strategie elaborative ; - Autoregolazione ; - Disorientamento; - Disponibilità alla collaborazione ; - Difficoltà di concentrazione, ecc… Metà delle dimensioni è di natura affettivo motivazionali - Ansietà di base; - Attribuzione a cause controllabili ; - Attribuzione a cause incontrollabili ; - Mancanza di perseveranza; - Percezione di competenza ; - Interferenze emotive ; L’AMOS (abilità e motivazione allo studio) è una raccolta di 5 strumenti che intende offrire un’immagine abbastanza completa di uno studente della scuola superiore o universitario. Le variabili indagate sono: abilità, strategie, stili e credenze motivazionali .L’AMOS è rivolto agli insegnanti e ogni strumento è autonomo. I 5 strumenti sono: 1. QSS, questionario sulle strategie di studio. Valutazione dell’importanza data allo studio e l’uso di strategie ; 2. 3. 4. 5. QAS, questionario sull’approccio allo studio ; QSC, questionario sugli stili cognitivi ; PA, prova di apprendimento ; QC, questionario sulle convinzioni Strategie didattiche La didattica frontale La didattica frontale presuppone l’esistenza di un esperto (il docente) e di un novizio (lo studente): il primo possiede tutte le informazioni rilevanti sia sui concetti che sulla struttura della conoscenza, mentre il secondo, ne è sprovvisto. Pertanto, si allestisce una situazione in cui l’uno, il docente, stando di fronte all’altro (il discente) cerca di trasferire informazioni e conoscenze. Si tratta di un metodo didattico “centrato sul docente” in quanto quest’ultimo è estremamente attivo già in fase di preparazione della lezione, poi in fase di erogazione e anche in fase di valutazione, a fronte di una relativa, a volte apparente, passività degli studenti. Inoltre la lezione è caratterizzata da una comunicazione unidirezionale, prevalentemente dal docente verso il discente, in qualche occasione dal discente verso il docente, mentre resta del tutto occasionale la comunicazione tra gli studenti. Pur essendo una pratica didattica che nel tempo ha subito molte critiche, la lezione resta senza dubbio quella più utilizzata nei contesti formali e scolastici. La critica più sostanziale che ha ricevuto questa strategia è quella di creare una situazione di partecipazione passiva da parte degli studenti e di essere basata sul presupposto, erroneo, che tutti gli studenti percepiscano allo stesso modo i concetti espressi durante la lezione. Per ovviare a tali limiti sono state elaborate alcune varianti, prendendo spunto da ciò che sosteneva Ausubel, ossia che per strutturare efficacemente un intervento il docente dovesse considerare quanto già uno studente sapesse. Questo concetto è essenziale proprio per ridefinire il modo di fare lezione rendendo gli studenti più attivi; il suggerimento è quindi quello di accertare prima le preconoscenze degli studenti, innescare un’intenzionalità e una motivazione all’apprendimento ed evidenziare la significatività, ovvero la rilevanza per gli studenti del contenuto da apprendere. In altre parole mostrare la rilevanza agli studenti dei concetti loro spiegati ancorandoli a quello che già sanno, in modo da creare connessioni tra il nuovo materiale e ciò che già sanno. Ecco alcuni modi alternativi di fare lezione che partono da questi presupposti. La lezione basata sui casi Questo modello si basa proprio sulla necessità di associare ogni nuova info con qualcosa di già noto, cercando similitudini e differenze. Lo scopo è ottenere un repertorio di storie raccontate da esperti e far sì che gli studenti possano rintracciare i collegamenti sia tra i vari casi si tra i casi raccontati e le proprie personali storie. Si presta a essere tradotto in una architettura multimediale. i suoi costi non lo rendono di facile adozione per le scuole. Benchmark lesson Significa “lezione militare”, è sviluppato sa diSessa e Minstrell di compone di 4 momenti i cui l'insegnante: 1. fa emergere domande e dubbi sull'argomento; 2. incoraggia attività di sperimentazione, laboratorio e ricerche sull'argomento allo scopo di risolvere i dubbi ; 3. avvia una lezione per spiegare il concetto miliare, capace di evidenziare il nesso tra le varie informazioni raccolte e di rispondere agli interrogativi rimasti insoluti; 4. incoraggia gli studenti a elaborare nuove concettualizzazioni per integrare nuove info appena apprese con le loro preconoscenze. Usando questa sequenza, i nuovi concetti sono presentati come “ancorati” con quanto gli studenti già sanno e funzionali al modellamento del pensiero e della riflessione. La lezione è percepita dagli alunni come effettuata in risposta alle loro esigenze e non come meramente stabilita dal programma, questo aspetto la rende più efficace e motivante. Dal discorso del docente al discorso della classe L'apprendimento degli studenti dipende in larga misura da come l'insegnante spiega e fornisce istruzioni . Il filone di studi denominato "processo-prodotto" presupponeva una relazione tra la qualità del discorso del docente e i risultati di apprendimento degli studenti. Un contributo importante è stato quello di Flanders che produsse un sistema di analisi costituito da due sistemi di categorie distinti: uno per analizzare il discorso dell'insegnante e uno per quello dell'allievo. Il discorso del docente poteva essere classificato con le seguenti categorie: - accetta i sentimenti : qui il riferimento è chiaramente alla dimensione emotiva di cui il docente si fa spesso carico; - loda o incoraggia azioni discorsi o comportamenti degli allievi; - accetta o utilizza le idee degli allievi ; - formula domande sia di contenuto che di procedura per sondare lo stato cognitivo dello studente; - fa lezione, quindi espone dati, fatti, concetti, ma anche esprime opinioni o riferisce di altre opinioni autorevoli; -si appella all'autorità oppure dichiara la sua disapprovazione per comportamenti ritenuti inaccettabili con l’intento di modificarli. Per gli studenti le categorie invece erano: - risposta a una domanda o ad una sollecitazione del docente; - discorso avviato dallo studente con cui pone domande o esprime idee ; - silenzio o confusione in generale una comunicazione di ci non si coglie il contenuto. Lo SCIV (sistema di categorie di interazione verbale) è un sistema di 12 categorie finalizzate a offrire un feedback agli insegnanti circa il loro modo di intervenire in aula elaborato da Amidon e Hunter. I due autori sottolineano l’importanza della qualità delle domande poste dal docente agli studenti: sono quelle aperte, di cui non si dispone di una risposta predefinita che sollecitano risposte argomentate e non di tipo “si” “no”, che producono gli interventi migliori da parte degli studenti. Apprendere dalla lezione L'appropriazione è un processo attivo perché si riferisce all'inserimento e all'integrazione delle conoscenze offerte da chi spiega entro il quadro delle informazioni e credenze di chi ascolta. Gli studenti oltre che ascoltare,possono prendere appunti durante la lezione,fissando sulla carta concetti ritenuti fondamentali, ma gli appunti sono utili soprattutto quando vengono riletti e rielaborati. Attualmente è frequente anche che gli studenti registrino le lezioni (soprattutto all’università), il che può essere utile, ma anche dannoso in quanto si potrebbe delegare l’attenzione allo strumento tecnologico e stare poco attenti durante la lezione. La valutazione dell’apprendimento tipica della lezione consiste nell'interrogazione. Gli studenti, spesso individualmente sono invitati a ripetere all’insegnante i concetti presentati durante la lezione: più il resoconto degli studenti sarà simile a quanto riferito dall’insegnante, più la valutazione sarà positiva. In conclusione la lezione frontale risponde in prima istanza a una visione trasmissiva della conoscenza e sembra rispondere ai principi del comportamentismo per cui a fronte di uno stimolo ci si attende una reazione che può essere variamente rinforzata. L'introduzione di varianti atte a rendere più partecipativi gli studenti permette di raccogliere le istanze cognitive che cercano di superare la visione della lezione come a totale carico del docente e spostano l'attenzione sulle conoscenze pregresse degli studenti sulle loro capacità di ascolto attivo e di riorganizzazione delle informazioni ottenute. L’apprendimento collaborativo L’apprendimento collaborativo postula che l'interazione tra pari sia un momento capace di generare apprendimento. Richiede un'organizzazione dell'intero contesto educativo in modo da ottenere un coinvolgimento attivo di tutti gli studenti un cambiamento del ruolo dell'insegnante non più come solo esperto ma anche come supporto e monitoraggio al lavoro dei gruppi. L'essere collaborativi è in stretta relazione con la strutturazione del contesto e dei compiti. Una reale strategia di apprendimento collaborativo si pone l'obiettivo di affiancare all'apprendimento dei concetti curricolari lo sviluppo di pensiero critico divergente e creativo grazie al confronto con gli altri. Il vero motore dell'apprendimento collaborativo è il gruppo (preferibilmente di minimo 3 massimo 6 soggetti), eterogenei sia per genere che per livello scolastico.L' Individuo deve quindi lavorare in funzione del gruppo ma il gruppo a sua volta deve sostenere l'individuo rispettandone interessi motivazioni offrendo spazi adeguati per la crescita personale. Uno dei limiti è il verificarsi di partecipazioni disomogenee al gruppo, dove alcuni membri tendono a essere passivi e a approfittarsi del lavoro svolto dai più volenterosi. L’apprendimento cooperativo si basa su cinque principi: 1. Interdipendenza positiva, ovvero l'impossibilità per un partecipante di completare il proprio compito senza il contributo degli altri occorrono una attenta progettazione dei compiti e una suddivisione del lavoro in modo da prevedere esplicitamente,questo meccanismo; 2. Affidabilità individuale, occorre poter fare affidamento sull'impegno di ciascuno. In alcuni casi l'impegno individuale a fare del proprio meglio e a contribuire in modo costruttivo può essere formalizzato; 3. Promozione dell'interazione, qualsiasi lavoro prodotto attività va discusso all'interno del gruppo per ottenere feedback e commenti. Occorre promuovere una mentalità della condivisione dei prodotti intermedi; 4. Formazione alle competenze collaborative, gli studenti vanno incoraggiati a mettere in pratica strategie quali la fiducia reciproca da presa di decisione collettiva la gestione del conflitto una comunicazione efficace; 5. Processi di gruppo, sono i gruppi che devono definire gli obiettivi comuni promuovere a valutazioni periodiche del lavoro svolto indicare cambiamenti necessari per il raggiungimento dei migliori risultati possibili. Molte sono le modalità attraverso cui si può attivare l'apprendimento collaborativo, eccone alcune. Imparare insieme e i circoli di apprendimento Entrambi questi due modelli sono stati elaborati da Johnson e Johnson e hanno in comune l’idea di piccoli gruppi che lavorano intorno a un tema comune allo scopo di elaborare un prodotto finale di gruppo. All’interno dei gruppi è utile definire di ruoli specifici: chi scrive, chi ricerca informazioni e chi sintetizza. I gruppi dispongono dello stesso materiale di studio e questo fa sì che la collaborazione all'interno di ciascun gruppo sia alta mentre tra i gruppi sono alquanto competitivi proprio per superare tale limite nei circoli di apprendimento invece il materiale è distribuito tra i gruppi in modo differenziato così che i gruppi siano costretti a doversi confrontare sulle informazioni disponibili e organizzare degli scambi in questo modo si aumenta l'interdipendenza e la collaborazione anche tra i gruppi. Insegnamento reciproco Tecnica elaborata da Palinesar e Brown, inizialmente per sviluppare abilità di comprensione dei testi scritti, esigenza particolarmente forte nei paesi anglofoni, dove si scrive in modo diverso da come si legge. La tecnica dell’insegnamento fa leva sull’interazione tra pari per superare la preoccupazione dello spelling e modellare abilità di comprensione di testo. La chiave di volta di questo modello è che gli studenti imparino gradualmente a comportarsi da insegnanti con i propri pari. Ci sono 4 momenti: 1. modellamento, l’insegnante lavora con un piccolo gruppo di studenti da tre massimo sei, legge un testo e guida alla comprensione della lettura; 2. i chiarimenti, finita la lettura del brano selezionato, l’insegnante invita gli studenti a raccontare quanto compreso dalla lettura, rivolgendo loro domande precise del tipo “avete capito?”; 3. la previsione, dopo aver chiarito i dubbi e quesiti l’insegnante invita gli studenti a immaginare come proseguirà il testo; 4. la sintesi, si conclude il ciclo sintetizzando tutto il testo, cercando di sottolineare gli aspetti cruciali, gli elementi chiave e quelli invece ancora poco chiari. I cicli successivi saranno condotti a turno da uno degli studenti del gruppo, cominciando da quelli con meno problemi di lettura. In questo modo gli studenti meno competenti saranno esposti a diversi modellamenti dell’attività di lettura e avranno più tempo per poter trarre vantaggio dai vari cicli. Jisaw Questo termine deriva da uno strumento di taglio utilizzato per ottenere oggetti con curve irregolari come quelli dei pezzi che compongono i puzzle. Il punto forte di questo metodo è quello di lavorare con gruppi che si incastrano tra di loro dopo aver approfondito aspetti particolari di un compito per poterne ricostruire l’unità. A tale scopo sono necessari gruppi stabili ma che si compongono per svolgere una parte del compito successivamente si sciolgono per essere ricomposti e lavorare sul compito globale. Questo modello è stato ideato da Aronson negli anni ’70 e ripreso negli anni 2000, quando l’ha concettualizzato in 10 passi: 1. formare i gruppi jigsaw (gruppi di 5-6 di individui eterogenei tra loro), si tratta di gruppi temporanei che vengono formati senza che però iniziano a lavorare subito, saranno infatti resi operativi solo successivamente; 2. individuare i leader, ossia uno studente che si possa assumere la possibilità di monitorare il lavoro da svolgere (solitamente il più maturo e competente), se si utilizza più volte questa tecnica è opportuna una turnazione; 3. frammentare il compito, in tanti parti quanto sono i gruppi; 4. distribuire il compito, a ogni studente del gruppo gli si affida una parte del compito; 5. studiare la propria parte; 6. formare gruppi di esperti, agli studenti dei vari gruppi a cui è stato affidato lo stesso segmento di lezione è proposto di lavorare insieme come fossero esperti di quel segmento; 7. ricomporre i gruppi jigsaw; 8. presentare il proprio lavoro, ciascun studente presenta il lavoro svolto in seno al gruppo di esperti; 9. osservare il processo, il leader deve verificare che ciascun studente ripeta quello che ha imparato; 10. valutazione, far creare agli esperti delle prove di valutazione da sottoporre i propri compagni relativamente alla parte di compito studiata. Valutare l’apprendimento collaborativo L’apprendimento collaborativo deve descrivere quali potenzialità ha sviluppato lo studente ovvero quali zone di sviluppo prossimale sono divenute attuali. La valutazione quantitativa ha in realtà molte lacune quindi viene proposta una valutazione autentica capace di tenere conto non solo degli aspetti contenutistici ma anche degli aspetti relazionali e delle abilità comunicative, analizzando e confrontando i vari momenti del percorso formativo. Nei modelli di apprendimento collaborativo gli studenti non sono solo destinatari di attività e compiti, ma vengono attivamente coinvolti nella fase di progettazione e valutazione. Questo non significa che gli studenti si attribuiscono un voto o un giudizio, ma che anche le abilità di valutazione del proprio e dell’altrui percorso formativo entrano nel ventaglio di competenze che possono essere acquisite. Si parla quindi di autovalutazione e valutazione reciproca sia come capacità di valutare e monitorare il proprio e l’altrui percorso formativo. Le abilità di autoregolazione facilitano il monitoraggio del compito e permettono di valutare le circostanze per decidere se occorre introdurre modifiche e cambiamenti. Si ottiene così la visione di uno studente autonomo e attivo. I pro e i contro dell’apprendimento collaborativo Pro: - induce a percepire la relatività del proprio punto di vista e delle proprie interpretazioni stimolando la capacità di assumere prospettive diverse dalla propria, ampliando così il campo di esperienza; - può essere adottati con studenti di qualsiasi età e per qualunque tipo di disciplina, si è mostrato efficace anche nel recupero di allievi problematici con svantaggi cognitivi o culturali e con quelli poco motivati allo studio; - Lavorare in modo collaborativo aumenta negli studenti la stima di sé, la sicurezza, l’equilibrio psicologico e il rendimento scolastico; - Si acquisiscono capacità di leadership, di comunicazione, di presa di decisione, di gestione dei conflitti sia interni al gruppo che tra gruppi; Contro: la vera difficoltà sta nel fatto che il classico modello trasmissivo è sicuramente meno oneroso e permette più facilmente all’insegnante di mantenere la sua autorità, resta ancora forte la visione dell’apprendimento come fatto individuale. Il problem solving e l’indagine progressiva Risolvere problemi è un’attività complessa, capace di sviluppare strategie di pensiero e di argomentazione sofisticate. Vygotskij considerò la capacità di risolvere problemi come il test diagnostico che consentiva di distinguere le zone di sviluppo attuali, in cui i problemi si risolvono in modo indipendente da quelle prossimali in cui i problemi vengono risolti con la guida di un adulto. Non ci si riferisce al problem solving strettamente inerente al ragionamento matematico, ma ad un modo di pensare trasversale che riguarda qualsiasi contenuto disciplinare. Spesso i problemi proposti a scuola non sembrano essere immediatamente significativi per gli studenti non è loro chiaro a che cosa servano e quale rilevanza abbiano per la vita di tutti i giorni. Invece quando si propongono problemi interessanti complessi più simili ai problemi della vita quotidiana, vicini ai reali interessi e alle motivazioni degli studenti, questi partecipano di più e le strategie di risoluzione vengono meglio apprese. Il compito del docente è offrire un modellamento relativo all’uso delle strategie di soluzione dei problemi. Tale modellamento può avvenire in modo diretto oppure indiretto: nel primo caso l’insegnante fa vedere come si risolve il problema, nel secondo chiede ai ragazzi di discutere come organizzare e realizzare l’esperimento senza dare indicazioni precise. In entrambi i casi si mira a ottenere un uso autonomo delle strategie di risoluzione dei problemi da parte degli studenti. Il modello Newell e Simon In una cornice strettamente cognitivista Newell e Simon definirono il problem solving come costituito da uno stato finale a cui si tende,uno stato iniziale e dall’insieme di tutti i possibili percorsi di soluzione che permettono di raggiungere lo stato finale. Le tappe del percorso di soluzione del problema che possono essere così sintetizzate: definizione di uno spazio del problema, raccolta di informazioni, messa a punto di una ipotesi e sua verifica. Il passaggio da una tappa all’altra può avvenire attraverso strategie generali applicabili a una varietà di problemi quali: a) cercare di restringere il campo; b) viceversa allargare la ricerca delle info; c) individuare dei sottoproblemi e procedere con il risolvere un sottoproblema alla volta. Si individuano due fondamentali strategie di ragionamento: quello induttivo (dal particolare al generale) e quello deduttivo (dal generale al particolare). Gli autori ritengono che gli uomini trattino le informazioni in modo sistematico e razionale, prendendo decisioni in modo consequenziale. Si tratta di una visione delle capacità umane molto utile alla messa a punto di programmi di simulazione computerizzati che negli anni ’70 prolificavano, grazie agli studi sull’intelligenza artificiale, per cui si assimilava il ragionamento per soluzione di problemi al ragionamento tipico delle scienze esatte. Ma gli esseri umani non sempre risolvono i loro problemi seguendo ragionamenti sistematici, così come non sempre seguono una razionalità scientifica nel prendere le loro decisioni. Il modello Kahneman e Tversky Kahneman e Tversky mostrarono che i meccanismi cognitivi attraverso cui le persone prendono decisioni e risolvono problemi sono condizionati da esperienza pregresse e da aspettative e ragionamenti spesso inconsapevoli. Attraverso una serie di esperimenti individuarono alcuni meccanismi attraverso i quali le persone risolvono i problemi quotidiani: Disponibilità: nel cercare di predire un evento le persone preferiscono esperienze realizzate in circostanze simili, avvenute in passato, selezionando quelle più vivide e maggiormente connotate emotivamente a quelle con maggiore potere informativo; Rappresentatività: si attribuiscono caratteristiche simili a oggetti simili e pertanto un evento è spesso associato a un altro o si individua una relazione causale sulla base di una semplice somiglianza; - Ancoraggio: ci si focalizza si una specifica informazione così tanto che questa finisce con il guidare l’intero processo di soluzione del problema di presa di decisione (es. dei km quando si acquista un’auto di seconda mano). In sintesi Kahneman mette in discussione l’assunzione di una razionalità del ragionamento umano che,invece, appare spesso dominato da valutazioni apparentemente anomale e ricco di contraddizioni. Problem-Based Learning (PBL) L’obbiettivo fondamenta è stimolare gli studenti a individuare la rilevanza di quello che imparano per il loro futuro, mantenere un livello di motivazione elevato e sottolineare l’importanza di un atteggiamento professionale. Questa strategia può essere considerata come centrata sullo studente, in quanto parte da problemi complessi e reali che consentono strategie di soluzione e lascia che gli studenti sviluppino e lavorino su ipotesi multiple. L’indagine progressiva L’indagine progressiva è un modello che tiene pienamente conto delle istanze socio costruttiviste di Kahneman. Questa strategia a spirale è stata messa a punto da un gruppo di ricercatori coordinato da Hakkarainen. In essa risultano evidenti sia il ruolo della dimensione sociale sia il presupposto della cognizione distribuita. Vediamo che il processo è strutturato in fasi. 1. allestire il contesto,ha lo scopo di coinvolgere gli studenti chiarendo loro perché il problema è importante; 2. presentare problemi di ricerca, si consiglia di attivare delle discussioni di gruppo per definire il dominio di conoscenza verso cui l’indagine è diretta; 3. creare teorie di lavoro, si incoraggia la creazione di teorie individuali, ipotesi e congetture riguardanti il dominio indagato. La costruzione di teorie di lavoro spinge all’uso sistematico delle conoscenze pregresse, a sviluppare inferenze per spiegare fenomeni nuovi e ampliarne la loro comprensione; 4. valutazione critica, il gruppo di lavoro cerca di individuare i punti di forza e le debolezze delle diverse spiegazioni ; 5. ricercare e approfondire conoscenze, questa fase è guidata dalle teorie di lavoro emerse nelle fasi precedenti. Di solito in questa fase emergono nuove informazioni. Esaminando le proprie teorie con le nuove informazioni emerse ci si può rendere conto di un’eventuale inadeguatezza delle assunzioni di partenza; 6. sviluppare e approfondire problemi; 7. nuova teoria,durante la quale si formulano nuove teorie molto generali, poco specifiche, ma che, nonostante il loro carattere incompleto, funzionano come strumenti di indagine e come base per l’indagine sucessiva. Tutto il processo di ricerca è finalizzato all’indurre gli studenti a migliorare le teorie attraverso la trasformazione piuttosto che a trovare soluzioni o risposte alle domande. La discussione tra pari Mercer identificò tre diversi modi di parlare corrispondenti ad altrettanti modi di ragionare in gruppo: Disputa: caratterizzata da disaccordo e prese di decisioni individuali; - Discorso cumulativo: gli studenti si ribattono l’un l’altro in modo positivo e accondiscendente. Il discorso è finalizzato a mettere insieme le nozioni per accumulare le conoscenze, utilizzando fondamentalmente ripetizioni e conferme; - Discorso esplorativo: qui gli studenti si criticano l’un l’altro in modo costruttivo, le idee sono proposte per essere verificate conseguentemente gli studenti sfidano le idee con controargomentazioni richieste di giustificazioni e offerte di ipotesi alternative. Secondo gli studi di Pontecorvo, gli studenti durante le discussioni tendono ad assumere alcuni ruoli specifici: - Lo scettico, cioè colui che non si accontenta delle spiegazioni ottenute e richiede maggiori garanzie a fondamento delle opinioni espresse ; - L’assertore, che interviene in maniera perentoria, come se il proprio punto di vista possa essere quello oggettivo; - Il compiacente, che esprime accordo incondizionato senza apportare punti di vista originali. Ciascuno di questi ruoli possiede un repertorio di modalità di intervento: - Le asserzioni : hanno funzione di apertura alla discussione e determinano l’oggetto della discussione; - Le esplicitazioni, che consistono nel chiedere ulteriori chiarimenti. Dal punto di vista della costruzione del discorso, Pontecorvo individua le seguenti tipologie di intervento: Accordo; Disaccordo; - Neutro (interventi che semplicemente prendono atto di quanto espresso da altri senza esprimere né accordo né disaccordo); - Richiesta o offerta di chiarimenti; - Richiesta o offerta di aiuto; - Interventi off-topic, che non sono centrati sull’argomento. Effetto palla di neve: una volta individuata una strategia discorsiva vincente gli studenti tendono a utilizzarla in modo sempre più condiviso, interiorizzando e appropriandosi delle voci altrui in senso batchniano. Emerge un linguaggio metaforico, la qualità delle metafore diventa un indicatore dell’apprendimento che gli studenti stessi monitorano permettendo così non solo un apprendimento collaborativo e costruttivo ma anche una valutazione reciproca e positiva estremamente efficace. In ogni caso la discussione tra pari è capace di produrre un apprendimento attraverso le modalità dell’argomentare e del ragionare. Questa prospettiva riprende il filo del discorso vygotskijano in cui la discussione è considerata un’attività propedeutica e complementare all’autoriflessione: è dalla discussione che nasce il ragionamento perché si ha bisogno di parlare per pensare. Apprendere nelle comunità La Communities of Learners è un modello elaborato da Brown e Campione, che racchiude una visione sociocostruttivista della conoscenza, a cui si aggiunge l’enfasi sul convogliare il processo educativo verso la realizzazione di prodotti significativi che esternalizzano la cultura della classe. Per definire una CDA partono dall’individuare modelli di comunità extrascolastiche in cui avviene un apprendimento costruttivo e culturalmente significativo, tentando di trasportarne in classe i principi. Fonte di ispirazione sono sia la bottega dell’artigiano: in cui il mastro forgia e supporta i progressi dell’apprendista sia il gruppo di scienziati: le cui competenze specialistiche sono distribuite tra i vari membri e integrate tra loro. Gli obbiettivi dell’apprendistato sono: a) far sì che l’allievo sia in grado di svolgere le funzioni del mastro b) riuscire a realizzare prodotti sempre più complessi e di buona qualità. Delle comunità scientifiche si apprezza la capacità di gruppi specializzati di lavorare in modo coordinato su parti diverse del compito e di tendere verso la produzione di conoscenza innovativa. L’aspetto più interessante riguarda la gestione dei ruoli in classe, in una CDA sono attivi: - Il ricercatore; - Gli esperti; - Genitori; - Osservatori. Ciò che veramente distingue un insegnante che pratica una CDA è il modo di intendere la conoscenza: non come qualcosa di statico ma come un patrimonio collettivo da far avanzare.